Testo della lezione (prima parte)

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10° lezione:
Lo Stato di diritto e la giustizia costituzionale, 1
Continuiamo ad adottare il metodo finora seguito: partire dagli elementi caratterizzanti della
nostra democrazia costituzionale e andare all’indietro nel tempo per cogliere le radici, le continuità, le innovazioni.
Quando diciamo ‘democrazia costituzionale’ è obbligatorio riferirsi a un’istituzione che ne
costituisce in buona misura la condizione di funzionamento o si presenta almeno come la valvola di chiusura del circuito: la Corte costituzionale; un organo giudicante chiamato a giudicare
non già di azioni individuali che abbiano trasgredito l’una o l’altra norma, come avviene per la
generalità degli organi giudicanti, ma le leggi: la Corte costituzionale è il giudice della leggi,
chiamato a vagliare, sulla base di specifiche procedure, che le norme infra-costituzionali,
l’ordinamento nel suo complesso, siano rispettosi della costituzione. La corte costituzionale è
dunque il custode della costituzione: di quella costituzione che detta i principî e le regole di funzionamento della democrazia.
Questa istituzione è stata introdotta in Europa in tempi relativamente recenti. Non esiste
niente di simile nell’Italia (o nella Francia o nella Germania) ottocentesca. Esistono aspirazioni,
esigenze, progetti, ma niente che si traduca in istituzioni. Dopo la prima guerra mondiale
l’Austria si incammina nella creazione, indubbiamente originale, di una corte costituzionale. È
comunque nel secondo dopoguerra che la corte costituzionale, il giudice delle leggi, diviene un
elemento obbligato delle nuove democrazie: delle democrazie che si formano nell’immediato
dopoguerra e anche delle democrazie che si affermano in tempi successivi (ad esempio in Spagna o in Brasile) ma restano fedeli al modello della democrazia costituzionale.
Potrebbe dunque sembrare che, quando si parla di Corte costituzionale come tratto caratteristico della nostra democrazia, il nostro viaggio all’indietro nel tempo possa essere di breve durata. Per vostra sfortuna, però, ciò non è del tutto vero. Anche in questo caso, discontinuità evidenti si sovrappongono a processi che vengono da lontano. E anche in questo caso dovremo stare attenti a evitare due rischi eguali e contrari: pensare che il presente nasca appena ieri, senza
aver nulla alle spalle, oppure al contrario pensare che tutto era stato già detto due millenni fa e
che si tratta soltanto di sdipanare una matassa già preparata.
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Introduciamo subito un concetto che ci servirà da orientamento in questo percorso: il concetto di Stato di diritto. Dobbiamo riferirci a questo concetto perché (come vedremo meglio cammin facendo) la corte costituzionale può essere presentata come lo stadio più recente e complesso di un processo che ruota intorno allo Stato di diritto.
Che cosa significa ‘Stato di diritto’? Questa espressione è, sul piano lessicale, relativamente
recente (compare nella letteratura tedesca del primo Ottocento); ed è un’espressione che assume
precocemente due valenze distinte, anche se in qualche misura connesse: un Rechtsstaat è uno
Stato che agisce nelle forme del diritto, uno Stato la cui volontà sovrana non si esprime in forme
imprevedibili e incontrollabili, ma assume le caratteristiche di una vera e propria norma giuridica; un Rechtsstaat però è anche uno Stato che, proprio in quanto giuridicamente strutturato, offre ai sudditi una protezione giuridica che uno Stato meramente ‘dispotico’ non potrebbe mai
garantire.
Stato disciplinato dal diritto; limitato dal diritto; protettivo, attraverso il diritto, dei propri
sudditi. Se guardiamo a queste valenze generali dell’espressione Rechtsstaat il contesto storico
di riferimento si dilata enormemente. Potremmo dire che la formula ottocentesca semplicemente
condensa nella plasticità di un’unica espressione un’esigenza antica. Lo Stato di diritto sembra
semplicemente riproporre l’antica esigenza di poter obbedire a un potere che sia sottoposto al
diritto, sub lege; a un potere che non sia incontrollato, imprevedibile, arbitrario, bensì normato,
regolare, prevedibile e quindi in qualche misura limitato. Potremmo servirci di una classica e
sempre ricorrente distinzione: voluntas e ratio; il potere come decisione e il diritto come misura,
ragione, controllo.
