Aspetti socio-culturali del patrimonio territoriale Emanuela Renzetti, Andrea Petrella Dipartimento di Scienze Umane e Sociali Università degli Studi di Trento Il concetto di patrimonio culturale ha subito negli ultimi decenni una vera e propria rivoluzione, ha cioè potuto includere e considerare degno di conservazione, ostensione e valorizzazione quanto per lungo tempo era stato appannaggio esclusivo di gente comune, spesso collocata nella gerarchia sociale piuttosto verso il basso e, altrettanto spesso, territorialmente decentrata, lontana dal potere e dai gangli decisionali [Maggi e Dondona 2006]. Questa trasformazione radicale ha inciso profondamente sulle nostre concezioni, un nuovo modello culturale si è andato affermando, un modello che ci consente di apprezzare oggetti che prima escludevamo come privi di valore, che ci fa ammirare architetture che oggi definiamo tradizionali perché recuperate, ma che prima liquidavamo come fatiscenti, che ci fa ricercare prodotti talvolta alla soglia dell’artigianale che fino a qualche anno fa non avremmo mai voluto acquistare proprio per l’eccessiva semplicità, o rusticità. Se oggi definiamo correttamente il patrimonio come l’insieme delle vite e degli stili di vita delle comunità di uomini e donne, siamo dunque anche disposti ad accogliere l’idea che non solo elementi materiali ma anche immateriali che appartengono a tali comunità rappresentino una parte importante della nostra cultura, particolarmente se si connotano come scelte peculiari di un territorio che hanno avuto lunga durata e si sono distinte per tradizione [Maggi 2001]. Tutto ciò ha a che fare con un sapere cui siamo sempre più propensi ad attribuire segno positivo perché capace ai nostri occhi di essere rivalutato nonostante il tempo; anzi, forse proprio il trascorrere del tempo ci ha indotto a una prospettiva di confronto in cui le pratiche più antiche, i modi caduti in disuso vengono accostati con quanto di più attuale e innovativo abbiamo acquisito. È allora che constatiamo forzature, errori, esasperazioni della contemporaneità e siamo portati a rivalutare equilibrio, esperienza e attenuazione collocandoli talvolta a torto solo nel passato. Un ruolo significativo nel diffondersi e nell’affermarsi del modello e della prospettiva è occupato ad esempio dalle tradizioni gastronomiche o enologiche. 1 A chi non è capitato almeno una volta di scegliere un luogo per consumare un pasto attratto da un’insegna che dichiarava “cucina locale”, o quanti sono riusciti a sottrarsi all’accattivante richiamo di un “menu tipico” del luogo in cui si trovavano a passare, o, ancora, chi non si è lasciato sfuggire almeno una volta nella vita il giudizio che la dice lunga sull’inculturazione alimentare di ciascuno di noi “dalle mie parti lo fanno meglio”? È davvero difficile recidere il legame tra territorio e cultura alimentare! Tutte queste situazioni e mille altre, sono ottime esemplificazioni di quanto i fatti alimentari abbiano a che fare con un determinato ambiente: vuoi perché siamo consapevoli che ad ogni microcosmo territoriale e produttivo può corrispondere un microcosmo culinario, vuoi perché giustamente, pensiamo che il cibo possa avvicinarci meglio, o più di altre esperienze, a realtà che non conosciamo, vuoi perché, ed è una posizione che assumiamo altrettanto di frequente, ci piace cimentarci con il gusto che, in ultima analisi, altro non è se non il nostro senso di appartenenza alimentare [Teti 1999]. In un tempo in cui le contaminazioni, le ibridazioni, le multiculturalità alimentari, e non solo, sono di gran moda, ma in cui sono altresì all’opera raffinate tecniche di persuasione per imporre i prodotti delle grandi industrie alimentari in un regime di abbondanza e di spreco, i richiami alla produzione biologica, alla genuinità tradizionale, ai marchi di qualità si moltiplicano e, non a caso, tutti in relazione alla territorialità. Le zone tipiche, i prodotti tipici, le lavorazioni, le conservazioni, gli invecchiamenti, tutto, insomma, rinvia a luoghi produttivi, spazi abitativi, cucine e culture alimentari peculiari di certe aree geografiche. Il fenomeno, certamente non in questi termini, né con identica funzione è da sempre