Rapporto 2014 - Prima parte - Fondazione Farmafactoring

Il Sistema Sanitario
in controluce
Rapporto 2014
Prima parte
IL SISTEMA SANITARIO IN CONTROLUCE
RAPPORTO 2014
Crisi economica, diseguaglianze nell’accesso
ai servizi sanitari ed effetti sulla salute delle
persone
È vietata la riproduzione senza preventivo consenso della Fondazione Farmafactoring
INDICE
PREFAZIONE .................................................................................................................................. 5
INTRODUZIONE ............................................................................................................................ 8
1. IL PESO DELLA CRISI ECONOMICA SUL BENESSERE DELLE PERSONE ................... 11
1.1 GLI EFFETTI DELLA CRISI ECONOMICA A LIVELLO INTERNAZIONALE ............................................. 11
1.2 L’EFFETTO DELLA RECESSIONE SULLA DISEGUAGLIANZA DEI REDDITI E LA POVERTÀ.................... 14
1.3 IL RUOLO DELLE POLITICHE SOCIALI A SOSTEGNO DELLE FAMIGLIE NEGLI ANNI DELLA
CRISI .................................................................................................................................................... 16
2 GLI EFFETTI DELLA CRISI ECONOMICA IN ITALIA......................................................... 20
3. LE RISORSE E LE PROSPETTIVE DEL SETTORE SANITARIO IN ITALIA. ................... 24
3.1. IL FINANZIAMENTO STATALE ORDINARIO DEL SSN PER IL 2014-2018............................................ 25
3.2 LA SPESA SANITARIA PROGRAMMATA PER IL 2014-2018. .................................................................. 27
4. GLI EFFETTI DELLA CRISI ECONOMICA SULLA SALUTE .............................................. 30
4.1 VARIAZIONI NEI LIVELLI DI REDDITO ED EFFETTI SULLA SALUTE ................................................... 30
4.2. VARIAZIONI NELLE DISEGUAGLIANZE NEI REDDITI ED EFFETTI SULLA SALUTE............................. 33
5. LA CRISI ECONOMICA E LE DISUGUAGLIANZE NELL’ACCESSO ALLE CURE
SANITARIE: UNO SGUARDO ALLA SITUAZIONE IN ITALIA E IN EUROPA. ................... 37
5.1 DATI E VARIABILI ........................................................................................................................... 38
5.2 METODOLOGIA .............................................................................................................................. 39
5.3 MISURE DI ACCESSO AI SERVIZI DI CURA FORMALI .......................................................................... 39
5.4 DETERMINANTI DELL’ACCESSO AI SERVIZI SANITARI ...................................................................... 40
5.5 I RISULTATI ..................................................................................................................................... 41
5.6 – GLI INDICATORI DI ACCESSO ALLE CURE SANITARIE NELL’INDAGINE ISTAT SULLA
SALUTE DEGLI ITALIANI (2012-13)........................................................................................................ 42
6. LA CRISI ECONOMICA E LO STATO DI SALUTE DELLA POPOLAZIONE IN ITALIA: I
TREND E I DIFFERENZIALI SOCIO-ECONOMICI. ............................................................... 45
6.1 GLI EFFETTI DI BREVE PERIODO DELLA CRISI ECONOMICA SULLO STATO DI SALUTE ...................... 45
6.2 GLI EFFETTI DELLA CRISI ECONOMICA SUGLI INDICATORI DI MORTALITÀ: IL GRADIENTE
TERRITORIALE ..................................................................................................................................... 53
6.3 GLI EFFETTI DELLA CRISI ECONOMICA SUGLI INDICATORI DI STATO DI SALUTE: IL
GRADIENTE SOCIO-ECONOMICO .......................................................................................................... 56
7. CONCLUSIONI .......................................................................................................................... 60
BIBLIOGRAFIA .............................................................................................................................. 62
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Prefazione1
Negli anni ultimi venti anni, a livello mondiale, abbiamo assistito a due fenomeni contrapposti. Da
un lato il sorprendente aumento dell’aspettativa di vita della popolazione (circa un anno in più
ogni 4 anni), e dall’altro l’aumento della prevalenza delle malattie croniche che si sono diffuse su
scala globale, raffigurandosi in alcuni Paesi e per alcune patologie (ad es. il diabete) come vere e
proprie epidemie. La diretta conseguenza di tali fenomeni è avere una popolazione più longeva,
ma al tempo stesso più malata e bisognosa di cure. Cure che negli anni sono diventate sempre più
efficaci e costose, e se da un lato fanno aumentare la speranza di vita, dall’altro creano problemi di
sostenibilità finanziaria. Contemporaneamente, il ripensamento dei sistemi di welfare (soprattutto
in Europa) e, più recentemente, la crisi globale scoppiata nel 2007 (la più prolungata fase di
recessione economica dopo quella del 1929) hanno determinato un aumento considerevole degli
indici di povertà e di diseguaglianza, peggiorando in molti casi le diseguaglianze nell’accesso alle
cure sanitarie.
L’interagire di questi fenomeni clinico-epidemiologici e socio-economici sta producendo effetti
che possono essere molto pericolosi per la salute delle persone. Secondo il WHO, situazioni di
questo genere dovrebbero portare i governi a rafforzare le reti di protezione sociale per mitigare
gli effetti negativi sulla salute. Al contrario, in molti paesi sono state attuate politiche di austerità
che sono intervenute in modo sostanziale sulla spesa sociale, rendendo più difficile l’accesso ai
servizi sociali (e sanitari in particolare) e dilatando le diseguaglianze. Secondo Ortiz e Cummins
(2013), i settori principalmente colpiti dalle misure restrittive sono l’istruzione, la sanità e la spesa
sociale. Nel caso particolare della sanità, sono ben 37 i Paesi che, a seguito della crisi economica,
dal 2008 hanno avviato delle riforme sanitarie, e molti di questi sono Paesi “sviluppati”(25 su 37).
I principali strumenti utilizzati sono quelli dell’aumento della quota di pagamento diretto (out-ofpocket) per i pazienti e misure di contenimento dei costi dei centri che forniscono servizi sanitari.
Secondo un recente studio dell’OCSE (Paris, 2013), sono diversi i modi attraverso cui questi tagli
si stanno realizzando. Si interviene nel limitare l’accesso a specifici gruppi di popolazione (gli
immigrati illegali, oppure i soli residenti, oppure, come in Irlanda, anziani over 70 ricchi); molto
più spesso sono aumentati i livelli di compartecipazione alla spesa, insieme con la revisione delle
condizioni di esenzione. Al contrario, poco o nulla si è fatto nel cambiare il paniere di servizi
offerto (la generosità delle coperture).
In una fase di prolungata crisi economica in cui si riduce la capacità di produrre reddito,
l’inasprirsi dei sistemi di compartecipazione e il razionamento dei servizi offerti non sono
assolutamente neutrali sullo stato di salute della popolazione, e possono generare seri problemi se
non sono modulati per la capacità contributiva degli assistiti. Come già evidenziato nel Rapporto
2013 della Fondazione Farmafactoring, la presenza di forti diseguaglianze economiche si riverbera
in modo pesante sulle diseguaglianze in termini di salute, causando l’aumento delle patologie
esistenti e, soprattutto, la comparsa di “nuove” malattie. Anche se in modo non ancora del tutto
evidente, si è assistito a una riduzione della domanda di prestazioni sanitarie e per molti degli
indicatori sugli stili di vita (alcol, fumo, droghe, esercizio fisico) sono aumentate le differenze nei
comportamenti fra i diversi strati sociali della popolazione: pur con qualche eccezione, risultano
più svantaggiati i meno abbienti e meno coloro che hanno più risorse.
1
Alla redazione del presente Rapporto hanno contribuito Vincenzo Atella (coordinatore), Federico Belotti,
Felice Cincotti, Valentina Conti, Joanna Kopinska, Andrea Piano Mortari e Cristina Orso. Tutti i dati
riportati in questo Rapporto si basano su informazioni disponibili alla data del 12 Maggio 2014, quando lo
stesso è stato completato.
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La disoccupazione rimane il fenomeno più preoccupante della crisi, quello che nel breve periodo
genera gli effetti maggiori per la salute in termini di aumento dei disturbi mentali e psicosomatici e
dei comportamenti insalubri (es: alcolismo e droghe). Se era abbastanza prevedibile che con la
crisi economica potessero aumentare i casi di suicidio e ridursi le morti per incidenti stradali, altre
conseguenze immediate quali l’aumento delle patologie infettive trasmissibili (HIV, malaria e
tubercolosi) erano meno prevedibili. Senza poi considerare gli effetti di lungo termine che i
periodi di prolungata crisi economica hanno sulla salute: in tali frangenti, la normale prevenzione
sanitaria è ridotta al minimo se non addirittura annullata, generando effetti a catena i cui risultati
saranno osservabili solo a distanza di anni.
Nel panorama internazionale l’Italia non fa certo eccezione. Nel Rapporto 2013 della Fondazione
Farmafactoring è stato ampiamente documentato come i tagli alla sanità abbiano avuto effetti
sostanziali sulla componente della spesa dedicata ai servizi al paziente (minore spesa ospedaliera,
specialistica, diagnostica, ecc.), ma scarsi effetti sulla spesa accessoria di funzionamento (servizi
non sanitari di varia natura, consulenze, affitti, ecc.) che invece ha continuato a crescere. In tal
modo, si è prodotta una riduzione nella possibilità di garantire i LEA che potrebbe aver avuto
effetti importanti sulla salute dei cittadini. Rimane quindi da capire se i tagli imposti al sistema
sanitario (e a quello sociale più in generale) possano essere visti come un guadagno in termini di
efficienza del sistema senza incidere sullo stato di salute della popolazione o, invece, abbiano
provocato danni i cui effetti cominciano a vedersi ora, ma saranno molto più evidenti negli anni a
venire.
Gli obiettivi della ricerca. Basandoci su queste evidenze e sui risultati di precedenti analisi
prodotte dalla Fondazione Farmafactoring, il tema sul quale si è deciso di lavorare per il 2014 è
quello della relazione tra crisi economica, crescita delle diseguaglianze sanitarie ed effetti di medio e lungo periodo
sulla salute delle persone. Come sempre, il Rapporto è prodotto grazie alla collaborazione della
Fondazione Farmafactoring con Cergas-Bocconi e Fondazione Censis ed è arricchito
dall’intervento di altri importanti ricercatori. L’obiettivo è di continuare nell’opera
d’individuazione di spunti interpretativi e di analisi originali sulla realtà sanitaria del nostro Paese,
e in particolare sugli aspetti economici, finanziari, gestionali e di rapporto tra i livelli di gestione
territoriale della sanità nel nostro paese.
In particolare, saranno analizzati i seguenti punti:
1. l’effetto della crisi economica sulla domanda di servizi sanitari e sulla salute delle persone
a livello nazionale e regionale, con un particolare focus sulle regioni “con” e “senza”
piano di rientro;
2. le modalità con cui le regioni attueranno il Patto della Salute al momento in discussione e
come questo inciderà su:
a. investimenti in prevenzione;
b. realizzazione del piano di trasferimento di azioni dall’ospedale al territorio;
3. gli effetti della crisi economica e del taglio della spesa pubblica sulla spesa sanitaria
privata;
4. le implicazioni delle variazioni nello stato di salute della popolazione sullo sviluppo
economico.
Come consuetudine nelle attività di ricerca della Fondazione Farmafactoring, i temi oggetto delle
analisi sono affrontati guardando i problemi da prospettive diverse, con l’intento di riuscire a
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comprenderli più a fondo e, se possibile, provare a proporre soluzioni di policy innovative. In
questo primo appuntamento sono presentati i risultati della prima parte del Rapporto,
evidenziando il ruolo che le politiche fiscali implementate negli ultimi anni hanno avuto sulle
diseguaglianze negli accessi ai servizi sanitari e, quindi, sullo stato di salute della popolazione.
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Introduzione
E’ noto che la crisi economica globale iniziata nel 2007 ha avuto importanti conseguenze per il
benessere economico delle famiglie in termini di più elevata disoccupazione, maggiore incidenza
di casi di lavoro temporanei o part-time e di insicurezza finanziaria. La povertà relativa è
aumentata nella maggior parte dei paesi OCSE, specialmente tra i bambini e i giovani. La
crescente insicurezza economica e le tensioni finanziarie hanno particolarmente colpito le famiglie
a basso reddito e con bassi livelli d’istruzione. Dall'inizio della crisi nel 2007, molti lavoratori
hanno perso il lavoro e molte famiglie hanno registrato una stagnazione o declino dei livelli di
reddito e della ricchezza. A Dicembre 2013, si registravano oltre 46 milioni di disoccupati nell'area
OCSE, 11,5 milioni in più rispetto a Luglio 2008. Il numero di persone disoccupate da più di un
anno aveva raggiunto 16,5 milioni. Le conseguenze di tale crisi stanno quindi mettendo alla dura
prova numerosi settori della politica e, di conseguenza, della vita dei cittadini. Il peggioramento
delle condizioni economiche della classe media, l’aumento delle diseguaglianze economiche e i
tassi di povertà in aumento rendono ancor più difficile il compito dello stato sociale.
Gli effetti economici della crisi si sono poi riverberati su tutti gli aspetti della vita quotidiana delle
persone, tra cui quello della salute. La salute è il fondamento della vita, sia dal punto di vista
individuale, che collettivo. Limitandosi alla dimensione puramente economica, la salute
rappresenta una delle determinanti della produttività e la sua mancanza, oltre alla produttività
persa, rappresenta un costo per lo Stato. La crisi economica ha posto anche una serie di difficoltà
al settore della sanità. Tanti paesi dell’OCSE hanno introdotto tagli ai finanziamenti della sanità
pubblica o intensificato compartecipazioni dei cittadini alla spesa. Con l’obiettivo di rendere più
efficiente la spesa sanitaria, si è quindi andato a incidere sulla fornitura dei servizi sanitari pubblici,
che per principio dovrebbero garantire la copertura dei costi della prevenzione e dei beni e servizi
medici a seguito di malattie ed eventi clinici.
Secondo il WHO (2013), la crisi ha rappresentato un pesante shock negativo nei confronti dei
sistemi sanitari di tutti i Paesi più industrializzati, generando o un grande effetto “negativo” sulla
disponibilità di risorse del sistema sanitario o un grande effetto “positivo” sulla domanda di
servizi sanitari. In presenza di tali eventi, solitamente i policy maker hanno di fronte a sé tre sfide da
affrontare: i) evitare che interruzioni o riduzioni improvvise delle entrate del bilancio pubblico
possano rendere difficile garantire i livelli essenziali di assistenza sanitaria (sono necessarie risorse
costanti per permettere investimenti e l’acquisto di beni e servizi); ii) evitare tagli alla spesa
pubblica per la sanità in un periodo di crisi economica poiché questi sono i momenti in cui i
sistemi sanitari potrebbero richiedere più (e non meno) risorse per affrontare gli effetti negativi
della crisi sulla salute; iii) evitare di effettuare tagli arbitrari ai servizi essenziali che possano
destabilizzare ulteriormente il sistema sanitario se dovessero comportare una riduzione della
protezione finanziaria per le fasce meno abbienti, dell’accesso equo e della qualità delle cure
fornite, rischiando di creare danni alla salute e maggiori costi a lungo termine. Per affrontare tali
sfide, nel 2009 il Comitato Regionale del WHO per l'Europa decise di adottare una risoluzione
(EUR/RC59/R3) con la quale si sollecitavano tutti gli Stati membri a realizzare una serie di azioni
che permettessero ai sistemi sanitari di continuare a tutelare e promuovere l'accesso universale ed
equo a servizi sanitari efficaci in un periodo di crisi economica.
Basandosi su queste evidenze, l’obiettivo di questo Rapporto è analizzare l’impatto che la crisi
economica ha avuto sulla salute degli individui e in che modo. Per poter rispondere a una tale
domanda, la prima difficoltà da superare è riuscire a identificare i canali attraverso cui la crisi
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economica può influenzare lo stato di salute della popolazione. Come chiaramente spiegato da
Costa et al. (2012), le modalità attraverso cui la crisi economica può influire sullo stato di salute
sono di diverso grado: “si parte dalle condizioni del contesto, come le spinte alla globalizzazione, i
cambiamenti demografici, le politiche di welfare; dimensioni che sono meno facilmente
influenzabili dalle politiche congiunturali; dentro questo contesto agiscono i determinanti distali
della salute, quelli che più sono sensibili alla crisi, come il lavoro, la povertà, i servizi e sui quali più
spesso agiscono le misure di austerità della crisi; quindi sono da esaminare i determinanti
prossimali, cioè quei fattori di rischio che mediano l’effetto sulla salute dei determinanti distali,
che sono meno frequentemente presi in considerazione dalle politiche anticrisi; infine ne derivano
gli effetti sulla salute e le conseguenze sociali della salute compromessa.” L’elevato grado di
complessità del sistema fa si che i rapporti di causa ed effetto possano essere difficilmente
individuabili, sia per impossibilità di capire tutte le articolazioni del processo di causazione, sia per
ritardi temporali di manifestazione degli effetti.
I ritardi temporali sono uno dei problemi maggiori da risolvere, poiché l’impatto della crisi sullo
stato di salute non è un fenomeno immediatamente osservabile. Generalmente, se i dati di natura
contabile-finanziaria sono disponibili quasi in tempo reale, gli eventuali effetti sulla salute, in
termini di morbosità e mortalità, sono rilevabili solo dopo un periodo di latenza che può
facilmente variare dai 2 ai 5 anni. Inoltre, i cambiamenti nella dimensione non economica del
benessere durante la crisi sono ambigui. Di sicuro, ciò che oggi sappiamo è che la soddisfazione di
vita e la fiducia nelle istituzioni è diminuita sensibilmente nei paesi gravemente colpiti dalla crisi e
che si è avuta un’impennata nei livelli di stress nelle persone. Tuttavia, gli effetti negativi in termini
di health outcome per la popolazione, misurati attraverso una serie di indicatori, nel complesso sono
stati relativamente contenuti. Questo risultato, però, non deve portare a pensare che la crisi non
abbia avuto un grande effetto sulla salute. Infatti, in primis va ricordato che potrebbe esserci una
grossa sottovalutazione del problema, visto che gli effetti della crisi saranno visibili solo nel lungo
termine, o potrebbero influenzare gruppi specifici di popolazione, rimanendo così invisibili nelle
statistiche aggregate a livello nazionale. Inoltre, è anche possibile che alcune delle conseguenze a
breve termine della crisi non siano adeguatamente rilevate dagli strumenti di misura esistenti.2
Infatti, nel breve periodo gli effetti della crisi si producono più lentamente sull’incidenza di alcune
patologie, mentre è possibile averne un riscontro più tempestivo sul benessere psicofisico
dell’individuo e sulle modalità in cui i cittadini gestiscono il “bene salute”.