Il potere sottratto a ogni regola è sentito come un potere minaccioso, in un arco di tempo di
impressionante lunghezza. Possiamo anche in questo caso trovare nella Grecia ‘classica’ una
matrice dell’intero pensiero occidentale. In un tardo dialogo, il Politico, Platone introduce una
distinzione destinata a essere continuamente riproposta nella cultura occidentale: il governo degli uomini e il governo delle leggi. Il governo buono è il governo che agisce nel solco precostituito dalle leggi, di contro al governo affidato alla incontrollabile discrezionalità di una o più
persone.
Platone non identificava certo la giustizia con la legge, che continua a considerare una sorta
di male minore, utile solo quando non si riesca a realizzare in concreto la perfetta repubblica. È
comunque già segnata con chiarezza una distinzione continuamente ripetuta e tale da far appari-
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re l’idea dello Stato di diritto una sorta di costante storica del pensiero occidentale. La filosofia
politica medievale sembra muoversi sulla stessa lunghezza d’onda quando elabora una distinzione celebre: la distinzione fra il re e il tiranno. Questa distinzione si regge tutta sul rapporto
che intercorre fra il re e la legge. Se il re rispetta i dettami della legge, governa nel suo alveo, il
re è legittimo e deve essere obbedito; se il re antepone la sua capricciosa volontà ai vincoli imposti dalla legge, il potere del re è corrotto, perverso e il re merita il titolo di tiranno. Non è un
innocuo cambiamento di titolo: se il re è un tiranno, diviene problematico l’obbligo di obbedienza nei suoi confronti e si apre anche l’ipotesi di una resistenza legittima al tiranno. Anche il
tema della resistenza al tiranno avrà una lunga fortuna nei secoli successivi, ma non ci riguarda
in questo momento se non per ribadire questo aspetto: considerare tiranno un re e su questa base
dichiarare legittima la disobbedienza, la resistenza, implica il riferimento a criteri di valutazione
diversi e superiori alla volontà del re e uno di questi punti di riferimento è appunto la legge, che
continua a proporsi come una norma superiore alla volontà del potente e determinante per la sua
legittimità.
Mi direte: lo Stato di diritto allora non è affatto un concetto ottocentesco. Sarà ottocentesca
l’espressione lessicale, il nome, ma la cosa, il significato, il concetto era già perfettamente chiaro a John of Salisbury, a Tommaso d’Aquino o a Bartolo di Sassoferrato (per non parlare di Platone). Anche in questo caso però devo ricordarvi quanto vi dicevo a proposito della sovranità
popolare: occorre diffidare dei ‘falsi amici’, che per lo storico sono le continuità apparenti.
Quando parlo di continuità apparente non intende dire che manchino del tutto analogie e continuità fra stadi diversi di un processo. Dico che la discontinuità effettiva, ma non evidente, è
molto più significativa della continuità apparente, ma non determinante.
Per i filosofi e i giuristi medievali il re deve essere sottomesso alla legge. Chiediamoci però
che cosa significhi ‘legge’ (e anche ‘re’) in quel contesto. Mettiamo pure da parte il fatto che il
potere del re è, nella società medievale, debolissimo: dobbiamo guardarci dal proiettare sul rapporto fra i sudditi e il re medievale aspetti propri del rapporto fra cittadini e potere nell’Europa
moderna. Dimentichiamo pure il concreto funzionamento del rapporto fra comando e obbedienza e facciamo riferimento ai puri concetti. Anche a questo livello le differenze sono enormi perché la legge assunta come superiore al comando del re non ha molto a che fare con la le legge
come noi la conosciamo e la teorizziamo. La legge evocata dalla cultura medievale in questo caso è in sostanza semplicemente la struttura dell’ordine. La cultura medievale pensa la società
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umana come un momento di un ordine complessivo, che ha in Dio il vertice e si struttura in modo rigidamente gerarchico: da Dio, agli angeli, agli uomini, agli animali, al mondo inorganico.
