CROCEVIA COLLANA DI STUDI DI ANTROPOLOGIA RELIGIOSA Direttore Alessandra C “Sapienza” Università di Roma Comitato scientifico René C M Universidad de La Habana Enrico C Università di Torino Laura F “Sapienza” Università di Roma Dulce Milagros N Universidad de La Habana CROCEVIA COLLANA DI STUDI DI ANTROPOLOGIA RELIGIOSA Noi battiamo ogni giorno la speranza di una salvezza ancora incomprensibile — A C Nella società contemporanea la vita religiosa è traversata da un nuovo fervore, che si manifesta in fenomeni di diverso segno. Da un lato, il declino in alcuni continenti delle istituzioni religiose tradizionali, che pure tentano di rinnovarsi, adottando strategie consone ad una società fondata sul mercato e sullo spettacolo; dall’altro, l’emergere di nuove forme fortemente condizionate dai tratti propri dell’economia neo–liberale e dalla condizione di vita in cui opera l’uomo post–moderno, le quali ricorrono al marketing e ai mass media per divulgare i loro “beni spirituali”. Accanto a questi fenomeni complessi e contraddittori è possibile individuare anche l’espansione di forme religiose, come quelle sincretiche di origine africana, prima relegate in sfere marginali della vita sociale, che oggi invece, in particolare attraverso internet, si presentano come la concezione del mondo più adeguata a dare risposta ai quesiti esistenziali dell’uomo contemporaneo. Infine, è possibile osservare una certa vitalità di quello che molti hanno chiamato “cattolicesimo popolare”, scaturito dall’incontro conflittuale tra le religioni tradizionali dei gruppi etnici travolti dalla colonizzazione e dall’evangelizzazione, il quale adotta nuovi riti e nuovi culti, proponendo addirittura in alcuni casi una nuova teologia. Obiettivo di questa collana è cogliere e comprendere i processi, dai quali scaturiscono questi fenomeni, pubblicando sia monografie sia opere di carattere più generale, che tengano in particolare conto sia la dimensione soggettiva sia la relazione tra i diversi contesti religiosi e le dinamiche socio–culturali complessive. Elisabetta Dall’Ò Il senso della morte La Valle d’Aosta tra Santi e riti funebri Prefazione di Luciano Allegra Copyright © MMXIV ARACNE editrice int.le S.r.l. www.aracneeditrice.it [email protected] via Quarto Negroni, Ariccia (RM) () ---- I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento anche parziale, con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi. Non sono assolutamente consentite le fotocopie senza il permesso scritto dell’Editore. I edizione: settembre Indice Prefazione Introduzione Capitolo I La morte tra Storia e Antropologia .. Vita e morte: una questione di confini, – .. Bioetica e Medicina: l’invenzione della morte cerebrale, – .. La Morte Apparente, – .. La Morte tra XIX e XX secolo, . Capitolo II La vita sociale dei corpi oltre la morte tra santi e reliquie .. Le Reliquie: circolazione e pellegrinaggi, – .. San Grato e le reliquie della Diocesi di Aosta, – .. Il Santo taumaturgo: la devozione a San Grato, – .. Lungo la via Francigena: L’Ospizio del Gran San Bernardo e la Cappella dei morti, . Capitolo III Metafore e immagini della Morte .. La morte come viaggio, – .. Les revenants e l’aldilà, – .. Le processioni dei morti, – .. Sonno e sogno, – .. Mortali vs Immortali, – .. Lo djablo, il trickster, . Capitolo IV Limbo, Battesimo, e Aldilà .. Relevailles e Limbus puerorum, – .. Bambini del Limbo: i Folletti, – .. Battesimo, nome, e terra consacrata, . Indice Capitolo V Il ritorno alla vita .. I santuari a répit, – .. Diffusione in Valle d’Aosta, – .. Il rito, . Capitolo VI Il contributo di Robert Hertz .. Hertz, San Besso, e la Valle d’Aosta, – .. Le vie dei morti e Pian Polenta, – .. L’intuizione di Robert Hertz, – .. L’interesse per il corpo e il lutto, . Capitolo VII Rituale Augustanum .. Il Rituale: uno sguardo storico, – .. Tra riti dei vivi e riti dei morti: Usages, – .. La liturgie des malades, – .. L’Ufficio dei defunti, . Capitolo VIII La