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PATRICIA CORNWELL
OGGETTI DI REATO
(Body Of Evidence, 1991)
Per Ed,
agente speciale e amico speciale
Prologo
13 agosto
KEY WEST
Dear M,
sono passati trenta giorni di delicate sfumature di sole e di cambi di vento. Penso troppo e non sogno.
Trascorro quasi tutti i pomeriggi in veranda da Louie's, a scrivere e a
guardare il mare. Sopra il mosaico di lingue di sabbia l'acqua è color smeraldo screziato, verde azzurra dove si fa più profonda. Il cielo continua all'infinito, le nuvole sono bianchi batuffoli in perenne movimento, come
fumo. Una brezza costante si porta via i rumori della gente che nuota e delle barche a vela che gettano l'ancora appena oltre gli scogli. La veranda è
coperta e quando si scatena un temporale improvviso, come sovente capita
nel tardo pomeriggio, resto al mio tavolo ad annusare la pioggia e a osservarla increspare l'acqua come una pelliccia accarezzata contropelo. A volte
diluvia e c'è il sole contemporaneamente.
Nessuno mi infastidisce. Ormai faccio parte della famiglia del ristorante,
come Zulù, il Labrador nero che si tuffa in acqua per rincorrere i frisbee, e
i gatti randagi che si aggirano silenziosi in educata attesa di avanzi. I quadrupedi sotto la tutela di Louie's mangiano meglio di qualunque essere
umano. È consolante osservare il mondo trattare con gentilezza le proprie
creature. Non posso lamentarmi dei miei giorni.
Sono le notti a farmi paura.
Quando i pensieri tornano a strisciare nelle oscure crepe della mia mente
e a tessere le loro spaventose ragnatele, mi tuffo nelle affollate stradine
della città vecchia, attirata dal chiasso dei bar come una falena dalla luce.
Walt e PJ hanno trasformato in arte le mie abitudini notturne. Walt torna
alla pensione per primo, verso il crepuscolo, perché il commercio di monili
d'argento in Mallory Square cessa appena cala il buio. Stappiamo bottiglie
di birra e aspettiamo PJ. Poi usciamo, passando di bar in bar, per finire di
solito allo Sloppy Joe's. Stiamo diventando inseparabili. Spero che loro lo
restino per sempre. Il loro amore non mi sembra nemmeno più fuori dell'ordinario. Nulla mi appare più tale, se non la morte che vedo intorno a
me.
Uomini emaciati ed esangui, gli occhi come finestre attraverso cui scorgo la loro anima tormentata. L'Aids è un olocausto che brucia le offerte di
questa piccola isola. Strano, dovrei sentirmi a mio agio tra gli esiliati e i
moribondi. Ma potrebbero tutti sopravvivermi. Quando la notte giaccio
sveglia ad ascoltare il ronzio del ventilatore sulla finestra, vengo catturata
dalle immagini di come accadrà.
Ogni volta che sento squillare il telefono, ricordo. Ogni volta che sento
qualcuno camminarmi alle spalle, mi giro. La sera guardo nell'armadio,
dietro la tenda e sotto il letto, poi spingo una sedia contro la porta.
Dio, non voglio tornare a casa.
Beryl
30 settembre
KEY WEST
Dear M,
ieri, da Louie's, Brent è uscito in veranda a dirmi che mi volevano al telefono. Mentre entravo il cuore mi batteva forte, ma mi ha risposto solo il
gracchiare delle interurbane, poi la linea è caduta.
Dio, che sensazione! Continuavo a ripetermi che sono troppo paranoica.
Se fosse stato lui avrebbe detto qualcosa, avrebbe goduto della mia paura.
È impossibile che sappia dove mi trovo, impossibile che sia riuscito a rintracciarmi fin qui. Uno dei camerieri si chiama Stu. Qualche tempo fa ha
rotto con un amico, su nel nord, e si è trasferito qui. Può darsi che fosse lui
a chiamare, e che la linea fosse disturbata. Forse è sembrato che chiedesse
di "Straw" (paglia), anziché di "Stu", così quando ho risposto io ha messo
giù.
Vorrei non avesse detto a nessuno il mio soprannome. Io sono Beryl.
Sono Paglia. Ho paura.
Il libro non è finito. Ma sono quasi al verde e il tempo è cambiato. Stamattina c'è scuro e tira un forte vento. Sono rimasta in camera perché se
avessi cercato di lavorare da Louie's le pagine sarebbero volate in mare. I
lampioni si sono accesi. Le palme lottano contro il vento, le fronde simili a
ombrelli rovesciati. Fuori dalla mia finestra il mondo geme, come ferito, e
il rumore della pioggia sui vetri fa pensare a un oscuro esercito marciato su
Key West per metterla in stato d'assedio.