La società è parte di questo cosmo ordinato e gerarchico ed è a sua volta, come sappiamo, concepita come un sistema gerarchico di differenze. La legge cui il re deve rispetto è inseparabile
dall’aequitas e aequitas, per il giurista medievale, non è tanto la giustizia del caso singolo,
quanto è l’oggettivo ordine del mondo, la sua interna disposizione.
Resta dunque vero che è antica e ricorrente la diffidenza verso il potere puro, il potere svincolata da qualsiasi riferimento ‘oggettivo’. I contenuti di questa diffidenza, la strutturazione del
potere, le aspettative e i timori nei suoi confronti sono però lontanissimi dalle tensioni fra potere
e diritto che esploderanno nel corso dell’età moderna. Nello scenario della cultura pre-moderna,
non si danno propriamente tensioni fra il potere e il diritto: il potere esiste e opera nella cornice
di un diritto che coincide con l’assetto dell’ordine sociale. Certo, il singolo reggitore può deviare dalla retta via: la deviazione nasce però dal comportamento di un singolo e non è riconducibile a una contraddizione interna al sistema.
Per capire come potere e diritto possano entrare in tensione fra loro occorre ripercorrere alcuni dei sentieri che ci portano lontano dalla cultura medievale. Questi sentieri conducono, da
un lato, a una nuova idea di sovranità, e, dall’altro lato, alla formulazione dei diritti del soggetto
come tale.
Per quanto riguarda la sovranità, la prima e più clamorosa innovazione è dovuta alla riflessione di Thomas Hobbes. Hobbes è uno dei primi e più rigorosi giusnaturalisti, che condivide i
passaggi principali di questo nuovo modo di pensare, di questo nuovo paradigma. Per i giunaturalisti, come ricordate, occorre prima prendere in considerazione lo stato di natura, l’ipotetica
condizione umana prima della creazione dell’ordine politico, e poi interrogarsi sulle condizioni
che hanno reso possibile la sovranità e sulle caratteristiche del potere sovrano.
Hobbes dunque, da bravo giusnaturalista, muove dall’analisi della condizione umana nello
stato originario. L’individuo (nella sua condizione ‘naturale’) è dominato meccanicisticamente
dal bisogno e dagli impulsi auto-conservativi: la ragione è al servizio dell’autoconservazione e
la soddisfazione del bisogno impone a ognuno di incrementare il proprio potere e di entrare in
conflitto con gli altri. Non esistono in natura supremazie e obbedienze: tutti sono eguali perché
nessuno è al riparo dalla capacità distruttiva di chiunque altro. Non si danno limiti all’azione auto-affermativa di ciascun soggetto: il diritto di un individuo in stato di natura coincide con il suo
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potere; ciascuno ha uno ius in omnia che si arresta solo di fronte all’eguale e incompatibile diritto-potere di ogni altro. Inseparabile dal potere, il diritto è un momento, insieme, dell’autoaffermazione individuale e del conflitto intersoggettivo
È l’eguale esposizione al conflitto e alla distruzione che impone ai soggetti di compiere un
salto ‘oltre’ lo stato di natura. Il contratto sociale è appunto la decisione di sottrarsi al distruttivo
conflitto azzerandone la premessa: il diritto-potere di ciascuno. Con il contratto sociale infatti i
soggetti consegnano il loro diritto-potere nelle mani di un terzo che, concentrando su di sé i poteri di tutti i soggetti, viene a essere titolare di un potere assoluto e irresistibile. Nasce il sovrano
e, con il sovrano, l’ordine. L’ordine nasce da una decisione dei soggetti e coincide con la funzione ordinante del sovrano.