Confraternita della Santa Croce .. Organizzazione, – .. La Confraternita e i condannati a morte, – .. La Consolatio, – .. Il privilegio della “grazia”, – .. Tra religione e società, . Capitolo IX I testamenti .. I formulari, – .. Il ritorno alla morte, – .. L’invasione devota, – .. Quotidie morior, – .. La desacralizzazione della morte, . Fonti d’archivio Bibliografia Prefazione Nel suo celebre Il ramo d’oro, James Frazer dedicò al tema della morte un interesse relativamente secondario, circoscritto alle uccisioni dei re, dello spirito dell’albero, dell’animale divino e del dio nei riti aztechi. La morte veniva evocata solo in quanto associata a qualche culto particolare, meglio se esoterico e arcano, una scelta per altro dettata dalla natura stessa dello studio, incentrato precipuamente sulla magia e la religione nelle società arcaiche. E tuttavia quella pur breve trattazione inscriveva d’ufficio il tema nell’agenda dell’antropologo: da quel momento, la morte faceva il suo ingresso ufficiale in una disciplina che, nel corso del Novecento, avrebbe conquistato una autorevolezza e una importanza cruciali nell’ambito delle scienze umane. A distanza di pochi anni dalla prima edizione de Il ramo d’oro (), alcuni esponenti della scuola sociologica francese, allievi di Durkheim, riprendevano il tema della morte adottando lo stesso approccio comparativo di Frazer, ma allontanandosi decisamente dalla sua ispirazione positivista. Rifacendosi alle idee del maestro sviluppate nel celebre lavoro sul suicidio, Robert Hertz, Arnold Van Gennep e Marcel Mauss cercarono di superare il piano dell’analisi etnografica delle culture arcaiche, inquadrando i riti della morte in una ricerca delle leggi generali della società . Hertz si poneva l’obbiettivo di ricostruire le coordinate mentali della morte, individuando la chiave interpretativa generale per cogliere le dimensioni culturali della morte fisica. Van Gennep inseriva la dimensione della morte all’interno di una nuova categoria interpretativa, i “riti di passaggio”, cerimonie elaborate dalle società per marcare le transizioni fra i diversi stati della vita di ciascun individuo. Nella sua visione i riti di accompagnamento . E. D, Le Suicide, étude de sociologie, Alcan, Paris ; R. H, Contribution à une étude sur la représentation collective de la mort, in “Année sociologique”, première série, tome X, –, pp. –; Arnold V G, Les Rites de passage, É. N, Paris ; M. M, Effets physiques chez l’individu de l’idée de mort suggérée par la collectivité (Australie, Nouvelle–Zélande), in “Journal de Psychologie Normale et Supérieure”, XXIII (), pp. –. Prefazione della morte servivano a conferire al defunto le proprietà che gli avrebbero consentito, o negato, la possibilità di avere transazioni future con i vivi. Dal canto suo Mauss suggeriva che le condizioni nelle quali avveniva il decesso nei casi di studio da lui presi in considerazione permettono di comprendere che la naturalità accordata al trapasso sarebbe in realtà in gran parte artificiale. Se lo sguardo descrittivista e comparato tipico dell’etnografia della prima ora, quella di Frazer, avrebbe segnato il passo nei decenni successivi, non v’è dubbio che fu proprio a partire dalle indicazioni contenute nei lavori della scuola francese che si sarebbe sviluppata nel corso del Novecento tutta la ricerca nel campo dell’antropologia della morte. Con alcune differenze, però, rispetto ai padri fondatori. Anzitutto, lo sguardo si sarebbe spostato sempre di più sull’esame di casi singoli, anziché su un’interpretazione generale di stampo strutturalista, e ci si sarebbe tendenzialmente allontanati dallo studio delle società arcaiche o, come si usava dire fino a non molti decenni fa, “primitive”, per accostarsi sempre più a quelle contemporanee . Un contributo rilevante in questa direzione, e di grande originalità sotto il profilo epistemologico, venne dalle indagini che uno studioso italiano, Ernesto De Martino, condusse sui riti mortuari e l’elaborazione del lutto nel Mezzogiorno . In quei lavori, la ricerca etnografica diventava l’occasione per una analisi quanto mai particolare del rapporto mito–rito, che veniva letto sia nella sua profondità storica, sia nelle sue implicazioni psicanalitiche. Proprio mentre De Martino cominciava a pubblicare i risultati dei suoi lavori, anche gli storici iniziarono ad accostarsi al tema della . Fra i migliori esempi, L.