FRANCESCO D’ISA IL CINEMA E LA SHOAH 33 FILM, 65 ANNI, 1 STORIA DEL NOVECENTO CODICE: T17.14 NOTA DELL’EDITORE Francesco D'Isa, D'Isa, nel nel suo Il Cinema e la Shoah, ripercorre, come da sottotitolo, in 33 film, attraverso 65 anni, 1 storia del novecento, trattata dal cinema, in più di mezzo secolo, in chiave farsesca, propagandistica, comica, mitica, mistica, favolistica, documentaristica, melodrammatica, teatralizzante, teatralizzante, ricostruttiva, dialettica, retrospettiva e prospettiva insieme. Gaetano Alicata Questa rassegna cinematografica comincia significativamente con due film del fatidico 1940, a modo loro opposti, trattandosi di un film statunitense, un’aperta farsa dei fenomeni totalitaristici europei, in particolare del più estremo di essi, quello nazista hitleriano, del quale il secondo viceversa fa un’aperta, dichiarata propaganda. Il film di Ernst Lubitsch, di due anni dopo, rappresenta ancora una volta come in Charlie Chaplin il totalitarismo in chiave comica, com’è logico per un maestro della cosiddetta Screwball comedy del calibro del grande regista, di origine tedesca come tanti altri del tempo, emigrati negli Stati Uniti, per ironia di una sorte, spesso tragicamente determinata dalla temperie negativa in patria oltre che da legittime individuali aspirazioni hollywoodiane. Una sorta di maledizione accomunò questo film a quello di Veit Harlan: i due protagonisti di entrambi, Carole Lombard e Ferdinand Marian, morirono tragicamente, la prima durante le riprese in un incidente aereo, il secondo pare suicida per la vergogna generata in lui dall’avere svolto quella orrenda parte. I due film del 1947 mostrano due maniere cinematografiche articolarsi su temi medesimi: il film italiano recupera modi melodrammatici debitori del cinema francese dell’epoca, non collegandosi affatto alla neonata corrente indigena neorealistica, che viceversa innerva il film di Elia Kazan (e ciò non sembri paradossale poiché il neorealismo cinematografico italiano era stato per lo più una scoperta della critica statunitense). Il cinema francese invece presenta un vero e proprio atto conoscitivo dell’effetto più tragicamente assurdo della già tragica ascesa, stasi e caduta dei totalitarismi, in particolare di quello nazista che ne era stata la causa diretta e che veniva messo in implacabile stato di accusa dal documentario di Alain Resnais, che dava forma artistica e globale a quella conoscenza che già un precedente documentario statunitense, Nazi Concentration Camps del “tenente colonnello” George Stevens, nel 1945 aveva reso parzialmente pubblica. Al film-documentario di Resnais un altro francese, Robert Bresson, risponde nello stesso 1956 con un film metafisico sul tema della libertà, senza attori professionisti come se fosse un documento, e con minimi riferimenti storici come se fosse un’astrazione favolistica, servendosi anche lui della feroce stagione dittatoriale nazista. Negli anni immediatamente successivi, prima il polacco Andrzej Wajda introduce quella fenomenologia debitrice della letteratura russa dell’ottocento per cui la storia è soprattutto storia di anime, attraverso i suoi “dannati della terra” emergenti da un decisivo e bel dittico, di cui il primo, Kanal, è emblematica riproposizione di un dantesco inferno dostoevskijano. Poi c’è il classico The Diary of Anna Frank, con cui proprio Stevens, che da combattente aveva scoperto e “girato” per primo gli orrori dei campi di concentramento, riscopre e rigira per Hollywood l’orrore della deportazione nazista. Dopo avere trattato in modo semidocumentaristico i fatti di Algeri, l’italiano Gillo Pontecorvo fa anche i conti con l’universo concentrazionario di Kapò, adottando un certo tono melodrammatico più sulla scia del film di Goffredo Alessandrini che su quella del neorealismo rosselliniano di Roma città aperta (o su un registro stilistico nettamente inferiore di Roma città libera di Marcello Pagliero, del 1948). Nel 1961 esce un documentario, Les temps du ghetto, di Frédéric Rossif, autore due anni dopo anche di Mourir à Madrid, che documenta le premesse spagnole della successiva disfatta nazifascista, ma soprattutto il film di Stanley Kramer sul processo di Norimberga, tratto da un precedente lavoro televisivo. Nel 1963 è un film di ricostruzione documentaria a rifare i conti con la persecuzione e lo