esistito; se oggi serve a difendere produzioni e a permetterne la commercializzazione in mercati più ampi ed è, quindi, un portato del declinarsi dei processi di globalizzazione postindustriale da un lato, e di quelli di reidentificazione locale, dall’altro, un tempo era di segno differente [Guigoni 2004]. Nel secolo scorso e anche in quello precedente il discrimine dei consumi rendeva ad esempio possibile denominare la popolazione di un paese con il suo cibo abituale e non sempre tale denominazione era priva di una vena critica o talora ingiuriosa. Ciò che ci interessa rilevare è che una simile concezione degli altri e di sé conferma che anche per il passato esisteva la consapevolezza di una stretta identificazione tra territorio, disponibilità e comportamenti alimentari. L’identificazione con un cibo, un piatto, una pianta aromatica, una maniera di cucinare, una tecnica di conservazione, un modo di consumare gli alimenti si afferma nel corso di 2 un lungo periodo segnato da penurie e esperimenti alimentari, da abbondanza e privazioni, da necessità e scelte. Il lungo periodo costituisce un contesto di riferimento irrinunciabile per la comprensione del passato, mentre l’idea di “durevole” che se ne deriva, applicata ad esempio allo sviluppo dell’economia, parte dal presente e si applica al futuro. La nozione di lungo periodo appare dunque strettamente connessa a quella di sviluppo durevole, in una sorta di continuum, saldato dal presente. È a questa concezione forse che varrebbe la pena ispirarsi per provare a parlare di marchi da un punto di vista socio-antropologico, specialmente se l’area cui si è interessati è l’arco alpino. Chiunque abbia a che fare con questo territorio studiandolo nell’ambito delle scienze umane non tarderà a rendersi conto che per molto tempo la nostra catena alpina è stata vista come il luogo delle regolarità e delle costanti deterministicamente imposte dall’ambiente. E’ stato l’approccio ecosistemico a spostare l’attenzione sull’analisi delle relazioni tra popolazioni e risorse, e a porsi come obiettivo strategico la lettura della capacità e delle modalità attraverso cui un gruppo umano adatta la propria consistenza numerica in modo da mantenere la stabilità delle risorse. Le Alpi proprio in quest’ottica hanno presentato agli sguardi dei ricercatori soluzioni diverse, strutture sociali diversificate, regole patrimoniali opposte, fenomeni totalmente divergenti tutti però ispirati da uno stesso principio che oggi chiameremmo sostenibilità. L’ambiente montano non poteva sovraccaricarsi di uomini né di animali, non poteva essere “sfruttato” ma mantenuto. Da quanto lontano venga questo principio è difficile dire certo è che a guardare i primi statuti o le prime carte di regola comunitarie del Trentino parrebbe di poterlo far risalire assai indietro nel tempo. Anche in altre regioni dello stesso arco, però, usi civici, terreni comuni, alpeggi, parti di prati o di boschi da gestire collettivamente o al contrario divisioni territoriali e patrimoniali che salivano da mezza montagna fino in quota hanno giocato la partita (fatte salve le onnipresenti eccezioni) del mantenimento del suolo, delle acque e dei boschi [Nequirito 2002]. D’altro canto l’agricoltura di montagna, faticosa e avara, deve aver ben presto insegnato a tutte le popolazioni che vivevano sui pendii che il sostentamento andava ricercato in un sistema misto, l’agro-silvo-pastorale, e in tanti altri piccoli mestieri cui ci si poteva dedicare durante i rigidi inverni [Coppola 1991]. Dopo secoli di angustie e di ristrettezze 3 aggravate dalle guerre e dalle trincee i montanari -in verità più le montagne che gli abitatori- hanno incontrato il forestiero; prima scienziato curioso e alpinista, poi malato e bisognoso di sole e aria pura, infine, amante della natura e della tranquillità. Tutti costoro hanno trovato nelle Alpi il territorio ideale di studio, sport, terapia e relax, ma non ancora un luogo ricco di un proprio patrimonio culturale. Se nell’Ottocento si fonda così il mito della salubrità del vivere in quota, passeggiando, godendo di paesaggi che elevano lo spirito e bevendo le acque minerali più pure e efficaci, bisogna attendere il Novecento