Q 91 uesta settimana il menu è dA non SALtARe Firenze e la musica contemporanea “ oggi sono al campo degli Assi Giglio Rosso. A 55 anni ancora riesco a saltare 1.50! dobbiamo guardare sempre avanti eugenio Giani Cavallari e Giomi da pagina 2 piCCoLe vuoti&pieni ARChitettuRe La cittadella della cultura Stammer a pagina 5 oCChio x oCChio il fotografo di Montmartre Sempre più alto Riunione di FAMiGLiA a pagina 4 il romanzo della rivoluzione (quinta parte) Cecchi a pagina 7 vuoti&pieni A rullo di tamburo della Cupola La cena di Caterina low cost Semboloni C DA NON SALTARE U O .com di Simone Siliani A [email protected] ndrea Cavallari è direttore artistico (insieme a Luisa Valeria Carpignano) del Festival “Firenze Suona Contemporanea”, 7a edizione, in svolgimento a Firenze. Cavallari è un notevole compositore (diploma in pianoforte, studi di etnomusicologia comparata e di direzione d’orchestra). Il suo lavoro risente dell’influenza di Berio, Cage, Ligeti, ma anche di artisti visivi come Pollock, Horn, Manzoni. Fondatore dell’Accademia S.Felice. “Composer resident” presso la Kammeroper Frankfurt. Co-direttore del London Ear Festival. Lo abbiamo incontrato a margine delle prove della Florence Art Music Experience (da lui fondata) che concluderà il festival il 21 settembre. Vorrei iniziare chiedendoti di raccontarci il filo rosso di questo festival “Firenze Suona Contemporanea” che giunge alla sua settima edizione e che si caratterizza per il connubio fra la musica e le arti visive. In effetti proseguiamo un’impostazione già sperimentata. Lo scorso anno il titolo fu “Angelus Novus”: una rassegna centrata su questa serie di dipinti di Paul Klee che hanno poi influenzato tutta la musica di Boulez, tutta la filosofia di Walter Benjamin, la musica dagli anni ‘50 ai ‘90. Così quest’anno ci siamo posti il problema oggettivo non di andare a ripescare un concetto filosofico di un artista visivo scomparso, ma di includere nel progetto artisti viventi, creando un framework che potesse far dialogare arti visive e musica contemporanea. Sulla base di questa scommessa abbiamo selezionato quei due o tre artisti che già lavorano in questo ambito (non avrebbe avuto senso, ad esempio, portarci Kounellis) e che rappresentano i maggiori artisti viventi: Bill Viola, William Kentridge e pochi altri. La scommessa era di convincere Kentridge a partecipare ad un festival di musica contemporanea, perché è un artista molto puntiglioso: è lui che sceglie dove essere invitato; non fa mai progetti in gallerie; non vuole apparire in contesti legati al mercato dell’arte. Si è innamorato immediatamente del progetto: musica contemporanea al Museo del Bargello. Aveva trascorso alcuni anni da ragazzo a Firenze e non ci era più tornato. Così dopo un anno e mezzo è nato il progetto “Paper music” che è una collezione di 17 film con le musiche originali di Philip Miller e 7 film in prima esecuzione assoluta realizzati per il festival: è un’opera in prima mondiale che ha debuttato a Firenze e che poi è stata rappresentata alla Carnegie Hall di New York e ne seguiranno molte altre. Kentridege, artista contemporaneo fra i più noti, viene invitato a Firenze, al Bargello, un bene culturale del Duecento (il più importante museo di scultura del Rinascimento del mondo, peraltro meno visitato di quanto non si immaginerebbe), è stato attratto e convinto ad accettare. Questo vostro festival è alla 7° edizione: se un festival di musica (e arte) contemporanea esiste (o resiste) a Firenze da 7 anni, forse questa città non è così refrattaria al contemporaneo. Cito Bonito Oliva che dice che tutta l’arte è stata contemporanea. Quindi la città in sé non è refrattaria al contemporaneo; è il suono contemporaneo di Firenze intervista a Andrea Cavallari sta cifra sarebbe stata reinvestita nelle arti: l’uso che si fa del contemporaneo in questa città è sbagliatissimo. Questa è una città che dovrebbe vivere di contemporaneo. Non esiste osservare una programmazione annuale degli Amici della Musica, del Maggio Musicale, dell’ORT e trovarci così poco contemporaneo. Le mostre d’arte sono sparite. Ora si è riaperto uno spiraglio con Penone a Forte Belvedere. Ma dove sono gli anni ‘70, ‘80. ‘90 in cui veramente c’era una vitalità sul contemporaneo incredibile. Io temo che questi 20 anni di politica di consumo per turisti che arrivano in bus, si comprano la visita agli Uffizi, un po’ di souvenir o articoli griffati e alle cinque sono già di nuovo sull’autobus per ripartire, ha distrutto le energie e le volontà. Si pensa che siccome c’è così tanto da vedere, non si ha bisogno del contemporaneo; e invece è esattamente il contrario. Quando c’è stata la diatriba di pagare i 2 euro di tassa di soggiorno dei turisti (che oggi fa incassare 22 milioni l’anno alla città), fu promesso al tavolo della contemporaneità che il 50% di que- scopriamo oggi che viene reinvestita negli straordinari del personale museale, nella conservazione, mentre non un euro viene destinato alla produzione. Qui a Firenze manca una politica di investimenti sulla produzione dell’arte, sulla creazione di progetti nuovi. Quello che kentridge è riuscito a fare producendo quest’opera qui. Tutto lo staff (costumisti, cantanti, musicisti, ecc.) è arrivato 10 giorni prima del festival, ha invaso lo spazio di 500 mq, lavorando molte ore al giorno, ha prodotto questa opera, nella quale sono coinvolti video (nuovi e vecchi), musica, scenografie, la contaminazione delle esperienze etniche (sudafricane) con la sperimentazione vocale d’avanguardia (da una parte Ann Masina, mezzo soprano sudafricano, e dall’altra Joanna Dudley, soprano conosciutissima per la ricerca di una vocalità nuova). Però è vero che c’è un pubblico per il contemporaneo. Ci sono esperienze che resistono (penso a Tempo Reale nell’ambito della mu- n 91 PAG. sabato 20 settembre 2014 o 2 sica, o a Cantieri Goldonetta in quello delle arti del corpo, a Teatro Studio a Scandicci). Certo, meno di quello che ci si aspetterebbe, però questa persistenza trova una rispondenza nel pubblico, soprattutto giovani? Sì, sicuramente. Anche se in Italia siamo un po’ arretrati rispetto ad altri paesi. Pensiamo a Londra dove si trova la Tate Modern è quotidianamente invasa da migliaia di persone, insieme ad un weekend dedicato a Boulez in cui la gente assiste a concerti alle 15,30 del pomeriggio. Quindi, a paragone di quello che succede nelle grandi capitali della cultura, siamo davvero indietro. Ma questo è dovuto al fatto che veniamo ad un vuoto di 20 anni (dall’ultimo grande concerto di John Cage del 1992, diciamo). Questo vuoto non ha facilitato la presenza di un pubblico oggi. Però la curiosità è tanta. Veniamo alla musica contemporanea: c’è stato un periodo in cui si pensava che la musica fosse esaurita: dopo la dodecafonica, si pensava fossero chiuse le possibilità di innovazione. Invece, negli ultimi anni, il dibattito e la produzione hanno riparto nuove possibilità. Da cosa sono caratterizzate? C’è una ricerca, che per me è la più affascinante, che è quella delle tecniche estese nella composizione di oggi. E’ una ricerca che comincia con Beat Furrer, ma anche con Salvatore Sciarrimo e ha preso piede con un gruppo di compositori italiani, anche giovanissimi, che portano avanti una linea veramente interessante di ricerca di nuovi suoni. Poi vi è tutta la ricerca sulla contaminazione fra le arti, quella visiva, la musica, il video e, quindi, una produzione importante di spettacoli multimediali: un linguaggio molto cross over che oggi mescola l’elettronica con il jazz e la ricerca. Ma il jazz stesso ha preso la direzione della musica contemporanea, come le esperienze del free jazz. Tanto che quando ascoltiamo, ad esempio, lo studio di Ligeti del 1986 ci sembra classicissimo, eppure è stato scritto appena 33 anni fa. Senza essere un neoclassicismo di ritorno, tanto che al tempo era visto come una provocazione. Quindi la musica non si ferma: la ricerca artistica dei compositori va avanti. C’è poi tanta improvvisazione nella nuova musica: abbiamo qui la compositrice e performer brasiliana Michelle Agnes che realizza delle partiture estemporanee, con la ricerca di nuove tecnologie applicate a strumenti acustici. La musica non si ferma, ma forse si fermano le istituzioni musicali? Drammaticamente le istituzioni musicali sono troppo ossessionate dall’idea del botteghino (che poi sono l’8% degli introiti generali). Per paradosso, se ci fosse un investimento sulle produzioni nuove, con una visione a lungo termine, si avrebbero sicuramente risultati migliori. Faccio un esempio, da due anni collaboriamo con la London Sinfonietta, che è l’istituzione per la musica contemporanea in Inghilterra, nata per questa musica. A Londra ci sono 9 orchestre sinfoniche e ognuna ha un proprio campo specifico di riferimento. Quando abbiamo contattato la London Sinfonietta per una collaborazione, l risposta è stata entusiastica perché, ci hanno detto, “noi abbiamo una sede ufficiale (la Queen Elisabeth Hall, una sala da 2.500 posti) nella quale siamo costretti a fare un C DA NON SALTARE U O .com tipo di programmazione, sempre nell’ambito del moderno e contemporaneo, che però prevede grandi afflussi di pubblico; quindi festival come il vostro ci permette di sperimentare una ricerca sulla programmazione anche con ensemble cameristici che non avremmo modo di fare nella nostra sede”. E’ nata una collaborazione nella quale loro allargano ambiti di sperimentazione e noi possiamo permetterci di ospitare artisti di questo livello. Ecco, se le istituzioni più classiche potessero intuire una linea simile in cui, pur lasciando l’80% della programmazione a opere di cassetta, ma lasciando il 20% per sperimentare, per invitare giovani, a lungo termine perderebbero quello strato di polvere che purtroppo un po’ le ricopre. Il che fa pensare a quale sarà il destino del nuovo teatro dell’opera di Firenze. Un teatro che dovrebbe essere gestito da una serie di operatori, anche internazionali, con un cartellone suddiviso fra loro e con una programmazione costante, diversificata, con l’unico punto di in comune di esprimere sempre il massimo della qualità. Questa è la chiave del successo di un teatro. Puoi farci un bilancio del Festival Firenze Suona Contemporanea che volge al termine? E’ importante ricordare che Kentridge è presente con due opere. La prima, “Paper Music” è stata l’opera con installazione e video, presentata anche in forma scenografica e con la presenza di William Kentridge sul palco. Ma tutti i giorni, fra le 20 e le 21, è possibile vedere “Breathe Dissolve Return” che è il trittico che nel 2008 Kentridge ha realizzato per la Fenice. Vorrei anche segnalare il Mdi Ensemble, che è una ensemble milanese