sterminio nazista. Si tratta del bellissimo film del polacco Andrzej Munk, che morendo due anni prima in un incidente automobilistico lo aveva lasciato incompiuto. Nel 1965 a un film di Sidney Lumet, che mette in scena più l’impianto psicologico per così dire universale dell’essere ebraico che la memoria storica e particolare delle persecuzioni, fa quasi da contraltare un film di Kramer, che qualche anno dopo avere diretto il film sul processo di Norimberga del 1948 retrocede di una quindicina di anni e inquadra in un luogo all’apparenza senza tempo e senza spazio, una “nave dei pazzi” metaforica, l’illogica e per altri aspetti comprensibile indifferenza (forse incomprensione) della upper-class tedesca del 1933 rispetto all’arrembante ascesa di Hitler e del nazismo, tema questo che viene ripreso e rivestito di debordanti effetti barocchi, nonché intessuto di atmosfere decadenti sinesteticamente cromatiche e musicali insieme, da Luchino Visconti nel suo La caduta degli dèi del 1969. Più significativo dal punto di vista etico, continua questo tentativo di ripresa storica e civile dal sentimento del martirio e dell’oppressione in un altro film di Wajda del 1970, mostrando in una prospettiva mutata e incline a nuovi sentimenti e sensazioni l’uomo dopo la persecuzione e il “paesaggio dopo la battaglia”. Il superamento del dramma storico in una prospettiva più universale e dialettica attraversa alcuni film della metà degli anni settanta, fra cui il ritratto psicologicamente ambiguo che del giovane contadino francese Lacombe Lucien dà Louis Malle, mescolando finzione e realtà con tecniche semidocumentaristiche, la ripresa di temi e atmosfere viscontiane in due film italiani, Il portiere di notte di Liliana Cavani e Salon Kitty di Tinto Brass, che fonda e fonde in questo film il suo passato per certi versi “impegnato” col suo futuro “erotico” e introduce, come la Cavani e come prima Visconti, l’ambiguità sadica e dostoevskijana nel rapporto fra vittima e carnefice, perseguitato e persecutore, sopravvissuto e sopravvivente. Ciò che nei due film precedenti si ambienta nella rivisitazione, quasi mitica, onirica e wagneriana, della parabola nazista, P. P. Pasolini lo realizza con più “nera” nettezza nel necrologio delle orrende giornate dell’agonia fascista di Salò. Infine Joseph Losey ambienta a Parigi l’ambivalente ritratto dell’usuraio Klein, fra echi e reminiscenze kafkiane e ancora una volta dostoevskijane. Anni ottanta e il nazismo diventa teatro tragicomico, in Le dernier métro di François Truffaut, in Mephisto di Istvàn Szabò e in Sophie's Choice di Alan J. Pakula, forse anche sulla scia di uno stravagante film dei tardi anni settanta come Our Hitler, alternativo titolo di Hitler, ein Film aus Deutschland, del 1978, di Hans Jürgen Syberberg, un film lunghissimo di oltre sette ore e girato interamente in studio (con un enorme schermo per front projection, dentro cui azioni documentarie e ricostruite si sovrappongono alla recitazione degli attori in primo piano): qui Hitler, sorta di show man, sosia di sé stesso, viene inquadrato come esemplare lascito dell’espressionismo tedesco più truce e intravisto come truculento interprete della cultura tedesca più facilmente addomesticabile e della sua psicologia più manipolabile. Torna al tema della delazione e della complicità anonime Malle e, dopo la figura dell’adolescente Lucien Lacombe, il suo Au revoir, les enfants rilegge il passaggio psicologico fra infanzia e età adulta, già carissimo all’altro regista francese Truffaut, nel quadro macrostorico della grande tragedia apocalittica della deportazione antisemita. L’americano Jerry Schatzberg conclude questa teatralizzazione cinematografica dell’argomento storico, grazie anche al libero adattamento dato da Harold Pinter al romanzo breve del tedesco Fred Uhlman, Reunion, in un film dal titolo omonimo, dove torna il tema dell’amicizia adolescenziale del film precedente di Malle, soltanto che qui essa viene vista dal punto di vista distanziato e analettico della vecchiaia, quindi in chiave unicamente di memoria sentimentale, ridata cinematograficamente dal flashback ricorrente e rincorrente la storia, epica e individuale. Un film sulla memoria, sentimentale ma anche e soprattutto realisticamente ricostruttiva, è anche Schindler's List di Steven Spielberg, che accompagna