È il sovrano, creato dai soggetti, che a sua volta crea, in funzione dei soggetti e della loro sicurezza, un ordine (un assenza di conflitti) altrimenti impossibile. Non si dà ordine senza un sovrano che concentri in sé ogni potere: quando infatti qualcuno o qualcosa possa legittimamente
resistere al sovrano oppure quando la sovranità venga esercitata da soggetti distinti (come raccomandavano i teorici del ‘governo misto’) torna a essere attizzato il fuoco del conflitto.
Perché l’ordine sia assicurato occorre che la sovranità sia assoluta: occorre che racchiuda in
sé tutti i poteri, escluda poteri concorrenti, si assicuri il monopolio del diritto, si ponga come interlocutore unico dei soggetti: nulla, che non sia riconducibile alla volontà sovrana, deve frapporsi fra questa e i sudditi.
I diritti esistono solo in quanto attribuiti ai soggetti dal sovrano attraverso la legge: è il sovrano che definisce i doveri e i diritti (e anche il diritto di proprietà). Per il rigoroso (e pionieristico) ‘positivismo giuridico’ hobbesiano non esistono parametri di giuridicità che non siano riconducibili alla volontà sovrana (proprio perché, altrimenti, il dissenso e il conflitto tornerebbero a minare l’ordine).
È il sovrano che definisce le regole dell’azione individuale: la libertà dei soggetti, assoluta in
‘stato di natura’, trova nelle leggi del sovrano un limite insormontabile. Una volta creato
l’ordine politico, solo il sovrano gode di quell’incondizionata libertà di cui gli individui usufruivano nella loro condizione ‘naturale’. Per i sudditi invece la libertà inizia dove si arresta la legge
del sovrano: la libertà è semplicemente una zona che il sovrano decide di non regolare.
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La visione di Hobbes non è però l’unica declinazione del giusnaturalismo né l’unica visione
della sovranità e del suo rapporto con i diritti. Come ricordate, nella stessa Inghilterra di Hobbes, una trentina di anni dopo, Locke propone una visione profondamente diversa che in qualche misura rovescia la prospettiva hobbesiana: nello stato di natura l’essere umano ha alcuni diritti – la libertà e la proprietà – grazie al quale egli è in grado di soddisfare i propri bisogni senza
entrare in conflitto con gli altri esseri umani. La proprietà, come ricordate, è appropriazione attraverso il lavoro dei beni esterni e al contempo è moltiplicazioni di questi beni, messa a frutto
della natura, arricchimento, grazie all’invenzione della moneta, dei singoli individui e
dell’intera società.
Esistono dunque diritti dell’essere umano come tale dai quali dipendono la felicità e la prosperità della società. L’ordine coincide con questi diritti ed è antecedente al sovrano. Il sovrano
è necessario, ma solo per dirimere le eventuali controversi e reprimere le eventuali violazioni
della proprietà-libertà. Il sovrano non ha un potere assoluto, ma ha un potere funzionale: funzionale al rispetto e alla tutela dei diritti naturali.
Il sovrano come unica garanzia dell’ordine e della convivenza, altrimenti impossibile per il
continuo emergere del conflitto distruttivo e i diritti dei soggetti che esistono solo in quanto il
sovrano li attribuisca ai suoi sudditi; di contro, un ordine fondato sui diritti naturali e quindi,
come tali, immodificabili e inviolabili e il sovrano come mero tutore di un ordine già esistente.
Nella prima modernità, nel processo di allontanamento dalla visione medievale dell’ordine politico-giuridico, coesistono due antitetiche visioni che non si esauriscono affatto nel contesto nel
quale sono emerse ma continuano a influenzare profondamente la successiva cultura setteottocentesca.
Per quanto riguarda la sovranità, certo, l’Europa non sembra ricordarsi di Hobbes: Hobbes, il
teorico della monarchia assoluta sembra ormai molto lontano da un’Europa dove si sviluppano
il liberalismo e la democrazia. Ciò è indubbio, se guardiamo a un aspetto, importante, ma non
esclusivo della teoria hobbesiana: se cioè guardiamo a chi sia il portatore della sovranità. Da
questo punto di vista, tutto cambia, nel corso del Sette-Ottocento, come sappiamo. Si afferma
l’idea della sovranità popolare: ricordiamoci di Rousseau e poi di Sieyès e della rivoluzione
francese. È il popolo, o la nazione, non il monarca, il detentore della sovranità.