di ricerca, abbastanza giovane che sta realizzando concerti di altissimo livello e qui mette in scena una prima italiana di Luigi Billone e lui sarà presente al Festival. E’ un compositore italiano molto importante che, ancora una volta, non viene rappresentato in Italia, non vive in Italia.L’altro compositore di riferimento per tutta la musica “spettrale”, la ricerca dello spettro sonoro con degli armonici e dei calcoli matematici su come funziona il suono, è Gérard Grisey (purtroppo prematuramente scomparso) che la Mdi Ensemble pure rappresenterà con la sua maggiore opera, “Vortex Temporum”. Infine chiudiamo con il FLAME, che è un ensemble di giovani, con un concerto dedicato ai giovani compositori, che ha commissionato alla brasiliana Michelle Agnes, a Lorenzo Troiani (compositore italiano di ambito sciarriniano, che centra la sua ricerca sulle nuove tecnologie, sulle tecniche estese di composizione), a Stylianos Dimou (compositore greco giovanissimo che vive in America, e che ha vinto diverse commissioni con l’IRCAM), a Luisa Valeria Carpignano e al sottoscritto (un pezzo con un video realizzato da Veronica Citti, un trittico per saxofono solista e ensemble, che verrà smembrato e diviso fra i vari schermi e fungerà da colonna sonora dei vari video). La prerogativa di questa ensemble è di avere anche dei compositori-esecutori, rifacendosi alla vecchia tradizione di Beethoven che si organizzava i propri concerti in cui era compositore ed esecutore, oltre che produttore. Musiche in tempo reale p n 91 PAG. sabato 20 settembre 2014 o 3 di Francesco Giomi [email protected] uò la musica essere oggi un motore di riflessione sociale oltre che di conoscenza ed emozione? Certamente in modo diverso da come lo è stata in alcune fasi del Dopoguerra, quando tanto compositori come Luigi Nono quanto cantautori come De Andrè affrontavano temi e storie scomodi, legati alla quotidianità, ma senza però avere davanti a loro una visione globale del mondo, poliedrica e complessissima come quella attuale. Così come è cambiato velocemente tutto il resto è cambiato anche il fare musica, proiettato in una logica plurale e massivamente espressiva che, grazie al digitale, raggiunge in maniera facile e trasversale miriadi di giovani, incorporando suoni, gesti, espressioni e idee da ogni millimetro del globo. In questa ottica il ruolo di un festival sperimentale come quello che Tempo Reale (www.temporeale.it) organizza a Firenze da sette anni non può altro che essere di proposta parziale, cercando di esprimere un’idea di ricerca che crei un ponte tra la tradizione e le forme più radicali. Questo avviene in maniera tematica, producendo e stimolando gli artisti, sfuggendo alle logiche inique e oggi immotivate del mercato musicale, seguendo anzi azioni di sostenibilità dei processi musicali e di stimolo all’innovazione linguistica. D’altro canto Tempo Reale ha raggiunto in questi anni lo status di Ente di Rilevanza della Regione Toscana per lo Spettacolo dal Vivo e questo non può che costituire una assunzione di responsabilità verso un percorso di qualificazione delle proposte e di sensibilizzazione del pubblico, soprattutto all’ascolto. Come quando si legge un libro o si guarda un film è spesso importante tornare più volte sulla percezione di un’opera e questo vale soprattutto per l’ascolto. Riascoltare quindi. Riascoltare in senso “geografico”, con la curiosità e l’apertura mentale che la musica tecnologica di oggi ci permette; ma riascoltare anche in senso “universale”, per aprirci ad un’idea di accoglienza che parta proprio dal medium acustico; che ci apra a ciò che è musicalmente e antropologicamente diverso, a ciò che non si conosce ma che vale davvero la pena di sentire, apprezzare e approfondire. Lo si diceva prima: un piccolo festival con questi presupposti non può altro che essere parziale, focalizzato su alcuni degli ormai vastissimi confini della musica di Gli appuntamenti ricerca, capace di indagare i soundscapes più remoti, i materiali di culture diverse, le forme espressive che si correlano con i luoghi e i suoni del mondo. Intorno a questi elementi nascono alcuni temi ulteriori, maggiormente tipici della sperimentazione musicale recente: il rapporto tra struttura e improvvisazione, l’importanza del gesto musicale, la relazione tra immagini e suoni, tra forme linguistiche differenti come il rock e l’elettronica. Il tutto articolato in quasi dieci giorni di concerti e workshop, tra cui un intenso pomeriggio dedicato agli archivi sonori. Si comincia il 26 settembre con un nuovissimo spettacolo sui temi dell’emigrazione/immigrazione, intersecando i testi di autori di tutte le epoche in un percorso drammaturgico costellato di musica totalmente improvvisata da un bellissimo gruppo di musicisti del 26 settembre Tempo Reale Electroacoustic EnsemLimonaia di Villa Strozzi, ore 21.30 ble: la voce principale è quella di MasMASSIMO ALTOMARE + TEMPO simo Altomare, storico esponente della REALE ELECTROACOUSTIC EN- scuola rock fiorentina mentre la dramSEMBLE / WELCOME maturgia e i testi sono stati curati da CaUn reading musicale terina Poggesi, già mente instancabile 27 settembre del gruppo teatrale Fosca. Limonaia di Villa Strozzi, ore 21.30 Con tutto questo Tempo Reale testimoPAOLO RAVAGLIA / CECCAnia ancora una volta una consolidata RELLI + JACOB TV presenza territoriale, sempre in bilico Concerto per clarinetti, video ed tra un’idea di laboratorio creativo e veelettronica trina internazionale. 20 – 21 settembre, ore 20.00 e 21.00 BREATHE, DISSOLVE, RETURN (2008) installazione di tre video video transfer 6 minuti (loop) William KENTRIDGE video Philip MILLER musiche assistenti alle animazioni C RIUNIONE DI FAMIGLIA U O .com n 91 PAG. sabato 20 settembre 2014 o 4 LE SORELLE MARX il romanzo della rivoluzione (5) Riassunto delle puntate precedenti: La Rivoluzione del Ministero dei Beni Culturali ha lanciato Dario “Che” Franceschini nell'olimpo dei rivoluzionari di tutti i tempi (ma Renzi gli ha impedito di proclamarlo). Mentre per i Gran Sacerdoti della conservazione è il tramonto di un'epoca. Nuovi obiettivi rivoluzionari sono alle viste. Dario “Che” Franceschini si trova nel suo studio del Ministero, circondato da pile di carte, libri, mappamondi e dal suo staff, indaffarato a compulsare testi, cartine geografiche, siti internet di agenzie di viaggio. “Ragazzi, ora che abbiamo rivoluzionato (ops, riformato-ma-poco, scusa Matteo) i beni culturali, passiamo a sistemare il turismo. Giuseppe, cosa sono queste sciocchezze che mi hai portato? Pacchetti-vacanza con soggiorno in tenda dentro Pompei? Campagna di comunicazione sui piccoli borghi di montagna? Ma che sei scemo? Qui bisogna rivoltare il turismo come un calzino: perdiamo turisti come un colabrodo sfondato! Ci vuole un mago del turismo rivoluzionario! Qualcuno con idee nuove, fresche, innovative!... Eureka, ci sono! Ci vuole Ceci. No, Giuseppe, non fagioli; Ceci, Stefano Ceci!” Lo staff è smarrito. Giuseppe D'Andrea, il fido Capo di Gabinetto, si guarda intorno, cercando negli astanti un sostegno, un suggerimento, un volto amico. Ma ormai il “Che” è un fiume in piena e ha rotto definitivamente gli argini: “Ma sì, dai, Stefano Ceci. Un genio assoluto. Ho letto una sua intervista: illuminante! Pensate che ha addirittura costruito una Startup Turismo partendo Registrazione del tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012 direttore simone siliani redazione sara chiarello aldo frangioni rosaclelia ganzerli michele morrocchi progetto grafico emiliano bacci editore nem nuovi eventi Musicali viale dei Mille 131, 50131 Firenze contatti www.culturacommestibile.com [email protected] [email protected] www.facebook.com/ cultura.commestibile “ “ Con la cultura non si mangia Giulio Tremonti da Facebook! Grandissimo! Innovativo! Una associazione fra 45 startup del turismo e ha avuto la genialata di chiamarla nientepopodimenoche Startup! Ma po, è un grande, dichiara di voler dialogare con le istituzioni: fantastico! Chiamatelo subito: lo voglio qui entro domani.” D'Andrea timidamente: “Veramente, Dario, è qui fuori della porta” “Visto, che vi dicevo: un genio! Ha anticipato addirittura il mio desiderio! Fallo entrare e voi andate tutti a prendervi un caffè… Caro Ceci, che piacere incontrarla: come sta? Bene? Ok, mettiamoci subito al lavoro: qui bisogna rivoluzionare il turismo, mica bruscolini! Si faccia venire un'idea! Il Ceci non si fa prendere alla sprovvista: “Ce l'ho, signor Ministro! Fantasmagorica! Facciamo il Laboratorio per la digitalizzazione del turismo. Eh, che ne pensa? Figo, vero? Il “Che” è esaltato dalla proposta: “Affare fatto! Lo prendiamo! Ecco qua, lo scrivo sull'iPad e domani è già pronto. Poi, altre idee?” Il Ceci, subito: “Facciamo un bel tax credit: alle piccole e medie imprese del turismo [cioè le mie, pensa il Ceci] si fa un bello sconto fiscale per gli investimenti sulla digitalizzazione: forte, no?” Franceschini a questo punto scatta sulla sedia e si mette a saltellare tutto intorno nello studio in un evidente e irrefrenabile moto di gioia: “Sì, sì, sì!!! Questa volta il Renzi mi fa capo della Rivoluzione permanente!! Avanti con la tax revolution!!! Benissimo, Ceci. Siccome lei è così bravo e sveglio, la prendo a lavorare qui da me e caccio tutti quegli altri mangia pane a ufo!” Il Ceci è evidentemente lusingato ma anche imbarazzato: “Ma signor Ministro, sarebbe un onore grandissimo, ma purtroppo non posso: ho famiglia a Reggio Emilia, molti impegni con le Startup, non sarei all'altezza del suo impeto rivoluzionario. Però, guardi, potrei farle da consulente saltuario. Naturalmente, pro bono, come si dice ora: senza prendere un soldo” Franceschini è un po' deluso, ma siccome è nota la sua taccagneria, accetta. Il Ceci lascia il Collegio Romano, mentre fuori della porta, il Capo di Gabinetto confabula con una vecchio usciere del MibacT(urismo). “Scusi Giovanni, ma chi è questo Ceci? Lo conosce lei?” L'altro: “Chi, il Bomba! Certo! E' una vecchia conoscenza del Ministero: si è ripassato tutti i ministri degli ultimi venti anni: ha fatto il consulente a tutti, ma l'apoteosi l'ha raggiunta con Rutelli prima e poi con la Brambilla. Ah, lì ha fatto scatafasci; trovate di genio, come quella del reggicalze della Rossa stile Sharon Stone che ha inventato lui! Sa, lui era convinto che come il maschio romagnolo era di grande interesse per il turismo d'Oltralpe, la rossa di Lecco avrebbe Finzionario di Paolo della Bella e Aldo Frangioni Simpatica novella sulla nascita dell'Universo e della vita sulla Terra. Nella disputa, tutta americana, fra evoluzionisti e creazionisti si inserisce questa dolce fiaba, come una terza via, che possiamo così riassumere: “All'origine