Presto me ne andrò. Mi mancherà, quest'isola. Mi mancheranno PJ e
Walt. Mi hanno fatto sentire accudita e protetta. Non so cosa combinerò
quando tornerò a Richmond. Forse dovrei andarmene subito, ma non so
dove.
Beryl
1
Risistemate le lettere da Key West nella cartelletta di carta grezza tirai
fuori un paio di guanti di cotone bianco, li infilai nella valigetta medica nera e scesi di un piano con l'ascensore, fino all'obitorio.
Le piastrelle dell'ingresso erano ancora umide di lavaggio, i locali dell'autopsia chiusi. Di fronte all'ascensore, diagonalmente, c'era la cella frigorifera in acciaio inossidabile e aprendo il massiccio portellone fui investita dalla familiare e maleodorante folata di aria fredda. Individuai la barella senza bisogno di controllare i cartellini attaccati agli alluci, riconoscendo l'esile piede che spuntava dal lenzuolo bianco. Conoscevo ogni
centimetro di Beryl Madison.
Occhi azzurro fumo che fissavano inespressivi tra le palpebre allungate,
il viso inerte e devastato da tagli pallidi e aperti, quasi tutti sul lato sinistro.
Il collo squarciato fino alla spina dorsale, i fasci muscolari tranciati. Sul lato sinistro del torace e del petto, a distanza ravvicinata, nove ferite da coltello aperte, come grosse asole rosse, quasi perfettamente verticali. Erano
state inferte in rapida successione, una dopo l'altra, con tale violenza da
imprimere sulla pelle i segni dell'impugnatura. La lunghezza dei tagli sugli
avambracci e sulle mani andava da mezzo centimetro a dieci centimetri.
Con le due sulla schiena ed escludendo le coltellate profonde e lo squarcio
alla gola, le ferite superficiali da taglio erano ventisette, tutte inflitte mentre Beryl cercava di sottrarsi agli attacchi di una grossa lama affilata.
Non avrei avuto bisogno di fotografie o di grafici del corpo. Mi bastava
chiudere gli occhi per vedere la faccia di Beryl Madison, i nauseanti dettagli della violenza subita dal suo corpo. Il polmone sinistro presentava quattro perforazioni. Le carotidi erano praticamente recise. Anche l'arco aortico, l'arteria polmonare, il cuore e il sacco pericardico erano stati perforati.
Agli effetti pratici, quando lo psicopatico l'aveva quasi decapitata, Beryl
era già morta.
Stavo cercando una spiegazione. Qualcuno aveva minacciato di ucciderla. Lei era fuggita a Key West. Fuori di sé dal terrore. Non voleva morire.
Era accaduto tutto la sera del suo ritorno a Richmond.
Perché l'hai lasciato entrare in casa? Perché l'hai fatto, in nome di Dio?
Sistemato il lenzuolo, riparcheggiai la barella tra le altre, tutte occupate,
contro la parete in fondo alla cella frigorifera. L'indomani alla stessa ora il
suo corpo sarebbe stato già cremato, le ceneri in viaggio verso la California. Beryl Madison avrebbe compiuto trentaquattro anni il mese successivo. Non lasciava parenti in vita; nessuno, pareva, a questo mondo, eccetto
una sorellastra a Fresno. La pesante porta si richiuse di scatto.
L'asfalto del parcheggio dietro l'ufficio del capo della Sezione Medicina
Legale era caldo e rassicurante sotto i miei piedi; sentivo l'odore del creosoto delle traversine della ferrovia che arrostivano sotto il sole stranamente
caldo per quella stagione. Era Halloween.
La porta del reparto era spalancata, uno degli assistenti dell'obitorio innaffiava il cemento per rinfrescarlo. Si divertì ad arcuare il getto, spingendomelo abbastanza vicino da irrorarmi le caviglie con l'acqua vaporizzata.
«Ehi, dottoressa Scarpetta, facciamo orario di banca, adesso?» mi gridò.
Erano passate da poco le quattro e mezzo. Raramente lasciavo l'ufficio
prima delle sei.
«Serve un passaggio?» aggiunse.
«Ho la macchina, grazie» risposi.
Sono nata a Miami. La parte di mondo in cui Beryl si era rifugiata durante l'estate non mi era estranea. Chiudendo gli occhi rividi i colori di Key
West, i verdi chiari, gli azzurri e i tramonti sgargianti, quasi esagerati - solo Dio poteva farla franca, con quelli. Beryl Madison non sarebbe mai dovuta tornare a casa.
Una LTD Crown Victoria nuova di zecca, lucida come cristallo nero, entrò lentamente nel parcheggio. Aspettandomi la solita Plymouth sgangherata, restai di stucco quando il finestrino della Ford si aprì ronzando. «Aspetti l'autobus o cosa?» La mia faccia stupita si rifletté negli occhiali a
specchio del tenente Pete Marino, che, quando le serrature elettroniche
scattarono con un click secco, cercò di darsi un tono blasé.
