Il Sistema Sanitario in controluce Rapporto 2014 Prima parte IL SISTEMA SANITARIO IN CONTROLUCE RAPPORTO 2014 Crisi economica, diseguaglianze nell’accesso ai servizi sanitari ed effetti sulla salute delle persone È vietata la riproduzione senza preventivo consenso della Fondazione Farmafactoring INDICE PREFAZIONE .................................................................................................................................. 5 INTRODUZIONE ............................................................................................................................ 8 1. IL PESO DELLA CRISI ECONOMICA SUL BENESSERE DELLE PERSONE ................... 11 1.1 GLI EFFETTI DELLA CRISI ECONOMICA A LIVELLO INTERNAZIONALE ............................................. 11 1.2 L’EFFETTO DELLA RECESSIONE SULLA DISEGUAGLIANZA DEI REDDITI E LA POVERTÀ.................... 14 1.3 IL RUOLO DELLE POLITICHE SOCIALI A SOSTEGNO DELLE FAMIGLIE NEGLI ANNI DELLA CRISI .................................................................................................................................................... 16 2 GLI EFFETTI DELLA CRISI ECONOMICA IN ITALIA......................................................... 20 3. LE RISORSE E LE PROSPETTIVE DEL SETTORE SANITARIO IN ITALIA. ................... 24 3.1. IL FINANZIAMENTO STATALE ORDINARIO DEL SSN PER IL 2014-2018............................................ 25 3.2 LA SPESA SANITARIA PROGRAMMATA PER IL 2014-2018. .................................................................. 27 4. GLI EFFETTI DELLA CRISI ECONOMICA SULLA SALUTE .............................................. 30 4.1 VARIAZIONI NEI LIVELLI DI REDDITO ED EFFETTI SULLA SALUTE ................................................... 30 4.2. VARIAZIONI NELLE DISEGUAGLIANZE NEI REDDITI ED EFFETTI SULLA SALUTE............................. 33 5. LA CRISI ECONOMICA E LE DISUGUAGLIANZE NELL’ACCESSO ALLE CURE SANITARIE: UNO SGUARDO ALLA SITUAZIONE IN ITALIA E IN EUROPA. ................... 37 5.1 DATI E VARIABILI ........................................................................................................................... 38 5.2 METODOLOGIA .............................................................................................................................. 39 5.3 MISURE DI ACCESSO AI SERVIZI DI CURA FORMALI .......................................................................... 39 5.4 DETERMINANTI DELL’ACCESSO AI SERVIZI SANITARI ...................................................................... 40 5.5 I RISULTATI ..................................................................................................................................... 41 5.6 – GLI INDICATORI DI ACCESSO ALLE CURE SANITARIE NELL’INDAGINE ISTAT SULLA SALUTE DEGLI ITALIANI (2012-13)........................................................................................................ 42 6. LA CRISI ECONOMICA E LO STATO DI SALUTE DELLA POPOLAZIONE IN ITALIA: I TREND E I DIFFERENZIALI SOCIO-ECONOMICI. ............................................................... 45 6.1 GLI EFFETTI DI BREVE PERIODO DELLA CRISI ECONOMICA SULLO STATO DI SALUTE ...................... 45 6.2 GLI EFFETTI DELLA CRISI ECONOMICA SUGLI INDICATORI DI MORTALITÀ: IL GRADIENTE TERRITORIALE ..................................................................................................................................... 53 6.3 GLI EFFETTI DELLA CRISI ECONOMICA SUGLI INDICATORI DI STATO DI SALUTE: IL GRADIENTE SOCIO-ECONOMICO .......................................................................................................... 56 7. CONCLUSIONI .......................................................................................................................... 60 BIBLIOGRAFIA .............................................................................................................................. 62 4 Prefazione1 Negli anni ultimi venti anni, a livello mondiale, abbiamo assistito a due fenomeni contrapposti. Da un lato il sorprendente aumento dell’aspettativa di vita della popolazione (circa un anno in più ogni 4 anni), e dall’altro l’aumento della prevalenza delle malattie croniche che si sono diffuse su scala globale, raffigurandosi in alcuni Paesi e per alcune patologie (ad es. il diabete) come vere e proprie epidemie. La diretta conseguenza di tali fenomeni è avere una popolazione più longeva, ma al tempo stesso più malata e bisognosa di cure. Cure che negli anni sono diventate sempre più efficaci e costose, e se da un lato fanno aumentare la speranza di vita, dall’altro creano problemi di sostenibilità finanziaria. Contemporaneamente, il ripensamento dei sistemi di welfare (soprattutto in Europa) e, più recentemente, la crisi globale scoppiata nel 2007 (la più prolungata fase di recessione economica dopo quella del 1929) hanno determinato un aumento considerevole degli indici di povertà e di diseguaglianza, peggiorando in molti casi le diseguaglianze nell’accesso alle cure sanitarie. L’interagire di questi fenomeni clinico-epidemiologici e socio-economici sta producendo effetti che possono essere molto pericolosi per la salute delle persone. Secondo il WHO, situazioni di questo genere dovrebbero portare i governi a rafforzare le reti di protezione sociale per mitigare gli effetti negativi sulla salute. Al contrario, in molti paesi sono state attuate politiche di austerità che sono intervenute in modo sostanziale sulla spesa sociale, rendendo più difficile l’accesso ai servizi sociali (e sanitari in particolare) e dilatando le diseguaglianze. Secondo Ortiz e Cummins (2013), i settori principalmente colpiti dalle misure restrittive sono l’istruzione, la sanità e la spesa sociale. Nel caso particolare della sanità, sono ben 37 i Paesi che, a seguito della crisi economica, dal 2008 hanno avviato delle riforme sanitarie, e molti di questi sono Paesi “sviluppati”(25 su 37). I principali strumenti utilizzati sono quelli dell’aumento della quota di pagamento diretto (out-ofpocket) per i pazienti e misure di contenimento dei costi dei centri che forniscono servizi sanitari. Secondo un recente studio dell’OCSE (Paris, 2013), sono diversi i modi attraverso cui questi tagli si stanno realizzando. Si interviene nel limitare l’accesso a specifici gruppi di popolazione (gli immigrati illegali, oppure i soli residenti, oppure, come in Irlanda, anziani over 70 ricchi); molto più spesso sono aumentati i livelli di compartecipazione alla spesa, insieme con la revisione delle condizioni di esenzione. Al contrario, poco o nulla si è fatto nel cambiare il paniere di servizi offerto (la generosità delle coperture). In una fase di prolungata crisi economica in cui si riduce la capacità di produrre reddito, l’inasprirsi dei sistemi di compartecipazione e il razionamento dei servizi offerti non sono assolutamente neutrali sullo stato di salute della popolazione, e possono generare seri problemi se non sono modulati per la capacità contributiva degli assistiti. Come già evidenziato nel Rapporto 2013 della Fondazione Farmafactoring, la presenza di forti diseguaglianze economiche si riverbera in modo pesante sulle diseguaglianze in termini di salute, causando l’aumento delle patologie esistenti e, soprattutto, la comparsa di “nuove” malattie. Anche se in modo non ancora del tutto evidente, si è assistito a una riduzione della domanda di prestazioni sanitarie e per molti degli indicatori sugli stili di vita (alcol, fumo, droghe, esercizio fisico) sono aumentate le differenze nei comportamenti fra i diversi strati sociali della popolazione: pur con qualche eccezione, risultano più svantaggiati i meno abbienti e meno coloro che hanno più risorse. 1 Alla redazione del presente Rapporto hanno contribuito Vincenzo Atella (coordinatore), Federico Belotti, Felice Cincotti, Valentina Conti, Joanna Kopinska, Andrea Piano Mortari e Cristina Orso. Tutti i dati riportati in questo Rapporto si basano su informazioni disponibili alla data del 12 Maggio 2014, quando lo stesso è stato completato. 5 La disoccupazione rimane il fenomeno più preoccupante della crisi, quello che nel breve periodo genera gli effetti maggiori per la salute in termini di aumento dei disturbi mentali e psicosomatici e dei comportamenti insalubri (es: alcolismo e droghe). Se era abbastanza prevedibile che con la crisi economica potessero aumentare i casi di suicidio e ridursi le morti per incidenti stradali, altre conseguenze immediate quali l’aumento delle patologie infettive trasmissibili (HIV, malaria e tubercolosi) erano meno prevedibili. Senza poi considerare gli effetti di lungo termine che i periodi di prolungata crisi economica hanno sulla salute: in tali frangenti, la normale prevenzione sanitaria è ridotta al minimo se non addirittura annullata, generando effetti a catena i cui risultati saranno osservabili solo a distanza di anni. Nel panorama internazionale l’Italia non fa certo eccezione. Nel Rapporto 2013 della Fondazione Farmafactoring è stato ampiamente documentato come i tagli alla sanità abbiano avuto effetti sostanziali sulla componente della spesa dedicata ai servizi al paziente (minore spesa ospedaliera, specialistica, diagnostica, ecc.), ma scarsi effetti sulla spesa accessoria di funzionamento (servizi non sanitari di varia natura, consulenze, affitti, ecc.) che invece ha continuato a crescere. In tal modo, si è prodotta una riduzione nella possibilità di garantire i LEA che potrebbe aver avuto effetti importanti sulla salute dei cittadini. Rimane quindi da capire se i tagli imposti al sistema sanitario (e a quello sociale più in generale) possano essere visti come un guadagno in termini di efficienza del sistema senza incidere sullo stato di salute della popolazione o, invece, abbiano provocato danni i cui effetti cominciano a vedersi ora, ma saranno molto più evidenti negli anni a venire. Gli obiettivi della ricerca. Basandoci su queste evidenze e sui risultati di precedenti analisi prodotte dalla Fondazione Farmafactoring, il tema sul quale si è deciso di lavorare per il 2014 è quello della relazione tra crisi economica, crescita delle diseguaglianze sanitarie ed effetti di medio e lungo periodo sulla salute delle persone. Come sempre, il Rapporto è prodotto grazie alla collaborazione della Fondazione Farmafactoring con Cergas-Bocconi e Fondazione Censis ed è arricchito dall’intervento di altri importanti ricercatori. L’obiettivo è di continuare nell’opera d’individuazione di spunti interpretativi e di analisi originali sulla realtà sanitaria del nostro Paese, e in particolare sugli aspetti economici, finanziari, gestionali e di rapporto tra i livelli di gestione territoriale della sanità nel nostro paese. In particolare, saranno analizzati i seguenti punti: 1. l’effetto della crisi economica sulla domanda di servizi sanitari e sulla salute delle persone a livello nazionale e regionale, con un particolare focus sulle regioni “con” e “senza” piano di rientro; 2. le modalità con cui le regioni attueranno il Patto della Salute al momento in discussione e come questo inciderà su: a. investimenti in prevenzione; b. realizzazione del piano di trasferimento di azioni dall’ospedale al territorio; 3. gli effetti della crisi economica e del taglio della spesa pubblica sulla spesa sanitaria privata; 4. le implicazioni delle variazioni nello stato di salute della popolazione sullo sviluppo economico. Come consuetudine nelle attività di ricerca della Fondazione Farmafactoring, i temi oggetto delle analisi sono affrontati guardando i problemi da prospettive diverse, con l’intento di riuscire a 6 comprenderli più a fondo e, se possibile, provare a proporre soluzioni di policy innovative. In questo primo appuntamento sono presentati i risultati della prima parte del Rapporto, evidenziando il ruolo che le politiche fiscali implementate negli ultimi anni hanno avuto sulle diseguaglianze negli accessi ai servizi sanitari e, quindi, sullo stato di salute della popolazione. 7 Introduzione E’ noto che la crisi economica globale iniziata nel 2007 ha avuto importanti conseguenze per il benessere economico delle famiglie in termini di più elevata disoccupazione, maggiore incidenza di casi di lavoro temporanei o part-time e di insicurezza finanziaria. La povertà relativa è aumentata nella maggior parte dei paesi OCSE, specialmente tra i bambini e i giovani. La crescente insicurezza economica e le tensioni finanziarie hanno particolarmente colpito le famiglie a basso reddito e con bassi livelli d’istruzione. Dall'inizio della crisi nel 2007, molti lavoratori hanno perso il lavoro e molte famiglie hanno registrato una stagnazione o declino dei livelli di reddito e della ricchezza. A Dicembre 2013, si registravano oltre 46 milioni di disoccupati nell'area OCSE, 11,5 milioni in più rispetto a Luglio 2008. Il numero di persone disoccupate da più di un anno aveva raggiunto 16,5 milioni. Le conseguenze di tale crisi stanno quindi mettendo alla dura prova numerosi settori della politica e, di conseguenza, della vita dei cittadini. Il peggioramento delle condizioni economiche della classe media, l’aumento delle diseguaglianze economiche e i tassi di povertà in aumento rendono ancor più difficile il compito dello stato sociale. Gli effetti economici della crisi si sono poi riverberati su tutti gli aspetti della vita quotidiana delle persone, tra cui quello della salute. La salute è il fondamento della vita, sia dal punto di vista individuale, che collettivo. Limitandosi alla dimensione puramente economica, la salute rappresenta una delle determinanti della produttività e la sua mancanza, oltre alla produttività persa, rappresenta un costo per lo Stato. La crisi economica ha posto anche una serie di difficoltà al settore della sanità. Tanti paesi dell’OCSE hanno introdotto tagli ai finanziamenti della sanità pubblica o intensificato compartecipazioni dei cittadini alla spesa. Con l’obiettivo di rendere più efficiente la spesa sanitaria, si è quindi andato a incidere sulla fornitura dei servizi sanitari pubblici, che per principio dovrebbero garantire la copertura dei costi della prevenzione e dei beni e servizi medici a seguito di malattie ed eventi clinici. Secondo il WHO (2013), la crisi ha rappresentato un pesante shock negativo nei confronti dei sistemi sanitari di tutti i Paesi più industrializzati, generando o un grande effetto “negativo” sulla disponibilità di risorse del sistema sanitario o un grande effetto “positivo” sulla domanda di servizi sanitari. In presenza di tali eventi, solitamente i policy maker hanno di fronte a sé tre sfide da affrontare: i) evitare che interruzioni o riduzioni improvvise delle entrate del bilancio pubblico possano rendere difficile garantire i livelli essenziali di assistenza sanitaria (sono necessarie risorse costanti per permettere investimenti e l’acquisto di beni e servizi); ii) evitare tagli alla spesa pubblica per la sanità in un periodo di crisi economica poiché questi sono i momenti in cui i sistemi sanitari potrebbero richiedere più (e non meno) risorse per affrontare gli effetti negativi della crisi sulla salute; iii) evitare di effettuare tagli arbitrari ai servizi essenziali che possano destabilizzare ulteriormente il sistema sanitario se dovessero comportare una riduzione della protezione finanziaria per le fasce meno abbienti, dell’accesso equo e della qualità delle cure fornite, rischiando di creare danni alla salute e maggiori costi a lungo termine. Per affrontare tali sfide, nel 2009 il Comitato Regionale del WHO per l'Europa decise di adottare una risoluzione (EUR/RC59/R3) con la quale si sollecitavano tutti gli Stati membri a realizzare una serie di azioni che permettessero ai sistemi sanitari di continuare a tutelare e promuovere l'accesso universale ed equo a servizi sanitari efficaci in un periodo di crisi economica. Basandosi su queste evidenze, l’obiettivo di questo Rapporto è analizzare l’impatto che la crisi economica ha avuto sulla salute degli individui e in che modo. Per poter rispondere a una tale domanda, la prima difficoltà da superare è riuscire a identificare i canali attraverso cui la crisi 8 economica può influenzare lo stato di salute della popolazione. Come chiaramente spiegato da Costa et al. (2012), le modalità attraverso cui la crisi economica può influire sullo stato di salute sono di diverso grado: “si parte dalle condizioni del contesto, come le spinte alla globalizzazione, i cambiamenti demografici, le politiche di welfare; dimensioni che sono meno facilmente influenzabili dalle politiche congiunturali; dentro questo contesto agiscono i determinanti distali della salute, quelli che più sono sensibili alla crisi, come il lavoro, la povertà, i servizi e sui quali più spesso agiscono le misure di austerità della crisi; quindi sono da esaminare i determinanti prossimali, cioè quei fattori di rischio che mediano l’effetto sulla salute dei determinanti distali, che sono meno frequentemente presi in considerazione dalle politiche anticrisi; infine ne derivano gli effetti sulla salute e le conseguenze sociali della salute compromessa.” L’elevato grado di complessità del sistema fa si che i rapporti di causa ed effetto possano essere difficilmente individuabili, sia per impossibilità di capire tutte le articolazioni del processo di causazione, sia per ritardi temporali di manifestazione degli effetti. I ritardi temporali sono uno dei problemi maggiori da risolvere, poiché l’impatto della crisi sullo stato di salute non è un fenomeno immediatamente osservabile. Generalmente, se i dati di natura contabile-finanziaria sono disponibili quasi in tempo reale, gli eventuali effetti sulla salute, in termini di morbosità e mortalità, sono rilevabili solo dopo un periodo di latenza che può facilmente variare dai 2 ai 5 anni. Inoltre, i cambiamenti nella dimensione non economica del benessere durante la crisi sono ambigui. Di sicuro, ciò che oggi sappiamo è che la soddisfazione di vita e la fiducia nelle istituzioni è diminuita sensibilmente nei paesi gravemente colpiti dalla crisi e che si è avuta un’impennata nei livelli di stress nelle persone. Tuttavia, gli effetti negativi in termini di health outcome per la popolazione, misurati attraverso una serie di indicatori, nel complesso sono stati relativamente contenuti. Questo risultato, però, non deve portare a pensare che la crisi non abbia avuto un grande effetto sulla salute. Infatti, in primis va ricordato che potrebbe esserci una grossa sottovalutazione del problema, visto che gli effetti della crisi saranno visibili solo nel lungo termine, o potrebbero influenzare gruppi specifici di popolazione, rimanendo così invisibili nelle statistiche aggregate a livello nazionale. Inoltre, è anche possibile che alcune delle conseguenze a breve termine della crisi non siano adeguatamente rilevate dagli strumenti di misura esistenti.2 Infatti, nel breve periodo gli effetti della crisi si producono più lentamente sull’incidenza di alcune patologie, mentre è possibile averne un riscontro più tempestivo sul benessere psicofisico dell’individuo e sulle modalità in cui i cittadini gestiscono il “bene salute”. Nel complesso, i dati disponibili confermano un forte aumento dei suicidi nei paesi più colpiti e un calo dei decessi per incidenti stradali, più rilevanti nei paesi in cui i livelli di incidenti iniziali erano più alti (Stuckler et al., 2011b). Evidenze più dettagliate raccolte in Grecia, il paese europeo maggiormente colpito dalla crisi finanziaria, indicano un peggioramento dello stato di salute mentale negli ultimi due anni (Economou et al, 2011; Madianos et al, 2011). A oggi, la salute mentale è stata l'area più sensibile ai cambiamenti economici. Il declino di lungo termine dei suicidi nell'Unione europea è stato invertito, con incrementi concentrati tra gli uomini in età lavorativa. Nei nuovi Stati membri dell'UE i suicidi hanno raggiunto il picco nel 2009 e sono rimasti a livelli elevati nel 2010. In altri Stati membri nel 2010 sono stati osservati ulteriori aumenti . In Inghilterra è stata confermata la stretta relazione tra perdita del lavoro e livello di suicidi, mentre altre ricerche hanno trovato un'associazione tra il numero dei suicidi e il livello di disoccupazione o la paura di rimanere disoccupati. Anche lo stato generale di salute auto2 Ciò pone l’accento sulla necessità più generale di avere indicatori a più alta frequenza e specifici per particolari gruppi di persone, al fine di monitorare le variazioni di breve termine nel benessere delle famiglie. Una migliore conoscenza di tali variazioni è essenziale per informare i policy makers durante e dopo le recessioni. 