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uesta settimana
il menu è
dA non SALtARe
Firenze e la musica
contemporanea
“
oggi sono al campo degli Assi Giglio Rosso. A 55 anni ancora
riesco a saltare 1.50! dobbiamo guardare sempre avanti
eugenio Giani
Cavallari e Giomi da pagina 2
piCCoLe
vuoti&pieni
ARChitettuRe
La cittadella
della cultura
Stammer a pagina 5
oCChio x oCChio
il fotografo
di Montmartre
Sempre
più alto
Riunione
di FAMiGLiA
a pagina 4
il romanzo
della
rivoluzione
(quinta parte)
Cecchi a pagina 7
vuoti&pieni
A rullo di tamburo
della Cupola
La cena
di Caterina
low cost
Semboloni
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DA NON SALTARE
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.com
di Simone Siliani
A
[email protected]
ndrea Cavallari è direttore artistico (insieme a Luisa Valeria
Carpignano) del Festival “Firenze
Suona Contemporanea”, 7a edizione, in svolgimento a Firenze. Cavallari
è un notevole compositore (diploma in
pianoforte, studi di etnomusicologia comparata e di direzione d’orchestra). Il suo lavoro risente dell’influenza di Berio, Cage,
Ligeti, ma anche di artisti visivi come Pollock, Horn, Manzoni. Fondatore dell’Accademia S.Felice. “Composer resident”
presso la Kammeroper Frankfurt. Co-direttore del London Ear Festival. Lo abbiamo incontrato a margine delle prove
della Florence Art Music Experience (da
lui fondata) che concluderà il festival il 21
settembre.
Vorrei iniziare chiedendoti di raccontarci il
filo rosso di questo festival “Firenze Suona
Contemporanea” che giunge alla sua settima
edizione e che si caratterizza per il connubio
fra la musica e le arti visive.
In effetti proseguiamo un’impostazione
già sperimentata. Lo scorso anno il titolo
fu “Angelus Novus”: una rassegna centrata
su questa serie di dipinti di Paul Klee che
hanno poi influenzato tutta la musica di
Boulez, tutta la filosofia di Walter Benjamin, la musica dagli anni ‘50 ai ‘90. Così
quest’anno ci siamo posti il problema oggettivo non di andare a ripescare un concetto filosofico di un artista visivo
scomparso, ma di includere nel progetto
artisti viventi, creando un framework che
potesse far dialogare arti visive e musica
contemporanea. Sulla base di questa
scommessa abbiamo selezionato quei due
o tre artisti che già lavorano in questo ambito (non avrebbe avuto senso, ad esempio, portarci Kounellis) e che
rappresentano i maggiori artisti viventi:
Bill Viola, William Kentridge e pochi altri.
La scommessa era di convincere Kentridge a partecipare ad un festival di musica
contemporanea, perché è un artista molto
puntiglioso: è lui che sceglie dove essere
invitato; non fa mai progetti in gallerie;
non vuole apparire in contesti legati al
mercato dell’arte. Si è innamorato immediatamente del progetto: musica contemporanea al Museo del Bargello. Aveva
trascorso alcuni anni da ragazzo a Firenze
e non ci era più tornato. Così dopo un
anno e mezzo è nato il progetto “Paper
music” che è una collezione di 17 film con
le musiche originali di Philip Miller e 7
film in prima esecuzione assoluta realizzati
per il festival: è un’opera in prima mondiale che ha debuttato a Firenze e che poi
è stata rappresentata alla Carnegie Hall di
New York e ne seguiranno molte altre.
Kentridege, artista contemporaneo fra i più
noti, viene invitato a Firenze, al Bargello, un
bene culturale del Duecento (il più importante museo di scultura del Rinascimento del
mondo, peraltro meno visitato di quanto non
si immaginerebbe), è stato attratto e convinto
ad accettare. Questo vostro festival è alla 7°
edizione: se un festival di musica (e arte) contemporanea esiste (o resiste) a Firenze da 7
anni, forse questa città non è così refrattaria
al contemporaneo.
Cito Bonito Oliva che dice che tutta l’arte
è stata contemporanea. Quindi la città in
sé non è refrattaria al contemporaneo; è
il
suono
contemporaneo
di Firenze
intervista a Andrea
Cavallari
sta cifra sarebbe stata reinvestita nelle arti:
l’uso che si fa del contemporaneo in questa città è sbagliatissimo. Questa è una città
che dovrebbe vivere di contemporaneo.
Non esiste osservare una programmazione annuale degli Amici della Musica,
del Maggio Musicale, dell’ORT e trovarci
così poco contemporaneo. Le mostre
d’arte sono sparite. Ora si è riaperto uno
spiraglio con Penone a Forte Belvedere.
Ma dove sono gli anni ‘70, ‘80. ‘90 in cui
veramente c’era una vitalità sul contemporaneo incredibile. Io temo che questi 20
anni di politica di consumo per turisti che
arrivano in bus, si comprano la visita agli
Uffizi, un po’ di souvenir o articoli griffati
e alle cinque sono già di nuovo sull’autobus per ripartire, ha distrutto le energie e
le volontà. Si pensa che siccome c’è così
tanto da vedere, non si ha bisogno del contemporaneo; e invece è esattamente il
contrario. Quando c’è stata la diatriba di
pagare i 2 euro di tassa di soggiorno dei turisti (che oggi fa incassare 22 milioni
l’anno alla città), fu promesso al tavolo
della contemporaneità che il 50% di que-
scopriamo oggi che viene reinvestita negli
straordinari del personale museale, nella
conservazione, mentre non un euro viene
destinato alla produzione. Qui a Firenze
manca una politica di investimenti sulla
produzione dell’arte, sulla creazione di
progetti nuovi. Quello che kentridge è riuscito a fare producendo quest’opera qui.
Tutto lo staff (costumisti, cantanti, musicisti, ecc.) è arrivato 10 giorni prima del
festival, ha invaso lo spazio di 500 mq, lavorando molte ore al giorno, ha prodotto
questa opera, nella quale sono coinvolti
video (nuovi e vecchi), musica, scenografie, la contaminazione delle esperienze etniche
(sudafricane)
con
la
sperimentazione vocale d’avanguardia (da
una parte Ann Masina, mezzo soprano sudafricano, e dall’altra Joanna Dudley, soprano conosciutissima per la ricerca di una
vocalità nuova).
Però è vero che c’è un pubblico per il contemporaneo. Ci sono esperienze che resistono
(penso a Tempo Reale nell’ambito della mu-
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sica, o a Cantieri Goldonetta in quello delle
arti del corpo, a Teatro Studio a Scandicci).
Certo, meno di quello che ci si aspetterebbe,
però questa persistenza trova una rispondenza nel pubblico, soprattutto giovani?
Sì, sicuramente. Anche se in Italia siamo
un po’ arretrati rispetto ad altri paesi. Pensiamo a Londra dove si trova la Tate Modern è quotidianamente invasa da migliaia
di persone, insieme ad un weekend dedicato a Boulez in cui la gente assiste a concerti alle 15,30 del pomeriggio. Quindi, a
paragone di quello che succede nelle
grandi capitali della cultura, siamo davvero
indietro. Ma questo è dovuto al fatto che
veniamo ad un vuoto di 20 anni (dall’ultimo grande concerto di John Cage del
1992, diciamo). Questo vuoto non ha facilitato la presenza di un pubblico oggi.
Però la curiosità è tanta.
Veniamo alla musica contemporanea: c’è
stato un periodo in cui si pensava che la musica fosse esaurita: dopo la dodecafonica, si
pensava fossero chiuse le possibilità di innovazione. Invece, negli ultimi anni, il dibattito
e la produzione hanno riparto nuove possibilità. Da cosa sono caratterizzate?
C’è una ricerca, che per me è la più affascinante, che è quella delle tecniche estese
nella composizione di oggi. E’ una ricerca
che comincia con Beat Furrer, ma anche
con Salvatore Sciarrimo e ha preso piede
con un gruppo di compositori italiani,
anche giovanissimi, che portano avanti
una linea veramente interessante di ricerca
di nuovi suoni. Poi vi è tutta la ricerca sulla
contaminazione fra le arti, quella visiva, la
musica, il video e, quindi, una produzione
importante di spettacoli multimediali: un
linguaggio molto cross over che oggi mescola l’elettronica con il jazz e la ricerca. Ma
il jazz stesso ha preso la direzione della musica contemporanea, come le esperienze
del free jazz. Tanto che quando ascoltiamo, ad esempio, lo studio di Ligeti del
1986 ci sembra classicissimo, eppure è
stato scritto appena 33 anni fa. Senza essere un neoclassicismo di ritorno, tanto
che al tempo era visto come una provocazione. Quindi la musica non si ferma: la ricerca artistica dei compositori va avanti.
C’è poi tanta improvvisazione nella nuova
musica: abbiamo qui la compositrice e
performer brasiliana Michelle Agnes che
realizza delle partiture estemporanee, con
la ricerca di nuove tecnologie applicate a
strumenti acustici.
La musica non si ferma, ma forse si fermano
le istituzioni musicali?
Drammaticamente le istituzioni musicali
sono troppo ossessionate dall’idea del botteghino (che poi sono l’8% degli introiti
generali). Per paradosso, se ci fosse un investimento sulle produzioni nuove, con
una visione a lungo termine, si avrebbero
sicuramente risultati migliori. Faccio un
esempio, da due anni collaboriamo con la
London Sinfonietta, che è l’istituzione per
la musica contemporanea in Inghilterra,
nata per questa musica. A Londra ci sono
9 orchestre sinfoniche e ognuna ha un
proprio campo specifico di riferimento.
Quando abbiamo contattato la London
Sinfonietta per una collaborazione, l risposta è stata entusiastica perché, ci hanno
detto, “noi abbiamo una sede ufficiale (la
Queen Elisabeth Hall, una sala da 2.500
posti) nella quale siamo costretti a fare un
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DA NON SALTARE
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tipo di programmazione, sempre nell’ambito del moderno e contemporaneo, che
però prevede grandi afflussi di pubblico;
quindi festival come il vostro ci permette
di sperimentare una ricerca sulla programmazione anche con ensemble cameristici
che non avremmo modo di fare nella nostra sede”. E’ nata una collaborazione nella
quale loro allargano ambiti di sperimentazione e noi possiamo permetterci di ospitare artisti di questo livello. Ecco, se le
istituzioni più classiche potessero intuire
una linea simile in cui, pur lasciando l’80%
della programmazione a opere di cassetta,
ma lasciando il 20% per sperimentare, per
invitare giovani, a lungo termine perderebbero quello strato di polvere che purtroppo un po’ le ricopre.
Il che fa pensare a quale sarà il destino del
nuovo teatro dell’opera di Firenze.
Un teatro che dovrebbe essere gestito da
una serie di operatori, anche internazionali, con un cartellone suddiviso fra loro e
con una programmazione costante, diversificata, con l’unico punto di in comune di
esprimere sempre il massimo della qualità.
Questa è la chiave del successo di un teatro.
Puoi farci un bilancio del Festival Firenze
Suona Contemporanea che volge al termine?