e l’estremo limite dello spopolamento di zone tagliate fuori dal turismo di massa, e lo spartiacque della scomparsa di qualsiasi traccia di vita tradizionale perché si recuperino i saperi delle comunità abbarbicate ai monti. Grandi conoscitori dell’ambiente naturale fatto di rocce, erbe, alberi e fiori; produttori di alimenti preziosi quali il latte e il miele; allevatori e depositari dei segreti della caseificazione, capaci di cavar patate, raccogliere mais, mietere orzo e segale e immagazzinare fieno profumatissimo su chine vertiginose, gli ultimi montanari, in un guizzo di orgoglio, proclameranno non le loro virtù ma i pregi dimenticati delle terre che abitano, quelli in gran parte offuscati dalle piste da sci. Nella riscoperta del proprio passato, del modo di fare e di vivere che non può essere considerato “vuoto a perdere” viene ripristinata una quotidianità che non è quella di ieri ma le somiglia; con essa vengono difese e riprese alcune produzioni tradizionali. L’alimentazione delle Alpi si impone all’attenzione generale per le stesse ragioni che avevano colpito l’immaginario collettivo nel secolo precedente -ma ormai sappiamo che la lunga durata fonda nel presente il durevole-. Quassù tutto è più puro, c’è molto di incontaminato, abbiamo saputo conservare il nostro ambiente e possiamo conservarlo ancora con equilibrio e saggezza. La verticalità insegna la misura! Con la consapevolezza che nel recente passato le popolazioni montane hanno creato all’interno dei propri insediamenti dei veri ecosistemi in grado di garantire il sostentamento alimentare dei membri, l’allevamento di bestiami, la cura del paesaggio, del suolo, del manto boschivo e di quello prativo, dei corsi d’acqua e delle aree coltivate, la società contemporanea ha intrapreso un delicato e talvolta difficoltoso processo di recupero di queste pratiche, che oggi usando il linguaggio della scienza dell’amministrazione o dell’organizzazione chiameremmo good practices. L’ambiente montano, per sua natura vincolante, ha indotto gli abitanti a plasmare, correggere o 4 addirittura inventare le proprie dinamiche e consuetudini demografiche [Baldi e Cagiano de Azevedo 1999] e sociali (natalità, matrimonio, emigrazioni), abitative e alimentari, calibrandole strategicamente al contesto territoriale. È anche per questo motivo che quando si parla di sviluppo sostenibile [Magnaghi 1990; 1998] è impossibile non fare riferimento a tali processi che nel corso di secoli hanno conservato l’ambiente alpino con rigore e passione, in costante equilibrio tra la tutela della natura e il corretto utilizzo a fini alimentari, ma anche tra privazioni e sistemi di sussistenza [Dell’Agnese 1995]. Le Alpi non vanno considerate come un tessuto culturale e sociale omogeneo, ma come un insieme di aspetti culturali distinti e peculiari [Camanni 2002], tuttavia uniti nella diversità e nel continuo misurarsi con quote e clima, con la presenza di risorse idriche e qualità del suolo, con l’esposizione al sole e la pendenza dei terreni, con l’estensione del fondovalle e gli ostacoli naturali, in Piemonte come in Trentino, in Slovenia come in Lombardia. Il tratto comune che interessa la totalità delle vallate dell’arco alpino e le rispettive comunità è, quindi, lo stretto e inscindibile rapporto che le lega all’ambiente inteso come natura e risorse. Come si è detto, se la riscoperta del passato deve essere sempre tenuta in evidenza, altrettanto deve esserlo l’impossibilità di ripristinare tali pratiche nella quotidianità come avveniva “ieri”. Riproporle in modo pedissequo è pressoché impossibile e non terrebbe in considerazione né ibridazioni e rielaborazioni concettuali frutto dell’incontro con altre culture che continuano a realizzarsi, seppure con altra intensità e direzione, né le molteplici esigenze dell’oggi. È tuttavia indiscutibile il valore che ricoprono e che gli antropologi hanno stigmatizzato come saperi diffusi: un insieme di esperienze, di pratiche, di competenze empiriche e non, prive di una vera e propria base scientifica, ma basate nell’empiria, che vanno a costituire l’apparato conoscitivo di una comunità insediata in un determinato territorio e che, forse, non sono più così “diffuse”, data la difficoltà di reperirle e la crescente rarità con cui si presentano ai nostri occhi e alle nostre orecchie. È opportuno, inoltre, abbandonare l’idea di staticità e di arretratezza con cui da decenni la montagna italiana viene descritta, poiché è stato dimostrato in più occasioni come i suoi tratti distintivi siano la mobilità [Albera e Corti 2000] (intesa sia come emigrazione stagionale o di lungo termine, sia come il cosiddetto nomadismo, ovvero la pratica di sfruttare le diverse quote e le diverse stagioni a favore dell’allevamento di bestiame, della coltivazione e dell’apicoltura), le continue mediazioni culturali (frutto di incontri tra 5 popolazioni ma anche dell’accresciuta attrazione che alcune località montane esercitano sui turisti) e i tassi di scolarità sopra la media. La sfida che le Alpi hanno davanti a sé riguarda, quindi, la possibilità reale di intrecciare in modo armonico e, appunto, sostenibile [Magnaghi 1998] il sapere dei propri abitanti (di coloro che sul territorio hanno vissuto e dal territorio hanno tratto insegnamenti, esperienze e saggezze) e l’alta qualità dell’ambiente paesaggistico e naturale (e delle sue produzioni zootecniche e agricole) con la reintroduzione dell’agricoltura di tipo biologico e le aumentate possibilità di commercializzazione e di diffusione dei prodotti tipici che il mercato globale garantisce. A titolo esemplificativo ci è sembrato opportuno prendere in considerazione quattro prodotti territoriali inscindibilmente legati alle Alpi il cui recupero e la cui reintroduzione nelle economie locali segnerebbero un percorso virtuoso e un nuovo, sostenibile atteggiamento nei confronti dell’ambiente. La Vacca Rendena La Rendena è una razza bovina particolarmente adatta all’alpeggio in quota, prova ne è che ancora oggi la quasi totalità delle vacche di questa razza allevate in Trentino (e più del 50% di quelle allevate in Veneto) passano i quattro mesi estivi sulle malghe della Val Rendena, Trentino occidentale (sull’Altopiano di Asiago nel caso del Veneto). Questa situazione è giustificata dall’elevato adattamento della razza al pascolo in zone di difficile accesso e dalla pendenza notevole, in cui bovine di razze a maggiori dimensioni presenterebbero difficoltà. Le popolazioni locali allevano la Rendena già dal 1700, ma nel corso del XX° secolo la razza subì una forte contrazione del numero di capi, per motivazioni di ordine politico e sanitario. Attualmente, anche grazie all’azione dell’Associazione Nazionale Allevatori Bovini di Razza Rendena, i capi sono aumentati e rappresentano un elemento fondamentale sia del paesaggio che dell’economia locale. La Rendena ha, infatti, una duplice attitudine, carne e latte, con propensioni maggiori verso questa seconda produzione. Gli sforzi dell’Associazione e di quanti hanno a cuore questa razza sono volti a promuoverne l’allevamento e la lavorazione del latte, anche attraverso incentivi. Fedeli alle antiche pratiche, gli stabilimenti caseari che lavorano il latte seguono precisi disciplinari che permettono una produzione di qualità, nel rispetto dei principi di sostenibilità. Caratteristiche dell’alimentazione della Vacca Rendena sono, infatti, l’utilizzo del fieno della valle e il pascolamento sui prati di fondovalle e su quelli di mezza e alta 6 montagna. Sono espressamente vietati gli insilati e quegli alimenti che possono alterare il sapore del latte e, di conseguenza, del formaggio. La reintroduzione di questo bovino e il recupero di saperi e pratiche relativi alle sue produzioni sono ottimi esempi di come sia possibile coniugare tradizione e attività economico-produttiva, tutelando il paesaggio naturale (il pascolo curato impedisce l’avanzamento del bosco a quote elevate, l’esclusione dei mangimi permette il mantenimento della cotica erbosa), la qualità finale dei prodotti (assenza di mangimi chimici) e la salute del consumatore. La Pecora Sambucana La pecora di razza Sambucana è allevata quasi esclusivamente in provincia di Cuneo ed in particolare nei comuni della Valle Stura di Demonte, da una quota di 600 fino a 1800 metri. Attualmente la razza è presente nella valle con una consistenza numerica di circa 4500 capi