9 dichiarato è deteriorato a partire dall'inizio della crisi e c'è stato un aumento significativo del numero di persone che hanno ritenuto di aver bisogno di assistenza sanitaria, ma non hanno potuto accedervi (Kentikelenis et al, 2011). In alcuni Paesi il numero di nuovi casi di HIV tra i tossicodipendenti è aumentato drammaticamente, forse causato dalla riduzione delle prestazione di servizi sanitari (EMCDDA e ECDC, 2011). Nel caso specifico dell’Italia, una serie di lavori hanno analizzato il ruolo della crisi economica sul ricorso all’uso dei servizi sanitari e sulla salute della popolazione. In particolare, in termini di ricorso ai servizi sanitari, l’ISTAT (2013) ha reso noti i dati preliminari dell’indagine sullo stato di salute e sul ricorso ai servizi sanitari della popolazione italiana, mettendo in evidenza che a seguito della crisi c’è stato un deterioramento degli indicatori, in particolare tra gli anziani e le famiglie con basso reddito e bassa istruzione, le categorie più a rischio. Effetti negativi sono stati rilevati anche da Costa et al. (2012), che nel breve termine trovano “indizi preliminari di un aumento di occorrenza di indicatori sfavorevoli di salute mentale (suicidi, depressione, forme di dipendenza) che potrebbero essere spiegati in particolare dall’aumento dell’insicurezza del posto di lavoro… Parallelamente la crisi sembrerebbe essere associata alle riduzioni degli infortuni sul lavoro (per quanto compensato da un aumento di quelli gravi) e degli incidenti stradali, dovute probabilmente alla diminuzione di fattori di pressione, quali l’attività produttiva e i consumi” (p. 338). Leggermente più positivo è il quadro fornito dal Rapporto OsservaSalute 2013, dal quale si evince che la salute degli italiani, misurata in termini di mortalità, ha tenuto nonostante la crisi economica che ostacola prevenzione, accesso alle cure e alla diagnosi precoce. Ciò è dipeso principalmente dalla ridotta mortalità per malattie del sistema circolatorio e per tumori, merito degli investimenti nelle politiche di prevenzione condotti negli anni passati e degli sviluppi in campo diagnostico e terapeutico. In linea con quanto detto in precedenza, a questo risultato sostanzialmente positivo fa da contraltare una visione potenzialmente negativa per il futuro, secondo cui i veri effetti della crisi si vedranno, con molta probabilità, solo nei prossimi anni. In ogni caso, ciò che emerge in modo inequivocabile da tutte le analisi fino ad oggi condotte è il peggioramento delle diseguaglianze sociali e dell’equità nell’accesso alle cure. L’equità è un elemento chiave della fornitura delle cure sanitarie, soprattutto in momenti di crisi. Garantire l’accesso equo alle cure sanitarie vuol dire che l’utilizzo dei servizi e le cure devono avvenire in modo omogeneo a parità di bisogni, indipendentemente da caratteristiche individuali come reddito, residenza geografica, status socio-economico, istruzione, ecc.. Al contrario, esiste una vasta letteratura che mostra come in tanti paesi esistono notevoli diseguaglianze nella sanità. I lavori di Van Doorslaer and Masseria (2004) e di Devaux e Looper (2012) per un gruppo di paesi OCSE fanno vedere come gli individui più ricchi abbiano accesso con maggiore probabilità a visite specialistiche e cure dentistiche. Anche in Europa, Or et al. (2008), trovano che l’utilizzo delle visite mediche specialistiche cresce con il grado d’istruzione. Un altro studio di Bago d’Uva et al. (2008) mostra due tipi di diseguaglianza: da un lato le visite presso il medico di base sono più utilizzate dagli assistiti nelle fasce di reddito basse (diseguaglianza pro-poveri), mentre dall’altro le visite specialistiche sono più utilizzate dalla popolazione appartenente alle fasce di reddito più elevate (diseguaglianza pro-ricchi). Si stima che il più povero decile dei beneficiari di Medicare (il provider della sanità pubblica negli USA) spende circa il 30-40% in più rispetto ai più ricchi. Inoltre, i ricorsi alle ospedalizzazioni nei centri urbani sono più frequenti nel caso delle zone più disagiate delle città, rispetto ai quartieri ricchi. Si stima che una grande parte di queste differenze sia imputabile alle malattie croniche, con le prevalenze più spiccate tra gli strati poveri della società. 10 A differenza di quanto finora fatto e scritto sull’argomento, nelle pagine che seguono verrà fornito un quadro più aggiornato degli effetti della crisi economica sul livello di salute degli italiani e sulle diseguaglianze sociali, provando a contestualizzare tali risultati o in un’ottica temporale retrospettiva di lungo periodo, o in un’ottica di comparazione internazionale. Questo approccio è utile in quanto permetterà di capire meglio l’importanza dei cambiamenti che sono avvenuti e potrà, per quanto possibile, aiutare anche a capire quelli che potrebbero essere i settori e gli ambiti all’interno dei quali è necessario agire con maggiore urgenza. 1. Il peso della crisi economica sul benessere delle persone 1.1 Gli effetti della crisi economica a livello internazionale Tra il 2007 e il 2009, il PIL reale pro-capite è diminuito di quasi il 2,5% l'anno nella zona OCSE nel suo complesso, con una lenta ripresa solo dal 2010. Tra il 2010 e il 2011 il PIL pro-capite è aumentato dell’1% ed è rimasto piatto nel 2012. Nel 2012, per l'area OCSE nel suo complesso, il livello del PIL reale pro-capite è stato ancora dell’1% sotto il livello pre-crisi. Al contrario, secondo i dati di contabilità nazionale il reddito disponibile netto pro capite delle famiglie (HNADI, How’s life – Headline indicator) ha mostrato maggiore resistenza del PIL reale pro capite, con una crescita continua, anche se a tassi molto modesti (Figura 1.1). In particolare, il reddito disponibile pro capite è cresciuto dell'1% nel 2009, quando il PIL reale pro-capite diminuiva del 4%. Tra i paesi dell'OCSE, tuttavia, sia la tempistica che la portata dei cambiamenti del reddito disponibile reale pro capite delle famiglie è stato molto diverso. Nell'area dell'euro, l'impatto della crisi economica sui redditi delle famiglie è stato più ritardato che altrove, ma in generale anche più severo: ha continuato ad aumentare fino al 2009 e ha iniziato a diminuire dal 2010. Tra il 2009 e il 2012, il reddito disponibile pro capite reale delle famiglie è sceso di oltre l'1% all'anno, con un picco negativo nel 2011, quando il PIL reale pro capite aveva iniziato a risalire. Nel 2012, sia il PIL reale che il reddito familiare netto disponibile pro capite è sceso di nuovo. Complessivamente, dall'inizio della crisi, le riduzioni maggiori nel reddito disponibile delle famiglie in Europa sono stati registrati in Grecia (oltre il 10% nel 2010 e nel 2011), Irlanda (quasi il 3% nel 2010, e oltre il 4% nel 2011), Ungheria (4% nel 2009 e del 3% nel 2010), Italia (3% nel 2009 e circa l'1 % nel 2010 e nel 2011), Portogallo (5% nel 2011) e in Spagna (oltre il 4% nel 2010 e 3% nel 2011). Al contrario, Norvegia, Polonia e Svizzera hanno registrato un significativo incremento (2% per anno o più). Negli Stati Uniti, le variazioni del reddito netto disponibile delle famiglie hanno seguito più da vicino i movimenti del PIL, sia in termini di tempistica e le dimensioni reali delle famiglie: il reddito disponibile pro capite e il PIL reale pro capite hanno entrambi avuto una contrazione di circa il 4% nel 2009, con una crescita di entrambi gli aggregati a partire dal 2010. Entro la fine del 2012, il PIL reale pro capite era quasi al suo livello pre-crisi, mentre il reddito disponibile reale delle famiglie è stato del 2% in più rispetto al 2007. In altri paesi OCSE (non europei), la dinamica del reddito disponibile è stata generalmente più resistente alla crisi del PIL reale pro capite, in particolare in Corea e Giappone, così come in Canada e in Australia. Questi diversi andamenti del reddito disponibile netto reale pro capite in tutta l'area OCSE riflettono i diversi andamenti sia del reddito primario (cioè la somma dei redditi da lavoro dipendente, redditi da capitale e risultato di gestione) che di quello secondario (cioè i trasferimenti 11 sociali in natura, trasferimenti di denaro dal settore pubblico, e tasse e contributi sociali versati dalle famiglie), che sono le due grandi componenti del reddito disponibile netto delle famiglie. Figura 1.1 Trend del prodotto interno lordo reale pro capite e del reddito delle famiglie reale durante la crisi Nota: La definizione delle famiglie include istituzioni non-profit che servono le famiglie, tranne per la Nuova Zelanda. I consumi privati delle famiglie sono usati come deflatore per il Reddito disponibile delle famiglie netto (Household net disposable income HDI), mentre i consumi effettivi per il Reddito disponibile delle famiglie corretto netto (Household net adjusted disposable income HADI). Tutti i valori 2012 sono stime basate su OCSE Economic Outlook No. 93. Le stime OCSE 2012 del Reddito disponibile delle famiglie netto escludono la Grecia. Per l'area OCSE nel suo complesso, il reddito primario pro capite delle famiglie è sceso solo nel 2009 (-2,6%) ed è tornato a crescere dal 2010 (di oltre l'1% all'anno, Figura 1.2). Il calo dei redditi primari pro-capite riflette principalmente il calo del risultato di gestione (-4 % nel 2009 ) e dei redditi da capitale (-9 % nel 2009), rispetto ad un più modesto calo dei redditi da lavoro dipendente (-1 % nel 2009). Tra il 2007 e il 2011, i trasferimenti netti versati dalle famiglie sono diminuiti del 20%, mentre i trasferimenti sociali in natura sono aumentati del 10%. 12 Figura 1.2 Formazione del reddito Note: OCSE esclude Australia, Canada, Cile, Israele, Islanda, Svizzera e Turchia. Fonte: elaborazioni OCSE su OECD National Accounts http://dx.doi.org/10.1787/na-data-en Nell'area dell'euro, il calo del reddito primario pro-capite ha seguito un andamento simile a quello della zona OCSE nel suo complesso, anche se entrambi i redditi da capitale e il risultato di gestione hanno continuato a scendere nel 2010 (Figura 1.2). Tuttavia, in contrasto con i trend prevalenti nella zona OCSE nel suo complesso, la redistribuzione del reddito attraverso le tasse e i trasferimenti verso le famiglie ha sostenuto i redditi primari solo fino al 2009; dal 2010, i trasferimenti netti pagati dalle famiglie hanno iniziato di nuovo ad aumentare, mentre i trasferimenti sociali in natura hanno registrato una stagnazione. Negli Stati Uniti, il grande calo dei redditi primari delle famiglie nel 2009 (-8%), il risultato di un tuffo in redditi da capitale (-40%), un forte calo del reddito da lavoro autonomo e abitazioni (-7%) e un piccolo calo di redditi da lavoro dipendente (-4%); al contrario, il reddito secondario (cioè il reddito che il governo ridistribuisce alle famiglie) è aumentato sostanzialmente poco dopo la crisi (Figura 1.2). Un andamento simile si è verificato in Giappone, dove il reddito primario è sceso significativamente nel 2009 come risultato della riduzione dei redditi da lavoro dipendente (-4%) e dei redditi da capitale (-9%), mentre il reddito secondario è aumentato in modo significativo come risultato di una forte riduzione dei trasferimenti netti pagati dalle famiglie. 13 1.2 L’effetto della recessione sulla diseguaglianza dei redditi e la povertà. Tra il 2007 e il 2010, uno dei principali risultati della crisi economica è stato senza dubbio il consistente calo dei redditi da lavoro e capitale (cioè il reddito di mercato) nella maggior parte dei paesi OCSE. La diminuzione di tali redditi (in particolare i redditi da lavoro) ha contribuito a una riduzione del reddito delle famiglie di circa il 2% annuo in termini reali (Figura 1.3). Tuttavia, l’impatto della crisi non è stato condiviso in modo uniforme tra tutti i Paesi. Come si può facilmente vedere dalla Figura 1.4, le disuguaglianze nei redditi tra paesi si sono allargate in modo notevole durante la crisi. In termini del coefficiente di Gini, tra il 2007 e il 2010 (ultimo dato disponibile per le comparazioni) la disuguaglianza tra i paesi OCSE è aumentata di 1,4 punti percentuali. In particolare, guardando a quei Paesi per i quali ci sono dati precedenti alla crisi, si può vedere che la diseguaglianza è aumentata di più tra il 2007 e il 2010, rispetto a quanto osservato nei precedenti 12 anni. L’aumento è stato particolarmente elevato in quei paesi che hanno registrato le maggiori diminuzioni di reddito, come l'Irlanda, la Spagna, l’Estonia, il Giappone e la Grecia, ma anche in Francia e in Slovenia. Nonostante il calo registrato nel reddito di mercato, nello stesso periodo il reddito disponibile delle famiglie, misurato con dati della contabilità nazionale, è aumentato in 12 dei 16 paesi esaminati, a testimonianza del fatto che i sistemi di sicurezza sociale (soprattutto in Europa) hanno funzionato. Infatti, i trasferimenti pubblici ricevuti dalle famiglie sono aumentati in tutti i paesi OCSE tra il 2007 e il 2010. La figura 1.5 mostra che il contributo dei trasferimenti pubblici alla crescita del reddito disponibile è stata più elevata in quei paesi che sono stati più duramente colpiti dalla crisi, con l'eccezione del Messico. In Irlanda, Nuova Zelanda ed Estonia trasferimenti pubblici sono aumentati in modo tale che, se le altre fonti di reddito fossero rimaste costanti, il reddito reale disponibile delle famiglie sarebbe aumentato di circa il 2% all'anno. Figura 1.3 – Variazioni percentuali annue del reddito di mercato delle famiglie, per tipologia di reddito. (2007-2010) Fonte: OECD (2013) 14 Figura 1.4 – Variazioni percentuali indice di Gini (2007-2010) Fonte: OECD (2013) Inoltre, c’è da considerare che mentre la spesa pubblica tende a salire durante le recessioni, le entrate dello Stato tendono a diminuire perché diminuisce la capacità delle famiglie di generare reddito e pagare le tasse e, quindi, il reddito disponibile non si riduce in quanto si pagano meno tasse e contributi sociali. Ciò è quanto avvenuto, in particolare, in Nuova Zelanda, Islanda, Grecia e Spagna. Figura 1.5 – Componenti del reddito disponibile (•% 2007-2010) Fonte: OECD (2013) In sintesi, i dati ci dicono che vi sono state divergenze marcate tra i Paesi nella natura della recessione, con impatti diversi sul mercato del lavoro e sulle sue conseguenze fiscali. Inoltre, è importante ricordare che questi risultati indicano solo l'inizio della storia. I dati a nostra disposizione descrivono l'evoluzione della disuguaglianza del reddito e della povertà solo fino al 15 2010. Negli anni successivi sappiamo che la ripresa economica è stata anemica in molti paesi dell'OCSE e, in casi come l’Italia, si è avuta una seconda fase di recessione tra il 2011 e il 2013. A causa di questa crescita rallentata e/o di nuove fasi di recessione, molte persone hanno esaurito il loro diritto alle prestazioni di disoccupazione e, contemporaneamente, i governi hanno spostato le politiche di bilancio verso azioni di consolidamento. Se continuerà a persistere questa fase di crescita lenta e le misure di consolidamento fiscale saranno attuate in modo completo, le politiche fiscali e previdenziali per mitigare l’aumento dei livelli di disuguaglianza e povertà potrebbero non essere sufficienti. Le conseguenze distributive a lungo termine dipenderanno quindi dal mix di politiche che i governi sapranno adottare per riequilibrare i bilanci pubblici così come i tassi di crescita futuri. 