Il sogno della Grande Albania risveglia la

Il sogno della Grande Albania
risveglia la polveriera-Balcani
Gli scontri durante la partita fra Serbia e la nazionale eli Tirana riportano agli Anni 90
STEFANO GIANTIN
BELGRADO
V
entidue uomini in campo a inseguire un pallone, la folla furiosa che
più che incitare la propria squadra insulta gli
avversari. Secoli di rivalità, di diffidenza, di odi atavici che fanno sentire tutto il loro peso. C'è poco da fare,
il legame tra calcio e nazionalismo,
nei Balcani più che in altri luoghi,
appare indissolubile.
Un'ulteriore conferma è arrivata
martedì sera da Belgrado, dallo stadio del Partizan dove era in programma Serbia-Albania, match valido per le qualificazioni ad Euro 2016.
Ma in quello che i tifosi della seconda squadra belgradese chiamano «il
tempio» non si è giocata una partita.
E andato in scena invece il triste
spettacolo del nazionalismo più becero, tra fischi all'inno di Tirana e le
urla «ubij Siptara», «uccidi gli albanesi», anche se di supporter della
nazionale albanese allo stadio, per
loro off-limits per ragioni di sicurezza, ce n'erano pochissimi.
Erano però rappresentati dal vessillo che a sorpresa si è innalzato sopra il campo grazie a un drone, manovrato da mano ignota. Sulla bandiera, la mappa della «Grande Albania», Stato immaginario, propugnato
DISTENSIONE INTERROTTA
L'incidente a pochi giorni
dall'arrivo a Belgrado
del premier albanese Rama
da una sempre più sparuta minoran-
za. Stato che dovrebbe includere l'Albania, il Kosovo - che nel 2008 ha dichiarato l'indipendenza, ma per Belgrado rimane parte integrante della
Serbia - una porzione della Macedonia, lembi di Grecia e Montenegro.
Sotto, la scritta «autochthonous».
«Siamo noi, i veri nativi balcanici,
questa terra è nostra», l'incendiario
messaggio. Da lì in poi, solo botte da
orbi tra giocatori, l'invasione di campo da parte degli hooligan, la sospensione dell'incontro.
Insomma, una vera e propria battaglia calcistica nutrita di nazionalismo, evocatrice delle ombre funeste
della guerra del Kosovo del 1999, delle guerre balcaniche di inizio Novecento, persino della battaglia della
Piana dei Merli del 1389, tema ancora
caro agli ultranazionalisti serbi, sempre meno, però, rappresentativi della
società. Battaglia che è proseguita
anche fuori dal campo, con scene di
giubilo da parte dei centinaia di albanesi in Kosovo, Montenegro e Macedonia, a esultare per la comparsa della «loro» bandiera a Belgrado
A Tirana, una moltitudine di giovani
ha atteso la nazionale, sventolando le
bandiere rosse con l'aquila nera al centro. Albanesi che «hanno deciso di
sconfiggerci sul terreno dell'entusiasmo nazionalistico e della stupidità», il
commento su Twitter del blogger serbo, Vladan Djukanovic. «I nostri ragazzi sono stati quasi uccisi», a Belgrado,
ha ribattuto sul web una internauta albanese. «C'è una grande differenza tra
quanto accaduto in Serbia e quanto accaduto in Albania», conferma il politologo albanese, Piro Misha. In Albania
si sono organizzate celebrazioni «in
onore dei giocatori di un piccolo Paese». C'era nazionalismo, sicuramente,
ma espresso «senza aggressività». La
delusione maggiore, sottolinea il politologo, sta nel fatto che nell'aria «c'erano significativi segnali di miglioramento nelle relazioni tra Serbia e Albania»,
con l'acme dell'imminente visita del
premier albanese Rama a Belgrado.
Relazioni che, almeno stando alle
reazioni dei politici di entrambi i fronti, sono tornate al livello del «noi contro di loro». L'auspicio, che sia solo una
ricaduta nel vecchio morbo del nazionalismo, non del tutto debellato in una
regione non ancora pienamente pacificata dopo la mattanza degli Anni Novanta. Regione dove, questo il problema principale, la disoccupazione rimane ovunque altissima, la povertà cresce, i giovani, siano essi serbi, kosovari
o albanesi, vivacchiano in un limbo che
offre poche speranze, diventando facili
prede del nazionalismo.
