Testo del racconto - Liceo Scientifico Castelnuovo

Liceo Scientifico Statale “G. CASTELNUOVO”
Alunna: Lia De Benedictis
Concorso “Narrativa giovane” “Nuova Antologia”
Precarietà ed abbandono
Salimmo sulla piccola Clio blu, il vetro ancora coperto dalla brina notturna. Per le strade non c'era molta
gente, la luce verde dei semafori continuava ad accendersi e spegnersi senza che a nessuno importasse
granchè. Mia sorella si accese una sigaretta mentre guidava, alla radio c'era Tracy Chapman con una delle
sue canzoni più belle, alzò il volume per coprire l'assenza di conversazione tra noi tre. Ebbi l'impressione
che mia mamma nascondesse il luccichio dietro ai grossi occhiali da sole neri che non mi erano mai piaciuti
molto.
Alla stazione salutammo mia sorella e finalmente ci lasciammo portare dal dondolio del vecchio intercity
aspettando solo che gli alti palazzi di Napoli apparissero dall'altra parte del vetro del finestrino polveroso.
Agitandomi sul seggiolino, rimpiansi i lunghi viaggi in macchina che affrontavamo noi quattro, quando i
nonni abitavano ancora al porto e potevano ospitarci tutti. I lunghi viaggi con mio padre che borbottava
contro ogni altra macchina ci passasse accanto e le discussioni per scegliere una canzone che andasse bene
a tutti.
Arrivammo alla stazione. Nessuno zio ad aspettarci. Prendemmo la metro fino a Fuorigrotta, il quartiere
residenziale dove si erano trasferiti da quando mio nonno era andato in pensione e mia nonna non era più
riuscita a prendersi cura della grande casa al porto, al quarto piano della torretta in fondo a sinistra
dell'edificio pulito di cui ora ricordo solo la luce e i pilastri bianchi. Della casa invece ricordo tutto: i vestiti
verdi di mia nonna, il davanzale della finestra su cui apparecchiavo per me e le vecchie bambole di pezza, il
terrazzo che poggiava sul mare, talmente vicino nei miei ricordi all'acqua torbida del porto su cui sfilavano
le navi che se avessi allungato una mano l'avrei toccata. Il salone, con i divani marroni su cui noi bambini
non potevamo sedere, il presepe illuminato e l'immancabile odore di cannelloni al pomodoro.
Arrivammo in via Lepanto nel pomeriggio, ma era già buio, i lampioni già accesi. Al settimo piano di uno dei
tanti palazzi, i nonni ci aspettavano sull'uscio. Forse erano davvero contenti di vedermi dopo due anni, ma
non lo dimostrarono particolarmente. La nonna dimagrita, lo sguardo spento, il mio nonno col sorriso
compunto di sempre,quando ero bambina, che mi faceva quando voleva rassicurarmi. Ora ero io a volerli
tranquillizzare, a chiedere come stavano, a cercare d'imbastire una conversazione senza far pesare la
difficoltà di un rapporto basato su visite sporadiche e quell'unica telefonata all'anno per il compleanno.
In casa c'era odore di chiuso. Uscii sul balcone per fumare una sigaretta. Palazzi, balconi, finestre illuminate,
non c'era altro. Palazzi alti, terrazzi ingombri di oggetti, fili con biancheria appesa, biciclette. In mezzo a
tutti quelli che mi sembravano grattacieli a confronto con i bassi palazzi fiorentini, un cortile, sporco, con le
mattonelle rotte. Mi chiesi se anche in quello i bambini scendessero a giocare a palla, come facevamo mia
sorella ed io nel cortile di casa nostra.
Il buon umore che di solito mi accompagnava quando partivamo per un viaggio, a prescindere dalla
destinazione, cominciò a diminuire.
Il giorno dopo mi svegliai, prima di capire qual era il mio umore sbirciai da dietro le tende bianche del
salotto: era una di quelle giornate gelide col cielo terso, potevo essere contenta.
Mentre la mamma si prendeva cura della nonna, mi sedetti in salotto con un libro, sorrisi al nonno, che
però mi guardò appena, e tornò a fissare la TV spenta, sempre con le labbra piegate in modo mite, appena
accennato. Sì, forse in fondo era contento di vedermi.
Mia madre era preoccupata; io mi chiedevo solo dove fosse la zia, non sapevo che fine avesse fatto da
quando aveva litigato con la mamma e si era trasferita dal palazzo in cui stavano i nonni in una zona più
centrale. Del centro di Napoli avevo qualche vago ricordo, un giro fatto con gli zii, giù per i quartieri
spagnoli e poi in piazza Plebiscito, assolata. Avevo ancora una foto scattata lì. Nonostante fosse in bianco e
nero, si vedeva che era una giornata limpida. Sapevo anche che diverse volte la mamma ci aveva portato a
Castel dell'Ovo e al Maschio Angioino, ma non ricordavo niente di quei posti, se non le leggende che
davano il nome ai due castelli. Era passato troppo tempo, i nonni stavano ancora bene e la mamma aveva
molto più tempo per portare mia sorella e me in giro per la città.
Ora quando andavamo a Napoli c'erano tante cose da fare: portare i nonni alle visite mediche, fare la spesa,
qualche faccenda. Io cercavo di aiutare, discretamente, in silenzio, con il dispiacere che si leggeva in ogni
gesto e parola di mamma, che mi levava la voglia di parlare.