–V. T, Anthropologie de la mort, Payot, Paris ; L. D, The Death Rituals of Rural Greece, Princeton University Press, Princeton ; R. H, P. M (a cura di), Celebrations of Death: The Anthropology of Mortuary Ritual, Cambridge University Press, Cambridge (trad. it. il Mulino, Bologna ); C. P, P. L, B. Y (a cura di), Death and Bereavement Across Cultures, Routledge, London ; D. D, Death, Ritual, and Belief: The Rhetoric of Funerary Rites, Cassell, London (trad. it. Paravia Scriptorium, Torino ); M. S, La scena degli addii. Morte e riti funebri nella società occidentale contemporanea, Paravia Scriptorium, Torino ; G.M.A. R (a cura di), Death, Mourning and Burial: A Cross–Cultural Reader, Oxford, Blackwell . . Di cui si veda il classico Morte e pianto rituale nel mondo antico: dal lamento pagano al pianto di Maria, Einaudi, Torino . Sulla stessa scia di De Martino si inserirà in seguito Alfonso Maria D N col suo La nera signora: antropologia della morte, Newton & Compton, Roma . Prefazione morte, ma non per imitazione o perché ispirati dalle discipline socio– antropologiche. Nell’immediato secondo dopoguerra il gruppo di studiosi legato alle “Annales”, allora all’avanguardia in Europa per il carattere innovativo dei filoni di ricerca inaugurati, promosse un indirizzo di studi destinato ad avere grande risonanza internazionale: quello della storia delle sensibilità e delle mentalità collettive. Al loro interno, il tema degli atteggiamenti degli uomini del passato di fronte alla morte venne ad occupare un ruolo sempre più importante, ulteriormente sollecitato, del resto, dalla vera e propria esplosione in quegli anni della demografia storica, la nuova branca di studi imperniata su una triade di variabili fra le quali spiccava, appunto, la mortalità . E tuttavia, paradossalmente, lo studio che doveva autorevolmente inaugurare il filone uscì dalla penna di un italiano, Alberto Tenenti, che trasferitosi a Parigi dal presso la prestigiosa Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales pubblicò nel e nel due fondamentali monografie sul senso della morte nel Rinascimento . Appoggiandosi a una documentazione di natura prevalentemente iconografica, Tenenti mostrava come nella Francia e nell’Italia del periodo il mito umanista e aristocratico della gloria si sarebbe fuso con la concezione cristiana dell’immortalità, dando luogo a nuove forme di ars moriendi nelle quali l’anima del moribondo divenne la posta in palio di una battaglia tra cielo e inferno. Nell’arte e nella letteratura, con la sua inclinazione per il gusto del macabro, ma soprattutto nell’antitesi tra un cristianesimo medievale rivolto all’aldilà e un Rinascimento che guardava prettamente alla vita terrena, Tenenti individuava un momento epocale di rottura del tradizionale modo di concepire la morte e una delle spie più forti del passaggio al clima nuovo dell’età moderna. Con Tenenti, la storiografia aveva finalmente abbordato il tema della morte, ma ne aveva restituito una immagine molto parziale, . A dire il vero gli studi sulla concezione della morte nel passato avevano avuto un precursore in uno dei maggiori sinologi del Novecento, Marcel Granet, che già all’inizio degli anni venti aveva pubblicato due fondamentali saggi sul tema: La vie et la mort. Croyances et doctrines de l’antiquité chinoise, Imprimerie Nationale, Paris ; Le langage de la douleur d’après le rituel funéraire de la Chine classique, in « Journal de Psychologie », , , pp. –.. . La vie et la mort à travers l’art du e siècle, A. C, Paris e Il