Cenni sulla EV aristotelica

1. Cenni sulla EV aristotelica.
Fin qui ho provato a delineare uno degli approcci contemporanei meglio informati ed elaborati
alla EV. A mio avviso, però, la nostra comprensione della materia richiede ora necessariamente un
breve esame della concezione più classica e più resistente nello scorrere dei secoli che è quella
dell'etica delle virtù di Aristotele. È soltanto sulla base di questa analisi che possiamo rapportare i
numerosi successivi sviluppi dei vari tipi di EV contemporanei. In mancanza di questa analisi è mia
convinzione che non si possa cogliere il nocciolo specifico, la peculiarità delle virtù rispetto agli
altri concetti morali moderni.
E’ ben noto che l’esordio dell’Etica Nicomachea si apre con una indagine diretta a chiarire
quale sia la vita migliore e la più felice: è la ricerca del bene supremo che Aristotele articola in
modo ben diverso rispetto alle forme platoniche. Si pone il problema dei principi sulla base dei
quali decidere, principi che non possono essere quelli di una indagine astratta ma devono essere
‘pratici’ perché riguardano tutti coloro che partecipano all’azione anziché soltanto alla riflessione
teorica. Chiunque studia l’etica deve prestare attenzione all’aspetto pratico perché è di questo che
l’etica consiste. La tesi di Aristotele, contraria alle teorie contemporanee dominanti è che possa
esistere una tesi migliore delle altre e che questa non debba poggiare soltanto sulle opinioni.
Accettando le premesse del ragionamento di Aristotele si accetta la possibilità di una risposta
migliore delle altre alla questione se possa esistere una ‘vita buona’, un ideale di vita migliore delle
altre. Il metodo argomentativo di Aristotele procede attraverso il tentativo di riconciliare risposte
contrarie, eliminando le aporie esistenti. Ma il nocciolo dell’indagine non è di natura teorica: non ci
impegneremmo in questa indagine se non credessimo che esista una spazio per modificare in meglio
la nostra vita, quindi la risposta che cerchiamo può essere di grande importanza pratica.
Il metodo col quale procedere nell’indagine è per Aristotele altrettanto importante del
contenuto cui miriamo. Non bisogna aspettarsi dall’etica, sostiene Aristotele, altrettanta precisione
di quella che possiamo ottenere col ragionamento matematico. La persona accorta sa che non può
aspettarsi in ciascuna disciplina maggior precisione di quella che può consentire la natura
dell’oggetto nel quale si indaga. Le generalizzazioni che facciamo in etica sono vere per lo più ma
non in modo assoluto. Ciò che è giusto e nobile varia con le circostanze e i giudizi etici sono legati
alle situazioni nelle quali sono fatti. E, tuttavia, queste proposizioni sulla relatività dei giudizi etici,
sul fatto che si tratti di giudizi pratici, che interessano colui che deve agire nella vita pratica e non
soltanto da un punto di vista teorico, Aristotele sostiene che siano vere senza qualificazioni e
universalmente. La differenza più importante tra le verità pratiche dell’etica e quelle teoriche di
altre discipline è che queste ultime non dipendono dall’attuazione di condizioni esterne, mentre per
le prime la situazione pratica esterna è essenziale. (1094b12-1094b25)
E’ particolarmente degno di nota che Aristotele rivolga l’invito a studiare l’etica a coloro
che, in quanto adulti, posseggono già una esperienza tale da poter integrare le generalità insegnate
dall’etica. ‘Desiderare e agire in conformità con la ragione’ non è un risultato che Aristotele
promette ai suoi ascoltatori ma una precondizione necessaria di chi vuole apprendere qualcosa
sull’etica. Un interesse razionale nella vita buona è quanto può spiegare il senso di una riflessione
sui principi in base ai quali dirigere il desiderio.
Il punto di partenza della riflessione in etica, sostiene Aristotele non può essere quello dei
principi generali, come nel caso delle Forme platoniche rispetto alle quali tutte le altre cose sono
‘buone’ perché vi partecipano: per Platone, quali siano in particolare queste altre cose non è tanto
importante quanto il saperle riconoscere. Aristotele al contrario inizia da quel che conosciamo, dalla
varietà di cose che consideriamo buone. Per poter riconoscere quali queste siano, poiché da esse
inizia l’indagine, però, dobbiamo essere stati educati correttamente per poter cogliere quei beni che
valutiamo inizialmente alla luce della nostra formazione, laddove dopo aver riflettuto
filosoficamente potremo capire il perché certi beni sono importanti e collocarli nella giusta
posizione nell’ordine generale.
Tralascerei a questo punto l’esegesi del concetto di bene supremo, l’eudaimonia aristotelica
che rischia di portarci fuori strada rispetto al tema delle virtù, limitandomi a notarne la funzione
architettonica e organizzativa rispetto all’etica aristotelica. Vorrei svolgere brevemente soltanto due
insiemi di considerazioni. In primo luogo, il bene umano che Aristotele cerca di definire attraverso
la sua concezione di eudaimonia è essenzialmente un bene per esseri pratici, cioè per esseri con una
certa forma di razionalità che si esplica attraverso l’azione. Aristotele non pretende di dimostrare
che la razionalità sia un bene ‘essenziale’ o ‘distintivo’ dell’essere umano ma che è necessariamente
un bene per esseri come noi che investigano e cercano di definire razionalmente quel che è meglio.