E’ importante ricordare che Kentridge è
presente con due opere. La prima, “Paper
Music” è stata l’opera con installazione e
video, presentata anche in forma scenografica e con la presenza di William Kentridge sul palco. Ma tutti i giorni, fra le 20
e le 21, è possibile vedere “Breathe Dissolve Return” che è il trittico che nel 2008
Kentridge ha realizzato per la Fenice. Vorrei anche segnalare il Mdi Ensemble, che
è una ensemble milanese di ricerca, abbastanza giovane che sta realizzando concerti
di altissimo livello e qui mette in scena una
prima italiana di Luigi Billone e lui sarà
presente al Festival. E’ un compositore italiano molto importante che, ancora una
volta, non viene rappresentato in Italia,
non vive in Italia.L’altro compositore di riferimento per tutta la musica “spettrale”, la
ricerca dello spettro sonoro con degli armonici e dei calcoli matematici su come
funziona il suono, è Gérard Grisey (purtroppo prematuramente scomparso) che
la Mdi Ensemble pure rappresenterà con
la sua maggiore opera, “Vortex Temporum”.
Infine chiudiamo con il FLAME, che è un
ensemble di giovani, con un concerto dedicato ai giovani compositori, che ha commissionato alla brasiliana Michelle Agnes,
a Lorenzo Troiani (compositore italiano
di ambito sciarriniano, che centra la sua ricerca sulle nuove tecnologie, sulle tecniche estese di composizione), a Stylianos
Dimou (compositore greco giovanissimo
che vive in America, e che ha vinto diverse
commissioni con l’IRCAM), a Luisa Valeria Carpignano e al sottoscritto (un
pezzo con un video realizzato da Veronica
Citti, un trittico per saxofono solista e ensemble, che verrà smembrato e diviso fra i
vari schermi e fungerà da colonna sonora
dei vari video). La prerogativa di questa
ensemble è di avere anche dei compositori-esecutori, rifacendosi alla vecchia tradizione di Beethoven che si organizzava i
propri concerti in cui era compositore ed
esecutore, oltre che produttore.
Musiche
in tempo
reale
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di Francesco Giomi
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uò la musica essere oggi un motore di riflessione sociale oltre
che di conoscenza ed emozione? Certamente in modo diverso da come lo è stata in alcune fasi
del Dopoguerra, quando tanto compositori come Luigi Nono quanto cantautori come De Andrè affrontavano temi
e storie scomodi, legati alla quotidianità, ma senza però avere davanti a loro
una visione globale del mondo, poliedrica e complessissima come quella attuale. Così come è cambiato
velocemente tutto il resto è cambiato
anche il fare musica, proiettato in una
logica plurale e massivamente espressiva che, grazie al digitale, raggiunge in
maniera facile e trasversale miriadi di
giovani, incorporando suoni, gesti,
espressioni e idee da ogni millimetro
del globo.
In questa ottica il ruolo di un festival
sperimentale come quello che Tempo
Reale (www.temporeale.it) organizza a
Firenze da sette anni non può altro che
essere di proposta parziale, cercando di
esprimere un’idea di ricerca che crei un
ponte tra la tradizione e le forme più radicali. Questo avviene in maniera tematica, producendo e stimolando gli
artisti, sfuggendo alle logiche inique e
oggi immotivate del mercato musicale,
seguendo anzi azioni di sostenibilità dei
processi musicali e di stimolo all’innovazione linguistica. D’altro canto
Tempo Reale ha raggiunto in questi
anni lo status di Ente di Rilevanza della
Regione Toscana per lo Spettacolo dal
Vivo e questo non può che costituire
una assunzione di responsabilità verso
un percorso di qualificazione delle proposte e di sensibilizzazione del pubblico, soprattutto all’ascolto. Come
quando si legge un libro o si guarda un
film è spesso importante tornare più
volte sulla percezione di un’opera e questo vale soprattutto per l’ascolto. Riascoltare quindi. Riascoltare in senso
“geografico”, con la curiosità e l’apertura
mentale che la musica tecnologica di
oggi ci permette; ma riascoltare anche
in senso “universale”, per aprirci ad
un’idea di accoglienza che parta proprio
dal medium acustico; che ci apra a ciò
che è musicalmente e antropologicamente diverso, a ciò che non si conosce
ma che vale davvero la pena di sentire,
apprezzare e approfondire. Lo si diceva
prima: un piccolo festival con questi
presupposti non può altro che essere
parziale, focalizzato su alcuni degli
ormai vastissimi confini della musica di
Gli appuntamenti
ricerca, capace di indagare i soundscapes più remoti, i materiali di culture diverse, le forme espressive che si
correlano con i luoghi e i suoni del
mondo. Intorno a questi elementi nascono alcuni temi ulteriori, maggiormente tipici della sperimentazione
musicale recente: il rapporto tra struttura e improvvisazione, l’importanza
del gesto musicale, la relazione tra immagini e suoni, tra forme linguistiche
differenti come il rock e l’elettronica. Il
tutto articolato in quasi dieci giorni di
concerti e workshop, tra cui un intenso
pomeriggio dedicato agli archivi sonori.
Si comincia il 26 settembre con un nuovissimo spettacolo sui temi dell’emigrazione/immigrazione, intersecando i
testi di autori di tutte le epoche in un
percorso drammaturgico costellato di
musica totalmente improvvisata da un
bellissimo gruppo di musicisti del
26 settembre
Tempo Reale Electroacoustic EnsemLimonaia di Villa Strozzi, ore 21.30 ble: la voce principale è quella di MasMASSIMO ALTOMARE + TEMPO simo Altomare, storico esponente della
REALE ELECTROACOUSTIC EN- scuola rock fiorentina mentre la dramSEMBLE / WELCOME
maturgia e i testi sono stati curati da CaUn reading musicale
terina Poggesi, già mente instancabile
27 settembre
del gruppo teatrale Fosca.
Limonaia di Villa Strozzi, ore 21.30 Con tutto questo Tempo Reale testimoPAOLO RAVAGLIA / CECCAnia ancora una volta una consolidata
RELLI + JACOB TV
presenza territoriale, sempre in bilico
Concerto per clarinetti, video ed
tra un’idea di laboratorio creativo e veelettronica
trina internazionale.
20 – 21 settembre, ore 20.00 e 21.00
BREATHE, DISSOLVE, RETURN
(2008)
installazione di tre video
video transfer 6 minuti (loop)
William KENTRIDGE video
Philip MILLER musiche
assistenti alle animazioni
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RIUNIONE DI FAMIGLIA
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LE SORELLE MARX
il romanzo della rivoluzione (5)
Riassunto delle puntate precedenti: La
Rivoluzione del Ministero dei Beni
Culturali ha lanciato Dario “Che” Franceschini nell'olimpo dei rivoluzionari di
tutti i tempi (ma Renzi gli ha impedito
di proclamarlo). Mentre per i Gran Sacerdoti della conservazione è il tramonto di un'epoca. Nuovi obiettivi
rivoluzionari sono alle viste.
Dario “Che” Franceschini si trova nel suo
studio del Ministero, circondato da pile di
carte, libri, mappamondi e dal suo staff,
indaffarato a compulsare testi, cartine geografiche, siti internet di agenzie di viaggio.
“Ragazzi, ora che abbiamo rivoluzionato
(ops, riformato-ma-poco, scusa Matteo) i
beni culturali, passiamo a sistemare il turismo. Giuseppe, cosa sono queste sciocchezze che mi hai portato?
Pacchetti-vacanza con soggiorno in tenda
dentro Pompei? Campagna di comunicazione sui piccoli borghi di montagna? Ma
che sei scemo? Qui bisogna rivoltare il turismo come un calzino: perdiamo turisti
come un colabrodo sfondato! Ci vuole un
mago del turismo rivoluzionario! Qualcuno con idee nuove, fresche, innovative!...
Eureka, ci sono! Ci vuole Ceci. No, Giuseppe, non fagioli; Ceci, Stefano Ceci!”
Lo staff è smarrito. Giuseppe D'Andrea, il
fido Capo di Gabinetto, si guarda intorno,
cercando negli astanti un sostegno, un suggerimento, un volto amico. Ma ormai il
“Che” è un fiume in piena e ha rotto definitivamente gli argini:
“Ma sì, dai, Stefano Ceci. Un genio assoluto. Ho letto una sua intervista: illuminante! Pensate che ha addirittura
costruito una Startup Turismo partendo
Registrazione del tribunale di Firenze
n. 5894 del 2/10/2012
direttore
simone siliani
redazione
sara chiarello
aldo frangioni
rosaclelia ganzerli
michele morrocchi
progetto grafico
emiliano bacci
editore
nem nuovi eventi Musicali
viale dei Mille 131, 50131 Firenze
contatti
www.culturacommestibile.com
[email protected]
[email protected]
www.facebook.com/
cultura.commestibile
“
“
Con la cultura
non si mangia
Giulio Tremonti
da Facebook! Grandissimo! Innovativo!
Una associazione fra 45 startup del turismo
e ha avuto la genialata di chiamarla nientepopodimenoche Startup! Ma po, è un
grande, dichiara di voler dialogare con le
istituzioni: fantastico! Chiamatelo subito: lo
voglio qui entro domani.”
D'Andrea timidamente: “Veramente, Dario,
è qui fuori della porta”
“Visto, che vi dicevo: un genio! Ha anticipato addirittura il mio desiderio! Fallo entrare e voi andate tutti a prendervi un
caffè… Caro Ceci, che piacere incontrarla:
come sta? Bene? Ok, mettiamoci subito al
lavoro: qui bisogna rivoluzionare il turismo,
mica bruscolini! Si faccia venire un'idea!
Il Ceci non si fa prendere alla sprovvista:
“Ce l'ho, signor Ministro! Fantasmagorica!
Facciamo il Laboratorio per la digitalizzazione del turismo. Eh, che ne pensa? Figo,
vero?
Il “Che” è esaltato dalla proposta: “Affare
fatto! Lo prendiamo! Ecco qua, lo scrivo sull'iPad e domani è già pronto. Poi, altre
idee?”
Il Ceci, subito: “Facciamo un bel tax credit:
alle piccole e medie imprese del turismo [cioè
le mie, pensa il Ceci] si fa un bello sconto fiscale per gli investimenti sulla digitalizzazione: forte, no?”
Franceschini a questo punto scatta sulla
sedia e si mette a saltellare tutto intorno
nello studio in un evidente e irrefrenabile
moto di gioia: “Sì, sì, sì!!! Questa volta il
Renzi mi fa capo della Rivoluzione permanente!! Avanti con la tax revolution!!! Benissimo, Ceci. Siccome lei è così bravo e
sveglio, la prendo a lavorare qui da me e
caccio tutti quegli altri mangia pane a ufo!”
Il Ceci è evidentemente lusingato ma anche
imbarazzato: “Ma signor Ministro, sarebbe
un onore grandissimo, ma purtroppo non
posso: ho famiglia a Reggio Emilia, molti
impegni con le Startup, non sarei all'altezza
del suo impeto rivoluzionario. Però, guardi,
potrei farle da consulente saltuario. Naturalmente, pro bono, come si dice ora: senza
prendere un soldo”
Franceschini è un po' deluso, ma siccome è
nota la sua taccagneria, accetta. Il Ceci lascia il Collegio Romano, mentre fuori della
porta, il Capo di Gabinetto confabula con
una vecchio usciere del MibacT(urismo).
“Scusi Giovanni, ma chi è questo Ceci? Lo
conosce lei?”