1.3 Il ruolo delle politiche sociali a sostegno delle famiglie negli anni della crisi In un contesto economico come quello qui sopra delineato, il ruolo delle politiche sociali diventa fondamentale per proteggere le fasce della popolazione più deboli. Alti tassi di disoccupazione e i mancati redditi hanno contribuito a peggiorare le condizioni sociali in molti Paesi dell’UE. La capacità dei governi di rispondere a tali sfide è stata limitata dal consolidamento fiscale delle finanze pubbliche. L’andamento al ribasso dei principali indicatori macroeconomici ha avuto forti ripercussioni in particolare sulla sostenibilità dei sistemi sanitari pubblici, in virtù della forte incidenza che la tutela della salute ha sui singoli bilanci nazionali. Tuttavia, i tagli della spesa sociale rischiano di aumentare il livello di bisogni primari disattesi soprattutto per le categorie più vulnerabili, che in futuro potrebbero generare ulteriori e più costosi problemi. La disponibilità di buoni servizi sanitari in un Paese costituisce un elemento fondamentale per garantire un adeguato stato di salute alla popolazione e, conseguentemente, un elevato livello di benessere sociale. Questo paradigma, accettato ovunque a livello internazionale, è quello che ha guidato molte delle decisioni di politica sanitaria in Europa almeno fino agli inizi degli anni 90, facendoci guadagnare, in Italia in particolare, una posizione di rilievo in termini di aspettativa di vita a livello mondiale. Figura 1.6 - Paesi che hanno ridotto la spesa pubblica in % del PIL (2008-15) Fonte: Ortiz e Cimmins (2013), Calcoli degli autori basati sui World Economic Outlook del FMI (October 2012). Purtroppo, i recenti avvenimenti hanno costretto i Governi europei a pesanti riorganizzazioni dei sistemi di sicurezza sociale, con particolare riferimento al sistema delle cure sanitarie. Il primo esempio eclatante di questa tendenza è l’entrata in vigore il primo aprile 2013 dell’Health and social 16 care act, la Legge britannica che ha radicalmente cambiato il volto del National Health Service (NHS). Ma questa tendenza non è stata limitata solo al Regno Unito. Come già evidenziato nel Rapporto Fondazione Farmafactoring dello scorso anno (Fondazione Farmafactoring, 2013), Ortiz e Cummins (2013) hanno di recente effettuato un ampio lavoro di rassegna sui documenti di proiezione della spesa pubblica preparati dal Fondo Monetario Internazionale per 181 Paesi, comparando il tipo di politiche attuate in quattro distinti periodi: 2005-07 (pre-crisi), 2008-09 (fase I della crisi: espansione fiscale), 2010-12 (fase II della crisi: avvio della contrazione fiscale) e 201315 (fase III della crisi: intensificazione della contrazione fiscale). Quello che si nota da questo studio comparativo è che dopo lo stimolo fiscale della prima fase, dal 2010 si sono succeduti una serie di interventi di contenimento della stessa, nonostante la quota della popolazione vulnerabile e bisognosa di assistenza continuasse ad aumentare. Secondo i documenti del FMI, nel 2013 ci si aspetta che il consolidamento della spesa pubblica a livello internazionale aumenti, con ben 119 Paesi che vedranno ridurre la quota di spesa pubblica sul Pil, per raggiungere poi quota 132 Paesi nel 2015 (vedi fig. 1.6). Questo trend dovrebbe continuare fino al 2016. Contrariamente a quanto si possa immaginare, le misure di austerità non sono limitate all’Europa; infatti, molti dei principali interventi di austerity sono stati avviati anche nei paesi in via di sviluppo. Figura 1.7 – Tassi di crescita della spesa sanitaria media OCSE in termini reali, dal 2000 al 2011, pubblica e totale Fonte: OECD Health Data 2013. Nel complesso, in termini di popolazione colpita, tali misure avranno effetto su ben 5,8 miliardi di persone, pari a circa l’80% della popolazione totale nel 2013; nel 2015 questa quota dovrebbe poi salire al 90%, con una popolazione colpita pari a circa 6.3 miliardi di persone. Il settore della salute è tra quelli principalmente colpiti dalle misure restrittive. Sono ben 37 i paesi che hanno visto avviare riforme sanitarie, e molti di questi sono paesi sviluppati (25 su 37). I principali strumenti utilizzati sono quelli dell’aumento della quota di pagamento out-of-pocket per i pazienti e misure di contenimento dei costi dei centri che forniscono servizi sanitari. Dopo il rilevante calo nel 2010, nel 2011 la spesa sanitaria è rimasta invariata nei paesi OCSE visto il perdurare della crisi economica, in particolare nei paesi europei più colpiti dalla crisi (vedi fig. 1.7). Tutti i settori della sanità sono stati colpiti dai tagli. La spesa farmaceutica è stato un obiettivo primario, con una spesa lieve calo nel 2010, seguita da tagli profondi nel 2011. Molti paesi hanno aumentato la 17 compartecipazione dei costi per i prodotti farmaceutici, hanno imposto riduzioni nei prezzi e nelle coperture, e hanno promosso l'uso di farmaci generici. In più dei tre quarti dei paesi OCSE la spesa per la prevenzione e per la salute pubblica è stata tagliata, anche se questi interventi, in genere, rappresentano solo una piccola parte dei budget complessivo. Inoltre, in molti paesi si è tentato di contenere la crescita della spesa ospedaliera – la più importante voce di spesa tagliando i salari, riducendo il personale ospedaliero e letti, e aumentando la compartecipazione per i pazienti. Nell’UE la risposta dei sistemi sanitari alla crisi è stata molto diversa (Mladovsky et al., 2012). Alcuni paesi non hanno adottato nuove politiche, mentre altri ne hanno introdotte molte. Alcuni sistemi sanitari erano sicuramente meglio preparati di altri a intervenire, poiché avevano già avviato una serie di importanti misure prima della crisi, atte ad accumulare riserve finanziarie. Ci sono poi stati casi in cui politiche programmate prima del 2008 sono state attuate con maggiore intensità o velocità, in quanto diventate più urgenti o politicamente fattibili di fronte alla crisi. Ci sono stati anche casi in cui, in risposta alla crisi, le riforme pianificate sono state rallentate o abbandonate. Nel complesso, i Paesi dell’UE hanno impiegato un mix di strumenti politici in risposta alla crisi finanziaria. Alcune delle risposte politiche sono state positive, suggerendo che alcuni paesi hanno utilizzato la crisi per aumentare l'efficienza. Aspetto importante e caratterizzante i sistemi sanitari dell’UE, l'ampiezza e la portata della copertura sanitaria è rimasta in gran parte inalterata e, in alcuni casi, i benefici sono stati ampliati per i gruppi a basso reddito. Tuttavia, alcuni paesi sono intervenuti aumentando le compartecipazioni per servizi essenziali, cosa che rappresenta un motivo di preoccupazione. Infine, poco è stato fatto per aumentare l’efficienza attraverso politiche volte a migliorare la salute pubblica. Secondo Ortiz e Cummins (2013) le politiche fiscali restrittive di questi anni avranno effetti negativi che aggraveranno la crisi occupazionale diminuendo il sostegno pubblico nel momento in cui ce ne sarà maggiore bisogno. Il costo dell’aggiustamento sarà quasi interamente traslato sulla parte di popolazione più debole che vedrà ridotta in maniera rilevante la possibilità di accedere a servizi essenziali, primi tra tutti quelli sanitari. Questo effetto risulta essere molto chiaro andando ad analizzare la percentuale di individui che dichiara l’impossibilità di accedere a servizi medici (unmet needs) per motivi finanziari. Come si può vedere dalla figura 1.8, le esigenze mediche insoddisfatte sono aumentate in diversi paesi (Figura 1.8, Pannello A) con i maggiori aumenti osservati in Grecia, Italia e Islanda. L'aumento è più evidente per le persone nei quintili di reddito più basso (Figura 1.8, pannello B), confermando le evidenze secondo cui le persone a basso reddito possono rimandare cure mediche in presenza di difficoltà finanziarie (Sumner e Wolcott, 2009). Questo è uno dei motivic he impone di dover monitorare gli effetti delle strategie di risanamento di bilancio sulla spesa sanitaria, e in particolare il modo in cui potrebbe influenzare lo stato di salute dei diversi sottogruppi di popolazione. Karanikolos et al (2013) hanno poi mostrato come le origini della crisi economica in Europa e le risposte dei governi stanno avendo effetti importanti sui sistemi sanitari e sulla salute della popolazione. Se era abbastanza prevedibile che con la crisi economica potessero aumentare i casi di suicidio e ridursi le morti per incidenti stradali, altre conseguenze immediate quali l’aumento delle patologie infettive trasmissibili (HIV, malaria e tubercolosi) erano meno prevedibili. Senza poi considerare gli effetti di lungo termine che i periodi di prolungata crisi economica hanno sulla salute: in tali frangenti la normale prevenzione sanitaria viene ridotta al minimo se non addirittura annullata, generando effetti a catena i cui risultati saranno osservabili solo a distanza di anni. 18 Figura 1.8 – Percentuale di individui che hanno dichiarato problemi di accesso ai servizi sanitari e bisogni non soddisfatti per Paese e livello di reddito, Unione Europea Impossibilità di accedere ai servizi sanitari Bisogni sanitari non soddisfatti Fonte: European Union Statistics on Income and Living Conditions (EU-SILC). Un ultimo aspetto da considerare, e che emana in modo diretto dal cambiamento delle politiche sociali in tempo di crisi, è il conflitto tra lavoro e vita. Secondo i lavoratori europei, tale rapporto sembra essersi notevolmente deteriorato negli anni dopo l'inizio della crisi, a causa di una combinazione nella percezione di maggiore pressione sul lavoro, un aumento delle ore senza vita sociale e un aumento nella insicurezza percepita del lavoro (McGinnity e Russell, 2013). La pressione percepita sul lavoro è stata misurata nel sondaggio sociale europeo basato sulle seguenti domande: "Il mio lavoro richiede che io lavoro molto di più" e "Non mi sembra mai di avere abbastanza tempo per fare tutto nel mio lavoro". In base a queste definizioni, la pressione del lavoro è aumentata in diversi paesi europei tra il 2004 ed il 2011 (primo ed ultimo anno disponibili nelle indagini). L'aumento è stato particolarmente forte nei paesi del Sud e in Francia, ma anche in altri paesi dell'Europa continentale. Tale aumento potrebbe aver avuto origine dalla ristrutturazione delle imprese in seguito alla crisi, ma anche dall'aumento delle tensioni finanziarie sulle famiglie colpite dalla disoccupazione o dal taglio dei salari (Gallie e Zhou, 2013). Inoltre, l’aumento della pressione sul lavoro è stato accompagnato da un aumento delle ore senza vita sociale, soprattutto in alcuni paesi gravemente colpiti dalla crisi come Grecia, Spagna ed Estonia. Le ore senza vita sociale sono particolarmente dannose per l'equilibrio vita-lavoro, in particolare per quanto riguarda gli impegni familiari (Barnes et al., 2006). 19 2 Gli effetti della crisi economica in Italia Tra gli stati membri dell’Unione Europea, l’Italia è stata sicuramente uno dei paesi più colpiti dalla recessione, che si è presentata in due diversi momenti tra il 2007 ed il 2013 (vedi Figura 2.1). Nel 2008 e 2009, il PIL italiano è diminuito rispettivamente dell’1,2 e del 5,1%. Nei due anni successivi la ripresa è stata debole, con il PIL che ha registrato un incremento del 1,7% nel 2010 e solo dello 0,4% nel 2011. Successivamente, nel 2012 si è avuto un riacutizzarsi della crisi, con un crollo del -2,4% del PIL, seguito da un ulteriore diminuzione dell’1,8% nel 2013. A fine 2013 l’Italia risulta essere l’unico tra i Paesi più industrializzati a non aver ancora recuperato il livelli di PIL del 2001 (vedi Figura 2.2). Figura 2.1 – Andamento PIL italiano, dati trimestrali - Var. % e valori assoluti. Fonte: elaborazioni Fondazione Farmafactoring su dati Centro Studi Confindustria e ISTAT. Secondo i dati riportati da ISTAT, la crisi ha ridotto la ricchezza prodotta e ha colpito in maggior misura i redditi bassi, penalizzando soprattutto i lavoratori con minori competenze e retribuzioni. Nel 2012 in Italia la percentuale di individui a rischio povertà o esclusione sociale è salita al 29,9% (da 28,2% nel 2011), la quota più alta tra i paesi dell’Eurozona, a eccezione della Grecia (34,6%). L’Italia in questo momento è molto lontana dagli obiettivi di Europa 2020: nel 2012 le persone a rischio di povertà o esclusione sociale superavano i 18 milioni, il 30% in più rispetto al target europeo. 20 Figura 2.2 – Comparazione livelli di PIL (2001=100) Fonte: elaborazioni Fondazione Farmafactoring su dati OCSE. Figura 2.3 – Relazione tra variazioni nel reddito disponibile delle famiglie e variazioni nel PIL (2007-2012) Fonte: elaborazioni Fondazione Farmafactoring su dati OCSE. A livello dei paesi OCSE più avanzati, l’Italia risulta essere uno dei paesi con il sistema di aiuti ai redditi meno efficace in assoluto. Infatti, guardando la Figura 2.3 si nota chiaramente come l’Italia, insieme con la Spagna, siano gli unici due paesi dove nel periodo della crisi (2007-2012) alla riduzione del PIL si sia legata una pressoché equivalente riduzione del reddito disponibile delle famiglie. Al contrario, in paesi come UK, Finlandia e Danimarca la recessione del PIL è stata accompagnata da un aumento del reddito disponibile, segno di un sistema di ammortizzatori sociali che funziona. 21 Questa inefficienza del sistema di sostegno ai redditi ha permesso che nel 2012 più di un italiano su tre soffra di almeno uno dei tre disagi che caratterizzano l’indice di rischio di povertà o esclusione sociale: uno su dieci vive in una famiglia con bassa intensità di lavoro (10,3%), uno su cinque è a rischio di povertà dopo i trasferimenti sociali (19,4%) e uno su sette patisce forti mancanze materiali (14,5%). La marcata crescita di quest’ultimo gruppo è un dato preoccupante: in particolare si registra che tra il 2011 ed il 2013 la quota di individui che dichiara di non poter sostenere spese impreviste è passata dal 38,6% al 42,5%, quella di coloro che riferiscono di non poter riscaldare adeguatamente l’abitazione dal 18,0% al 21,2%. Il trend crescente del disagio economico delle famiglie è confermato anche dai dati del Censis: nel 2013 il 24,3% delle famiglie intervistate fa fatica a pagare tasse o bollette. Figura 2.4 La povertà non va in recessione in Italia (Famiglie e individui in condizione di povertà assoluta x1000) Fonte: elaborazioni Centro Studi Confindustria su dati ISTAT. La crisi ha aumentato anche la povertà assoluta: nel 2012 le famiglie in condizione di povertà assoluta erano 1 milione e 725mila (il 6,8% del totale), gli individui sfioravano i 5 milioni (l’8,0% della popolazione residente). Tra il 2011 e il 2012 si è registrato un vero e proprio balzo: il numero delle famiglie in condizione di povertà è salito del 33,0% e quello degli individui del 41,0% (Figura 2.4). Una diretta conseguenza dell’impoverimento è il cambiamento dei modelli di consumo delle famiglie, che cercano di ricomporre il proprio paniere di beni riducendone la quantità e/o la qualità, e concentrando gli acquisti presso luoghi di distribuzione dove è possibile effettuare i risparmi più consistenti. Nel Rapporto Farmafactoring 2013 era già stato messo in risalto il ruolo che la crisi economica stava avendo nel cambiare i comportamenti degli italiani, in particolare nella sfera dei consumi e degli acquisti, con riduzione del consumo di alcuni alimenti tipici della buona dieta (frutta, verdura e pesce), o con la rinuncia forzata a palestre e piscine. Tale atteggiamento coinvolge ormai il 62,3% delle famiglie con un incremento di una percentuale vicina al 9% nell’ultimo anno, periodo in cui l’acquisto presso l’hard discount è passato del 10,5% al 22 12,3%. Anche il consumo di “servizi sanitari” regge tra 2010 e 2011, quando addirittura aumenta rispettivamente dell’1% e del 2,2%, salvo poi registrare una riduzione nel 2012 (-2,5%).3 Ed è ormai ampiamente evidente che l’impatto piscologico e materiale della crisi non lascia indenne l’area delle opzioni relative alla salute, penalizzando maggiormente i gruppi sociali a più basso reddito (anche se si è registrato qualche effetto positivo, ad esempio inducendo una quota di soggetti a rinunciare per ragioni economiche ad acquistare sigarette, con un effetto netto positivo sulla propria salute). Da diversi anni una serie di analisi condotte dal CEIS Tor Vergata, dal CENSIS e dal CERGAS hanno evidenziato come dal 2008 stiano emergendo chiari segnali per cui gli italiani stanno adattando il loro comportamento nel consumo del “bene salute”. L’indagine Fbm-Censis del 2012 evidenziava che il 35% degli italiani si è rivolto alle strutture sanitarie pubbliche, accettando liste d’attesa più lunghe, per ottenere prestazioni che avrebbero acquistato direttamente da strutture private. Una minor disponibilità di reddito sembrerebbe quindi incentivare un maggior ricorso alla sanità pubblica, accettando maggiori disagi e tempi più lunghi, e rinviando il ricorso a prestazioni sanitarie meno urgenti, come dimostra quel 18% di italiani che ha rinviato visite specialistiche private ed odontoiatriche. Questo comportamento è in linea anche con quanto già rilevato dall’“VIII Rapporto Sanità” del CEIS Tor Vergata, secondo cui la spesa sanitaria privata si sarebbe ridotta del 2,7% medio annuo tra il 2001 e il 2007, per poi crollare del 4,8% tra il 2007 e il 2009. Inoltre, quasi il 21% degli italiani, sempre secondo il Censis, ha ridotto l’acquisto di farmaci pagati di tasca propria: più del 23% dei 45-65enni, cosa che sembra essere giustificata dalla stima del rapporto Oasi 2012 di Cergas-Bocconi secondo cui l’aumento dei ticket sui farmaci sarebbe stato nel 2012 del 40%. 3 Documento di Economia e Finanza 2013. Audizione del Presidente dell’Istituto nazionale di statistica Prof. Enrico Giovannini, presso le Commissioni congiunte di Camera e Senato. Roma, 23 aprile 2013. 