Guardiamo però allo stesso problema da un’altra angolatura: chiediamoci cioè quali siano i
contenuti del potere sovrano; quali poteri Rousseau, e poi Sieyès e i protagonisti della rivolu-
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zione attribuiscano al popolo; ci accorgiamo allora che la loro continuità con Hobbes è rilevante: non sono prevedibili limiti al potere del popolo sovrano. Certo, il sovrano di Rousseau coincide con l’insieme dei soggetti e da questo punto di vista si pone agli antipodi dello schema
hobbesiano; l’esercizio del suo potere tuttavia non può incontrare nessun limite precostituito,
esattamente come Hobbes aveva teorizzato. È ancora questo il potere che Sieyès attribuisce alla
nazione: a quella nazione-terzo Stato che egli indica come il motore e il fondamento di legittimità del processo rivoluzionario, a quel vero e proprio potere costituente che ritiene di poter
agire nel vuoto di qualsiasi vincolo o limite.
La sovranità si presenta come un ‘assoluto’ già in questo primo tratto della parabola della
modernità, ma di questa parabola fa parte integrante anche un altro ‘assoluto’: i diritti
dell’individuo; sono i diritti che il giusnaturalismo, da Locke in poi, ha attribuito al soggetto
come una sua espressione immediata ed essenziale; sono i diritti – la libertà e la proprietà – che
la cultura illuministica ha continuato a presentare come il fondamento di un ordine legittimo (e
alternativo agli esistenti regimi cetuali e gerarchici).
La cultura della rivoluzione, nella Francia di fine Settecento, raccoglie ed elabora entrambe
queste convinzioni. La nazione ridefinita da Sieyès, il motore del processo rivoluzionario, il
fondamento del nuovo potere costituente, è il titolare di un potere che si vuole assoluto; ma altrettanto assoluti vengono presentati i diritti fondamentali dei soggetti. L’ordine rivoluzionario è
un ordine dei diritti; e i diritti sono ancora i diritti naturali – libertà e proprietà – teorizzati da
Locke e dal giusnaturalisti settecenteschi. Nel cuore del progetto e della prassi costituente della
rivoluzione si annida ciò che mi piace chiamare un campo di tensione: fra il sovrano, da un lato,
e i diritti individuali, dall’altro lato. Di questa tensione solo pochi protagonisti della rivoluzione
sono compiutamente consapevoli (dobbiamo fare i nomi di Sieyès e di Condorcet): prevale
l’ottimistica considerazione (che era già stata di Rousseau) che il sovrano, illuminato dalla ragione e fondato sul consenso, non può nuocere ai propri membri. In realtà, però, il campo di
tensione è già esistente: diritti e sovrano sono entrambi componenti indispensabili del nuovo ordine e tuttavia sono fra loro virtualmente incompatibili in ragione della loro ‘assolutezza’.
È invece più prudente e più efficace la linea seguita dall’altra grande rivoluzione di fine Settecento, che sfocia nella costruzione degli Stati Uniti d’America. Già nella fase costituente
emergeva nitidamente la preoccupazione di approntare specifiche difese giuridiche nei confronti
dei diritti dei soggetti. Produce importanti effetti in questa direzione l’idea di costituzione: la
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decisione di attribuire alla costituzione una ‘rigidità’ e una ‘inattaccabilità’ inusitate, facendo di
essa uno strumento di contenimento della volontà ‘assoluta’ del sovrano. Un ulteriore elemento
di rafforzamento delle prerogative individuali proviene poi dai primi dieci emendamenti racchiusi nel Bill of rights del 1791. Il conseguimento di questo obiettivo non è però facile e immediato. Basti tener presente che la tensione fra i diritti e il potere può manifestarsi, nel nuovo
ordinamento, a due livelli: al livello federale e al livello dei singoli Stati; ed è solo al primo livello che si riferisce il Bill of rights del 1791, mentre occorrerà attendere il XIV Emendamento,
del 1868, perché anche il secondo livello sia raggiunto.