«Sono sconvolta» dissi, sistemandomi nel lussuoso abitacolo.
«Me la sono regalata per la promozione.» Premette sull'acceleratore.
«Non male, eh?»
Dopo anni di cavallini male in arnese, Marino si era finalmente concesso
uno stallone.
Notai il buco nel cruscotto quando tirai fuori le sigarette.
«Questo ti serve per l'abat-jour o il rasoio elettrico?»
«Oh, al diavolo» protestò. «Qualche deficiente mi ha grattato l'accendisigari. All'autolavaggio. Cristo, avevo la macchina solo da un giorno, ci
crederesti? L'ho portata là, no? Ero troppo preso per farci caso, le spazzole
avevano rotto l'antenna e gliele stavo cantando, a quegli incompetenti...»
Qualche volta Marino mi ricordava mia madre.
«... solo più tardi mi sono accorto che quel dannato accendino era sparito.» Si interruppe, frugandosi in tasca mentre io cercavo dei fiammiferi
nella borsa.
«Ehi, capo» disse in tono sarcastico, lasciandomi cadere un accendino
Bic in grembo, «pensavo che avessi deciso di smettere di fumare.»
«Infatti» borbottai. «Comincerò domani.»
La sera in cui Beryl Madison era stata uccisa ero andata a vedere un'opera, una cosa sfarzosa cui era seguito un salto in un pub dalla fama immeritata, in compagnia di un giudice in pensione sempre meno virtuoso a mano
a mano che la serata procedeva. Non avevo con me il telefono cellulare.
Non potendo rintracciarmi, la polizia aveva chiamato Fielding, il mio sostituto, sul luogo del delitto. Sarebbe stata la prima volta che mettevo piede
in casa della scrittrice massacrata.
Windsor Farms non era certo il posto in cui ci si aspetta che accadano
cose tanto orribili. Le case erano grandi e rientrate rispetto alla strada. Sorgevano su terreni impeccabilmente curati. Quasi tutte disponevano di un
sistema d'allarme e di aria condizionata: un bisogno in meno di aprire le
finestre. Se il denaro non può comprare l'eternità, può sempre comprare un
certo grado di sicurezza. Non mi era mai capitato un caso di omicidio nelle
Farms.
«Ovviamente da qualche parte le arrivava del denaro» osservai, mentre
Marino si fermava a uno stop.
Una donna dai capelli candidi a spasso con il suo candido maltese ci
guardò di traverso mentre il cane, annusata una zolla d'erba, si esibiva nell'inevitabile.
«Stupida palla di pelo» commentò Marino, fissando con disprezzo la
donna e il cane che riprendevano il cammino. «Detesto quelle bestiacce.
Non fanno altro che abbaiare e pisciare dappertutto. Se vuoi un cane, almeno sceglilo con i denti.»
«C'è gente a cui basta un po' di compagnia» dissi.
«Sì.» Fece una pausa, quindi tornò alla mia considerazione precedente.
«Beryl Madison aveva del denaro e lo teneva quasi tutto in casa. Comunque, per quanti soldi avesse, sembra che laggiù a Key West ne scialacquasse un bel po'. Stiamo ancora vagliando le sue carte.»
«Erano state frugate?»
«Sembrerebbe di no» rispose. «A quanto pare come scrittrice non se la
cavava male, dal punto di vista dei guadagni, intendo. Pare che usasse diversi pseudonimi. Adair Wilds, Emily Stratton, Edith Montague.» Gli occhiali a specchio tornarono a girarsi verso di me.
Nessuno di quei nomi mi era familiare, eccetto Stratton. «Stratton è il
suo secondo nome» dissi.
«Può darsi che questo giustifichi il soprannome, Straw.»
«Insieme ai capelli biondi» osservai.
I capelli di Beryl erano oiondo miele e al sole assumevano riflessi dorati.
Una donna minuta dai lineamenti fini, regolari. Forse da viva era uno di
quei tipi che fanno colpo. Difficile a dirsi. La sola fotografia che avevo visto era della patente.
«Parlando con la sorellastra» mi stava spiegando Marino, «ho scoperto
che Beryl veniva chiamata Straw dai più intimi. Chiunque fosse, la persona a cui scriveva dalle Keys doveva essere al corrente del suo soprannome.
Almeno questa è la mia impressione.» Aggiustò lo specchietto. «Non riesco a immaginare perché abbia fotocopiato quelle lettere. Ci ho riflettuto.
Voglio dire, quanta gente conosci che fotocopia le proprie lettere?»
«Hai detto che era un tipo che si segnava tutto» gli ricordai.
