CHE TI DICE IL NATALE? di Mauro Luppichini Alle

CHE TI DICE IL NATALE?
di Mauro Luppichini
Alle sei e trenta esatte il fi nlandese soprannominato labbroni con una
mazza da baseball prende a martellare una dopo l’altra le cornici dei letti
di metallo e brutalmente mette fine agli irrequieti sogni dei miserabili
randagi per la vita che lì hanno trovato rifugio per una notte. È ancora al
primo piano labbroni ma le legnate rintronano fino al quarto , e io, al
terzo, mi chiudo nella coperta per trattener e il calore qualche prezioso
minuto in più. Con labbroni non c’è da scherzare, mezz’ora e siamo tutti
scodellati per strada perché Sjömanshotellet chiude, per riaprire alle sette
di sera. Niente eccezioni, neppure il giorno della nascita di Cristo
Sotto l’aspra e puzzolente coperta tirata a coprir mi la testa sento che il
maggiordomo si sta alzando. Non lo vedo ma so cosa farà. Per prima cosa
se ne rimane una manciata di secondi seduto sulla sponda della brandina
con i piedi ben piantati sulle assi gelate del pavimento e organizza la
giornata, poi, con calma, si toglie il completo del pigiama ( qui senz’altro
l’unico a usarlo), lo ripiega con cura e lo ripone nella logora valigetta di
pelle, come qualcosa di molto caro. Indossati i quattro stracci, sul braccio
l’asciugamano e la borsetta del necessaire (altro oggetto insolito) , si
avvia ai bagni con incedere eretto, rigido, la testa leggermente inclinata
da una parte e il braccio libero, il sinistro, teso verso il basso ma
decisamente all’indietro, come chi tiene al guinzaglio un cagnolino pigro...
di Madame la Comtesse? Non sapendo il suo nome mi è venuto di pensare
a lui come il maggiordomo. È sempre il primo a usare il bagno, e io in un
attimo mi vesto e lo seguo. In meno di un minuto davanti a quelle porte
ci sarà una lunga fila di taciturni africani e spagnoli grottescamente
meticolosi, siciliani in cerca di una lingua comprensibile, greci contegnosi,
cecoslovacchi e marinai fi nlandesi con i postumi della sbronza del giorno
prima. Ma non è la sola ragione per affrettarsi al bagno, essere in coda
può riservare inaspettate sorprese. Come qualche giorno fà quando due
tipi presero a ciabattarsi addosso frasi violente che presto si
trasformarono in uno scontro di vita o di morte. Ricordo con esattezza la
scena. Uno dei due, con lo scatto di una belva ferita al culo , strapazza
contro il margine del gelido termosifone la bottiglia di vodka e ne ottiene
un’arma tagliente che manda bagliori assassini, l’altro, in un movimento
quasi di danza, o come un pistone d’auto sbardellato, slacci a dal
ginocchio destro la pr òtesi di legno, si gir a veloce e balzellando su cocci
di vetro gli piomb a addosso affibbiandogli gambate sulla testa come si
batterebbe un tappeto di poco conto... ansimano, bestemmiano di dolore
nelle loro rispettive lingue, si aggrappa no l’uno all’altro in un a bbraccio
affannoso, per dono le armi, rotolano sul pavimento e lotta no come due
coccodrilli tra vetri, vodka e gambe dei compari di malaffare che se ne
stanno lì a guardare ridendosela a crepapelle. Finalmente , come un
Angelo Gabriele, giu nge labbroni, e con quattro manganellate ripor ta
ordine e tranquillità nella fila.
Usciamo insieme, alle sette in punto , io e il maggiordomo, lui in una
striminzita giacchetta con i tre bottoni ben serrati, la sciarpa girata al
collo, la valigetta e quel suo braccio sinist ro col cagnolino fantasma che
gli trotterella dietro. Io nel mio cappotto tre quarti nero, il bavero alzato
alle orecchie e mani sprofondate nelle tasche . La destra stringe l’edizione
tascabile di Svält , Fame, di Knut Hamsun, la sinistra il quadernetto e l a
biro. Facciamo i dieci gradini fino al livello stradale e il multicolore
lampeggiare di negozi addobbati per le feste natalizie si fonde al
frastuono ferragginoso di tram che lasciano il centro per il lontano
quartiere Nacka. Ci salutiamo con un cenno di testa e ognuno va per la
sua strada, e niente “Buon Natale”.
