I MOLTIPLICATORI FISCALI SONO EFFICACI CONTRO LA CRISI? Il testo riprende Cozzi T. (2013), La crisi e i moltiplicatori fiscali, in “Moneta e credito”, n. 262, i dati sono invece aggiornati e resi disponibili dal docente. La bibliografia completa è a disposizione del docente. Come si è intervenuti per fronteggiare la gravità della crisi odierna? Le Banche centrali hanno seguito POLITICHE MONETARIE “super”espansive con dimensioni mai viste in precedenza. I tassi di interesse sono ai minimi storici (grafici) GRAFICO 1 – I TASSI DI INTERESSE Comunque il pericolo inflazione non c’è stato (vedi grafico). Nell’area euro si può parlare addirittura di trend deflazionistico. Si prende atto quindi che la Politica monetaria è poco efficace per stimolare l’attività economica in periodi di crisi. Keynes ci ricorda che quando abbiamo aspettative negative esse possono agire come fattori che contrastano l’azione dei tassi di interesse minimi. L’approccio della “moneta endogena” evidenzia come sia la domanda e non l’offerta a determinare la moneta. Ne consegue che imprese e banche non domandano e gli investimenti restano praticamente “fermi” e le banche restringono il credito (credit crunch). Tuttavia, anche la politica fiscale apparentemente sembra risultare inefficace. Comunque sono necessarie a tal riguardo alcune qualificazioni doverose. Partiamo dai dati: in questi ultimi anni a partire dalla crisi del 2008 il debito pubblico è notevolmente aumentato (vedi grafico) e la crescita? Sembra essere ripartita negli USA mentre l’Europa fatica a riportare valori positivi della crescita dei fondamentali economici (pil, occupazione) (vedi grafici) Sembra perciò che i moltiplicatori fiscali siano risultati bassi in termini reali. La spesa pubblica espansiva non sembra aver generato l’attivazione della domanda globale. In proposito è ampio il dibattito tra gli economisti sugli effetti sia di politiche fiscali espansive che restrittive. Si può parlare di austerità espansiva? L’impostazione neoclassica (mainstream) ritiene che programmi di austerità, fatti di tagli alla spesa e rigore di bilancio pubblico, non avrebbero prodotto depressione ma anzi un effetto espansivo (Giavazzi e Pagano, 1990; 1996; Alesina e Perotti, 1995; 1997). Gli economisti keynesiani viceversa contestano questa linea e ritengono opportuno necessari interventi di spesa pubblica espansiva (Krugman, 2012). Un chiarimento al dibattito è stato posto dall’analisi del FMI (2010) che ha rivisto gli effetti dei moltiplicatori fiscali. Il FMI ha analizzato 15 paesi avanzati nel periodo 1980-‐2009. I risultati stabiliscono che il risanamento ha effetti depressivi. Un consolidamento pari all’1% del PIL riduce di 0,5% il PIL reale nell’arco di 2 anni; inoltre, aumenta il tasso di disoccupazione di 0,3% nei due anni successivi. Comunque parte degli effetti depressivi sono stati mitigati attraverso tassi di interesse bassi e svalutazione della valuta. Ovviamente questo secondo aspetto non costituisce strumento a disposizione dei paesi europei aderenti alla moneta unica. Quali sono allora i presupposti della teoria neoclassica del “rigore espansivo”? I soggetti economici formulano Aspettative razionali. Essi sono lungimiranti e sanno che una restrizione fiscale oggi avrà l’effetto di allontanare ed eliminare la possibilità di più ampi e dolorosi aggiustamenti fiscali. Cosa ne consegue? I consumatori si sentiranno “più ricchi” e decideranno di consumare di più e le imprese, contando su maggiori profitti derivanti dalla minor tassazione futura, decideranno di investire di più. Inoltre agisce l’effetto derivante dalla riduzione dei tassi di interesse in conseguenza del minor rischio “paese”, che comporta un minor costo dell’indebitamento, aumentando la ricchezza finanziaria delle imprese e delle famiglie. Secondo questa impostazione non importa che i soggetti economici non abbiano le risorse per incrementare la spesa, perché possono chiedere alle banche. Siamo sicuri che questo meccanismo possa funzionare se: a) esiste credit crunch b) le imprese hanno aspettative pessimistiche c) le famiglie hanno timore di perdere reddito ? Il punto è che una riduzione della spesa pubblica potrebbe accompagnarsi alla riduzione della spesa privata. In questo caso le prospettive di ripresa si allontanano e i consumi sono destinati a essere depressi e l’economia stagnante. La BCE però continua e insiste nell’attuazione di politiche di rigore, sottolineando che gli effetti negativi sono minori se si opera in “piena credibilità” favorendo le attese del mercato. Il problema è che per convincere i mercati, notoriamente caratterizzati da previsioni pessimistiche quando si tratta di attuare manovre restrittive, occorrono tempi non brevi e per quanto tempo possiamo permetterci