la tensione dialettica fra il passato da ricostruire per dare un senso ulteriore alla sopravvivenza e un presente riadattato a quest’ultima attraverso l’alternanza fra il bianco e nero del passato, pressoché l’intero film, e il colore, il presente, che diventa così nient’altro che una cornice sbiadita. Ciò che resta nitida è la tragedia, salvaguardata dallo splendido nitore del bianco e nero, insomma un trucco scenografico e un trucco della ragione, l’unico possibile per sopravvivere, e il List del titolo, oltre che regolarmente “Lista”, potrebbe anche tradursi in lingua ebraica “Trucco”. La septième demeure di Marta Meszaros non è altro che la camera a gas di Auschwitz, dove viene reclusa l’allieva del filosofo esistenzialista tedesco Husserl, convertitasi al cattolicesimo, Edith Stein, di cui questo film dà una commovente e austera nello stesso tempo biografia, quasi una esemplare agiografia. Il terzo millennio si apre con un buon film didascalico di Yurek Bogayewicz, che anticipa di poco il capolavoro di Roman Polanski. The Pianist di quest’ultimo si propone riuscendoci al meglio di coniugare l’esperienza personale, vissuta e meditata, con la matura vena drammaturgica, che è ormai a sua volta una seconda biografia del grande regista polacco, che immette in questo film, definitivo e sommatorio, tutta la sua storia e tutta la sua arte cinematografica, e compone un mosaico, rettilineo e ordinatissimo, del caos e della irregolarità della storia e dell’esistenza, ma anche una musicale e visiva miscela delle arti più consone alla sua cultura, alla sua storia e alla sua geografia estremamente personali. Perciò in questo film risenti le influenze del teatro e della letteratura, l’atmosfera europea e quella americana, le tragedie personali e collettive riviste anche in chiave disincantata, beffarda e spesso parodica: ritroviamo, così, direttamente Varsavia e Chopin, ma indirettamente, forse involontariamente, ritornano i fantasmi del passato e intorbidano il presente, come quello della moglie Sharon Tate, realmente e barbaramente trucidata nel 1969. Non sarei andato oltre in questa rassegna cinematografica legata al fenomeno della shoah, ritenendo l’esito di Polanski il migliore e più significativo possibile, se non fosse che nel 2005 è uscito un film, piccolo e delizioso pur nella tragedia raccontata, Sorstalansàg dell’ungherese Lajos Koltai, un’altra storia di adolescenza rapita, di gioventù incompresa, un altro “essere senza destino” (come il titolo del romanzo da cui è tratto), ritratto ancora una volta a colori e in bianco e nero, ancora una volta quasi a dare persino con le scelte cromatiche il sentimento di una tragedia incomprensibile e la ragione di un presente comunque presente e forse ancora vivo. Un condamné à mort s'est échappé Fra 1956 b\n 102' Robert Bresson Bresson. Lione 1943, prigione di Montluc: il tenente Fontaine, uomo della Resistenza condannato a morte, prepara minuziosamente la fuga dal carcere nazista. Ispirato da un articolo autobiografico di André Devigny (che seguì le riprese come consulente tecnico), iil film è preceduto da un cartello: "Questa storia è vera. Io ve la racconto com'è, senza ornamenti". Per il suo quarto film a lungometraggio (il primo senza attori professionisti), Bresson riduce al minimo i riferimenti storici e concentra la sua attenzionee sull'atmosfera e sul rapporto metafisico dell'uomo con la libertà, costruendo il film con una lunga serie di primi e primissimi piani dei volti dei protagonisti, ma soprattutto delle mani e degli oggetti con cui Fontaine cerca di preparare la fuga. La Messa ssa in do minore di Mozart contrappunta, mescolata ai rumori reali dei passi o delle chiavi, una successione di inquadrature in dissolvenza. Per Truffaut "il film francese più decisivo degli gli anni cinquanta". c Kanal Pol 1957 b\n 94' Andrzej Wajda. Wajda Tratto dal racconto omonimo di Jerzy Stefan Stawinski, sceneggiato dallo stesso. Fotografia di Jerzy Lipman. Musica di Jan Krenz. Questi dannati della terra, "I dannati di Varsavia" Varsavia", luridi, puzzolenti, irriconoscibili, che combattono senza speranza la lor loro ultima battaglia nel sottosuolo, sono i morti di domani, hanno scelto liberamente di entrare già vivi nella fossa per non accettare la schiavitù dell'oppressione. Wajda è stato sempre un regista osteggiato