di quello che ore vedete, cari ragazzi, il sole, le stelle, il mare, le nuvole, i sassi, le mosche, i pipistrelli, gli elefanti, i vostri balocchi, il gelato e il gelataio, l'edicola dove comprate le figurine dei calciatori, lo smartphone insomma tutto ciò che ci sta intorno, e si può osservare ad occhio nudo oppure con potenti telescopi o prodigiosi microscopi, era tutto dentro un cavolo dove, contemporaneamente, conviveva il mondo presente con quello dei tempi passati e dei tempi futuri”. Gli “scienziati cavolisti” dicono che spazio e tempo non si distinguevano e gli uomini di Neanderthal dipingevano le loro mani sulle pareti nella “Grotta di El Castillo” nello stesso momento, quando accanto a loro, i ragazzi giocavano con la play station: si può immaginare la confusione, una confusione che generò una energia potentissima che fece esplodere il cavolo in modo da dividere il passato dal presente e dal futuro e collocando, quella che noi chiamiamo storia dell'Universo, della Terra e dell'Uomo, dentro dei nuovi infiniti cavoli senza nessuna comunicazione fra di loro. Quindi, non solo i bambini, come diceva la vecchia leggenda, nascono fra i cavoli ma anche tutto il resto che noi oggi conosciamo insieme a ciò che abbiamo dimenticato e a quello che non potremo conoscere perché avverrà nei prossimi millenni. attirato i ricchi turisti brasiliani e russi. Ma poi, guardi, lui è un fantasioso, direi un fantasista; ma è anche uomo concreto. Pensi che con la sua società Netbooking ha già vinto una gara d'appalto per l'Expo bandita appena tre mesi fa: è così veloce che appena una settimana dopo la costituzione dell'azienda, aveva già trovato il progetto giusto per la richiesta del bando. E' proprio forte. Oh, è stato democristiano, ma mica moscio come quei vecchi pachidermi: lui nel 1991 ha avuto la trovata di portare un carro armato nel paesino di Cavriago per convincere il sindaco a togliere il busto di Lenin dalla piazza. Un rottamatore vero!” Il fido D'Andrea corre ad informare il Ministro delle strepitose doti del Ceci. Franceschini esulta: “Lo nomino subito Generale di Corpo d'Armata – reparto carristi delle truppe della rivoluzione!” I CUGINI ENGELS La cena di Caterina low cost Nell’attesa di compiere il mandato che la storia le ha affidato, quello di chiudere un’epoca, la sovrintendente Acidi si cimenta con la sfida del fundraising per ricostruire il banchetto di Caterina de Medici in quel di Palazzo Pitti. Sfida ambiziosa, dai grandi costi, che, temiamo, lo spirito del tempo e i braccini corti dei magnati nostrani rendono molto difficile. A meno che questo sia ampiamente previsto e voluto dall’Acidini, per mostrare che i musei non son cosa da manager, noi ci proponiamo di organizzare l’evento low cost. Intanto per abbattere i costi la location andrà cambiata con una più piccola e dotata di cucina. La SMS di Rifredi si è resa disponibile e ci pare adattissima alla bisogna. Il menù, anch’esso low cost, seguirà la più classica tradizione delle cene fiorentine nelle case del popolo, immutato più o meno dai tempi di Caterina stessa. Dunque: antipasto con tre crostini di numero (uno ai fegatini, uno al pomodoro, uno ai peperoni) ed una fetta di salame. Primi piatti penne al pomodoro o al sugo, per secondo arista o roastbeef tagliato parecchio fine, con patate. Caffè, acqua e vino. Per i vegetariani una cesta d’insalata la si trova. Di sicuro effetto anche l’allestimento della sala dove Silvano, maestro cerimoniere del circolo, ha detto che un pavone imbalsamato o comunque qualche gallinaccio da mettere a centro tavola lo trova. Un po’ più complessi i drappeggi dove i compagni di Rifredi, equivocando tra Caterina dei Medici e Caterina di Russia, proponevano un allestimento di vecchie bandiere rosse risalenti alla rivoluzione d’ottobre. Particolari a parte la cena è praticamente pronta, di sicura tradizione e a costi contenutissimi. Poi se la sovrintendente tratta un minino siamo che certi che, nella stessa cifra, i compagni un aperitivo con la spuma al ginger glielo mettono di sicuro. C U O .com PICCOLE ARCHITETTURE PER UNA GRANDE CITTÀ n 91 PAG. sabato 20 settembre 2014 o 5 di John Stammer L a signora parlò con calma ma decisa. Voleva sapere se la costruzione del nuovo centro sanitario nelle vicinanze avrebbe potuto compromettere la sua attività di florovivaista. E voleva sopratutto essere rassicurata che il suo lavoro potesse continuare. L’assessore la rassicurò e lei se ne andò tranquilla, ma con una punta di scetticismo. Oggi chi passa da via di Scandicci può ancora vedere il cancello di ingresso all’attività di florovivaista e, sullo sfondo, il grande complesso del Don Gnocchi. Nelle immediate vicinanze del piccolo vivaio è stato infatti costruito a partire dal 2007 (il 6 ottobre 2007 è stata posta la prima pietra), il nuovo centro fiorentino della Fondazione Don Gnocchi. Due facce di una città spesso raccontata solo con i suoi “monumenti” e che invece contiene molto altro. La convivenza fra il mondo della floricultura e quello della cura della persona e della riabilitazione, è davanti agli occhi di tutti. La Fondazione Don Gnocchi era insediata a Firenze dal 1951 quando aprì il suo centro in una grande villa sulle colline di Pozzolatico. Una villa che ha svolto la sua funzione fino al 24 ottobre 2011 quando il nuovo centro è stato inaugurato. Il centro è contiguo all’ospedale di San Giovanni di Dio in località Torre Galli, anch’esso oggetto recentemente di un ampliamento e di un intervento di ristrutturazione funzionale. L’area costituisce uno dei poli socio-sanitari della città che fornisce servizi alla popolazione della zona sud ovest dell’area fiorentina e, per quanto riguarda il centro di riabilitazione del Don Gnocchi, a gran parte della Toscana centrale. Il Centro, il cui vero nome è IRCCS (Istituto di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico) è stato realizzato su progetto di Salvatore Romano, con Andrea Santini e Francesco Martella, ed è adagiato sulle primissime propaggini del lato ovest della collina di Marignolle. L’Istituto si presenta alla vista come un edificio complesso. E infatti complesso lo è anche nella organizzazione e nel numero dei servizi prestati. Le dimensioni sono quelle di un grande centro di servizi con oltre 24.000 mq di superficie, 1.800 mq di palestre, 17 ambulatori per la riabilitazione, un polo formativo con 9 aule, oltre a 175 posti letto, di cui 25 unità di riabilitazione intensiva ad alta specializzazione. La parte che guarda la via di Scandicci, e il vivaio, contiene i servizi generali e le palestre, mentre la parte posteriore, verso la collina, contiene le stanze di degenza (anche in day hospital), organizzate in tre stecche perpendicolari alla collina stessa, e in una condizione di maggiore “riservatezza” rispetto ai parcheggi e agli accessi del pubblico. Il centro Don Gnocchi è un edificio che va osservato nei particolari. L’elemento di maggior spicco, per chi la cittadella della salute arriva, è il grande vano che contiene i servizi, con una parete articolata che nasconde uno dei vani scale, ed una copertura a vela di stampo “decostruttivista”. Ma insieme a questo si fanno notare sia il grande ingresso coperto da una struttura frangisole a doppia altezza, sia la grande parete vetrata che ospita la sala del bar e degli spazi di ri- storo. Le parti destinate alla degenza sono rivestite con una parete ventilata di cotto in liste e listelli che fornisce una visione “familiare” ai cittadini di quest’area posta ai confini con la zona del cotto fiorentino. Infine nella parte più lontana dagli accessi sono collocate le grandi aule delle palestre che sono come “racchiuse” all’interno di una cornice muraria rivestita in pietra chiara che mette in risalto le grandi pareti vetrate. Un edificio che non si offre immediatamente come un insieme ma che deve essere percorso dallo sguardo in ogni particolare per coglierne gli elementi qualificanti, e che costituisce uno dei poli della “qualità” del sistema sanitario toscano nel settore della riabilitazione. C ISTANTANEE AD ARTE U O .com di Laura Monaldi [email protected] d al Dadaismo alla Mail Art – passando per la Performance Art – Guglielmo Achille Cavellini è stato uno dei maggiori promotori dell’Arte Contemporanea, sia come artista che come collezionista e mecenate. La sua intensa attività lo ha condotto, negli anni Settanta, ad “autostoricizzarsi”, creando una rete di comunicazione internazionale attorno al Sistema dell’Arte ed esaltando la figura dell’artista attraverso l’autopromozione. Le sue opere sono state un atto di comunicazione compiuta, originale e intenzionale: operazioni concettuali dal sapore provocatorio e ironico, capaci di evocare le immagini-simbolo della contemporaneità in modo nuovo e inedito. Quello di GAC è un “nuovo realismo” in cui dissacrare l’arte e la poetica riduttiva della modernità, grazie a un gioco continuo di rimandi semantici che ha coinvolto a livello mondiale artisti e tendenze in una divulgazione compartecipativa delle infinite possibilità dell’espressione umana in campo artistico ed estetico. Gli Scritti, le Mostre a domicilio, i Francobolli, gli atti performativi, le operazioni autodirette e i Manifesti di GAC incarnano pienamente l’ambizione a opporsi a un sistema chiuso, incapace di fornire opportunità a un artista e a un intellettuale, consapevole che le proprie potenzialità espressive venivano negate in nome di una modernità ormai in declino. La sperimentazione e l’innovazione non si rifletteva sull’immagine, ma si poneva dentro e oltre l’immagine-simbolo del tempo, alla scoperta primigenia di una rivoluzione comunicativa umana e di una nuova condizione dell’artista, in quanto rivalutazione dell’identità estetica, che doveva imporsi con forza agli occhi dei contemporanei. Il gesto estetico si caricava di ogni possibile e immaginabile significato, divenendo elemento universale di comunicazione e decodificazione: l’idea di Arte veniva esibita in tutto il suo potenziale, nel contempo, contenuto semantico. Ne derivano audaci composizioni che verbalizzavano e teatralizzavano i miti di un mondo in decadenza che andava rinnovato alla luce di una rivoluzione comunicativa fuori dagli schemi, operando nell’intimo del quotidiano. Primo fra tutti Guglielmo Achille Cavellini ha colto l’idea del presente in quanto presente, della necessità di un rovesciamento dei medium espressivi, unendo l’arte alla vita. Promossa e condotta da Progettoutopia nello Spazio Contemporanea di Brescia n 91 PAG. sabato 20 settembre 2014 o 6 Guglielmo Achille Cavellini il mecenate In alto a sinistra Tutti frutti, 1968, Carbone e carta adesiva su tavola cm 98x66, a destra Serie dei Cimeli, 1980 