La vita migliore, allora, è un qualche tipo di vita pratica della parte dell’anima che possiede la
ragione. Essa equivale a vivere bene e ad agire bene, non allo svolgimento di una attività puramente
teoretica. La vita migliore rappresenta l’obiettivo dello statista, dell’uomo politico, che deve cercare
di sviluppare nei cittadini il ‘buon carattere’, ovvero il presupposto della capacità di compiere
azioni nobili.
Il fine della vita buona non può essere quello di vivere secondo la logica dell’eccellenza,
come si potrebbe sospettare per la priorità che questo concetto ha nell’etica di Aristotele perché
questo concetto non identifica una qualità specifica o un insieme di qualità. Quel che aiuta qui è la
buona educazione che ci consente di identificare il coraggio, la giustizia, la generosità, etc. come le
qualità di un buon essere umano. Il buon funzionamento di un essere umano è, in questa
prospettiva, la vita di un uomo buono che vive secondo quegli standard di virtù morale identificati
nell’esperienza reale e non in accademia.
In secondo luogo, dobbiamo occuparci della posizione della razionalità nell’eudaimonia,
ipotizzando almeno tre diverse possibilità. Primo, che la razionalità sia soltanto una causa
antecedente, una precondizione di ogni altro bene che viene raggiunto: in questo caso, però, non
potrebbe essere quel fine ultimo che Aristotele identifica. Secondo, che sia uno strumento per
raggiungere gli altri beni umani, ma in questo caso, come notò successivamente Kant, gli esseri
umani avrebbero un equipaggiamento assai scarso rispetto agli animali che sono ben più efficaci nel
procurarsi quel che desiderano grazie all’istinto. Inoltre, così tanti individui sono notoriamente
carenti in razionalità, quindi il bene supremo sarebbe esclusivo di molte persone. La terza
possibilità è che la razionalità consista nell’attività di raggiungere correttamente i beni naturali che
ricerchiamo per soddisfare i nostri desideri o che costituiscono parti importanti del nostro modo di
vivere. Dunque, non è la razionalità da sola a rappresentare il contenuto fondamentale
dell’eudaimonia ma la razionalità in quanto rivolta al perseguimento di beni umani (poiché non
dobbiamo dimenticare che la razionalità può essere impiegata anche nel compiere il male). Inoltre, è
significativo che la razionalità umana non emerge come qualcosa di naturalmente perfetto ma come
il risultato del pensiero e dello sforzo dell’uomo. Essa è la capacità di fare bene cose che potevano
prendere la direzione sbagliata.
E’ ora il momento di dare spazio al concetto che occupa il posto preminente entro la
concezione aristotelica di eudaimonia: le virtù. E’ sulle virtù che dobbiamo focalizzare la nostra
attenzione poiché hanno rappresentato per molti secoli la concezione morale più coerente e
plausibile di cui il mondo occidentale disponesse. Anche dopo la grande costruzione teorica
cristiana di Tommaso d’Aquino l’etica di Aristotele ha continuato a rappresentare il punto di
riferimento laico. Va aggiunto che, come è ben noto, lo stesso Aquinate si basò in larghissima
misura sull’etica aristotelica, finendo tra l’altro per scrivere un commentario alle virtù di Aristotele.
Seguendo Platone, Aristotele distingue una parte razionale ed una non-razionale dell’anima
ma, a differenza del suo maestro, ritiene che la parte non-razionale si suddivida in una parte che
partecipa della ragione ed in una che si mantiene estranea. Va notato che nella psicologia etica di
Aristotele vi sono due distinzioni principali: la distinzione tra la parte non razionale desiderativa che
risponde alla ragione e la parte razionale che da le proprie prescrizioni all’altra; e la distinzione tra
le virtù del carattere e le virtù dell’intelletto. Le due distinzioni non coincidono perché le virtù del
carattere non sono né soltanto rispondenti alla ragione né soltanto prescrittive ma fondono nelle
stesse disposizioni l’elemento desiderativo e quello razionale. Mentre il primo conduce l’agente alla
ricerca dei beni naturali che tutti gli uomini desiderano, il secondo agisce da controllo, regolando il
perseguimento di quei beni e limitandolo a quel che è ‘giusto’ o appropriato ai tempi, modi, etc.
(1102b28-35)
Nel funzionamento della virtù Aristotele vede quattro elementi dei quali tre stanno dalla
stessa parte: 1) un interesse pratico in un fine; 2) il quadro di una particolare situazione fattuale per
come la vede l’agente che deve fare una prescrizione di comportamento a se stesso; 3) la
comprensione delle connessioni causali e logiche che collegano la realizzazione del fine a qualche
azione possibile per l’agente. Il quarto elemento è invece in opposizione agli altri tre: 4) un impulso
o emozione la cui espressione naturale nell’azione precluderebbe, in certe circostanze, il
compimento di una certa azione. E’ invece la regolazione di quest’ultimo tramite l’intervento degli
altri tre elementi che caratterizza il funzionamento della virtù e definisce il suo contenuto razionale.
