MASSIMO LUCIANI Sul d.d.l. cost. recante “Disposizioni per il

MASSIMO LUCIANI
Sul d.d.l. cost. recante “Disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la
riduzione del numero dei parlamentari, la soppressione del CNEL e la revisione del Titolo V
della Parte seconda della Costituzione”
1.- Premessa.
Il contenuto del disegno di legge può essere suddiviso in quattro parti: riforma del Senato;
riforma del Titolo V; eliminazione delle Province; eliminazione del CNEL. Per ciascuna di
esse si propone, qui, un sinteticissimo commento. Preliminarmente, tuttavia, occorre definire
le esigenze di sistema che una riforma costituzionale dovrebbe, oggi, soddisfare.
2.- I problemi attuali delle nostre istituzioni.
Si devono segnalare, tra le molte criticità che sarebbero rilevanti, soprattutto quattro
questioni, con le quali, peraltro, il d.d.l. si confronta.
2.1.- Le ultime legislature hanno dimostrato che l’inadeguatezza dell’azione del Governo
non è dovuta alla debolezza dei suoi poteri costituzionali, ma all’instabilità: anche Esecutivi
sostenuti da maggioranze amplissime (v. l’ultimo gabinetto Berlusconi) si sono sgretolati ben
prima della fine della legislatura. Le ragioni sono in parte politiche (eterogeneità e litigiosità
delle maggioranze), in parte istituzionali (diversità delle maggioranze di Camera e Senato;
doppia fiducia; premio di maggioranza regionalizzato al Senato).
2.2.- I rapporti fra lo Stato e le autonomie si sono deteriorati. Per un verso, la riforma del
Titolo V approvata nel 2001 ha stabilito un regime delle competenze di difficilissima
interpretazione e che è stato ricondotto a coerenza solo grazie alla giurisprudenza della Corte
costituzionale. Quella giurisprudenza, però, per mettere ordine nella confusione, ha finito per
assumere contorni fortemente centralisti, riducendo molto gli spazi a disposizione delle
autonomie regionali.
Le Regioni, negli anni precedenti, avevano dimostrato di poter essere un fattore di
dinamismo del sistema istituzionale ed economico, ma in non pochi casi avevano funzionato
male, alimentando sprechi e diseguaglianze fra i cittadini. La scelta della l. cost. n. 3 del 2001
fu quella di stimolare un autonomismo efficiente esaltando i loro spazi di manovra, ma
l’operazione è stata condotta male, sicché - come accennato - la Corte costituzionale ha finito
per dover rovesciare il segno stesso della riforma, accentuando gli elementi di primato statale.
L’obiettivo di qualunque azione riformatrice, dunque, dovrebbe essere quello di assicurare
che le Regioni funzionino da fattori di sviluppo e non di conservazione dei privilegi. Da
questo punto di vista, un aspetto negativo del nostro impianto costituzionale è stato sempre
l’assenza di una Camera rappresentativa delle autonomie, che consentisse a livello delle
istituzioni “alte” quel confronto fra Stato e istanze autonomistiche che - altrimenti - non riesce
a comporsi razionalmente.
2.3.- Province e Comuni non hanno sempre funzionato bene. Le prime, perché le loro
competenze non sono state definite con accortezza. I secondi, perché spesso le loro ridotte
dimensioni hanno impedito una gestione efficiente dei servizi. Nondimeno, è evidente che
alcune funzioni di respiro sovracomunale non possono essere attratte direttamente al livello
regionale e debbono essere assegnate ad enti di area vasta e che le esigenze di valorizzazione
del territorio e della sua stessa conservazione suggeriscono di evitare la soppressione dei
piccoli comuni, preferendo la soluzione dell’intercomunalità.
2.4.- Nemmeno il CNEL ha funzionato in modo del tutto soddisfacente. E’ vero, infatti,
che da lì sono venute riflessioni e proposte di grande interesse come quella sull’inadeguatezza
del PIL come indicatore del benessere nazionale, ma non è meno vero che l’intenzione dei
Costituenti era un’altra e che il Consiglio era stato immaginato come un luogo di vero
confronto tra le parti sociali e di avvio dell’interlocuzione fra le istituzioni e le parti sociali.