Resta comunque un punto fermo: il primato della costituzione, rafforzato da una convinzione
circolante già nella fase costituente: la convinzione cioè – espressa efficacemente da uno dei
padri fondatori, Hamilton – che occorresse valorizzare il potere giudiziario e fare di esso il principale organo di tutela delle istituzioni repubblicane e dei diritti individuali. Ed è effettivamente
su questo doppio binario che procede lo sviluppo dell’ordinamento americano. Una tappa decisiva è la famosa sentenza Marbury v. Madison, del 1803, del giudice Marshall che rende possibile il controllo giudiziario degli atti del legislativo e attribuisce ai giudici il ruolo di custodi di
quei diritti intorno ai quali ruota il nuovo ordine politico-costituzionale.
Due retaggi culturali hanno probabilmente sollecitato il nuovo Stato americano verso questa
soluzione: per un verso, l’eredità lockiana, che sollecitava a vedere il baricentro del sistema nei
diritti, piuttosto che nella sovranità popolare (pur essendo anche quest’ultima un fondamento irrinunciabile del nuovo regime) e, per un altro verso, il modello del common law inglese (un diritto essenzialmente giurisprudenziale), che spingeva a vedere nel giudice il naturale elemento
di chiusura dell’ordinamento.
In Francia, e poi in genere in Europa, la tensione i due ‘assoluti’, fra l’assolutezza del sovrano e l’assolutezza del diritto era un problema destinato a rimanere a lungo irrisolto: un vero e
proprio rompicapo teorico, che però non era si esauriva affatto nell’ambito della teoria ma aveva
importanti ricadute politiche e istituzionali.
La tensione esisteva, agli esordi della rivoluzione francese, ma era ancora latente e dissimulata. Essa emerge in tutta la sua portata però già nella fase conclusiva della rivoluzione dove il
conflitto fra i diversi gruppi politici raggiunge l’acme e sfocia nel regime del Terrore. Per il
gruppo più radicale, che diviene egemone nel corso del ’83, la lotta in corso non è un conflitto
politico qualsiasi: è la lotta del bene contro il male, del dispotismo contro la libertà, del passato
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contro il futuro. In un conflitto epocale fra la luce e le tenebre, i princìpi consueti non possono
non subire una radicale trasmutazione. Occorre un governo rivoluzionario, rapido nel colpire il
nemico e quindi dispensato dal rispetto delle regole e delle forme: serve non la tradizionale legalità, ma una nuova legittimità fondata sulla «necessità» e sulla «più santa di tutte le leggi, la
salvezza del popolo». I diritti restano fondamentali, ma possono essere rispettati soltanto in un
futuro dove la rivoluzione abbia trionfato. Al presente, è inevitabile sospendere i diritti e le garanzie e dare al popolo (cioè al gruppo che lo dirige) il potere assoluto, totale di eliminare per le
spicce il nemico.
Il terrore giacobino è l’ultimo atto del dramma rivoluzionario: si consuma in un tempo molto breve ma acquisisce, per le generazioni successive, un valore emblematico; quello di offrire
una drammatica verifica della forza distruttiva e pervasiva del potere e della conseguente fragilità dei diritti. Il campo di tensione fra sovranità e diritti è ormai palese né più risolubile con facili ottimismi.
È questa tensione uno dei grandi problemi affrontati dal nuovo orientamento politico e giuridico che nasce proprio agli inizi dell’Ottocento e prende il nome di liberalismo. Il liberalismo si
misura con l’eredità rivoluzionaria: ne raccoglie alcuni aspetti che considera irrinunciabili perché coincidenti con la civiltà, quali i diritti, la libertà e la proprietà. D’altronde, non è possibile
rinunciare alla sovranità per realizzare un ordine stabile. Come trattare allora la sovranità, come
renderla effettivamente rispettosa dei diritti, è però ora, dopo l’esperienza giacobina, il grande
problema del primo liberalismo e, più in generale, della giuspubblicistica ottocentesca. Il giacobinismo è, per così dire, il trauma originario del liberalismo ottocentesco: è l’esperienza di un
potere incontrollato e tendenzialmente ‘totale’ che cancella i diritti fondamentali dei soggetti.