L'altro: “Chi, il Bomba! Certo! E' una vecchia conoscenza del Ministero: si è ripassato
tutti i ministri degli ultimi venti anni: ha
fatto il consulente a tutti, ma l'apoteosi l'ha
raggiunta con Rutelli prima e poi con la
Brambilla. Ah, lì ha fatto scatafasci; trovate
di genio, come quella del reggicalze della
Rossa stile Sharon Stone che ha inventato
lui! Sa, lui era convinto che come il maschio
romagnolo era di grande interesse per il turismo d'Oltralpe, la rossa di Lecco avrebbe
Finzionario
di Paolo della Bella e Aldo Frangioni
Simpatica novella sulla nascita dell'Universo e della vita sulla Terra. Nella disputa, tutta
americana, fra evoluzionisti e creazionisti si inserisce questa dolce fiaba, come una terza
via, che possiamo così riassumere: “All'origine di quello che ore vedete, cari ragazzi, il sole,
le stelle, il mare, le nuvole, i sassi, le mosche, i pipistrelli, gli elefanti, i vostri balocchi, il gelato
e il gelataio, l'edicola dove comprate le figurine dei calciatori, lo smartphone insomma tutto
ciò che ci sta intorno, e si può osservare ad occhio nudo oppure con potenti telescopi o prodigiosi microscopi, era tutto dentro un cavolo dove, contemporaneamente, conviveva il
mondo presente con quello dei tempi passati e dei tempi futuri”. Gli “scienziati cavolisti”
dicono che spazio e tempo non si distinguevano e gli uomini di Neanderthal dipingevano
le loro mani sulle pareti nella “Grotta di El Castillo” nello stesso momento, quando accanto
a loro, i ragazzi giocavano con la play station: si può immaginare la confusione, una confusione che generò una energia potentissima che fece esplodere il cavolo in modo da dividere
il passato dal presente e dal futuro e collocando, quella che noi chiamiamo storia dell'Universo, della Terra e dell'Uomo, dentro dei nuovi infiniti cavoli senza nessuna comunicazione
fra di loro. Quindi, non solo i bambini, come diceva la vecchia leggenda, nascono fra i cavoli
ma anche tutto il resto che noi oggi conosciamo insieme a ciò che abbiamo dimenticato e
a quello che non potremo conoscere perché avverrà nei prossimi millenni.
attirato i ricchi turisti brasiliani e russi. Ma
poi, guardi, lui è un fantasioso, direi un fantasista; ma è anche uomo concreto. Pensi
che con la sua società Netbooking ha già
vinto una gara d'appalto per l'Expo bandita
appena tre mesi fa: è così veloce che appena
una settimana dopo la costituzione dell'azienda, aveva già trovato il progetto giusto per la richiesta del bando. E' proprio
forte. Oh, è stato democristiano, ma mica
moscio come quei vecchi pachidermi: lui nel
1991 ha avuto la trovata di portare un
carro armato nel paesino di Cavriago per
convincere il sindaco a togliere il busto di
Lenin dalla piazza. Un rottamatore vero!”
Il fido D'Andrea corre ad informare il Ministro delle strepitose doti del Ceci. Franceschini esulta: “Lo nomino subito Generale
di Corpo d'Armata – reparto carristi delle
truppe della rivoluzione!”
I CUGINI ENGELS
La cena
di Caterina
low cost
Nell’attesa di compiere il mandato che la
storia le ha affidato, quello di chiudere
un’epoca, la sovrintendente Acidi si cimenta con la sfida del fundraising per ricostruire il banchetto di Caterina de Medici
in quel di Palazzo Pitti. Sfida ambiziosa,
dai grandi costi, che, temiamo, lo spirito del
tempo e i braccini corti dei magnati nostrani rendono molto difficile. A meno che
questo sia ampiamente previsto e voluto
dall’Acidini, per mostrare che i musei non
son cosa da manager, noi ci proponiamo di organizzare l’evento low
cost. Intanto per abbattere i costi
la location andrà cambiata con
una più piccola e dotata di cucina. La SMS di Rifredi si è
resa disponibile e ci pare adattissima alla
bisogna. Il menù, anch’esso low cost, seguirà la più classica tradizione delle cene
fiorentine nelle case del popolo, immutato
più o meno dai tempi di Caterina stessa.
Dunque: antipasto con tre crostini di numero (uno ai fegatini, uno al pomodoro,
uno ai peperoni) ed una fetta di salame.
Primi piatti penne al pomodoro o al sugo,
per secondo arista o roastbeef tagliato parecchio fine, con patate. Caffè, acqua e vino.
Per i vegetariani una cesta d’insalata la si
trova. Di sicuro effetto anche l’allestimento
della sala dove Silvano, maestro cerimoniere del circolo, ha detto che un pavone
imbalsamato o comunque qualche gallinaccio da mettere a centro tavola lo trova.
Un po’ più complessi i drappeggi dove i
compagni di Rifredi, equivocando tra Caterina dei Medici e Caterina di Russia, proponevano un allestimento di vecchie
bandiere rosse risalenti alla rivoluzione
d’ottobre. Particolari a parte la cena è praticamente pronta, di sicura tradizione e a
costi contenutissimi. Poi se la sovrintendente tratta un minino siamo che certi che,
nella stessa cifra, i compagni un aperitivo
con la spuma al ginger glielo mettono di sicuro.
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PICCOLE ARCHITETTURE PER UNA GRANDE CITTÀ
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di John Stammer
L
a signora parlò con calma ma decisa. Voleva sapere se la costruzione del nuovo centro sanitario
nelle vicinanze avrebbe potuto
compromettere la sua attività di florovivaista. E voleva sopratutto essere rassicurata che il suo lavoro potesse
continuare. L’assessore la rassicurò e
lei se ne andò tranquilla, ma con una
punta di scetticismo. Oggi chi passa da
via di Scandicci può ancora vedere il
cancello di ingresso all’attività di florovivaista e, sullo sfondo, il grande
complesso del Don Gnocchi. Nelle
immediate vicinanze del piccolo vivaio è stato infatti costruito a partire
dal 2007 (il 6 ottobre 2007 è stata
posta la prima pietra), il nuovo centro
fiorentino della Fondazione Don
Gnocchi. Due facce di una città spesso
raccontata solo con i suoi “monumenti” e che invece contiene molto
altro. La convivenza fra il mondo della
floricultura e quello della cura della
persona e della riabilitazione, è davanti agli occhi di tutti.
La Fondazione Don Gnocchi era insediata a Firenze dal 1951 quando aprì
il suo centro in una grande villa sulle
colline di Pozzolatico. Una villa che ha
svolto la sua funzione fino al 24 ottobre 2011 quando il nuovo centro è
stato inaugurato.
Il centro è contiguo all’ospedale di San
Giovanni di Dio in località Torre Galli,
anch’esso oggetto recentemente di un
ampliamento e di un intervento di ristrutturazione funzionale. L’area costituisce uno dei poli socio-sanitari della
città che fornisce servizi alla popolazione della zona sud ovest dell’area fiorentina e, per quanto riguarda il centro
di riabilitazione del Don Gnocchi, a
gran parte della Toscana centrale.
Il Centro, il cui vero nome è IRCCS
(Istituto di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico) è stato realizzato su
progetto di Salvatore Romano, con
Andrea Santini e Francesco Martella,
ed è adagiato sulle primissime propaggini del lato ovest della collina di
Marignolle. L’Istituto si presenta alla
vista come un edificio complesso. E
infatti complesso lo è anche nella organizzazione e nel numero dei servizi
prestati.
Le dimensioni sono quelle di un
grande centro di servizi con oltre
24.000 mq di superficie, 1.800 mq di
palestre, 17 ambulatori per la riabilitazione, un polo formativo con 9 aule,
oltre a 175 posti letto, di cui 25 unità
di riabilitazione intensiva ad alta specializzazione.
La parte che guarda la via di Scandicci,
e il vivaio, contiene i servizi generali e
le palestre, mentre la parte posteriore,
verso la collina, contiene le stanze di
degenza (anche in day hospital), organizzate in tre stecche perpendicolari
alla collina stessa, e in una condizione
di maggiore “riservatezza” rispetto ai
parcheggi e agli accessi del pubblico.
Il centro Don Gnocchi è un edificio
che va osservato nei particolari.
L’elemento di maggior spicco, per chi
la cittadella
della salute
arriva, è il grande vano che contiene i
servizi, con una parete articolata che
nasconde uno dei vani scale, ed una
copertura a vela di stampo “decostruttivista”. Ma insieme a questo si fanno
notare sia il grande ingresso coperto
da una struttura frangisole a doppia altezza, sia la grande parete vetrata che
ospita la sala del bar e degli spazi di ri-
storo.
Le parti destinate alla degenza sono rivestite con una parete ventilata di
cotto in liste e listelli che fornisce una
visione “familiare” ai cittadini di
quest’area posta ai confini con la zona
del cotto fiorentino.
Infine nella parte più lontana dagli accessi sono collocate le grandi aule
delle palestre che sono come “racchiuse” all’interno di una cornice muraria rivestita in pietra chiara che
mette in risalto le grandi pareti vetrate.
Un edificio che non si offre immediatamente come un insieme ma che
deve essere percorso dallo sguardo in
ogni particolare per coglierne gli elementi qualificanti, e che costituisce
uno dei poli della “qualità” del sistema
sanitario toscano nel settore della riabilitazione.
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ISTANTANEE AD ARTE
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di Laura Monaldi
[email protected]
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al Dadaismo alla Mail Art – passando per la Performance Art –
Guglielmo Achille Cavellini è
stato uno dei maggiori promotori dell’Arte Contemporanea, sia come
artista che come collezionista e mecenate. La sua intensa attività lo ha condotto, negli anni Settanta, ad
“autostoricizzarsi”, creando una rete di
comunicazione internazionale attorno
al Sistema dell’Arte ed esaltando la figura dell’artista attraverso l’autopromozione.
Le sue opere sono state un atto di comunicazione compiuta, originale e intenzionale: operazioni concettuali dal
sapore provocatorio e ironico, capaci di
evocare le immagini-simbolo della contemporaneità in modo nuovo e inedito.
Quello di GAC è un “nuovo realismo”
in cui dissacrare l’arte e la poetica riduttiva della modernità, grazie a un gioco
continuo di rimandi semantici che ha
coinvolto a livello mondiale artisti e tendenze in una divulgazione compartecipativa delle infinite possibilità
dell’espressione umana in campo artistico ed estetico. Gli Scritti, le Mostre a
domicilio, i Francobolli, gli atti performativi, le operazioni autodirette e i Manifesti di GAC incarnano pienamente
l’ambizione a opporsi a un sistema
chiuso, incapace di fornire opportunità
a un artista e a un intellettuale, consapevole che le proprie potenzialità espressive venivano negate in nome di una
modernità ormai in declino. La sperimentazione e l’innovazione non si rifletteva sull’immagine, ma si poneva dentro
e oltre l’immagine-simbolo del tempo,
alla scoperta primigenia di una rivoluzione comunicativa umana e di una
nuova condizione dell’artista, in quanto rivalutazione
dell’identità
estetica, che doveva
imporsi con forza
agli occhi dei contemporanei.
Il
gesto estetico si
caricava di ogni
possibile e immaginabile significato, divenendo
elemento universale di comunicazione
e
decodificazione:
l’idea di Arte veniva
esibita in tutto il suo
potenziale, nel contempo, contenuto semantico. Ne derivano audaci
composizioni che verbalizzavano e teatralizzavano i miti di un mondo in decadenza che andava rinnovato alla luce di
una rivoluzione comunicativa fuori
dagli schemi, operando nell’intimo del
quotidiano. Primo fra tutti Guglielmo
Achille Cavellini ha colto l’idea del presente in quanto presente, della necessità
di un rovesciamento dei medium
espressivi, unendo l’arte alla vita.