politiche restrittive? (che sono peraltro invise all’elettorato?) Il problema del rigore fiscale è che i moltiplicatori sono “troppo alti” Nella scuola keynesiana i moltiplicatori prevedono valori ben superiori a quelli previsti dalla teoria neoclassica. In pratica, con valori bassi di “m” gli effetti recessivi del rigore fiscale saranno deboli così come quelli di natura espansiva. Viceversa, con valori elevati, le politiche restrittive deprimono l’economia mentre le politiche espansive daranno un forte impulso alla ripresa. Per Keynes il moltiplicatore sarà maggiore di 1. Al più esiste la teoria di Haavelmo e del bilancio in pareggio, secondo cui il moltiplicatore è pari a 1. (l’effetto finale netto sarà comunque positivo per un aumento della spesa pubblica e poco restrittivo nel caso opposto). Per la scuola neoclassica (dei modelli dinamici di equilibrio) il moltiplicatore sarà inferiore a 1. La spiegazione è che la spesa pubblica spiazza parte della spesa privata. Inoltre, il problema è che il deficit verrà finanziato con le imposte attuali e future. Ma non sarà “bilancio in pareggio” perché entrano in gioco i tassi di interesse reali che aumenteranno in ragione delle preoccupazioni della banca centrale sull’evoluzione dell’inflazione. Questo aspetto spiazza ulteriormente la spesa privata. Per la scuola neoclassica sul valore del moltiplicatore “m” influisce fortemente il tasso di interesse. Un abbassamento di esso fa aumentare i consumi e gli investimenti e perciò abbassa “m”, attenuando la caduta dell’attività produttiva a seguito della riduzione della spesa pubblica. Se l’elasticità della spesa privata al tasso di interesse è elevata (come prevista da questi modelli) il livello di “m” si riduce di molto e il livello dell’attività produttiva di poco. Ci sono evidenze empiriche che dimostrano che in situazioni con tassi di interesse vicini alle zero “m” assume valori molto elevati (Woodford, 2011). È la situazione attuale di trappola della liquidità. Ma seguendo l’impostazione keynesiana è forse la depressione e non tanto il livello basso dei tassi di interesse a determinare un valore elevato di “m”. per Keynes gli investimenti sono poco elastici al tasso di interesse in depressione e anche un po’ prima quando le aspettative imprenditoriali sono pessimistiche. Comunque anche i neoclassici ribadiscono che in depressione “m” ha valori elevati perché le aspettative delle famiglie hanno l’effetto di ridurre i livelli di spesa facendo crescere il moltiplicatore (Corsetti et al, 2009). I numerosi lavori empirici dimostrano che nei periodi di “depressione”, i valori di “m” si avvicinano a 0,5. Questo risultato sarebbe a supporta della tesi neoclassica e degli scarsi effetti sull’economia della politica fiscale espansiva, che alimenterebbe solo il disavanzo e il debito pubblico. Quando è scoppiata la crisi, il FMI pensava in prima battuta che non fossero necessarie politiche fiscali espansive. Ma in realtà si dava scarsa attenzione ai risultati empirici che ci dicono che durante le crisi finanziarie i valori di “m” tendono ad essere molto più alti. Blanchard e Leigh (2013) annunciano che “m” è stato sottostimato nel periodo di crisi attuale. Auerbach e Gorodnickenko (2012) trovano che “m” in periodi di espansione assume valori tra 0-‐0,5 e nei periodi di depressione tra 1-‐1,5. Per alcune componenti della spesa pubblica “m” è anche più alto (per i consumi pubblici in espansione “m” è 0,17 e in depressione è 2,11. In conclusione si accetta l’ipotesi keynesiana che in depressione le politiche fiscali espansive funzionano per dare un impatto all’economia. Coenen et al (2012) dimostra inoltre che tali effetti sono incoraggiati con politiche monetarie espansive, che riducendo ai minimi i tassi alimentano l’inflazione facendo ridurre i tassi reali, così da sostenere i consumi e gli investimenti. I paesi europei (quelli mediterranei) osservano un tasso di interesse reale non proprio vicino allo zero, a causa dello spread rispetto ai Bond tedeschi. Gli investimenti che non ripartono e l’effetto recessivo si riflettono su valori alti del moltiplicatore. Comunque BCE e Commissione Europea si trovano in disaccordo con l’idea di valori di “m” alti. Ritengono viceversa che i moltiplicatori sono inferiori all’unità. In “tempi normali” stimano “m” nell’UE pari a 0,4 e in “tempi di crisi” a 0,7. Per la BCE(2012) con valori di “m” così bassi non preoccupano politiche di rigore fiscale, in quanto fanno abbassare il premio rischio dei debiti sovrani e l’abbassamento del tasso di interesse riduce il valore di “m”, senza deprimere l’economia. Il punto comunque è che bassi tassi di interesse riducono “m” solo se gli investimento salgono. Se c’è sfiducia nella capacità di ripresa rapida non è detto che