«Sì. Anche questo mi lascia perplesso. Supponiamo che il tizio la stesse
minacciando da mesi. Cosa faceva? Cosa diceva? Non lo so, perché lei non
ha registrato le telefonate né annotato nulla. Insomma, Beryl Madison fotocopia le proprie lettere ma non prende alcun appunto quando qualcuno
minaccia di farla fuori. Dimmi tu se ti pare logico.»
«Non tutti ragionano come noi.»
«Be', certi non ragionano affatto perché si trovano immischiati in qualcosa che non vogliono rendere noto.»
Imboccato il vialetto d'accesso di ghiaia, parcheggiò davanti alla porta
del garage. L'erba era trascurata e costellata di alti fiori di tarassaco che
oscillavano nella brezza. Vicino alla cassetta delle lettere era stato piantato
un cartello: VENDESI. Sulla porta d'ingresso grigia era ancora attaccato il
nastro adesivo giallo usato per delimitare la scena del delitto.
«La sua macchina è nel garage» disse Marino, scendendo. «Una bella
Honda Accord EX nera. Credo che troverai interessanti alcuni particolari.»
Nel vialetto ci fermammo a guardarci intorno. I raggi del sole ormai obliqui mi intiepidivano le spalle e il collo. L'aria era fresca, l'incessante
ronzio degli insetti autunnali il solo rumore. Inspirai adagio, profondamente. All'improvviso mi sentii molto stanca.
La villa era in stile internazionale, moderna e assolutamente lineare, con
un fronte orizzontale di ampie finestre sostenute da pilastri al pianterreno:
faceva pensare a una nave con il sottocoperta aperto. Di pietra grezza e legno grigio, era il tipo di casa che avrebbe potuto costruirsi una giovane
coppia facoltosa: locali grandi, soffitti alti, un sacco di spazio costoso e
sprecato. Windham Drive terminava proprio all'altezza della villa, il che
spiegava come mai nessuno avesse notato o udito niente fino a quando non
era stato troppo tardi. La casa era cintata su due lati da pini e querce che
calavano una sorta di sipario vegetale tra Beryl e i vicini. Sul retro il terreno finiva bruscamente in una scarpata di massi e boscaglia, livellandosi poi
a perdita d'occhio in una vergine distesa di alberi.
«Accidenti. Scommetto che aveva anche dei cervi» commentò Marino
mentre passeggiavamo da quella parte. «Niente male, eh? Ti affacci alle
finestre e pensi che il mondo sia tuo. Quando nevica dev'essere uno
schianto. Non mi dispiacerebbe un buchetto come questo. D'inverno accendi il tuo bel fuoco, ti versi un po' di bourbon e dai un'occhiata ai boschi.
Dev'essere piacevole essere ricchi.»
«Specialmente da vivi.»
«Eh, grande verità» sospirò.
Le foglie cadute scricchiolavano sotto le nostre suole. Girammo intorno
all'ala occidentale. La porta d'ingresso era a livello del patio, e notai lo
spioncino. Mi fissava come un minuscolo occhio vuoto. Marino lanciò via
il mozzicone, facendolo volare sull'erba, quindi si frugò nella tasca dei
pantaloni azzurro polvere. Si era tolto la giacca. La grossa pancia sporgente al di sopra della cintura, la camicia bianca a maniche corte aperta sul
collo e gualcita intorno alla fondina ascellare.
Tirò fuori una chiave attaccata a un'etichetta gialla, e mentre lo osservavo aprire la serratura rimasi di nuovo colpita dalle dimensioni delle sue
mani. Rudi e abbronzate, mi ricordavano guantoni da baseball. Non avrebbe mai potuto diventare dentista o musicista. Intorno ai cinquant'anni, con
capelli grigi e radi e una faccia sciupata a forza di stare in vetrina come i
suoi abiti, era ancora abbastanza imponente da intimidire i più. È raro che
poliziotti della sua stazza finiscano immischiati nelle risse: i bulletti di
strada danno un'occhiata e lasciano perdere.
Fermi nel rettangolo di luce dell'ingresso, indossammo i guanti di cotone. La casa odorava di stantio e di polvere come tutte le case che danno
sulla strada e restano chiuse per qualche tempo. La Squadra rilievi del dipartimento di polizia di Richmond aveva già passato al setaccio la scena,
ma nulla era stato spostato. Marino mi aveva garantito che tutto era esattamente come al ritrovamento del cadavere di Beryl, avvenuto due sere
prima. Chiuse la porta e accese una luce.
«Come puoi notare» echeggiò la sua voce, «Beryl doveva aver fatto entrare l'assassino. Nessun segno di scasso alla serratura, e c'è un ottimo triplo impianto d'allarme.» Indicò il pannello dei pulsanti accanto alla porta,
aggiungendo: «Adesso è disattivato, ma quando siamo arrivati funzionava,
stava segnalando il disastro, ecco perché l'abbiamo trovato così in fretta».