A quest’ora da lupi per un caffè caldo , in attesa che il Ristorante Frascati
apra i battenti, esiste solo il Zum Franziskanen . È di fronte allo scalo di
navi dalla Finlandia, a due passi dal Sjömanshotellet. È lì che lavoro
cinque ore al giorno, sbarazzo i tavoli: vassoi, piatti e avanzi vari.
Così, non seduto dove avrei voluto essere, cioè alla Closerie des Lilas
sulla rive gauche della Senna, ma al Zum Franziskanen con una tazza di
caffè bollen te e il quadernetto aperto. Prendo a battermi leggermente la
biro alla tempia, non perchè con quel ticchettìo ritmico mi aspetti la
magica ispirazione, no, molto più veniale, è per dimenticare la fame che
ho. È dal pranzo di ieri che non metto qualcosa sotto i denti. Prendo dalla
tasca destra il libro e lo apr o alla pagina del giorno prima, pagina 93, e
leggo a mezza voce, in svedese, “...nej tack, låt mig bara sitta här, svarar
jag. Hennes vänlighet gör mig plötsligt rörd, ja betalar biffen genast, ger
henne på en slump vad jag kan få tag i fickan och sluter hennes hand.
Hon ler och jag säger på skämt med tårar i ögonen: resten ska ni ha att
köpa er en gård för…Å, håll till godo!
Jag började äta, blev så småningom allt glupskare och slukade och
slukade stora bitar utan att tugga dem. Jag slet köttet som en människo
åtare.”
Lo chiudo e mentalmente provo a tradurre quel che ho appena letto,
”...no grazie, questo tavolo va bene, le rispondo. La gentilezza della
ragazza mi commuove fino alle lacrime, pago immed iatamente il piatto di
carne tirando fuori dalla tasca tutto quello che trovo e glielo porgo
chiudendo la sua mano nelle mie. Lei sorride ed io, intenerito, per scherzo
faccio: quel che è in più usalo per comprarti una fattoria...e muoia
l’avarizia! Poi co mincio a mangiare, con crescente ingordigia, infine
inghiotto i pezzi di carne senza nemmeno masticarli. A divorarla, come
farebbe un cannibale.”
Per Oskarsson, l’attore del film nei panni di Pontus, dalla copertina del
libro sembra mi guardi , ma non è così, è una lunga occhiata alla mia
sinistra, dietro, come lontano e in un altro tempo. Con quella sua aria
calma ma all’erta si legge una domanda negli occhi di Per: che ne pensi
Knut della mia interpretazione di giovane scrittore in quei giorni di
Christiania quando facevi la fame? E Hamsum risponde favorevolmente, lo
vedo nell’espressione contenuta ma soddisfatta di Per Oskarsson. Ma
chiedere per chiedere anch’io voglio fargli una domanda... e a quel tempo
Knut eri felice? Hamsun mi guarda, mi scruta, mi studia e dopo un po’ mi
fa, ma che cavolo di domanda è questa!
Do fondo all’ultimo sorso di caffè oramai freddo, rintasco il libro e scrivo
sul quadernetto: “Gentilissimo Direttore editoriale, spero nella Sua
comprensione se mi prendo la libertà di inviarLe la presente. Desidero che
Lei sappia che non è mia abitudine infastidire inutilmente chi, come Lei, è
giornalmente sommerso da un enorme lavoro. Certamente, e lo capisco,
fra i tanti manoscritti che le passano davanti Lei non può ricordarsi del
mio nome. Quindi, se mi permette, posso aiutarLe la memoria
ricordandoLe il titolo del racconto che le spedii tre mesi fa’, “Bobadilla
Club”. Il titolo, se Lei non lo ritenesse adeguato, o insufficente, sarei
disposto a cambiarlo. “Il mondo di Bart” potrebbe essere una buona
alternativa. La ringrazio ancora una volta della gentilezza e la pazienza
che mi ha dimostrato e in attesa di un Suo riscontro Le invio i miei più
sinceri auguri di Natale e di un felice Anno Nuovo. Tiziano Menotti.”
