Giulia - Fondazione Nuovo FIore in Africa

Auxilium Catholic
School
Bole Bulbula,
marzo-aprile 2014
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Alle 7:40, ore locali, dopo sei ore di volo siamo atterrati
all’aeroporto di Addis Ababa dove Sister Pina già ci aspettava. Caricati
i bagagli, siamo partiti alla volta della scuola. Inconsapevoli di quello
che ci aspettava e già rapiti dai volti della gente, dai colori, dai cavalli e
dagli asini che pascolavano tranquillamente lungo la strada principale
della città, abbiamo dato inizio alla nostra avventura.
Un grande cancello celava una fantastica sorpresa; tutti ci
stavano aspettando e non appena siamo entrati in cortile, ancora
seduti in macchina, seicentocinquanta bambini sorridenti ci hanno
accolto cantando con una gioia indescrivibile. I colori delle rose che ci
hanno regalato, dei palloncini che decoravano l’ingresso e dei disegni
fatti per noi che sventolavano a ritmo delle loro dolcissime vocine, mi
fanno ancora venire gli occhi lucidi. Dopo aver trattenuto a fatica le
lacrime, per evitare almeno il primo giorno questa figura, ancora più
difficile è stato frenare la tentazione di baciarli e abbracciali uno per
uno. Le maestre che coordinavano il tutto sono state meravigliose.
Dopo un’ora di permanenza nella scuola un flusso incontenibile di
felicità, allegria e tenerezza ci ha completamente conquistati. Le
emozioni che riescono a trasmettere sono così intense che
porterebbero chiunque a prendere la decisione di rimanere per
sempre. Un’enorme gratitudine e riconoscenza verso quanto fatto in
questi anni da Riccardo è stata dimostrata con un piccolo spettacolo e
una miriade di disegni e lettere realizzate dalle classi e dai singoli
bambini: delle vere dichiarazioni di fede e amore.
Già convinta che questa sarebbe stata un’esperienza incredibile,
Riccardo ci ha portati in esplorazione della struttura della scuola e
abbiamo fatto la conoscenza delle vere anime dell’istituto, le Sisters.
Nel pomeriggio, dopo un’opportuna siesta per ritornare in forze,
abbiamo lasciato il boss al lavoro e siamo stati portati nel centro di
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Addis Ababa per un rapido giro turistico. Proprio in questi primi
momenti per la strada, abbiamo capito che non potremmo mai
guidare qui se non dopo anni di pratica. Ora vi spiego il perché. Che
siano capre, cani, asini, cavalli o umani tutti attraversano quando ne
hanno l’intenzione, non curandosi minimamente della macchina o del
camion in arrivo. Nessuno ha mai fretta. Si guida in mezzo alla strada e
si ripara la macchina dove si ferma, i carretti stracarichi trainati da
cavalli o asini conquistano la strada e il clacson è il passe partout per
arrivare ovunque… La conclusione a cui siamo arrivati è stata la
seguente: qui si sa l’ora in cui si parte, ma è davvero azzardato stabilire
quella di ritorno; mai dire con precisione quando arriverai. Per tale
ragione i ringraziamenti ad Alemu, autista, guida turistica e tutto fare,
sono infiniti.
Ancora una volta i colori dei mille negozietti, della frutta venduta
lungo la strada ben impilata e lucidata, delle sciarpe che avvolgono le
donne e i sorrisi che ci venivano rivolti ci hanno rapito. Letteralmente
non sapevamo più dove guardare per non perderci nulla.
A essere onesti non essendo mai stata in Africa non avevo la
minima idea di quella che potesse essere la reazione delle persone
del luogo al “farengi”, termine locale per indicare lo straniero bianco,
ovviamente più ricco e talvolta prepotente. Mi aspettavo una certa
chiusura e un’incolmabile distanza, eppure dal primo giorno mi sono
dovuta ricredere. Non c’è bambino che non ti sorrida o persona che
non che ti osservi. La tendenza è proprio questa, osservarti, ben
diverso dal semplice guardare o fissare che può essere anche
fastidioso. Nessuno è inopportuno o insolente e sebbene il passaggio
di due ragazze bianche causasse inevitabili commenti, avevano un
nonsoche di buffo poiché l’inglese con cui erano esclamati li faceva
sembrare come usciti da qualche film di Hollywood. Presto ci si fa
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l’abitudine ad essere salutati da tutti e ricevere proposte di matrimonio
per la strada fa sempre sorridere.
Ogni volta che si torna da un giro le energie sono a terra e la
degna conclusione di queste giornate impregnate di novità è davvero
una bella dormita. Devo confessare che quando mi è stato detto che le
giornate iniziavano alle 6 per finire alla stessa ora, ho temuto di non
riuscire a dormire e di annoiarmi dopo cena. Niente timore! Alle 20 già
cominciavo a sbadigliare e alle 21 il letto era l’unica cosa che volevo.
La sveglia era piacevolmente accompagnata dal primo bagliore del
sole e la colazione, tutti insieme alle 7, era proprio una carica perfetta
per la giornata da affrontare!