Proseguì ricordando che l'omicidio era stato inizialmente denunciato
come allarme acustico. Poco dopo le undici di sera, uno dei vicini di Beryl
aveva chiamato il 911 segnalando che l'allarme suonava da mezz'ora. Era
arrivata una pattuglia in perlustrazione e l'ufficiale aveva trovato la porta
d'ingresso socchiusa. Pochi minuti dopo si era precipitato alla radio a chiedere rinforzi.
Entrammo in salotto. Il tavolino di cristallo era ribaltato, sul tappeto erano sparsi giornali, un portacenere anch'esso di cristallo, alcune bottiglie art
deco e un vaso di fiori. Una poltrona a schienale alto di cuoio celeste giaceva capovolta, accanto a essa un cuscino del divano. Sul muro imbiancato, a sinistra di una porta che immetteva nel corridoio, schizzi di sangue
rappreso.
«L'allarme ha un ritardo a tempo?» chiesi.
«Oh, sì. Apri la porta e prima di scattare ronza una quindicina di secondi, abbastanza da lasciarti digitare il codice.»
«Quindi deve avere aperto la porta, disattivato l'allarme, lasciato entrare
la persona e poi reinserito l'allarme mentre l'ospite era ancora in casa. Altrimenti non sarebbe mai scattato, quando se ne è andato. Interessante.»
«Certo» rispose Marino, «maledettamente interessante.»
Eravamo vicini al tavolino capovolto, nero di polvere. I giornali sul pavimento erano quotidiani e pubblicazioni letterarie, tutti vecchi di mesi.
«Hai trovato qualche giornale o rivista nuova?» domandai. «Varrebbe la
pena di scoprire se la vittima aveva comprato un quotidiano locale. Dovremo controllare tutti i posti in cui potrebbe essersi fermata dopo essere
scesa dall'aereo.»
Vidi i muscoli della sua mascella contrarsi. Marino non mi sopportava,
quando aveva l'impressione che volessi insegnargli il mestiere.
«C'erano un paio di cose» disse «su in camera da letto, dove abbiamo
trovato la valigia e le borse. Un "Herald" di Miami e il "Keynoter", un foglio che pubblica soprattutto inserzioni immobiliari delle Keys. Magari
stava pensando di trasferirsi là. Sono tutti e due di lunedì. Probabilmente li
aveva acquistati all'aeroporto, in partenza per Richmond.»
«Mi piacerebbe sapere cos'ha da dire il suo agente immobiliare...»
«Un bel niente, ecco cos'ha da dire» mi bloccò. «Non ha idea di dove si
trovasse Beryl. Mentre era via, ha mostrato la sua casa solo una volta. A
una giovane coppia. Il prezzo era troppo alto. Beryl chiedeva trecentomila
verdoni per la baracca.» Si guardò intorno, la faccia impenetrabile. «Immagino che adesso qualcuno farà un affare.»
«Beryl è tornata a casa in taxi dall'aeroporto, la sera dell'arrivo.» Mi ostinavo sui dettagli.
Marino tirò fuori una sigaretta e la usò per indicare. «Ho trovato la ricevuta di là nell'ingresso, sul tavolino accanto alla porta. Già controllato anche l'autista, un certo Woodrow Hunnel. Ha cantato come un usignolo.
Aspettava nella fila dei taxi all'aeroporto, Beryl gli ha fatto un cenno. Erano circa le otto, pioveva che Dio la mandava. L'ha depositata qui probabilmente una quarantina di minuti più tardi. Ha detto di averle portato le
due valigie fino alla porta e di essersene andato. Ventisei dollari, mancia
compresa. Mezz'ora dopo era di nuovo all'aeroporto, con un altro cliente.»
«Sei sicuro o è solo quello che ti ha detto lui?»
«Sicuro come è vero che ti ho di fronte, maledizione.» Si batté la sigaretta su una nocca e prese a tastare il filtro con il pollice. «Abbiamo controllato, Hunnel diceva la verità. Non l'ha nemmeno sfiorata. Non avrebbe avuto
il tempo di farlo.»
Seguii il suo sguardo in direzione degli schizzi scuri accanto alla porta.
Gli abiti dell'assassino dovevano essere insanguinati: difficile che un taxista riprendesse il servizio in quello stato.
«Non era a casa da molto» osservai. «Arriva verso le nove e un vicino
segnala l'allarme alle undici. Un allarme in funzione da mezz'ora, il che significa che l'assassino se ne era andato verso le dieci e mezzo.»
«Sì» rispose. «Questa è la parte più difficile da ricostruire. A giudicare
dalle lettere, Beryl era spaventata a morte. Se ne torna quatta quatta in città, si barrica in casa, tira persino fuori la sua tre e ottanta e la appoggia sul
ripiano di cucina - poi te la mostro. Quindi, bum! Suonano il campanello?
O che altro succede? Dopodiché, sappiamo solo che lascia entrare il tizio e
subito reinserisce l'allarme. Doveva trattarsi di qualcuno che conosceva.»