senso della morte e l’amore della vita nel Rinascimento: Francia e Italia, Einaudi, Torino . Prefazione perché le fonti privilegiate nella ricerca — le immagini, la poesia, la letteratura macabra — potevano restituire solo le rappresentazioni dell’evento elaborate in seno alle classi colte. Per cogliere la natura degli atteggiamenti degli altri strati della società di fronte al fenomeno, e le loro trasformazioni nel tempo, occorreva rivolgersi a una documentazione altrettanto eloquente, ma meno elitaria. La scelta cadde sui testamenti, una fonte i cui giacimenti si ritrovano sistematicamente in tutti gli archivi europei e che copre senza grosse soluzioni di continuità il lungo periodo che va dal medioevo a oggi; soprattutto, però, una fonte che testimonia la sensibilità e le scelte di una vasta platea di persone, senza distinzioni di sesso o di censo. Fu François Lebrun a produrre, nel , il primo studio esemplare su una regione francese, l’Anjou, le cui dinamiche demografiche, con particolare attenzione all’andamento del tasso di mortalità, venivano messe in relazione con le strutture sanitarie, le conoscenze medicali, le pratiche magico–religiose e i sentimenti che la morte induceva . Basandosi su una amplissima documentazione, ma facendo perno proprio sui testamenti, Lebrun sosteneva che le frequenti e devastanti crisi di mortalità che fra Sei e Settecento colpirono quella regione, come del resto gran parte del continente, avrebbero spinto gli uomini ad avere un rapporto molto più intenso di prima con la religione: un rapporto che si concretò in una massa imponente di legati e lasciti pii per messe e istituzioni ecclesiastiche. Dal canto suo, la chiesa avrebbe sfruttato la crescente paura della morte sia per incamerare laute donazioni, sia per ammaestrare i fedeli in merito al “giusto” cammino da percorrere. Eppure, aggiungeva, a partire dagli anni sessanta del ‘ le fonti registrano una sempre più marcata inversione di tendenza: la richiesta di messe e i legati pii diminuirono sensibilmente, rispecchiando con ciò il processo di laicizzazione in atto nella società generale. La stessa tesi, di una inarrestabile laicizzazione del tessuto sociale, venne ripresa qualche anno dopo da Michel Vovelle in una ricerca di ampio respiro sulla scristianizzazione nella Provenza del XVIII secolo. L’interesse maggiore di questo lavoro non consisteva tanto nell’imponente spoglio di molte migliaia di atti testamentari, quanto nella dimostrazione che il testamento è una fonte polisemica, che non testimonia solo gli aspetti . F. L, Les hommes et la mort en Anjou aux XVIIe et XVIIIe siècles. Essai de démographie et de psychologie historique, Mouton, Paris . Prefazione legati alle pratiche devolutorie e funerarie, ma illustra una molteplicità di atteggiamenti e sentimenti che attengono al piano degli affetti, delle idee religiose, delle relazioni sociali, del rapporto dei testatori con la sfera pubblica, dalle istituzioni caritativo–assistenziali alle compagnie devozionali, alle confraternite . E proprio dallo sfruttamento di una delle tante potenzialità della documentazione testamentaria mostrate da Vovelle prese l’avvio un altro filone, certo fra i più interessanti e fecondi dello studio del rapporto degli uomini del passato con la morte: quello dei sistemi ereditari. Inaugurato dal pionieristico lavoro di Jack Goody, esso avrebbe mostrato fra anni settanta e ottanta l’esistenza, nell’Europa dal medioevo all’Ottocento, di una grandissima varietà di pratiche devolutorie dipendenti da molteplici variabili: la geografia, gli usi consuetudinari, il diritto, il sesso, lo status sociale, la congiuntura economica . I sistemi ereditari però, come ha sottolineato Natalie Zemon Davis, non regolavano soltanto i prosaici passaggi di proprietà lungo le generazioni, ma garantivano un prolungamento del rapporto fra morti e vivi, che si concretizzava principalmente nell’affidamento alla famiglia delle pratiche di salvezza dell’anima: si dava così luogo a una sorta di “continuità verticale”, mediante la quale i defunti continuavano ad appartenere alla famiglia stessa . In ogni . M. V, Piété baroque et déchristianisation en Provence au XVIIIe siècle, Édition du Seuil, Paris ; Id. (a cura di), Mourir autrefois: attitudes collectives devant la mort aux e et e siècles, Gallimard, Paris . Sulla scia dei lavori di Vovelle si pongono, fra gli altri, Ph. G, Echec d’une sensibilité baroque: les testaments rouennais au XVIIIe siècle, in “Annales E.S.C.” n° , , pp. –; Pierre C, La mort à Paris, XVIe , XVIIe , XVIIIe siécles, Arthème Fayard, Paris ; Jacques C, La comptabilité de l’au–delà. Les hommes, la mort et la religion dans la région d’Avignon à la fin du moyen âge, vers –vers , École Francaise de Rome, Roma ; Id., Perché cambia la morte nella regione di Avignone alla fine del Medioevo, in “Quaderni storici”, n° , , pp. –; A. P, Testamenti in tempo di peste: la pratica notarile a Bologna, in “Società e Storia”, nº , , pp. –; M.A. V, Corpo e sepoltura nei testamenti della nobiltà napoletana (XVI–XVIII secolo), in “Quaderni Storici”, n° , , pp. –; S. C, Matrimoni in tempo di peste. Torino nel , in “Quaderni storici”, n° , , pp. –; M.A. V, Il bisogno di eternità. I comportamenti aristocratici a Napoli in età moderna, Guida editori, Napoli ; C. B, Testamenti di ebrei del ghetto di Venezia (sec. XVII), in “Archivio Veneto”, n° , a. CXXI, V ser., , vl. CXXXV, pp. –; E. G, Lasciti femminili. Le ultime volontà delle donne torinesi a fine Settecento, /, Torino, Quaderni di Donne & Ricerca. . J. G, J. T, E.P. T (a cura di), Family and Inheritance: Rural Society in Western Europe, –, Cambridge University Press, Cambridge . Fra i moltissimi lavori che si posero sulla sua scia vedi esemplarmente S.K. C ., Death and Property in Siena, –. Strategies for Afterlife, Johns Hopkins University Press, Baltimore, . . N. Z D, Ghosts, Kin, and Progeny: some features of family life in early modern Prefazione caso, lo sforzo più ambizioso di descrivere l’evoluzione complessiva del senso della morte nella civiltà europea è stato quello profuso da Philippe Ariès nella sua monumentale opera sull’uomo e la morte dal medioevo ai giorni nostri . La tesi che vi viene sviluppata è che, alla fine del medioevo, si sarebbe passati da una sorta di “rassegnazione famigliare al destino della specie” a uno stato d’animo pervaso dal dramma tutto personale della perdita “del sé”, un sentimento che si sarebbe protratto fino al Settecento, quando, più che preoccuparsi della propria morte, gli uomini avrebbero preso a interessarsi di quella degli altri: da qui, la diffusione della pratica del cordoglio e dell’attitudine al ricordo, ma anche la genesi dei nuovi culti delle tombe e dei cimiteri. Infine, nel Novecento, la morte, un tempo così familiare e presente nell’esistenza quotidiana, sarebbe stata tendenzialmente occultata dalla sua medicalizzazione e sottratta all’esperienza comune in quanto presenza vergognosa e imbarazzante. Salvo rare eccezioni, gli scambi e i confronti fra le due tradizioni di studio esaminate sono stati finora del tutto episodici e certo non sostanziali. Nonostante l’avvicinamento che si è registrato dalla metà degli anni ottanta del Novecento fra storia e antropologia — in realtà fra la storia sociale e la microstoria da un lato e l’antropologia “interpretativa” di Clifford Geertz dall’altro — le due discipline non hanno operato significative convergenze sul tema specifico della morte, né sotto l’aspetto metodologico, né sotto quello delle ipotesi e dei modelli interpretativi. La presente ricerca di Elisabetta Dall’O’ sfata questo tabù dell’incomunicabilità, mostrando come anche sul terreno dell’analisi delle credenze, dei miti e dei riti, dei culti, degli atteggiamenti e dei sentimenti di fronte alla morte l’interscambio possa dare risultati rilevanti e di assoluta novità. Cimentandosi su un caso di studio liminale, una regione di confine fra