Terminata la lettera volto il quadernetto alla parte posteriore e sfogliando
alcune pagine cerco l’ultima entrata. È un nuovo racconto che con furore
ho iniziato giorni prima. Guard o l’orologio alla parete, ho ancora 45
minuti. Al banco riempio la tazza con nuovo caffè caldo, compreso nel
prezzo del primo, 1,50. Il bar è ritrovo di tassisti . Quando sono entrato ,
alle sette, il turno notturno stava lasciando il posto caldo a visi rasati,
riposati e freschi abbastanza da scambiarsi saluti, persino aggiungere
battute spiritose. Conosco la routine perché una volta, squattrinato come
sono, ho trascorso un’intera notte qui al Zum , che era aperto, si dice, già
nel ‘400. Atmosfera antica, arredamento jugend , penombre che ti
nascondono. Non sempre ho avuto le quindici corone per la cuccetta allo
Sjöman , più cinque, se vuoi il lusso di un lenzuolo pulito. Ma oggi è un
giorno speciale, le cameriere se ne svolazzano tra i tavoli strette in quel
loro giacchetto rosso, catene di bugìe colorate ornano le pareti , fronzoli
alle finestre e il fondo sala è illuminato da un sovraccarico albero di
natale... una melodia che risveglia memorie dei miei, il presepio in sala da
pranzo, i regali ammucchiati ai piedi dell’abete di plastica, i preparativi
per il pranzo dell’indomani, la Messa di mezzanotte ... Ma a un palmo dal
pantano della tristezza mi tiro sù e riprendo a scrivere . Fino al momento
in cui alzando la testa l’orologio alla parete mi dice che mancano solo
dieci minuti alle nove. Il timido chiarore del giorno finalmente è riuscito a
filtrare attraverso i l telo grigio delle nubi e devo sbrigar mi, guai a arrivare
in ritardo, addio lavoro colazione e pranzo, tre disastri in un colpo. Con il
libro, quaderno e biro in tasca quasi correndo prendo Västerlånggatan in
direzione Norrbron. Entr o al Frascati alle nov e in punto. Via paltò e giacca
e infilo il gilet del ristorante, strisce rosse e bianche. Luca, da Barletta,
primo sciaquino, è già lì dalle sette e subito capisco che è di cattivo
umore perché con uno sguardo tutto fuoco fa senza nemmeno salutare :
che schifo di vita è questa... il mondo sta diventando pazzo... mi hanno
proprio fatto girare le palle , ora basta! So che non è con me che ce l’ha, è
incavolato con se stesso, con il suo mondo, e lì, lui, continuando a
maledire tutto e tutti , dalla lavapiatti fum ante tira fuori con un gesto
deciso il cestello, carico non di bicchieri, piatti e stoviglie, ma di panni di
ogni sorta, calzini, mutande, cannottiere, camice. Cuochi e camerieri non
credono ai loro occhi, ammutoliti , fanno gruppo, e Luca, con quel suo far e
da nobile decaduto e dal suo uno e ottanta , con l’aria più naturale del
mondo voilà fa apparire una robusta corda che tende da parete a parete e
con l’accuratezza di massaia responsabile comincia a stendere la
biancheria ancora grondante che via via ferm a con mollette colorate. Non
soddisfatto dello spettacolo che sta offrendo , dopo una calcolata pausa e
alzando il mento fa, eh si signori miei!... è proprio così! niente stanza e
senza soldi, senza niente ... cavolo!! e toccandosi il petto con lunghe dita
da pianista e la sfida negli occhi, butta lì, vivo in questo inferno
quattordici ore al giorno, e allora... questa è come fosse casa mia, non vi
pare?
La scena, di per sé farsesca, comica, si tramut a in qualcosa di più serio
quando
Fru
Karin
Svensson,
diret trice
del
Frascati,
avvertita
dell’incredibile da non credere entra e con insospettata calma gli fa,
questo non è un circo Luca, per favore fai sparire quegli stracci o vattene,
e gira i tacchi, se ne va, tranquilla, come niente , riducendo il tutto a una
giornaliera banalità.
E a Luca non rimane altro che tirare giù ciò che poco prima aveva messo
su. Però lo esegue a testa alta e con una ben calcolata nonchalance.
Dopo questa sceneggiata sono sicuro che Fru Svensson è già al telefono
per procurarsi un altro Luca. No, forse no, altrimenti non gli avrebbe dato
un’alternativ a, forse non è così facile trovare schiavi per una paga da
fame. Una sera io e Luca andavamo per Sankt Eriksgatan, era tardi,
negozi e ristoranti già chiusi. D’improvviso Luca si ferm a davanti alla
vetrina spenta di un korvkiosk , un punto-hotdogs, e tir a fuori un mazzo di
chiavi.