Assemblaggio in teca di legno cm. 101x71x10,5 Sotto Personaggi della Storia. Cavellini 1914-2014, 1981 Serie Storicizzazioni. Collage su tavola cm. 146x102 A sinistra Corona, 1984, Collage di adesivi su cartone, elemento per la performance alla Galleria Nucleo di Bologna Diametro cm. 20 h. cm. 10 Tutte Courtesy Collezione Carlo Palli, Prato (11-12-13 settembre), si è svolta la Celebrazione Ufficiale del Centenario di Guglielmo Achille Cavellini. Introdotta dell'Ambasciatore cavelliniano Fausto Paci e dello storico protagonista della mail art Vittore Baroni la celebrazione è stata un momento di ricordo e di partecipazione, con performances e happenings collettivi, che non ha fatto altro che sottolineare l’attualità di un artista ancora inedito e insuperato. C OCCHIO X OCCHIO U O .com di danilo Cecchi [email protected] F ra i molti nomi che affollano la scena della fotografia francese fra gli anni Trenta e gli anni Sessanta, accanto a Doisneau, Izis, Brassai, Cartier-Bresson, Willy Ronis ed Edouard Boubat, troviamo i nomi di molti altri autori, forse meno noti, anche se non meno dotati dei colleghi più famosi. Fra questi fotografi, interpreti autentici della vita quotidiana così come della vita culturale ed artistica parigina, troviamo ad esempio Emile Savitry (1903-1967), nome d’arte di Emile Dupont, che spende la sua vita fra pittura, fotografia, musica e poesia, senza nessuna voglia di affermarsi veramente in nessuno di questi o di altri campi, troppo impegnato a vivere la propria esistenza e le proprie esperienze per dedicarsi interamente a nessuna delle arti che pratica. Amico del pittore André Derain e di alcuni surrealisti come il poeta Robert Desnos ed il pittore Georges Malkine, Savitry espone alcuni suoi quadri nel 1929 con la prefazione di Louis Aragon, ma davanti al successo di vendite fugge verso le isole del Pacifico, dove incontra il regista Murnau mentre sta girando il suo ultimo film “Tabù” e dove decide di diventare fotografo. Al suo ritorno nel 1930 incontra a Toulon il musicista jazz Django Reinhart e lo porta con sé a Parigi, va ad abitare in rue Boulard, vicino al cimitero di Montparnasse, e comincia a passare da un locale notturno all’altro, da quelli più infimi di Pigalle fino alla prestigiosa Cupole, dove conosce personaggi come Anais Nin, Pablo Neruda, Alberto Giacometti ed altri dello stesso livello, legandosi in una profonda amicizia con Jacques Prèvert. Lavora professionalmente per l’agenzia fotografica Rapho dove conosce Brassai, Ylla ed Ergy Landau, e dove nel dopoguerra confluiscono anche Robert Doisneau, Izis e Willy Ronis, lavora per qualche tempo nell’ambiente del cinema con Marcel Carné ed altri registi, dove fotografa gli allora giovanissimi Serge Reggiani ed Anouk Aimée, pubblica le sue foto su molte riviste illustrate come Point de vue, Picture Post e Réalités e collabora con riviste di moda come Vogue ed Harper’s Bazaar. Alla stessa epoca incontra e fotografa personaggi come Charles Chaplin, Colette, Edith Piaf e la allora diciottenne Brigitte Bardot, ma la lista delle sue amicizie e dei personaggi da lui fotografati sarebbe troppo lunga. Negli anni Sessanta torna di nuovo alla pittura, forse considerando esaurita la sua lunga parentesi fotografica. Nel corso di una intensa attività Savitry fotografa molto e si occupa di temi molto diversi, ma le sue immagini migliori, accanto ai ritratti di artisti, intellettuali, poeti ed attori, ed accanto ai suoi delicati studi di nudo femminile, sono quelle legate alla vita vera, come quelle scattate all’arrivo in Francia degli esuli spagnoli dopo la caduta di Barcellona, o quelle scattate nelle strade, nei locali ed ai personaggi della sua Parigi. Grande interprete della vita parigina, da quella popolare a quella delle classi colte, partecipe della grande vivacità intellettuale e culturale dell’epoca, vicino ai personaggi noti o sconosciuti che fotografa, esponente di primo piano di quella n 91 PAG. sabato 20 settembre 2014 o 7 che sarà indicata come la “photographie humaniste”, Savitry, al contrario degli altri fotografi della sua stessa generazione e del suo stesso milieu culturale, non gode in vita di quella fama che in realtà non ha mai cercato, non avendo mai pubblicato dei fotolibri e non avendo mai esposto le sue opere in mostre personali. Per lui il riconoscimento arriva molto più tardi, con delle grandi retrospettive organizzate a quarantacinque anni dalla sua scomparsa, a cura di Sophie Malexis. emile Savitry un fotografo di Montparnasse C HO SCELTO LA TOSCANA U O .com di Annalena Aranguren [email protected] h a scelto la Toscana, ma non le risparmia, giustamente, le critiche. Quando è venuta in Italia da Tokyo, per la prima volta, Yukako Yoshida aveva 8 anni: suo padre, appassionato di civiltà antiche la guidava per Roma raccontando a lei e a sua sorella la storia dell’impero romano. Non ricorda molto altro di quel viaggio: lei e sua sorella in albergo mentre la mamma faceva shopping e poi la classica truffa a Napoli: un uomo in divisa che le spinge a prendere un taxi sostenendo che quel giorno non c’erano treni per Roma perché era sciopero. La vera bellezza dell’Italia, da nord a sud, fino in Sicilia, l’ha scoperta dopo, a 21 anni, quando, in viaggio con un’amica, è rimasta così colpita dall’architettura italiana da decidere di studiare Storia dell’Urbanistica Italiana all’Università. Da quel momento in poi, l’Italia è stata sempre presente nella vita di Yukako, che, nel frattempo, si è laureata in Ingegneria (ramo architettura) e ha iniziato una brillante carriera accademica. A Pisa, dove si reca nel 1999 con una borsa di studio, trova alloggio presso una signora, maestra di scuola materna, che le insegna l’italiano e con cui stabilisce un legame profondo di amicizia; continua poi a soggiornare a Pisa in periodi alterni finché non sviluppa la determinazione di voler contribuire al miglioramento della società italiana, “come ringraziamento per la borsa di studio e l’affetto degli amici italiani incontrati”. Mi viene da osservare che questo è un Domenico di Giovanni, detto il Burchiello, fu animatore di burle e di pungenti critiche con gli amici artisti del XVI secolo e artista anch’egli. Restò profondamente apprezzato nell’amicizia La prima obiezione è subito immaginabile: “la cifra raccolta a livello nazionale per la Sla (Associazione Sclerosi Laterale Amiotrofica) è in Italia di 216.000 euro (a Firenze inferiore a mille euro) !”. E’ mai possibile che sindaci, assessori e primi ministri, abbiano avallato questo gesto dell’autogavettone ghiacciato per raccogliere un po’ di euri ? Ma il danno d’immagine, in stupidità assoluta, è stato calcolato? Una volta il “gavettone” era definito gesto da caserma e messo all’indice; ora sopravvive e diventa simbolo di “appartenenza”, di condivisione per una buona causa. Avremmo dato il doppio, in silenzio, pur di evitare questa pagliacciata che ha connotato l’estate toscana, ma il processo di omologazione è stato inarrestabile e il servilismo opportunistico ha ancora una volta trionfato. Fino a quando? o 8 “un po’ di Giappone un po’ d’italia Che bello sarebbe” atteggiamento decisamente molto giapponese e poco italiano (purtroppo) e lei ribadisce: “Vivo con la convinzione di dovere essere utile alla società. Me l’ha trasmessa mio nonno, fondatore di una fabbrica a Yokohama. Così, dopo molte riflessioni, ho scelto di venire in Italia fondando una nuova società commerciale a Pisa. Qual è la tua professione adesso? La società che ho fondato si chiama Desk Point e si occupa di vendita di prodotti informatici. Ma mantengo anche gli interessi che avevo in precedenza: nel 2009 ho fondato, sempre a Pisa, l’Associazione Culturale Italo Giapponese MIRAI (“futuro” in giapponese), di cui sono Presidente, organizzo convegni e sono promotrice del progetto Healing Art all’Ospedale di Pisa. Che cos’è esattamente? E’ un progetto in collaborazione con una università privata femminile di Belle Arti a Tokyo (Joshibi University), PASQUINATE di Burchiello 2000 n 91 PAG. sabato 20 settembre 2014 basato su uno studio scientifico pratico sull’effetto rilassante dell’ambiente, partendo dalla struttura architettonica, l’arredamento degli interni, l’uso dei colori. E’ un progetto di “umanizzazione” dell’ospedale, volto a rendere migliore, meno traumatico, il ricovero ospedaliero. Hai un’attività davvero composita. E’ facile lavorare in Italia e in Toscana particolarmente? Proprio no! La mentalità è chiusa, ci sono continui inceppi burocratici, per non parlare, in questa mia ultima esperienza, della scarsa consulenza ricevuta dall’ente pubblico, che ci ha bloccato il lavoro per alcuni mesi, naturalmente con un danno economico. Un caso del genere in Giappone sarebbe stato considerato gravissimo. Qui invece… Molti italiani si limitano a dire “Questa è l’Italia”, pensando di sdrammatizzare e come a dire che la colpa è sempre degli altri. Ma “gli altri” non esistono: l’Italia è fatta dal suo popolo. La rassegnazione, l’attesa che le cose cambino senza agire sono difetti italiani a cui non mi abituo. E allora perché scegliere Pisa per vivere? La Toscana, l’Italia tutta, è meravigliosa. Qui la gente è creativa e riesce a trovare il tempo per i propri interessi di vita. In Giappone si lavora troppo, non vi è dubbio. Però i Giapponesi lo fanno perché credono nel loro contributo verso la società. Si potessero mescolare i due caratteri avremmo una società fantastica. E’ con questa speranza che porto avanti i miei progetti di scambio! Ti dico Toscana e pensi? Al suo paesaggio collinare, al clima dolce. E a giorni di vacanza trascorsi “all’italiana”… E se dico Giappone? La risposta di Yukako arriva immediatamente: Penso a un grande lavoratore. L’APPUNTAMENTO La secchiata moltiplicatrice e certificatrice della stupidità in cui è precipitata la politica italiana di emiliano Bacci [email protected] “Stamattina ho messo le tue scarpe” per partire in un percorso nei luoghi della malattia mentale, toccando e guardando in prima persona la realtà dei “matti”. Sabato 20 e in replica domenica 21 settembre Pesaro accoglie la seconda edizione di questo viaggio, ideato e diretto da Elena Mattioli e Flavio Perazzini del collettivo LeleMarcojanni e prodotto da Cooperativa sociale Alpha: un invito a scoprire una realtà che, se non coinvolge direttamente familiari o professionisti del settore, è sommersa dalla routine quotidiana. Molti aspetti del nostro vivere insieme sono sconosciuti e a volte, per questa ragione, temuti o stigmatizzati; avere la possibilità di avvicinarsi al mondo della malattia mentale attraverso una narrazione mediata è un modo per conoscere, approfondire, capire. Una mezza giornata scandita da tre movimenti: l’assenza (un’immersione in solitudine nell’ex Struttura Residenziale e Riabilitativa di Bevano, la scoperta (un documentario proiettato sui muri di Pesaro che racconta le storie degli ex pazienti) e il ritorno (un Stamattina ho messo le tue scarpe momento di confronto collettivo). Alcune storie raccolte nella Struttura Residenziale e Riabilitativa di Bevano sono state riscritte da LeleMarcojanni e trasposte in immagini dall'illustratore lombardo Giordano Poloni. Le illustrazioni rappresentano elementi di un percorso narrativo che accompagna fino alle giornate del 20 e 21 settembre e sono pubblicate online sul sito homessoletuescarpe.it a cadenza settimanale. C n 91 PAG. sabato 20 settembre 2014 o VISIONARIA U O .com cevano sì che questo piccolo mondo infetto fosse autosufficiente. I malati, isolati da questi due alti muri di recinzione, stavano in 4 grandi stanzoni dal soffitto di circa 8 metri al terzo piano della costruzione più interna della fortezza-ospedale. Gli stanzoni non erano collegati tra loro ed a ognuno si accedeva da una scala esterna. Le finestre erano poste molto in alto per evitare che gli infetti si potessero affacciare, le latrine, pochissime per il numero delle persone, erano sempre maleodoranti per la scarsità d'acqua a disposizione, le fogne erano a cielo aperto. Saint Louis che tra un'epidemia e l'altra serviva ad altre funzioni, quali accogliere mendicanti o mettere i suoi grandi ambienti a disposizione dello stoccaggio di grano, ma, finita la minaccia della peste, rischiò di essere abbattuto in seguito alla nascita di altri ospedali ma poi la Rivoluzione prima e il dilagare delle malattie veneree dopo scrissero nuovi capitoli nella sua storia. Oggi l'ospedale Saint Louis, con l'antica struttura bella e incontaminata (da visitare perché ormai il pubblico può entrare) affiancata da una moderna con più di 1500 posti letto, è un centro d'importanza mondiale nel campo della dermatologia. Annesso c'è il museo des Moulages, anch'esso dichiarato monumento storico, con la più grande collezione al mondo di cere anatomiche (4700 pezzi) e nelle vetrine, in ordine alfabetico, documentazione ed esempi di tutte le malattie della pelle. La visita, da consigliare solo se si è altamente motivati, è su appuntamento. di Simonetta Zanuccoli [email protected] p un Lazzaretto all’avanguardia L’APPUNTAMENTO nel chiostro delle geometrie SCAVEZZACOLLO Circoli roprio dietro a quel tratto del canale Saint Martin che con le sue chiuse, l'acqua che scorre quasi all'altezza della strada sotto i piccoli ponti in ferro e legno, gli alberi, i bistrot e i colorati negozietti è uno dei luoghi più romantici di Parigi, sorge il gigantesco ospedale Saint Louis, il più antico della città, oggi monumento storico perché ritenuto uno dei più begli esempi architettonici in stile Luigi XIII. La sua storia vale la pena di essere raccontata. Gli abitanti di Parigi dal 1482 al 1660 furono decimati da ben sei epidemie di peste. Gli appestati venivano ammassati e lasciati morire nell'unico “ospedale” a disposizione, l'HotelDieu, nelle capanne di paglia e fango che venivano costruite per l'occasione alla periferia e nelle case requisite alle persone malate o morte, ma, non essendo sufficientemente isolati, il contagio si univa alle pessime condizioni igieniche della città diffondendosi sempre di più. L'ambizioso Enrico IV, che si stava impegnando a trasformare Parigi in una città moderna, decise di far costruire un ospedale, unico nel suo genere in Europa, interamente dedicato alla peste in ausilio all'Hotel-Dieu nei periodi di epidemia. L'opera cominciò nel 1607 (non si sa esattamente chi fu l'architetto che lo progettò, se Claude Vellefaux o Claude Chastillon) e finì nel 1612, due anni dopo la morte di Enrico IV che però ebbe il tempo di dedicare l'ospedale al suo antenato Luigi IX che la leggenda voleva fosse morto di peste in Tunisia nel 1270 durante una crociata. L'idea, nuova per il tempo, era quella, non tanto di curare, cosa ritenuta impossibile, ma di isolare completamente gli infetti dal resto dei cittadini. Il luogo prescelto per la costruzione era fuori le antiche fortificazioni, ai piedi della collina di Belleville, in una zona adibita a discarica dell'immondizia per gli abitanti della zona nord di Parigi. L'antico ospedale Saint Louis ha la struttura di una fortezza con un alto muro di cinta che racchiude uno spazio aperto quadrato dai lati di 120 metri circondato da belle costruzioni di mattoni e pietra che erano adibite ad uffici e case per il personale. Questo impianto architettonico ricorda quello di Place des Vosges e le facciate quella della biblioteca Nazionale in Rue Vivienne, entrambi costruiti nello stesso periodo. Al primo seguiva un altro muro che racchiudeva la zona dove erano tenuti chiusi i malati. Il muro esterno, come una vera fortificazione aveva un largo cammino di ronda per le guardie armate. Essendo l'accesso proibito al pubblico esse dovevano impedire qualsiasi incursione o contatto tra interno ed esterno. Dentro Saint Louis c'erano il frutteto, l'orto, le stalle, i magazzini ma anche la farmacia, la cappella e il cimitero che fa- 9 Se il circolo è vizioso, il rombo com’è? di Massimo Cavezzali [email protected] Nel chiostro delle geometrie è un composito progetto/laboratorio di teatro-architettura realizzato da Teatro Studio Krypton e Dipartimento di Architettura dell'università di Firenze (DIDA), diretto dal Prof. Saverio Mecca, un evento sostenuto da Estate Fiorentina del Comune di Firenze e sponsorizzato da Firenze Parcheggi, che ha come fulcro il Chiostro di Santa Verdiana, nel cuore della città e nel quartiere di Sant'Ambrogio. Si intitola Demolizione la performance inaugurale di Teatro Studio Krypton che sabato 20 settembre alle ore 21,30 avrà luogo in piazza Annigoni. Durante la performance operai e macchine edili apriranno un varco nel muro che separa la piazza dal complesso di Santa Verdiana, mentre Cauteruccio e gli studenti del laboratorio “presidieranno” il luogo dell'azione urbana. C LUCE CATTURATA U O di Sandro Bini www.deaphoto.it n 91 PAG. sabato 20 settembre 2014 o 10 Firenze 2008-2013 itinerari notturni Sandro Bini - Florence Night Movida (2011) Florence night Movida .com MUSICA MAESTRO di Alessandro Michelucci [email protected] Cenedl heb iaith, cenedl heb galon (un popolo senza lingua è un popolo senz’anima) recita un proverbio gallese. Questa lingua, la più parlata fra quelle celtiche, viene utilizzata da 1/5 della popolazione regionale (600.000 persone). Come è accaduto a tante altre lingue minoritarie, il gallese ha trovato nella musica uno strumento fondamentale per sopravvivere. Uno degli esempi più recenti è Tincian (Real World, 2014), il secondo CD dei 9bach, un gruppo gallese che sembra destinato a raggiungere la celebrità in tempi brevi. Non a caso Froots, una delle più autorevoli riviste di world music, gli ha dedicato la copertina di maggio. 9bach, che deriva da un gioco di parole, significa “piccola nonna” in gallese. Il gruppo è stato fondato nel 2005 da Lisa Jên (voce, piano e harmonium) e Martin Hoyland (chitarre e percussioni). Nel 2009 ha debuttato con il CD omonimo (Gwymon, 2009). In Tincian il duo è affiancato da Ali Byworth (batteria), Esyllt Glin Jones (arpa gallese, voce), Mirain Haf Roberts (voce) e Dan Swain (basso). Composte da Lisa Jên, le dieci canzoni sono tutte cantate in gal- Folk gallese del xxi secolo lese, eccetto una in greco, la conclusiva “Asteri Mou”. Non si tratta di folk in senso stretto: il disco contiene un solo brano tradizionale, “Pa Le”. Si tratta invece di una musica che attinge alla tradizione gallese per proiettarla nel ventunesimo secolo. Lo denota fra l’altro la ritmica di “Lliwiau”. Ad ogni modo, volti e luoghi legati alla storia gallese emergono in molti brani: “Ffarwel” e “LLwybrau”, per esempio, sono tratte da poesie locali. In “Pebyll” spicca lo struggente intreccio di voci che chiude il brano. “Plentyn” è dedicata alla tragedia dei cosiddetti stolen children (bambini rubati), i piccoli aborigeni australiani che furono strappati alle proprie famiglie nel secolo scorso. È l’omaggio inconsueto e sincero che una minoranza offre a un’altra, trascendendo le evidenti differenze storiche, culturali e geografiche. Il legame con l’Australia - dove il CD è stato registrato - non è casuale. Negli anni scorsi, infatti, Lisa e Martin hanno collaborato con il collettivo aborigeno Black Arm Band nel progetto Mamiaith (Madrelingua). Oltre 17000 km separano da Cardiff da Canberra, ma la comune battaglia per la difesa dell’identità culturale ha annullato questa distanza. Il gruppo sottolinea ulteriormente il proprio impegno culturale con un sito bilingue (www.9bach.com) C n 91 PAG. sabato 20 settembre 2014 o PECUNIA&CULTURA U O .com S.orsola di Simone Siliani [email protected] u 11 n pezzo di città negata, negletta, segregata direi. Sant’Orsola è un enorme quadrilatero infilato nel centro storico di Firenze, inaccessibile e in rovina da decenni. Lo ricordo così fin da quando ero adolescente e con l’organizzazione dei giovani comunisti italiani (che aveva la propria sede lì di fronte, in via Guelfa) organizzammo una occupazione simbolica per denunciare lo stato di abbandono e la previsione di un utilizzo a nostro avviso poco sociale da parte della Guardia di Finanza e comunque stravolgente della sua valenza storico-architettonica. Le cose poi sono andate anche peggio di come noi temevamo; abbandono totale, degrado, decadenza. Molti sono stati i tentativi di recupero della struttura operati dalla Provincia di Firenze che, attraverso varie vicissitudini burocratiche, ne è venuta in possesso, ma senza esiti perché, evidentemente, l’investimento di soggetti privati richiesto per recuperare il compendio si è rivelato troppo ingente rispetto alle possibilità di ammortizzamento e recupero. (ri)vivrà Ma la cosa davvero notevole è che intorno a questo parallelepipedo storico sfregiato da interventi in cemento armato successivi e abbandonato all’incuria, il quartiere, le associazioni dei cittadini, gli operatori economici si sono mobilitati e hanno avanzato proposte, hanno stimolato (anche criticato, come deve avvenire in democrazia) e, infine, provocato aperture di Sant’Orsola per far comprendere di cosa stiamo parlando. Così avverrà nella tre giorni de “La città dentro San Lorenzo” fra il 25 e il 27 settembre prossimi. Musica, teatro, letture, installazioni artistiche, mostre, incontri organizzati da Fondazione Studio Marangoni e i cittadini organizzati nel Sant’Orsola Project, per sollevare il velo di silenzio e indifferenza che si è ormai depositato da anni sopra questa ferita aperta nel cuore di Firenze. Noi di Cultura Commestibile ci saremo