3.- Le risposte date dal disegno di legge.
A fronte di queste criticità, il disegno di legge propone una strategia di attacco che si
caratterizza soprattutto per la scelta della semplificazione. Questa strategia è in parte
condivisibile, in parte meritevole di un affinamento se non di un ripensamento.
3.1.- La disciplina del Senato.
E’ pienamente condivisibile la scelta di sottrarre al Senato la fiducia al Governo. In questo
modo, infatti, si incide positivamente non solo sull’efficienza del Parlamento, ma anche sulla
stabilità dell’Esecutivo, che non sarà più condizionato dall’alea delle diverse maggioranze.
E’ condivisibile anche la scelta dell’elezione indiretta dei senatori: se fossero direttamente
legittimati dal voto popolare, infatti, sarebbe molto difficile motivare la sottrazione della
fiducia.
Condivisibile è anche la scelta di una composizione mista, regionale e municipale, visto
che la storia del nostro autonomismo è complessa e non si esaurisce in uno soltanto di quei
livelli.
Meritano, invece, un ripensamento almeno le scelte qui indicate.
i) La rappresentanza dei Comuni (paritaria a quella delle Regioni) appare eccessiva.
L’esigenza di una rappresentanza “alta” è più sentita per le Regioni e - soprattutto - queste,
titolari come sono della funzione legislativa, sono le interlocutrici naturali dello Stato ai livelli
più alti.
ii) Il problema si aggrava perché il mandato dei rappresentanti regionali è legato a quello
dei Consigli (o delle Giunte), mentre quello dei rappresentanti comunali è fisso (sicché la
rappresentanza municipale sarebbe ingiustificatamente più stabile di quella regionale).
iii) Troppo numerosi sono anche i senatori di nomina presidenziale (quasi il 15% del
totale), anche perché, in questo modo, la nomina presidenziale (oltretutto facoltativa),
incidendo così fortemente sugli equilibri dell’assemblea, sarebbe, per il capo dello Stato,
molto delicata (e si consideri che resta la sua elezione da parte del Parlamento in seduta
comune).
iv) Confermare il divieto di mandato imperativo anche per il Senato (art. 67) sembra
incoerente con la scelta dell’elezione indiretta (e del mandato di durata non fissa, almeno per i
rappresentanti regionali) dei suoi componenti, veri rappresentanti degli enti di appartenenza.
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v) Occorre prevedere un adeguato regime dell’insindacabilità anche per i senatori.
vi) Non si può condividere la scelta di sottrarre al Senato (quasi del tutto) la funzione
legislativa. Alcuni tipi di legge, invece, dovrebbero essere bicamerali, perché è proprio nella
negoziazione legislativa che il raccordo Stato-autonomie deve produrre i risultati più fruttuosi.
Inoltre, in una forma di governo che promette di assicurare alla Camera delle maggioranze
molto forti, un qualche contrappeso appare essenziale. Sarebbe opportuno, sul punto,
recuperare le indicazioni date dal Gruppo di esperti nominati dal precedente Governo (dalle
quali emergeva un sistema a legislazione bicamerale abbastanza ampia, ma con clausola di
supremazia per la volontà della Camera).
vii) La titolarità della funzione legislativa, peraltro, eliminata nella forma, sembra ritornare
nella sostanza, laddove si prevede (art. 70, comma 4) che il parere negativo del Senato, in
alcune materie, possa essere superato dalla Camera solo a maggioranza assoluta dei suoi
componenti. E si deve aggiungere che identificare certe leggi per materia anziché per tipo
rischia di alimentare i conflitti di competenza, perché il contenuto delle singole materie è
molto difficile da identificare.
viii) Non convince la previsione di un parere del Senato sulle leggi di conversione dei
decreti legge. Quelle, infatti, coinvolgono il rapporto di fiducia con il Governo e il Senato
deve - logicamente - rimanervi estraneo.
ix) Anche il Senato dovrebbe avere il potere di inchiesta, se si condivide l’idea che sia un
luogo di vera rappresentanza delle autonomie.
x) Non appare opportuno cambiare il nome “Senato della Repubblica” in “Assemblea delle
autonomie”. Il primo, infatti, evoca proprio quell’articolazione territoriale che (definendo la
“Repubblica”) è descritta dall’art. 114. Inoltre, mantenendo il nome si risparmiano risorse
pubbliche, visti i costi che sarebbero determinati dal cambiamento.