-È il tuo secondo lavoro... fai le pulizie?
-Che dici, pulizie?... entra, mi disse. Attraversammo il buio locale fino a
una porta scorrevole, l’apr ì e accese. Era un magazzino stipato di
scatoloni e altra mercanzia, in mezzo a tutto questo una pila di giornali
che Luca con calma prese a stendere così da occupare il pavimento
rimasto libero, due volte lo fece , forse l’intenzione era di rendere meno
duro il dormire, e il sognare. In un angolo c’era una borsa e un fagotto di
indumenti.
-Eh sì, ora lo sai, dormo qui .
Alle tre lascio il Frascati per casa di Ludovico . È da lui che ho
ammucchiato le mie cose, e la Olivetti. Nevica ed è pressoché notte.
Strada facendo per l a prima volta dal mattino ripenso al racconto
interrotto. Ricord o il punto esatto dove ho staccato la biro, e pure un’idea
abbastanza chiara di quello che verrà. È un consiglio di un grande
scrittore: interrompi quando senti energia buona, un punto caldo, il
giorno dopo riprendi da lì.
Ingolfati sono i marciapiedi, l’andrivieni frenetico dell’ultima ora di
apertura, chi esce, chi entra, di fretta, e sempre come fossero inseguiti ,
abbracciano pacchetti e borsoni con ben in vista il nome del negozio alla
moda. È qualche grado sopra zero , neve sporca ai lati ella strada e tracce
d’auto mollicce . Vorrei telefonare a casa, forse domani, mi dico, per gli
auguri, mi manca la loro voce .
Lejla apre la porta.
-Siete sicuri che non disturbo? - dico togliendomi il cappotto
-Smettila con quelle ciance - mi fa Ludovico Atzori dalla cucina, sei qui per
quello che devi fare, sai dove trovare la tua roba... eppoi quel battere a
macchina ci tiene compagnia.
Tre ore più tardi sono pronto ad andar mene, ma già alla porta indugio col
pensiero di chiedergli qualche soldo in prestito . È Lejla che mi ferma,
rimani a cena, dai... oggi è Natale! mi fa, e Ludovico con un mezzo
sorriso, ...e per favore non ti far pregare. Prima di rispondere ascolt o le
ragioni della fame arretrata così non ho bisogno di farmi pregare. Ma avrò
la faccia di elemosinare anche il prestito ?
Più tardi, verso le nove, in Sturegatan, dopo le insegne pimpanti
dell’Emabassy Club e della gioielleria Bolìn e oltrepassata la boutique
Keyson, io e Danilo Gabrielli aprendo la magica porta di mosaici colorati
fin de siècle del “Cafè du Boulevard ” siamo accolti da una zampata di aria
calda e da una canzone di Tenco. È presto, la sala è semivuota, la città
sta ancora festeggiando in famiglia. Viene dalle mie parti Danilo, un
maledetto toscano, per dirla alla Malaparte, e abbiamo qualcosa in
comune. Aveva un buon posto a Sesto Fiorentino, lavorava in una grossa
ditta di elettronica, ben retribuito e di responsabiltà, ma ha mollato tutto
per seguire la sua vocazione di nome Leika. Tra liquidazione e risparmi
credo sia tranquillo in banca. Comunque ci vuole coraggio a fare il passo
decisivo. È un incredibile fotografo Danilo. Viaggia e fotografa , facce,
strade e case solitarie, forse in cerca di un connubio, credo. Prendiamo
posto alla periferia della grande sala e il tacchino , il proprietario, si fa
subito avanti. Alto, testa piccola e gozzo ingrossato, appunto come un
tacchino.
-Che porto da bere?- ci fa con quella sua voce tremolante.
E Danilo, -un Four Roses, un Dry Martini e una Veuve Cliquot ben
ghiacciata.
-Bene-, fa lui, rassegnato, -due Coca Cola. Nient’altro?
-Per adesso no, grazie.