tradizioni culturali diverse, non a caso la stessa sulla quale si erano misurati Van Gennep e Hertz, l’autrice rintraccia l’origine dei culti mortuari e documenta l’esistenza di pratiche antiche legate alla morte, alcune delle quali afFrance, in “Daedalus”, CVI, nº , , pp. –. . Ph. A, Essais sur l’histoire de la mort en Occident du Moyen Age à nos jours, Editions du Seuil, Paris (trad. it. Rizzoli, Milano ) e L’Homme devant la mort, Editions du Seuil, Paris (trad. it. Laterza, Bari–Roma ). Sulla stessa lunghezza d’onda, ma con ben minori ambizioni, J. MM, Morte e Illuminismo. Il senso della morte nella Francia del XVIII secolo, il Mulino, Bologna, . Prefazione fondano nel mito, mentre altre vengono collocate nel preciso contesto storico che le ha generate. Si tratta di un lavoro che fonde con molto equilibrio le metodiche di raccolta dei dati e di interpretazione proprie dell’etnografia, dell’antropologia e della storia, e che è retto dalla consapevolezza che l’individuazione del momento genetico dei riti e delle pratiche, oltre all’esame delle loro trasformazioni nel tempo e dell’evoluzione dei comportamenti delle persone, sia imprescindibile per coglierne appieno il significato, le funzioni e la complessità. Siamo dunque quanto mai lontani dalle ricerche sul folklore locale o dalle ricostruzioni delle vicende circoscritte al territorio: la Valle d’Aosta offre solo l’occasione per mostrare i meccanismi in base ai quali si diffondono i culti, si radicano e si trasformano gli atteggiamenti degli individui, si elaborano forme di ritualità che vengono poi adattate ai singoli contesti, si creano le rappresentazioni collettive di eventi dell’esistenza umana cruciali come la morte. In altri termini, siamo davanti alla ricostruzione di un modello di società. L’adozione di questa prospettiva interdisciplinare ha comportato, ovviamente, il ricorso a una pluralità di fonti, sia storiche sia etnografiche: dai testamenti ai libri parrocchiali, dagli statuti delle confraternite all’iconografia dei luoghi sacri, dai libri liturgici ai repertori del folklore. Ne è emerso alla fine un quadro molto composito, nel quale pratiche e consuetudini appartenenti alla chiesa e al culto “ufficiali” si mescolano continuamente con usi, riti e credenze di altra origine, e con una diffusione di culti che travalica le giurisdizioni ecclesiastiche e i confini amministrativi. Emerge insomma una mescolanza di tradizioni diverse, spesso alternative fra loro, ma sempre coesistenti e dialoganti: un caso esemplare di quella circolarità delle culture che Ernesto De Martino e Carlo Ginzburg hanno indicato come uno dei campi di ricerca più promettenti e affascinanti delle attuali scienze umane. Luciano A Università di Torino Introduzione Il tema La morte, questa sconosciuta. Eppure la incrociamo tutti i giorni in filigrana nelle nostre vite, un po’ come quei vicini di casa, che vediamo entrare e uscire, di cui conosciamo, forse inconsapevolmente, gli orari, le abitudini, gli spostamenti, e a cui però non abbiamo mai rivolto la parola. Qualche sguardo, di sfuggita, ma nulla di più. Indifferenti e indaffarati non indugiamo in saluti, un cenno con la testa, lo sguardo basso. Ne avvertiamo la presenza, quotidiana, ma non la vediamo, o, magari, fingiamo semplicemente di non farlo. Se ci pensiamo, però, è sempre sotto ai nostri occhi, incrociamo il suo percorso ogni giorno: nelle pagine di cronaca dei quotidiani, nelle immagini delle grandi catastrofi ambientali e di guerra, nelle epigrafi affisse sui muri all’angolo della piazza, nelle sirene delle ambulanze e poi su quelle sontuose auto che accompagno i corpi nel loro ultimo viaggio, e che quando ci passano a fianco ci suscitano quel sentimento misto di curiosità, paura e timore scaramantico che quasi ci irrigidisce. La incrociamo nelle corsie degli ospedali, nei microscopi dei laboratori degli scienziati. La scorgiamo nelle pagine della letteratura, nelle ultime volontà dei testamenti, nelle