distribuiti in una sessantina di allevamenti. La sua presenza ha origini molto antiche e, secondo le ricerche condotte da alcuni studiosi, peraltro avvalorate dalle testimonianze di allevatori locali, sarebbe sempre vissuta in questa zona favorita da un habitat ricco di numerosi ed ampi pascoli. Tale tesi trova conferma nell’esistenza di una pecora che l’ambiente ha reso agile e nello stesso tempo robusta, adatta a vivere in un ambiente dove il clima muta rapidamente e dove da sempre l’allevamento ovino ha rappresentato la possibilità di sfruttamento dei pascoli di alta quota. Si tratta di un animale particolarmente rustico ed adatto all’ambiente in cui vive: trascorre infatti il periodo di alpeggio estivo su pascoli rocciosi, disagiati, pietrosi e ripidi, con temperature rigide nei mesi primaverili ed autunnali e durante la notte. Trascorre, invece, il lungo periodo invernale nella stalla, nutrendosi con solo fieno prodotto in loco. La sua grande agilità le permette di percorrere ripidi canaloni, scoscesi pendii, attraversare pareti rocciose seguendo intelligentemente i sentieri scavati nella roccia per raggiungere le vette e brucare gli ultimi ciuffi d’erba. La Pecora Sambucana è un’ottima produttrice di carne, latte e lana. Come nel caso della Vacca Rendena, la sua reintroduzione – promossa soprattutto dall’Ecomuseo della Pastorizia nel comune di Pietraporzio (CN) – ha un altissimo valore simbolico poiché riunisce in sé aspetti ambientali (l’utile sfruttamento dei prati in alta quota), economici (produzione di manufatti con la lana, prodotti caseari e carne pregiata) e sociali (recupero delle tradizionali pratiche di allevamento basate sul cosiddetto nomadismo e garanzia per il consumatore di alimenti sani e controllati). 7 Il Grano Saraceno Il Grano Saraceno è una pianta erbacea annuale che può raggiungere l’altezza di un metro. Produce un solo stelo cavo, succulento e molto fragile che presenta numerose ramificazioni. Dalla sua granella si ricava, dopo la macinazione, una farina “bigia” dalle elevate qualità nutrizionali e salutistiche, utilizzata nella preparazione di piatti tipici come i pizzoccheri, la polenta nera, dolci e biscotti. Caratteristica peculiare del Grano Saraceno è quella di presentare un ciclo vitale estremamente breve (da 60 a 90 giorni) che ne consente la coltivazione anche in altitudine come seconda coltura dopo altri cereali. In virtù della velocità di germinazione e di sviluppo iniziale la coltura non richiede normalmente interventi diserbanti né l’utilizzo di antiparassitari. È molto adatto a climi freddi, a terreni a forti pendenze, magri e di scarso spessore. Questo grano per fecondarsi ha bisogno dell’azione dell’ape: la dipendenza dall’azione di impollinazione è così forte che dove la coltivazione era centrale nell’economia del territorio era anche molto diffusa l’apicoltura. Il miele era uno dei più rari in Italia e presentava un colore scuro e un aroma forte. Anche per il Grano Saraceno è utile parlare di nomadismo, poiché fiorendo in agosto, in un periodo in cui alle quote basse scarseggiano fioriture interessanti, molti apicoltori effettuavano del nomadismo estivo su questa coltura trasportando in alta quota le arnie. Il Grano Saraceno è originario della Cina (Himalaya orientale), dove è utilizzato per produrre pane e fu introdotto dapprima nell’Europa dell’Est, mentre in Italia raggiunse una diffusione notevole sulle Alpi nel ‘600 e nel ‘700. Questo cereale ha contribuito in maniera fondamentale a garantire il soddisfacimento del fabbisogno alimentare, soprattutto durante le carestie. Dalla seconda metà del XX° secolo, però, questa coltura è andata incontro ad un forte periodo di crisi: la produzione ha subito una brusca interruzione. Le cause principali dell’abbandono sono essenzialmente legate a considerazioni economiche, ma anche a dinamiche sociali: difatti era prevalentemente localizzata negli appezzamenti meno fertili, i primi ad essere abbandonati, e richiedeva un notevole impegno di mano d’opera per le operazioni di raccolta sui pendii o sui terrazzamenti. Anche il cambiamento delle abitudini alimentari ha contribuito al suo abbandono, insieme all’avvento del turismo che ha sostituito il settore primario nelle economie di montagna. 