3.2.- Il nuovo Titolo V.
E’ condivisibile la scelta di sopprimere l’autonomismo a geometria variabile ora previsto
dall’art. 116, comma 3. Le forme di autonomia (salve quelle necessarie per le Regioni
speciali) devono essere eguali per tutte le Regioni, che dovrebbero competere, semmai, sul
migliore esercizio delle loro attribuzioni.
E’ condivisibile anche la scelta di attrarre nuovamente nel dominio della competenza
esclusiva dello Stato tutta una serie di materie che incongruamente, invece, la l. cost. n. 3 del
2001 aveva assegnato alla competenza concorrente. Delle singole scelte, ovviamente, si
dovrebbe discutere nel dettaglio, ma non può essere questa (di primo e sintetico commento) la
sede giusta per farlo.
Un ripensamento è necessario, invece, sulle questioni che seguono.
i) Non convince l’eliminazione della competenza concorrente. Anzitutto, si deve notare
che il recente, enorme, contenzioso Stato-Regioni è stato alimentato soprattutto dalla
difficoltà di interpretare le materie di competenze esclusiva dello Stato e quelle di competenza
residuale delle Regioni, mentre nel dominio delle concorrenti il tema rilevante è solo quello
della differenza tra princìpi fondamentali (riservati allo Stato) e norme di dettaglio (riservate
alle Regioni). La competenza concorrente consente, poi, di definire un opportuno quadro
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generale nel quale gli interessi nazionali vengono composti, ed entro il quale le Regioni sono,
poi, libere di muoversi tenendo conto delle esigenze del loro territorio. Basterebbe, dunque,
prevedere espressamente la possibilità per lo Stato di legiferare anche con norme di dettaglio
cedevoli, che - cioè - resterebbero in vigore sino all’entrata in vigore delle leggi regionali. In
questo modo, le Regioni più attive sarebbero stimolate ad agire, mentre le meno sollecite
potrebbero accontentarsi di vedersi applicare la disciplina generale.
ii) Vero quanto precede, ad essere eliminate, dunque, dovrebbero essere le competenze
residuali delle Regioni.
iii) Il comma 5 del nuovo art. 117 è incomprensibile. Sembra necessaria, dunque, una sua
diversa redazione. Allo stato, infatti, non è dato intendere quale sia il suo contenuto
precettivo.
3.3.- Province e Comuni.
Il d.d.l. dice assai poco sui Comuni e provvede, invece, alla soppressione delle Province.
Quanto ai Comuni, sarebbe opportuno che il principio dell’intercomunalità emergesse
direttamente in Costituzione. Quanto alle Province, poiché l’esigenza di un ente di area vasta
è - come accennato - innegabile, sarebbe più opportuno mantenerle, eventualmente precisando
che non si tratta di enti a base elettiva e provvedendo direttamente alla riduzione del loro
numero.
4.- Il CNEL.
La scelta di sopprimere il CNEL sembra imputabile, verosimilmente, all’insoddisfazione
per il suo funzionamento. Sembra tuttavia più convincente l’alternativa di una sua completa
ristrutturazione. IL CNEL, infatti, potrebbe diventare quel che i Costituenti avevano pensato,
e cioè un luogo di moderazione del conflitto sociale. Mentre la mediazione del conflitto deve
rimanere al confronto fra le parti sociali e il Governo, la sua moderazione deve essere affidata
ad una sede il più possibile terza. Per moderazione, è bene precisare, deve intendersi la ricerca
di prospettive condivise nel medio e nel lungo periodo, al riparo dalle polemiche e dagli
scontri contingenti degli interessi. Si tratta di una prestazione essenziale nelle democrazie
pluralistiche, che possono funzionare bene solo a temperatura media: non troppo elevata, cioè,
altrimenti esploderebbero per eccesso di conflittualità; non troppo bassa, altrimenti
imploderebbero per difetto di partecipazione. Va da sé che una prospettiva di questo genere
presuppone la condivisione delle parti sociali e la costruzione di un modello che chiami al
CNEL le forze migliori e più attive di ciascuna di esse.
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