«Io non escluderei la tesi dell'estraneo» dissi. «Magari ha un'aria innocua, la vittima si fida e lo lascia entrare per qualche misteriosa ragione.»
«A quell'ora?» Mi lanciò un'occhiata, guardandosi intorno. «Te lo vedi
uno a vendere abbonamenti a riviste alle dieci di sera?»
Non risposi. Non sapevo.
Ci fermammo sulla soglia della porta che dava in corridoio. «Queste sono le prime tracce di sangue» disse Marino, osservando le incrostazioni
sulla parete. «È stata accoltellata proprio qui, la prima volta. Lei scappa in
preda al terrore e lui la colpisce.»
Ripensai ai tagli di Beryl sulla faccia, sulle braccia e sulle mani.
«Secondo me» proseguì, «qui l'ha colpita al braccio sinistro, alla schiena
o in viso. Questi schizzi di sangue sul muro sono partiti dalla lama. Doveva averla già raggiunta almeno una volta, l'arma era insanguinata, e quando l'ha colpita di nuovo sono volate via delle gocce che hanno raggiunto la
parete.»
Le macchie erano ellittiche, di circa sei millimetri di diametro, sempre
più allungate mano a mano che si allontanavano ad arco dalla cornice della
porta, verso sinistra. Erano sparse in un raggio di circa tre metri. L'aggressore aveva continuato a colpire con la forza di un atleta che batte una
schiacciata. Percepii il sentimento che aveva animato quel crimine. Non
era rabbia. Era qualcosa di peggio. Perché l'aveva lasciato entrare?
«A giudicare dalla posizione di questa macchia, penso che l'assassino si
trovasse proprio qui» osservò Marino allontanandosi di diversi metri dal
vano della porta, leggermente a sinistra. «Vibra il colpo, la ferisce ancora e
il sangue che schizza dalla lama finisce sulla parete. Le tracce, come vedi,
partono da qui.» Indicò le gocce più alte, quasi allineate con la sommità
della sua testa. «Poi piegano verso il basso, arrestandosi ad alcuni centimetri dal pavimento.» Si fermò, gli occhi che mi sfidavano. «Tu l'hai esaminata, no? Che te ne sembra? Credi che il pazzo usasse la destra o era mancino?»
Un particolare su cui i poliziotti non mancavano mai di informarsi. Non
importa se ripetevo sempre che non si potevano fare ipotesi del genere: loro continuavano a chiedere.
«Impossibile dirlo da questo schizzo di sangue» risposi, la bocca secca
come se fosse impastata di polvere. «Dipende tutto dalla posizione in cui si
trovava l'assassino rispetto alla vittima. In quanto alle ferite da taglio al
petto, sono leggermente angolate da sinistra verso destra. Il che indurrebbe
a pensare che si tratti di un mancino. Ma, ripeto, bisogna vedere dove si
trovava.»
«Mi sembra piuttosto interessante che quasi tutte le ferite inferte mentre
Beryl si difendeva si trovino sul lato sinistro del corpo. Lei sta correndo;
lui la raggiunge da sinistra invece che da destra. È questo a farmi sospettare che sia mancino.»
«Dipende tutto dalla posizione della vittima e dell'aggressore» ripetei
spazientita.
«Già» borbottò. «Tutto dipende sempre da qualcos'altro.»
Oltre il vano della porta il pavimento era di legno. La scia di sangue, che
conduceva a una scala distante circa tre metri da noi, sulla sinistra, era stata demarcata con del gesso. Beryl stava scappando da quella parte, su per
le scale. Lo shock e il terrore dovevano essere stati superiori al dolore. Sulla parete di sinistra, quasi in corrispondenza di ogni gradino, c'era una
macchia di sangue lasciata dalle dita ferite che annaspavano contro il rivestimento a pannelli in cerca di equilibrio.
Le chiazze scure erano sul pavimento, sul soffitto. Beryl era corsa in
fondo al corridoio del piano superiore, dove per un istante si era ritrovata
con le spalle al muro. In quel punto c'era una grossa quantità di sangue.
Evidentemente la caccia era poi ripresa, lei doveva essere scappata dal
fondo del corridoio in camera da letto, dove forse gli era momentaneamente sfuggita arrampicandosi sul grande letto da una piazza e mezza. Ma alla
fine lui l'aveva raggiunta. A questo punto lei gli aveva scagliato contro la
sua borsa portadocumenti o, più verosimilmente, questa si trovava già sul
letto ed era finita per terra. La polizia l'aveva trovata sul tappeto, aperta e
rovesciata, i fogli sparsi tutt'intorno, comprese le fotocopie delle lettere
scritte da Key West.
«Che altre carte avete trovato qui dentro?» chiesi.