Nel complesso, i dati disponibili confermano un forte aumento dei suicidi nei paesi più colpiti e
un calo dei decessi per incidenti stradali, più rilevanti nei paesi in cui i livelli di incidenti iniziali
erano più alti (Stuckler et al., 2011b). Evidenze più dettagliate raccolte in Grecia, il paese europeo
maggiormente colpito dalla crisi finanziaria, indicano un peggioramento dello stato di salute
mentale negli ultimi due anni (Economou et al, 2011; Madianos et al, 2011). A oggi, la salute
mentale è stata l'area più sensibile ai cambiamenti economici. Il declino di lungo termine dei
suicidi nell'Unione europea è stato invertito, con incrementi concentrati tra gli uomini in età
lavorativa. Nei nuovi Stati membri dell'UE i suicidi hanno raggiunto il picco nel 2009 e sono
rimasti a livelli elevati nel 2010. In altri Stati membri nel 2010 sono stati osservati ulteriori aumenti
. In Inghilterra è stata confermata la stretta relazione tra perdita del lavoro e livello di suicidi,
mentre altre ricerche hanno trovato un'associazione tra il numero dei suicidi e il livello di
disoccupazione o la paura di rimanere disoccupati. Anche lo stato generale di salute auto2
Ciò pone l’accento sulla necessità più generale di avere indicatori a più alta frequenza e specifici per particolari gruppi
di persone, al fine di monitorare le variazioni di breve termine nel benessere delle famiglie. Una migliore conoscenza di
tali variazioni è essenziale per informare i policy makers durante e dopo le recessioni.
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dichiarato è deteriorato a partire dall'inizio della crisi e c'è stato un aumento significativo del
numero di persone che hanno ritenuto di aver bisogno di assistenza sanitaria, ma non hanno
potuto accedervi (Kentikelenis et al, 2011). In alcuni Paesi il numero di nuovi casi di HIV tra i
tossicodipendenti è aumentato drammaticamente, forse causato dalla riduzione delle prestazione
di servizi sanitari (EMCDDA e ECDC, 2011).
Nel caso specifico dell’Italia, una serie di lavori hanno analizzato il ruolo della crisi economica sul
ricorso all’uso dei servizi sanitari e sulla salute della popolazione. In particolare, in termini di
ricorso ai servizi sanitari, l’ISTAT (2013) ha reso noti i dati preliminari dell’indagine sullo stato di
salute e sul ricorso ai servizi sanitari della popolazione italiana, mettendo in evidenza che a seguito
della crisi c’è stato un deterioramento degli indicatori, in particolare tra gli anziani e le famiglie con
basso reddito e bassa istruzione, le categorie più a rischio. Effetti negativi sono stati rilevati anche
da Costa et al. (2012), che nel breve termine trovano “indizi preliminari di un aumento di
occorrenza di indicatori sfavorevoli di salute mentale (suicidi, depressione, forme di dipendenza)
che potrebbero essere spiegati in particolare dall’aumento dell’insicurezza del posto di lavoro…
Parallelamente la crisi sembrerebbe essere associata alle riduzioni degli infortuni sul lavoro (per
quanto compensato da un aumento di quelli gravi) e degli incidenti stradali, dovute probabilmente
alla diminuzione di fattori di pressione, quali l’attività produttiva e i consumi” (p. 338).
Leggermente più positivo è il quadro fornito dal Rapporto OsservaSalute 2013, dal quale si evince
che la salute degli italiani, misurata in termini di mortalità, ha tenuto nonostante la crisi economica
che ostacola prevenzione, accesso alle cure e alla diagnosi precoce. Ciò è dipeso principalmente
dalla ridotta mortalità per malattie del sistema circolatorio e per tumori, merito degli investimenti
nelle politiche di prevenzione condotti negli anni passati e degli sviluppi in campo diagnostico e
terapeutico. In linea con quanto detto in precedenza, a questo risultato sostanzialmente positivo fa
da contraltare una visione potenzialmente negativa per il futuro, secondo cui i veri effetti della
crisi si vedranno, con molta probabilità, solo nei prossimi anni.
In ogni caso, ciò che emerge in modo inequivocabile da tutte le analisi fino ad oggi condotte è il
peggioramento delle diseguaglianze sociali e dell’equità nell’accesso alle cure. L’equità è un
elemento chiave della fornitura delle cure sanitarie, soprattutto in momenti di crisi. Garantire
l’accesso equo alle cure sanitarie vuol dire che l’utilizzo dei servizi e le cure devono avvenire in
modo omogeneo a parità di bisogni, indipendentemente da caratteristiche individuali come
reddito, residenza geografica, status socio-economico, istruzione, ecc.. Al contrario, esiste una
vasta letteratura che mostra come in tanti paesi esistono notevoli diseguaglianze nella sanità. I
lavori di Van Doorslaer and Masseria (2004) e di Devaux e Looper (2012) per un gruppo di paesi
OCSE fanno vedere come gli individui più ricchi abbiano accesso con maggiore probabilità a
visite specialistiche e cure dentistiche. Anche in Europa, Or et al. (2008), trovano che l’utilizzo
delle visite mediche specialistiche cresce con il grado d’istruzione. Un altro studio di Bago d’Uva
et al. (2008) mostra due tipi di diseguaglianza: da un lato le visite presso il medico di base sono più
utilizzate dagli assistiti nelle fasce di reddito basse (diseguaglianza pro-poveri), mentre dall’altro le
visite specialistiche sono più utilizzate dalla popolazione appartenente alle fasce di reddito più
elevate (diseguaglianza pro-ricchi). Si stima che il più povero decile dei beneficiari di Medicare (il
provider della sanità pubblica negli USA) spende circa il 30-40% in più rispetto ai più ricchi.
Inoltre, i ricorsi alle ospedalizzazioni nei centri urbani sono più frequenti nel caso delle zone più
disagiate delle città, rispetto ai quartieri ricchi. Si stima che una grande parte di queste differenze
sia imputabile alle malattie croniche, con le prevalenze più spiccate tra gli strati poveri della
società.
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A differenza di quanto finora fatto e scritto sull’argomento, nelle pagine che seguono verrà fornito
un quadro più aggiornato degli effetti della crisi economica sul livello di salute degli italiani e sulle
diseguaglianze sociali, provando a contestualizzare tali risultati o in un’ottica temporale
retrospettiva di lungo periodo, o in un’ottica di comparazione internazionale. Questo approccio è
utile in quanto permetterà di capire meglio l’importanza dei cambiamenti che sono avvenuti e
potrà, per quanto possibile, aiutare anche a capire quelli che potrebbero essere i settori e gli ambiti
all’interno dei quali è necessario agire con maggiore urgenza.
1. Il peso della crisi economica sul benessere delle persone
1.1 Gli effetti della crisi economica a livello internazionale
Tra il 2007 e il 2009, il PIL reale pro-capite è diminuito di quasi il 2,5% l'anno nella zona OCSE
nel suo complesso, con una lenta ripresa solo dal 2010. Tra il 2010 e il 2011 il PIL pro-capite è
aumentato dell’1% ed è rimasto piatto nel 2012. Nel 2012, per l'area OCSE nel suo complesso, il
livello del PIL reale pro-capite è stato ancora dell’1% sotto il livello pre-crisi. Al contrario,
secondo i dati di contabilità nazionale il reddito disponibile netto pro capite delle famiglie
(HNADI, How’s life – Headline indicator) ha mostrato maggiore resistenza del PIL reale pro
capite, con una crescita continua, anche se a tassi molto modesti (Figura 1.1). In particolare, il
reddito disponibile pro capite è cresciuto dell'1% nel 2009, quando il PIL reale pro-capite
diminuiva del 4%.
Tra i paesi dell'OCSE, tuttavia, sia la tempistica che la portata dei cambiamenti del reddito
disponibile reale pro capite delle famiglie è stato molto diverso. Nell'area dell'euro, l'impatto della
crisi economica sui redditi delle famiglie è stato più ritardato che altrove, ma in generale anche più
severo: ha continuato ad aumentare fino al 2009 e ha iniziato a diminuire dal 2010. Tra il 2009 e il
2012, il reddito disponibile pro capite reale delle famiglie è sceso di oltre l'1% all'anno, con un
picco negativo nel 2011, quando il PIL reale pro capite aveva iniziato a risalire. Nel 2012, sia il
PIL reale che il reddito familiare netto disponibile pro capite è sceso di nuovo.
Complessivamente, dall'inizio della crisi, le riduzioni maggiori nel reddito disponibile delle
famiglie in Europa sono stati registrati in Grecia (oltre il 10% nel 2010 e nel 2011), Irlanda (quasi
il 3% nel 2010, e oltre il 4% nel 2011), Ungheria (4% nel 2009 e del 3% nel 2010), Italia (3% nel
2009 e circa l'1 % nel 2010 e nel 2011), Portogallo (5% nel 2011) e in Spagna (oltre il 4% nel 2010
e 3% nel 2011). Al contrario, Norvegia, Polonia e Svizzera hanno registrato un significativo
incremento (2% per anno o più).
Negli Stati Uniti, le variazioni del reddito netto disponibile delle famiglie hanno seguito più da
vicino i movimenti del PIL, sia in termini di tempistica e le dimensioni reali delle famiglie: il
reddito disponibile pro capite e il PIL reale pro capite hanno entrambi avuto una contrazione di
circa il 4% nel 2009, con una crescita di entrambi gli aggregati a partire dal 2010. Entro la fine del
2012, il PIL reale pro capite era quasi al suo livello pre-crisi, mentre il reddito disponibile reale
delle famiglie è stato del 2% in più rispetto al 2007. In altri paesi OCSE (non europei), la dinamica
del reddito disponibile è stata generalmente più resistente alla crisi del PIL reale pro capite, in
particolare in Corea e Giappone, così come in Canada e in Australia.
Questi diversi andamenti del reddito disponibile netto reale pro capite in tutta l'area OCSE
riflettono i diversi andamenti sia del reddito primario (cioè la somma dei redditi da lavoro
dipendente, redditi da capitale e risultato di gestione) che di quello secondario (cioè i trasferimenti
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sociali in natura, trasferimenti di denaro dal settore pubblico, e tasse e contributi sociali versati
dalle famiglie), che sono le due grandi componenti del reddito disponibile netto delle famiglie.
Figura 1.1 Trend del prodotto interno lordo reale pro capite e del reddito delle famiglie
reale durante la crisi
Nota: La definizione delle famiglie include istituzioni non-profit che servono le famiglie, tranne per la Nuova Zelanda. I consumi
privati delle famiglie sono usati come deflatore per il Reddito disponibile delle famiglie netto (Household net disposable income HDI), mentre i consumi effettivi per il Reddito disponibile delle famiglie corretto netto (Household net adjusted disposable income HADI). Tutti i valori 2012 sono stime basate su OCSE Economic Outlook No. 93. Le stime OCSE 2012 del Reddito disponibile delle
famiglie netto escludono la Grecia.
Per l'area OCSE nel suo complesso, il reddito primario pro capite delle famiglie è sceso solo nel
2009 (-2,6%) ed è tornato a crescere dal 2010 (di oltre l'1% all'anno, Figura 1.2). Il calo dei redditi
primari pro-capite riflette principalmente il calo del risultato di gestione (-4 % nel 2009 ) e dei
redditi da capitale (-9 % nel 2009), rispetto ad un più modesto calo dei redditi da lavoro
dipendente (-1 % nel 2009). Tra il 2007 e il 2011, i trasferimenti netti versati dalle famiglie sono
diminuiti del 20%, mentre i trasferimenti sociali in natura sono aumentati del 10%.
12
Figura 1.2 Formazione del reddito
Note: OCSE esclude Australia, Canada, Cile, Israele, Islanda, Svizzera e Turchia.
Fonte: elaborazioni OCSE su OECD National Accounts http://dx.doi.org/10.1787/na-data-en
Nell'area dell'euro, il calo del reddito primario pro-capite ha seguito un andamento simile a quello
della zona OCSE nel suo complesso, anche se entrambi i redditi da capitale e il risultato di
gestione hanno continuato a scendere nel 2010 (Figura 1.2).
Tuttavia, in contrasto con i trend prevalenti nella zona OCSE nel suo complesso, la
redistribuzione del reddito attraverso le tasse e i trasferimenti verso le famiglie ha sostenuto i
redditi primari solo fino al 2009; dal 2010, i trasferimenti netti pagati dalle famiglie hanno iniziato
di nuovo ad aumentare, mentre i trasferimenti sociali in natura hanno registrato una stagnazione.
Negli Stati Uniti, il grande calo dei redditi primari delle famiglie nel 2009 (-8%), il risultato di un
tuffo in redditi da capitale (-40%), un forte calo del reddito da lavoro autonomo e abitazioni (-7%)
e un piccolo calo di redditi da lavoro dipendente (-4%); al contrario, il reddito secondario (cioè il
reddito che il governo ridistribuisce alle famiglie) è aumentato sostanzialmente poco dopo la crisi
(Figura 1.2). Un andamento simile si è verificato in Giappone, dove il reddito primario è sceso
significativamente nel 2009 come risultato della riduzione dei redditi da lavoro dipendente (-4%) e
dei redditi da capitale (-9%), mentre il reddito secondario è aumentato in modo significativo come
risultato di una forte riduzione dei trasferimenti netti pagati dalle famiglie.
13
1.2 L’effetto della recessione sulla diseguaglianza dei redditi e la povertà.
Tra il 2007 e il 2010, uno dei principali risultati della crisi economica è stato senza dubbio il
consistente calo dei redditi da lavoro e capitale (cioè il reddito di mercato) nella maggior parte dei
paesi OCSE. La diminuzione di tali redditi (in particolare i redditi da lavoro) ha contribuito a una
riduzione del reddito delle famiglie di circa il 2% annuo in termini reali (Figura 1.3). Tuttavia,
l’impatto della crisi non è stato condiviso in modo uniforme tra tutti i Paesi. Come si può
facilmente vedere dalla Figura 1.4, le disuguaglianze nei redditi tra paesi si sono allargate in modo
notevole durante la crisi. In termini del coefficiente di Gini, tra il 2007 e il 2010 (ultimo dato
disponibile per le comparazioni) la disuguaglianza tra i paesi OCSE è aumentata di 1,4 punti
percentuali. In particolare, guardando a quei Paesi per i quali ci sono dati precedenti alla crisi, si
può vedere che la diseguaglianza è aumentata di più tra il 2007 e il 2010, rispetto a quanto
osservato nei precedenti 12 anni. L’aumento è stato particolarmente elevato in quei paesi che
hanno registrato le maggiori diminuzioni di reddito, come l'Irlanda, la Spagna, l’Estonia, il
Giappone e la Grecia, ma anche in Francia e in Slovenia.
Nonostante il calo registrato nel reddito di mercato, nello stesso periodo il reddito disponibile
delle famiglie, misurato con dati della contabilità nazionale, è aumentato in 12 dei 16 paesi
esaminati, a testimonianza del fatto che i sistemi di sicurezza sociale (soprattutto in Europa)
hanno funzionato. Infatti, i trasferimenti pubblici ricevuti dalle famiglie sono aumentati in tutti i
paesi OCSE tra il 2007 e il 2010. La figura 1.5 mostra che il contributo dei trasferimenti pubblici
alla crescita del reddito disponibile è stata più elevata in quei paesi che sono stati più duramente
colpiti dalla crisi, con l'eccezione del Messico. In Irlanda, Nuova Zelanda ed Estonia trasferimenti
pubblici sono aumentati in modo tale che, se le altre fonti di reddito fossero rimaste costanti, il
reddito reale disponibile delle famiglie sarebbe aumentato di circa il 2% all'anno.
Figura 1.3 – Variazioni percentuali annue del reddito di mercato delle
famiglie, per tipologia di reddito. (2007-2010)
Fonte: OECD (2013)
14
Figura 1.4 – Variazioni percentuali indice di Gini (2007-2010)
Fonte: OECD (2013)
Inoltre, c’è da considerare che mentre la spesa pubblica tende a salire durante le recessioni, le
entrate dello Stato tendono a diminuire perché diminuisce la capacità delle famiglie di generare
reddito e pagare le tasse e, quindi, il reddito disponibile non si riduce in quanto si pagano meno
tasse e contributi sociali. Ciò è quanto avvenuto, in particolare, in Nuova Zelanda, Islanda, Grecia
e Spagna.
Figura 1.5 – Componenti del reddito disponibile (•% 2007-2010)
Fonte: OECD (2013)
In sintesi, i dati ci dicono che vi sono state divergenze marcate tra i Paesi nella natura della
recessione, con impatti diversi sul mercato del lavoro e sulle sue conseguenze fiscali. Inoltre, è
importante ricordare che questi risultati indicano solo l'inizio della storia. I dati a nostra
disposizione descrivono l'evoluzione della disuguaglianza del reddito e della povertà solo fino al
15
2010. Negli anni successivi sappiamo che la ripresa economica è stata anemica in molti paesi
dell'OCSE e, in casi come l’Italia, si è avuta una seconda fase di recessione tra il 2011 e il 2013. A
causa di questa crescita rallentata e/o di nuove fasi di recessione, molte persone hanno esaurito il
loro diritto alle prestazioni di disoccupazione e, contemporaneamente, i governi hanno spostato le
politiche di bilancio verso azioni di consolidamento. Se continuerà a persistere questa fase di
crescita lenta e le misure di consolidamento fiscale saranno attuate in modo completo, le politiche
fiscali e previdenziali per mitigare l’aumento dei livelli di disuguaglianza e povertà potrebbero non
essere sufficienti. Le conseguenze distributive a lungo termine dipenderanno quindi dal mix di
politiche che i governi sapranno adottare per riequilibrare i bilanci pubblici così come i tassi di
crescita futuri.
1.3 Il ruolo delle politiche sociali a sostegno delle famiglie negli anni della crisi
In un contesto economico come quello qui sopra delineato, il ruolo delle politiche sociali diventa
fondamentale per proteggere le fasce della popolazione più deboli. Alti tassi di disoccupazione e i
mancati redditi hanno contribuito a peggiorare le condizioni sociali in molti Paesi dell’UE. La
capacità dei governi di rispondere a tali sfide è stata limitata dal consolidamento fiscale delle
finanze pubbliche. L’andamento al ribasso dei principali indicatori macroeconomici ha avuto forti
ripercussioni in particolare sulla sostenibilità dei sistemi sanitari pubblici, in virtù della forte
incidenza che la tutela della salute ha sui singoli bilanci nazionali.
Tuttavia, i tagli della spesa sociale rischiano di aumentare il livello di bisogni primari disattesi
soprattutto per le categorie più vulnerabili, che in futuro potrebbero generare ulteriori e più
costosi problemi. La disponibilità di buoni servizi sanitari in un Paese costituisce un elemento
fondamentale per garantire un adeguato stato di salute alla popolazione e, conseguentemente, un
elevato livello di benessere sociale. Questo paradigma, accettato ovunque a livello internazionale, è
quello che ha guidato molte delle decisioni di politica sanitaria in Europa almeno fino agli inizi
degli anni 90, facendoci guadagnare, in Italia in particolare, una posizione di rilievo in termini di
aspettativa di vita a livello mondiale.