23 3. Le risorse e le prospettive del settore sanitario in Italia. I dati riportati nei precedenti capitoli hanno chiaramente evidenziato due aspetti fondamentali: i) l’impatto della crisi è stato maggiore sulle popolazioni più svantaggiate; ii) le politiche sociali hanno sostenuto le famiglie più bisognose non più oltre il 2011 e da quel momento si è assistito a una continua riduzione di tutte le forme di ammortizzatori sociali e di interventi nel sociale, sanità inclusa (vedi Figura 1.7). Questi effetti sono stati particolarmente marcati in Italia, dove la situazione dei conti pubblici, i vincoli imposti dall’Europa e un sistema assistenziale poco efficiente e efficace hanno mitigato poco gli effetti negativi e hanno limitato notevolmente le possibilità di azione. Obiettivo di questo capitolo è, quindi, quello di analizzare il ruolo delle politiche fiscali in Italia nel periodo della crisi e di capire quali possibilità di manovra ci saranno in futuro, soprattutto in termini di risorse per il SSN. Nel recente Documento di Economia e Finanza per il 2014 (DEF 2014) il governo ha delineato lo scenario tendenziale e programmatico dei conti pubblici per il prossimo quinquennio. La nuova programmazione prevede uno slittamento del conseguimento del pareggio di bilancio in termini strutturali dal 2015 al 2016 e il ricorso ad una nuova manovra di correzione, di cui non sono ancora noti i dettagli, pari allo 0,2% del Pil nel 2015 e allo 0,6% annuo negli anni seguenti. Nello stesso tempo il governo intende avviare, già a partire da quest’anno, una riduzione del cuneo fiscale, per riportarlo in linea con quello dei principali paesi europei, utilizzando a tal fine i risparmi del programma di revisione della spesa pubblica (cosiddetta spending review)4. Quali le prospettive per il Servizio sanitario e in generale per l’intero settore nell’immediato futuro? Indicazioni appropriate possono essere ricavate ricostruendo il finanziamento statale ordinario per il SSN, sulla base dei provvedimenti presi nell’ultimo anno, e esaminando lo scenario ufficiale del settore e dei conti pubblici contenuto nel DEF 2014. Si tratta, però, di indicazioni parziali, poiché il settore potrebbe essere “interessato” dall’adozione delle misure necessarie a realizzare gli obiettivi fissati dal governo e in particolare della spending review. Con riferimento a quest’ultima, dalla sua attuazione il governo conta di recuperare complessivamente 4,5 miliardi di euro nel 2014, 17 miliardi nel 2015 e 32 miliardi nel 2016. Al momento, però, il governo non ha ancora definito i provvedimenti necessari per la sua attuazione, che consentirebbero di stimare l’eventuale impatto sul SSN e sul settore sanitario. Tuttavia, alcune indicazioni possono essere ricavate dal Piano presentato lo scorso marzo dal Commissario straordinario per la spending review5. Secondo tale Piano, i risparmi di spesa sanitaria conseguibili sarebbero di almeno 300 milioni di euro nel 2014, 800 milioni nel 2015 e 2 miliardi nel 2016. A questi si aggiungerebbe una parte non ancora specificata di quelli che si intende conseguire dall’efficientamento dell’attività di procurement della PA, ossia delle spese sostenute per l’acquisto di beni e servizi, nel complesso pari a 800 milioni di euro per l’anno in corso, 2,3 miliardi di euro nel 2015 e 7,2 miliardi nel 2016. Sebbene occorra usare molta cautela, non può essere esclusa la possibilità che anche la sanità venga chiamata a dare un contributo al progetto di riduzione del cuneo fiscale.6 Tale eventualità 4 Cfr. MEF, 2014, p. 100-103. Cfr. http://www.ansa.it/documents/1395249927493_PianoCottarelliSlide.pdf. 6 Va, infatti, considerato che il Piano è “solo” un elenco di possibili tagli, la cui effettiva attuazione spetterà al governo sulla base “di una scelta politica legata agli obiettivi di bilancio e riduzione della tassazione”. 5 24 contribuisce a spiegare perché il nuovo Patto per la salute, dato per “fatto” nei mesi scorsi, non sia ancora stato definito: le Regioni, infatti, vorrebbero che i risparmi conseguibili mediante opportuni interventi di efficientamento che sarebbero disposte a realizzare si reinvestano nel settore per migliorare e potenziare l’offerta di assistenza. 3.1. Il finanziamento statale ordinario del SSN per il 2014-2018. Nel corso dell’ultimo anno, l’azione complessiva di governo ha consentito un incremento del finanziamento statale ordinario del SSN, nonostante i tagli varati nella recente Legge di Stabilità. Decisiva a tal riguardo è stata la decisione del governo di rinunciare all’introduzione a partire da quest’anno di nuovi ticket per un ammontare di 2 miliardi di euro annui, secondo le disposizioni della manovra sanitaria adottata nel 2011. Tale decisione presa nell’aprile dello scorso anno7, si è concretizzata con la Legge di Bilancio 2014-2016, in cui lo Stato ha incrementato, con proprie risorse, il finanziamento statale ordinario del SSN dell’ammontare necessario per coprire il mancato gettito dei ticket. 8 Con la Legge di Stabilità 2014, invece, tra misure di incremento e quelle a riduzione, il finanziamento statale ordinario è stato incrementato di appena 5 milioni di euro per il 2014 e ridotto di 535 milioni nel 2015 e di 605 milioni a decorrere dal 2016. Da una parte, infatti, il finanziamento disponibile è stato aumentato di 5 milioni di euro annui per consentire alle strutture pubbliche di effettuare in via sperimentale lo screening neonatale per la diagnosi precoce di patologie metaboliche ereditarie9. Dall’altra, il finanziamento è stato ridotto dello stesso ammontare dei risparmi che si prevede di conseguire con nuove misure di contenimento della spesa per il personale dipendente e convenzionato, pari a 540 milioni di euro per il 2015 e di 610 milioni a decorrere dal 2016.10 Nella Tabella 3.1 abbiamo ricostruito il finanziamento statale ordinario programmatico. La procedura utilizzata segue da vicino quella a cui ha fatto riferimento il Ministro della Salute nel corso dell'audizione del 22 gennaio 2014, presso la Commissione Affari sociali della Camera, sulle “Iniziative in corso per la definizione del nuovo Patto per la salute per gli anni 2014-2017”.11 Rispetto alle stime allora presentate, le nostre tengono conto del nuovo scenario Inoltre, l’ammontare dei risparmi conseguibili dalla spending review “conteggiati” nel DEF 2014 e quelli stimati nel Piano, che ammontano a 7 miliardi di euro per quest’anno, a 18,1 miliardi per il 2015 e a 33,9 miliardi per il 2016. 7 Cfr. MEF, 2013. Ha pesato su tale scelta anche la consapevolezza delle difficoltà di raggiungere il necessario accordo con le Regioni, dopo che la Corte Costituzionale aveva ritenuto illegittima (Sentenza n. 187 del 2012), la “potestà” che il governo si era attribuito di poterne regolamentare autonomamente l’introduzione (Dl 98/2011, art. 17, comma 1, d). 8 L. 148/2013, Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2014 e bilancio pluriennale per il triennio 2014-2016. 9 Cfr. L. 147/2013, art. 1, comma 229. 10 Cfr. L. 147/2013, art. 1, comma 481. In particolare, la minore spesa del SSN deriverebbe dal blocco per il periodo 2015-2017 dell’indennità di vacanza contrattuale, con un risparmio di 140 milioni di euro per il 2015 e 210 a decorrere dal 2016, e dalla limitazione delle risorse destinate al trattamento accessorio del personale, con una minore spesa di 400 milioni annui a decorrere dal 2015. Per le norme in esame, cfr. commi 452-455, 456 e 477 della legge di stabilità 2014. 11 Per il resoconto stenografico dell’audizione, cfr. http://www.camera.it/leg17/1058?idLegislatura=17&tipologia=audiz2&sottotipologia=audizione&anno= 2014&mese=01&giorno=22&idCommissione=12&numero=0009&file=indice_stenografico. 25 macroeconomico, contenuto nel DEF 2014.12 Tabella 3.1 - Il finanziamento statale ordinario per il SSN (2013-2018) (valori in milioni di euro) 2012 2013 2014 2015 2016 Finanziamento a leg. 108,780 111,794 116,236 119,143 122,792 vigente Dl 98/2011 0 -2,500 -5,450 -5,450 -5,450 Dl 95/2012 -900 -1,800 -2,000 -2,100 -2,100 Legge stabilità 2013 0 -600 -1,000 -1,000 -1,000 Altre misure 81 115 115 115 115 Annullamento ticket 0 0 2,000 2,000 2,000 Effetti LS 2014 0 0 5 -535 -605 - personale 0 0 0 -540 -610 - screening neonatale 0 0 5 5 5 Finanziamento progr. 107,961 107,009 109,906 112,173 115,752 Fonte: Elaborazioni Fondazione Farmafactoring su documenti ufficiali 2017 2018 126,781 131,019 -5,450 -2,100 -1,000 115 2,000 -605 -610 5 119,741 -5,450 -2,100 -1,000 115 2,000 -605 -610 5 123,979 Si è prima provveduto a definire un finanziamento tendenziale per gli anni 2014-2018, mantenendo l’incidenza rispetto al Pil al livello registrato nel 2013. Il finanziamento tendenziale, ottenuto in tal modo viene corretto per l’impatto delle manovre varate nel corso degli ultimi anni – in particolare, del Dl. 98/2011, del Dl. 95/2012, della legge di stabilità 2013 e di altri provvedimenti specifici13 - e di quelle più recenti, contenute nella Legge di Bilancio e in quella di Stabilità per il 2014. In questo modo il finanziamento del SSN sale a 109,9 miliardi quest’anno, a 112,2 miliardi nel 2015, a 115,8 nel 2016 e a 119,7 nel 2017. Nella figura 3.1 abbiamo riportato la dinamica del finanziamento statale a partire dal 2002.14 Le elaborazioni effettuate mostrano come dal 2010 i tassi di crescita si siano notevolmente ridotti rispetto a quelli degli anni precedenti: in particolare, nel 2013, per la prima volta, il finanziamento statale ordinario si è ridotto in termini nominali rispetto a quello dell’anno precedente, segnando un rilevante punto di discontinuità rispetto al passato. A partire dal 2014 il finanziamento statale, in attesa dei tagli della spending review, dovrebbe tornare a crescere a tassi via via più sostenuti, del 3% in media d’anno. 12 In quell’occasione, le stime del finanziamento statale ordinario erano state ottenute sulla base dello scenario macroeconomico definito nella Nota di Aggiornamento al DEF 2013. Cfr. http://www.camera.it/temiap/temi17/TABELLA_Lorenzin_22-1-2014.pdf. 13 Si tratta in questo caso del maggior finanziamento previsto per il superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari (Dl. 211/2011) e per l’assistenza ai lavoratori extracomunitari emersi (Dlgs. 109/2012), compensato dal taglio di 70 milioni di euro annui dal 2013, che sono invece riservati agli accertamenti medico-legali (Dl. 98/2011). 14 In particolare, per il 2006 i dati comprendono anche l’integrazione al finanziamento 2006 stabilita con la legge finanziaria 2007 e per il 2007-2009 il finanziamento straordinario per le Regioni impegnate nei Piani di Rientro.. 26 Figura 3.1 – Il finanziamento statale del SSN (2002-2018) 5,0 130 4,0 120 3,0 2,0 110 1,0 0,0 100 -1,0 -2,0 90 2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013 tassi di var. (sc. sx.) 2014 2015 2016 2017 2018 miliardi euro (sc. dx) Fonte: elaborazioni Fondazione Farmafactoring su Documenti Ufficiali MEF 3.2 La spesa sanitaria programmata per il 2014-2018. Nella tabella 3.2 abbiamo riportato la programmazione sanitaria contenuta nel DEF 2014, messa a confronto con quella elaborata nei precedenti documenti di programmazione, in modo da dare evidenza anche alle ripetute revisioni al ribasso della spesa sanitaria in conseguenza, oltre che di aggiornamenti delle stime, delle diverse manovre adottate.15 Al contrario, nella Figura 3.2 abbiamo riportato il finanziamento ordinario per il SSN e la sua evoluzione nel tempo a seguito delle diverse manovre. La spesa sanitaria considerata in questa sede corrisponde a quella del conto consolidato della sanità elaborato dall’ISTAT in cui confluiscono oltre alle spese sostenute dal SSN (ASL, AO, IRCCS e i policlinici universitari pubblici) anche quella di altri enti che pure non operano solo in campo sanitario (ad es., le amministrazioni provinciali e comunali). 15 Si evince allo stesso modo anche la decisione presa all’inizio dello scorso anno, di abolire l’introduzione di nuovi ticket: nel DEF 2013 la spesa è aumentata al netto di revisioni della dinamica tendenziale della spesa, di 2 miliardi rispetto a quella prevista in precedenza. 27 Figure 3.2 – Effetto manovre fiscali su finanziamento SSN 125.000 120.000 115.000 110.000 105.000 100.000 2008 2009 2010 2011 Finanziamento tendenziale Post manovre 2010 Post manovre 2012 Post manovre 2013 2012 2013 2014 2015 Post manovre 2011 Fonte: elaborazioni Fondazione Farmafactoring su Documenti Ufficiali MEF Il DEF 2014 riporta per il periodo 2010-2013 i nuovi dati di consuntivo disponibili di spesa sanitaria e la stima per quelli successivi. Nel 2013 la spesa sanitaria è stata inferiore a quella prevista anche a grazie agli effetti di trascinamento della revisione della spesa per il 2012 che è risultata inferiore di 1,2 miliardi rispetto alla previsione contenuta nel DEF 2013. Rispetto alla previsione iniziale della XVI legislatura (DPEF 2009-2013), nel 2013 la spesa si è ridotta complessivamente di 20,7 miliardi di euro (il 15,9% in meno), ben sopra quella registrata per la spesa primaria, pari al 10,3%. Per il 2014-2017, al netto degli effetti di trascinamento, si registrano cambiamenti marginali, in parte riconducibili a interventi adottati nel corso dell’ultimo anno e in parte per variazione delle previsioni.16 Più precisamente, per l’anno in corso il governo stima un incremento della spesa sanitaria del 2%, che diventa del 2,2% in media d’anno a partire dal 2016. Ciò denota una dinamica della spesa sanitaria più vivace, anche se di poco, rispetto a quella delineata nella programmazione dello scorso anno (DEF 2013), dove il tasso di crescita medio della spesa sanitaria si manteneva sotto il 2% annuo. In tal modo la spesa dopo aver raggiunto il 7% del Pil nel 2013, si manterrebbe invariata nel biennio 2014-2015 per poi scendere di 0,1 punti percentuali a partire dal 2016 e di 0,2 punti percentuali nel 2018. La spesa sanitaria aumenta, invece, rispetto alla spesa primaria: in attesa di una definizione più puntuale della spending review, l’incidenza sulla spesa primaria passa dal 15,2% nel 2013 al 15,8% nel 2018. 16 La Legge di Stabilità 2014, infatti, oltre a quelle sul finanziamento ordinario per il SSN citate in precedenza, contiene altre norme che comportano un aumento della spesa grazie all’incremento delle risorse per l’assistenza sanitaria ai cittadini italiani all’estero, per i soggetti danneggiati in ambito sanitario (emotrasfusi), per il finanziamento dei policlinici universitari gestiti direttamente da università non statali e dell’Ospedale Bambino Gesù e per la formazione specifica in medicina generale. 28 Tabella 3.2 - Programmazione della spesa sanitaria nei conti pubblici (2009-2018) (importi in milioni di euro) 2009 2010 2011 2012 Spesa sanitaria tendenziale 111.592 116.007 120.656 125.156 Quota su Pil 6,8 6,9 6,9 7,0 DPEF 2009-2013 Quota sulla spesa primaria 15,5 15,7 15,9 16,1 Tasso di variazione (in %) della SS 0,9 4,0 4,0 3,7 Spesa sanitaria tendenziale 112.929 114.719 118.364 122.769 Quota su Pil 7,4 7,4 7,4 7,4 DPEF 2010-2013 Quota sulla spesa primaria 15,5 15,8 16,1 16,3 Tasso di variazione (in %) della SS 3,8 1,6 3,2 3,7 Spesa sanitaria tendenziale 110.588 114.707 117.134 120.786 Quota su Pil 7,3 7,4 7,3 7,2 RUEF 2010 Quota sulla spesa primaria 15,2 15,6 15,8 16,0 Tasso di variazione (in %) della SS 1,9 3,7 2,1 3,1 Spesa sanitaria tendenziale 110.435 113.457 114.836 117.391 Quota su Pil 7,3 7,3 7,2 7,1 DEF 2011 Quota sulla spesa primaria 15,2 15,7 15,8 16,1 Tasso di variazione (in %) della SS 1,8 2,7 1,2 2,2 Spesa sanitaria tendenziale 110.474 112.742 112.039 114.497 Quota su Pil 7,3 7,3 7,1 7,2 DEF 2012 Quota sulla spesa primaria 15,2 15,6 15,5 15,8 Tasso di variazione (in %) della SS 1,5 2,1 -0,6 2,2 Spesa sanitaria tendenziale 112.526 111.593 110.842 Quota su Pil 7,3 7,1 7,1 DEF 2013 Quota sulla spesa primaria 15,6 15,5 15,5 Tasso di variazione (in %) della SS 1,9 -0,8 -0,7 Spesa sanitaria tendenziale 110.474 112.526 111.094 109.611 Quota su Pil 7,3 7,3 7,0 7,0 DEF 2014 Quota sulla spesa primaria 15,2 15,6 15,5 15,3 Tasso di variazione (in %) della SS 1,45 1,9 -1,3 -1,3 Fonte: Elaborazioni Fondazione Farmafactoring su documenti ufficiali. 2013 129.916 7,0 16,3 3,8 127.677 7,4 16,6 4,0 2014 122.102 7,2 16,4 4,0 114.727 7,1 15,8 0,2 111.108 7,1 15,3 0,2 109.254 7,0 15,2 -0,3 126.512 7,2 16,6 3,6 115.421 6,9 15,7 0,6 113.029 7,0 15,6 1,7 111.474 7,0 15,3 2,0 2015 2016 2017 2018 118.497 6,9 15,8 2,7 115.424 117.616 6,9 6,8 15,6 15,7 2,1 1,9 113.703 116.149 7,0 6,9 15,5 15,6 2,0 2,2 119.789 6,7 15,7 1,8 118.680 6,9 15,8 2,2 121.316 6,8 15,8 2,2 29 4. Gli effetti della crisi economica sulla salute Quantificare gli effetti della crisi sulla salute è un compito molto difficile per un duplice motivo. Da un lato gli effetti delle recessioni sullo stato di salute si possono manifestare anche con anni di ritardo; dall’altro, non sempre sono disponibili dati tempestivi e pertinenti sullo stato di salute della popolazione. In quest’ultimo caso, anche i dati di mortalità più elementari sono spesso disponibili solo dopo diversi anni, rendendo impossibile la valutazione degli effetti di breve periodo della crisi sulla salute. A ciò si aggiunga che la disponibilità di altri indicatori sulla morbilità e sull’utilizzo dell'assistenza sanitaria sono difficili da ottenere e solo raramente sono comparabili a livello internazionale. Inoltre, ancor più difficile è riuscire a quantificare gli effetti sulla salute delle politiche che i vari governi hanno avviato come risposta alla crisi. Queste limitazioni nella disponibilità dei dati ci impongono di dover analizzare gli effetti di lungo periodo solo in una logica di analisi retrospettiva, confrontandoci con quanto accaduto nel passato, utilizzando poi tali informazioni per fare inferenza sul futuro. In alternativa, gli effetti di breve periodo possono essere analizzati solo in presenza di dati adeguati a cogliere il fenomeno. Inoltre, in linea con quanto fatto in letteratura, cercheremo di distinguere gli effetti sulla salute dovuti a variazioni nei “livelli” di reddito dell’economia da quelli dovuti a variazioni nella “diseguaglianza” dei redditi. 4.1 Variazioni nei livelli di reddito ed effetti sulla salute La letteratura sugli effetti delle crisi e dei cicli economici sulla salute e il benessere degli individui sembra indicare l’esistenza di un effetto negativo della disoccupazione sul benessere, come mostrato per esempio a Clark e Oswald (1994).17 E’, però, vero che il quadro complessivo è molto più complicato, con notevoli sfumature e risultati a volte contro-intuitivi. Gli effetti di una recessione sulla salute dipendono da una complessa serie di fattori, tra cui quali sottogruppi di popolazione o patologie sono stati considerati, il livello generale di sviluppo del paese, il livello di povertà, il debito elevato, la disoccupazione, la precarietà e lo stress del lavoro, tutti fattori di rischio per la salute della popolazione (Stuckler e Suhrcke, 2012; WHO, 2011). Così, cambiamenti nelle circostanze economiche che espongono più persone a questi fattori pongono lo stato di salute degli individui a maggior rischio. La letteratura economica abbonda di studi che hanno cercato di capire l’effetto di variazioni nel livello del reddito sulla salute della popolazione. Importanti da questo punto di vista sono stati i lavori condotti analizzando il periodo relativo alla Grande Depressione negli Stati Uniti (1929 – 1937). Attraverso tali analisi si è potuto capire che nelle fasi di recessione se da un lato i suicidi aumentano, la mortalità generale si riduce a causa di una diminuzione delle malattie infettive e degli incidenti stradali (Fishback, Haines & Kantor, 2007). Un più recente studio condotto negli USA da Stuckler et al. (2011a), utilizzando dati di mortalità per causa a livello di città e di Stato, ha mostrato che, oltre ad un aumento dei suicidi e a una riduzione dei decessi per incidenti stradali, non si sono registrate variazioni nella mortalità generale collegata alla depressione. Il caso dei Paesi dell’ex Unione Sovietica è sicuramente tra i più interessanti per capire gli effetti della recessione dopo il crollo dell’URSS nei primi anni 1990, che ha avuto conseguenze devastanti per la salute della popolazione in tutta la regione, con aumenti di mortalità fino al 20% in alcuni 17 Per un’analisi più completa della letteratura in materia si veda Frey (2008). 