«Delle ricevute e un paio di guide turistiche, compreso un opuscolo con
una mappa stradale» rispose Marino. «Se vuoi te ne faccio avere una copia.»
«Mi farebbe piacere.»
«Ho trovato anche una risma di pagine dattiloscritte, là nell'armadio.»
Lo indicò. «Probabilmente il materiale a cui stava lavorando alle Keys. Un
sacco di note a matita, ai margini. Nessuna impronta interessante, qualche
macchia e alcune impronte parziali, sue.»
Sul letto restava solo il materasso, la trapunta macchiata di sangue e le
lenzuola erano state mandate in laboratorio. Beryl stava rallentando, cominciava a cedere, ormai debole. Era tornata incespicando nel corridoio,
dov'era caduta su un tappeto da preghiera orientale che ricordavo dalle foto
scattate dalla polizia. Sul pavimento c'erano scie di sangue e impronte di
mani. Beryl si era trascinata fino alla camera degli ospiti, oltre il bagno, e
lì aveva infine esalato l'ultimo respiro.
«Penso» stava dicendo Marino «che l'omicida ci provasse gusto, a darle
la caccia. Avrebbe potuto afferrarla e ucciderla giù in salotto, ma questo
gli avrebbe sciupato il divertimento. Probabilmente non ha smesso mai di
ridere, mentre lei perdeva sangue e gridava e lo supplicava. Quando alla
fine Beryl arriva qui, crolla. La festa è finita. Non c'è più gusto. Lui molla
il colpo.»
La stanza era gelida, arredata in un giallo pallido come un sole di gennaio. Sul pavimento di legno, accanto a uno dei due letti gemelli, chiazze e
strisce scure e schizzi sul muro dipinto di bianco. Nelle fotografie scattate
sulla scena del delitto Beryl giaceva sulla schiena, le gambe divaricate, le
braccia intorno alla testa, la faccia rivolta verso la finestra protetta da tendine. Era nuda. Da un primo esame delle immagini non avrei saputo dire
che aspetto avesse, né qual era il colore dei suoi capelli. Tutto ciò che vedevo era rosso. Accanto al corpo la polizia aveva trovato un paio di pantaloni kaki insanguinati; giacca e biancheria intima mancavano.
«Il taxista di cui mi parlavi, Hunnel o comunque si chiami, ricordava
com'era vestita Beryl quando l'ha caricata all'aeroporto?» chiesi.
«Era buio» rispose Marino. «Non ne era sicuro, ma gli sembrava che avesse giacca e pantaloni. Sappiamo che effettivamente indossava dei pantaloni, quando è stata aggredita, gli stessi color kaki rinvenuti qui. In camera da letto, su una sedia, c'era una giacca in tinta. Non penso che si fosse cambiata, quando è tornata a casa, probabilmente si è limitata a buttare
la giacca sulla sedia. Qualunque altra cosa avesse indosso, una camicia,
biancheria intima, l'assassino se l'è portata via.»
«Un souvenir» pensai a voce alta.
Marino stava fissando le chiazze scure sul pavimento nel punto in cui
era stato trovato il cadavere di Beryl.
«Per come la vedo io» riprese, «è qui che lui la inchioda a terra, la spoglia e la violenta, o tenta di farlo. Poi la accoltella e quasi le taglia la testa.
Un vero peccato per le analisi di laboratorio» aggiunse, dato che dai tam-
poni prelevati non erano risultate tracce di sperma. «Scommetto che possiamo dire addio al Dna.»
«A meno che un po' del sangue che stiamo analizzando non appartenga a
lui» risposi. «Altrimenti, sì. Scordati il Dna.»
«E niente peli» disse.
«Nessuno, salvo alcuni che appartenevano a lei.»
Nel silenzio della casa le nostre voci suonavano fastidiosamente alte.
Ovunque guardassi, vedevo quelle orrende macchie. Visualizzai mentalmente le ferite da coltello, i segni dell'impugnatura, lo squarcio nel collo,
rosso e aperto come una bocca che sbadiglia. Tornai in corridoio. La polvere mi irritava i polmoni, non riuscivo a respirare.
«Mostrami dove hai trovato la pistola della vittima» dissi.
Quando la polizia era arrivata sul luogo del delitto, quella notte, aveva
trovato la .380 automatica di Beryl sul ripiano di cucina, vicino al forno a
microonde. La pistola era carica, la sicura innestata. Le sole impronte parziali che il laboratorio avesse potuto identificare appartenevano a lei.
«La scatola dei proiettili la teneva nel cassetto di un tavolo accanto al
letto» disse Marino. «Probabilmente ci teneva anche la pistola. Secondo
me Beryl ha portato le valigie di sopra, le disfa e deposita alcuni indumenti
nella cesta del bagno, quindi rimette le valigie nell'armadio della camera
da letto. A un certo punto, tira fuori l'arma: segno che è maledettamente in
ansia. Sono pronto a scommettere che prima di riuscire a calmarsi fa un giro di controllo in tutte le stanze con la pistola in mano.»