Figura 1.6 - Paesi che hanno ridotto la spesa pubblica in % del PIL (2008-15)
Fonte: Ortiz e Cimmins (2013), Calcoli degli autori basati sui World Economic Outlook del FMI (October
2012).
Purtroppo, i recenti avvenimenti hanno costretto i Governi europei a pesanti riorganizzazioni dei
sistemi di sicurezza sociale, con particolare riferimento al sistema delle cure sanitarie. Il primo
esempio eclatante di questa tendenza è l’entrata in vigore il primo aprile 2013 dell’Health and social
16
care act, la Legge britannica che ha radicalmente cambiato il volto del National Health Service (NHS).
Ma questa tendenza non è stata limitata solo al Regno Unito. Come già evidenziato nel Rapporto
Fondazione Farmafactoring dello scorso anno (Fondazione Farmafactoring, 2013), Ortiz e
Cummins (2013) hanno di recente effettuato un ampio lavoro di rassegna sui documenti di
proiezione della spesa pubblica preparati dal Fondo Monetario Internazionale per 181 Paesi,
comparando il tipo di politiche attuate in quattro distinti periodi: 2005-07 (pre-crisi), 2008-09 (fase
I della crisi: espansione fiscale), 2010-12 (fase II della crisi: avvio della contrazione fiscale) e 201315 (fase III della crisi: intensificazione della contrazione fiscale). Quello che si nota da questo
studio comparativo è che dopo lo stimolo fiscale della prima fase, dal 2010 si sono succeduti una
serie di interventi di contenimento della stessa, nonostante la quota della popolazione vulnerabile
e bisognosa di assistenza continuasse ad aumentare. Secondo i documenti del FMI, nel 2013 ci si
aspetta che il consolidamento della spesa pubblica a livello internazionale aumenti, con ben 119
Paesi che vedranno ridurre la quota di spesa pubblica sul Pil, per raggiungere poi quota 132 Paesi
nel 2015 (vedi fig. 1.6). Questo trend dovrebbe continuare fino al 2016. Contrariamente a quanto
si possa immaginare, le misure di austerità non sono limitate all’Europa; infatti, molti dei principali
interventi di austerity sono stati avviati anche nei paesi in via di sviluppo.
Figura 1.7 – Tassi di crescita della spesa sanitaria media OCSE in
termini reali, dal 2000 al 2011, pubblica e totale
Fonte: OECD Health Data 2013.
Nel complesso, in termini di popolazione colpita, tali misure avranno effetto su ben 5,8 miliardi di
persone, pari a circa l’80% della popolazione totale nel 2013; nel 2015 questa quota dovrebbe poi
salire al 90%, con una popolazione colpita pari a circa 6.3 miliardi di persone. Il settore della
salute è tra quelli principalmente colpiti dalle misure restrittive. Sono ben 37 i paesi che hanno
visto avviare riforme sanitarie, e molti di questi sono paesi sviluppati (25 su 37). I principali
strumenti utilizzati sono quelli dell’aumento della quota di pagamento out-of-pocket per i pazienti e
misure di contenimento dei costi dei centri che forniscono servizi sanitari. Dopo il rilevante calo
nel 2010, nel 2011 la spesa sanitaria è rimasta invariata nei paesi OCSE visto il perdurare della crisi
economica, in particolare nei paesi europei più colpiti dalla crisi (vedi fig. 1.7). Tutti i settori della
sanità sono stati colpiti dai tagli. La spesa farmaceutica è stato un obiettivo primario, con una
spesa lieve calo nel 2010, seguita da tagli profondi nel 2011. Molti paesi hanno aumentato la
17
compartecipazione dei costi per i prodotti farmaceutici, hanno imposto riduzioni nei prezzi e nelle
coperture, e hanno promosso l'uso di farmaci generici. In più dei tre quarti dei paesi OCSE la
spesa per la prevenzione e per la salute pubblica è stata tagliata, anche se questi interventi, in
genere, rappresentano solo una piccola parte dei budget complessivo. Inoltre, in molti paesi si è
tentato di contenere la crescita della spesa ospedaliera – la più importante voce di spesa tagliando i salari, riducendo il personale ospedaliero e letti, e aumentando la compartecipazione
per i pazienti.
Nell’UE la risposta dei sistemi sanitari alla crisi è stata molto diversa (Mladovsky et al., 2012).
Alcuni paesi non hanno adottato nuove politiche, mentre altri ne hanno introdotte molte. Alcuni
sistemi sanitari erano sicuramente meglio preparati di altri a intervenire, poiché avevano già
avviato una serie di importanti misure prima della crisi, atte ad accumulare riserve finanziarie. Ci
sono poi stati casi in cui politiche programmate prima del 2008 sono state attuate con maggiore
intensità o velocità, in quanto diventate più urgenti o politicamente fattibili di fronte alla crisi. Ci
sono stati anche casi in cui, in risposta alla crisi, le riforme pianificate sono state rallentate o
abbandonate. Nel complesso, i Paesi dell’UE hanno impiegato un mix di strumenti politici in
risposta alla crisi finanziaria. Alcune delle risposte politiche sono state positive, suggerendo che
alcuni paesi hanno utilizzato la crisi per aumentare l'efficienza. Aspetto importante e
caratterizzante i sistemi sanitari dell’UE, l'ampiezza e la portata della copertura sanitaria è rimasta
in gran parte inalterata e, in alcuni casi, i benefici sono stati ampliati per i gruppi a basso reddito.
Tuttavia, alcuni paesi sono intervenuti aumentando le compartecipazioni per servizi essenziali,
cosa che rappresenta un motivo di preoccupazione. Infine, poco è stato fatto per aumentare
l’efficienza attraverso politiche volte a migliorare la salute pubblica.
Secondo Ortiz e Cummins (2013) le politiche fiscali restrittive di questi anni avranno effetti
negativi che aggraveranno la crisi occupazionale diminuendo il sostegno pubblico nel momento in
cui ce ne sarà maggiore bisogno. Il costo dell’aggiustamento sarà quasi interamente traslato sulla
parte di popolazione più debole che vedrà ridotta in maniera rilevante la possibilità di accedere a
servizi essenziali, primi tra tutti quelli sanitari. Questo effetto risulta essere molto chiaro andando
ad analizzare la percentuale di individui che dichiara l’impossibilità di accedere a servizi medici
(unmet needs) per motivi finanziari. Come si può vedere dalla figura 1.8, le esigenze mediche
insoddisfatte sono aumentate in diversi paesi (Figura 1.8, Pannello A) con i maggiori aumenti
osservati in Grecia, Italia e Islanda. L'aumento è più evidente per le persone nei quintili di reddito
più basso (Figura 1.8, pannello B), confermando le evidenze secondo cui le persone a basso
reddito possono rimandare cure mediche in presenza di difficoltà finanziarie (Sumner e Wolcott,
2009). Questo è uno dei motivic he impone di dover monitorare gli effetti delle strategie di
risanamento di bilancio sulla spesa sanitaria, e in particolare il modo in cui potrebbe influenzare lo
stato di salute dei diversi sottogruppi di popolazione.
Karanikolos et al (2013) hanno poi mostrato come le origini della crisi economica in Europa e le
risposte dei governi stanno avendo effetti importanti sui sistemi sanitari e sulla salute della
popolazione. Se era abbastanza prevedibile che con la crisi economica potessero aumentare i casi
di suicidio e ridursi le morti per incidenti stradali, altre conseguenze immediate quali l’aumento
delle patologie infettive trasmissibili (HIV, malaria e tubercolosi) erano meno prevedibili. Senza
poi considerare gli effetti di lungo termine che i periodi di prolungata crisi economica hanno sulla
salute: in tali frangenti la normale prevenzione sanitaria viene ridotta al minimo se non addirittura
annullata, generando effetti a catena i cui risultati saranno osservabili solo a distanza di anni.
18
Figura 1.8 – Percentuale di individui che hanno dichiarato problemi di accesso ai servizi
sanitari e bisogni non soddisfatti per Paese e livello di reddito, Unione Europea
Impossibilità di accedere ai servizi sanitari
Bisogni sanitari non soddisfatti
Fonte: European Union Statistics on Income and Living Conditions (EU-SILC).
Un ultimo aspetto da considerare, e che emana in modo diretto dal cambiamento delle politiche
sociali in tempo di crisi, è il conflitto tra lavoro e vita. Secondo i lavoratori europei, tale rapporto
sembra essersi notevolmente deteriorato negli anni dopo l'inizio della crisi, a causa di una
combinazione nella percezione di maggiore pressione sul lavoro, un aumento delle ore senza vita
sociale e un aumento nella insicurezza percepita del lavoro (McGinnity e Russell, 2013). La
pressione percepita sul lavoro è stata misurata nel sondaggio sociale europeo basato sulle seguenti
domande: "Il mio lavoro richiede che io lavoro molto di più" e "Non mi sembra mai di avere
abbastanza tempo per fare tutto nel mio lavoro". In base a queste definizioni, la pressione del
lavoro è aumentata in diversi paesi europei tra il 2004 ed il 2011 (primo ed ultimo anno disponibili
nelle indagini). L'aumento è stato particolarmente forte nei paesi del Sud e in Francia, ma anche in
altri paesi dell'Europa continentale. Tale aumento potrebbe aver avuto origine dalla
ristrutturazione delle imprese in seguito alla crisi, ma anche dall'aumento delle tensioni finanziarie
sulle famiglie colpite dalla disoccupazione o dal taglio dei salari (Gallie e Zhou, 2013). Inoltre,
l’aumento della pressione sul lavoro è stato accompagnato da un aumento delle ore senza vita
sociale, soprattutto in alcuni paesi gravemente colpiti dalla crisi come Grecia, Spagna ed Estonia.
Le ore senza vita sociale sono particolarmente dannose per l'equilibrio vita-lavoro, in particolare
per quanto riguarda gli impegni familiari (Barnes et al., 2006).
19
2 Gli effetti della crisi economica in Italia
Tra gli stati membri dell’Unione Europea, l’Italia è stata sicuramente uno dei paesi più colpiti dalla
recessione, che si è presentata in due diversi momenti tra il 2007 ed il 2013 (vedi Figura 2.1). Nel
2008 e 2009, il PIL italiano è diminuito rispettivamente dell’1,2 e del 5,1%. Nei due anni
successivi la ripresa è stata debole, con il PIL che ha registrato un incremento del 1,7% nel 2010 e
solo dello 0,4% nel 2011. Successivamente, nel 2012 si è avuto un riacutizzarsi della crisi, con un
crollo del -2,4% del PIL, seguito da un ulteriore diminuzione dell’1,8% nel 2013. A fine 2013
l’Italia risulta essere l’unico tra i Paesi più industrializzati a non aver ancora recuperato il livelli di
PIL del 2001 (vedi Figura 2.2).
Figura 2.1 – Andamento PIL italiano, dati trimestrali - Var. % e valori assoluti.
Fonte: elaborazioni Fondazione Farmafactoring su dati Centro Studi Confindustria e ISTAT.
Secondo i dati riportati da ISTAT, la crisi ha ridotto la ricchezza prodotta e ha colpito in maggior
misura i redditi bassi, penalizzando soprattutto i lavoratori con minori competenze e retribuzioni.
Nel 2012 in Italia la percentuale di individui a rischio povertà o esclusione sociale è salita al 29,9%
(da 28,2% nel 2011), la quota più alta tra i paesi dell’Eurozona, a eccezione della Grecia (34,6%).
L’Italia in questo momento è molto lontana dagli obiettivi di Europa 2020: nel 2012 le persone a
rischio di povertà o esclusione sociale superavano i 18 milioni, il 30% in più rispetto al target
europeo.
20
Figura 2.2 – Comparazione livelli di PIL (2001=100)
Fonte: elaborazioni Fondazione Farmafactoring su dati OCSE.
Figura 2.3 – Relazione tra variazioni nel reddito disponibile delle famiglie e
variazioni nel PIL (2007-2012)
Fonte: elaborazioni Fondazione Farmafactoring su dati OCSE.
A livello dei paesi OCSE più avanzati, l’Italia risulta essere uno dei paesi con il sistema di aiuti ai
redditi meno efficace in assoluto. Infatti, guardando la Figura 2.3 si nota chiaramente come l’Italia,
insieme con la Spagna, siano gli unici due paesi dove nel periodo della crisi (2007-2012) alla
riduzione del PIL si sia legata una pressoché equivalente riduzione del reddito disponibile delle
famiglie. Al contrario, in paesi come UK, Finlandia e Danimarca la recessione del PIL è stata
accompagnata da un aumento del reddito disponibile, segno di un sistema di ammortizzatori
sociali che funziona.
21
Questa inefficienza del sistema di sostegno ai redditi ha permesso che nel 2012 più di un italiano
su tre soffra di almeno uno dei tre disagi che caratterizzano l’indice di rischio di povertà o
esclusione sociale: uno su dieci vive in una famiglia con bassa intensità di lavoro (10,3%), uno su
cinque è a rischio di povertà dopo i trasferimenti sociali (19,4%) e uno su sette patisce forti
mancanze materiali (14,5%). La marcata crescita di quest’ultimo gruppo è un dato preoccupante:
in particolare si registra che tra il 2011 ed il 2013 la quota di individui che dichiara di non poter
sostenere spese impreviste è passata dal 38,6% al 42,5%, quella di coloro che riferiscono di non
poter riscaldare adeguatamente l’abitazione dal 18,0% al 21,2%. Il trend crescente del disagio
economico delle famiglie è confermato anche dai dati del Censis: nel 2013 il 24,3% delle famiglie
intervistate fa fatica a pagare tasse o bollette.
Figura 2.4 La povertà non va in recessione in Italia
(Famiglie e individui in condizione di povertà assoluta x1000)
Fonte: elaborazioni Centro Studi Confindustria su dati ISTAT.
La crisi ha aumentato anche la povertà assoluta: nel 2012 le famiglie in condizione di povertà
assoluta erano 1 milione e 725mila (il 6,8% del totale), gli individui sfioravano i 5 milioni (l’8,0%
della popolazione residente). Tra il 2011 e il 2012 si è registrato un vero e proprio balzo: il numero
delle famiglie in condizione di povertà è salito del 33,0% e quello degli individui del 41,0% (Figura
2.4).
Una diretta conseguenza dell’impoverimento è il cambiamento dei modelli di consumo delle
famiglie, che cercano di ricomporre il proprio paniere di beni riducendone la quantità e/o la
qualità, e concentrando gli acquisti presso luoghi di distribuzione dove è possibile effettuare i
risparmi più consistenti. Nel Rapporto Farmafactoring 2013 era già stato messo in risalto il ruolo
che la crisi economica stava avendo nel cambiare i comportamenti degli italiani, in particolare
nella sfera dei consumi e degli acquisti, con riduzione del consumo di alcuni alimenti tipici della
buona dieta (frutta, verdura e pesce), o con la rinuncia forzata a palestre e piscine. Tale
atteggiamento coinvolge ormai il 62,3% delle famiglie con un incremento di una percentuale
vicina al 9% nell’ultimo anno, periodo in cui l’acquisto presso l’hard discount è passato del 10,5% al
22
12,3%. Anche il consumo di “servizi sanitari” regge tra 2010 e 2011, quando addirittura aumenta
rispettivamente dell’1% e del 2,2%, salvo poi registrare una riduzione nel 2012 (-2,5%).3
Ed è ormai ampiamente evidente che l’impatto piscologico e materiale della crisi non lascia
indenne l’area delle opzioni relative alla salute, penalizzando maggiormente i gruppi sociali a più
basso reddito (anche se si è registrato qualche effetto positivo, ad esempio inducendo una quota
di soggetti a rinunciare per ragioni economiche ad acquistare sigarette, con un effetto netto
positivo sulla propria salute). Da diversi anni una serie di analisi condotte dal CEIS Tor Vergata,
dal CENSIS e dal CERGAS hanno evidenziato come dal 2008 stiano emergendo chiari segnali per
cui gli italiani stanno adattando il loro comportamento nel consumo del “bene salute”. L’indagine
Fbm-Censis del 2012 evidenziava che il 35% degli italiani si è rivolto alle strutture sanitarie
pubbliche, accettando liste d’attesa più lunghe, per ottenere prestazioni che avrebbero acquistato
direttamente da strutture private. Una minor disponibilità di reddito sembrerebbe quindi
incentivare un maggior ricorso alla sanità pubblica, accettando maggiori disagi e tempi più lunghi,
e rinviando il ricorso a prestazioni sanitarie meno urgenti, come dimostra quel 18% di italiani che
ha rinviato visite specialistiche private ed odontoiatriche. Questo comportamento è in linea anche
con quanto già rilevato dall’“VIII Rapporto Sanità” del CEIS Tor Vergata, secondo cui la spesa
sanitaria privata si sarebbe ridotta del 2,7% medio annuo tra il 2001 e il 2007, per poi crollare del
4,8% tra il 2007 e il 2009. Inoltre, quasi il 21% degli italiani, sempre secondo il Censis, ha ridotto
l’acquisto di farmaci pagati di tasca propria: più del 23% dei 45-65enni, cosa che sembra essere
giustificata dalla stima del rapporto Oasi 2012 di Cergas-Bocconi secondo cui l’aumento dei ticket
sui farmaci sarebbe stato nel 2012 del 40%.
3
Documento di Economia e Finanza 2013. Audizione del Presidente dell’Istituto nazionale di statistica Prof. Enrico Giovannini, presso le
Commissioni congiunte di Camera e Senato. Roma, 23 aprile 2013.
23
3. Le risorse e le prospettive del settore sanitario in Italia.
I dati riportati nei precedenti capitoli hanno chiaramente evidenziato due aspetti fondamentali: i)
l’impatto della crisi è stato maggiore sulle popolazioni più svantaggiate; ii) le politiche sociali
hanno sostenuto le famiglie più bisognose non più oltre il 2011 e da quel momento si è assistito a
una continua riduzione di tutte le forme di ammortizzatori sociali e di interventi nel sociale, sanità
inclusa (vedi Figura 1.7). Questi effetti sono stati particolarmente marcati in Italia, dove la
situazione dei conti pubblici, i vincoli imposti dall’Europa e un sistema assistenziale poco
efficiente e efficace hanno mitigato poco gli effetti negativi e hanno limitato notevolmente le
possibilità di azione. Obiettivo di questo capitolo è, quindi, quello di analizzare il ruolo delle
politiche fiscali in Italia nel periodo della crisi e di capire quali possibilità di manovra ci saranno in
futuro, soprattutto in termini di risorse per il SSN.
Nel recente Documento di Economia e Finanza per il 2014 (DEF 2014) il governo ha delineato lo
scenario tendenziale e programmatico dei conti pubblici per il prossimo quinquennio. La nuova
programmazione prevede uno slittamento del conseguimento del pareggio di bilancio in termini
strutturali dal 2015 al 2016 e il ricorso ad una nuova manovra di correzione, di cui non sono
ancora noti i dettagli, pari allo 0,2% del Pil nel 2015 e allo 0,6% annuo negli anni seguenti. Nello
stesso tempo il governo intende avviare, già a partire da quest’anno, una riduzione del cuneo
fiscale, per riportarlo in linea con quello dei principali paesi europei, utilizzando a tal fine i
risparmi del programma di revisione della spesa pubblica (cosiddetta spending review)4.