Nei giorni seguenti ci è stata data l’occasione di sperimentare le
tante realtà diverse che compongono questa città. Abbiamo visitato
altre scuole in Addis Ababa, così come siamo stati in missioni più
lontane nell’area rurale circostante. Devo dire che le Sisters hanno fatto
di tutto affinché l’esperienza fosse per noi completa, in modo da
poterci arricchire fino all’ultimo giorno. Il rapporto con loro è davvero
speciale, giorno dopo giorno ovviamente la confidenza aumenta fino a
sentirsi come in famiglia. Dopo poco la scuola era già diventata “casa”
e varcare quel cancello era come entrare in una piccola isola verde e
felice, lontana dal traffico delle strade polverose, dove si cerca di
superare i problemi e di aiutare tutti. Luogo rincuorante dopo le
esperienze più dure da digerire. I sorrisi dei nostri bambini, mi
permetto di appropriarmene ancora per po’, sono benefici e farebbero
stare meglio chiunque.
Confrontandosi con quanto è al di fuori della scuola, guardando
questi bimbi correre e giocare, un istinto quasi automatico ti spinge a
fare di più per loro. A desiderare un futuro migliore affinché possano
vivere come dovrebbero e non essere più vittime inconsapevoli, ma
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semplicemente bambini. Spesso si vorrebbe fare di più, subito, per
cambiare quello che si vede nell’istante, mettere mano al portafogli
sarebbe per noi la cosa più semplice. Lentamente poi, stando a
contatto con quello che quotidianamente fanno le suore, si capisce la
potenza dell’aiuto progressivo alle famiglie, alle madri; si
accompagnano verso un miglioramento della loro condizione che
nasce dai loro sforzi, dal loro stesso desiderio di fare. Qui ho
riscoperto qualcosa che fortunatamente nella mia vita era sempre dato
per scontato: l’educazione. Che sia puramente scolastica o semplice
buon senso e civiltà, è l’elemento essenziale per la crescita di un
bambino che sarà un futuro cittadino e genitore. Ecco, la scuola, la
disciplina, l’ordine e la cura delle proprie cose e della persona qui
possono essere un’arma potente per cambiare la situazione sociale.
Tutto questo viene insegnato pazientemente dalle maestre sotto
l’occhio attento delle suore.
Dopo la fine della scuola arrivava il momento più bello della
giornata: far visita alle famiglie dei bambini. Spesso percorrevamo con
loro le strade dei villaggi fino a casa, dove le madri senza esitare ci
aprivano la porta, invitandoci a entrare, offrendo sempre un posto a
sedere (quando c’era) e qualcosa da mangiare. Qualcuna poi
s’improvvisava guida e ci portava per i viottoli irregolari alle case degli
altri studenti che sorpresi ci correvano in contro chiamandoci.
Ovviamente in un batter d’occhio arrivavano anche tutti i loro amici e ci
ritrovavamo, come a scuola, avvolte da un nutrito gruppo di bimbi
sorridenti che, interrotta la partita di calcio tra una baracca e l’altra,
venivano a stringerci la mano. Le mamme o sorelle si sporgevano dai
cancelli delle recinzioni in lamiera o uscivano, sostando sulla porta, per
poi ritornare a macinare il tef o a tostare il caffè. Le reazioni erano
diverse, chi si avvicinava curioso, chi troppo timido per parlare o
indaffarato per curarsi di noi, ma in ogni caso le visite ai villaggi erano
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sempre un evento particolare che gli studenti non mancavano mai di
menzionare il giorno successivo a scuola.
La mattina arrivavano con la loro divisa, inevitabilmente
impolverati, correndo con la cartella ciondolante dalle loro spalle, la
merenda in pugno ed un sorriso a mille denti. Già ti salutano da
lontano, pronti a venirti a chiamare per giocare. Uscire di buon mattino
dopo colazione e ricevere un numero infinito di baci e abbracci dai
primi arrivati perché felici di vederti è indescrivibile. Difficile perdere
quest’abitudine di essere circondato da chi ti vuole bene solo dopo
una settimana e ti da tutto senza chiedere mai nulla in cambio.
Molti al mio rientro a casa hanno chiesto di cosa potessero avere
bisogno che io fossi in grado di dare. Al quesito la mia risposta è
sempre la stessa: nulla di quello che una persona può fare o dare è
inutile, un sorriso o un abbraccio acquistano una potenza
ineguagliabile per chi non ne riceve quasi. Vogliono anche solo starti
accanto mentre cammini in cortile e sedersi vicino nelle ore di pausa
per scambiare due parole o tenerti la mano. I più piccolini non parlano
inglese, ma è proprio vero che il linguaggio dell’amore è universale.
Devo confessare che le ultime due settimane sono state
meravigliose. I primi giorni sono sorridenti e solo qualcuno si azzarda
a parlare, ma dopo poco si scatenano! Non appena si aprono sono
incontenibili e ancora adesso mentre scrivo sorrido ripensandoci. Gli
intervalli sono una dose di pazzia ed entusiasmo.
In conclusione non posso che essere grata per una simile
esperienza e come si dice le occasioni che arrivano un po’ per caso
sono sempre le migliori. Senza essere saccenti, credo di poter
affermare di avere un pezzetto in più nel mio bagaglio di vita che
talvolta mi permette di valutare con più attenzione quanto mi circonda
qui ora e di apprezzare cose che erano date per scontate fin dalla
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nascita. L’unico “difetto” è che la voglia di fare per loro proprio non
vuol pace e non potrò mai lasciarli solo là dove li ho incrociati per un
mese.
Sebbene siano fisicamente molto lontani non lo sono nella mia
testa e nel mio cuore.
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