30 paesi (Stuckler, King & McKee, 2009). Il ritmo imposto dalla transizione da un sistema pianificato a uno di mercato, compresa la privatizzazione di massa di molti servizi sociali e l'assenza di una rete di sicurezza sociale in alcuni paesi, ha colpito duramente i tassi di aspettativa di vita. Molti paesi ex-comunisti hanno riacquistato i loro livelli di aspettativa di vita pre-transizione solo due decenni più tardi. Tuttavia, si è notato che le conseguenze negative delle riforme economiche implementate in modo così rapido sono risultate minori in quei paesi in cui molte persone erano affiliate ad organizzazioni sociali come i sindacati, gruppi religiosi o club sportivi (Stuckler, King & McKee, 2009). Un altro caso emblematico è quello dei paesi colpiti dalla crisi economica del Sud Est asiatico del 1990. Tailandia e Indonesia, che hanno ridotto la spesa per la protezione sociale, hanno sperimentato un aumento a breve termine della mortalità, mentre la Malesia, che è riuscita a sostenere programmi di protezione sociale, non ha mostrato alcun cambiamento evidente nei tassi di mortalità (Waters, Saadah e Pradhan, 2003; Hopkins, 2006; Chang et al., 2009). Questi esempi mostrano come i risultati in termini di salute che fanno seguito a periodi di recessione possono differire, in parte a causa del contesto e dei motivi della crisi, ma anche a seconda della risposta di politica economica e sociale del paese. Al contrario di questi studi, altre analisi che utilizzano dati a livello aggregato hanno mostrato che la salute potrebbe non essere influenzata da crisi economiche nei paesi ad alto reddito, e che la mortalità tende a diminuire quando l'economia rallenta e aumentare quando l'economia accelera (Ruhm, 2000, 2003, 2008; Gerdtham e Ruhm, 2006). Questo effetto è stato osservato, almeno nel breve periodo, e l’importanza dell'effetto varia notevolmente con l’età degli individui (Joyce e Močan, 1993), con il sesso (Chang et al., 2009), il tipo di malattie (Waters, Saadah e Pradhan, 2003), e i risultati sono abbastanza sensibili agli indicatori utilizzati per misurare il cambiamento economico (Gerdtham e Johannesson, 2005; Svensson, 2007; Economou, Nikolau e Theodossiou, 2008; Stuckler, Meissner & King, 2008).18 Mentre alcune cause di morbilità e mortalità sembrano aumentare durante le fasi di recessione, altre non lo fanno. Il tipo di patologia studiata è senza dubbio uno degli elementi più importanti nel determinare l’effetto (positivo o negativo) della crisi sull’indicatore di health outcome (mortalità o morbilità). Nel caso del consumo di alcool, la relazione con i periodi di crisi economica è più difficile da stabilire, anche se è abbastanza riconosciuto che le variazioni di reddito delle famiglie a causa della crisi economica hanno un effetto sui comportamenti a rischio, quali i livelli di fumo e i consumi di alcol (Stuckler et al, 2009; Stuckler, Basu e McKee, 2010; Suhrcke et al, 2011). Una ricerca condotta negli Stati Uniti indica che il consumo globale può diminuire durante una recessione, riflettendo scarsità di mezzi, ma il consumo da parte di individui già a rischio potrebbe aumentare. Purtroppo, le evidenze in Europa in tal senso sono ancora limitate. Le recessioni hanno anche un effetto sulle morti da incidenti stradali, che tendono a diminuire, riflettendo un minore utilizzo dell'auto. Una riduzione dei decessi da incidenti stradali è stata osservata in diversi paesi europei, in particolare quando i tassi erano inizialmente alti. 18 Notando la natura contro-intuitiva di questi risultati, Catalano e Soffietti (2005) hanno suggerito che le recessioni possono avere un impatto positivo sulla salute, perché un aumento del tempo libero permette alle persone di impegnarsi in attività di miglioramento della salute come l'esercizio fisico, o perché riducono i consumi di cibo e alcol. 31 L'esperienza di essere disoccupati è stata anche associata a un maggiore rischio di una successiva depressione o malattia mentale (Barnes et al, 2009; Browning e Heinesen, 2012), così come l'ospedalizzazione o la mortalità per alcolismo, incidenti stradali, e autolesionismo (Eliason e Storrie, 2009; Browning e Heinesen, 2012). Uomini e donne in età lavorativa con più bassi livelli di istruzione sono a maggior rischio di mortalità durante le recessioni finanziarie (Edwards, 2008). L'esposizione alla precarietà del lavoro, soprattutto se cronica, sembra poter incidere negativamente sullo stato di salute auto-dichiarato e positivamente sulla morbilità psichiatrica (Ferrie et al., 2002). Crombie (1990) e Ruhm (2000) trovano che i suicidi aumentano in tempi di recessione. Kentikelenis et al. (2011) e Stuckler et al. (2011) forniscono prove simili per alcuni paesi europei durante l'attuale crisi. In 26 paesi europei esaminati da Stuckler et al. (2009), tra il 1970 e il 2007 un aumento dell'1% del tasso di disoccupazione è stato associato con un aumento dello 0,8% dei suicidi tra gli individui di età inferiore a 65 anni, e con un simile aumento nel numero di omicidi. Lo stesso studio rileva che un aumento della disoccupazione di 3 punti percentuali o più è associata con più morti da abuso di alcool. Efficaci ammortizzatori sociali possono mitigare l'effetto negativo sulla speranza di vita della popolazione o ridurre i tassi di mortalità per qualsiasi causa (Gerdtham e Ruhm, 2006; Stuckler e Suhrcke, 2012) anche durante le recessioni gravi. Nel complesso, la ricerca suggerisce la necessità di monitorare attentamente i risultati di salute di coloro che sono particolarmente vulnerabili durante i periodi di difficoltà finanziarie (Stuckler, Basu e McKee, 2010), cioè i disoccupati, quelli con bassi livelli di istruzione, e quelli che vivono in povertà o con alti livelli di indebitamento. Un discorso a parte meritano gli effetti delle recessioni sulle malattie infettive. E' difficile prevedere come le malattie infettive risponderanno alla crisi economica. La risposta dipende dalla presenza di focolai di infezione e mezzi di trasmissione (ad esempio insetti vettori) in una popolazione, nonché dal livello di investimenti in sorveglianza e controllo della salute pubblica. In alcuni dei paesi che hanno sperimentato le misure di austerità più profonde si è avuto il riemergere di malaria e la trasmissione di dengue fever. Recentemente, la Grecia ha registrato un importante aumento di infezioni da HIV tra i consumatori di droga per via endovenosa, in coincidenza con sostanziali riduzioni nei finanziamenti che evitavano lo scambio degli aghi. La ricerca finora si è concentrata sui risultati in termini di salute in cui il ritardo tra recessione economica e la morte o la malattia è breve, come ad esempio nel caso di salute mentale, infezioni e lesioni. Tuttavia, è molto probabile che ci possano essere effetti sulla salute che potrebbero non manifestarsi per qualche tempo. Questi possono derivare da variazioni di accesso della popolazione ai servizi necessari, come la corretta gestione della malattia cronica con la partecipazione del paziente e l'aderenza al trattamento. Ci sono evidenze, in particolare da Grecia e Spagna, di crescenti difficoltà di accesso cure necessarie (vedi anche Cap. 6 in questo Rapporto). Alcuni paesi hanno compiuto notevoli sforzi per assorbire i tagli ai budget sanitari, riducendo il costo dei servizi finanziati con fondi pubblici (ad esempio, il prezzo dei prodotti farmaceutici e i livelli dei salari del settore pubblico), proteggendo così l'accesso ai servizi necessari. Tuttavia, altri cambiamenti politici, quali la chiusura degli impianti, riduzione del personale e orari di apertura ridotti, così come i diritti d'utenza più elevati, si può aspettare di limitare l'accesso. Per impedire l'accesso a cure tempestive ed efficaci, questi cambiamenti sono suscettibili di incorrere in maggiori costi finanziari ed umani, per esempio aumentando il rischio di amputazioni, cecità o insufficienza renale tra le persone con diabete o suicidi tra quelli con problemi di salute mentale. Finora, tuttavia, non vi è stata alcuna ricerca approfondita su questo tema. 32 In generale, questo tipo di letteratura ha anche osservato che gli effetti negativi sulla salute possono essere parzialmente mitigati dalla fornitura di programmi di reinserimento di lavoro e di sostegno alle famiglie durante i periodi di instabilità economica, così come il mantenimento di una stretta regolamentazione del settore delle bevande alcoliche, per evitare che l’elevato consumo di alcool possa generare un effetto moltiplicativo. Se tali misure sono in vigore, i benefici per la salute delle crisi economiche, come ad esempio il calo incidenti stradali come a causa di un minor numero di persone in auto, tendono a superare i rischi, migliorando la salute della popolazione, almeno nel breve periodo. In sintesi, mentre sono necessarie ulteriori ricerche per capire gli effetti di lungo periodo e gli effetti indiretti delle crisi economiche sui sistemi sanitari e sulla salute, alcune evidenze tratte da precedenti eventi, soprattutto quelli in cui si è avuto un aumento della disoccupazione, hanno mostrato che queste sono dannose per la salute pubblica (Kaplan, 2012; McKee, Basu e Stuckler, 2012). In questi casi, il mantenimento di livelli adeguati di spesa per la protezione sociale, in particolare sui programmi attivi del mercato del lavoro, è in grado di ridurre gli effetti negativi sulla salute. 4.2. Variazioni nelle diseguaglianze nei redditi ed effetti sulla salute. La diseguaglianza nei redditi e il ruolo che essa ha sui fenomeni sociali e sanitari è un argomento che negli ultimi anni ha ricevuto molte attenzioni nei dibattiti sia tra gli studiosi che tra i policy makers. Secondo gli economisti, la diseguaglianza in piccole dosi rappresenta un incentivo necessario per incoraggiare le innovazioni o le imprese a rischiare, investire e, quindi, stimolare la crescita economica. Arthur Okun (1975) sosteneva che la piena eguaglianza e la piena efficienza non possono co-esistere, e deve sempre esserci un compromesso, per cui per il raggiungimento di un obiettivo occorre sacrificare l’altro. Mentre questo punto di vista rimane attuale, il recente aumento della diseguaglianza, accompagnata alla bassa crescita economica di tanti paesi, pone dei quesiti nuovi. Come è possibile vedere dalla Figura 4.3, a partire dagli anni ’50 nei paesi più industrializzati le diseguaglianze di reddito hanno subito un sostanziale calo fino alla fine degli anni settanta, mentre dagli anni ottanta in poi hanno ricominciato a salire, e il trend è rimasto immutato fino ai nostri giorni. Svezia e Danimarca erano e rimangono i paesi meno diseguali. Il primato, in termini di diseguaglianza, sin dagli anni novanta, spetta invece agli Stati Uniti e alla Gran Bretagna. 33 Figura 4.3 – Andamento della diseguaglianza nei Paesi OCSE (1960-2011) Fonte: elaborazioni Fondazione Farmafactoring su dati Eurostat Se e quanto occorra preoccuparsi per questo aumento delle diseguaglianze è un argomento molto dibattuto nella letteratura socio-economica. Recentemente, in Inghilterra Wilkinson e Pickett (2009) hanno brillantemente posto all’attenzione dei policy makers questo problema e da allora il dibattito è stato molto acceso. A quel lavoro hanno poi fatto seguito una serie di altri studi, che mostrano come effettivamente ci sia una correlazione tra diseguaglianza dei redditi e problemi sanitari e sociali. All'interno di ogni società, gli individui con redditi più elevati ottengono risultati migliori. Sembrerebbe, quindi, esserci un chiaro “gradiente sociale” per la salute, il che significa che ogni passo sulla scala socio-economica porta a un aumento della salute. Questo risultato è abbastanza importante da un punto di vista delle opzioni di policy disponibili, in quando tende a suggerire che le disuguaglianze nello stato di salute non sono, quindi, solo una questione di povertà, ma sono legate alla disuguaglianza economica nel senso più ampio. Ciò che è meno chiaro è se ogni passo lungo la scala migliora la salute nello stesso modo. Studi più recenti hanno anche cercato di capire se oltre ad una correlazione tra i due fenomeni esista una vera causazione. Su questo aspetto c'è meno accordo, anche se una serie di studi rigorosi forniscono prova a supporto di tale ipotesi. La spiegazione più plausibile per spiegare il ruolo della disuguaglianza sui problemi sanitari e sociali è lo “stato di ansietà”. La disparità di reddito è dannosa perché pone le persone in una gerarchia che aumenta la competizione e causa stress, che a sua volta peggiora le condizioni di salute e genera altri esiti negativi. A dimostrazione di tale tesi, ci sono poi alcune ricerche che hanno confrontato diversi gruppi di popolazione in diversi paesi, ottenendo come risultato che i gruppi con livello socio-economico più basso in paesi caratterizzati da minore diseguaglianza hanno dei risultati migliori degli omologhi gruppi in paesi più diseguali. Per capire meglio il ruolo delle diseguaglianze economiche sullo stato di salute di una popolazione (misurato in termini di aspettativa di vista alla nascita o di mortalità infantile) è utile guardare a una serie di relazioni che legano i due fenomeni in un contesto di comparazione internazionale. Nella Figura 4.4 è riportata la correlazione che esiste tra l’aspettativa di vita di alcuni paesi OECD ed il 34 coefficiente Gini del reddito. Da tale grafico si può facilmente vedere che esiste una relazione negativa, con l’aspettativa di vita che diminuisce all’aumentare dell’indice di Gini. Figura 4.4 – Relazione tra Indice di Gini e aspettativa di vita – 2010 Fonte: elaborazioni Fondazione Farmafactoring su dati OECD Nella Figura 4.5 viene invece riportata la relazione tra mortalità infantile e indice di Gini. Anche in questo caso l‘interpretazione dei risultati conduce a una conclusione simile: più è alto il grado di diseguaglianza di reddito, maggiore è il tasso di mortalità infantile. Un altro aspetto importante del ruolo giocato dalle diseguaglianze economiche è quello di incidere sulle forme di finanziamento dei sistemi sanitari. Nella Figura 4.6 si vede chiaramente come più è alto l’indice di Gini, minore è la percentuale di spesa sanitaria pubblica sul totale. Questo risultato è oltremodo importante in quanto è ampiamente dimostrato che le diseguaglianze nella salute possono derivare dalla tipologia di finanziamento del sistema sanitario. Come denotano Devaux e Looper (2012) e van Doorslaer and Masseria (2004), un iniquo utilizzo dei servizi sanitari ha spesso radici nei costi delle cure sopportate dagli assistiti, oppure il fatto di necessitare un’assicurazione sanitaria privata. Or et al. (2008) mostrano come l’iniquità negli accessi alle visite mediche diminuisce quando si riduce la proporzione di finanziamento privato sulla spesa sanitaria totale. Inoltre, Huber et al. (2008) suggeriscono che il finanziamento privato disincentivi gli individui al corretto uso dei servizi sanitari (lo riduce), specie nel caso di individui a rischio di esclusione sociale. Discorso simile vale per le spese out-of-pocket che sono un importante deterrente negli accessi ai servizi sanitari, introducendo un ulteriore diseguaglianza in termini di salute. 