Quali le prospettive per il Servizio sanitario e in generale per l’intero settore nell’immediato
futuro? Indicazioni appropriate possono essere ricavate ricostruendo il finanziamento statale
ordinario per il SSN, sulla base dei provvedimenti presi nell’ultimo anno, e esaminando lo
scenario ufficiale del settore e dei conti pubblici contenuto nel DEF 2014. Si tratta, però, di
indicazioni parziali, poiché il settore potrebbe essere “interessato” dall’adozione delle misure
necessarie a realizzare gli obiettivi fissati dal governo e in particolare della spending review.
Con riferimento a quest’ultima, dalla sua attuazione il governo conta di recuperare
complessivamente 4,5 miliardi di euro nel 2014, 17 miliardi nel 2015 e 32 miliardi nel 2016. Al
momento, però, il governo non ha ancora definito i provvedimenti necessari per la sua attuazione,
che consentirebbero di stimare l’eventuale impatto sul SSN e sul settore sanitario.
Tuttavia, alcune indicazioni possono essere ricavate dal Piano presentato lo scorso marzo dal
Commissario straordinario per la spending review5. Secondo tale Piano, i risparmi di spesa sanitaria
conseguibili sarebbero di almeno 300 milioni di euro nel 2014, 800 milioni nel 2015 e 2 miliardi
nel 2016. A questi si aggiungerebbe una parte non ancora specificata di quelli che si intende
conseguire dall’efficientamento dell’attività di procurement della PA, ossia delle spese sostenute per
l’acquisto di beni e servizi, nel complesso pari a 800 milioni di euro per l’anno in corso, 2,3
miliardi di euro nel 2015 e 7,2 miliardi nel 2016.
Sebbene occorra usare molta cautela, non può essere esclusa la possibilità che anche la sanità
venga chiamata a dare un contributo al progetto di riduzione del cuneo fiscale.6 Tale eventualità
4
Cfr. MEF, 2014, p. 100-103.
Cfr. http://www.ansa.it/documents/1395249927493_PianoCottarelliSlide.pdf.
6 Va, infatti, considerato che il Piano è “solo” un elenco di possibili tagli, la cui effettiva attuazione spetterà
al governo sulla base “di una scelta politica legata agli obiettivi di bilancio e riduzione della tassazione”.
5
24
contribuisce a spiegare perché il nuovo Patto per la salute, dato per “fatto” nei mesi scorsi, non
sia ancora stato definito: le Regioni, infatti, vorrebbero che i risparmi conseguibili mediante
opportuni interventi di efficientamento che sarebbero disposte a realizzare si reinvestano nel
settore per migliorare e potenziare l’offerta di assistenza.
3.1. Il finanziamento statale ordinario del SSN per il 2014-2018.
Nel corso dell’ultimo anno, l’azione complessiva di governo ha consentito un incremento del
finanziamento statale ordinario del SSN, nonostante i tagli varati nella recente Legge di Stabilità.
Decisiva a tal riguardo è stata la decisione del governo di rinunciare all’introduzione a partire da
quest’anno di nuovi ticket per un ammontare di 2 miliardi di euro annui, secondo le disposizioni
della manovra sanitaria adottata nel 2011. Tale decisione presa nell’aprile dello scorso anno7, si è
concretizzata con la Legge di Bilancio 2014-2016, in cui lo Stato ha incrementato, con proprie
risorse, il finanziamento statale ordinario del SSN dell’ammontare necessario per coprire il
mancato gettito dei ticket. 8 Con la Legge di Stabilità 2014, invece, tra misure di incremento e
quelle a riduzione, il finanziamento statale ordinario è stato incrementato di appena 5 milioni di
euro per il 2014 e ridotto di 535 milioni nel 2015 e di 605 milioni a decorrere dal 2016. Da una
parte, infatti, il finanziamento disponibile è stato aumentato di 5 milioni di euro annui per
consentire alle strutture pubbliche di effettuare in via sperimentale lo screening neonatale per la
diagnosi precoce di patologie metaboliche ereditarie9. Dall’altra, il finanziamento è stato ridotto
dello stesso ammontare dei risparmi che si prevede di conseguire con nuove misure di
contenimento della spesa per il personale dipendente e convenzionato, pari a 540 milioni di euro
per il 2015 e di 610 milioni a decorrere dal 2016.10
Nella Tabella 3.1 abbiamo ricostruito il finanziamento statale ordinario programmatico. La
procedura utilizzata segue da vicino quella a cui ha fatto riferimento il Ministro della Salute nel
corso dell'audizione del 22 gennaio 2014, presso la Commissione Affari sociali della Camera, sulle
“Iniziative in corso per la definizione del nuovo Patto per la salute per gli anni 2014-2017”.11
Rispetto alle stime allora presentate, le nostre tengono conto del nuovo scenario
Inoltre, l’ammontare dei risparmi conseguibili dalla spending review “conteggiati” nel DEF 2014 e quelli
stimati nel Piano, che ammontano a 7 miliardi di euro per quest’anno, a 18,1 miliardi per il 2015 e a 33,9
miliardi per il 2016.
7 Cfr. MEF, 2013. Ha pesato su tale scelta anche la consapevolezza delle difficoltà di raggiungere il
necessario accordo con le Regioni, dopo che la Corte Costituzionale aveva ritenuto illegittima (Sentenza n.
187 del 2012), la “potestà” che il governo si era attribuito di poterne regolamentare autonomamente
l’introduzione (Dl 98/2011, art. 17, comma 1, d).
8 L. 148/2013, Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2014 e bilancio pluriennale per il
triennio 2014-2016.
9 Cfr. L. 147/2013, art. 1, comma 229.
10 Cfr. L. 147/2013, art. 1, comma 481. In particolare, la minore spesa del SSN deriverebbe dal blocco per il
periodo 2015-2017 dell’indennità di vacanza contrattuale, con un risparmio di 140 milioni di euro per il
2015 e 210 a decorrere dal 2016, e dalla limitazione delle risorse destinate al trattamento accessorio del
personale, con una minore spesa di 400 milioni annui a decorrere dal 2015. Per le norme in esame, cfr.
commi 452-455, 456 e 477 della legge di stabilità 2014.
11
Per
il
resoconto
stenografico
dell’audizione,
cfr.
http://www.camera.it/leg17/1058?idLegislatura=17&tipologia=audiz2&sottotipologia=audizione&anno=
2014&mese=01&giorno=22&idCommissione=12&numero=0009&file=indice_stenografico.
25
macroeconomico, contenuto nel DEF 2014.12
Tabella 3.1 - Il finanziamento statale ordinario per il SSN (2013-2018)
(valori in milioni di euro)
2012
2013
2014
2015
2016
Finanziamento a leg.
108,780 111,794 116,236 119,143 122,792
vigente
Dl 98/2011
0
-2,500
-5,450
-5,450
-5,450
Dl 95/2012
-900
-1,800
-2,000
-2,100
-2,100
Legge stabilità 2013
0
-600
-1,000
-1,000
-1,000
Altre misure
81
115
115
115
115
Annullamento ticket
0
0
2,000
2,000
2,000
Effetti LS 2014
0
0
5
-535
-605
- personale
0
0
0
-540
-610
- screening neonatale
0
0
5
5
5
Finanziamento progr.
107,961 107,009 109,906 112,173 115,752
Fonte: Elaborazioni Fondazione Farmafactoring su documenti ufficiali
2017
2018
126,781
131,019
-5,450
-2,100
-1,000
115
2,000
-605
-610
5
119,741
-5,450
-2,100
-1,000
115
2,000
-605
-610
5
123,979
Si è prima provveduto a definire un finanziamento tendenziale per gli anni 2014-2018,
mantenendo l’incidenza rispetto al Pil al livello registrato nel 2013. Il finanziamento tendenziale,
ottenuto in tal modo viene corretto per l’impatto delle manovre varate nel corso degli ultimi anni
– in particolare, del Dl. 98/2011, del Dl. 95/2012, della legge di stabilità 2013 e di altri
provvedimenti specifici13 - e di quelle più recenti, contenute nella Legge di Bilancio e in quella di
Stabilità per il 2014. In questo modo il finanziamento del SSN sale a 109,9 miliardi quest’anno, a
112,2 miliardi nel 2015, a 115,8 nel 2016 e a 119,7 nel 2017.
Nella figura 3.1 abbiamo riportato la dinamica del finanziamento statale a partire dal 2002.14 Le
elaborazioni effettuate mostrano come dal 2010 i tassi di crescita si siano notevolmente ridotti
rispetto a quelli degli anni precedenti: in particolare, nel 2013, per la prima volta, il finanziamento
statale ordinario si è ridotto in termini nominali rispetto a quello dell’anno precedente, segnando
un rilevante punto di discontinuità rispetto al passato. A partire dal 2014 il finanziamento statale,
in attesa dei tagli della spending review, dovrebbe tornare a crescere a tassi via via più sostenuti, del
3% in media d’anno.
12 In quell’occasione, le stime del finanziamento statale ordinario erano state ottenute sulla base dello
scenario macroeconomico definito nella Nota di Aggiornamento al DEF 2013. Cfr.
http://www.camera.it/temiap/temi17/TABELLA_Lorenzin_22-1-2014.pdf.
13 Si tratta in questo caso del maggior finanziamento previsto per il superamento degli ospedali psichiatrici
giudiziari (Dl. 211/2011) e per l’assistenza ai lavoratori extracomunitari emersi (Dlgs. 109/2012),
compensato dal taglio di 70 milioni di euro annui dal 2013, che sono invece riservati agli accertamenti
medico-legali (Dl. 98/2011).
14 In particolare, per il 2006 i dati comprendono anche l’integrazione al finanziamento 2006 stabilita con la
legge finanziaria 2007 e per il 2007-2009 il finanziamento straordinario per le Regioni impegnate nei Piani di
Rientro..
26
Figura 3.1 – Il finanziamento statale del SSN (2002-2018)
5,0
130
4,0
120
3,0
2,0
110
1,0
0,0
100
-1,0
-2,0
90
2007
2008
2009
2010
2011
2012
2013
tassi di var. (sc. sx.)
2014
2015
2016
2017
2018
miliardi euro (sc. dx)
Fonte: elaborazioni Fondazione Farmafactoring su Documenti Ufficiali MEF
3.2 La spesa sanitaria programmata per il 2014-2018.
Nella tabella 3.2 abbiamo riportato la programmazione sanitaria contenuta nel DEF 2014, messa a
confronto con quella elaborata nei precedenti documenti di programmazione, in modo da dare
evidenza anche alle ripetute revisioni al ribasso della spesa sanitaria in conseguenza, oltre che di
aggiornamenti delle stime, delle diverse manovre adottate.15 Al contrario, nella Figura 3.2 abbiamo
riportato il finanziamento ordinario per il SSN e la sua evoluzione nel tempo a seguito delle
diverse manovre. La spesa sanitaria considerata in questa sede corrisponde a quella del conto
consolidato della sanità elaborato dall’ISTAT in cui confluiscono oltre alle spese sostenute dal
SSN (ASL, AO, IRCCS e i policlinici universitari pubblici) anche quella di altri enti che pure non
operano solo in campo sanitario (ad es., le amministrazioni provinciali e comunali).
15
Si evince allo stesso modo anche la decisione presa all’inizio dello scorso anno, di abolire l’introduzione di
nuovi ticket: nel DEF 2013 la spesa è aumentata al netto di revisioni della dinamica tendenziale della spesa,
di 2 miliardi rispetto a quella prevista in precedenza.
27
Figure 3.2 – Effetto manovre fiscali su finanziamento SSN
125.000
120.000
115.000
110.000
105.000
100.000
2008
2009
2010
2011
Finanziamento tendenziale
Post manovre 2010
Post manovre 2012
Post manovre 2013
2012
2013
2014
2015
Post manovre 2011
Fonte: elaborazioni Fondazione Farmafactoring su Documenti Ufficiali MEF
Il DEF 2014 riporta per il periodo 2010-2013 i nuovi dati di consuntivo disponibili di spesa
sanitaria e la stima per quelli successivi. Nel 2013 la spesa sanitaria è stata inferiore a quella
prevista anche a grazie agli effetti di trascinamento della revisione della spesa per il 2012 che è
risultata inferiore di 1,2 miliardi rispetto alla previsione contenuta nel DEF 2013. Rispetto alla
previsione iniziale della XVI legislatura (DPEF 2009-2013), nel 2013 la spesa si è ridotta
complessivamente di 20,7 miliardi di euro (il 15,9% in meno), ben sopra quella registrata per la
spesa primaria, pari al 10,3%. Per il 2014-2017, al netto degli effetti di trascinamento, si registrano
cambiamenti marginali, in parte riconducibili a interventi adottati nel corso dell’ultimo anno e in
parte per variazione delle previsioni.16
Più precisamente, per l’anno in corso il governo stima un incremento della spesa sanitaria del 2%,
che diventa del 2,2% in media d’anno a partire dal 2016. Ciò denota una dinamica della spesa
sanitaria più vivace, anche se di poco, rispetto a quella delineata nella programmazione dello
scorso anno (DEF 2013), dove il tasso di crescita medio della spesa sanitaria si manteneva sotto il
2% annuo. In tal modo la spesa dopo aver raggiunto il 7% del Pil nel 2013, si manterrebbe
invariata nel biennio 2014-2015 per poi scendere di 0,1 punti percentuali a partire dal 2016 e di 0,2
punti percentuali nel 2018. La spesa sanitaria aumenta, invece, rispetto alla spesa primaria: in
attesa di una definizione più puntuale della spending review, l’incidenza sulla spesa primaria passa dal
15,2% nel 2013 al 15,8% nel 2018.
16
La Legge di Stabilità 2014, infatti, oltre a quelle sul finanziamento ordinario per il SSN citate in
precedenza, contiene altre norme che comportano un aumento della spesa grazie all’incremento delle risorse
per l’assistenza sanitaria ai cittadini italiani all’estero, per i soggetti danneggiati in ambito sanitario
(emotrasfusi), per il finanziamento dei policlinici universitari gestiti direttamente da università non statali e
dell’Ospedale Bambino Gesù e per la formazione specifica in medicina generale.
28
Tabella 3.2 - Programmazione della spesa sanitaria nei conti pubblici (2009-2018)
(importi in milioni di euro)
2009
2010
2011
2012
Spesa sanitaria tendenziale
111.592 116.007 120.656 125.156
Quota su Pil
6,8
6,9
6,9
7,0
DPEF
2009-2013 Quota sulla spesa primaria
15,5
15,7
15,9
16,1
Tasso di variazione (in %) della SS
0,9
4,0
4,0
3,7
Spesa sanitaria tendenziale
112.929 114.719 118.364 122.769
Quota su Pil
7,4
7,4
7,4
7,4
DPEF
2010-2013 Quota sulla spesa primaria
15,5
15,8
16,1
16,3
Tasso di variazione (in %) della SS
3,8
1,6
3,2
3,7
Spesa sanitaria tendenziale
110.588 114.707 117.134 120.786
Quota su Pil
7,3
7,4
7,3
7,2
RUEF
2010
Quota sulla spesa primaria
15,2
15,6
15,8
16,0
Tasso di variazione (in %) della SS
1,9
3,7
2,1
3,1
Spesa sanitaria tendenziale
110.435 113.457 114.836 117.391
Quota su Pil
7,3
7,3
7,2
7,1
DEF 2011
Quota sulla spesa primaria
15,2
15,7
15,8
16,1
Tasso di variazione (in %) della SS
1,8
2,7
1,2
2,2
Spesa sanitaria tendenziale
110.474 112.742 112.039 114.497
Quota su Pil
7,3
7,3
7,1
7,2
DEF 2012
Quota sulla spesa primaria
15,2
15,6
15,5
15,8
Tasso di variazione (in %) della SS
1,5
2,1
-0,6
2,2
Spesa sanitaria tendenziale
112.526 111.593 110.842
Quota su Pil
7,3
7,1
7,1
DEF 2013
Quota sulla spesa primaria
15,6
15,5
15,5
Tasso di variazione (in %) della SS
1,9
-0,8
-0,7
Spesa sanitaria tendenziale
110.474 112.526 111.094 109.611
Quota su Pil
7,3
7,3
7,0
7,0
DEF 2014
Quota sulla spesa primaria
15,2
15,6
15,5
15,3
Tasso di variazione (in %) della SS
1,45
1,9
-1,3
-1,3
Fonte: Elaborazioni Fondazione Farmafactoring su documenti ufficiali.
2013
129.916
7,0
16,3
3,8
127.677
7,4
16,6
4,0
2014
122.102
7,2
16,4
4,0
114.727
7,1
15,8
0,2
111.108
7,1
15,3
0,2
109.254
7,0
15,2
-0,3
126.512
7,2
16,6
3,6
115.421
6,9
15,7
0,6
113.029
7,0
15,6
1,7
111.474
7,0
15,3
2,0
2015
2016
2017
2018
118.497
6,9
15,8
2,7
115.424 117.616
6,9
6,8
15,6
15,7
2,1
1,9
113.703 116.149
7,0
6,9
15,5
15,6
2,0
2,2
119.789
6,7
15,7
1,8
118.680
6,9
15,8
2,2
121.316
6,8
15,8
2,2
29
4. Gli effetti della crisi economica sulla salute
Quantificare gli effetti della crisi sulla salute è un compito molto difficile per un duplice motivo.
Da un lato gli effetti delle recessioni sullo stato di salute si possono manifestare anche con anni di
ritardo; dall’altro, non sempre sono disponibili dati tempestivi e pertinenti sullo stato di salute della
popolazione. In quest’ultimo caso, anche i dati di mortalità più elementari sono spesso disponibili
solo dopo diversi anni, rendendo impossibile la valutazione degli effetti di breve periodo della crisi
sulla salute. A ciò si aggiunga che la disponibilità di altri indicatori sulla morbilità e sull’utilizzo
dell'assistenza sanitaria sono difficili da ottenere e solo raramente sono comparabili a livello
internazionale. Inoltre, ancor più difficile è riuscire a quantificare gli effetti sulla salute delle
politiche che i vari governi hanno avviato come risposta alla crisi.
Queste limitazioni nella disponibilità dei dati ci impongono di dover analizzare gli effetti di lungo
periodo solo in una logica di analisi retrospettiva, confrontandoci con quanto accaduto nel passato,
utilizzando poi tali informazioni per fare inferenza sul futuro. In alternativa, gli effetti di breve
periodo possono essere analizzati solo in presenza di dati adeguati a cogliere il fenomeno. Inoltre,
in linea con quanto fatto in letteratura, cercheremo di distinguere gli effetti sulla salute dovuti a
variazioni nei “livelli” di reddito dell’economia da quelli dovuti a variazioni nella “diseguaglianza”
dei redditi.