Scorgo Luca seduto a un tavolino di lato, è in compagnia di una bionda
con un visetto che mi ricorda Sherley Temple. Parla tenendo le mani
all’altezza del suo viso, vicinissime, muovendo appena le dita, il busto
eretto, come nell’atto di ipnotizzarla, e lì mi chiedo come è riuscito ad
andarsene dal Frascati due ore prima della chiusura. E tra le quattro
coppie che ballano vedo Gianni, il bolo gnese, che si tiene agg rappato alla
sua nuova vichinga, uno e ottanta senza tacchi, e lui tiene la testa giusto
reclinata sulle tette, come la poggiasse su un morbido cuscino, gli occhi
chusi, Gianni, si sente in armonia, lo svergognato, e l’amazzone non
sembra affatto imbarazzata, anzi, ha proprio un’aria tutta materna. Poco
più tardi è un garbuglio di musica e cacofonia di voci. Esce Beppino di
Capri e subito attaccano con Carosone. Sulla pista da ballo la macedonia
di maschi e femmine sconfina tra i tavo li limitrofi per conquistarsi quel
minimo su cui muovere i piedi. L’aria è rovente. I visi luccicano. Capelli,
camice e vestiti fantasia incollati a i corpi come una seconda pelle da
sbucciare. Danilo alza il braccio per richiamare l’attenzione di una biond a
in nero che cerca di tenere in equilibrio le bibite sul vassoio, usa il
braccio sinistro come spartiacque e da equilibrista si destreggia tra la
folla compatta. Infine lo sguardo coglie il richiamo e spintonando riesce a
trovare il passaggio fino al nost ro tavolo. Qiuesta ragazza se le suda le
mance.
-Due Jack Daniels, per favore, fa lui.
Non ricordo quando ho bevuto l’ultimo. Mi ha letto nel pensiero Danilo...
che posso dire... è grande essere generosi!
D’improvviso l’orchestra attacca i Beatles con Twist and shout e le coppie
più giovani di prepotenza si fanno spazio, frullano, cozzano e costringono
i “romantici” ad abbandonare la piattaforma.
-Che ti dice il Natale?, fo a Danilo quasi urlando per sovrappormi al
bailamme.
-Il Natale mi dice di andare a cercare l’aurora boreale, fa lui con un
mezzo sorriso. Tra una settimana parto per Luleå. E a te , che ti dice il
Natale?
-Di tornare casa, dico piegandomi verso di lui per farmi sentire. Forse
questa è un’esperienza da ricordare, ma è una vita di merda, pa sso giorno
e notte a pensare come me la caverò l’indomani... hai una sigaretta?
Sono le undici e dieci e il freddo è tagliente, come dieci gradi sotto zero.
Nei nights è baldoria ma le strade sono semideserte. Prendo Hamngatan
verso Slussen. Passo affrett ato, come per allontanar mi dal freddo. Al
Franziskanen riesco a trovare un angolo libero e mi faccio portare birra e
sandwich al prosciutto, è il prestito di Danilo. Tiro fuori Svält e sfoglio
alle
ultime
pagine.
Leggendo
rivedo
il
film:
Pontus/Per
Oskarsson/Hamsum se ne va ciondolando sulla banchina del porto. Sta
pensando che ne ha avuto abbastanza di Christania, di essere
squattrinato, e di dormire nei sottoscala, e dei morsi allo stomaco per gli
ineluttabili forzati digiuni e dell’impossibilità di scriv ere piegato dalla
fame. Si ferma davanti al Copègoro dove issata sventola una bandiera
russa. Viene a sapere che è un cargo che salpa per Leeds per il pieno di
carbone, per dopo far vela verso Cadiz.
-Avete bisogno di un tuttofare? grida all’uomo che si tr ova in cima alla
scaletta.
-Hai esperienza di mare? Fa l’altro, il Comandante.
-No, ma datemi un incarico e le garantisco che lo port erò a termine. Sono
abituato a fare un po’ di tutto. Allora che ne dice Capitano?, fa Pontus, e
allarga le gambe, drizza la schiena e le spalle.
Il Capitano lo guarda, ci pensa su, si gratta il mento barbuto, poi fa , -Va
bene, si può provare.
Sono al Sjömanshotellet giusto in tempo, prima che labbroni chiuda i
battenti. È mezzanotte. Pago i quindici e salgo i tre piani. Un’unica gialla
lampadina illumina lo stanzone. Il maggiordomo accucciato sotto la
coperta dorme.