8 Attualmente, in assenza di produzione nazionale di una certa rilevanza, i fabbisogni interni sono soddisfatti attraverso l’importazione dalla Cina. Tuttavia, il Grano Saraceno è in fase di reintroduzione in Piemonte, in Brianza, in Valtellina e sull’Appennino centrale, grazie a iniziative di istituti sperimentali, azioni Leader, presidi Slow Food e singoli coltivatori. Date le sue caratteristiche, la pianta si inserirebbe a pieno titolo nel circuito di commercializzazione dei prodotti biologici e promuoverebbe un’agricoltura di montagna ormai ridotta a produzioni marginali. Un’ultima non trascurabile ragione per diffondere la coltivazione del Grano Saraceno nelle zone montane è il valore estetico della coltura che può contribuire significativamente a migliorare la qualità del paesaggio. Se è vero che all’agricoltore delle zone montane verrà in futuro affidato sempre di più il ruolo di custode e tutore del territorio e delle tradizioni culturali del passato, oltre che di produttore di alimenti non ottenibili nelle zone agricole tradizionali, certamente il Grano Saraceno potrà svolgere un ruolo non secondario in quanto coltura esteticamente gradevole, non inquinante e capace di fornire prodotti con caratteristiche nutrizionali e organolettiche uniche. Il miele Alcune qualità di miele, come quello di rododendro, si producono esclusivamente nell’arco alpino ad altitudini variabili, spesso anche molto elevate. La produzione di queste tipologie di miele si effettua con una faticosa transumanza (ancora il nomadismo) degli alveari, dal fondovalle alle quote più alte. L’utilizzo di queste tecniche comporta dei costi di produzione elevati che uniti all’instabilità delle condizioni meteorologiche in quota concorrono ad ottenere produzioni quantitativamente minori rispetto all’apicoltura di mezza montagna o di pianura. Nelle Alpi la produzione di miele ha origini remote e nel corso del tempo ha visto diversificare le proprie qualità (Castagno, Tiglio, Robinia, Millefiori, Rododendro, Flora Alpina), andando a costituire un’importante integrazione di reddito nell’ambito dell’economia debole dell’area montana. I quattro esempi riportati sono emblematici delle enormi potenzialità che la reintroduzione di antiche produzioni con metodologie appropriate ed ecologicamente sostenibili può comportare, rivitalizzando settori ormai abbandonati. Ma in che modo si possono “garantire” queste e molte altre produzioni alpine? In che modo si possono tutelare dagli inevitabili tentativi di imitazione, magari frutto di 9 procedimenti non rispettosi nei confronti della materia prima stessa e della salute del consumatore? La risposta a questi interrogativi sembra essere stata individuata nei cosiddetti marchi di qualità, le certificazioni che le istituzioni conferiscono a quei prodotti tipici, tradizionali, locali, derivanti da un legame con il territorio di produzione della materia prima o anche solo per la trasformazione o, ancora, per entrambe gli aspetti. Sono, quindi, chiamati prodotti tipici quelli che si fregiano di un riconoscimento ufficiale (DOP e IGP) e prodotti tradizionali quelli che pur essendo caratteristici di un determinato territorio non hanno nessun riconoscimento [ISMEA 2006]. Un marchio come DOP o IGP permette di ricostruire in maniera documentata le varie fasi del percorso di un prodotto (tracciabilità), con la finalità di garantire al consumatore l’identità di chi materialmente produce, trasforma o manipola quanto trova sugli scaffali di un negozio. La crescente esigenza di recuperare tali informazioni relative a ciò che si mangia sta contribuendo a ricucire lentamente il legame tra territorio e produzione, tra paesaggio, clima, quota, storia e tradizioni, poiché è sempre il territorio – attraverso i suoi abitanti – il vero custode delle lavorazioni tradizionali e artigianali, quelle stesse che insieme alle materie prime impiegate si crede forniscano all’alimento le tanto apprezzate qualità organolettiche. Oggi abbiamo un vastissimo elenco di prodotti tipici. Oltre a quel centinaio che risponde a marchi DOP e IGP, ci sono oltre 3000 prodotti tradizionali individuati dalle regioni per