4.1 Variazioni nei livelli di reddito ed effetti sulla salute
La letteratura sugli effetti delle crisi e dei cicli economici sulla salute e il benessere degli individui
sembra indicare l’esistenza di un effetto negativo della disoccupazione sul benessere, come
mostrato per esempio a Clark e Oswald (1994).17 E’, però, vero che il quadro complessivo è molto
più complicato, con notevoli sfumature e risultati a volte contro-intuitivi. Gli effetti di una
recessione sulla salute dipendono da una complessa serie di fattori, tra cui quali sottogruppi di
popolazione o patologie sono stati considerati, il livello generale di sviluppo del paese, il livello di
povertà, il debito elevato, la disoccupazione, la precarietà e lo stress del lavoro, tutti fattori di
rischio per la salute della popolazione (Stuckler e Suhrcke, 2012; WHO, 2011). Così, cambiamenti
nelle circostanze economiche che espongono più persone a questi fattori pongono lo stato di
salute degli individui a maggior rischio.
La letteratura economica abbonda di studi che hanno cercato di capire l’effetto di variazioni nel
livello del reddito sulla salute della popolazione. Importanti da questo punto di vista sono stati i
lavori condotti analizzando il periodo relativo alla Grande Depressione negli Stati Uniti (1929 –
1937). Attraverso tali analisi si è potuto capire che nelle fasi di recessione se da un lato i suicidi
aumentano, la mortalità generale si riduce a causa di una diminuzione delle malattie infettive e degli
incidenti stradali (Fishback, Haines & Kantor, 2007). Un più recente studio condotto negli USA da
Stuckler et al. (2011a), utilizzando dati di mortalità per causa a livello di città e di Stato, ha
mostrato che, oltre ad un aumento dei suicidi e a una riduzione dei decessi per incidenti stradali,
non si sono registrate variazioni nella mortalità generale collegata alla depressione.
Il caso dei Paesi dell’ex Unione Sovietica è sicuramente tra i più interessanti per capire gli effetti
della recessione dopo il crollo dell’URSS nei primi anni 1990, che ha avuto conseguenze devastanti
per la salute della popolazione in tutta la regione, con aumenti di mortalità fino al 20% in alcuni
17
Per un’analisi più completa della letteratura in materia si veda Frey (2008).
30
paesi (Stuckler, King & McKee, 2009). Il ritmo imposto dalla transizione da un sistema pianificato
a uno di mercato, compresa la privatizzazione di massa di molti servizi sociali e l'assenza di una
rete di sicurezza sociale in alcuni paesi, ha colpito duramente i tassi di aspettativa di vita. Molti
paesi ex-comunisti hanno riacquistato i loro livelli di aspettativa di vita pre-transizione solo due
decenni più tardi. Tuttavia, si è notato che le conseguenze negative delle riforme economiche
implementate in modo così rapido sono risultate minori in quei paesi in cui molte persone erano
affiliate ad organizzazioni sociali come i sindacati, gruppi religiosi o club sportivi (Stuckler, King &
McKee, 2009).
Un altro caso emblematico è quello dei paesi colpiti dalla crisi economica del Sud Est asiatico del
1990. Tailandia e Indonesia, che hanno ridotto la spesa per la protezione sociale, hanno
sperimentato un aumento a breve termine della mortalità, mentre la Malesia, che è riuscita a
sostenere programmi di protezione sociale, non ha mostrato alcun cambiamento evidente nei tassi
di mortalità (Waters, Saadah e Pradhan, 2003; Hopkins, 2006; Chang et al., 2009). Questi esempi
mostrano come i risultati in termini di salute che fanno seguito a periodi di recessione possono
differire, in parte a causa del contesto e dei motivi della crisi, ma anche a seconda della risposta di
politica economica e sociale del paese.
Al contrario di questi studi, altre analisi che utilizzano dati a livello aggregato hanno mostrato che
la salute potrebbe non essere influenzata da crisi economiche nei paesi ad alto reddito, e che la
mortalità tende a diminuire quando l'economia rallenta e aumentare quando l'economia accelera
(Ruhm, 2000, 2003, 2008; Gerdtham e Ruhm, 2006). Questo effetto è stato osservato, almeno nel
breve periodo, e l’importanza dell'effetto varia notevolmente con l’età degli individui (Joyce e
Močan, 1993), con il sesso (Chang et al., 2009), il tipo di malattie (Waters, Saadah e Pradhan,
2003), e i risultati sono abbastanza sensibili agli indicatori utilizzati per misurare il cambiamento
economico (Gerdtham e Johannesson, 2005; Svensson, 2007; Economou, Nikolau e Theodossiou,
2008; Stuckler, Meissner & King, 2008).18
Mentre alcune cause di morbilità e mortalità sembrano aumentare durante le fasi di recessione,
altre non lo fanno. Il tipo di patologia studiata è senza dubbio uno degli elementi più importanti
nel determinare l’effetto (positivo o negativo) della crisi sull’indicatore di health outcome (mortalità o
morbilità). Nel caso del consumo di alcool, la relazione con i periodi di crisi economica è più
difficile da stabilire, anche se è abbastanza riconosciuto che le variazioni di reddito delle famiglie a
causa della crisi economica hanno un effetto sui comportamenti a rischio, quali i livelli di fumo e i
consumi di alcol (Stuckler et al, 2009; Stuckler, Basu e McKee, 2010; Suhrcke et al, 2011). Una
ricerca condotta negli Stati Uniti indica che il consumo globale può diminuire durante una
recessione, riflettendo scarsità di mezzi, ma il consumo da parte di individui già a rischio potrebbe
aumentare. Purtroppo, le evidenze in Europa in tal senso sono ancora limitate.
Le recessioni hanno anche un effetto sulle morti da incidenti stradali, che tendono a diminuire,
riflettendo un minore utilizzo dell'auto. Una riduzione dei decessi da incidenti stradali è stata
osservata in diversi paesi europei, in particolare quando i tassi erano inizialmente alti.
18
Notando la natura contro-intuitiva di questi risultati, Catalano e Soffietti (2005) hanno suggerito che le recessioni
possono avere un impatto positivo sulla salute, perché un aumento del tempo libero permette alle persone di impegnarsi
in attività di miglioramento della salute come l'esercizio fisico, o perché riducono i consumi di cibo e alcol.
31
L'esperienza di essere disoccupati è stata anche associata a un maggiore rischio di una successiva
depressione o malattia mentale (Barnes et al, 2009; Browning e Heinesen, 2012), così come
l'ospedalizzazione o la mortalità per alcolismo, incidenti stradali, e autolesionismo (Eliason e
Storrie, 2009; Browning e Heinesen, 2012). Uomini e donne in età lavorativa con più bassi livelli di
istruzione sono a maggior rischio di mortalità durante le recessioni finanziarie (Edwards, 2008).
L'esposizione alla precarietà del lavoro, soprattutto se cronica, sembra poter incidere
negativamente sullo stato di salute auto-dichiarato e positivamente sulla morbilità psichiatrica
(Ferrie et al., 2002).
Crombie (1990) e Ruhm (2000) trovano che i suicidi aumentano in tempi di recessione.
Kentikelenis et al. (2011) e Stuckler et al. (2011) forniscono prove simili per alcuni paesi europei
durante l'attuale crisi. In 26 paesi europei esaminati da Stuckler et al. (2009), tra il 1970 e il 2007 un
aumento dell'1% del tasso di disoccupazione è stato associato con un aumento dello 0,8% dei
suicidi tra gli individui di età inferiore a 65 anni, e con un simile aumento nel numero di omicidi.
Lo stesso studio rileva che un aumento della disoccupazione di 3 punti percentuali o più è
associata con più morti da abuso di alcool. Efficaci ammortizzatori sociali possono mitigare
l'effetto negativo sulla speranza di vita della popolazione o ridurre i tassi di mortalità per qualsiasi
causa (Gerdtham e Ruhm, 2006; Stuckler e Suhrcke, 2012) anche durante le recessioni gravi. Nel
complesso, la ricerca suggerisce la necessità di monitorare attentamente i risultati di salute di
coloro che sono particolarmente vulnerabili durante i periodi di difficoltà finanziarie (Stuckler,
Basu e McKee, 2010), cioè i disoccupati, quelli con bassi livelli di istruzione, e quelli che vivono in
povertà o con alti livelli di indebitamento.
Un discorso a parte meritano gli effetti delle recessioni sulle malattie infettive. E' difficile prevedere
come le malattie infettive risponderanno alla crisi economica. La risposta dipende dalla presenza di
focolai di infezione e mezzi di trasmissione (ad esempio insetti vettori) in una popolazione, nonché
dal livello di investimenti in sorveglianza e controllo della salute pubblica. In alcuni dei paesi che
hanno sperimentato le misure di austerità più profonde si è avuto il riemergere di malaria e la
trasmissione di dengue fever. Recentemente, la Grecia ha registrato un importante aumento di
infezioni da HIV tra i consumatori di droga per via endovenosa, in coincidenza con sostanziali
riduzioni nei finanziamenti che evitavano lo scambio degli aghi.
La ricerca finora si è concentrata sui risultati in termini di salute in cui il ritardo tra recessione
economica e la morte o la malattia è breve, come ad esempio nel caso di salute mentale, infezioni e
lesioni. Tuttavia, è molto probabile che ci possano essere effetti sulla salute che potrebbero non
manifestarsi per qualche tempo. Questi possono derivare da variazioni di accesso della
popolazione ai servizi necessari, come la corretta gestione della malattia cronica con la
partecipazione del paziente e l'aderenza al trattamento. Ci sono evidenze, in particolare da Grecia e
Spagna, di crescenti difficoltà di accesso cure necessarie (vedi anche Cap. 6 in questo Rapporto).
Alcuni paesi hanno compiuto notevoli sforzi per assorbire i tagli ai budget sanitari, riducendo il
costo dei servizi finanziati con fondi pubblici (ad esempio, il prezzo dei prodotti farmaceutici e i
livelli dei salari del settore pubblico), proteggendo così l'accesso ai servizi necessari. Tuttavia, altri
cambiamenti politici, quali la chiusura degli impianti, riduzione del personale e orari di apertura
ridotti, così come i diritti d'utenza più elevati, si può aspettare di limitare l'accesso. Per impedire
l'accesso a cure tempestive ed efficaci, questi cambiamenti sono suscettibili di incorrere in maggiori
costi finanziari ed umani, per esempio aumentando il rischio di amputazioni, cecità o insufficienza
renale tra le persone con diabete o suicidi tra quelli con problemi di salute mentale. Finora,
tuttavia, non vi è stata alcuna ricerca approfondita su questo tema.
32
In generale, questo tipo di letteratura ha anche osservato che gli effetti negativi sulla salute
possono essere parzialmente mitigati dalla fornitura di programmi di reinserimento di lavoro e di
sostegno alle famiglie durante i periodi di instabilità economica, così come il mantenimento di una
stretta regolamentazione del settore delle bevande alcoliche, per evitare che l’elevato consumo di
alcool possa generare un effetto moltiplicativo. Se tali misure sono in vigore, i benefici per la salute
delle crisi economiche, come ad esempio il calo incidenti stradali come a causa di un minor
numero di persone in auto, tendono a superare i rischi, migliorando la salute della popolazione,
almeno nel breve periodo. In sintesi, mentre sono necessarie ulteriori ricerche per capire gli effetti
di lungo periodo e gli effetti indiretti delle crisi economiche sui sistemi sanitari e sulla salute, alcune
evidenze tratte da precedenti eventi, soprattutto quelli in cui si è avuto un aumento della
disoccupazione, hanno mostrato che queste sono dannose per la salute pubblica (Kaplan, 2012;
McKee, Basu e Stuckler, 2012). In questi casi, il mantenimento di livelli adeguati di spesa per la
protezione sociale, in particolare sui programmi attivi del mercato del lavoro, è in grado di ridurre
gli effetti negativi sulla salute.
4.2. Variazioni nelle diseguaglianze nei redditi ed effetti sulla salute.
La diseguaglianza nei redditi e il ruolo che essa ha sui fenomeni sociali e sanitari è un argomento
che negli ultimi anni ha ricevuto molte attenzioni nei dibattiti sia tra gli studiosi che tra i policy
makers. Secondo gli economisti, la diseguaglianza in piccole dosi rappresenta un incentivo
necessario per incoraggiare le innovazioni o le imprese a rischiare, investire e, quindi, stimolare la
crescita economica. Arthur Okun (1975) sosteneva che la piena eguaglianza e la piena efficienza
non possono co-esistere, e deve sempre esserci un compromesso, per cui per il raggiungimento di
un obiettivo occorre sacrificare l’altro. Mentre questo punto di vista rimane attuale, il recente
aumento della diseguaglianza, accompagnata alla bassa crescita economica di tanti paesi, pone dei
quesiti nuovi.
Come è possibile vedere dalla Figura 4.3, a partire dagli anni ’50 nei paesi più industrializzati le
diseguaglianze di reddito hanno subito un sostanziale calo fino alla fine degli anni settanta, mentre
dagli anni ottanta in poi hanno ricominciato a salire, e il trend è rimasto immutato fino ai nostri
giorni. Svezia e Danimarca erano e rimangono i paesi meno diseguali. Il primato, in termini di
diseguaglianza, sin dagli anni novanta, spetta invece agli Stati Uniti e alla Gran Bretagna.
33
Figura 4.3 – Andamento della diseguaglianza nei Paesi OCSE (1960-2011)
Fonte: elaborazioni Fondazione Farmafactoring su dati Eurostat
Se e quanto occorra preoccuparsi per questo aumento delle diseguaglianze è un argomento molto
dibattuto nella letteratura socio-economica. Recentemente, in Inghilterra Wilkinson e Pickett
(2009) hanno brillantemente posto all’attenzione dei policy makers questo problema e da allora il
dibattito è stato molto acceso. A quel lavoro hanno poi fatto seguito una serie di altri studi, che
mostrano come effettivamente ci sia una correlazione tra diseguaglianza dei redditi e problemi
sanitari e sociali. All'interno di ogni società, gli individui con redditi più elevati ottengono risultati
migliori. Sembrerebbe, quindi, esserci un chiaro “gradiente sociale” per la salute, il che significa
che ogni passo sulla scala socio-economica porta a un aumento della salute. Questo risultato è
abbastanza importante da un punto di vista delle opzioni di policy disponibili, in quando tende a
suggerire che le disuguaglianze nello stato di salute non sono, quindi, solo una questione di
povertà, ma sono legate alla disuguaglianza economica nel senso più ampio. Ciò che è meno chiaro
è se ogni passo lungo la scala migliora la salute nello stesso modo. Studi più recenti hanno anche
cercato di capire se oltre ad una correlazione tra i due fenomeni esista una vera causazione. Su
questo aspetto c'è meno accordo, anche se una serie di studi rigorosi forniscono prova a supporto
di tale ipotesi.
La spiegazione più plausibile per spiegare il ruolo della disuguaglianza sui problemi sanitari e sociali
è lo “stato di ansietà”. La disparità di reddito è dannosa perché pone le persone in una gerarchia
che aumenta la competizione e causa stress, che a sua volta peggiora le condizioni di salute e
genera altri esiti negativi. A dimostrazione di tale tesi, ci sono poi alcune ricerche che hanno
confrontato diversi gruppi di popolazione in diversi paesi, ottenendo come risultato che i gruppi
con livello socio-economico più basso in paesi caratterizzati da minore diseguaglianza hanno dei
risultati migliori degli omologhi gruppi in paesi più diseguali.
Per capire meglio il ruolo delle diseguaglianze economiche sullo stato di salute di una popolazione
(misurato in termini di aspettativa di vista alla nascita o di mortalità infantile) è utile guardare a una
serie di relazioni che legano i due fenomeni in un contesto di comparazione internazionale. Nella
Figura 4.4 è riportata la correlazione che esiste tra l’aspettativa di vita di alcuni paesi OECD ed il
34
coefficiente Gini del reddito. Da tale grafico si può facilmente vedere che esiste una relazione
negativa, con l’aspettativa di vita che diminuisce all’aumentare dell’indice di Gini.
Figura 4.4 – Relazione tra Indice di Gini e aspettativa di vita – 2010
Fonte: elaborazioni Fondazione Farmafactoring su dati OECD
Nella Figura 4.5 viene invece riportata la relazione tra mortalità infantile e indice di Gini. Anche in
questo caso l‘interpretazione dei risultati conduce a una conclusione simile: più è alto il grado di
diseguaglianza di reddito, maggiore è il tasso di mortalità infantile.
Un altro aspetto importante del ruolo giocato dalle diseguaglianze economiche è quello di incidere
sulle forme di finanziamento dei sistemi sanitari. Nella Figura 4.6 si vede chiaramente come più è
alto l’indice di Gini, minore è la percentuale di spesa sanitaria pubblica sul totale. Questo risultato è
oltremodo importante in quanto è ampiamente dimostrato che le diseguaglianze nella salute
possono derivare dalla tipologia di finanziamento del sistema sanitario. Come denotano Devaux e
Looper (2012) e van Doorslaer and Masseria (2004), un iniquo utilizzo dei servizi sanitari ha
spesso radici nei costi delle cure sopportate dagli assistiti, oppure il fatto di necessitare
un’assicurazione sanitaria privata. Or et al. (2008) mostrano come l’iniquità negli accessi alle visite
mediche diminuisce quando si riduce la proporzione di finanziamento privato sulla spesa sanitaria
totale. Inoltre, Huber et al. (2008) suggeriscono che il finanziamento privato disincentivi gli
individui al corretto uso dei servizi sanitari (lo riduce), specie nel caso di individui a rischio di
esclusione sociale. Discorso simile vale per le spese out-of-pocket che sono un importante deterrente
negli accessi ai servizi sanitari, introducendo un ulteriore diseguaglianza in termini di salute.
35
Figura 4.5 – Relazione tra Indice di Gini e mortalità infantile – 2010
Fonte: elaborazioni Fondazione Farmafactoring su dati OECD
Nella Figura 4.7 possiamo osservare la relazione positiva che esiste tra l’indice di Gini e la
percentuale della spesa out-of-pocket per i cittadini. Anche in questo caso Gelormino et al. (2011) e
Or et al. (2008) evidenziano come alte spese out-of-pocket possono ripercuotersi pesantemente sugli
individui meno abbienti, i quali scoraggiati dal pagamento “extra” non ricevono le cure necessarie,
peggiorando la loro salute e creando un “circolo vizioso”.
Figura 4.6 – Relazione tra indice di Gini e quota spesa sanitaria pubblica - 2010
Fonte: elaborazioni Fondazione Farmafactoring su dati OECD
36
Figura 4.7 – Relazione tra indice di Gini e spese out-of-pocket - 2010
Fonte: elaborazioni Fondazione Farmafactoring su dati OECD
37
5. La crisi economica e le disuguaglianze nell’accesso alle cure
sanitarie: uno sguardo alla situazione in Italia e in Europa.
Gli indicatori legati all’utilizzo dei servizi sanitari, pur non fornendo informazioni dirette sulla
salute delle persone, possono, in particolari contesti, essere considerati come anticipatori dello
stato di salute della popolazione. Infatti, in periodi di crisi si tende a osservare un calo del ricorso
ad alcuni servizi sanitari che vanno letti come riduzione dell’investimento in salute da parte degli
individui, i quali successivamente potrebbero trovarsi con uno stato di salute inferiore.