Nazionalismo che è ancora «molto
presente nei Balcani e quanto accaduto lo dimostra», conferma l'intellettuale serba Srbijanka Turajlic. Non
solo a Belgrado, tuttavia, le «competizioni sportive si sono trasformate in
mini-guerre», con tifosi e giocatori
che «bellicosamente sfidano altri Paesi», con i politici che soffiano su braci
mai spente. Qui, però, nei Balcani,
«dove le relazioni tra nazioni ancora
non sono chiarite» e le cicatrici del
passato rimangono aperte, «può succedere di tutto», se non si fa attenzione. E la guerra del football tra SerbiaAlbania insegna. Col fuoco dei nazionalismi meglio non giocare.
BOSNIA.vi
ERZEGOVINA^Jpv
Cosa significa la bandiera
I due uomini
La scritta
La data
Ismail Qemali
(a sinistra)
e Isa Boletini
sono il simbolo
del nazionalismo
albanese
Inneggia al Kosovo autoctono
28 novembre 1912
l'Albania ottiene
l'indipendenza
SERBIA
L'aquila a due teste
Stemma araldico di
Giorgio Castriota
Scanderbeg,
che guidò la rivolta
contro l'Impero
Ottomano
La sagoma rossa
Raffigura
la Grande Albania
f e n t i m e m - LA STAMPA
"Serve un'operazione verità
per superare gli odi storici"
La scrittrice Drakulic: già a scuola il veleno nazionalista
GIORDANO STABILE
~|V T o n siamo nel 1990. Questo
SS
^L episodio finisce qui. Sa\ \ _L 1 rebbe pazzesco il contrario. Né l'Albania né la Serbia hanno interesse a estendere il conflitto sul Kosovo. Ma il problema dei Balcani esiste.
Non abbiamo fatto i conti con la nostra
storia. Non è stata fatta chiarezza sul
passato».
Slavenka Drakulic, croata di Rijeka,
ha vissuto e raccontato (per esempio in
«Balcan Express») la guerra nei Balcani e ha subito gli attacchi sia dei comunisti che dei nazionalisti negli anni bui
che cominciarono con un'altra partita.
Quella fra Dinamo Zagabria e Stella
Rossa di Belgrado del 13 maggio 1990,
una delle scintille che innescarono la
guerra civile iugoslava, 200 mila morti.
Ancora l'odio che esplode in uno sta-
dio. È la maledizione dei Balcani?
«Questa volta è diverso. Credo che quella
dell'altra sera sia soltanto una provocazione. Sia l'Albania che la Serbia hanno
troppo da perdere in un altro conflitto. E
fra Tirana e Belgrado non c'è mai stato
un confronto diretto. Pesa il Kosovo, certo. C'è il mito della Grande Albania, che
però i dirigenti albanesi non hanno mai
cavalcato apertamente, in nessun documento ufficiale».
Che cosa le ricorda invece il clima di
quella partita a Zagabria?
«Allora la guerra era già bell'e pronta.
Avevano preparato tutto. Gli incidenti allo stadio erano una scusa. Il conflitto sarebbe scoppiato comunque».
E vent'anni dopo non si può ancora
parlare di pace?
«La pace ora l'abbiamo! Ed è la cosa più
preziosa. Quello che manca è una vera riconciliazione».
Si parlava di una commissione per la
verità e la riconciliazione sul modello
del Sudafrica.
«Non credo che funzionerebbe. I tedeschi stanno provando a lanciare qualcosa
di simile, il 6 e 7 dicembre a Belgrado, con
una grande Conferenza. Ma bisogna raggiungere il cuore della gente».
Che cosa si dovrebbe fare?
«Il nostro problema è che non parliamo del passato. Fra croati e serbi, albanesi. Non abbiano mai chiarito di
chi erano le responsabilità nella Seconda guerra mondiale, nella guerra
civile. Preferiamo nascondere le cose
sotto il tappeto. E invece finché non si
fanno i conti col passato non si può
guardare al futuro».
C'è un problema culturale quindi?
«Finché avremo dei libri di storia, a scuola, impregnati di nazionalismo, non se ne
esce. Tutto il sistema educativo è da
cambiare. In Serbia come in Croazia
l'ideologia nazionalista ha sostituito
quella comunista. E il principio autoritario non è cambiato. La gente teme ancora
il potere, tende a pensare come dicono
dall'alto. Ed è facilmente manipolabile da
chi usa la propaganda nazionalista».
Come se ne esce?
«Serve una rivoluzione culturale che vada dall'alto in basso. Cambiare libri di
scuola, cambiare il linguaggio dei media.
E quello della politica».