Promossa e condotta da Progettoutopia
nello Spazio Contemporanea di Brescia
n 91 PAG.
sabato 20 settembre 2014
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Guglielmo Achille Cavellini
il mecenate
In alto a sinistra Tutti frutti, 1968, Carbone e carta adesiva su
tavola cm 98x66, a destra Serie dei Cimeli, 1980 Assemblaggio
in teca di legno cm. 101x71x10,5
Sotto Personaggi della Storia. Cavellini 1914-2014, 1981
Serie Storicizzazioni. Collage su tavola cm. 146x102
A sinistra Corona, 1984, Collage di adesivi su cartone, elemento
per la performance alla
Galleria Nucleo di Bologna
Diametro cm. 20 h. cm. 10
Tutte Courtesy
Collezione Carlo Palli,
Prato
(11-12-13 settembre), si è svolta la Celebrazione Ufficiale del Centenario di
Guglielmo Achille Cavellini. Introdotta
dell'Ambasciatore cavelliniano Fausto
Paci e dello storico protagonista della
mail art Vittore Baroni la celebrazione è
stata un momento di ricordo e di partecipazione, con performances e happenings collettivi, che non ha fatto altro
che sottolineare l’attualità di un artista
ancora inedito e insuperato.
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OCCHIO X OCCHIO
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di danilo Cecchi
[email protected]
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ra i molti nomi che affollano la scena
della fotografia francese fra gli anni
Trenta e gli anni Sessanta, accanto a
Doisneau, Izis, Brassai, Cartier-Bresson, Willy Ronis ed Edouard Boubat, troviamo i nomi di molti altri autori, forse
meno noti, anche se non meno dotati dei
colleghi più famosi. Fra questi fotografi,
interpreti autentici della vita quotidiana
così come della vita culturale ed artistica
parigina, troviamo ad esempio Emile Savitry (1903-1967), nome d’arte di Emile
Dupont, che spende la sua vita fra pittura,
fotografia, musica e poesia, senza nessuna
voglia di affermarsi veramente in nessuno
di questi o di altri campi, troppo impegnato a vivere la propria esistenza e le proprie esperienze per dedicarsi interamente
a nessuna delle arti che pratica. Amico del
pittore André Derain e di alcuni surrealisti
come il poeta Robert Desnos ed il pittore
Georges Malkine, Savitry espone alcuni
suoi quadri nel 1929 con la prefazione di
Louis Aragon, ma davanti al successo di
vendite fugge verso le isole del Pacifico,
dove incontra il regista Murnau mentre
sta girando il suo ultimo film “Tabù” e
dove decide di diventare fotografo. Al suo
ritorno nel 1930 incontra a Toulon il musicista jazz Django Reinhart e lo porta con
sé a Parigi, va ad abitare in rue Boulard, vicino al cimitero di Montparnasse, e comincia a passare da un locale notturno
all’altro, da quelli più infimi di Pigalle fino
alla prestigiosa Cupole, dove conosce personaggi come Anais Nin, Pablo Neruda,
Alberto Giacometti ed altri dello stesso livello, legandosi in una profonda amicizia
con Jacques Prèvert. Lavora professionalmente per l’agenzia fotografica Rapho
dove conosce Brassai, Ylla ed Ergy Landau, e dove nel dopoguerra confluiscono
anche Robert Doisneau, Izis e Willy
Ronis, lavora per qualche tempo nell’ambiente del cinema con Marcel Carné ed
altri registi, dove fotografa gli allora giovanissimi Serge Reggiani ed Anouk Aimée,
pubblica le sue foto su molte riviste illustrate come Point de vue, Picture Post e
Réalités e collabora con riviste di moda
come Vogue ed Harper’s Bazaar. Alla
stessa epoca incontra e fotografa personaggi come Charles Chaplin, Colette,
Edith Piaf e la allora diciottenne Brigitte
Bardot, ma la lista delle sue amicizie e dei
personaggi da lui fotografati sarebbe
troppo lunga. Negli anni Sessanta torna di
nuovo alla pittura, forse considerando
esaurita la sua lunga parentesi fotografica.
Nel corso di una intensa attività Savitry fotografa molto e si occupa di temi molto diversi, ma le sue immagini migliori, accanto
ai ritratti di artisti, intellettuali, poeti ed attori, ed accanto ai suoi delicati studi di
nudo femminile, sono quelle legate alla
vita vera, come quelle scattate all’arrivo in
Francia degli esuli spagnoli dopo la caduta
di Barcellona, o quelle scattate nelle
strade, nei locali ed ai personaggi della sua
Parigi. Grande interprete della vita parigina, da quella popolare a quella delle
classi colte, partecipe della grande vivacità
intellettuale e culturale dell’epoca, vicino
ai personaggi noti o sconosciuti che fotografa, esponente di primo piano di quella
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che sarà indicata come la “photographie
humaniste”, Savitry, al contrario degli altri
fotografi della sua stessa generazione e
del suo stesso milieu culturale, non gode
in vita di quella fama che in realtà non ha
mai cercato, non avendo mai pubblicato
dei fotolibri e non avendo mai esposto le
sue opere in mostre personali. Per lui il riconoscimento arriva molto più tardi, con
delle grandi retrospettive organizzate a
quarantacinque anni dalla sua scomparsa,
a cura di Sophie Malexis.
emile
Savitry
un
fotografo
di Montparnasse
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HO SCELTO LA TOSCANA
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di Annalena Aranguren
[email protected]
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a scelto la Toscana, ma non le risparmia, giustamente, le critiche. Quando è venuta in Italia
da Tokyo, per la prima volta, Yukako Yoshida aveva 8 anni: suo padre,
appassionato di civiltà antiche la guidava per Roma raccontando a lei e a sua
sorella la storia dell’impero romano.
Non ricorda molto altro di quel viaggio:
lei e sua sorella in albergo mentre la
mamma faceva shopping e poi la classica truffa a Napoli: un uomo in divisa
che le spinge a prendere un taxi sostenendo che quel giorno non c’erano treni
per Roma perché era sciopero.
La vera bellezza dell’Italia, da nord a
sud, fino in Sicilia, l’ha scoperta dopo, a
21 anni, quando, in viaggio con
un’amica, è rimasta così colpita dall’architettura italiana da decidere di studiare Storia dell’Urbanistica Italiana
all’Università.
Da quel momento in poi, l’Italia è stata
sempre presente nella vita di Yukako,
che, nel frattempo, si è laureata in Ingegneria (ramo architettura) e ha iniziato
una brillante carriera accademica. A
Pisa, dove si reca nel 1999 con una
borsa di studio, trova alloggio presso
una signora, maestra di scuola materna,
che le insegna l’italiano e con cui stabilisce un legame profondo di amicizia;
continua poi a soggiornare a Pisa in periodi alterni finché non sviluppa la determinazione di voler contribuire al
miglioramento della società italiana,
“come ringraziamento per la borsa di
studio e l’affetto degli amici italiani incontrati”.
Mi viene da osservare che questo è un
Domenico di Giovanni, detto il Burchiello, fu animatore di burle e di pungenti critiche con gli amici artisti del
XVI secolo e artista anch’egli. Restò
profondamente apprezzato nell’amicizia
La prima obiezione è subito immaginabile: “la cifra raccolta a livello nazionale per la Sla (Associazione Sclerosi
Laterale Amiotrofica) è in Italia di
216.000 euro (a Firenze inferiore a
mille euro) !”. E’ mai possibile che sindaci, assessori e primi ministri, abbiano avallato questo gesto
dell’autogavettone ghiacciato per raccogliere un po’ di euri ? Ma il danno
d’immagine, in stupidità assoluta, è
stato calcolato?
Una volta il “gavettone” era definito
gesto da caserma e messo all’indice;
ora sopravvive e diventa simbolo di
“appartenenza”, di condivisione per
una buona causa. Avremmo dato il
doppio, in silenzio, pur di evitare questa pagliacciata che ha connotato
l’estate toscana, ma il processo di
omologazione è stato inarrestabile e il
servilismo opportunistico ha ancora
una volta trionfato. Fino a quando?
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“un po’
di Giappone
un po’
d’italia
Che bello
sarebbe”
atteggiamento decisamente molto giapponese e poco italiano (purtroppo) e lei
ribadisce: “Vivo con la convinzione di
dovere essere utile alla società. Me l’ha
trasmessa mio nonno, fondatore di una
fabbrica a Yokohama. Così, dopo molte
riflessioni, ho scelto di venire in Italia
fondando una nuova società commerciale a Pisa.
Qual è la tua professione adesso?
La società che ho fondato si chiama
Desk Point e si occupa di vendita di prodotti informatici. Ma mantengo anche
gli interessi che avevo in precedenza: nel
2009 ho fondato, sempre a Pisa, l’Associazione Culturale Italo Giapponese
MIRAI (“futuro” in giapponese), di cui
sono Presidente, organizzo convegni e
sono promotrice del progetto Healing
Art all’Ospedale di Pisa.
Che cos’è esattamente?
E’ un progetto in collaborazione con
una università privata femminile di
Belle Arti a Tokyo (Joshibi University),
PASQUINATE
di Burchiello 2000
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basato su uno studio scientifico pratico
sull’effetto rilassante dell’ambiente, partendo dalla struttura architettonica, l’arredamento degli interni, l’uso dei colori.
E’ un progetto di “umanizzazione” dell’ospedale, volto a rendere migliore,
meno traumatico, il ricovero ospedaliero.
Hai un’attività davvero composita. E’ facile lavorare in Italia e in Toscana particolarmente?
Proprio no! La mentalità è chiusa, ci
sono continui inceppi burocratici, per
non parlare, in questa mia ultima esperienza, della scarsa consulenza ricevuta
dall’ente pubblico, che ci ha bloccato il
lavoro per alcuni mesi, naturalmente
con un danno economico. Un caso del
genere in Giappone sarebbe stato considerato gravissimo. Qui invece…
Molti italiani si limitano a dire “Questa
è l’Italia”, pensando di sdrammatizzare
e come a dire che la colpa è sempre
degli altri. Ma “gli altri” non esistono:
l’Italia è fatta dal suo popolo. La rassegnazione, l’attesa che le cose cambino
senza agire sono difetti italiani a cui non
mi abituo.
E allora perché scegliere Pisa per vivere?
La Toscana, l’Italia tutta, è meravigliosa.
Qui la gente è creativa e riesce a trovare
il tempo per i propri interessi di vita. In
Giappone si lavora troppo, non vi è
dubbio. Però i Giapponesi lo fanno perché credono nel loro contributo verso
la società. Si potessero mescolare i due
caratteri avremmo una società fantastica. E’ con questa speranza che porto
avanti i miei progetti di scambio!
Ti dico Toscana e pensi?
Al suo paesaggio collinare, al clima
dolce. E a giorni di vacanza trascorsi
“all’italiana”…
E se dico Giappone?
La risposta di Yukako arriva immediatamente: Penso a un grande lavoratore.
L’APPUNTAMENTO
La secchiata
moltiplicatrice
e certificatrice
della stupidità
in cui
è precipitata
la politica
italiana
di emiliano Bacci
[email protected]
“Stamattina ho messo le tue scarpe”
per partire in un percorso nei luoghi
della malattia mentale, toccando e
guardando in prima persona la realtà
dei “matti”. Sabato 20 e in replica
domenica 21 settembre Pesaro accoglie la seconda edizione di questo
viaggio, ideato e diretto da Elena
Mattioli e Flavio Perazzini del collettivo LeleMarcojanni e prodotto da
Cooperativa sociale Alpha: un invito
a scoprire una realtà che, se non
coinvolge direttamente familiari o
professionisti del settore, è sommersa dalla routine quotidiana.