Ciò che si osserva in Europa e che, negli ultimi decenni, le condizioni medie di salute sono
migliorate progressivamente, accompagnate da un decremento del tasso di mortalità, un aumento
della speranza di vita, e dai continui progressi della ricerca scientifica. Tuttavia, lo stesso non può
essere affermato per ciò che concerne le disuguaglianze che interessano la sfera socio-economica,
in particolare il reddito. Al crescere di quest’ultime (anche a causa della crisi economica in corso) è
associato un incremento delle disuguaglianze in termini di salute. Mediamente la salute tende a
migliorare, e la mortalità diminuisce, ma ciò ha luogo in particolare fra chi appartiene ai ceti sociali
più agiati, mentre, spesso, non si verifica per gli individui in condizioni economiche svantaggiate (si
veda, per esempio, Zucchelli, 2009). Accanto alle disuguaglianze di salute, anche le disuguaglianze
nell’accesso ai servizi e alle cure sanitarie, fortemente interrelate con fattori di tipo socioeconomico, costituiscono un importante problema di policy. Pertanto, una più approfondita
conoscenza delle dinamiche, delle potenziali determinanti e del loro “peso” nel processo di
formazione di tali disuguaglianze, potrebbe costituire elemento di interesse per i policy makers e
punto di partenza su cui costruire interventi mirati alle fasce più deboli della popolazione.
L’obiettivo di questo capitolo è quindi quello di capire:
i)
se esistono diseguaglianze nell’accesso ai servizi sanitari (nello specifico, visite ambulatoriali,
medico di base, visite specialistiche, e ricoveri ospedalieri), sia a livello italiano, sia nel
contesto europeo;
ii)
se le diseguaglianze sono aumentate con la crisi economica;
iii)
quali sono le principali determinanti delle diseguaglianze
5.1 Dati e Variabili
I dati utilizzati per questo studio sono quelli dell’Indagine su Salute, Invecchiamento e Pensioni in
Europa (SHARE – Survey of Health, Ageing and Retirement). SHARE è una banca dati
multidisciplinare (contenente informazioni dettagliate su salute, status socio-economico, relazioni
sociali e familiari) e multi-paese, che ha come target la popolazione ultracinquantenne di diversi
stati europei. Per la nostra analisi utilizziamo, nello specifico, i dati di tre distinte indagini, le prime
due rispettivamente condotte negli anni 2004/2005 e 2006/2007, mentre l’ultima (Indagine 4)
condotta nel 2011/2012. Ciò consente di indagare le dinamiche sull’accesso ai servizi di cura
formale (e le relative disuguaglianze espresse sulla base del reddito) sia nel periodo antecedente alla
crisi economica, sia durante il verificarsi della stessa, a livello italiano ed europeo. I paesi
“monitorati” sono Italia, Spagna, Germania, Austria, Svezia, Paesi Bassi, Francia, Danimarca e
Belgio. La peculiarità dell’Indagine SHARE consiste nella ricchezza di informazioni sia sullo stato
di salute (salute percepita, funzionalità fisica e cognitiva, comportamenti rischiosi per la salute,
38
accesso ai servizi medici) sia sulla condizione socio-economica degli individui intervistati, che
consente di svolgere un’analisi empirica accurata sulle disuguaglianze nell’accesso ai servizi sanitari
formali. Questa tipologia di informazioni, collocate in un contesto contraddistinto da un rapido
invecchiamento della popolazione e dalla crescente incidenza di tale fenomeno sulla spesa sanitaria
dei diversi sistemi di welfare nazionali, rende SHARE un’indagine adeguata all’analisi delle
disuguaglianze di accesso ai servizi sanitari in Europa.
5.2 Metodologia
Alcuni studi confermano che l’utilizzo dei servizi sanitari formali, specialmente quelli primari
(come il ricorso al medico di base), può contrastare gli effetti negativi delle disuguaglianze di salute
legate al reddito (Cebada-Crespo et al (2011) e Shin et al., 2010). Differenti fattori a livello
individuale (quali, per esempio, i bisogni in termini sanitari, le caratteristiche demografiche, la
condizione socio-economica del singolo e le caratteristiche del sistema sanitario) possono
realisticamente contribuire all’insorgere di disuguaglianze (legate al reddito) nell’accesso alle cure
formali.
Un sistema sanitario equo in senso orizzontale è essenzialmente un sistema in cui è garantita parità
di accesso ai servizi sanitari per individui con uguali bisogni. Lo scopo del nostro studio consiste
nel misurare il livello di inequità orizzontale che contraddistingue i vari sistemi sanitari a livello
europeo, soffermandosi in particolare sulla realtà italiana. Per fare ciò introduciamo un indice di
concentrazione spesso utilizzato nell’ambito degli studi di economia sanitaria, ovvero l’Horizontal
Inequity Index (HI). Tale indice costituisce una misura del grado di equità nell’accesso ai servizi
sanitari “aggiustata” per le variabili di bisogno, che forniscono, a loro volta, informazioni sullo
stato di salute dei singoli individui (Wagstaff et al., 2000; Kakwani et al., 2007, Garcìa Gomez et al.,
2014). Il segno dell’indice indica la direzione della relazione tra la variabile di accesso alle cure
sanitarie di cui si intende stimare la distribuzione e la posizione all’interno della popolazione
ordinata rispetto al reddito. Il valore dell’indice, compreso fra -1 e +1, descrive l’intensità di questa
relazione (Zucchelli, 2009; Kawkani et al.,1997). In altre parole, valori negativi dell’indice di
concentrazione corrispondono al caso in cui la disuguaglianza in termini di accesso ai servizi
formali, fra individui con eguali bisogni, è concentrato fra coloro con condizione socio-economica
più svantaggiata, mentre valori positivi corrispondono al caso in cui la disuguaglianza è concentrata
fra gli individui meno svantaggiati.
Wagstaff et al. (2003) mostrano come l’indice di concentrazione di cui sopra possa essere
scomposto attraverso una procedura statistica che consente di individuare il singolo contributo di
ciascun fattore considerato alla disuguaglianza di accesso. Il vantaggio dell’adozione della
procedura di scomposizione dell’indice consiste, quindi, nella possibilità di quantificare i singoli
contributi delle varie determinanti, evidenziandone l’importanza ai fini della determinazione della
disuguaglianza.
5.3 Misure di accesso ai servizi di cura formali
Ai fini della nostra analisi utilizziamo quattro distinte misure di accesso ai servizi di cura formali:
accesso alle visite ambulatoriali, accesso al medico generico, accesso alle visite specialistiche,
accesso alle cure ospedaliere (Bolin et al., 2008).
39
Con accesso alle visite ambulatoriali ci riferiamo, nei dodici mesi antecedenti all’intervista, all’avere
avuto contatti con medici per questioni legate al proprio stato di salute (includendo visite al pronto
soccorso o visite in ambulatorio ed escludendo visite dal dentista e ricoveri ospedalieri). Per
quanto concerne l’accesso al medico generico consideriamo nella fattispecie l’aver avuto o meno
contatti con il medico di famiglia, mentre l’accesso alle visite specialistiche riguarda l’aver
consultato o meno, sempre nel corso dei dodici mesi antecedenti all’intervista, un medico
specialista (i.e. cardiologo, pneumologo, gastroenterologo, diabetologo o endocrinologo,
dermatologo, neurologo, oculista, otorinolaringoiatra, reumatologo o fisiatra, ortopedico, chirurgo,
psichiatra, ginecologo, urologo, oncologo e geriatra).
Infine per quanto concerne l’accesso alle cure ospedaliere consideriamo l’essere stato ricoverato in
ospedale con degenza di almeno una notte (nello specifico, ricoveri in un reparto medico,
chirurgico, psichiatrico o in un qualsiasi altro tipo di reparto specializzato).
5.4 Determinanti dell’accesso ai servizi sanitari
Lo status socio-economico degli individui è definito facendo ricorso al reddito familiare
equivalente, definito sulla base della scala di equivalenza modificata dell’OCSE. Questa variabile ci
consente di ordinare la popolazione di riferimento sulla base di una misura di reddito “aggiustata”
(ovvero che tiene conto sia della dimensione del nucleo famigliare sia del numero di figli).
Le altre potenziali determinanti della disuguaglianza nell’accesso ai servizi sanitari impiegate per il
calcolo degli indici di concentrazione sono classificate in due gruppi. Nel primo includiamo le
“variabili di bisogno”, il cui scopo essenziale è fornire un’istantanea dello stato di salute
dell’individuo: età (espressa in anni), genere (uomo o donna), salute percepita (definita in 5
categorie sulla base della scala americana: 1= eccellente, 2=molto buona, 3= buona, 4=cattiva,
5=molto cattiva), numero di limitazioni in termini di mobilità (camminare per 100 metri, stare
seduti per circa 2 ore, alzarsi da una sedia dopo essere rimasti seduti a lungo, salire diverse rampe
di scale senza fermarsi a riposare, salire una rampa di scale senza fermarsi a riposare, piegarsi,
inginocchiarsi o accovacciarsi, allungare o stendere le braccia sopra l'altezza delle spalle, trascinare
o spingere oggetti voluminosi come una sedia da salotto, sollevare o portare pesi superiori ai 5 chili
come una borsa pesante della spesa, prendere una monetina da un tavolo), numero di disturbi di
cui l’individuo ha sofferto negli ultimi sei mesi (mal di schiena, dolori alle ginocchia, alle anche o
ad altre articolazioni, disturbi cardiaci o angina, dolore al petto durante attività fisica, mancanza di
respiro, difficoltà di respirazione, tosse persistente, gambe gonfie, problemi legati al sonno,
cadute, paura di cadere, capogiri, mancamenti o perdita momentanea di coscienza, problemi di
stomaco o intestinali compresi stitichezza, meteorismo, diarrea, incontinenza o perdita involontaria
di urina, affaticamento), numero di patologie diagnosticate in passato o di cui il rispondente soffre
al momento dell’intervista ( per esempio, attacco cardiaco compreso infarto del miocardio o
trombosi coronarica o altri problemi cardiaci compresa l'insufficienza cardiaca congestizia,
pressione alta o ipertensione, colesterolo alto, un ictus (colpo) o un'altra malattia cerebro vascolare,
diabete o glicemia alta, malattie polmonari croniche, come bronchite cronica o enfisema, artrite,
compresa osteoartrite (artrosi) o reumatismi, cancro o tumore maligno, compresi leucemia o
linfoma, ma esclusi piccoli tumori della pelle, ulcera gastrica o duodenale, ulcera peptica, morbo di
Parkinson, cataratta, frattura dell'anca o del femore, altre fratture, morbo di Alzheimer, demenza,
sindrome cerebrale organica cronica, senilità o qualsiasi altro grave problema di memoria), e,
infine, se l’individuo riceve o meno cure informali da un parente, amico o vicino di casa.
40
Del secondo gruppo fanno parte le variabili che descrivono la condizione socio-economica
dell’individuo, quali il livello di istruzione (misurato sulla base della scala ISCED-97), lo stato civile
(se l’individuo è sposato o convivente), e lo stato occupazionale (se l’individuo è pensionato,
occupato, o appartenente ad altre categorie quali disoccupato, invalido, o svolga altre attività non
formalmente retribuite).
5.5 I risultati
Per quanto concerne l’Italia, osserviamo dalla tabella 6.1 che gli indici di concentrazione (accesso
alle cure) nei tre diversi periodi presentano segno positivo e statisticamente significativo in
riferimento a cure specialistiche, ricorso al medico di base e visite ambulatoriali. Ciò implica che un
maggiore accesso a tali prestazioni sanitarie è concentrato nelle fasce reddituali più agiate. Inoltre,
ciò che emerge confrontando gli indici nelle tre indagini, è un trend “crescente” di tale
disuguaglianza, ovvero un peggioramento in termini di accesso alle cure da parte delle classi sociali
più svantaggiate, in linea con il progressivo svilupparsi della crisi economica.
In Italia, le disuguaglianze in termini di status socio-economico (relative, nel nostro caso, al
reddito, all’istruzione e all’occupazione) costituiscono un’importante componente nella spiegazione
delle disuguaglianze di accesso ai servizi sanitari (in particolare per le cure specialistiche), a parità di
bisogni. Ciò si evince dalla scomposizione degli indici di concentrazione, le cui stime vanno
comunque interpretate con cautela poiché non forniscono informazioni sulla causalità, ma
semplicemente sulla scomposizione dell’associazione tra la misura di accesso e le altre determinanti
considerate (Zucchelli, 2009)
Il segno positivo associato al “contributo” del reddito equivalente (tabella 5.1) significa che gli
individui in condizioni economiche svantaggiate soffrono di maggiori disuguaglianze nell’accesso
alle cure rispetto ai soggetti più abbienti, ed è riscontrabile, anche in questo caso per le visite
specialistiche, un incremento in valore assoluto di tale contributo nel corso degli anni, in linea con
il peggioramento della crisi economica. Analoghe considerazioni valgono per quanto riguarda
l’essere pensionato: il contributo di tale variabile alla disuguaglianza di accesso alle visite
specialistiche ha segno positivo ed è significativo nei tre diversi periodi.
Per ciò che riguarda l’istruzione, il contributo (o il “peso”) dell’essere scarsamente istruito assume
valore positivo ed è significativo in tutti e tre i periodi considerati, a conferma del fatto che la
scarsa istruzione penalizza l’accesso alle cure specialistiche per gli individui più svantaggiati
economicamente.
Se guardiamo al contesto europeo, l’Italia segue il trend degli altri paesi per quanto riguarda, una
volta ancora, l’accesso alle cure specialistiche. Dalla tabella 5.2 osserviamo, infatti, un andamento
simile degli indici di concentrazione per quasi tutti i paesi considerati, fatta eccezione per i Paesi
Bassi e la Danimarca, per i quali non è individuabile un trend chiaro e significativo.
Per quanto riguarda le visite ambulatoriali e il ricorso al medico di base, in linea generale ciò che
emerge dall’interpretazione degli indici è una disuguaglianza di accesso concentrata fra le fasce più
povere della popolazione, in contrasto con quanto invece osserviamo per i ricoveri ospedalieri. In
questo caso la disuguaglianza sembra muoversi in senso opposto, ovvero gli individui in condizioni
economiche più svantaggiate hanno maggiore accesso alle cure ospedaliere, sempre a parità di
bisogni. Tuttavia, come si nota dalle stime, non è possibile identificare un chiaro trend pre e post
crisi per questi servizi (ovvero un andamento crescente della disuguaglianza nel corso degli anni), e
41
inoltre gli indici di concentrazione nei diversi periodi non sempre risultano statisticamente
significativi.
5.6 – Gli indicatori di accesso alle cure sanitarie nell’Indagine ISTAT sulla salute degli italiani (201213)
I dati preliminari dell’indagine sulla salute e sul ricorso ai servizi sanitari dell’ISTAT 2012-13
hanno messo in evidenza l’importante ruolo giocato dalla crisi economica in Italia nell’accesso ai
servizi sanitari. In particolare, risulta che “sono le visite e i trattamenti odontoiatrici le prestazioni
a cui si rinuncia più frequentemente: il 14,3% delle persone di 14 anni e più vi ha rinunciato negli
ultimi 12 mesi. La rinuncia è dovuta principalmente a motivi economici (85,3%). Nel caso di
rinuncia a visite specialistiche (escluse quelle odontoiatriche) la quota si riduce al 7,7%. Ancora più
contenuta è la percentuale di chi rinuncia ad un accertamento diagnostico specialistico (4,7%) o a
prestazioni di riabilitazione (2,5%); molto esigua è la rinuncia a interventi chirurgici (0,8%). Inoltre
è pari al 4,1% la quota di chi rinuncia all’acquisto di farmaci pur avendone bisogno, tra questi oltre
il 70% perché avrebbe dovuto pagarli di tasca propria non essendo prescrivibili e il 25% perché il
ticket era troppo costoso.” (ISTAT 2013, p.12)
Inoltre, “nell’esaminare la combinazione delle prestazioni che dovrebbero essere garantite dal
Servizio sanitario pubblico, il 9% della popolazione ha dichiarato di aver rinunciato ad almeno una
prestazione tra accertamenti specialistici, visite mediche specialistiche (escluse odontoiatriche) o
interventi chirurgici, pur ritenendo di averne bisogno. Se a questi si cumulano coloro che hanno
dichiarato di aver rinunciato ad acquistare farmaci, la quota raggiunge l’11,1% della popolazione.”
(ISTAT, 2013, p.12) I motivi della rinuncia sono più spesso per ragioni economiche che per motivi
di offerta. Infine, “la quota più alta di persone che rinuncia ad almeno una delle prestazioni
considerate si riscontra tra i disoccupati (21,4%). Nel confronto tra chi gode di risorse economiche
ottime o adeguate e chi le giudica scarse o insufficienti, la quota dei rinunciatari passa dal 6,8% al
17,6%. Nel Nord-Ovest il rapporto è quasi di uno a tre (passa dal 4,5% al 13,3%). Nel Sud e nelle
Isole anche chi dichiara una buona condizione economica ha rinunciato nel 9,3% dei casi contro il
4,5% del Nord-Ovest e il 5,7% del Nord-Est.” (ISTAT, 2013, p.12)
42
Tabella 5.1: Indici di concentrazione per l’accesso alle cure sanitarie e contributo di ciascuna determinante alla disuguaglianza, per tipo
di spesa e anno - Italia
Medico di base
Vis. Ambulatoriali
2004
2006
2011
Accesso alle cure
("aggiustato" per le variabili
di bisogno)
0.005
0.004
0.056
Reddito equivalente
Contributo
0.017
0.011
0
Età
Contributo
-0.001
-0.002
0.001
Genere
Contributo
0
0
-0.002
Salute percepita
Contributo
-0.015
-0.008
-0.009
N limitazioni mobilità
Contributo
0.002
0.005
0.006
N disturbi ultimi 6 mesi
Contributo
-0.008
-0.07
-0.002
N patologie
Contributo
-0.021
-0.015
-0.018
Cure informali
Contributo
0
0
0
Istruzione (livello primario)
Contributo
0.01
0.0015
0
Istruzione (laurea)
Contributo
0.0025
0.001
0
Coniugato
Contributo
0
0
0
Pensionato
Contributo
0.003
-0.001
0.006
Altra attività
Contributo
-0.006
0
-0.001
Fonte: Elaborazione Fondazione Farmafactoring su dati SHARE.