tele del Caravaggio, nei vecchi album di famiglia. Solo, non possiamo afferrarla, abbiamo l’impressione che sia lì, a un passo, ma fatichiamo a seguirla, a metterla a fuoco. La morte si colloca nelle pieghe della società, ai confini tra biologia e cultura, tra passato e futuro, e invita la società a riflettere sul carattere precario dell’esistenza umana, sull’arbitrarietà e sull’artificialità dei significati di cui essa è rivestita. L’idea della morte oscilla tra costruzione e distruzione, tra mondo dei vivi e mondo dei morti, tra conservazione e oblio. Come ci ricorda Francesco Remotti, in ogni società gli esseri umani si trovano di fronte al compito di trasmettere la propria cultura e, in modo Introduzione consapevole o inconsapevole, scelgono “ciò che rimane”, “ciò che scompare”, e “ciò che riemerge” . Toute société se voudrait immortelle, et que ce qu’on appelle culture n’est rien d’autres qu’un ensemble organisé de croyances et de rites afin de lutter contre le pouvoir dissolvant de la mort individuelle et collective. Con queste parole, Louis–Vincent Thomas, antropologo francese, e fra i padri fondatori della tanatologia, ben descriveva il ruolo delle pratiche messe in atto dalle società nell’opporsi all’oblio e alla disgregazione provocati dalla morte. Scegliere ciò che rimane, suggerisce Cristina Vargas , implica decidere ciò che deve essere conservato e tramandato, sfidando la finitudine individuale. Nel garantire la permanenza di ciò che in ogni sfera sociale è considerato maggiormente importante, la cultura agisce come baluardo contro la morte, come dispositivo che garantisce la permanenza e che aiuta ad attribuire un significato, un senso, a uno dei più drammatici eventi dell’esperienza umana. L’idea di indirizzare questo lavoro di ricerca sulla morte e su ciò che essa rappresenta verso un caso di studio specifico, la cultura e la storia valdostane, nasce da un duplice interesse: da un lato la passione, personale, per la storia, e la convinzione che questa costituisca nell’incontro con l’antropologia un’occasione imprescindibile di scambio, confronto e comparazione su territori e terreni “altri”, e dall’altro da un diverso tipo di “incontro”, avvenuto, se così si può dire, durante il mio percorso di studi universitari, con una disciplina, la medicina, che costituisce uno dei maggiori baluardi contro la dissoluzione della morte. Avevo avuto modo, allora, di intravvederla nei risvolti dell’arte ippocratica, di seguirne le tracce ai confini tra pratiche del corpo, saperi scientifici, credenze; di ricercarne le complessità nel linguaggio, nei silenzi, nelle definizioni. La morte era sempre là, scacco della medicina, pronta a strappare il paziente alle cure del medico, dai . Cit. da A.C. V in A.V., Le parole ultime. Dialogo sui problemi del “fine vita”, Dedalo, Bari , p. . . « . . . ogni società vorrebbe essere immortale, e ciò che chiamiamo cultura non è altro che un insieme organizzato di credenze e di riti aventi lo scopo di lottare contro il potere di dissoluzione della morte individuale e collettiva »: Louis–Vincent T, Mort et pouvoir, Payot, Paris , p. . . A.C. V in Le parole ultime. Dialogo sui problemi del « fine vita », op. cit., p. . Introduzione “pharmakon” del buon vecchio Asclepiade, ai ferri chirurgici delle sale operatorie dell’Ottocento, ai microscopi della microbiologia, in una lotta costante, infinita, impari, ma sempre combattuta. Una presenza costante, inevitabile, ma a cui l’uomo e la società non si arrendono, e a cui tentano, sempre, di dare un significato, un senso. Quel senso che sono andata a cercare nelle fonti d’archivio originali, nei vecchi testamenti, nelle carte ecclesiastiche, nei registri parrocchiali, negli statuti manoscritti degli organismi di carità, negli antichi libri liturgici, negli “inventari del folklore” valdostano, e in tutta una letteratura sull’argomento tramandataci da storici, antropologi, etnografi e letterati che a vario titolo si