35 Figura 4.5 – Relazione tra Indice di Gini e mortalità infantile – 2010 Fonte: elaborazioni Fondazione Farmafactoring su dati OECD Nella Figura 4.7 possiamo osservare la relazione positiva che esiste tra l’indice di Gini e la percentuale della spesa out-of-pocket per i cittadini. Anche in questo caso Gelormino et al. (2011) e Or et al. (2008) evidenziano come alte spese out-of-pocket possono ripercuotersi pesantemente sugli individui meno abbienti, i quali scoraggiati dal pagamento “extra” non ricevono le cure necessarie, peggiorando la loro salute e creando un “circolo vizioso”. Figura 4.6 – Relazione tra indice di Gini e quota spesa sanitaria pubblica - 2010 Fonte: elaborazioni Fondazione Farmafactoring su dati OECD 36 Figura 4.7 – Relazione tra indice di Gini e spese out-of-pocket - 2010 Fonte: elaborazioni Fondazione Farmafactoring su dati OECD 37 5. La crisi economica e le disuguaglianze nell’accesso alle cure sanitarie: uno sguardo alla situazione in Italia e in Europa. Gli indicatori legati all’utilizzo dei servizi sanitari, pur non fornendo informazioni dirette sulla salute delle persone, possono, in particolari contesti, essere considerati come anticipatori dello stato di salute della popolazione. Infatti, in periodi di crisi si tende a osservare un calo del ricorso ad alcuni servizi sanitari che vanno letti come riduzione dell’investimento in salute da parte degli individui, i quali successivamente potrebbero trovarsi con uno stato di salute inferiore. Ciò che si osserva in Europa e che, negli ultimi decenni, le condizioni medie di salute sono migliorate progressivamente, accompagnate da un decremento del tasso di mortalità, un aumento della speranza di vita, e dai continui progressi della ricerca scientifica. Tuttavia, lo stesso non può essere affermato per ciò che concerne le disuguaglianze che interessano la sfera socio-economica, in particolare il reddito. Al crescere di quest’ultime (anche a causa della crisi economica in corso) è associato un incremento delle disuguaglianze in termini di salute. Mediamente la salute tende a migliorare, e la mortalità diminuisce, ma ciò ha luogo in particolare fra chi appartiene ai ceti sociali più agiati, mentre, spesso, non si verifica per gli individui in condizioni economiche svantaggiate (si veda, per esempio, Zucchelli, 2009). Accanto alle disuguaglianze di salute, anche le disuguaglianze nell’accesso ai servizi e alle cure sanitarie, fortemente interrelate con fattori di tipo socioeconomico, costituiscono un importante problema di policy. Pertanto, una più approfondita conoscenza delle dinamiche, delle potenziali determinanti e del loro “peso” nel processo di formazione di tali disuguaglianze, potrebbe costituire elemento di interesse per i policy makers e punto di partenza su cui costruire interventi mirati alle fasce più deboli della popolazione. L’obiettivo di questo capitolo è quindi quello di capire: i) se esistono diseguaglianze nell’accesso ai servizi sanitari (nello specifico, visite ambulatoriali, medico di base, visite specialistiche, e ricoveri ospedalieri), sia a livello italiano, sia nel contesto europeo; ii) se le diseguaglianze sono aumentate con la crisi economica; iii) quali sono le principali determinanti delle diseguaglianze 5.1 Dati e Variabili I dati utilizzati per questo studio sono quelli dell’Indagine su Salute, Invecchiamento e Pensioni in Europa (SHARE – Survey of Health, Ageing and Retirement). SHARE è una banca dati multidisciplinare (contenente informazioni dettagliate su salute, status socio-economico, relazioni sociali e familiari) e multi-paese, che ha come target la popolazione ultracinquantenne di diversi stati europei. Per la nostra analisi utilizziamo, nello specifico, i dati di tre distinte indagini, le prime due rispettivamente condotte negli anni 2004/2005 e 2006/2007, mentre l’ultima (Indagine 4) condotta nel 2011/2012. Ciò consente di indagare le dinamiche sull’accesso ai servizi di cura formale (e le relative disuguaglianze espresse sulla base del reddito) sia nel periodo antecedente alla crisi economica, sia durante il verificarsi della stessa, a livello italiano ed europeo. I paesi “monitorati” sono Italia, Spagna, Germania, Austria, Svezia, Paesi Bassi, Francia, Danimarca e Belgio. La peculiarità dell’Indagine SHARE consiste nella ricchezza di informazioni sia sullo stato di salute (salute percepita, funzionalità fisica e cognitiva, comportamenti rischiosi per la salute, 38 accesso ai servizi medici) sia sulla condizione socio-economica degli individui intervistati, che consente di svolgere un’analisi empirica accurata sulle disuguaglianze nell’accesso ai servizi sanitari formali. Questa tipologia di informazioni, collocate in un contesto contraddistinto da un rapido invecchiamento della popolazione e dalla crescente incidenza di tale fenomeno sulla spesa sanitaria dei diversi sistemi di welfare nazionali, rende SHARE un’indagine adeguata all’analisi delle disuguaglianze di accesso ai servizi sanitari in Europa. 5.2 Metodologia Alcuni studi confermano che l’utilizzo dei servizi sanitari formali, specialmente quelli primari (come il ricorso al medico di base), può contrastare gli effetti negativi delle disuguaglianze di salute legate al reddito (Cebada-Crespo et al (2011) e Shin et al., 2010). Differenti fattori a livello individuale (quali, per esempio, i bisogni in termini sanitari, le caratteristiche demografiche, la condizione socio-economica del singolo e le caratteristiche del sistema sanitario) possono realisticamente contribuire all’insorgere di disuguaglianze (legate al reddito) nell’accesso alle cure formali. Un sistema sanitario equo in senso orizzontale è essenzialmente un sistema in cui è garantita parità di accesso ai servizi sanitari per individui con uguali bisogni. Lo scopo del nostro studio consiste nel misurare il livello di inequità orizzontale che contraddistingue i vari sistemi sanitari a livello europeo, soffermandosi in particolare sulla realtà italiana. Per fare ciò introduciamo un indice di concentrazione spesso utilizzato nell’ambito degli studi di economia sanitaria, ovvero l’Horizontal Inequity Index (HI). Tale indice costituisce una misura del grado di equità nell’accesso ai servizi sanitari “aggiustata” per le variabili di bisogno, che forniscono, a loro volta, informazioni sullo stato di salute dei singoli individui (Wagstaff et al., 2000; Kakwani et al., 2007, Garcìa Gomez et al., 2014). Il segno dell’indice indica la direzione della relazione tra la variabile di accesso alle cure sanitarie di cui si intende stimare la distribuzione e la posizione all’interno della popolazione ordinata rispetto al reddito. Il valore dell’indice, compreso fra -1 e +1, descrive l’intensità di questa relazione (Zucchelli, 2009; Kawkani et al.,1997). In altre parole, valori negativi dell’indice di concentrazione corrispondono al caso in cui la disuguaglianza in termini di accesso ai servizi formali, fra individui con eguali bisogni, è concentrato fra coloro con condizione socio-economica più svantaggiata, mentre valori positivi corrispondono al caso in cui la disuguaglianza è concentrata fra gli individui meno svantaggiati. Wagstaff et al. (2003) mostrano come l’indice di concentrazione di cui sopra possa essere scomposto attraverso una procedura statistica che consente di individuare il singolo contributo di ciascun fattore considerato alla disuguaglianza di accesso. Il vantaggio dell’adozione della procedura di scomposizione dell’indice consiste, quindi, nella possibilità di quantificare i singoli contributi delle varie determinanti, evidenziandone l’importanza ai fini della determinazione della disuguaglianza. 5.3 Misure di accesso ai servizi di cura formali Ai fini della nostra analisi utilizziamo quattro distinte misure di accesso ai servizi di cura formali: accesso alle visite ambulatoriali, accesso al medico generico, accesso alle visite specialistiche, accesso alle cure ospedaliere (Bolin et al., 2008). 39 Con accesso alle visite ambulatoriali ci riferiamo, nei dodici mesi antecedenti all’intervista, all’avere avuto contatti con medici per questioni legate al proprio stato di salute (includendo visite al pronto soccorso o visite in ambulatorio ed escludendo visite dal dentista e ricoveri ospedalieri). Per quanto concerne l’accesso al medico generico consideriamo nella fattispecie l’aver avuto o meno contatti con il medico di famiglia, mentre l’accesso alle visite specialistiche riguarda l’aver consultato o meno, sempre nel corso dei dodici mesi antecedenti all’intervista, un medico specialista (i.e. cardiologo, pneumologo, gastroenterologo, diabetologo o endocrinologo, dermatologo, neurologo, oculista, otorinolaringoiatra, reumatologo o fisiatra, ortopedico, chirurgo, psichiatra, ginecologo, urologo, oncologo e geriatra). Infine per quanto concerne l’accesso alle cure ospedaliere consideriamo l’essere stato ricoverato in ospedale con degenza di almeno una notte (nello specifico, ricoveri in un reparto medico, chirurgico, psichiatrico o in un qualsiasi altro tipo di reparto specializzato). 5.4 Determinanti dell’accesso ai servizi sanitari Lo status socio-economico degli individui è definito facendo ricorso al reddito familiare equivalente, definito sulla base della scala di equivalenza modificata dell’OCSE. Questa variabile ci consente di ordinare la popolazione di riferimento sulla base di una misura di reddito “aggiustata” (ovvero che tiene conto sia della dimensione del nucleo famigliare sia del numero di figli). Le altre potenziali determinanti della disuguaglianza nell’accesso ai servizi sanitari impiegate per il calcolo degli indici di concentrazione sono classificate in due gruppi. Nel primo includiamo le “variabili di bisogno”, il cui scopo essenziale è fornire un’istantanea dello stato di salute dell’individuo: età (espressa in anni), genere (uomo o donna), salute percepita (definita in 5 categorie sulla base della scala americana: 1= eccellente, 2=molto buona, 3= buona, 4=cattiva, 5=molto cattiva), numero di limitazioni in termini di mobilità (camminare per 100 metri, stare seduti per circa 2 ore, alzarsi da una sedia dopo essere rimasti seduti a lungo, salire diverse rampe di scale senza fermarsi a riposare, salire una rampa di scale senza fermarsi a riposare, piegarsi, inginocchiarsi o accovacciarsi, allungare o stendere le braccia sopra l'altezza delle spalle, trascinare o spingere oggetti voluminosi come una sedia da salotto, sollevare o portare pesi superiori ai 5 chili come una borsa pesante della spesa, prendere una monetina da un tavolo), numero di disturbi di cui l’individuo ha sofferto negli ultimi sei mesi (mal di schiena, dolori alle ginocchia, alle anche o ad altre articolazioni, disturbi cardiaci o angina, dolore al petto durante attività fisica, mancanza di respiro, difficoltà di respirazione, tosse persistente, gambe gonfie, problemi legati al sonno, cadute, paura di cadere, capogiri, mancamenti o perdita momentanea di coscienza, problemi di stomaco o intestinali compresi stitichezza, meteorismo, diarrea, incontinenza o perdita involontaria di urina, affaticamento), numero di patologie diagnosticate in passato o di cui il rispondente soffre al momento dell’intervista ( per esempio, attacco cardiaco compreso infarto del miocardio o trombosi coronarica o altri problemi cardiaci compresa l'insufficienza cardiaca congestizia, pressione alta o ipertensione, colesterolo alto, un ictus (colpo) o un'altra malattia cerebro vascolare, diabete o glicemia alta, malattie polmonari croniche, come bronchite cronica o enfisema, artrite, compresa osteoartrite (artrosi) o reumatismi, cancro o tumore maligno, compresi leucemia o linfoma, ma esclusi piccoli tumori della pelle, ulcera gastrica o duodenale, ulcera peptica, morbo di Parkinson, cataratta, frattura dell'anca o del femore, altre fratture, morbo di Alzheimer, demenza, sindrome cerebrale organica cronica, senilità o qualsiasi altro grave problema di memoria), e, infine, se l’individuo riceve o meno cure informali da un parente, amico o vicino di casa. 40 Del secondo gruppo fanno parte le variabili che descrivono la condizione socio-economica dell’individuo, quali il livello di istruzione (misurato sulla base della scala ISCED-97), lo stato civile (se l’individuo è sposato o convivente), e lo stato occupazionale (se l’individuo è pensionato, occupato, o appartenente ad altre categorie quali disoccupato, invalido, o svolga altre attività non formalmente retribuite). 5.5 I risultati Per quanto concerne l’Italia, osserviamo dalla tabella 6.1 che gli indici di concentrazione (accesso alle cure) nei tre diversi periodi presentano segno positivo e statisticamente significativo in riferimento a cure specialistiche, ricorso al medico di base e visite ambulatoriali. Ciò implica che un maggiore accesso a tali prestazioni sanitarie è concentrato nelle fasce reddituali più agiate. Inoltre, ciò che emerge confrontando gli indici nelle tre indagini, è un trend “crescente” di tale disuguaglianza, ovvero un peggioramento in termini di accesso alle cure da parte delle classi sociali più svantaggiate, in linea con il progressivo svilupparsi della crisi economica. In Italia, le disuguaglianze in termini di status socio-economico (relative, nel nostro caso, al reddito, all’istruzione e all’occupazione) costituiscono un’importante componente nella spiegazione delle disuguaglianze di accesso ai servizi sanitari (in particolare per le cure specialistiche), a parità di bisogni. Ciò si evince dalla scomposizione degli indici di concentrazione, le cui stime vanno comunque interpretate con cautela poiché non forniscono informazioni sulla causalità, ma semplicemente sulla scomposizione dell’associazione tra la misura di accesso e le altre determinanti considerate (Zucchelli, 2009) Il segno positivo associato al “contributo” del reddito equivalente (tabella 5.1) significa che gli individui in condizioni economiche svantaggiate soffrono di maggiori disuguaglianze nell’accesso alle cure rispetto ai soggetti più abbienti, ed è riscontrabile, anche in questo caso per le visite specialistiche, un incremento in valore assoluto di tale contributo nel corso degli anni, in linea con il peggioramento della crisi economica. Analoghe considerazioni valgono per quanto riguarda l’essere pensionato: il contributo di tale variabile alla disuguaglianza di accesso alle visite specialistiche ha segno positivo ed è significativo nei tre diversi periodi. Per ciò che riguarda l’istruzione, il contributo (o il “peso”) dell’essere scarsamente istruito assume valore positivo ed è significativo in tutti e tre i periodi considerati, a conferma del fatto che la scarsa istruzione penalizza l’accesso alle cure specialistiche per gli individui più svantaggiati economicamente. Se guardiamo al contesto europeo, l’Italia segue il trend degli altri paesi per quanto riguarda, una volta ancora, l’accesso alle cure specialistiche. Dalla tabella 5.2 osserviamo, infatti, un andamento simile degli indici di concentrazione per quasi tutti i paesi considerati, fatta eccezione per i Paesi Bassi e la Danimarca, per i quali non è individuabile un trend chiaro e significativo. Per quanto riguarda le visite ambulatoriali e il ricorso al medico di base, in linea generale ciò che emerge dall’interpretazione degli indici è una disuguaglianza di accesso concentrata fra le fasce più povere della popolazione, in contrasto con quanto invece osserviamo per i ricoveri ospedalieri. In questo caso la disuguaglianza sembra muoversi in senso opposto, ovvero gli individui in condizioni economiche più svantaggiate hanno maggiore accesso alle cure ospedaliere, sempre a parità di bisogni. Tuttavia, come si nota dalle stime, non è possibile identificare un chiaro trend pre e post crisi per questi servizi (ovvero un andamento crescente della disuguaglianza nel corso degli anni), e 41 inoltre gli indici di concentrazione nei diversi periodi non sempre risultano statisticamente significativi. 5.6 – Gli indicatori di accesso alle cure sanitarie nell’Indagine ISTAT sulla salute degli italiani (201213) I dati preliminari dell’indagine sulla salute e sul ricorso ai servizi sanitari dell’ISTAT 2012-13 hanno messo in evidenza l’importante ruolo giocato dalla crisi economica in Italia nell’accesso ai servizi sanitari. In particolare, risulta che “sono le visite e i trattamenti odontoiatrici le prestazioni a cui si rinuncia più frequentemente: il 14,3% delle persone di 14 anni e più vi ha rinunciato negli ultimi 12 mesi. La rinuncia è dovuta principalmente a motivi economici (85,3%). Nel caso di rinuncia a visite specialistiche (escluse quelle odontoiatriche) la quota si riduce al 7,7%. Ancora più contenuta è la percentuale di chi rinuncia ad un accertamento diagnostico specialistico (4,7%) o a prestazioni di riabilitazione (2,5%); molto esigua è la rinuncia a interventi chirurgici (0,8%). Inoltre è pari al 4,1% la quota di chi rinuncia all’acquisto di farmaci pur avendone bisogno, tra questi oltre il 70% perché avrebbe dovuto pagarli di tasca propria non essendo prescrivibili e il 25% perché il ticket era troppo costoso.” (ISTAT 2013, p.12) Inoltre, “nell’esaminare la combinazione delle prestazioni che dovrebbero essere garantite dal Servizio sanitario pubblico, il 9% della popolazione ha dichiarato di aver rinunciato ad almeno una prestazione tra accertamenti specialistici, visite mediche specialistiche (escluse odontoiatriche) o interventi chirurgici, pur ritenendo di averne bisogno. Se a questi si cumulano coloro che hanno dichiarato di aver rinunciato ad acquistare farmaci, la quota raggiunge l’11,1% della popolazione.” (ISTAT, 2013, p.12) I motivi della rinuncia sono più spesso per ragioni economiche che per motivi di offerta. Infine, “la quota più alta di persone che rinuncia ad almeno una delle prestazioni considerate si riscontra tra i disoccupati (21,4%). Nel confronto tra chi gode di risorse economiche ottime o adeguate e chi le giudica scarse o insufficienti, la quota dei rinunciatari passa dal 6,8% al 17,6%. Nel Nord-Ovest il rapporto è quasi di uno a tre (passa dal 4,5% al 13,3%). Nel Sud e nelle Isole anche chi dichiara una buona condizione economica ha rinunciato nel 9,3% dei casi contro il 4,5% del Nord-Ovest e il 5,7% del Nord-Est.” (ISTAT, 2013, p.12) 42 Tabella 5.1: Indici di concentrazione per l’accesso alle cure sanitarie e contributo di ciascuna determinante alla disuguaglianza, per tipo di spesa e anno - Italia Medico di base Vis. Ambulatoriali 2004 2006 2011 Accesso alle cure ("aggiustato" per le variabili di bisogno) 0.005 0.004 0.056 Reddito equivalente Contributo 0.017 0.011 0 Età Contributo -0.001 -0.002 0.001 Genere Contributo 0 0 -0.002 Salute percepita Contributo -0.015 -0.008 -0.009 N limitazioni mobilità Contributo 0.002 0.005 0.006 N disturbi ultimi 6 mesi Contributo -0.008 -0.07 -0.002 N patologie Contributo -0.021 -0.015 -0.018 Cure informali Contributo 0 0 0 Istruzione (livello primario) Contributo 0.01 0.0015 0 Istruzione (laurea) Contributo 0.0025 0.001 0 Coniugato Contributo 0 0 0 Pensionato Contributo 0.003 -0.001 0.006 Altra attività Contributo -0.006 0 -0.001 Fonte: Elaborazione Fondazione Farmafactoring su dati SHARE. Nota: La significatività degli indici (P>0.1) è indicata in grassetto Ric. Ospedale Specialista 2004 2006 2011 2004 2006 2011 2004 2006 2011 0.037 0.005 0.051 0.0972 0.0975 0.134 -0.0122 -0.015 .0.028 0.029 0.001 -0.011 0.019 0.022 0.055 0.016 0.004 -0.009 -0.006 -0.002 0.0027 0.012 0.104 0.004 -0.001 0.001 -0.007 0 0 -0.0022 0 -0.0024 -0.004 0 0.0024 0.003 -0.025 -0.01 -0.011 -0.0174 -0.027 -0.029 -0.013 -0.017 -0.015 0.009 0.005 0.0054 -0.005 0.001 0.005 -0.004 -0.004 -0.005 -0.009 -0.008 -0.001 -0.0087 -0.008 -0.0152 0.0023 -0.002 -0.003 -0.016 -0.018 -0.02 -0.033 -0.0334 -0.029 -0.006 -0.0005 -0.005 0.002 0 -0.001 -0.002 -0.0026 -0.001 -0.001 -0.0022 -0.007 -0.001 -0.003 -0.001 0.05 0.04 0.003 -0.05 -0.006 0 0.0024 0 0 0.0057 0.009 0.001 -0.03 0.002 0 0 0 0 0 0 0.003 0 1.40E-06 0 0.004 -0.001 0.007 0.006 0.013 0.007 0 0.002 0 -0.006 0.004 -0.002 -0.01 -0.004 0.009 -0.005 -0.003 -0.001 43 Tabella 5.2: Indici di concentrazione “corretti” per le variabili di bisogno e per tipo di spesa, anno e Paese Fonte: Elaborazione Fondazione Farmafactoring su dati SHARE. Nota: La significatività degli indici (P>0.1) è indicata in grassetto 44 6. La crisi economica e lo stato di salute della popolazione in Italia: i trend e i differenziali socio-economici. Come ampiamente discusso nelle pagine precedenti, per capire a fondo gli effetti della crisi economica sullo stato di salute di una popolazione è fondamentale distinguere tra effetti di “breve” ed effetti di “lungo” periodo e, soprattutto, è fondamentale avere a disposizione una serie di indicatori che possano essere in grado di catturare le tante sfaccettature attraverso cui definire lo stato di salute degli individui e come questo possa evolversi nel tempo. Purtroppo, non potendo ottenere stime degli effetti di “lungo” periodo, nelle pagine che seguono ci concentreremo unicamente a descrivere gli effetti di “breve” periodo. Tra i vari indicatori disponibili per analizzare i trend della salute, i più rilevanti sono quelli relativi alla salute soggettiva (self-reported), quelli sintetici sulla salute fisica e sulla salute mentale prodotti dall’ISTAT nelle indagini sulla salute, quelli relativi alle invalidità, al numero di cronicità, all’infortunistica e, infine, quelli relativi alla mortalità (per sesso, età, regione e causa). Tra questi indicatori quelli che più facilmente possono evidenziare effetti di breve periodo sono quelli legati alla salute soggettiva e mentale, che potrebbero peggiorare per effetto dello stress provocato dalla crisi (soprattutto in termini di effetti generati sul mercato del lavoro più instabile e a rischio per alcune fasce della popolazione). Inoltre, il peggioramento della salute mentale dovrebbe portare a evidenziare cambiamenti nella mortalità per causa dovuta a episodi di violenza (omicidi, suicidi e tentati suicidi) e di consumo di ansiolitici e antidepressivi. Infine, nei capitoli precedenti abbiamo anche visto che esiste una chiara relazione tra livello del reddito e stato di salute e tra diseguaglianze di reddito e stato di salute della popolazione. Poiché la crisi economica degli ultimi anni ha agito su entrambi gli aspetti (“livelli” e “diseguaglianze”) del reddito, le analisi saranno condotte guardando anche a questo aspetto. 