Nota: La significatività degli indici (P>0.1) è indicata in grassetto
Ric. Ospedale
Specialista
2004
2006
2011
2004
2006
2011
2004
2006
2011
0.037
0.005
0.051
0.0972
0.0975
0.134
-0.0122
-0.015
.0.028
0.029
0.001
-0.011
0.019
0.022
0.055
0.016
0.004
-0.009
-0.006
-0.002
0.0027
0.012
0.104
0.004
-0.001
0.001
-0.007
0
0
-0.0022
0
-0.0024
-0.004
0
0.0024
0.003
-0.025
-0.01
-0.011
-0.0174
-0.027
-0.029
-0.013
-0.017
-0.015
0.009
0.005
0.0054
-0.005
0.001
0.005
-0.004
-0.004
-0.005
-0.009
-0.008
-0.001
-0.0087
-0.008
-0.0152
0.0023
-0.002
-0.003
-0.016
-0.018
-0.02
-0.033
-0.0334
-0.029
-0.006
-0.0005
-0.005
0.002
0
-0.001
-0.002
-0.0026
-0.001
-0.001
-0.0022
-0.007
-0.001
-0.003
-0.001
0.05
0.04
0.003
-0.05
-0.006
0
0.0024
0
0
0.0057
0.009
0.001
-0.03
0.002
0
0
0
0
0
0
0.003
0
1.40E-06
0
0.004
-0.001
0.007
0.006
0.013
0.007
0
0.002
0
-0.006
0.004
-0.002
-0.01
-0.004
0.009
-0.005
-0.003
-0.001
43
Tabella 5.2: Indici di concentrazione “corretti” per le variabili di bisogno e per tipo di spesa, anno e Paese
Fonte: Elaborazione Fondazione Farmafactoring su dati SHARE.
Nota: La significatività degli indici (P>0.1) è indicata in grassetto
44
6. La crisi economica e lo stato di salute della popolazione in
Italia: i trend e i differenziali socio-economici.
Come ampiamente discusso nelle pagine precedenti, per capire a fondo gli effetti della
crisi economica sullo stato di salute di una popolazione è fondamentale distinguere tra
effetti di “breve” ed effetti di “lungo” periodo e, soprattutto, è fondamentale avere a
disposizione una serie di indicatori che possano essere in grado di catturare le tante
sfaccettature attraverso cui definire lo stato di salute degli individui e come questo possa
evolversi nel tempo. Purtroppo, non potendo ottenere stime degli effetti di “lungo”
periodo, nelle pagine che seguono ci concentreremo unicamente a descrivere gli effetti di
“breve” periodo.
Tra i vari indicatori disponibili per analizzare i trend della salute, i più rilevanti sono
quelli relativi alla salute soggettiva (self-reported), quelli sintetici sulla salute fisica e sulla
salute mentale prodotti dall’ISTAT nelle indagini sulla salute, quelli relativi alle invalidità,
al numero di cronicità, all’infortunistica e, infine, quelli relativi alla mortalità (per sesso,
età, regione e causa). Tra questi indicatori quelli che più facilmente possono evidenziare
effetti di breve periodo sono quelli legati alla salute soggettiva e mentale, che potrebbero
peggiorare per effetto dello stress provocato dalla crisi (soprattutto in termini di effetti
generati sul mercato del lavoro più instabile e a rischio per alcune fasce della
popolazione). Inoltre, il peggioramento della salute mentale dovrebbe portare a
evidenziare cambiamenti nella mortalità per causa dovuta a episodi di violenza (omicidi,
suicidi e tentati suicidi) e di consumo di ansiolitici e antidepressivi.
Infine, nei capitoli precedenti abbiamo anche visto che esiste una chiara relazione tra
livello del reddito e stato di salute e tra diseguaglianze di reddito e stato di salute della
popolazione. Poiché la crisi economica degli ultimi anni ha agito su entrambi gli aspetti
(“livelli” e “diseguaglianze”) del reddito, le analisi saranno condotte guardando anche a
questo aspetto.
6.1 Gli effetti di breve periodo della crisi economica sullo stato di salute
6.1.a – Gli indicatori della salute mentale
Nei periodi di crisi le tensioni generate sul mercato del lavoro, spesso a causa del maggior
rischio di perdere il posto di lavoro, tendono a creare notevoli problemi di stress agli
individui e alle famiglie che, inevitabilmente, si riverberano sulle condizioni di salute, in
particolare quella mentale.
I dati disponibili relativi all’Italia confermano questa ipotesi. Dove la crisi ha avuto e sta
avendo un impatto più forte sulla salute dei cittadini è, infatti, la dimensione psicologica e
del benessere in senso ampio, e questo è un fenomeno che sembra essere trasversale ai
gruppi sociali. Secondo l'AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco), nel 2000 le dosi giornaliere
assunte ogni mille abitanti erano poco più di 8. Oggi sono circa 36. Nel solo 2012 i
consumi di medicine per il sistema nervoso centrale sono saliti dell'1,4%. Da un'indagine
condotta dalla Società Italiana di Psichiatria (novembre 2013), risultante dai dati raccolti
in oltre il 30 per cento dei Dipartimenti di salute mentale di 14 Regioni, la grave e
45
perdurante crisi economica di questi anni ha inciso fortemente sull'aumento dei disturbi
psichici che si è registrato in Italia negli ultimi tempi soprattutto tra i ceti meno abbienti;
si osserva infatti che in Italia l'incidenza dei disturbi psichiatrici tra i soggetti con minori
risorse economiche raddoppia rispetto a coloro che appartengono ad un livello
socioeconomico medio-alto, con ciò ponendo un problema anche in termini di coesione
sociale.
Figura 6.1 - Andamento ricerche su internet della parola “sintomi” di alcune
patologie nei Paesi del G8.
Fonte: Askitas e Zimmermann (2011)
Un’altra interessante evidenza che supporta la tesi di un deterioramento della salute
mentale degli individui in periodi di crisi è quella che deriva da uno studio internazionale
condotto da Askitas e Zimmermann (2011) nei paesi del G8. In questo studio gli autori
analizzano gli effetti delle recessioni sulla salute mentale utilizzando dati in real-time presi
da internet. Gli autori hanno ricostruito le serie storiche delle ricerche su internet di parole
quali “sintomi” e “effetti collaterali”. Come si può vedere dalle Figure 6.1 e 6.2 si nota un
salto nelle ricerche a partire dal momento in cui negli USA è stato varato il Troubled Asset
Relief Program (TARP), ovvero il programma per il salvataggio delle banche, che ha anche
riconosciuto in modo ufficiale l’inizio della crisi a livello mondiale. Ciò che si vede è che
la serie sintomi si impenna negli USA prima che negli altri paesi (con eccezione della
Russia) in quanto negli Stati Uniti la crisi finanziaria inizia nel settembre del 2008 mentre,
ad esempio, in Germania nella primavera del 2009.
46
Lo stesso discorso vale per le ricerche sulla parola “effetti collaterali” legati a farmaci che
curano patologie del sistema nervoso. Gli autori mostrano che è lo shock negativo
dell’economia che provoca l'aumento di richieste. L'ipotesi è che la crisi aumenti il
numero di persone interessate a informarsi sui sintomi delle patologie e sugli effetti
collaterali determinati dai farmaci usati per curare i sintomi.
Figura 6.2 - Andamento ricerche su internet della parola “effetti collaterali” per
medicine legate al sistema nervoso nei Paesi del G8
Fonte: Askitas e Zimmermann (2011)
Infine, nella Figura 6.3 sono riportati gli andamenti (riscalati) del numero di ricerche su
internet per la parola “sintomi” e del tasso di disoccupazione negli USA. Come è facile
vedere, la correlazione tra le due serie è altissima, soprattutto se si considera che i punti di
svolta dell’istante in cui viene lanciato il TARP e del momento in cui la disoccupazione
comincia a scendere a metà 2010 sono colti in modo perfetto dall’andamento delle
ricerche su internet.
47
Figura 6.3 – Relazione tra ricerche su internet per “sintomi” e l’andamento
della disoccupazione negli USA (valori riscalati)
Fonte: Askitas e Zimmermann (2011)
Un altro aspetto fondamentale nel valutare l’impatto di breve termine della crisi
economica sulla salute mentale è quello di analizzare la mortalità per causa dovuta a
episodi di violenza (omicidi, suicidi e tentati suicidi). Secondo quanto rilevato da Costa et
al. (2012), i dati dell’indagine su suicidi e tentati suicide dell’ISTAT mostrano che “la
popolazione italiana è a basso rischio di suicidio, come in tutta l’Europa Meridionale, ma
che il numero di suicidi per ragioni economiche, in leggera crescita dal 2002, si impenna
appena prima della crisi e continua a salire con notevole velocità” (Vedi fig. 6.4).
Dati più aggiornati su questo fenomeno sono quelli raccolti da Link Lab, il Laboratorio
di ricerca socio-economica dell'Università degli Studi Link Campus University, che studia
questo fenomeno dal 2012.19 Secondo tale fonte nell'anno 2013 sono state
complessivamente 149 le persone che si sono tolte la vita per motivazioni economiche,
rispetto agli 89 casi registrati nel 2012 di cui il 40% nel solo ultimo quadrimestre. Quasi la
metà dei casi di suicidio (45,6%) fanno riferimento alla figura professionale
dell’imprenditore, ma rispetto al 2012 cresce il numero delle vittime tra i disoccupati:
sono 58, infatti, i suicidi tra i senza lavoro, numero che risulta più che raddoppiato
rispetto al 2012 quando gli episodi registrati furono 28. Nel 2013, dopo i mesi estivi, il
numero dei suicidi per ragioni economiche è tornato a salire.
Lo studio è scaricabile al seguente link http://lab.unilink.it/files/2014/05/STUDIO-COMPLETOSuicidi-crisi-1°-Trim.-2014.pdf
19
48
Figura 6.4 – Numero di suicidi e di tentati suicidi per ragioni economiche
in Italia tra il 2000 e il 2010
Fonte: Costa et al. (2012)
Nel 2013, così come nel 2012, la crisi economica, intesa come mancanza di denaro o
come situazione debitoria insanabile, rappresenta la motivazione principale del tragico
gesto, all'origine dei 108 suicidi (72,5%) nel 2013, a fronte dei 44 del 2012. La perdita del
posto di lavoro continua a rappresentare la seconda causa di suicidio: 26 gli episodi
registrati, in lieve aumento rispetto al 2012 quando i casi sono stati 25. A incidere inoltre
sul tragico epilogo, i debiti verso l'erario: 13 le persone che nel 2013 si son tolte la vita a
causa dell'impossibilità di saldare i propri debiti nei confronti dello Stato. A questi dati
vanno poi aggiunti quelli relativi ai tentati suicidi: sono infatti 86 le persone che nel 2013
hanno provato a togliersi la vita per motivazioni riconducibili alla crisi economica, tra cui
72 uomini e 14 donne, contro i 48 casi complessivi registrati nel 2012. Anche tra i
tentativi di suicidio, a destare allarme è l'incremento registrato nelle regioni meridionali: si
passa infatti dai 5 casi del 2012 a ben 25 tragici tentativi di porre fine alla propria vita
rilevati nel 2013. I disoccupati che nel 2013 hanno tentato di togliersi la vita sono 50.
Erano 20 nel 2012.
6.1.b – Gli indicatori soggettivi della salute (self reported)
49
Gli effetti della crisi economica sullo stato di salute auto dichiarato (self-reported) della
popolazione nel suo complesso sono poco chiari. Secondo i dati riportati nella Figura
6.5, la percentuale di persone che all’interno dei paesi OCSE dichiara un cattivo stato di
salute non è cambiata tra il 2007 e il 2011 (ultimo anno disponibile). Tuttavia, se si
guarda ai singoli Paesi, si notano alcune differenze interessanti. Da un lato ci sono alcuni
paesi europei, come Francia, Grecia e Irlanda che sembrano aver aumentato di circa il
20% il numero delle persone che dichiarano uno stato di salute “pessimo”. Dall’altro ci
sono paesi come l’Italia e il Portogallo in cui non è accaduto nulla fino al 2009 e poi, dal
2010 l’indicatore prima diminuisce e poi aumenta (e viceversa).
Figura 6.5 – Percentuale di persone che dichiarano un cattivo stato di salute
(2007=100)
Fonte: Elaborazioni OCSE basati sulle statistiche dell'Unione Europea sui redditi e condizioni di vita (EU-SILC),
http://epp.eurostat.ec.europa.eu/portal/page/portal/microdata/eu_silc.
Un risultato simile si ottiene utilizzando anche dati provenienti dall’indagine SHARE. In
questo caso, come si può vedere dalla figura 6.6, nei Paesi considerati gli indicatori di
stato di salute auto-dichiarato rimangono pressoché costanti nel tempo, anche se con
qualche eccezione: Germania, Spagna e Svezia che tra il 2006 e il 2011 presentano un
leggero aumento della percentuale di persone con stato di salute “non buono”, ma tale
aumento (soprattutto tra il 2006 e il 2011) non è statisticamente significativo. Al
contrario, per altri paesi si può osservare un miglioramento e non un peggioramento. Un
caso particolare degno di nota è quello della Spagna in cui tra il 2006 e il 2011 si osserva
una bipolarizzazione della distribuzione, con persone nella parte bassa della distribuzione
che riducono il livello di salute e quelli nella parte alta che lo migliorano ulteriormente.
Inoltre, questi risultati sono robusti anche a una suddivisione dei Paesi per tipologia di
sistema sanitario o per zona geografica (Nord, Centro e Sud-Europa).20
20
Vale la pena di rimarcare che la Grecia è stata esclusa dall’indagine poiché nel 2011 non ha
partecipato all’indagine SHARE.
50
Figura 6.6 – Andamento stato di salute auto-dichiarato in Europa - DATI SHARE
(2004-2011)
Fonte: Elaborazioni Fondazione Farmafactoring su dati SHARE
Relativamente all’Italia, secondo le stime provvisorie dell’indagine multiscopo
“Condizioni di salute e ricorso ai servizi sanitari” condotta dall’Istat nel 2012-2013,
relative ai primi due trimestri dell’indagine (settembre e dicembre 2012), l’indicatore di
stato di salute auto-riferito non sembra essere cambiato sia in termini di distribuzione tra
classi di età e sesso, sia in termini di livello tra il 2005 e il 2012. Situazione simile si
riscontra se si fa ricorso agli indicatori di salute auto-riportata contenuti nelle indagini
sugli “Aspetti di vita quotidiana” che sono disponibili su base annuale. Dalla Figura 6.7 si
vede chiaramente come dal 2001 la distribuzione dei pazienti tra i vari stati di salute non
sia è modificata (panel A). Risultati simili si ottengono se il confronto lo si fa sulla
percentuale di pazienti con patologie croniche (panel B), sulle prevalenze di patologie
croniche e sul numero di invalidità: anche in questi casi, nell’arco di 12 anni non si nota
nessun cambiamento significativo (anche a dispetto di un aumento della popolazione
anziana).
51
Figura 6.7 – Andamento stato di salute auto-dichiarato, numero malattie croniche e
prevalenze patologie in Italia – 2001 – 2012
a) stato di salute auto-dichiarato
b) Numero malattie croniche
c) prevalenze patologie
d) Limitazioni delle attivita’
Fonte: Elaborazioni Fondazione Farmafactoring su dati “Aspetti della vita quotidiana” ISTAT.
6.1.c – Gli indicatori sintetici di salute fisica e psichica
A risultati simili si perviene utilizzando la batteria di quesiti SF12 disponibile
nell’indagine Multiscopo sullo stato di salute degli italiani che consente di costruire due
indici sintetici, uno riferito allo stato di salute fisico (PCS12) e l’altro riferito allo stato di
salute psicologico (MCS12). Secondo quanto riportato nel rapporto preliminare di
presentazione dei risultati dell’indagine 2012-2013 (ISTAT, 2013), “all’aumentare dei
punteggi medi degli indici corrispondono valutazioni migliori delle condizioni di salute
psicofisica. La curva discendente con l’età evidenzia un peggioramento dello stato fisico
più marcato rispetto a quello psicologico. Le donne presentano sempre punteggi medi
più bassi per entrambi gli indici. Rispetto al 2005, sembra leggermente migliorare la
percezione delle condizioni di salute fisica e peggiorare quella relativa allo stato
psicologico (principalmente per le persone in età lavorativa): il punteggio medio
dell’Indice di stato fisico per la popolazione di 14 anni e più, controllato per età, aumenta
da 49,9 a 50,7, mentre l’Indice di stato psicologico diminuisce da 49,6 a 48,8” (vedi
Figura 6.8).
52
Figura 6.8 - Indice di “stato fisico” e indice di “stato psicologico” delle persone
di 14 anni ed oltre per sesso e classi di età. Media settembre - dicembre 2005 e
2012, punteggi medi
Fonte: ISTAT (2013)
6.2 Gli effetti della crisi economica sugli indicatori di mortalità: il gradiente territoriale
Il quadro che sembra emergere da questi risultati è di una situazione epidemiologica e di
stato di salute della popolazione italiana complessivamente stabile rispetto alle principali
dimensioni della salute considerate e comunque coerente con il processo di
invecchiamento in corso. Tuttavia, il dato medio complessivo nasconde disuguaglianze
territoriali e sociali che penalizzano alcuni gruppi di popolazione.
Storicamente l’Italia è un paese in cui le diseguaglianze territoriali e socio-economiche
hanno sempre caratterizzato l’evoluzione dei fenomeni, soprattutto quelli di salute. A tal
proposito, basta guardare la Figura 6.9 in cui viene evidenziata la relazione di lungo
periodo che negli anni è esistita tra livelli di mortalità infantile e diseguaglianze nella
mortalità infantile tra le regioni (Quadro A) e l’evoluzione nella aspettativa di vita alla
nascita a livello regionale (Quadro B).
53
Figura 6.9
Quadro A - Relazione tra livelli di mortalità infantile e diseguaglianza regionale
nella mortalità. (1861-2011)
Quadro B – Aspettativa di vita nelle regioni italiane (1861-2011)
Fonte: Atella, Francisci and Vecchi (2013).
L’andamento del tasso di mortalità infantile (quadro A) nelle regioni racconta una storia
di forti differenze regionali che sembrano essere molto legate alle diseguaglianze regionali
nella distribuzione del reddito. La riduzione dei decessi nel primo anno di vita è comune
a tutte le aree del paese, ma la velocità con cui tale progresso si verifica cambia da una
regione all’altra. Il fascio di linee grigie (ciascuna linea rappresenta l’evoluzione del tasso
di mortalità infantile per una data regione) mette in evidenza un processo di divergenza
territoriale – accentuato nel periodo fra le due guerre – a cui segue una fase di convergenza
negli anni del secondo dopoguerra. L’evoluzione della deviazione standard dei tassi di
mortalità regionali (linea rossa, misurata sull’asse verticale di destra). Quanto più alta è la
deviazione standard, tanto maggiore è la disuguaglianza interregionale dei tassi di
mortalità. L’andamento della deviazione standard identifica tre sotto-periodi che si
54
sovrappongono con straordinaria precisione alla tradizionale periodizzazione politica: si
osserva convergenza «lenta» nel corso dell’Italia liberale (la deviazione standard
diminuisce), divergenza nel periodo fra le due guerre (la deviazione standard aumenta) e
convergenza «rapida» nel secondo dopoguerra.