sono occupati del tema a livello locale. Lo stato dell’arte L’interesse antropologico per la morte ha vissuto nel tempo sorti alterne. Argomento di interesse centrale per gli evoluzionisti, come Tylor e Frazer, che videro nelle credenze relative al destino dell’anima e dell’aldilà l’origine del pensiero religioso e del progressivo dispiegamento della cultura. La morte rappresentò allo stesso modo un campo di indagine fecondo per la nascente scuola antropologica francese che aveva tra i suoi esponenti Mauss, Hertz, Van Gennep. Hertz tentò, come vedremo più avanti, di porre in connessione il trattamento del cadavere e il destino dell’anima con le rappresentazioni collettive e le pratiche della morte: credenze, simboli, lutto, riti funebri. Fu col famoso saggio Contribution à une étude sur la représentation collective de la mort che venne formulata per la prima volta una vera e propria teoria generale sulle pratiche funerarie. Hertz era membro della “Année sociologique” diretta da Émile Durkheim, e sua preoccupazione principale era quella di individuare e analizzare il carattere non già individuale bensì sociale delle pratiche associate alla morte. Secondo Hertz questa comporta una rottura nell’ordine della società, e i riti funebri hanno il compito di sanare, ricomporre, tale rottura. Nel l’antropologo inglese Geoffrey Gorer pubblicò La pornografia della morte , un articolo, molto conosciuto nella storia della . Geoffrey G La pornografia della morte, in « Studi tanatologici », n° , , pp. Introduzione tanatologia, in cui sosteneva come la società vittoriana ottocentesca, che considerava tabù argomenti quali nascita e sessualità, vedesse invece nel lutto e nella morte uno spettacolo morale edificante, da mostrare, letteralmente, anche ai bambini. La società inglese degli anni cinquanta, invece, era arrivata a considerare l’argomento della morte come sconveniente, prude, tanto da parlarne ai bambini solo attraverso l’uso di metafore. La morte, scrisse Gorer, era divenuta argomento osceno, e lo era diventata in primo luogo sull’onda lunga della secolarizzazione, e in secondo luogo passando attraverso le maglie di una medicina rinnovata, preventiva, che aveva certamente contribuito all’allungamento delle aspettative di vita. Gorer constatava poi una crescente, morbosa attenzione da parte dei media per le cosiddette “morti violente”. Da un lato dunque la morte quotidiana, “naturale”, di cui non si parla, e dall’altro la morte eccezionale, la morte terribile, di cui non solo si parla, ma si fantastica. Nel diede alle stampe Death, Grief and Mourning opera frutto di una vasta raccolta di dati provenienti da interviste e questionari condotti sulla popolazione inglese in merito all’elaborazione del lutto, fenomeno che, alla luce delle sue ricerche, risultava “non assimilato”, celato, alienato, e proprio per questo protratto a tempo indefinito, a differenza di quanto avviene nelle “società tradizionali” che vivono invece un lutto a tempo determinato, con una durata prefissata, che si chiude con un rituale collettivo . Nella tradizione di studi anglosassone del periodo strutturalista e funzionalista, lo studio della morte venne orientato alla simbologia dei riti funebri e alla loro capacità di riportare ordine ed equilibrio in una struttura sociale sconvolta dalla guerra. Anche se non sono mancate ricerche a carattere comparativo, « si può dire che la morte è stata studiata dagli antropologi soprattutto nei singoli contesti culturali e particolarmente arduo è apparso il compito di far emergere concetti e prospettive ampiamente trasversali » . Se, fino agli anni ottanta del ‘, veniva mossa agli antropologi culturali la critica di mostrare un –. . Geoffrey G, Death, Grief and Mourning, A study of contemporary Society, Anchor Books, New York . . Citato in Marina S, Reinventare la morte. Introduzione alla tanatologia, Editori Laterza, Roma–Bari , p. . . Ibidem.
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