6.1 Gli effetti di breve periodo della crisi economica sullo stato di salute 6.1.a – Gli indicatori della salute mentale Nei periodi di crisi le tensioni generate sul mercato del lavoro, spesso a causa del maggior rischio di perdere il posto di lavoro, tendono a creare notevoli problemi di stress agli individui e alle famiglie che, inevitabilmente, si riverberano sulle condizioni di salute, in particolare quella mentale. I dati disponibili relativi all’Italia confermano questa ipotesi. Dove la crisi ha avuto e sta avendo un impatto più forte sulla salute dei cittadini è, infatti, la dimensione psicologica e del benessere in senso ampio, e questo è un fenomeno che sembra essere trasversale ai gruppi sociali. Secondo l'AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco), nel 2000 le dosi giornaliere assunte ogni mille abitanti erano poco più di 8. Oggi sono circa 36. Nel solo 2012 i consumi di medicine per il sistema nervoso centrale sono saliti dell'1,4%. Da un'indagine condotta dalla Società Italiana di Psichiatria (novembre 2013), risultante dai dati raccolti in oltre il 30 per cento dei Dipartimenti di salute mentale di 14 Regioni, la grave e 45 perdurante crisi economica di questi anni ha inciso fortemente sull'aumento dei disturbi psichici che si è registrato in Italia negli ultimi tempi soprattutto tra i ceti meno abbienti; si osserva infatti che in Italia l'incidenza dei disturbi psichiatrici tra i soggetti con minori risorse economiche raddoppia rispetto a coloro che appartengono ad un livello socioeconomico medio-alto, con ciò ponendo un problema anche in termini di coesione sociale. Figura 6.1 - Andamento ricerche su internet della parola “sintomi” di alcune patologie nei Paesi del G8. Fonte: Askitas e Zimmermann (2011) Un’altra interessante evidenza che supporta la tesi di un deterioramento della salute mentale degli individui in periodi di crisi è quella che deriva da uno studio internazionale condotto da Askitas e Zimmermann (2011) nei paesi del G8. In questo studio gli autori analizzano gli effetti delle recessioni sulla salute mentale utilizzando dati in real-time presi da internet. Gli autori hanno ricostruito le serie storiche delle ricerche su internet di parole quali “sintomi” e “effetti collaterali”. Come si può vedere dalle Figure 6.1 e 6.2 si nota un salto nelle ricerche a partire dal momento in cui negli USA è stato varato il Troubled Asset Relief Program (TARP), ovvero il programma per il salvataggio delle banche, che ha anche riconosciuto in modo ufficiale l’inizio della crisi a livello mondiale. Ciò che si vede è che la serie sintomi si impenna negli USA prima che negli altri paesi (con eccezione della Russia) in quanto negli Stati Uniti la crisi finanziaria inizia nel settembre del 2008 mentre, ad esempio, in Germania nella primavera del 2009. 46 Lo stesso discorso vale per le ricerche sulla parola “effetti collaterali” legati a farmaci che curano patologie del sistema nervoso. Gli autori mostrano che è lo shock negativo dell’economia che provoca l'aumento di richieste. L'ipotesi è che la crisi aumenti il numero di persone interessate a informarsi sui sintomi delle patologie e sugli effetti collaterali determinati dai farmaci usati per curare i sintomi. Figura 6.2 - Andamento ricerche su internet della parola “effetti collaterali” per medicine legate al sistema nervoso nei Paesi del G8 Fonte: Askitas e Zimmermann (2011) Infine, nella Figura 6.3 sono riportati gli andamenti (riscalati) del numero di ricerche su internet per la parola “sintomi” e del tasso di disoccupazione negli USA. Come è facile vedere, la correlazione tra le due serie è altissima, soprattutto se si considera che i punti di svolta dell’istante in cui viene lanciato il TARP e del momento in cui la disoccupazione comincia a scendere a metà 2010 sono colti in modo perfetto dall’andamento delle ricerche su internet. 47 Figura 6.3 – Relazione tra ricerche su internet per “sintomi” e l’andamento della disoccupazione negli USA (valori riscalati) Fonte: Askitas e Zimmermann (2011) Un altro aspetto fondamentale nel valutare l’impatto di breve termine della crisi economica sulla salute mentale è quello di analizzare la mortalità per causa dovuta a episodi di violenza (omicidi, suicidi e tentati suicidi). Secondo quanto rilevato da Costa et al. (2012), i dati dell’indagine su suicidi e tentati suicide dell’ISTAT mostrano che “la popolazione italiana è a basso rischio di suicidio, come in tutta l’Europa Meridionale, ma che il numero di suicidi per ragioni economiche, in leggera crescita dal 2002, si impenna appena prima della crisi e continua a salire con notevole velocità” (Vedi fig. 6.4). Dati più aggiornati su questo fenomeno sono quelli raccolti da Link Lab, il Laboratorio di ricerca socio-economica dell'Università degli Studi Link Campus University, che studia questo fenomeno dal 2012.19 Secondo tale fonte nell'anno 2013 sono state complessivamente 149 le persone che si sono tolte la vita per motivazioni economiche, rispetto agli 89 casi registrati nel 2012 di cui il 40% nel solo ultimo quadrimestre. Quasi la metà dei casi di suicidio (45,6%) fanno riferimento alla figura professionale dell’imprenditore, ma rispetto al 2012 cresce il numero delle vittime tra i disoccupati: sono 58, infatti, i suicidi tra i senza lavoro, numero che risulta più che raddoppiato rispetto al 2012 quando gli episodi registrati furono 28. Nel 2013, dopo i mesi estivi, il numero dei suicidi per ragioni economiche è tornato a salire. Lo studio è scaricabile al seguente link http://lab.unilink.it/files/2014/05/STUDIO-COMPLETOSuicidi-crisi-1°-Trim.-2014.pdf 19 48 Figura 6.4 – Numero di suicidi e di tentati suicidi per ragioni economiche in Italia tra il 2000 e il 2010 Fonte: Costa et al. (2012) Nel 2013, così come nel 2012, la crisi economica, intesa come mancanza di denaro o come situazione debitoria insanabile, rappresenta la motivazione principale del tragico gesto, all'origine dei 108 suicidi (72,5%) nel 2013, a fronte dei 44 del 2012. La perdita del posto di lavoro continua a rappresentare la seconda causa di suicidio: 26 gli episodi registrati, in lieve aumento rispetto al 2012 quando i casi sono stati 25. A incidere inoltre sul tragico epilogo, i debiti verso l'erario: 13 le persone che nel 2013 si son tolte la vita a causa dell'impossibilità di saldare i propri debiti nei confronti dello Stato. A questi dati vanno poi aggiunti quelli relativi ai tentati suicidi: sono infatti 86 le persone che nel 2013 hanno provato a togliersi la vita per motivazioni riconducibili alla crisi economica, tra cui 72 uomini e 14 donne, contro i 48 casi complessivi registrati nel 2012. Anche tra i tentativi di suicidio, a destare allarme è l'incremento registrato nelle regioni meridionali: si passa infatti dai 5 casi del 2012 a ben 25 tragici tentativi di porre fine alla propria vita rilevati nel 2013. I disoccupati che nel 2013 hanno tentato di togliersi la vita sono 50. Erano 20 nel 2012. 6.1.b – Gli indicatori soggettivi della salute (self reported) 49 Gli effetti della crisi economica sullo stato di salute auto dichiarato (self-reported) della popolazione nel suo complesso sono poco chiari. Secondo i dati riportati nella Figura 6.5, la percentuale di persone che all’interno dei paesi OCSE dichiara un cattivo stato di salute non è cambiata tra il 2007 e il 2011 (ultimo anno disponibile). Tuttavia, se si guarda ai singoli Paesi, si notano alcune differenze interessanti. Da un lato ci sono alcuni paesi europei, come Francia, Grecia e Irlanda che sembrano aver aumentato di circa il 20% il numero delle persone che dichiarano uno stato di salute “pessimo”. Dall’altro ci sono paesi come l’Italia e il Portogallo in cui non è accaduto nulla fino al 2009 e poi, dal 2010 l’indicatore prima diminuisce e poi aumenta (e viceversa). Figura 6.5 – Percentuale di persone che dichiarano un cattivo stato di salute (2007=100) Fonte: Elaborazioni OCSE basati sulle statistiche dell'Unione Europea sui redditi e condizioni di vita (EU-SILC), http://epp.eurostat.ec.europa.eu/portal/page/portal/microdata/eu_silc. Un risultato simile si ottiene utilizzando anche dati provenienti dall’indagine SHARE. In questo caso, come si può vedere dalla figura 6.6, nei Paesi considerati gli indicatori di stato di salute auto-dichiarato rimangono pressoché costanti nel tempo, anche se con qualche eccezione: Germania, Spagna e Svezia che tra il 2006 e il 2011 presentano un leggero aumento della percentuale di persone con stato di salute “non buono”, ma tale aumento (soprattutto tra il 2006 e il 2011) non è statisticamente significativo. Al contrario, per altri paesi si può osservare un miglioramento e non un peggioramento. Un caso particolare degno di nota è quello della Spagna in cui tra il 2006 e il 2011 si osserva una bipolarizzazione della distribuzione, con persone nella parte bassa della distribuzione che riducono il livello di salute e quelli nella parte alta che lo migliorano ulteriormente. Inoltre, questi risultati sono robusti anche a una suddivisione dei Paesi per tipologia di sistema sanitario o per zona geografica (Nord, Centro e Sud-Europa).20 20 Vale la pena di rimarcare che la Grecia è stata esclusa dall’indagine poiché nel 2011 non ha partecipato all’indagine SHARE. 50 Figura 6.6 – Andamento stato di salute auto-dichiarato in Europa - DATI SHARE (2004-2011) Fonte: Elaborazioni Fondazione Farmafactoring su dati SHARE Relativamente all’Italia, secondo le stime provvisorie dell’indagine multiscopo “Condizioni di salute e ricorso ai servizi sanitari” condotta dall’Istat nel 2012-2013, relative ai primi due trimestri dell’indagine (settembre e dicembre 2012), l’indicatore di stato di salute auto-riferito non sembra essere cambiato sia in termini di distribuzione tra classi di età e sesso, sia in termini di livello tra il 2005 e il 2012. Situazione simile si riscontra se si fa ricorso agli indicatori di salute auto-riportata contenuti nelle indagini sugli “Aspetti di vita quotidiana” che sono disponibili su base annuale. Dalla Figura 6.7 si vede chiaramente come dal 2001 la distribuzione dei pazienti tra i vari stati di salute non sia è modificata (panel A). Risultati simili si ottengono se il confronto lo si fa sulla percentuale di pazienti con patologie croniche (panel B), sulle prevalenze di patologie croniche e sul numero di invalidità: anche in questi casi, nell’arco di 12 anni non si nota nessun cambiamento significativo (anche a dispetto di un aumento della popolazione anziana). 51 Figura 6.7 – Andamento stato di salute auto-dichiarato, numero malattie croniche e prevalenze patologie in Italia – 2001 – 2012 a) stato di salute auto-dichiarato b) Numero malattie croniche c) prevalenze patologie d) Limitazioni delle attivita’ Fonte: Elaborazioni Fondazione Farmafactoring su dati “Aspetti della vita quotidiana” ISTAT. 6.1.c – Gli indicatori sintetici di salute fisica e psichica A risultati simili si perviene utilizzando la batteria di quesiti SF12 disponibile nell’indagine Multiscopo sullo stato di salute degli italiani che consente di costruire due indici sintetici, uno riferito allo stato di salute fisico (PCS12) e l’altro riferito allo stato di salute psicologico (MCS12). Secondo quanto riportato nel rapporto preliminare di presentazione dei risultati dell’indagine 2012-2013 (ISTAT, 2013), “all’aumentare dei punteggi medi degli indici corrispondono valutazioni migliori delle condizioni di salute psicofisica. La curva discendente con l’età evidenzia un peggioramento dello stato fisico più marcato rispetto a quello psicologico. Le donne presentano sempre punteggi medi più bassi per entrambi gli indici. Rispetto al 2005, sembra leggermente migliorare la percezione delle condizioni di salute fisica e peggiorare quella relativa allo stato psicologico (principalmente per le persone in età lavorativa): il punteggio medio dell’Indice di stato fisico per la popolazione di 14 anni e più, controllato per età, aumenta da 49,9 a 50,7, mentre l’Indice di stato psicologico diminuisce da 49,6 a 48,8” (vedi Figura 6.8). 52 Figura 6.8 - Indice di “stato fisico” e indice di “stato psicologico” delle persone di 14 anni ed oltre per sesso e classi di età. Media settembre - dicembre 2005 e 2012, punteggi medi Fonte: ISTAT (2013) 6.2 Gli effetti della crisi economica sugli indicatori di mortalità: il gradiente territoriale Il quadro che sembra emergere da questi risultati è di una situazione epidemiologica e di stato di salute della popolazione italiana complessivamente stabile rispetto alle principali dimensioni della salute considerate e comunque coerente con il processo di invecchiamento in corso. Tuttavia, il dato medio complessivo nasconde disuguaglianze territoriali e sociali che penalizzano alcuni gruppi di popolazione. Storicamente l’Italia è un paese in cui le diseguaglianze territoriali e socio-economiche hanno sempre caratterizzato l’evoluzione dei fenomeni, soprattutto quelli di salute. A tal proposito, basta guardare la Figura 6.9 in cui viene evidenziata la relazione di lungo periodo che negli anni è esistita tra livelli di mortalità infantile e diseguaglianze nella mortalità infantile tra le regioni (Quadro A) e l’evoluzione nella aspettativa di vita alla nascita a livello regionale (Quadro B). 53 Figura 6.9 Quadro A - Relazione tra livelli di mortalità infantile e diseguaglianza regionale nella mortalità. (1861-2011) Quadro B – Aspettativa di vita nelle regioni italiane (1861-2011) Fonte: Atella, Francisci and Vecchi (2013). L’andamento del tasso di mortalità infantile (quadro A) nelle regioni racconta una storia di forti differenze regionali che sembrano essere molto legate alle diseguaglianze regionali nella distribuzione del reddito. La riduzione dei decessi nel primo anno di vita è comune a tutte le aree del paese, ma la velocità con cui tale progresso si verifica cambia da una regione all’altra. Il fascio di linee grigie (ciascuna linea rappresenta l’evoluzione del tasso di mortalità infantile per una data regione) mette in evidenza un processo di divergenza territoriale – accentuato nel periodo fra le due guerre – a cui segue una fase di convergenza negli anni del secondo dopoguerra. L’evoluzione della deviazione standard dei tassi di mortalità regionali (linea rossa, misurata sull’asse verticale di destra). Quanto più alta è la deviazione standard, tanto maggiore è la disuguaglianza interregionale dei tassi di mortalità. L’andamento della deviazione standard identifica tre sotto-periodi che si 54 sovrappongono con straordinaria precisione alla tradizionale periodizzazione politica: si osserva convergenza «lenta» nel corso dell’Italia liberale (la deviazione standard diminuisce), divergenza nel periodo fra le due guerre (la deviazione standard aumenta) e convergenza «rapida» nel secondo dopoguerra. Al tempo stesso, nella figura 6.10 vediamo come i tre sotto-periodi in cui si possono riassumere gli andamenti della mortalità infantile e della speranza di vita alla nascita sono strettamente collegati con i sotto-periodi della diseguaglianza dei redditi: sostanzialmente stabile nell’età liberale, in aumento nell’età del fascismo e in diminuzione fino a metà anni 70, anche se la componente diseguaglianza interna alle regioni del Sud e del Nord ha continuato a diminuire (i redditi nelle due aree di sono eguagliati), ma è aumentata la diseguaglianza tra le aree. Figura 6.10 – Differenziali territoriali nella diseguaglianza dei redditi in Italia (1871 – 2011) Fonte: Costa e Vecchi (2011) Nel 1961, l’Italia si presentava chiaramente bisecata: la linea separatrice è il confine a sud di Lazio e Abruzzo. Sopra la linea i bambini sopravvivono al primo compleanno più di quanto non avvenga al di sotto della linea. Le differenze non sono di entità trascurabile: per un bambino che muore in Toscana ve ne sono due che muoiono in Campania. Nonostante l’indice di variabilità complessivo indichi che il paese sta andando nella direzione giusta, le regioni meridionali sono in evidente ritardo. Da allora i divari si sono ridotti, ma continuano a persistere. Il quadro B della Figura 6.9 mostra, invece, la speranza di vita alla nascita, che racconta una storia uguale sotto un’angolazione diversa: esiste una variabilità regionale ampia e persistente nel tempo. Dall’Unità d’Italia, gli abitanti delle regioni centro-settentrionali registrano – nel loro insieme – una speranza di vita sistematicamente maggiore di quelle meridionali: il divario di longevità nel corso degli otto-nove decenni che separano l’Unità 55 dal secondo dopoguerra non solo resta ampia (oscilla all’interno di una banda compresa fra 10 e 15 anni), ma mostra una tendenza lievemente crescente: per quasi cent’anni della nostra storia i bambini nati nella regione meno «fortunata» hanno vissuto vite più brevi dei coetanei nati nella regione più «fortunata». La fortuna di nascere nella regione giusta si traduceva in un premio pari a circa 12 anni di vita addizionale. Nella Figura 6.11 è invece possibile vedere la situazione negli ultimi venti anni. Nel 2006 il tasso di mortalità infantile a 5 anni (quadro A) è pari a circa il 2,9 per mille nati vivi nel Nord, 3,5 nel Centro e al 4 nel Sud e nelle Isole. La fortuna di nascere nella regione giusta si traduce in un premio pari al 250 per cento di poter sopravvivere ai primi quattro anni di vita. Negli ultimi anni la mortalità infantile tende a convergere tra le regioni italiane, sebbene il Sud riporti tassi più elevati del Centro-Nord: il Sud nel 2011 registra un tasso pari al 3,6 – un punto percentuale in più rispetto al Centro-Nord. Discorso simile si può fare per i tassi di mortalità generale standardizzati per età. In questo caso si osserva che i divari sono rimasti immutati, ma il Sud ha tassi superiori rispetto al Nord. Tuttavia, dal 2011 sembrerebbe esserci un aumento della mortalità in tutte le regioni italiane e questo aumento è maggiore nelle regioni del Sud dove il tasso passa da circa 854 decessi ogni 100,000 abitanti nel 2010 a 900 decessi nel 2011 (da 822 a 842 punti per il Nord e da 803 a 831 punti per il Centro). Anche le regioni sottoposte a Piano di Rientro dal 2007 registrano in media un aumento dei tassi di mortalità: nel 2011 le regioni con Piano di Rientro registrano una mortalità di 903 contro gli 841 punti delle regioni non sottoposte a tali Piani. 