Al tempo stesso, nella figura 6.10 vediamo come i tre sotto-periodi in cui si possono
riassumere gli andamenti della mortalità infantile e della speranza di vita alla nascita sono
strettamente collegati con i sotto-periodi della diseguaglianza dei redditi: sostanzialmente
stabile nell’età liberale, in aumento nell’età del fascismo e in diminuzione fino a metà anni
70, anche se la componente diseguaglianza interna alle regioni del Sud e del Nord ha
continuato a diminuire (i redditi nelle due aree di sono eguagliati), ma è aumentata la
diseguaglianza tra le aree.
Figura 6.10 – Differenziali territoriali nella diseguaglianza dei redditi in Italia
(1871 – 2011)
Fonte: Costa e Vecchi (2011)
Nel 1961, l’Italia si presentava chiaramente bisecata: la linea separatrice è il confine a sud
di Lazio e Abruzzo. Sopra la linea i bambini sopravvivono al primo compleanno più di
quanto non avvenga al di sotto della linea. Le differenze non sono di entità trascurabile:
per un bambino che muore in Toscana ve ne sono due che muoiono in Campania.
Nonostante l’indice di variabilità complessivo indichi che il paese sta andando nella
direzione giusta, le regioni meridionali sono in evidente ritardo. Da allora i divari si sono
ridotti, ma continuano a persistere.
Il quadro B della Figura 6.9 mostra, invece, la speranza di vita alla nascita, che racconta
una storia uguale sotto un’angolazione diversa: esiste una variabilità regionale ampia e
persistente nel tempo. Dall’Unità d’Italia, gli abitanti delle regioni centro-settentrionali
registrano – nel loro insieme – una speranza di vita sistematicamente maggiore di quelle
meridionali: il divario di longevità nel corso degli otto-nove decenni che separano l’Unità
55
dal secondo dopoguerra non solo resta ampia (oscilla all’interno di una banda compresa
fra 10 e 15 anni), ma mostra una tendenza lievemente crescente: per quasi cent’anni della
nostra storia i bambini nati nella regione meno «fortunata» hanno vissuto vite più brevi
dei coetanei nati nella regione più «fortunata». La fortuna di nascere nella regione giusta
si traduceva in un premio pari a circa 12 anni di vita addizionale.
Nella Figura 6.11 è invece possibile vedere la situazione negli ultimi venti anni. Nel 2006
il tasso di mortalità infantile a 5 anni (quadro A) è pari a circa il 2,9 per mille nati vivi nel
Nord, 3,5 nel Centro e al 4 nel Sud e nelle Isole. La fortuna di nascere nella regione
giusta si traduce in un premio pari al 250 per cento di poter sopravvivere ai primi quattro
anni di vita. Negli ultimi anni la mortalità infantile tende a convergere tra le regioni
italiane, sebbene il Sud riporti tassi più elevati del Centro-Nord: il Sud nel 2011 registra
un tasso pari al 3,6 – un punto percentuale in più rispetto al Centro-Nord. Discorso
simile si può fare per i tassi di mortalità generale standardizzati per età. In questo caso si
osserva che i divari sono rimasti immutati, ma il Sud ha tassi superiori rispetto al Nord.
Tuttavia, dal 2011 sembrerebbe esserci un aumento della mortalità in tutte le regioni
italiane e questo aumento è maggiore nelle regioni del Sud dove il tasso passa da circa
854 decessi ogni 100,000 abitanti nel 2010 a 900 decessi nel 2011 (da 822 a 842 punti per
il Nord e da 803 a 831 punti per il Centro). Anche le regioni sottoposte a Piano di
Rientro dal 2007 registrano in media un aumento dei tassi di mortalità: nel 2011 le
regioni con Piano di Rientro registrano una mortalità di 903 contro gli 841 punti delle
regioni non sottoposte a tali Piani.
6.3 Gli effetti della crisi economica sugli indicatori di stato di salute: il gradiente socio-economico
E’ opinione condivisa che la crisi economica abbia colpito alcune fasce di popolazione
più di altre, in particolare quelle con condizioni socio-economiche più svantaggiate. Per
capire se e in che modo ciò sia realmente accaduto in questi anni basta verificare i trend
dello stato di salute della popolazione nel periodo di riferimento, controllando per le
principali caratteristiche socio-economiche. Le informazioni necessarie per questo tipo di
analisi sono quelle contenute nell’indagine annuale ISTAT sugli “Aspetti della vita
quotidiana”.
56
Figura 6.11 – Tassi di mortalità infantile e generale regionale – 1990 – 2011
b) Tasso di mortalità generale standardizzato
0
800
Tassi mortalità regionali
1000
1200
Tassi mortalità infantile regionali
5
10
1400
a) Tasso di mortalità infantile a 5 anni
1996
1998
2000
2002
2004
Anni
Nord
Sud e Isole
2006
2008
2010
1990
2012
1995
2000
Anni
Nord
Sud e Isole
Centro
2010
Centro
c) Tasso di mortalità generale standardizzato per
regioni “senza” e “con” Piano di rientro dal 2010
800
800
Tassi mortalità regionali
1000
1200
Tassi mortalità regionali
1000
1200
1400
1400
c) Tasso di mortalità generale standardizzato per
regioni “senza” e “con” Piano di rientro dal 2007
2005
1990
1995
2000
Anni
Regioni con Piani Rientro
2005
2010
Regioni senza Piani Rientro
1990
1995
2000
Anni
Regioni con Piani Rientro
2005
2010
Regioni senza Piani Rientro
Fonte: Elaborazioni Fondazione Farmafactoring su dati “Indagine condizioni di vita” ISTAT.
Il quadro socio-economico è analizzato dividendo la popolazione in gruppi rispetto alla
situazione professionale, oppure alla posizione professionale nel caso delle persone
occupate. Ciò permette di isolare i lavoratori individuando tra loro dirigenti, impiegati,
lavoratori autonomi e operai, dai pensionati e persone senza occupazione. Dalla figura
6.12 possiamo vedere come la prevalenza delle persone “Molto” o “Abbastanza”
soddisfatte della propria salute prevale rispetto a chi si reputa come “Poco” o “Per
niente” soddisfatto. Chiaramente la soddisfazione della salute diminuisce con l'età degli
individui, trovando sempre meno persone con alto grado di soddisfazione nelle classi di
età più anziane. Oltre a queste differenze ben evidenti, si nota che la soddisfazione della
propria salute cambia rispetto alla situazione professionale delle persone. Infatti,
esaminando i gruppi delle persone occupate, spostandosi dai Dirigenti agli Operai si nota
che il grado della soddisfazione della salute si riduce. A parità di età, gli individui
pensionati e quelli non occupati mostrano livelli di salute peggiori. Tuttavia, guardando
all’evoluzione della salute durante l’intero periodo considerato, non è possibile
concludere che la crisi abbia avuto un qualche effetto sullo stato di salute della
popolazione italiana.
57
Figura 6.12 – Grado di soddisfazione della salute per età, anno e condizione
professionale dei rispondenti (2001-2012).
Fonte: Elaborazioni Fondazione Farmafactoring su dati “Indagine condizioni di vita” ISTAT.
Un quadro simile emerge dalla lettura della Figura 6.13, dove sono analizzate le
prevalenze di alcune malattie croniche rispetto allo stesso quadro socio-economico.
Come noto, anche in questo caso il gruppo dei dirigenti sembra vantare minori tassi di
prevalenze delle malattie croniche, con differenze particolarmente marcate nel caso di
artrosi, diabete, tumori e bronchiti. Il contrario accade per gli operai. Nel caso degli
individui non lavoratori (pensionati e non occupati), le prevalenze delle malattie croniche
sono ancora più marcate rispetto agli individui occupati.
Nel caso dei non occupati tra i 25 e i 39 anni ed anche tra i 40 e i 54 anni le differenze
rispetto ai gruppi coetanei di dirigenti, impiegati, lavoratori autonomi e operai sono
particolarmente sfavorevoli, con maggiori prevalenze dei disturbi nervosi, diabete e
artrosi. Infine, anche questa lettura dei dati evidenzia che pur facendo riferimento a un
altro indicatore di stato di salute non è possibile concludere che la crisi abbia avuto un
qualche effetto sulla salute della popolazione italiana.
58
Figura 6.13 – Prevalenze di malattie croniche per età, anno e condizione
professionale dei rispondenti (2001-2012).
Fonte: Elaborazioni Fondazione Farmafactoring su dati “Indagine condizioni di vita” ISTAT.
59
7. Conclusioni
La crisi economica e il ruolo delle politiche di austerità sulla salute della popolazione. L'entità dello
shock associato con la crisi finanziaria ed economica - la sua durata e i tempi della
ripresa - è stato molto diverso tra i paesi europei e diverse sono state le risposte di
politica economica avviate dai singoli paesi. Alcuni paesi hanno recuperato rapidamente,
altri non hanno messo in atto le politiche che avrebbero permesso di avviare la ripresa
economica e ancora oggi sono caratterizzati dall’assenza di una significativa crescita
economica.
Come conseguenza della crisi economica, la spesa sociale, e quella per la salute in
particolare, è scesa sia in termini assoluti che in percentuale della spesa pubblica totale in
molti paesi. A soffrire di più di questi effetti sono stati sicuramente i paesi in cui il
sistema sanitario è finanziato con i contributi delle persone che lavorano e quelli in cui
l’accesso ai servizi sanitari è “means-tested”: in entrambi i casi, i sistemi sono
particolarmente vulnerabili alle fluttuazioni economiche. Intervenire con politiche
anticicliche può quindi incidere sulla capacità di questi paesi di mantenere un flusso
adeguato e stabile di fondi al settore sanitario. Purtroppo, non sempre questo è
avvenuto e alcuni paesi hanno risentito più di altri degli effetti della crisi sullo stato di
salute della popolazione.
A livello europeo, i sistemi sanitari hanno adottato una vasta gamma di strategie per
affrontare i problemi imposti dalla crisi con meno risorse. Sono state potenziate le
misure per aumentare il mercato dei generici, migliorare le funzioni di procurement,
ridurre i prezzi dei beni e servizi acquistati, riorganizzare la rete dei providers (attraverso
chiusure, fusioni e centralizzazioni). Quasi mai si è intervenuto con riduzioni delle
coperture assistenziali, (e dove lo si è fatto si è poi intervenuto per proteggere le persone
più povere e fragili), ma alcuni paesi hanno differito l’ampliamento di servizi essenziali a
fasce della popolazione che ne avevano bisogno. Capire quanto queste politiche
sanitarie abbiano inciso sulla salute delle persone è difficile da valutare. In alcuni casi ci
saranno stati sicuramente risparmi e maggiore efficienza, in altri (in combinazione con il
calo dei redditi delle famiglie) potrebbero essersi creati una serie di ostacoli che hanno
impedito l’accesso a servizi essenziali da parte della popolazione.
Come ampiamente ricordato in un recente documento del WHO (2013), una pressione
continua per ottenere notevoli risparmi in un breve periodo di tempo può
compromettere la sostenibilità finanziaria del sistema sanitario. Questo concetto è tanto
più vero quanto più i paesi coinvolti sono paesi che hanno avuto tre, quattro o,
addirittura, cinque anni di riduzioni di bilancio nel settore sanitario. Pensare che in
questi contesti, nel breve periodo, si possano generare ulteriori risparmi senza creare
problemi alla fornitura di servizi è improbabile. Inoltre, occorre riflettere sul fatto che
riforme mal progettate e realizzate possono non riuscire ad affrontare le inefficienze o,
addirittura, possono crearne di nuove, minacciando così la sostenibilità finanziaria a
lungo termine. Se non si possono evitare tagli alla spesa pubblica, è importante che essi
siano fatti con cura, al fine di evitare effetti negativi sulla salute e sul benessere. La spesa
pubblica per la salute va considerata come un investimento nello sviluppo sociale ed
60
economico (Fondazione Farmafactoring, 2011). Ha quindi senso economico proteggere
i finanziamenti per i servizi sanitari “cost effective”, compresi i servizi di sanità pubblica (ad
es. prevenzione primaria), che hanno dimostrato di migliorare la salute a costi
relativamente bassi, contribuendo alla ripresa economica (Atella et al. 2013).
Gli effetti della crisi sulla salute degli italiani. Quali sono gli effetti di tali avvenimenti sulla
salute della popolazione? La letteratura economica suggerisce che crisi di questo tipo
hanno conseguenze significative (di breve e di lungo periodo) sui sistemi sanitari dei
paesi e sulla salute dei cittadini. Purtroppo, queste conseguenze non sono sempre facili
da individuare e quantificare, visto che la crisi è ancora troppo vicina (e in alcuni paesi è
ancora presente) per permettere di comprendere fino in fondo tutti i danni che
potrebbe aver causato. La principale conclusione che possiamo trarre da quest’analisi è
che, nonostante tutto, la salute degli italiani in questi cinque anni di crisi continuata ha
“tenuto”, nonostante le condizioni economiche (livello di reddito e diseguaglianza nei
redditi) siano peggiorate in modo sensibile per una grossa fetta della popolazione.
Ciò che emerge dal Rapporto è che si sono avuti degli effetti di breve periodo,
soprattutto in termini di salute mentale e di incidenti. Infatti, le evidenze mostrano che
ci sono aumenti nel numero di suicidi - la punta dell’iceberg della salute mentale - e nei
casi di depressione e ansia. Come in molti altri paesi, e come già accaduto in esperienze
passate, abbiamo assistito a un calo delle morti e degli infortuni per incidenti stradali e a
un aumento delle patologie legate allo stress. Al contrario, non sembrano essere visibili
cambiamenti rilevanti nelle prevalenze delle patologie infettive, cosa che invece è
accaduta in altri paesi (in particolare in Grecia).
Sul fronte dello stato di salute generale e delle patologie croniche, tutte le fonti e tutti gli
indicatori utilizzati hanno mostrato che il sistema complessivo della salute degli italiani
per ora non è stato colpito dalla crisi. I dati ISTAT mostrano una sostanziale stabilità
dal 2000, mentre a seguito della crisi alcuni degli indicatori sembrano essere leggermente
migliorati (per alcuni sottogruppi della popolazione più abbiente). Continuano, invece, a
persistere le diseguaglianze territoriali, demografiche e socio-economiche della salute,
ma anche in questo caso non sembra esserci stato alcun sintomo di un deterioramento
della situazione a seguito della crisi.
Le lezioni per il futuro. Il risultato positivo di uno stato di salute della popolazione
pressoché immutato a seguito della crisi non deve però trarre in inganno pensando che
siamo immuni a questi fenomeni e, soprattutto, che lo saremo in futuro. La crisi ha
posto notevoli sfide per i sistemi sanitari di tutti i paesi più avanzati, in particolare per
quelli europei in cui i sistemi di welfare sono molto generosi. In un contesto in cui da un
lato disoccupazione e povertà faranno aumentare la domanda di servizi sanitari, e
dall’altro i bilanci pubblici continuano ad essere limitati in termini di risorse disponibili,
gli effetti della crisi sulla salute rischieranno di diventare più evidenti col passare del
tempo.
Le politiche sociali possono sicuramente attenuare gli effetti negativi sulla salute,
limitando i periodi di disoccupazione, fornendo reti di sicurezza per le persone senza
lavoro, prevenendo così gli effetti negativi sulla salute dovuti all’essere disoccupato.
Inoltre, il settore sanitario ha un ruolo fondamentale nella protezione sociale fornendo
61
un accesso tempestivo ed equo a servizi sanitari efficaci, garantendo anche che le
persone non subiscano nuove difficoltà finanziarie a causa dei problemi di salute.
In questi casi, il modo in cui si risponde e la velocità della risposta sono, sicuramente, le
armi più importanti a disposizione dei policy maker. Non è difficile immaginare che nei
prossimi anni ci si potrà aspettare un aumento nelle differenze territoriali e regionali
nello stato di salute della popolazione come effetto delle eterogeneità con cui oggi i policy
maker hanno risposto alla crisi.
Le politiche da adottare. La sfida più importante che oggi si possa raccogliere è riuscire a
vedere questa crisi economica e finanziaria come un'opportunità per introdurre riforme
del sistema sanitario e, più in generale, del sistema di sicurezza sociale. E’ noto che più
le riforme coinvolgono importanti cambiamenti strutturali, più sono difficili da attuare
rispetto - per esempio – a semplici interventi che possano tendere a ridurre i prezzi dei
farmaci o introdurre misure di compartecipazione alla spesa. Riforme che incidono in
modo strutturale sul sistema richiedono anche investimenti in capitale umano, fisico e
finanziario, quest’ultimo obiettivo comune per i tagli. Come già ampiamente discusso
nel Rapporto della Fondazione Farmafactoring dello scorso anno, occorre cambiare in
modo strutturale la sanità in Italia, cercando di introdurre politiche efficaci per prevenire
le malattie, rafforzare l'accesso a cure primarie di qualità e migliorare il coordinamento
delle cure, soprattutto per le persone con patologie croniche. I vantaggi di una tale
operazione sono elevatissimi. Purtroppo, però, in questi anni poco di tutto ciò è stato
fatto e, se è stato fatto, si tratta di iniziative locali che non faranno altro che aumentare
le differenze territoriali che in Italia sono già elevate.
Per vincere questa sfida è necessario cambiare rotta su una serie di aspetti che hanno
caratterizzato la politica sanitaria italiana dal 2001 fino a oggi. In primo luogo occorre
evitare che il sistema sanitario nazionale sia l’espressione, a volte schizofrenica, delle
volontà di 21 regioni che, in nome della riforma federalista, interpretano il dettato
costituzionale come la possibilità di operare senza vincoli, salvo poi avere un salvatore di
ultima istanza nello Stato. L’esempio delle regioni con Piani di Rientro è il caso più
eclatante di un modus operandi in completa autonomia da parte dei governatori per cui, alla
fine, chi paga sono i cittadini/pazienti con tasse più elevate e servizi di minore qualità.
Un secondo aspetto è riuscire a identificare e condividere al meglio le best practice presenti
nel settore a livello locale (e sono tante). Per fare ciò occorre, però, una struttura di
raccordo centrale, capace di valutare, trasferire e aiutare a implementare best practices
ovunque ce ne sia bisogno. Infine, occorre un notevole investimento in capitale umano
per permettere un effettivo monitoraggio e una puntuale valutazione di ciò che si sta
facendo. Per fare questo è necessario avere a disposizione dati tempestivi e pertinenti e,
soprattutto, un facile accesso agli stessi.
A scanso di equivoci, vale la pena sottolineare che auspicare un cambiamento in questa
direzione non vuole certo significare voler tornare indietro al dirigismo centralista
precedente agli anni 2000. I vantaggi di una gestione locale più vicina al paziente sono a
tutti noti e, quindi, va preservata. Al tempo stesso occorre però rivalutare il ruolo di
cooperazione e di scambio di esperienze tra regioni e tra centro e regioni che in questi
anni è venuto a mancare per vari motivi. In assenza di tali condizioni, in futuro ogni
situazione di difficoltà sarà sempre un’emergenza, con il rischio sempre maggiore di
rendere il sistema meno sostenibile e la salute dei cittadini più precaria.
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