Molti aspetti del nostro vivere insieme sono sconosciuti e a volte, per
questa ragione, temuti o stigmatizzati; avere la possibilità di avvicinarsi al mondo della malattia
mentale attraverso una narrazione
mediata è un modo per conoscere,
approfondire, capire. Una mezza
giornata scandita da tre movimenti:
l’assenza (un’immersione in solitudine nell’ex Struttura Residenziale e
Riabilitativa di Bevano, la scoperta
(un documentario proiettato sui
muri di Pesaro che racconta le storie
degli ex pazienti) e il ritorno (un
Stamattina
ho messo
le tue
scarpe
momento di confronto collettivo).
Alcune storie raccolte nella Struttura Residenziale e Riabilitativa di
Bevano sono state riscritte da LeleMarcojanni e trasposte in immagini
dall'illustratore lombardo Giordano
Poloni. Le illustrazioni rappresentano elementi di un percorso narrativo che accompagna fino alle
giornate del 20 e 21 settembre e
sono pubblicate online sul sito homessoletuescarpe.it a cadenza settimanale.
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VISIONARIA
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cevano sì che questo piccolo mondo
infetto fosse autosufficiente. I malati,
isolati da questi due alti muri di recinzione, stavano in 4 grandi stanzoni dal
soffitto di circa 8 metri al terzo piano
della costruzione più interna della
fortezza-ospedale. Gli stanzoni non
erano collegati tra loro ed a ognuno si
accedeva da una scala esterna. Le finestre erano poste molto in alto per
evitare che gli infetti si potessero affacciare, le latrine, pochissime per il
numero delle persone, erano sempre
maleodoranti per la scarsità d'acqua a
disposizione, le fogne erano a cielo
aperto.
Saint Louis che tra un'epidemia e l'altra serviva ad altre funzioni, quali accogliere mendicanti o mettere i suoi
grandi ambienti a disposizione dello
stoccaggio di grano, ma, finita la minaccia della peste, rischiò di essere
abbattuto in seguito alla nascita di
altri ospedali ma poi la Rivoluzione
prima e il dilagare delle malattie veneree dopo scrissero nuovi capitoli
nella sua storia. Oggi l'ospedale Saint
Louis, con l'antica struttura bella e incontaminata (da visitare perché
ormai il pubblico può
entrare) affiancata da
una moderna con più
di 1500 posti letto, è
un centro d'importanza mondiale nel
campo della dermatologia. Annesso
c'è il museo des Moulages, anch'esso
dichiarato monumento storico, con la
più grande collezione al mondo di
cere anatomiche (4700 pezzi) e nelle
vetrine, in ordine alfabetico, documentazione ed esempi di tutte le malattie della pelle. La visita, da
consigliare solo se si è altamente motivati, è su appuntamento.
di Simonetta Zanuccoli
[email protected]
p
un Lazzaretto
all’avanguardia
L’APPUNTAMENTO
nel chiostro
delle geometrie
SCAVEZZACOLLO
Circoli
roprio dietro a quel tratto del
canale Saint Martin che con le
sue chiuse, l'acqua che scorre
quasi all'altezza della strada
sotto i piccoli ponti in ferro e legno,
gli alberi, i bistrot e i colorati negozietti è uno dei luoghi più romantici
di Parigi, sorge il gigantesco ospedale
Saint Louis, il più antico della città,
oggi monumento storico perché ritenuto uno dei più begli esempi architettonici in stile Luigi XIII. La sua
storia vale la pena di essere raccontata.
Gli abitanti di Parigi dal 1482 al 1660
furono decimati da ben sei epidemie
di peste. Gli appestati venivano ammassati e lasciati morire nell'unico
“ospedale” a disposizione, l'HotelDieu, nelle capanne di paglia e fango
che venivano costruite per l'occasione alla periferia e nelle case requisite alle persone malate o morte, ma,
non essendo sufficientemente isolati,
il contagio si univa alle pessime condizioni igieniche della città diffondendosi sempre di più. L'ambizioso
Enrico IV, che si stava impegnando a
trasformare Parigi in una città moderna, decise di far costruire un ospedale, unico nel suo genere in Europa,
interamente dedicato alla peste in ausilio all'Hotel-Dieu nei periodi di epidemia. L'opera cominciò nel 1607
(non si sa esattamente chi fu l'architetto che lo progettò, se Claude Vellefaux o Claude Chastillon) e finì nel
1612, due anni dopo la morte di Enrico IV che però ebbe il tempo di dedicare l'ospedale al suo antenato Luigi
IX che la leggenda voleva fosse morto
di peste in Tunisia nel 1270 durante
una crociata. L'idea, nuova per
il tempo, era quella, non tanto di curare, cosa ritenuta impossibile, ma di
isolare completamente gli infetti dal
resto dei cittadini. Il luogo prescelto
per la costruzione era fuori le antiche
fortificazioni, ai piedi della collina di
Belleville, in una zona adibita a discarica dell'immondizia per gli abitanti
della zona nord di Parigi. L'antico
ospedale Saint Louis ha la struttura di
una fortezza con un alto muro di cinta
che racchiude uno spazio aperto quadrato dai lati di 120 metri circondato
da belle costruzioni di mattoni e pietra che erano adibite ad uffici e case
per il personale. Questo impianto architettonico ricorda quello di Place
des Vosges e le facciate quella della biblioteca Nazionale in Rue Vivienne,
entrambi costruiti nello stesso periodo. Al primo seguiva un altro
muro che racchiudeva la zona dove
erano tenuti chiusi i malati. Il muro
esterno, come una vera fortificazione
aveva un largo cammino di ronda per
le guardie armate. Essendo l'accesso
proibito al pubblico esse dovevano
impedire qualsiasi incursione o contatto tra interno ed esterno. Dentro
Saint Louis c'erano il frutteto, l'orto,
le stalle, i magazzini ma anche la farmacia, la cappella e il cimitero che fa-
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Se il circolo è vizioso, il rombo
com’è?
di Massimo Cavezzali
[email protected]
Nel chiostro delle geometrie è un
composito progetto/laboratorio di
teatro-architettura realizzato da Teatro Studio Krypton e Dipartimento
di Architettura dell'università di Firenze (DIDA), diretto dal Prof. Saverio Mecca, un evento sostenuto da
Estate Fiorentina del Comune di Firenze e sponsorizzato da Firenze Parcheggi, che ha come fulcro il
Chiostro di Santa Verdiana, nel cuore
della città e nel quartiere di Sant'Ambrogio. Si intitola Demolizione la performance inaugurale di Teatro Studio
Krypton che sabato 20 settembre alle
ore 21,30 avrà luogo in piazza Annigoni. Durante la performance operai
e macchine edili apriranno un varco
nel muro che separa la piazza dal
complesso di Santa Verdiana, mentre
Cauteruccio e gli studenti del laboratorio “presidieranno” il luogo dell'azione urbana.
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LUCE CATTURATA
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di Sandro Bini
www.deaphoto.it
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Firenze 2008-2013 itinerari notturni
Sandro Bini - Florence Night Movida (2011)
Florence night Movida
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MUSICA MAESTRO
di Alessandro Michelucci
[email protected]
Cenedl heb iaith, cenedl heb galon
(un popolo senza lingua è un popolo senz’anima) recita un proverbio gallese. Questa lingua, la più
parlata fra quelle celtiche, viene
utilizzata da 1/5 della popolazione
regionale (600.000 persone).
Come è accaduto a tante altre lingue minoritarie, il gallese ha trovato nella musica uno strumento
fondamentale per sopravvivere.
Uno degli esempi più recenti è
Tincian (Real World, 2014), il secondo CD dei 9bach, un gruppo
gallese che sembra destinato a raggiungere la celebrità in tempi
brevi. Non a caso Froots, una delle
più autorevoli riviste di world
music, gli ha dedicato la copertina
di maggio.
9bach, che deriva da un gioco di
parole, significa “piccola nonna” in
gallese. Il gruppo è stato fondato
nel 2005 da Lisa Jên (voce, piano e
harmonium) e Martin Hoyland
(chitarre e percussioni). Nel 2009
ha debuttato con il CD omonimo
(Gwymon, 2009).
In Tincian il duo è affiancato da Ali
Byworth (batteria), Esyllt Glin
Jones (arpa gallese, voce), Mirain
Haf Roberts (voce) e Dan Swain
(basso).
Composte da Lisa Jên, le dieci
canzoni sono tutte cantate in gal-
Folk gallese del xxi secolo
lese, eccetto una in greco, la conclusiva “Asteri Mou”.
Non si tratta di folk in senso
stretto: il disco contiene un solo
brano tradizionale, “Pa Le”. Si
tratta invece di una musica che attinge alla tradizione gallese per
proiettarla nel ventunesimo secolo.
Lo denota fra l’altro la ritmica di
“Lliwiau”. Ad ogni modo, volti e
luoghi legati alla storia gallese
emergono in molti brani: “Ffarwel” e “LLwybrau”, per esempio,
sono tratte da poesie locali. In “Pebyll” spicca lo struggente intreccio
di voci che chiude il brano. “Plentyn” è dedicata alla tragedia dei cosiddetti stolen children (bambini
rubati), i piccoli aborigeni australiani che furono strappati alle proprie famiglie nel secolo scorso. È
l’omaggio inconsueto e sincero che
una minoranza offre a un’altra, trascendendo le evidenti differenze
storiche, culturali e geografiche.
Il legame con l’Australia - dove il
CD è stato registrato - non è casuale. Negli anni scorsi, infatti,
Lisa e Martin hanno collaborato
con il collettivo aborigeno Black
Arm Band nel progetto Mamiaith
(Madrelingua).
Oltre 17000 km separano da Cardiff da Canberra, ma la comune
battaglia per la difesa dell’identità
culturale ha annullato questa distanza.
Il gruppo sottolinea ulteriormente
il proprio impegno culturale con
un sito bilingue (www.9bach.com)
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PECUNIA&CULTURA
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S.orsola
di Simone Siliani
[email protected]
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n pezzo di città negata, negletta, segregata direi. Sant’Orsola è un enorme
quadrilatero infilato nel centro storico di Firenze, inaccessibile e
in rovina da decenni. Lo ricordo così
fin da quando ero adolescente e con
l’organizzazione dei giovani comunisti italiani (che aveva la propria sede
lì di fronte, in via Guelfa) organizzammo una occupazione simbolica
per denunciare lo stato di abbandono e la previsione di un utilizzo a
nostro avviso poco sociale da parte
della Guardia di Finanza e comunque stravolgente della sua valenza
storico-architettonica. Le cose poi
sono andate anche peggio di come
noi temevamo; abbandono totale,
degrado, decadenza. Molti sono stati
i tentativi di recupero della struttura
operati dalla Provincia di Firenze
che, attraverso varie vicissitudini burocratiche, ne è venuta in possesso,
ma senza esiti perché, evidentemente, l’investimento di soggetti privati richiesto per recuperare il
compendio si è rivelato troppo ingente rispetto alle possibilità di ammortizzamento e recupero.
(ri)vivrà
Ma la cosa davvero notevole è che intorno a questo
parallelepipedo storico sfregiato da interventi in cemento armato successivi e abbandonato all’incuria, il
quartiere, le associazioni dei cittadini, gli operatori
economici si sono mobilitati e hanno avanzato proposte, hanno stimolato (anche criticato, come deve
avvenire in democrazia) e, infine, provocato aperture
di Sant’Orsola per far comprendere di cosa stiamo
parlando. Così avverrà nella tre giorni de “La città
dentro San Lorenzo” fra il 25 e il 27 settembre prossimi. Musica, teatro, letture, installazioni artistiche,
mostre, incontri organizzati da Fondazione Studio
Marangoni e i cittadini organizzati nel Sant’Orsola
Project, per sollevare il velo di silenzio e indifferenza
che si è ormai depositato da anni sopra questa ferita
aperta nel cuore di Firenze. Noi di Cultura Commestibile ci saremo e sosteniamo questa impresa non disperata ma carica di speranza degli abitanti del
quartiere.