dalle autorità comuniste che vedevano nella sua tematica di disperazione una componente antimarxista. Per il suo secondo film, Andrzej Wajda chiede a Jerzy Stefan Stawinski di sceneggiare un suo racconto autobiografico, censurato durante lo stalinismo: specie di discesa dantesca nel sottosuolo di una città, città, di una nazione e della sua storia. Il film vuole dimostrare che l'insurrezione insurrezione armata aveva portato solo dolore e morte alle giovani generazioni, lontano dalla retorica ufficiale, per cui fu accolto freddamente in patria. Nonostante le ristrettezze pr produttive, oduttive, Kanal è invece di una grande ricchezza emot emotiva e visiva e l'abilità abilità con cui Wajda tiene alta la tensione giustifica appieno gli elogi che accompagnarono la presentazione del film al Festival di Cannes, dove otterrà il Premio speciale speciale della giuria. giuria La tragedia dell'oppressione oppressione e l'eroismo l esente dalla retorica rica sono i temi principali di "II dannati di Varsavia" Varsavia raffigurati da Wajda con immagini violentemente suggestive e non prive di una carica simbolica improntata aad una visione pessimistica dell'esistenza. esistenza. Tutto ciò è rappresentato da Wajda con un gusto per gli effetti tti e i contrasti violenti. violenti Popil i diament Pol 1958 b\n n 106' Andrzej Wajda. Finita la seconda guerra mond mondiale, iale, il primo giorno di pace. Wajda al suo terzo film continua a "scavare nella formazione di un nuovo che nasce malato" e rovesciando le prospettive del cinema zdanoviano racconta la storia di un perdente, di un non integrato. Tratto dal romanzo di Jerzy Andrzejewski (anche cosceneggiatore con Wajda) "Cenere e diamanti" riesce perfettamente a descrivere il "meschino grigiore della nuova Polonia" a cui si oppone il dramma di una gioventù tradita dalla politica. Evitando accuratamente ogni tipo di manicheismo, Wajda descrive l'assassino e il perseguitato come vittime, decise comunque nel rivendicare il passato, per quanto impuro e squallido possa essere. Il titolo è tratto da un verso di Norwid e la scena finale, con Maciek (Zbigniev Cybulski) che muore al suono di una macabra polonaise è un'allusione llusione alle Nozze di Wyspianski. Il film fu presentato in una sezione collaterale di Venezia e immediatamente considerato il più bel film mai realizzato in Polonia (ai tempi furono obbligatori i paragoni con "Gioventù bruciata",, oggi colpisce soprattutto per lo stile barocco e liricheggiante, abbon abbondante dante di simbologie simbologie). The Diary of Anna Frank Usa 1959 b\n 156' George Stevens. Stevens Adattamento della commedia di Frances Goodrich e Albert Hackett, Hackett, tratta dal celebre "Diario" di una ragazza ebrea, che nel 1942 cercò invano scampo nell'Olanda invasa dai nazisti. Il film vinse l'Oscar per la fotografia (di Mellor), la scenografia e la migliore attrice non protagonista (Shelley Winters). Millie Perkins, Perkin nei panni di Anna, invece, venne ritenuta inadeguata e non sfondò mai ad Hollywood. Stevens - che come operatore dell'esercito americano aveva filmato uno dei documentari più sconvolgenti, quello della liberazione di Dachau - dirige con nobili intenzionii e con la cura consueta e riesce a tenere sempre alta la tensione (pur non uscendo mai, per quasi tre ore, da un appartamento). Ship of Fools Usa 1965 col 150' Stanley Kramer. Agosto 1933, il nazismo è già nell'aria, ma un gruppo di incoscienti ricconi fa una traversata da Vera Cruz a Bremerhaven su una nave di linea tedesca. Tratto dal romanzo-fiume romanzo di Katherine Ann Porter, il film vorrebbe essere una specie di ritratto dell'umanità dell'um ("Questa è una nave di pazzi" dice il personaggio interpretato da Michael Dunn "e se guardate bene può darsi che a bordo ci troviate voi stessi"): c'è la divorziata che ha perso ogni illusione (Vivien Leigh), gli amanti proibiti (Oskar Werner e Simonee Signoret), lo sportivo caustico (Lee Marvin), ma l'aria da melodramma polveroso e la regia piatta e stanca offuscano la buona recitazione degli attori. Due Oscar immeritati: miglior fotografia (Ernest Laszlo) e scenografia. La caduta degli dèi Ita 1969 col 155' Luchino Visconti. I drammatici giorni dell'ascesa del nazismo, tra l'incendio del Reichstag (27 febbraio 1933), la "notte dei lunghi coltelli" (30 giugno 1934) e il plebiscito