l’economia possa sbloccarsi. (vedi grafico sull’indice di business) Cosa possiamo dire in più se analizziamo le politiche fiscali dal lato delle entrate e delle spese? Alcune ricerche evidenziano il risanamento attuato tagliando la spesa pubblica. La manovra secondo le stime ha l’effetto di provocare minori riduzioni del PIL rispetto a quello attuato da un aumento delle imposte. Il FMI (2010) stima per i primi un “m” pari a 0,3 e i secondi un “m” di 1,3. In pratica, una riduzione della spesa pubblica si accompagna a un aumento della spesa privata; i consumi crescono per l’equivalenza ricardiana e gli investimenti beneficiano di una politica monetaria espansiva (la BC abbassa i tassi perché scende la spesa pubblica). Romer e Romer (2010) stimano un “m” del moltiplicatore delle imposte superiore a 3. Questi valori sono così elevati in ragione del crollo di fiducia che si ripercuote sui consumi e gli investimenti. Comunque la tesi del FMI è stata messa in discussione da ricerche che giungono alla conclusione che “m” della spesa è più elevato del valore di “m” delle imposte, specie nelle fasi recessive. Si stima che i primi siano fino a 10 volte più grandi e nelle fasi di espansione fino a 6 volte. Risanamento lento e graduale, una posizione “aggiornata” della BCE Un severo processo di risanamento fiscale può avere l’effetto di spingere l’economia verso la recessione tanto più alto è il rapporto iniziale debito/pil. È chiaro che bisogna evitare, anche per non alimentare aspettative negative sulle prospettive di ripresa, un processo di risanamento troppo “rapido”, meglio sarebbe l’adozione di un processo più graduale. La questione centrale è che per risanare bisogna avere in mente che occorre tornare in primo luogo a crescere. È difficile pensare che questo possa compiersi se riduciamo invece che aumentare la spesa pubblica. La BCE, in particolare, mantiene un atteggiamento “ortodosso” su questo versante perché è preoccupata delle eccessive dimensioni del settore pubblico in diversi paesi europei. Comunque alcune dichiarazioni lasciano intravedere qualche cambiamento nell’orientamento degli indirizzi di policy … “bisogna evitare di ridurre la spesa pubblica produttiva….nel medio termine bisogna utilizzare i benefici del risanamento per ridurre le imposte sul lavoro” per la prima volta viene posta l’opportunità di entrare nel dettaglio della composizione delle politiche fiscali. Auerbach e Gorodnichenko stimano valori di “m” per spese pubbliche basate sugli investimenti pari a 3, sia nei periodi di recessione che di espansione. Le spese basate invece sui consumi pubblici sembrano essere alti solo nelle fasi di recessione. Facciamo il caso dei trasferimenti di reddito. Questi possono dividersi in due categorie: 1) trasferimenti MIRATI (alle famiglie a reddito basso non hanno accesso al credito e affrontano diversi vincoli di liquidità) in questo caso i trasferimenti si traducono in maggiori spese in consumi 2) trasferimenti GENERICI (sono interventi che attivano meno domanda di consumi per i quali il valore di “m” è più basso) Gli investimenti pubblici hanno anche un “m” alto, perché sono creatori di economie esterne (infrastrutture per messa a difesa il suolo nazionale; ristrutturazione dell’edilizia scolastica) E i moltiplicatori delle imposte? Le stime empiriche misurano valori di “m” molto più bassi. La riduzione delle imposte sul lavoro sviluppano un moltiplicatore (0,2-‐0,5) mentre quella riguardante le imposte sui consumi (0,6-‐ 0,66). In definitiva, le stime sembrano suggerire che la politica fiscale attraverso la spesa pubblica esercita un impatto maggiore di stimolo alla domanda globale rispetto al moltiplicatore delle imposte. Quale politica fiscale per la crescita? Occorre aumentare la spesa pubblica e finanziarla con l’aumento delle imposte stando attenti a non far cadere l’economia in depressione. Bisogna guardare comunque non solo ai livelli di spesa e di entrata ma anche alla loro composizione e ai valori dei moltiplicatori. Quindi si potrebbe generare una spinta alla domanda globale senza far aumentare di troppo la spesa pubblica, grazie a una ricomposizione delle voci di spesa (ridurre i trasferimenti generici e favorire i trasferimenti mirati o gli investimenti). Si potrebbe finanziare la spesa con un aumento delle imposte sui redditi e patrimoni e abbassando quelle sul lavoro (un aumento della busta paga si traduce in consumi). Per l’Italia le attenzioni al bilancio pubblico possono servire anche per dare vigore ai problemi della stagnazione della produttività e della mancanza di competitività. Far ripartire la domanda aggregata può dare sollievo alla ripresa della produttività (secondo la ben nota legge di Verdoon).
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