ICON
ICON
di Michele Morrocchi
twitter @michemorr
un viaggio dentro
picasso
Ritornano le mostre a Palazzo Strozzi
e ritornano col nome forse più universalmente noto dell’arte ormai moderna e non più contemporanea:
Picasso. Un nome, come dice il curatore della mostra Eugenio Carmona,
che “si trova dappertutto, come lo spirito santo”; dunque un sicuro successo di pubblico, un grande rischio
scientifico. Rischio che il curatore insieme al Museo Nacional Centro de
Arte Reina Sofia di Madrid, prestatore pressoché esclusivo delle opere
di questa mostra originale, rendono al
minimo attraverso un percorso che si
snoda tra le varie sale, in cui si avverte
il tentativo di trattare Picasso, dicendone la verità. Dunque un Picasso
non irreggimentato in stili, scuole e
correnti artistiche, né voluto spiegare
fino in fondo, ma mostrato, divulgato
nelle sue ossessive mutazioni, esemplificate dalle tre opere “pittore e la
modella” che aprono, inframezzano e
chiudono la mostra. Quello che
emerge con forza è “l’artista che cammina verso il nuovo – è sempre Carmona a parlare – ricordando sempre
il passato” il suo ma anche quello di
tutta l’arte che lo ha preceduto. E’ qui
che Cristina Acidini, sempre durante
la conferenza stampa, disvela il legame possibile tra questa mostra e Firenze: il Picasso rinnovatore, che non
improvvisa, ma rilegge e raffigura i
classici dell’arte e del mito. Come appare evidente in Guernica, a cui è dedicata un’intera sala di bozzetti, studi,
opere che la precedono e la seguono.
La rilettura del mostro mitologico, il
Buone
nuove
per la
Strozzina
Pablo Picasso (Malaga 1881-Mougins 1973) Figura 1928,
olio su tela, cm 73 x 60. Collezione del Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofia, Madrid
minotauro, delle figure classiche
come i cavalli, che l’artista utilizza per
descrivere una barbarie mai vista.
Una sala in cui si percepisce l’angoscia di Picasso ma anche il grande
tormento di voler trovare la chiave
universale per raffigurare quell’orrore
che accadeva accanto a lui. E poi oltre
Picasso innumerevoli artisti spagnoli,
dai ben noti Mirò e Dalì ad artisti
non noti al pubblico italiano che affiancano il percorso “picassiano”, lo
inseriscono in un contesto, ne mostrano le influenze comuni e quelle
che da Picasso derivano. Accanto alla
mostra, come sempre, molte iniziative per questo lungo percorso che
inaugura il 20 settembre e termina il
25 gennaio prossimo, tra letture,
eventi e laboratori per bambini che
coinvolgeranno oltre palazzo strozzi
tante realtà fiorentine, per programma ed informazioni www.palazzostrozzi.org
Buone notizie per l’arte contemporanea.
Nella conferenza stampa di presentazione della mostra di Picasso il direttore
di Palazzo Strozzi, James Bradburne,
ha assicurato che l’arte contemporanea
rimane un elemento imprescindibile per
la fondazione e che già nel prossimo
marzo tornerà una mostra alla strozzina. “la strozzina vivrà”, assicura il direttore e noi, seppur preoccupati per la
lunga attesa di qui a marzo, confidiamo
nelle sue parole. (m.m.)
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a cura di Aldo Frangioni
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[email protected]
avid Lynch sarà l’ospite
d’onore della decima edizione
del Lucca Film Festival, diretta
da Nicola Borrelli, evento sostenuto dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca.
Oltre a una retrospettiva completa dei
suoi film, il Festival presenterà in anteprima nazionale, nei nuovi spazi dell’Archivio di Stato, la grande mostra
David Lynch. Lost Images. L’indiscreto
fascino dello sguardo, a cura di Alessandro Romanini, sarà dedicata all’inedita attività di fotografo e litografo del
regista americano, Lost Images sono
immagini perdute, ritrovate e qui cristallizzate su carta, visioni surreali, inquietanti, oniriche, superstrade
dimenticate sulle quali lo sguardo ripercorre i sentieri perturbanti prodotti
dall’universo creativo di Lynch. Visioni
e temi ricorrenti che hanno caratterizzato i suoi film più famosi, da Eraserhead a The Elephant Man, da Velluto
Blu a Cuore Selvaggio, Lost Highway,
Mulholland Drive, per citarne solo alcuni.
La mostra raccoglie oltre 60 opere
dell’artista: le due serie fotografiche in
bianco e nero di grande e
medio formato, Small Stories
e Women and Machines, e
una suite di litografie realizzate a partire dal 2007, lavori
in gran parte esposti per la
prima volta in Italia.
David Lynch, sin dagli esordi
della sua carriera cinematografica negli anni 60’, ha accompagnato
il suo lavoro alla macchina da presa
con la pittura, la fotografia, il disegno
e la scrittura. Tra i suoi libri ricordiamo
la graphic novel “The Angriest Dog in
The World” pubblicata sul settimanale
The Los Angeles Reader nel 1973.
L’attività di Lynch si estende anche alla
musica. Come cantante e musicista ha
fatto un primo album nel 2011, “Crazy
Clown Time” e nel 2013 il secondo,
“The Big Dream”, dove compare una
cover di “The Ballad of Hollis Brown”
di Bob Dylan e tra le collaborazioni
spicca quella con la cantante svedese
Lykke Li. Ma la sua poliedrica attività
non si ferma qui, ha voluto anche sperimentare installazioni, regie per video
musicali, spot pubblicitari (dalla Playstation ad Armani passando per famose marche di caffè e profumi),
performance teatrali (come “Industrial
Symphony n°1: The Dream of Broken
Hearted”). Si è dedicato al design progettando e realizzando gli arredamenti
dei suoi vari film, in particolare di Lost
Highway, ma anche del club “Silencio”
di Parigi, passione quest’ultima dovuta
all’attività del padre che aveva un laboratorio di falegnameria. Importanti
anche le collaborazioni con il mondo
della moda, in particolare quella con lo
stilista Christian Louboutin, con il
quale ha creato nel 2007 la mostra Fetish.
La serie Women and Machines presenta invece la figura femminile nel
suo potere evocativo, valorizzata nel
Le immagini perdute
di david Lynch
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suo elemento creatore e vista nel suo
versante ammaliante. Le 16 fotografie
che costituiscono la serie sono state
scattate nell’autunno-inverno 2013
nell’atelier Idem di Parigi, dove da
oltre un secolo sono prodotte litografie dei più grandi maestri dell’arte del
XX secolo, da Picasso a Braque, da
Matisse a Chagall. Sarà presentato
anche un documentario, Idem Paris,
realizzato dallo stesso Lynch e dedicato al famoso atelier. E’ in questo
luogo divenuto leggendario che l’artista scopre nel 2007 la tecnica litografica, da allora ha realizzato di suo
pugno oltre 200 grafiche, un’ampia selezione delle quali possiamo vedere
qui a Lucca, una tecnica “intimista”
che gli ha permesso di declinare le sue
visioni in inedite dimensioni poetiche,
pur mantenendo uno stile graffiante
con tematiche spesso noir.
L’orrore e il dramma celato nel quotidiano lasciano trasparire nelle immagini litografiche, e spesso nei titoli,
barlumi di speranza nella possibilità
d’individuare frammenti poetici in
grado di riscattare la tragedia umana.
Temi sulfurei ma anche romantici,
dalle aberrazioni fisiche all’incomunicabilità della coppia, dall’inesausta
ambizione all’amore alla passione
mortifera, dalla casa come rifugio ma
anche ricettacolo di atti perversi ed
esecrabili, sino alle macchine.
Il percorso espositivo sarà integrato
dalle proiezioni di cortometraggi e
produzioni audiovisive meno note di
David Lynch, come videoclip e spot
pubblicitari.
BIZZARRIA DEGLI OGGETTI
Medaglia del palio
a cura di Cristina pucci
[email protected]
Fa visita a uno fra le decine di amici vecchietti, collezionisti, trovarobe, artigiani
dalle infinite abilità manuali, questo gli
mostra le sue monete e, per ringraziarlo
della visita, gli propone di prendere
quella che più gli piace...Rossano, mi
pare di averlo già detto, genio dell'oggetto d'epoca sceglie questa che è per lui
del tutto ignota e incomprensibile. Studia e cerca per darle un senso e poi che
fa? scrive alla "nobilecontradadelbruco".
Contrada... Palio...Siena. Ecco qua la
cortese risposta:
"Buongiorno Sig. Rossano
sono Francesco Tiravelli, Archivista
della Nobil Contrada del Bruco.
L'oggetto che lei possiede risale alle feste
che furono fatte nei vari rioni a Siena nel
1896 in occasione dell'inaugurazione
del monumento a Giuseppe Garibaldi.
In quell'occasione la Società delle Feste
Popolari (una Società di Mutuo Soccorso formata dagli appertenenti e abitatori del rione del Bruco), si adoperò per
illuminare al meglio tutto il territorio
della nostra Contrada, e, nella parte inferiore della via principale, venne posta
una statua in gesso bronzato raffigurante
Anita Garibaldi.
La medaglia commemora quell'evento.
In molte parti della toscana il nome
"Anita" veniva spesso scritto e registrato
all'anagrafe appunto come "Annita".
La statua è purtroppo andata perduta.
Il nostro archivio conserva pochi documenti di quell'evento e non eravamo a
conoscenza dell'esistenza di questa medaglia commemorativa, che rappresenta
una lieta scoperta.
Venga a trovarci a Siena quando vuole,
saremo lieti di farle visitare i nostri locali
e il nostro Museo.
Cordiali saluti".
Come tutti sanno "il Palio non è una
manifestazione riesumata ed organizzata a scopo turistico, il Palio è la vita del
popolo senese nel tempo e nei suoi diversi aspetti e sentimenti...."
Esiste da tempo immemore, citato da
Dante "Molti corrono il Palio, ma uno è
quello che 'l prende"
e da Caterina, la Santa, "Orsù figlioli
dolcissimi, correte questo palio e fate,
che solo sia uno, quello che l'abbia, cioè
che 'l cuore vostro non sia diviso"...Nel
1644 fu corso il primo simile a quello
dei nostri giorni, le 17 Contrade furone
definite nel 1729 da un Bando di Violante di Baviera, Governatrice della città,
e tuttora resistono....Arrivo a Siena un
dalla collezione di Rossano
sabato per vedere il restaurato pavimento del Duomo e incappo in una
Festa di Battesimo di nuovi contradaioli,
tantissima gente, bambini e grandi, giovani e vecchi, bandiere, tamburi, abiti
colorati, al ritorno tavole imbandite per
più di 300 persone, senesi, tutti senesi,
nemmeno un turista invitato.
C
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disegni di pam
testi di Aldo Frangioni
Nella Brocchetta di Gurnià, ceramica
minoica del
1700 a.C., raffigurante un
polipo, non si
sa se sia l'animale intrappolato sulla
superficie del
vaso o non sia
questo, con le
sue belle
forme femminili, prigioniero dei
“molti piedi”
tentacolari
dell'animale.