nella Saar (gennaio 1935) raccontati attraverso le vicende di una famiglia fa di industriali tedeschi dilaniata dalla corruzione e dalla lotta per il potere. "Ho voluto fare un Macbeth moderno, dove gli dèi si mescolino agli umani: lo strumento del loro potere è il denaro, il tempio della loro caduta la fabbrica irta di ciminiere". ciminiere". L'atmosfera decadente e crudele del nuovo regime è raccontata senza nessuna preoccupazione realistica, in un affresco sontuoso e impressionante, con la cadenza opprimente e apocalittica del dramma wagneriano. Ma dopo una prima parte molto serrata (la (l cena della famiglia Von Essenbeck) la tensione del film si sfrangia in una serie di scene sulle tare dei borghesi (Martin (Martin-Berger Berger che imita la Marlene del Der blaue Angel, lo stupro incestuoso tra madre-Thulin madre e figlio-Berger) Berger) e sul fascino luciferino del male crescente, cadendo così in una serie di eccessi melodrammatici. La tesi poco convincente del film è che il nazismo non abbia ucciso né fagocitato la borghesia industriale, che invece sseppe eppe sopravvivergli sopravvivergli. Kraj obraz po bitwie Pol 1970 col 109' Andrzej Wajda. Dopo la liberazione dal campo di concentramento tedesco i prigionieri polacchi sono raccolti per lo smistamento: fra di loro c'è un poeta (Daniel Olbrychski), ossessionato dalla fame e fanatico dei libri, che intreccia una relazione senza speranza con una giovane ebrea. Ispirato ai racconti del giovane Tadeusz Borowski, realmente scampato al lager nazista, "Paesaggio dopo la battaglia" affronta il dramma della Polonia e dei polacchi senza il cupo fatalismo delle prime opere di Wajda, ma anzi sottolinea la necessità di liberarsi dalla malattia del martirio. Lacombe Lucien Fra\Ita 1974 col 135' Louis Malle. Nel 1944 Lucien Lacombe (Pierre Blaise), un contadino francese diciassettenne, viene rifiutato dalla Resistenza e si unisce alla Gestapo: innamoratosi di una ragazza ebrea, France, ucciderà un ufficiale tedesco e fuggirà con lei verso i Pirenei, ma verrà catturato dai partigiani e fucilato. Un film che indaga il confine tra il traditore e l'eroe, che suscitò molte polemiche per l'ambiguità della sua tesi, che offre un'immagine non riconciliata e programmaticamente "sgradevole" di quegli anni. Sul mito della Resistenza in crisi, Malle innesta le debolezze psicologiche di Lucien, raccontate forse con eccessiva partecipazione emotiva. L'uso di attori non professionisti e di tecniche di ripresa semidocumentaristiche, con la macchina da presa a spalla, sottolineano maggiormente la voglia di confondere finzione e realtà, dando al film un senso di disperazione e di angoscia, sue grandi qualità. Ottima la ricostruzione d'epoca, molta musica jazz del leggendario Hot Club de France e grande senso del paesaggio nella fotografia di Tonino Delli Colli. Colli Au revoir, r les enfants Fra 1987 col 103' Louis Malle. Gennaio 1944: nel collegio Sainte Sainte-Croix Croix il giovane Julien diventa amico di un nuovo convittore, Jean, arrivato da poco con altri due compagni. Ma una denuncia anonima avverte la Gestapo che i tre sono ebrei: verranno deportati insieme al direttore del collegio. Ispirato a un fatto vissuto da Malle, il film racconta con tono sommesso e a tratti commovente la fine dell'infanzia e il traumatico inizio dell'età adulta (interessante la figura del giovane che fa la spia, quasi per vendicarsi di un handicap fisico e della povertà). Molto belle la lettura "proibita" delle "Mille e una notte", la corsa nel bosco e la proiezione in collegio di "Charlot emigrante". Applauditissimo Leone d'oro a Venezia. zia. L'edizione italiana è stata curata da Franco Brusati. Francesco D'Isa è docente di Italiano e Latino presso il Liceo "E. Vittorini" di Lentini (Sr). (Sr). COLLANA DIDATTICA DELLO STESSO AUTORE: Editi • Il Cinema dei dei Vampiri • Medioevaleggiante • I buchi nel cuore cuore • Visti da François Truffaut • Una Postilla su Dino e Sibilla Sibilla STUDIOMUSICALICATA - edizioni musicali C. DA SAN GIOVANNI LARDIA - 96017 NOTO (SR) - ITALIA - TEL: 328.4650606 - FAX: 0931.1846143 E-MAIL: [email protected] - WEB: WWW.STUDIOMUSICALICATA.COM WWW.STUDIOMUSICALICATA.COM COPYRIGHT 2014 -PROPRIETÀ PER TUTTI I PAESIPAESI-TUTTI I DIRITTI SONO RISERVATI A TERMINE DI LEGGE.
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