Finalmente, iniziato il pranzo, uscimmo a fare un giro del quartiere, io e lei.
Ci avviammo verso il mercato e ancora conversare era innaturale e forzato.
Le strade erano larghe, le macchine sfrecciavano, i pedoni si lanciavano in coraggiosi attraversamenti o
camminavano per la strada perché i marciapiedi erano inagibili a causa dei rifiuti sparsi ovunque. Evitando i
mucchi di buste di rifiuti, mi chiesi da quando Napoli fosse in quello stato. Ricordai mio zio che ci
raccontava di essere stato fermato una sera da un tipo con una pistola, mentre tornava a casa da una festa.
Sembrava uno di quei racconti da leggenda, così distante dalla realtà fiorentina. Come poteva mio zio voler
continuare a vivere lì, a crescere i due gemelli appena nati?
Stai attento alla borsa, nascondi la macchina fotografica…
I palazzi sembravano troppo alti per essere nati là, aggrappati alla strada in salita che portava al mercato. La
mamma fece qualche commento sulla speculazione edilizia che ascoltai solo parzialmente, ma forse
inconsciamente mi colpì perché iniziai a sentire una sensazione di precarietà. Precarietà ed abbandono. Per
la strada le persone urlavano in dialetto, il mercato brulicava di gente indaffarata. Mi pareva che ogni cosa
in quel posto invadesse la mia intimità, mi sentivo scoperta, disarmata.
Traffico, altri rifiuti, mobili rotti per le strade. Un cane randagio frugò e si fermò riscaldato dai raggi del sole
di quella giornata di inizio inverno.
Pensai di nuovo ai nonni, nella casa illuminata a neon, dove ricevevano le visite dei figli, pur con la
consapevolezza di essere “cinque minuti” ritagliati in una giornata frenetica. Poi i figli uscivano da quel
palazzo anonimo di via Lepanto, prendevano l'auto, rigorosamente lasciata nel garage del palazzo per non
dover pagare quei due spiccioli che i parcheggiatori abusivi chiedevano. E se uno non paga, mamma?
Davvero ti vengono a cercare?
Avrei voluto tornare in piazza Plebiscito, con quelle arcate, le statue dei re. Lì, non ricordavo di aver visto
bottiglie rotte e sacchetti strappati. Forse le zone centrali si erano salvate, o forse due anni prima gli
accumuli di spazzatura per le strade non erano ancora così evidenti. Non so, e non mi sento di poter
giudicare o dare la colpa a qualcuno, se di colpe si tratta. Mi chiedo solo come si possa vivere in un posto di
cui si ha la sensazione che esso non importi a nessuno, lontano dalle cure delle istituzioni. Lontano dalla
mia facile e tranquilla Firenze.
Di nuovo avevo perso la voglia di parlare, ma mi sforzai per alleggerire il carico della mamma. Sapevo, e
vedevo, che era mortificata, e aveva forse perso il suo piglio da napoletana. Come diceva lei, non prestava
più quella costante e faticosa attenzione a ogni cosa, aveva smesso di tenere sempre gli occhi aperti, di
vigilare, poiché Firenze, dove viveva ormai da anni, non lo richiedeva. La consapevolezza di questa
attitudine persa la portava ad essere ancora più diffidente.
Tornammo al settimo piano di uno dei tanti palazzi di via Lepanto. Quasi mi sentii sollevata, nonostante il
viso scavato della nonna, e la TV ancora spenta davanti al mio nonno. Quel giorno, comunque, sembravano
più contenti; io raccontai della scuola e tutte le altre cose che costituivano e costituiscono la mia
quotidianità, ma che tuttavia non suscitano in me grande interesse o emozioni.
Il giorno dopo ripartimmo nel tardo pomeriggio. Il nonno mostrò ancora uno straccio di quell'ansia che
aveva sempre quando si parlava di viaggi. “Mi raccomando avvertite quando arrivate”. La nonna mi dette i
soldi, come sempre, “per te, per un gelato”.
Via via che ci avvicinavamo alla stazione sentivo una punta di dispiacere graffiarmi sempre più
fastidiosamente. Forse, i nonni stavano cenando nella piccola cucina. Intanto qualcuno stava tornando da
una festa senza sapere cosa lo aspettasse, qualcuno ammassava altri rifiuto per strada.
Poi, salimmo sul treno, partì col suo dondolio. Ero stanca, molto stanca, e forse, sotto sotto, di buon umore:
tra qualche ora sarei stata a casa e da sotto il piumone avrei potuto ricominciare a pensare alla scuola, e a
tutte quelle cose che costituivano la mia vita.
Il treno correva sui binari e io prendevo consapevolezza, pur senza ammetterlo, che il rapporto con i nonni
ormai era irrecuperabile, mancavano le fondamenta di una vita vissuta insieme. E mi rendevo conto che di
Napoli, forse, non mi importava così tanto: una volta arrivata a casa, saremmo stati tutti e quattro
finalmente insieme. Ora che ero nella calda e fidata Firenze vedevo Napoli da un'altra prospettiva: restava
la città natale della mamma o, tutt'al più, un paragrafo su un giornale.