e sosteniamo questa impresa non disperata ma carica di speranza degli abitanti del quartiere. ICON ICON di Michele Morrocchi twitter @michemorr un viaggio dentro picasso Ritornano le mostre a Palazzo Strozzi e ritornano col nome forse più universalmente noto dell’arte ormai moderna e non più contemporanea: Picasso. Un nome, come dice il curatore della mostra Eugenio Carmona, che “si trova dappertutto, come lo spirito santo”; dunque un sicuro successo di pubblico, un grande rischio scientifico. Rischio che il curatore insieme al Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofia di Madrid, prestatore pressoché esclusivo delle opere di questa mostra originale, rendono al minimo attraverso un percorso che si snoda tra le varie sale, in cui si avverte il tentativo di trattare Picasso, dicendone la verità. Dunque un Picasso non irreggimentato in stili, scuole e correnti artistiche, né voluto spiegare fino in fondo, ma mostrato, divulgato nelle sue ossessive mutazioni, esemplificate dalle tre opere “pittore e la modella” che aprono, inframezzano e chiudono la mostra. Quello che emerge con forza è “l’artista che cammina verso il nuovo – è sempre Carmona a parlare – ricordando sempre il passato” il suo ma anche quello di tutta l’arte che lo ha preceduto. E’ qui che Cristina Acidini, sempre durante la conferenza stampa, disvela il legame possibile tra questa mostra e Firenze: il Picasso rinnovatore, che non improvvisa, ma rilegge e raffigura i classici dell’arte e del mito. Come appare evidente in Guernica, a cui è dedicata un’intera sala di bozzetti, studi, opere che la precedono e la seguono. La rilettura del mostro mitologico, il Buone nuove per la Strozzina Pablo Picasso (Malaga 1881-Mougins 1973) Figura 1928, olio su tela, cm 73 x 60. Collezione del Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofia, Madrid minotauro, delle figure classiche come i cavalli, che l’artista utilizza per descrivere una barbarie mai vista. Una sala in cui si percepisce l’angoscia di Picasso ma anche il grande tormento di voler trovare la chiave universale per raffigurare quell’orrore che accadeva accanto a lui. E poi oltre Picasso innumerevoli artisti spagnoli, dai ben noti Mirò e Dalì ad artisti non noti al pubblico italiano che affiancano il percorso “picassiano”, lo inseriscono in un contesto, ne mostrano le influenze comuni e quelle che da Picasso derivano. Accanto alla mostra, come sempre, molte iniziative per questo lungo percorso che inaugura il 20 settembre e termina il 25 gennaio prossimo, tra letture, eventi e laboratori per bambini che coinvolgeranno oltre palazzo strozzi tante realtà fiorentine, per programma ed informazioni www.palazzostrozzi.org Buone notizie per l’arte contemporanea. Nella conferenza stampa di presentazione della mostra di Picasso il direttore di Palazzo Strozzi, James Bradburne, ha assicurato che l’arte contemporanea rimane un elemento imprescindibile per la fondazione e che già nel prossimo marzo tornerà una mostra alla strozzina. “la strozzina vivrà”, assicura il direttore e noi, seppur preoccupati per la lunga attesa di qui a marzo, confidiamo nelle sue parole. (m.m.) C ICON U O .com a cura di Aldo Frangioni d [email protected] avid Lynch sarà l’ospite d’onore della decima edizione del Lucca Film Festival, diretta da Nicola Borrelli, evento sostenuto dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca. Oltre a una retrospettiva completa dei suoi film, il Festival presenterà in anteprima nazionale, nei nuovi spazi dell’Archivio di Stato, la grande mostra David Lynch. Lost Images. L’indiscreto fascino dello sguardo, a cura di Alessandro Romanini, sarà dedicata all’inedita attività di fotografo e litografo del regista americano, Lost Images sono immagini perdute, ritrovate e qui cristallizzate su carta, visioni surreali, inquietanti, oniriche, superstrade dimenticate sulle quali lo sguardo ripercorre i sentieri perturbanti prodotti dall’universo creativo di Lynch. Visioni e temi ricorrenti che hanno caratterizzato i suoi film più famosi, da Eraserhead a The Elephant Man, da Velluto Blu a Cuore Selvaggio, Lost Highway, Mulholland Drive, per citarne solo alcuni. La mostra raccoglie oltre 60 opere dell’artista: le due serie fotografiche in bianco e nero di grande e medio formato, Small Stories e Women and Machines, e una suite di litografie realizzate a partire dal 2007, lavori in gran parte esposti per la prima volta in Italia. David Lynch, sin dagli esordi della sua carriera cinematografica negli anni 60’, ha accompagnato il suo lavoro alla macchina da presa con la pittura, la fotografia, il disegno e la scrittura. Tra i suoi libri ricordiamo la graphic novel “The Angriest Dog in The World” pubblicata sul settimanale The Los Angeles Reader nel 1973. L’attività di Lynch si estende anche alla musica. Come cantante e musicista ha fatto un primo album nel 2011, “Crazy Clown Time” e nel 2013 il secondo, “The Big Dream”, dove compare una cover di “The Ballad of Hollis Brown” di Bob Dylan e tra le collaborazioni spicca quella con la cantante svedese Lykke Li. Ma la sua poliedrica attività non si ferma qui, ha voluto anche sperimentare installazioni, regie per video musicali, spot pubblicitari (dalla Playstation ad Armani passando per famose marche di caffè e profumi), performance teatrali (come “Industrial Symphony n°1: The Dream of Broken Hearted”). Si è dedicato al design progettando e realizzando gli arredamenti dei suoi vari film, in particolare di Lost Highway, ma anche del club “Silencio” di Parigi, passione quest’ultima dovuta all’attività del padre che aveva un laboratorio di falegnameria. Importanti anche le collaborazioni con il mondo della moda, in particolare quella con lo stilista Christian Louboutin, con il quale ha creato nel 2007 la mostra Fetish. La serie Women and Machines presenta invece la figura femminile nel suo potere evocativo, valorizzata nel Le immagini perdute di david Lynch n 91 PAG. sabato 20 settembre 2014 o 12 suo elemento creatore e vista nel suo versante ammaliante. Le 16 fotografie che costituiscono la serie sono state scattate nell’autunno-inverno 2013 nell’atelier Idem di Parigi, dove da oltre un secolo sono prodotte litografie dei più grandi maestri dell’arte del XX secolo, da Picasso a Braque, da Matisse a Chagall. Sarà presentato anche un documentario, Idem Paris, realizzato dallo stesso Lynch e dedicato al famoso atelier. E’ in questo luogo divenuto leggendario che l’artista scopre nel 2007 la tecnica litografica, da allora ha realizzato di suo pugno oltre 200 grafiche, un’ampia selezione delle quali possiamo vedere qui a Lucca, una tecnica “intimista” che gli ha permesso di declinare le sue visioni in inedite dimensioni poetiche, pur mantenendo uno stile graffiante con tematiche spesso noir. L’orrore e il dramma celato nel quotidiano lasciano trasparire nelle immagini litografiche, e spesso nei titoli, barlumi di speranza nella possibilità d’individuare frammenti poetici in grado di riscattare la tragedia umana. Temi sulfurei ma anche romantici, dalle aberrazioni fisiche all’incomunicabilità della coppia, dall’inesausta ambizione all’amore alla passione mortifera, dalla casa come rifugio ma anche ricettacolo di atti perversi ed esecrabili, sino alle macchine. Il percorso espositivo sarà integrato dalle proiezioni di cortometraggi e produzioni audiovisive meno note di David Lynch, come videoclip e spot pubblicitari. BIZZARRIA DEGLI OGGETTI Medaglia del palio a cura di Cristina pucci [email protected] Fa visita a uno fra le decine di amici vecchietti, collezionisti, trovarobe, artigiani dalle infinite abilità manuali, questo gli mostra le sue monete e, per ringraziarlo della visita, gli propone di prendere quella che più gli piace...Rossano, mi pare di averlo già detto, genio dell'oggetto d'epoca sceglie questa che è per lui del tutto ignota e incomprensibile. Studia e cerca per darle un senso e poi che fa? scrive alla "nobilecontradadelbruco". Contrada... Palio...Siena. Ecco qua la cortese risposta: "Buongiorno Sig. Rossano sono Francesco Tiravelli, Archivista della Nobil Contrada del Bruco. L'oggetto che lei possiede risale alle feste che furono fatte nei vari rioni a Siena nel 1896 in occasione dell'inaugurazione del monumento a Giuseppe Garibaldi. In quell'occasione la Società delle Feste Popolari (una Società di Mutuo Soccorso formata dagli appertenenti e abitatori del rione del Bruco), si adoperò per illuminare al meglio tutto il territorio della nostra Contrada, e, nella parte inferiore della via principale, venne posta una statua in gesso bronzato raffigurante Anita Garibaldi. La medaglia commemora quell'evento. In molte parti della toscana il nome "Anita" veniva spesso scritto e registrato all'anagrafe appunto come "Annita". La statua è purtroppo andata perduta. Il nostro archivio conserva pochi documenti di quell'evento e non eravamo a conoscenza dell'esistenza di questa medaglia commemorativa, che rappresenta una lieta scoperta. Venga a trovarci a Siena quando vuole, saremo lieti di farle visitare i nostri locali e il nostro Museo. Cordiali saluti". Come tutti sanno "il Palio non è una manifestazione riesumata ed organizzata a scopo turistico, il Palio è la vita del popolo senese nel tempo e nei suoi diversi aspetti e sentimenti...." Esiste da tempo immemore, citato da Dante "Molti corrono il Palio, ma uno è quello che 'l prende" e da Caterina, la Santa, "Orsù figlioli dolcissimi, correte questo palio e fate, che solo sia uno, quello che l'abbia, cioè che 'l cuore vostro non sia diviso"...Nel 1644 fu corso il primo simile a quello dei nostri giorni, le 17 Contrade furone definite nel 1729 da un Bando di Violante di Baviera, Governatrice della città, e tuttora resistono....Arrivo a Siena un dalla collezione di Rossano sabato per vedere il restaurato pavimento del Duomo e incappo in una Festa di Battesimo di nuovi contradaioli, tantissima gente, bambini e grandi, giovani e vecchi, bandiere, tamburi, abiti colorati, al ritorno tavole imbandite per più di 300 persone, senesi, tutti senesi, nemmeno un turista invitato. C U O .com disegni di pam testi di Aldo Frangioni Nella Brocchetta di Gurnià, ceramica minoica del 1700 a.C., raffigurante un polipo, non si sa se sia l'animale intrappolato sulla superficie del vaso o non sia questo, con le sue belle forme femminili, prigioniero dei “molti piedi” tentacolari dell'animale. HORROR VACUI n 91 PAG. sabato 20 settembre 2014 o 13 C LO STATO DELLA POESIA U O .com di Matteo Rimi A SU DI TONO di Michele Morrocchi twitter @michemorr Ryan Adams, cantautore americano in attività da qualche anno, è uno di quei personaggi perfetti per i programmi radiofonici in cui oltre alla musica devi trovare anche