6.3 Gli effetti della crisi economica sugli indicatori di stato di salute: il gradiente socio-economico E’ opinione condivisa che la crisi economica abbia colpito alcune fasce di popolazione più di altre, in particolare quelle con condizioni socio-economiche più svantaggiate. Per capire se e in che modo ciò sia realmente accaduto in questi anni basta verificare i trend dello stato di salute della popolazione nel periodo di riferimento, controllando per le principali caratteristiche socio-economiche. Le informazioni necessarie per questo tipo di analisi sono quelle contenute nell’indagine annuale ISTAT sugli “Aspetti della vita quotidiana”. 56 Figura 6.11 – Tassi di mortalità infantile e generale regionale – 1990 – 2011 b) Tasso di mortalità generale standardizzato 0 800 Tassi mortalità regionali 1000 1200 Tassi mortalità infantile regionali 5 10 1400 a) Tasso di mortalità infantile a 5 anni 1996 1998 2000 2002 2004 Anni Nord Sud e Isole 2006 2008 2010 1990 2012 1995 2000 Anni Nord Sud e Isole Centro 2010 Centro c) Tasso di mortalità generale standardizzato per regioni “senza” e “con” Piano di rientro dal 2010 800 800 Tassi mortalità regionali 1000 1200 Tassi mortalità regionali 1000 1200 1400 1400 c) Tasso di mortalità generale standardizzato per regioni “senza” e “con” Piano di rientro dal 2007 2005 1990 1995 2000 Anni Regioni con Piani Rientro 2005 2010 Regioni senza Piani Rientro 1990 1995 2000 Anni Regioni con Piani Rientro 2005 2010 Regioni senza Piani Rientro Fonte: Elaborazioni Fondazione Farmafactoring su dati “Indagine condizioni di vita” ISTAT. Il quadro socio-economico è analizzato dividendo la popolazione in gruppi rispetto alla situazione professionale, oppure alla posizione professionale nel caso delle persone occupate. Ciò permette di isolare i lavoratori individuando tra loro dirigenti, impiegati, lavoratori autonomi e operai, dai pensionati e persone senza occupazione. Dalla figura 6.12 possiamo vedere come la prevalenza delle persone “Molto” o “Abbastanza” soddisfatte della propria salute prevale rispetto a chi si reputa come “Poco” o “Per niente” soddisfatto. Chiaramente la soddisfazione della salute diminuisce con l'età degli individui, trovando sempre meno persone con alto grado di soddisfazione nelle classi di età più anziane. Oltre a queste differenze ben evidenti, si nota che la soddisfazione della propria salute cambia rispetto alla situazione professionale delle persone. Infatti, esaminando i gruppi delle persone occupate, spostandosi dai Dirigenti agli Operai si nota che il grado della soddisfazione della salute si riduce. A parità di età, gli individui pensionati e quelli non occupati mostrano livelli di salute peggiori. Tuttavia, guardando all’evoluzione della salute durante l’intero periodo considerato, non è possibile concludere che la crisi abbia avuto un qualche effetto sullo stato di salute della popolazione italiana. 57 Figura 6.12 – Grado di soddisfazione della salute per età, anno e condizione professionale dei rispondenti (2001-2012). Fonte: Elaborazioni Fondazione Farmafactoring su dati “Indagine condizioni di vita” ISTAT. Un quadro simile emerge dalla lettura della Figura 6.13, dove sono analizzate le prevalenze di alcune malattie croniche rispetto allo stesso quadro socio-economico. Come noto, anche in questo caso il gruppo dei dirigenti sembra vantare minori tassi di prevalenze delle malattie croniche, con differenze particolarmente marcate nel caso di artrosi, diabete, tumori e bronchiti. Il contrario accade per gli operai. Nel caso degli individui non lavoratori (pensionati e non occupati), le prevalenze delle malattie croniche sono ancora più marcate rispetto agli individui occupati. Nel caso dei non occupati tra i 25 e i 39 anni ed anche tra i 40 e i 54 anni le differenze rispetto ai gruppi coetanei di dirigenti, impiegati, lavoratori autonomi e operai sono particolarmente sfavorevoli, con maggiori prevalenze dei disturbi nervosi, diabete e artrosi. Infine, anche questa lettura dei dati evidenzia che pur facendo riferimento a un altro indicatore di stato di salute non è possibile concludere che la crisi abbia avuto un qualche effetto sulla salute della popolazione italiana. 58 Figura 6.13 – Prevalenze di malattie croniche per età, anno e condizione professionale dei rispondenti (2001-2012). Fonte: Elaborazioni Fondazione Farmafactoring su dati “Indagine condizioni di vita” ISTAT. 59 7. Conclusioni La crisi economica e il ruolo delle politiche di austerità sulla salute della popolazione. L'entità dello shock associato con la crisi finanziaria ed economica - la sua durata e i tempi della ripresa - è stato molto diverso tra i paesi europei e diverse sono state le risposte di politica economica avviate dai singoli paesi. Alcuni paesi hanno recuperato rapidamente, altri non hanno messo in atto le politiche che avrebbero permesso di avviare la ripresa economica e ancora oggi sono caratterizzati dall’assenza di una significativa crescita economica. Come conseguenza della crisi economica, la spesa sociale, e quella per la salute in particolare, è scesa sia in termini assoluti che in percentuale della spesa pubblica totale in molti paesi. A soffrire di più di questi effetti sono stati sicuramente i paesi in cui il sistema sanitario è finanziato con i contributi delle persone che lavorano e quelli in cui l’accesso ai servizi sanitari è “means-tested”: in entrambi i casi, i sistemi sono particolarmente vulnerabili alle fluttuazioni economiche. Intervenire con politiche anticicliche può quindi incidere sulla capacità di questi paesi di mantenere un flusso adeguato e stabile di fondi al settore sanitario. Purtroppo, non sempre questo è avvenuto e alcuni paesi hanno risentito più di altri degli effetti della crisi sullo stato di salute della popolazione. A livello europeo, i sistemi sanitari hanno adottato una vasta gamma di strategie per affrontare i problemi imposti dalla crisi con meno risorse. Sono state potenziate le misure per aumentare il mercato dei generici, migliorare le funzioni di procurement, ridurre i prezzi dei beni e servizi acquistati, riorganizzare la rete dei providers (attraverso chiusure, fusioni e centralizzazioni). Quasi mai si è intervenuto con riduzioni delle coperture assistenziali, (e dove lo si è fatto si è poi intervenuto per proteggere le persone più povere e fragili), ma alcuni paesi hanno differito l’ampliamento di servizi essenziali a fasce della popolazione che ne avevano bisogno. Capire quanto queste politiche sanitarie abbiano inciso sulla salute delle persone è difficile da valutare. In alcuni casi ci saranno stati sicuramente risparmi e maggiore efficienza, in altri (in combinazione con il calo dei redditi delle famiglie) potrebbero essersi creati una serie di ostacoli che hanno impedito l’accesso a servizi essenziali da parte della popolazione. Come ampiamente ricordato in un recente documento del WHO (2013), una pressione continua per ottenere notevoli risparmi in un breve periodo di tempo può compromettere la sostenibilità finanziaria del sistema sanitario. Questo concetto è tanto più vero quanto più i paesi coinvolti sono paesi che hanno avuto tre, quattro o, addirittura, cinque anni di riduzioni di bilancio nel settore sanitario. Pensare che in questi contesti, nel breve periodo, si possano generare ulteriori risparmi senza creare problemi alla fornitura di servizi è improbabile. Inoltre, occorre riflettere sul fatto che riforme mal progettate e realizzate possono non riuscire ad affrontare le inefficienze o, addirittura, possono crearne di nuove, minacciando così la sostenibilità finanziaria a lungo termine. Se non si possono evitare tagli alla spesa pubblica, è importante che essi siano fatti con cura, al fine di evitare effetti negativi sulla salute e sul benessere. La spesa pubblica per la salute va considerata come un investimento nello sviluppo sociale ed 60 economico (Fondazione Farmafactoring, 2011). Ha quindi senso economico proteggere i finanziamenti per i servizi sanitari “cost effective”, compresi i servizi di sanità pubblica (ad es. prevenzione primaria), che hanno dimostrato di migliorare la salute a costi relativamente bassi, contribuendo alla ripresa economica (Atella et al. 2013). Gli effetti della crisi sulla salute degli italiani. Quali sono gli effetti di tali avvenimenti sulla salute della popolazione? La letteratura economica suggerisce che crisi di questo tipo hanno conseguenze significative (di breve e di lungo periodo) sui sistemi sanitari dei paesi e sulla salute dei cittadini. Purtroppo, queste conseguenze non sono sempre facili da individuare e quantificare, visto che la crisi è ancora troppo vicina (e in alcuni paesi è ancora presente) per permettere di comprendere fino in fondo tutti i danni che potrebbe aver causato. La principale conclusione che possiamo trarre da quest’analisi è che, nonostante tutto, la salute degli italiani in questi cinque anni di crisi continuata ha “tenuto”, nonostante le condizioni economiche (livello di reddito e diseguaglianza nei redditi) siano peggiorate in modo sensibile per una grossa fetta della popolazione. Ciò che emerge dal Rapporto è che si sono avuti degli effetti di breve periodo, soprattutto in termini di salute mentale e di incidenti. Infatti, le evidenze mostrano che ci sono aumenti nel numero di suicidi - la punta dell’iceberg della salute mentale - e nei casi di depressione e ansia. Come in molti altri paesi, e come già accaduto in esperienze passate, abbiamo assistito a un calo delle morti e degli infortuni per incidenti stradali e a un aumento delle patologie legate allo stress. Al contrario, non sembrano essere visibili cambiamenti rilevanti nelle prevalenze delle patologie infettive, cosa che invece è accaduta in altri paesi (in particolare in Grecia). Sul fronte dello stato di salute generale e delle patologie croniche, tutte le fonti e tutti gli indicatori utilizzati hanno mostrato che il sistema complessivo della salute degli italiani per ora non è stato colpito dalla crisi. I dati ISTAT mostrano una sostanziale stabilità dal 2000, mentre a seguito della crisi alcuni degli indicatori sembrano essere leggermente migliorati (per alcuni sottogruppi della popolazione più abbiente). Continuano, invece, a persistere le diseguaglianze territoriali, demografiche e socio-economiche della salute, ma anche in questo caso non sembra esserci stato alcun sintomo di un deterioramento della situazione a seguito della crisi. Le lezioni per il futuro. Il risultato positivo di uno stato di salute della popolazione pressoché immutato a seguito della crisi non deve però trarre in inganno pensando che siamo immuni a questi fenomeni e, soprattutto, che lo saremo in futuro. La crisi ha posto notevoli sfide per i sistemi sanitari di tutti i paesi più avanzati, in particolare per quelli europei in cui i sistemi di welfare sono molto generosi. In un contesto in cui da un lato disoccupazione e povertà faranno aumentare la domanda di servizi sanitari, e dall’altro i bilanci pubblici continuano ad essere limitati in termini di risorse disponibili, gli effetti della crisi sulla salute rischieranno di diventare più evidenti col passare del tempo. Le politiche sociali possono sicuramente attenuare gli effetti negativi sulla salute, limitando i periodi di disoccupazione, fornendo reti di sicurezza per le persone senza lavoro, prevenendo così gli effetti negativi sulla salute dovuti all’essere disoccupato. Inoltre, il settore sanitario ha un ruolo fondamentale nella protezione sociale fornendo 61 un accesso tempestivo ed equo a servizi sanitari efficaci, garantendo anche che le persone non subiscano nuove difficoltà finanziarie a causa dei problemi di salute. In questi casi, il modo in cui si risponde e la velocità della risposta sono, sicuramente, le armi più importanti a disposizione dei policy maker. Non è difficile immaginare che nei prossimi anni ci si potrà aspettare un aumento nelle differenze territoriali e regionali nello stato di salute della popolazione come effetto delle eterogeneità con cui oggi i policy maker hanno risposto alla crisi. Le politiche da adottare. La sfida più importante che oggi si possa raccogliere è riuscire a vedere questa crisi economica e finanziaria come un'opportunità per introdurre riforme del sistema sanitario e, più in generale, del sistema di sicurezza sociale. E’ noto che più le riforme coinvolgono importanti cambiamenti strutturali, più sono difficili da attuare rispetto - per esempio – a semplici interventi che possano tendere a ridurre i prezzi dei farmaci o introdurre misure di compartecipazione alla spesa. Riforme che incidono in modo strutturale sul sistema richiedono anche investimenti in capitale umano, fisico e finanziario, quest’ultimo obiettivo comune per i tagli. Come già ampiamente discusso nel Rapporto della Fondazione Farmafactoring dello scorso anno, occorre cambiare in modo strutturale la sanità in Italia, cercando di introdurre politiche efficaci per prevenire le malattie, rafforzare l'accesso a cure primarie di qualità e migliorare il coordinamento delle cure, soprattutto per le persone con patologie croniche. I vantaggi di una tale operazione sono elevatissimi. Purtroppo, però, in questi anni poco di tutto ciò è stato fatto e, se è stato fatto, si tratta di iniziative locali che non faranno altro che aumentare le differenze territoriali che in Italia sono già elevate. Per vincere questa sfida è necessario cambiare rotta su una serie di aspetti che hanno caratterizzato la politica sanitaria italiana dal 2001 fino a oggi. In primo luogo occorre evitare che il sistema sanitario nazionale sia l’espressione, a volte schizofrenica, delle volontà di 21 regioni che, in nome della riforma federalista, interpretano il dettato costituzionale come la possibilità di operare senza vincoli, salvo poi avere un salvatore di ultima istanza nello Stato. L’esempio delle regioni con Piani di Rientro è il caso più eclatante di un modus operandi in completa autonomia da parte dei governatori per cui, alla fine, chi paga sono i cittadini/pazienti con tasse più elevate e servizi di minore qualità. Un secondo aspetto è riuscire a identificare e condividere al meglio le best practice presenti nel settore a livello locale (e sono tante). Per fare ciò occorre, però, una struttura di raccordo centrale, capace di valutare, trasferire e aiutare a implementare best practices ovunque ce ne sia bisogno. Infine, occorre un notevole investimento in capitale umano per permettere un effettivo monitoraggio e una puntuale valutazione di ciò che si sta facendo. Per fare questo è necessario avere a disposizione dati tempestivi e pertinenti e, soprattutto, un facile accesso agli stessi. A scanso di equivoci, vale la pena sottolineare che auspicare un cambiamento in questa direzione non vuole certo significare voler tornare indietro al dirigismo centralista precedente agli anni 2000. I vantaggi di una gestione locale più vicina al paziente sono a tutti noti e, quindi, va preservata. Al tempo stesso occorre però rivalutare il ruolo di cooperazione e di scambio di esperienze tra regioni e tra centro e regioni che in questi anni è venuto a mancare per vari motivi. In assenza di tali condizioni, in futuro ogni situazione di difficoltà sarà sempre un’emergenza, con il rischio sempre maggiore di rendere il sistema meno sostenibile e la salute dei cittadini più precaria. 62 Bibliografia Askitas N., e K.F. Zimmermann (2011), Health and Well-Being in the Crisis, Discussion Paper No. 5601, IZA. Agenzia Nazionale per i Servizi Sanitari Regionali - Agenas (2012), Dossier Copayment, Atella V. and G. Nunziante (2011). Gli effetti “micro” e “macro” della spesa sanitaria sulla crescita economica, in “Il Sistema Sanitario in controluce – Rapporto 2010”, Fondazione Farmafactoring, Franco Angeli, Milan. Atella V., Cincotti F. e Kopinska J. (2012a). La spesa sanitaria e i vincoli di finanza pubblica, in Fondazione Farmafactoring (a cura di), Il Sistema Sanitario in controluce – Rapporto Farmafactoring 2011, Franco Angeli, Milano Atella V., Cincotti F, Conti V. e Kopinska J. (2012). 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