All’ottimismo settecentesco nei confronti del potere ‘razionale’ subentra la strategia del sospetto
nei confronti del sovrano.
Questa strategia del sospetto nei confronti del sovrano è il cuore della riflessione di uno dei
più brillanti esponenti del liberalismo del primo Ottocento: lo svizzero Benjamin Constant. Il
potere, per Constant, è essenzialmente esposto al rischio, anzi alla tentazione, dell’arbitraire,
dell’espansione incontrollata, con la conseguente compressione delle sfere di libertà degli individui. Il grave errore di Rousseau, stigmatizzato da Constant, è stato ritenere che bastasse traslare il potere dal monarca al popolo per garantire i diritti. Occorre al contrario assumere i diritti
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come il fondamento non negoziabile dell’ordine e al contempo preoccuparsi di limitare il potere, di renderlo controllabile attraverso una sapiente ingegneria costituzionale.
È concreto il rischio di un ritorno del potere giacobino? Di un potere che opprime gli individui e cancella libertà e la proprietà? Per Constant e per gli esponenti del primo liberalismo questo rischio è concreto ed è legato a un’interpretazione radicale dell’eguaglianza: per l’appunto
alle pretese dei nascenti movimenti democratici che reclamano il suffragio universale. Se infatti
adottiamo il suffragio universale avremo un parlamento dove i rappresentanti delle masse non
proprietarie acquisiranno la maggioranza assoluta e procederanno a distruggere (in modo formalmente legittimo) l’ordine fondato sulla libertà e sulla proprietà, cancellando quel primato
della qualità sulla quantità, dell’élite sulla massa, da cui dipendono la civiltà e il progresso. I liberali usano un termine per esprimere questa situazione: la tirannia della maggioranza. Una
maggioranza legittima e tuttavia tirannica perché lesiva di un ordine giuridico (imperniato sulla
libertà-proprietà) di cui il potere dovrebbe essere il custode.
Come difendere allora i diritti dalle minacce del detentore della sovranità? Collegando
l’esercizio del diritto di voto al requisito della proprietà. Questa strategia è essenziale, ma ha un
carattere più politico e sociale che giuridico. È importante anche un altro accorgimento: organizzare il potere in modo che esso agisca nel rispetto delle leggi; fare sì che il potere sia uno
Stato sub lege, appunto uno Stato di diritto.
La legge come vincolo del potere: ratio e voluntas, decisione e controllo, arbitrio e regola.
Questa distinzione è una delle grandi costanti del pensiero occidentale, ma i suoi contenuti cambiano drasticamente a seconda dei contesti. In questo primo Ottocento, che ha alle spalle la rivoluzione e il giacobinismo, è essenziale valorizzare la ratio. Questa ratio però, l’idea di una misura, di un criterio resistente ad ogni arbitrio, non ha più molto a che fare con l’immagine medievale dell’ordine gerarchico e intangibile e si identifica con i diritti fondamentali, che in quel
contesto coincidono con la libertà-proprietà. Il potere a sua volta non ha molto a che fare con
l’innocua immagine della regalità medievale, evoca gli effetti distruttivi del giacobinismo e tuttavia appare, non solo indispensabile, ma essenzialmente refrattario a limitazioni. L’eredità
hobbesiana è ancora forte e ha permeato il concetto di sovranità, anche di sovranità popolare.
L’ordine esiste perché il sovrano (il popolo sovrano) lo vuole. L’ordine dipende dalla volontà
del sovrano; ma al contempo il contenuto più prezioso di quell’ordine sono i diritti fondamentali. Di nuovo, la compresenza di due assoluti genera un campo di tensione difficilmente risolubi-
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le. Per risolvere questa tensione occorrerà mettere a punto una complessa teoria: appunto la teoria dello Stato di diritto, cui si dedicherà la giuspubblicistica tedesca fra Ottocento e Novecento.
PIETRO COSTA