qualche storiella da raccontare per non annoiare i tuoi ascoltatori. In questo Ryan Adams è una mecca a partire dal nome che condivide, salvo una lettera, col più famoso cantautore canadese Bryan Adams. La cosa pare non piaccia troppo a Ryan che durante un concerto in un club newyorkese fece una mezza scenata quando un avventore gli chiese di eseguire Heaven, noto pezzo del quasi omonimo. Raccontano che Ryan non tornò in scena fino a quando l’avventore mattacchione non lasciò il club col costo del biglietto rimborsato. Come non bastasse l’omonimia, Ryan è famoso anche per un altro episodio. Nel 2001 uscì infatti il suo secondo album, Gold, e la produzione decise di estrarre come singolo un pezzo dal nome non proprio originale, New York New York. Ancora meno originale la scelta, probabilmente dettata da un budget davvero modesto, di girare un video con Adams che suona e canta con alle spalle Manhattan e le torri del World Trade Center proprio dietro di lui. Se a questo aggiungete che il video fu girato il 4 settembre di o 14 emetteranno all’ennesima stretta di vite. Ci sarà bisogno di poeti ad allargare le braccia come pompieri in missione, ognuno sotto un palazzo in fiamme, ognuno con i propri mezzi di soccorso: ci sarà bisogno di chi userà la musica, fionda a lanciare le note come scialuppe in mezzo ad un torbido mare e lo Stato si farà SONORO; ci sarà bisogno di chi riuscirà a persuaderne uno ad uno a cambiare strada e lo Stato si farà INTIMO; ci sarà bisogno di raccontare [email protected] desso che è libero lo Stato sarà, da participio a futuro, in tutti gli spazi lasciati orfani da noi, uomini e donne impegnati a perdere il nostro tempo. Appurato, grazie alla viva voce di tante amiche ed amici incontrati nell’ultimo anno, ognuno inevitabilmente diverso dagli altri ma comunque ricco di una umanità che la poesia acutizza ed amplifica (e quindi esempio per chi ancora non crede!), che la poesia è in buono – buonissimo – Stato, adesso si può andare avanti. Non più stato in luogo, lo Stato ha cambiato definitivamente complemento, diventando movimento verso qualcosa di costruttivo, di concreto, un dire che si fa fare, risalendo alle origini stesse della poesia perdute nella notte dei tempi tra le parole primigenie che si volevano pietra, finalmente a tornare dove era quando era più che scrittura – chiusura ma atto creativo, educativo, positivo. Testimonianza e possibilità di osservare con occhio attento, sveglio e sensibile il vero cambiamento, lontano da quello ciecamente pompato con caratteri iridescenti, invisibile ai più perché troppo lento, naturale e forse anche agli antipodi rispetto a ciò che ci aspetteremmo, la poesia si evolve a sua volta, arricchendosi di musica, colori, gesti, connessioni, connotazioni e di sostenitori mai lontanamente prevedibili, facendosi essa stessa n 91 PAG. sabato 20 settembre 2014 L’evoluzione EVOLUZIONE. Lo Stato è lì, a presiedere luoghi sconosciuti ed ancora da conquistare, le infinitesime sinapsi del nostro cervello ancora stoicamente proteso a non abbandonare la speranza che qualcosa di diverso possa ancora accadere, la fede nel sogno, nell’immaginazione, nell’energia primaria che ci ha spinto a diventare ciò che siamo e che non si può imbrigliare come le estensioni che non sono più animali, incanalare come corrente o dati nei lunghi fili ad unirci ed incatenarci, immagazzinare come contabilità del potere ormai determinato a schiacciarci! Ciò che è stato appurato è che i poeti non sono (e non possono essere) del tutto di questo mondo ma, come ambasciatori di un regno pulsante in altre dimensioni, conducono doppie vite su piani diversi, in tutti un po’ stranieri ma in ognuno essenziali, come fulcro naturale in cui catalizzarsi forze altrimenti disperse: indispensabili, quindi, i poeti, ma non isolati! Non più, perché in grado di lasciarsi unire ormai in un complesso reticolato, una stretta maglia composta con materiali diversi - anche diversissimi tra loro - alla quale però resteranno impigliati i sospiri che i tanti nostri simili L’APPUNTAMENTO Qualcosa di buono da Ryan Adams quell’anno, capite che questo ragazzo, oltre al lutto per l’attacco alle torri gemelle, passò delle brutte giornate. Poi come spesso accade il caso o la fortuna ci mettono lo zampino e, grazie ad MTV, il singolo di Adams cominciò a passare in radio e tv e diventò una specie di inno alla rinascita newyorkese. Da allora Ryan Adams è molto cresciuto musicalmente, è diventato più cupo, ha registrato una cover di Wonderwall degli Oasis da brividi ed ha assunto un look alla Tim Burton. Il 3 settembre ha pubblicato un nuovo disco intitolato, per non sfuggire alla regola universale che ogni artista pubblicherà prima o poi un disco col proprio nome, Ryan Adams. Disco molto asciutto dove la chitarra di Adams, sempre distorta, sempre con accordature molto aperte, la fa da padrona e in cui spicca la prima canzone Gimme Something Good, potente song dal riff ossessivo e molto orecchiabile. L’atomsfera gothic che apre caratterizzare questo periodo dell’artista, più che nelle note della canzone la si ritrova nel video del pezzo con la presenza di Elvira (Cassandra Peterson) la sexy strega storie di paesi lontani per farceli vicini e scoprire che, come italiano, può essere lo Stato INDIANO; ci sarà bisogno di andare a svelare aspetti che troppi di noi rimuovono per non dover ammettere la caducità e per questo lo Stato si farà SANITARIO. Crescerà, lo Stato, tanto quanto i luoghi arresi che visiterà, ciò che è stato ma anche ciò che sarà, cercando, come il poeta la parola in punta di penna, il linguaggio giusto per ogni persona, per ogni scenario, per trasmettere il semplice messaggio che è il messaggio ciò che va trasmesso. il colore viola di via del parione della televisione americana anni ’70. Il resto del disco invece fatica a spiccare e farsi notare, salvo forse Wrecking Ball, dove Adams dimostra ancora una volta di non temere titoli non originali, visto l’omonimia con il brano Miley Cirus e l’album di Springsteen. Un album comunque gradevole, tra testi ragionati e sonorità alla Tom Petty. Narra la leggenda che il colore viola per tingere i vestiti sia stato scoperto casualmente da una nobile casata fiorentina. Una storia particolare della città di Firenze che riprende vita questo sabato, 20 settembre, nella centralissima via del Parione dove l’associazione fund4art e i commercianti della via hanno dedicato al colore viola gli allestimenti delle vetrine e opere d’arte e performance artistice. Il culmine della manifestazione sarà proprio alle 19 di sabato quanto Bearice Bartolozzi e Meri Iachi ricreeranno la nascita del viola in una performance artistica con la partecipazione del pubblico. Una serata particolare per vivere uno dei luoghi più centrali di Firenze con un tocco di viola, colore con il quale è invitato a vestirsi anche il pubblico per vivere più intensamente l’esibizione. C n 91 PAG. sabato 20 settembre 2014 o IN RICORDO U O .com di ugo Bardi S i è spento nell’estate del 2014 Giuliano Bardi, architetto residente nella Valle del Mugnone. Quelli che lo hanno conosciuto, se lo ricordano nei suoi ultimi anni. Ma nell’arco di una lunga vita – 92 anni – Giuliano Bardi ha visto e fatto molte cose. Nella sua gioventù, ha visto la guerra e poi è stato parte del momento politico burrascoso del dopoguerra che vide la Democrazia Cristiana esprimere leader fiorentini come Nicola Pistelli e Giorgio La Pira, dei quali Giuliano Bardi era amico e collega. Con gli anni, Giuliano Bardi ha abbandonato la politica attiva, per dedicarsi a un sindacato degli insegnanti e, allo stesso tempo, esercitare la professione di architetto insieme alla moglie, Ada (1921-2008), anche lei laureata in architettura, che aveva sposato nel 1950. Molta della sua attività di architetto è stata nel comune di Fiesole, dove si era trasferito nel 1965, lasciando il suo quartiere di origine, Monticelli, a Firenze. Negli ann ‘60, lo sviluppo edilizio della Valle del Mugnone è stato caotico e rapido a riempire un vuoto che era stato lasciato dalle servitù militari che avevano impedito le costruzioni fino al dopoguerra. La storia della valle vede case popolari sorgere qua e là, accompagnate da lottizzazioni che generano villette sparpagliate nella campagna. Negli anni ‘80, vedrà sviluppi edilizi molto più ambiziosi, con la “quasi-città” che è divenuta Mimmole. Le case progettate e costruite da Giuliano Bardi erano ispirate dai temi architettonici degli anni ‘50 e ‘60. Se a Firenze si ispirava all’architettura ul- 15 un Architetto che guardava a Leonardo Ricci tramoderna di Michelucci, a Fiesole, lo stile di Bardi era simile a quello di Leonardo Ricci (1919-1994), suo contemporaneo che conosceva bene, le cui opere possiamo ancora oggi ve- dere sulla collina di Monterinaldi, dalla parte destra del Mugnone. Ma mentre le case di Ricci sono rimaste in gran parte nella forma originaria, quelle di Bardi sono state spesso stra- volte da modifiche e espansioni, al punto da essere difficili da identificare oggi. Ci rimane del suo lavoro, soltanto qualche scorcio che mostra che era parte dello stesso movimento di idee che aveva generato le case di Monterinaldi. Ampie superfici vetrate, vani interni ampi e comunicanti, e attenzione ai materiali con un particolare interesse verso la pietra lasciata allo stato grezzo. Un’ i m m a g i n e della sala interna della sua casa di Pian del Mugnone ci da un’idea della prospettiva di questo tipo di architettura che Giuliano Bardi e sua moglie Ada prediligevano. Ma forse le pietre e i mattoni non sono il miglior ricordo che abbiamo di lui, e preferiamo ricordarcelo per le sue battute e i suoi giochi di parole, un uomo che, quasi fino all’ultimo momento non ha rinunciato al suo senso dell’umorismo e al piacere di scherzare con l’infermiera che lo accudiva. E’ morto nella casa di Pian del Mugnone che lui stesso ha costruito. Giuliano Bardi con la nipote nel 2011 GRANDI STORIE IN PICCOLI SPAZI di Fabrizio pettinelli [email protected] C’è una remota possibilità, che, passando da Via di Santa Lucia, abbiate lanciato un’occhiata distratta alla lapide murata sulla facciata della chiesa, che, in traduzione letterale, recita: “Io, l’Imperatore, vinsi combattendo con i sassi nell’anno del Signore 1594”. Chi era questo Imperatore e quale razza di battaglia aveva vinto a sassate? Dobbiamo risalire addirittura al 1283, quando la famiglia Rossi, che possedeva case e castelli nella zona del monastero del San Gaggio, costituì la "Compagnia dell'Amore", una brigata di mille giovani in divisa bianca che percorrevano senza sosta le strade della città organizzando ovunque giochi, banchetti e tornei. Nel 1342-1343, ai tempi del “Duca d’Atene”, al quale era stata affidata la città stremata dalla contesa fra guelfi e ghibellini (di questo singolare personaggio avrò modo di parlare a proposito di Via della Ninna), simili via Santa Lucia Le antiche potenze festeggianti Compagnie che si erano formate in vari quartieri della città, istituzionalizzate e riorganizzate con una struttura quasi militare, furono affidate a un comandante che assunse, a seconda della zona, svariati titoli; visto che al vertice delle compagnie c’erano “imperatori”, “monarchi”, “conti” e via dicendo, le compagnie stesse presero il nome di “Potenze” e, essendo il loro compito precipuo organizzare feste e divertimenti per le varie ricorrenze cittadine (nonchè “armeggiare a’ sassi” con le Potenze confinanti), divennero note come “Potenze Festeggianti”. L’argomento non può esaurirsi nella tirannica dittatura delle 3.000 bat- tute, dato che le Potenze furono oltre 70: in questa sede semplicemente lo introduco, accennando, per diritto di preminenza, all’Imperatore. L’”Imperatore del Prato da Santa Lucia sul Prato”, che aveva sede in Borgo Ognissanti, fu l’unico capoPotenza ad essere insignito del titolo di Imperatore e, al contrario di tutti gli altri “sovrani”, ad avere il diritto di libero transito (sancito nel 1588 da un decreto degli Otto di Guardia e di Balia, occhiuta Magistratura fiorentina della quale avrò occasione di riparlare) davanti alla sede delle altre Potenze, e questo fa capire quale fosse la sua importanza; gli uomini al suo comando erano quasi tutti tessitori di lana. Dell’Imperatore restano molte testimonianze, fra le quali quella sopra citata. Non si sa quale fu la Potenza sconfitta in quell’epica sassaiola (combattuta nel tradizionale campo di battaglia delle Potenze, Il Prato, primo luogo ad essere destinato a “verde pubblico” dal Comune di Firenze), ma dovette veramente essere una battaglia memorabile, visto che gli scontri “a’ sassi” erano all’ordine del giorno e si concludevano regolarmente con morti e feriti, tanto che i soliti “Otto” finirono per proibirli. Dell’Imperatore si ricorda anche una lunga controversia giudiziaria con l’”Imperatore di Campi”, che pretendeva l’unicità del titolo: salomonicamente la giustizia stabilì che ci sarebbero stati due Imperatori, uno per la città, l’altro per il contado. C VUOTI&PIENI U O .com di Ferdinando Semboloni u [email protected]fi.it na muraglia di macigno spessa quattro metri e grezza. Così appare ancora una parte del tamburo su cui poggia, la Cupola di S. Maria del Fiore. Un amico in visita a Firenze se ne uscì fuori con: «Ma voi a Firenze non terminate nulla!». Francese, dirigeva grandi cantieri edili a Parigi, era rimasto meravigliato della facciata incompiuta di S. Lorenzo. Se non fosse stato per gli interventi ottocenteschi avrebbe visto anche S. Croce e il Duomo nel medesimo stato. In quel periodo c'era più libertà di intervento, ma forse si facevano anche dei disastri, dato che Cesare Brandi non aveva ancora formulato la sua teoria del restauro. Viollet Le Duc ricostruiva la guglia di Notre Dame e le mura di Carcassonne. Si scherza col fuoco, certamente, perché ci vuol nulla a distruggere un monumento con aggiunte improprie, ma sia S. Croce che il Duomo ci hanno tutto sommato guadagnato. Il tamburo della Cupola ha una storia travagliata. L'ingegnere ed architetto Rodolfo Sabatini è stato l'ultimo in ordine di tempo, nel 1943, a cimentarsi, con perizia e modestia nell'arduo compito della sua “completazione”. L'idea originaria di Brunelleschi era quella di costruire un “andito di fuori, sopra gli occhi, che sia di sotto imbeccatellato, con parapetti straforati” alla base della cupola. Francesco d'Antonio, pittore fiorentino, in una tavola datata 1425/1430, “Cristo che guarisce l'epilettico indemoniato e il tradimento di Giuda” (Filadelfia, Museum of art) dipinge una cupola che rappresenterebbe il progetto di quella fiorentina, con un ballatoio rispondente all'idea di Brunelleschi: una fascia interrotta da aperture e sorretta da mensoloni. Brunelleschi risolse genialmente il problema architettonico della lanterna dove si raggruppano simbolicamente tutte le forze verticali della Cupola, ma non quello della base. La Cupola è pensata come il Paradiso: distaccata dalle cose terrene, su di esse poggiata, ma tendente più verso l'alto che ancorata al basso. Una specie di navicella spaziale che il ballatoio, oltre a dare un punto di vista panoramico su tutta la città, serviva a dividere dal mondo terreno. Baccio d'Agnolo, dopo il concorso del 1507, inizia a realizzare l'idea di Brunelleschi, della Cupola poggiata, con un bel loggiato forse troppo “straforato”. Ma si scontra con Michelangelo che ha una idea completamente differente da quella di Brunelleschi: “quella macchina si grande richiedeva maggior cosa e fatta con altro disegno, arte e grazia”. Invece di poggiare la Cupola, Michelangelo nel suo progetto, l'ancora profondamente al tamburo rinserrato dalle colonne binate poste ai lati dell'ottagono, sulle quali poggia un'imponente trabeazione. Da questa sorgono i costoloni, decorati con statue. Semplifica le specchiature del tamburo e lega la Cupola saldamente a terra. Conseguenza inevitabile: l'eliminazione del ballatoio. Il progetto michelangiolesco, ricostruito sulla base del disegno di Howard Saalman, era forse impraticabile ma coglieva il problema di radicare la Cupola nella fabbrica del Duomo. Al rullo del tamburo della Cupola Dall’alto in senso orario Il ballatoio di Francesco d'Antonio, il ballatoio di Baccio d'Agnolo, il tamburo rullante e il progetto di Michelangelo n 91 PAG. sabato 20 settembre 2014 o 16 I muri grezzi, come quello del tamburo, non possono dirsi né belli né brutti, ma solo grezzi appunto, cioè in attesa di qualcosa, e far attendere un muro cosi importante per cosi tanto tempo non è cosa carina né civile. Uno a questo punto ci prova anche perché il problema andrà risolto prima o poi: perché non tentare sempre con una tecnica virtuale che non può produrre danni, di ricostruire una tra le tante possibilità, con un occhio a quella proposta da Michelangelo? Le colonne binate del progetto di Michelangelo rompono la continuità tra i costoloni della Cupola e i pilastri policromi che sorreggono il tamburo. Come fare? La ricetta potrebbe essere semplice. Continuare le paraste angolari del tamburo impostate dal Manetti, e lasciate a metà. Estenderle per tutta l'altezza del tamburo modificando però la loro decorazione che diviene continua. Così le paraste riprendono il motivo di quelle utilizzate da Brunelleschi per la lanterna ottagonale, e la Cupola, coi suoi costoloni bianchi, potrebbe apparire come un raccordo tra tamburo e lanterna. Poggiare poi la trabeazione michelangiolesca semplificata, all'imposta della Cupola, sulle paraste. Completare il raccordo tra gli occhi del tamburo e la trabeazione con una decorazione a riquadri che ricorda quella della facciata di S. Maria Novella dell'Alberti, che lì funziona da raccordo stilistico e qui serve anche a sottolineare una sorta di legatura orizzontale continua alla base della Cupola. Dopo di che la frittata è fatta e il tamburo potrebbe tornare a rullare. Altri più competenti sapranno prendere il testimone e proporre soluzioni, di modo che uno che venga da via dei Servi ed alzi gli occhi alla Cupola non abbia più a vedere un muro grezzo in mezzo a tanta bellezza. ICON Il Comune di Campi Bisenzio in collaborazione con Fund4art presenta al Parco Iqbal una tre giorni completamente dedicata alla Street Art. Tre gli artisti presenti, appartenenti alla scuola romana della Street Art: Solo,nome già molto noto, grazie alle sue collaborazioni illustri, a Londra presso lo studio dei videomaker The Butchers, al Viennart e al MACRO (Museo d’ArteContemporanea di Roma), Diamond tts, attivo dal ’93 nel panorama del Writing con un segno stilistico elegante e provocatorio al contempo, e il collettivo "Tutto Bene", dallo stile incisivo e pulito. I tre giovani artisti si cimenteranno in una performance a sei mani “live” totalmente nuova nel suo genere, lavorando su una superficie di oltre 80 metri lineari, più di 180 mq, colorando e reinterpretando grazie alla loro arte uno dei muri perimetrali del Parco Iqbal a Campi Bisenzio. I visitatori, i curiosi e gli interessati potranno vedere fin dal giorno 25 gli artisti all’opera, seguendo tutte le fasi di realizzazione di questa gigantesca opera d’arte urbana. Evento clou della tre giorni CAMPI D’ARTISTA. STREET ART LAB sarà la serata di sabato 27, i tre artisti termine- La street art sbarca a Campi ranno la loro opera d’arte in un evento che vedrà il Parco Iqbal aperto per un dj set con Zazza dj, musica house al parco, aperitivo e bar aperto per tutti coloro che volessero partecipare alla serata evento, completamente gratuita, conoscere gli artisti e festeggiare la nuova opera d’arte donata alla città. Un live in cui performance di arte contemporanea e musica house si integreranno per una serata speciale. CAMPI D'ARTISTA è un evento inserito all'interno della rassegna “La Meglio Genìa”, appuntamento che ogni anno racchiude i “talenti” migliori che il nostro territorio possiede e che su di esso si esprimono. Inoltre, dato che il Comune di Campi Bisenzio aderirà in questo stesso fine settimana alla XXI edizione italiana di “Puliamo il Mondo”, i writers realizzeranno “pezzi” dalle note “green”, consci che la loro attività ben si inserisce nel clima di questa manifestazione, di una “ri-pulitura” dell'ambiente urbano che con loro passa attraverso la la rivalutazione di spazi condivisi. Appuntamento al Parco Iqbal Ingressi: Via Vittorio Veneto 68 e Via Mascagni Dal 25 al 28 settembre tutto il giorno Evento del 27 settembre a partire dalle ore 18.30/ Dj set a partire dalle 20.30 C U O .com L’ULTIMA IMMAGINE n 91 PAG. sabato 20 settembre 2014 o 17 Futurama, Bowling Alley, San Jose, California, 1972 [email protected] dall’archivio di Maurizio Berlincioni Presentato nel lontano 1961 Futurama era considerato il miglior "Bowling Alley" di San Jose ed era situato sullo Stevens Creek Boulevard. Con i suoi 42 "automatic lanes" , un ristorante con annessa Cocktail Lounge dal nome esotico di "Magic Carpet Room" ed una grande area "fitness" era un vero centro di attrazione per gli aficionados del bowling e della cura del proprio corpo. Dopo più di 30 anni di onorata carriera venne chiuso ed al suo posto fu inaugurato un grande megastore della catena Safeway Grocery Store. Attualmente il famoso landmark restaurato è naturalmente rimasto al solito posto con la sola variazione delle insegne che adesso recitano "Safeway" al posto del vecchio e glorioso "Futurama Bowl".
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