Ora, è il momento di introdurre gli elementi costitutivi della virtù. In primo luogo, dobbiamo
chiederci se la scelta ragionata (prohairesis) che identifica la virtù sia sempre il prodotto della
deliberazione oppure possiamo non aspettarci sempre deliberazione nell’azione virtuosa. Si pensi al
coraggio che può essere dimostrato da una percezione immediata dei particolari salienti di una
situazione e dalla comprensione di come si deve agire, p.e., per salvare qualcuno in pericolo senza
fermarsi a deliberare sulla situazione. Si potrebbe, tuttavia, ipotizzare che la deliberazione si debba
considerare non un processo psicologico precedente all’azione ma come la struttura di una
spiegazione ragionata che è potenzialmente presente nella ratio del responso dell’agente.
Il fatto che per Aristotele la deliberazione razionale sia lungi dal caratterizzare da sola la
scelta virtuosa è dimostrato dalla caratterizzazione di uno stato prohairetico nell’azione o nel fallire
l’azione a causa dei sentimenti. Nonostante l’aspetto razionale della deliberazione, i sentimenti sono
assai importanti per definire un’azione virtuosa. Una persona di carattere morale è tipizzata dalla
sua struttura di risposte giuste in termini di sentimenti. (Sul tema dei sentimenti o emozioni
torneremo più avanti.) Inoltre, la condizione prohairetica della virtù implica autonomia nella scelta
ma non fino al punto che la persona virtuosa non possa agire sotto gli ordini di qualcun altro.
L’agente virtuoso può aver bisogno di indicazioni su come agire ma non può aver bisogno di
incoraggiamento. Ciò non sarebbe coerente con la capacità di occuparsi dei propri sentimenti che,
invece, è ciò in cui consiste la virtù.
In secondo luogo, l’azione virtuosa deve essere scelta per se stessa nella descrizione che ne
farebbe l’agente virtuoso. Quell’azione deve essere voluta intenzionalmente. Tuttavia, questa
condizione, la scelta di un’azione senza fini ulteriori, soltanto in qualche caso identifica una virtù.
In altri casi quella condizione non può distinguere un’azione virtuosa da una non virtuosa.
Facciamo l’esempio della virtù della temperanza: se mi limito nel mangiare qualche pietanza
esercitando la virtù della temperanza, si potrebbe obiettare che lo faccio per promuovere il fine
ulteriore della buona salute, dunque l’azione virtuosa non sarebbe scelta per se stessa ma sarebbe
strumentale ad un altro fine. La reale differenza con un’azione non virtuosa (ad esempio, limitarsi
nel mangiare una pietanza soltanto per poter indulgere successivamente con altri cibi) deriva dal
fatto che soltanto nell’azione virtuosa la scelta dipende dalla giusta ragione nell’agire, ovvero dal
saper godere nella giusta misura dei piaceri del tatto e del gusto.
In terzo luogo, l’azione virtuosa deve procedere da uno stato mentale fermo e non
modificabile. Il che implica che una risposta prohairetica asserisce che l’agente virtuoso sia una
persona buona per la quale nulla è più fondamentale delle sue qualità morali. (1105a26-35)
L’agente virtuoso agisce con piacere poiché riceve soddisfazione dall’agire bene. Egli agisce bene
senza secondi fini ed è contento dell’efficacia della sua azione, mentre coloro che perseguono fini
ulteriori non possono trarre soddisfazione soltanto dal fare quel che sembra ‘appropriato’ ma anche
dal raggiungimento del loro fine. L’azione esercitata perché nobile esclude che il piacere sia un
antecedente dell’azione, non ne è all’origine, mentre deve essere accomodato dall’agente virtuoso
come conseguenza dell’azione virtuosa.
Infine, l’ultimo ma cruciale aspetto dell’azione virtuosa che dobbiamo ricordare è che essa è
giustificata da ciò che è nobile e, quindi, l’agente deve focalizzare la propria attenzione sugli oggetti
e le circostanze della sua azione, mentre non deve curarsi consapevolmente del fatto di stare
compiendo un’azione virtuosa. In altre parole, l’attività virtuosa non è un obiettivo consapevole che
l’agente si pone. Tuttavia, l’agente in un senso è consapevole della sua azione poiché egli la
identifica sotto la definizione generale di quel che significa essere una persona buona. Ciò implica
che tende a portare la sua azione a coincidere con una descrizione impersonale e imparziale di quel
che è appropriato fare ma non deve ispirarsi ad un modello astratto di agente corretto. Data la sua
educazione, è dalle sue stesse credenze che scopre, riflettendo, quel che credono coloro che credono
correttamente e dalla sua azione scopre quel che farebbe una persona buona posizionata come lui.