superare i vincoli imposti dalla legislazione sanitaria [ISMEA 2006]. Ma l’inserimento di un prodotto nell’elenco regionale non è costitutivo di diritti e l’eventuale riferimento al nome geografico non costituisce riconoscimento di origine o provenienza del prodotto dal territorio al quale è riconducibile. Probabilmente essi sono destinati a ricevere nel tempo un assetto più stabile, che potrà essere il risultato o di un riconoscimento comunitario che valorizzi il rapporto con il territorio (DOP o IGP) o di forme di tutela affidate ad istituzioni locali. Si pone con forza la necessità di garantire la relazione tra prodotto e territorio, tra valore della tradizione e pratiche di lavorazione; tuttavia, ad una prima osservazione del fenomeno, ci sembra opportuno segnalare una – forse – eccessiva presenza di marchi. Oltre ai già citati Prodotti Tradizionali Regionali, a quelli DOP (Denominazione d’Origine Protetta) e a quelli IGP (Indicazione Geografica Protetta), ed escludendo dal ragionamento i vini (che hanno una storia ed una tradizione a parte), si assiste ad una 10 moltiplicazione e, quindi, ad una sovrapposizione di marchi a garanzia della qualità e dell’origine territorialmente e culturalmente definita di un dato prodotto. Ecco allora i prodotti STG (Specialità Tradizionale Garantita), i prodotti DE.CO. (Denominazione Comunale d’Origine), quelli garantiti dai presidi Slow Food e quelli a marchio biologico. Non è nostra intenzione in questa sede esaminarne le differenze e le peculiarità, ma è difficile non notare come un numero e una varietà così alti possano generare confusione sia nel consumatore, sia nel potenziale produttore che per la prima volta si affaccia in questa “giungla” così frammentata. In questo scenario, la proposta di creare un nuovo, ulteriore marchio di qualità appare un po’ paradossale, ma è facilmente spiegabile. Un marchio unico per tutti i prodotti alpini potrebbe, infatti, sostituire o affiancare il già affermato DOP (che presenta requisiti più restrittivi rispetto alla IGP) e soppiantare i marchi regionali, locali o comunali. I prodotti e le materie prime dell’arco alpino possiedono caratteristiche che rendono possibile accomunarli, pur consapevoli delle infinite diversità che sussistono. Potenzialmente il Marchio Alpino avrebbe un grande impatto sul mercato e “premierebbe” quei prodotti o quelle pratiche totalmente legate alla tipicità del territorio, alla sua morfologia, al suo clima e alla sua salubrità. Le caratteristiche dei prodotti riscontrabili in tutte le vallate delle Alpi sono riassumibili come segue: produzioni basate su coltivazioni ed allevamenti tipici del territorio (per quanto riguarda le materie prime) e su particolari processi di lavorazione/trasformazione di tali materie in loco; utilizzo esclusivo delle tecniche di coltivazione e allevamento biologiche; nomadismo come pratica prevalente per l’allevamento e la coltivazione; consumo del territorio sostenibile e non irreversibile; produzioni rispettose delle tradizioni locali e dell’ambiente naturale. La presenza di questo marchio faciliterebbe anche la comunicabilità dei prodotti alpini e, quindi, la loro diffusione. L’obiettivo, oltre alla garanzia di prodotti sani e non dannosi per l’ambiente montano, è quello di sfruttare positivamente l’immaginario collettivo della montagna, costituito da elementi come la salubrità e la genuinità. Il Marchio Alpino sarebbe estensibile a tutti i territori montani in grado di garantire una completa sostenibilità delle proprie produzioni e si fonderebbe sul costante e imprescindibile apporto dei “saperi diffusi”. 11 Riferimenti bibliografici ALBERA Dionigi, CORTI Paola (a cura di) 2000 La montagna mediterranea: una fabbrica d’uomini?: mobilità e migrazioni in una prospettiva comparata (sec. XV-XX), Cavallermaggiore (CN), Gribaudo BALDI Stefano, CAGIANO DE AZEVEDO Raimondo 1999 La popolazione italiana. Storia demografica dal dopoguerra ad oggi, Bologna, Il Mulino CAMANNI Enrico 2002 La nuova vita delle Alpi, Torino, Bollati Boringhieri COPPOLA Gauro 1991 Equilibri economici e trasformazioni nell’area alpina in età moderna, in COPPOLA G., SCHIERA P. 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