HORROR VACUI
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LO STATO DELLA POESIA
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di Matteo Rimi
A
SU DI TONO
di Michele Morrocchi
twitter @michemorr
Ryan Adams, cantautore americano in attività da qualche anno, è
uno di quei personaggi perfetti per
i programmi radiofonici in cui oltre
alla musica devi trovare anche
qualche storiella da raccontare per
non annoiare i tuoi ascoltatori. In
questo Ryan Adams è una mecca a
partire dal nome che condivide,
salvo una lettera, col più famoso
cantautore canadese Bryan Adams.
La cosa pare non piaccia troppo a
Ryan che durante un concerto in
un club newyorkese fece una mezza
scenata quando un avventore gli
chiese di eseguire Heaven, noto
pezzo del quasi omonimo. Raccontano che Ryan non tornò in scena
fino a quando l’avventore mattacchione non lasciò il club col costo
del biglietto rimborsato. Come non
bastasse l’omonimia, Ryan è famoso anche per un altro episodio.
Nel 2001 uscì infatti il suo secondo
album, Gold, e la produzione decise
di estrarre come singolo un pezzo
dal nome non proprio originale,
New York New York. Ancora meno
originale la scelta, probabilmente
dettata da un budget davvero modesto, di girare un video con
Adams che suona e canta con alle
spalle Manhattan e le torri del
World Trade Center proprio dietro
di lui. Se a questo aggiungete che il
video fu girato il 4 settembre di
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emetteranno all’ennesima stretta di vite.
Ci sarà bisogno di poeti ad allargare le
braccia come pompieri in missione,
ognuno sotto un palazzo in fiamme,
ognuno con i propri mezzi di soccorso:
ci sarà bisogno di chi userà la musica,
fionda a lanciare le note come scialuppe
in mezzo ad un torbido mare e lo Stato
si farà SONORO; ci sarà bisogno di chi
riuscirà a persuaderne uno ad uno a
cambiare strada e lo Stato si farà INTIMO; ci sarà bisogno di raccontare
[email protected]
desso che è libero lo Stato sarà,
da participio a futuro, in tutti gli
spazi lasciati orfani da noi, uomini e donne impegnati a perdere il nostro tempo. Appurato, grazie
alla viva voce di tante amiche ed amici
incontrati nell’ultimo anno, ognuno inevitabilmente diverso dagli altri ma comunque ricco di una umanità che la
poesia acutizza ed amplifica (e quindi
esempio per chi ancora non crede!), che
la poesia è in buono – buonissimo –
Stato, adesso si può andare avanti.
Non più stato in luogo, lo Stato ha cambiato definitivamente complemento, diventando movimento verso qualcosa di
costruttivo, di concreto, un dire che si fa
fare, risalendo alle origini stesse della
poesia perdute nella notte dei tempi tra
le parole primigenie che si volevano pietra, finalmente a tornare dove era
quando era più che scrittura – chiusura ma atto creativo, educativo, positivo.
Testimonianza e possibilità di osservare
con occhio attento, sveglio e sensibile il
vero cambiamento, lontano da quello
ciecamente pompato con caratteri iridescenti, invisibile ai più perché troppo
lento, naturale e forse anche agli antipodi
rispetto a ciò che ci aspetteremmo, la
poesia si evolve a sua volta, arricchendosi
di musica, colori, gesti, connessioni, connotazioni e di sostenitori mai lontanamente prevedibili, facendosi essa stessa
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L’evoluzione
EVOLUZIONE.
Lo Stato è lì, a presiedere luoghi sconosciuti ed ancora da conquistare, le infinitesime sinapsi del nostro cervello ancora
stoicamente proteso a non abbandonare
la speranza che qualcosa di diverso possa
ancora accadere, la fede nel sogno, nell’immaginazione, nell’energia primaria
che ci ha spinto a diventare ciò che
siamo e che non si può imbrigliare come
le estensioni che non sono più animali,
incanalare come corrente o dati nei lunghi fili ad unirci ed incatenarci, immagazzinare come contabilità del potere
ormai determinato a schiacciarci!
Ciò che è stato appurato è che i poeti
non sono (e non possono essere) del
tutto di questo mondo ma, come ambasciatori di un regno pulsante in altre dimensioni, conducono doppie vite su
piani diversi, in tutti un po’ stranieri ma
in ognuno essenziali, come fulcro naturale in cui catalizzarsi forze altrimenti disperse: indispensabili, quindi, i poeti, ma
non isolati! Non più, perché in grado di
lasciarsi unire ormai in un complesso reticolato, una stretta maglia composta
con materiali diversi - anche diversissimi
tra loro - alla quale però resteranno impigliati i sospiri che i tanti nostri simili
L’APPUNTAMENTO
Qualcosa
di buono
da Ryan Adams
quell’anno, capite che questo ragazzo, oltre al lutto per l’attacco alle
torri gemelle, passò delle brutte
giornate. Poi come spesso accade il
caso o la fortuna ci mettono lo
zampino e, grazie ad MTV, il singolo di Adams cominciò a passare
in radio e tv e diventò una specie di
inno alla rinascita newyorkese. Da
allora Ryan Adams è molto cresciuto musicalmente, è diventato
più cupo, ha registrato una cover di
Wonderwall degli Oasis da brividi
ed ha assunto un look alla Tim Burton. Il 3 settembre ha pubblicato
un nuovo disco intitolato, per non
sfuggire alla regola universale che
ogni artista pubblicherà prima o
poi un disco col proprio nome,
Ryan Adams. Disco molto asciutto
dove la chitarra di Adams, sempre
distorta, sempre con accordature
molto aperte, la fa da padrona e in
cui spicca la prima canzone Gimme
Something Good, potente song dal
riff ossessivo e molto orecchiabile.
L’atomsfera gothic che apre caratterizzare questo periodo dell’artista, più che nelle note della
canzone la si ritrova nel video del
pezzo con la presenza di Elvira
(Cassandra Peterson) la sexy strega
storie di paesi lontani per farceli vicini e
scoprire che, come italiano, può essere
lo Stato INDIANO; ci sarà bisogno di
andare a svelare aspetti che troppi di noi
rimuovono per non dover ammettere la
caducità e per questo lo Stato si farà SANITARIO.
Crescerà, lo Stato, tanto quanto i luoghi
arresi che visiterà, ciò che è stato ma
anche ciò che sarà, cercando, come il
poeta la parola in punta di penna, il linguaggio giusto per ogni persona, per
ogni scenario, per trasmettere il semplice
messaggio che è il messaggio ciò che va
trasmesso.
il colore viola
di via del parione
della televisione americana anni
’70. Il resto del disco invece fatica a
spiccare e farsi notare, salvo forse
Wrecking Ball, dove Adams dimostra ancora una volta di non temere titoli non originali, visto
l’omonimia con il brano Miley
Cirus e l’album di Springsteen. Un
album comunque gradevole, tra
testi ragionati e sonorità alla Tom
Petty.
Narra la leggenda che il colore viola per
tingere i vestiti sia stato scoperto casualmente da una nobile casata fiorentina.
Una storia particolare della città di Firenze che riprende vita questo sabato, 20
settembre, nella centralissima via del Parione dove l’associazione fund4art e i
commercianti della via hanno dedicato
al colore viola gli allestimenti delle vetrine e opere d’arte e performance artistice. Il culmine della manifestazione
sarà proprio alle 19 di sabato quanto
Bearice Bartolozzi e Meri Iachi ricreeranno la nascita del viola in una performance artistica con la partecipazione del
pubblico. Una serata particolare per vivere uno dei luoghi più centrali di Firenze con un tocco di viola, colore con il
quale è invitato a vestirsi anche il pubblico per vivere più intensamente l’esibizione.
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IN RICORDO
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di ugo Bardi
S
i è spento nell’estate del 2014
Giuliano Bardi, architetto residente nella Valle del Mugnone. Quelli che lo hanno
conosciuto, se lo ricordano nei suoi
ultimi anni. Ma nell’arco di una lunga
vita – 92 anni – Giuliano Bardi ha
visto e fatto molte cose. Nella sua gioventù, ha visto la guerra e poi è stato
parte del momento politico burrascoso del dopoguerra che vide la Democrazia Cristiana esprimere leader
fiorentini come Nicola Pistelli e Giorgio La Pira, dei quali Giuliano Bardi
era amico e collega. Con gli anni,
Giuliano Bardi ha abbandonato la politica attiva, per dedicarsi a un sindacato degli insegnanti e, allo stesso
tempo, esercitare la professione di architetto insieme alla moglie, Ada
(1921-2008), anche lei laureata in architettura, che aveva sposato nel
1950. Molta della sua attività di architetto è stata nel comune di Fiesole,
dove si era trasferito nel 1965, lasciando il suo quartiere di origine,
Monticelli, a Firenze.
Negli ann ‘60, lo sviluppo edilizio
della Valle del Mugnone è stato caotico e rapido a riempire un vuoto che
era stato lasciato dalle servitù militari
che avevano impedito le costruzioni
fino al dopoguerra. La storia della
valle vede case popolari sorgere qua
e là, accompagnate da lottizzazioni
che generano villette sparpagliate
nella campagna. Negli anni ‘80, vedrà
sviluppi edilizi molto più ambiziosi,
con la “quasi-città” che è divenuta
Mimmole.
Le case progettate e costruite da Giuliano Bardi erano ispirate dai temi architettonici degli anni ‘50 e ‘60. Se a
Firenze si ispirava all’architettura ul-
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un Architetto
che guardava
a Leonardo Ricci
tramoderna di Michelucci, a Fiesole,
lo stile di Bardi era simile a quello di
Leonardo Ricci (1919-1994), suo
contemporaneo che conosceva bene,
le cui opere possiamo ancora oggi ve-
dere sulla collina di Monterinaldi,
dalla parte destra del Mugnone. Ma
mentre le case di Ricci sono rimaste
in gran parte nella forma originaria,
quelle di Bardi sono state spesso stra-
volte da modifiche e espansioni, al
punto da essere difficili da identificare oggi. Ci rimane del suo lavoro,
soltanto qualche scorcio che mostra
che era parte dello stesso movimento
di idee che aveva generato le case di
Monterinaldi. Ampie superfici vetrate, vani interni ampi e comunicanti, e attenzione ai materiali con un
particolare interesse verso la pietra lasciata allo
stato
grezzo.
Un’ i m m a g i n e
della sala interna
della sua casa di Pian del Mugnone ci
da un’idea della prospettiva di questo
tipo di architettura che Giuliano
Bardi e sua moglie Ada prediligevano.
Ma forse le pietre e i
mattoni non sono il
miglior ricordo che
abbiamo di lui, e
preferiamo ricordarcelo per le sue battute e i suoi giochi
di parole, un uomo
che, quasi fino all’ultimo momento non
ha rinunciato al suo
senso dell’umorismo e al piacere di
scherzare con l’infermiera che lo accudiva. E’ morto
nella casa di Pian
del Mugnone che
lui stesso ha costruito.
Giuliano Bardi con
la nipote nel 2011
GRANDI STORIE IN PICCOLI SPAZI
di Fabrizio pettinelli
[email protected]
C’è una remota possibilità, che, passando da Via di Santa Lucia, abbiate
lanciato un’occhiata distratta alla lapide murata sulla facciata della
chiesa, che, in traduzione letterale,
recita: “Io, l’Imperatore, vinsi combattendo con i sassi nell’anno del Signore 1594”. Chi era questo
Imperatore e quale razza di battaglia
aveva vinto a sassate?
Dobbiamo risalire addirittura al
1283, quando la famiglia Rossi, che
possedeva case e castelli nella zona
del monastero del San Gaggio, costituì la "Compagnia dell'Amore", una
brigata di mille giovani in divisa
bianca che percorrevano senza sosta
le strade della città organizzando
ovunque giochi, banchetti e tornei.
Nel 1342-1343, ai tempi del “Duca
d’Atene”, al quale era stata affidata la
città stremata dalla contesa fra guelfi
e ghibellini (di questo singolare personaggio avrò modo di parlare a proposito di Via della Ninna), simili
via Santa Lucia
Le antiche
potenze
festeggianti
Compagnie che si erano formate in
vari quartieri della città, istituzionalizzate e riorganizzate con una struttura quasi militare, furono affidate a
un comandante che assunse, a seconda della zona, svariati titoli; visto
che al vertice delle compagnie
c’erano “imperatori”, “monarchi”,
“conti” e via dicendo, le compagnie
stesse presero il nome di “Potenze” e,
essendo il loro compito precipuo organizzare feste e divertimenti per le
varie ricorrenze cittadine (nonchè
“armeggiare a’ sassi” con le Potenze
confinanti), divennero note come
“Potenze Festeggianti”.
L’argomento non può esaurirsi nella
tirannica dittatura delle 3.000 bat-
tute, dato che le Potenze furono oltre
70: in questa sede semplicemente lo
introduco, accennando, per diritto di
preminenza, all’Imperatore.
L’”Imperatore del Prato da Santa
Lucia sul Prato”, che aveva sede in
Borgo Ognissanti, fu l’unico capoPotenza ad essere insignito del titolo
di Imperatore e, al contrario di tutti
gli altri “sovrani”, ad avere il diritto di
libero transito (sancito nel 1588 da
un decreto degli Otto di Guardia e di
Balia, occhiuta Magistratura fiorentina della quale avrò occasione di riparlare) davanti alla sede delle altre
Potenze, e questo fa capire quale
fosse la sua importanza;
gli uomini al suo comando erano quasi tutti
tessitori di lana.
Dell’Imperatore restano
molte testimonianze, fra
le quali quella sopra citata. Non si sa quale fu
la Potenza sconfitta in
quell’epica sassaiola
(combattuta nel tradizionale campo di battaglia delle Potenze, Il Prato, primo
luogo ad essere destinato a “verde
pubblico” dal Comune di Firenze),
ma dovette veramente essere una battaglia memorabile, visto che gli scontri “a’ sassi” erano all’ordine del
giorno e si concludevano regolarmente con morti e feriti, tanto che i
soliti “Otto” finirono per proibirli.
Dell’Imperatore si ricorda anche una
lunga controversia giudiziaria con
l’”Imperatore di Campi”, che pretendeva l’unicità del titolo: salomonicamente la giustizia stabilì che ci
sarebbero stati due Imperatori, uno
per la città, l’altro per il contado.
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VUOTI&PIENI
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di Ferdinando Semboloni
u
[email protected]fi.it
na muraglia di macigno spessa
quattro metri e grezza. Così appare ancora una parte del tamburo su cui poggia, la Cupola di S.
Maria del Fiore. Un amico in visita a Firenze se ne uscì fuori con: «Ma voi a Firenze non terminate nulla!». Francese,
dirigeva grandi cantieri edili a Parigi, era
rimasto meravigliato della facciata incompiuta di S. Lorenzo. Se non fosse stato per
gli interventi ottocenteschi avrebbe visto
anche S. Croce e il Duomo nel medesimo
stato. In quel periodo c'era più libertà di intervento, ma forse si facevano anche dei
disastri, dato che Cesare Brandi non aveva
ancora formulato la sua teoria del restauro.
Viollet Le Duc ricostruiva la guglia di
Notre Dame e le mura di Carcassonne. Si
scherza col fuoco, certamente, perché ci
vuol nulla a distruggere un monumento
con aggiunte improprie, ma sia S. Croce
che il Duomo ci hanno tutto sommato
guadagnato.
Il tamburo della Cupola ha una storia travagliata. L'ingegnere ed architetto Rodolfo
Sabatini è stato l'ultimo in ordine di
tempo, nel 1943, a cimentarsi, con perizia
e modestia nell'arduo compito della sua
“completazione”.
L'idea originaria di Brunelleschi era quella
di costruire un “andito di fuori, sopra gli
occhi, che sia di sotto imbeccatellato, con
parapetti straforati” alla base della cupola.
Francesco d'Antonio, pittore fiorentino, in
una tavola datata 1425/1430, “Cristo che
guarisce l'epilettico indemoniato e il tradimento di Giuda” (Filadelfia, Museum of
art) dipinge una cupola che rappresenterebbe il progetto di quella fiorentina, con
un ballatoio rispondente all'idea di Brunelleschi: una fascia interrotta da aperture
e sorretta da mensoloni.
Brunelleschi risolse genialmente il problema architettonico della lanterna dove si
raggruppano simbolicamente tutte le
forze verticali della Cupola, ma non quello
della base. La Cupola è pensata come il Paradiso: distaccata dalle cose terrene, su di
esse poggiata, ma tendente più verso l'alto
che ancorata al basso. Una specie di navicella spaziale che il ballatoio, oltre a dare
un punto di vista panoramico su tutta la
città, serviva a dividere dal mondo terreno.
Baccio d'Agnolo, dopo il concorso del
1507, inizia a realizzare l'idea di Brunelleschi, della Cupola poggiata, con un bel loggiato forse troppo “straforato”. Ma si
scontra con Michelangelo che ha una idea
completamente differente da quella di
Brunelleschi: “quella macchina si grande
richiedeva maggior cosa e fatta con altro
disegno, arte e grazia”.
Invece di poggiare la Cupola, Michelangelo nel suo progetto, l'ancora profondamente al tamburo rinserrato dalle colonne
binate poste ai lati dell'ottagono, sulle quali
poggia un'imponente trabeazione. Da
questa sorgono i costoloni, decorati con
statue. Semplifica le specchiature del tamburo e lega la Cupola saldamente a terra.
Conseguenza inevitabile: l'eliminazione
del ballatoio. Il progetto michelangiolesco,
ricostruito sulla base del disegno di Howard Saalman, era forse impraticabile ma
coglieva il problema di radicare la Cupola
nella fabbrica del Duomo.
Al rullo
del tamburo
della Cupola
Dall’alto in senso orario Il ballatoio di
Francesco d'Antonio, il ballatoio di
Baccio d'Agnolo, il tamburo rullante e il
progetto di Michelangelo
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I muri grezzi, come quello del tamburo,
non possono dirsi né belli né brutti, ma
solo grezzi appunto, cioè in attesa di qualcosa, e far attendere un muro cosi importante per cosi tanto tempo non è cosa
carina né civile. Uno a questo punto ci
prova anche perché il problema andrà risolto prima o poi: perché non tentare sempre con una tecnica virtuale che non può
produrre danni, di ricostruire una tra le
tante possibilità, con un occhio a quella
proposta da Michelangelo?
Le colonne binate del progetto di Michelangelo rompono la continuità tra i costoloni della Cupola e i pilastri policromi che
sorreggono il tamburo. Come fare? La ricetta potrebbe essere semplice. Continuare le paraste angolari del tamburo
impostate dal Manetti, e lasciate a metà.
Estenderle per tutta l'altezza del tamburo
modificando però la loro decorazione che
diviene continua. Così le paraste riprendono il motivo di quelle utilizzate da Brunelleschi per la lanterna ottagonale, e la
Cupola, coi suoi costoloni bianchi, potrebbe apparire come un raccordo tra tamburo e lanterna. Poggiare poi la
trabeazione michelangiolesca semplificata, all'imposta della Cupola, sulle paraste. Completare il raccordo tra gli occhi del
tamburo e la trabeazione con una decorazione a riquadri che ricorda quella della
facciata di S. Maria Novella dell'Alberti,
che lì funziona da raccordo stilistico e qui
serve anche a sottolineare una sorta di legatura orizzontale continua alla base della
Cupola.
Dopo di che la frittata è fatta e il tamburo
potrebbe tornare a rullare. Altri più competenti sapranno prendere il testimone e
proporre soluzioni, di modo che uno che
venga da via dei Servi ed alzi gli occhi alla
Cupola non abbia più a vedere un muro
grezzo in mezzo a tanta bellezza.
ICON
Il Comune di Campi Bisenzio in collaborazione con Fund4art presenta al
Parco Iqbal una tre giorni completamente dedicata alla Street Art. Tre gli artisti presenti, appartenenti alla scuola
romana della Street Art: Solo,nome già
molto noto, grazie alle sue collaborazioni illustri, a Londra presso lo studio
dei videomaker The Butchers, al Viennart e al MACRO (Museo d’ArteContemporanea di Roma), Diamond tts,
attivo dal ’93 nel panorama del Writing
con un segno stilistico elegante e provocatorio al contempo, e il collettivo
"Tutto Bene", dallo stile incisivo e
pulito. I tre giovani artisti si cimenteranno in
una performance a sei mani “live” totalmente nuova nel suo genere, lavorando
su una superficie di oltre 80 metri lineari, più di 180 mq, colorando e reinterpretando grazie alla loro arte uno dei
muri perimetrali del Parco Iqbal a
Campi Bisenzio. I visitatori, i curiosi e gli
interessati potranno vedere fin dal
giorno 25 gli artisti all’opera, seguendo
tutte le fasi di realizzazione di questa gigantesca opera d’arte urbana.
Evento clou della tre giorni CAMPI
D’ARTISTA. STREET ART LAB sarà la
serata di sabato 27, i tre artisti termine-
La street art sbarca a Campi
ranno la loro opera d’arte in un evento
che vedrà il Parco Iqbal aperto per un dj
set con Zazza dj, musica house al parco,
aperitivo e bar aperto per tutti coloro
che volessero partecipare alla serata
evento, completamente gratuita, conoscere gli artisti e festeggiare la nuova
opera d’arte donata alla città. Un live in
cui performance di arte contemporanea
e musica house si integreranno per una
serata speciale. CAMPI D'ARTISTA è
un evento inserito all'interno della rassegna “La Meglio Genìa”, appuntamento
che ogni anno racchiude i “talenti” migliori che il nostro territorio possiede e
che su di esso si esprimono.
Inoltre, dato che il Comune di Campi
Bisenzio aderirà in questo stesso fine settimana alla XXI edizione italiana di “Puliamo il Mondo”, i writers realizzeranno
“pezzi” dalle note “green”, consci che la
loro attività ben si inserisce nel clima di
questa manifestazione, di una “ri-pulitura” dell'ambiente urbano che con loro
passa attraverso la la rivalutazione di
spazi condivisi. Appuntamento al Parco Iqbal
Ingressi: Via Vittorio Veneto 68 e Via
Mascagni Dal 25 al 28 settembre tutto il
giorno Evento del 27 settembre a partire
dalle ore 18.30/ Dj set a partire dalle
20.30
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L’ULTIMA IMMAGINE
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Futurama, Bowling Alley, San Jose, California, 1972
[email protected]
dall’archivio di Maurizio Berlincioni
Presentato nel lontano 1961 Futurama era
considerato il miglior "Bowling
Alley" di San Jose
ed era situato sullo
Stevens Creek
Boulevard. Con i
suoi 42 "automatic
lanes" , un ristorante con annessa
Cocktail Lounge
dal nome esotico
di "Magic Carpet
Room" ed una
grande area "fitness" era un vero
centro di attrazione per gli aficionados del bowling
e della cura del
proprio corpo.
Dopo più di 30
anni di onorata
carriera venne
chiuso ed al suo
posto fu inaugurato un grande megastore della
catena Safeway
Grocery Store. Attualmente il famoso landmark
restaurato è naturalmente rimasto
al solito posto con
la sola variazione
delle insegne che
adesso recitano
"Safeway" al posto
del vecchio e glorioso "Futurama
Bowl".