«Per quanto mi riguarda, avrei fatto la stessa cosa» commentai.
Si guardò intorno nella cucina. «Può darsi che fosse scesa per uno spuntino.»
«Può averne avuto l'intenzione, ma non l'ha fatto» risposi. «Il contenuto
gastrico era di circa cinquanta millilitri: puro liquido marrone scuro. Qualunque cosa avesse mangiato, al momento della morte, o meglio dell'aggressione, era già stata completamente digerita. In caso di stress acuto o di
paura la digestione si blocca. Se quando è stata raggiunta dall'assassino avesse appena mangiato, il cibo non sarebbe sparito dallo stomaco.»
«Non c'era granché da mettere sotto i denti, comunque» osservò Marino
aprendo lo sportello del frigorifero, come se la precisazione avesse qualche
importanza.
Dentro trovammo un limone raggrinzito, due panetti di burro, un pezzo
di formaggio Havarti ammuffito, condimenti e una bottiglia di acqua tonica. Il freezer era appena più promettente: qualche confezione di petti di
pollo Le Menus e carne magra macinata. Evidentemente cucinare non doveva essere un piacere per Beryl, ma un semplice fatto di utilità. Pensai alla mia cucina. Quella di Beryl era asettica in modo deprimente. La pallida
luce che filtrava dalle eleganti persiane grige della finestra sopra il lavello
era carica di particene di polvere in sospensione. Gli elettrodomestici erano
moderni e sembravano nuovi di zecca.
«Un'altra ipotesi è che sia venuta in cucina per prepararsi un drink» azzardò Marino.
«Il tasso alcolico del sangue era negativo» gli ricordai.
«Questo però non esclude l'intenzione.»
Aprì un armadietto sopra il lavello. Sui tre ripiani non c'era un centimetro libero: Jack Daniel, Chivas Regal, Taqueray, liquori vari e qualcosa che
attrasse la mia attenzione. Davanti al cognac, sul ripiano più alto, c'era una
bottiglia di Barbancourt, rum haitiano invecchiato di quindici anni e costoso quanto lo scotch puro.
Afferrandolo con una mano guantata, lo appoggiai sul piano di lavoro.
La fascetta col bollo mancava, il sigillo attorno al tappo dorato era intatto.
«Non credo che l'abbia comprato da queste parti» dissi a Marino. «Secondo me l'ha preso a Miami, o a Key West.»
«Vuoi dire che se l'è portato dalla Florida?»
«È possibile. Chiaramente, in fatto di alcolici era un'intenditrice. Il Barbancourt è fantastico.»
«Non sapevo che fossi anche tu un'appassionata conoscitrice» commentò.
A differenza di molte fra quelle vicine, la bottiglia di Barbancourt non
era impolverata.
«Questo potrebbe spiegare perché è scesa in cucina» proseguii. «Forse
era venuta a mettere via il rum e magari si era programmata il goccetto
della buonanotte, quando qualcuno si è presentato alla porta.»
«Già. Quello che invece non si spiega è perché abbia lasciato la pistola
qui, sul ripiano, quando è andata a rispondere alla porta. Doveva essere
spaventata, giusto? Mi sorge il dubbio che stesse aspettando compagnia,
che conoscesse l'assassino. Insomma, ha questa roba fantastica da bere,
giusto? Vuoi che se la scoli tutta da sola? Non ha senso. Mi convince di
più pensare che se la spassasse un pochino, di tanto in tanto, che si portasse a casa qualche amico. Ehi, magari proprio il famoso "M" a cui stava
scrivendo dalle Keys. Forse la sera dell'omicidio aspettava proprio lui.»
«Stai prendendo in considerazione l'ipotesi che "M" sia l'assassino»
commentai.
«Tu la escluderesti?»
Era vagamente bellicoso, e il suo giocherellare con la sigaretta spenta
cominciava a darmi sui nervi.
«Non scarterei nessuna possibilità» risposi. «Ad esempio, valuterei anche quella che lei non stesse affatto aspettando compagnia. Beryl scende in
cucina a riporre il rum e probabilmente medita di prepararsi un drink. È
nervosa, ha con sé l'automatica sul ripiano. Quando sente suonare o bussare alla porta, ci resta di stucco...»
«Giusto» mi interruppe. «Trasalisce, si spaventa. Ma allora perché lascia
l'arma in cucina, quando va ad aprire?»
«Si esercitava?»
«Si esercitava?» ripeté, mentre i nostri sguardi si incontravano. «Si esercitava a che cosa?»
«A sparare.»
«Accidenti... non lo so...»
«Se non era così, quella di armarsi non poteva essere una reazione naturale per lei, ma una decisione consapevole. Le donne girano con la bomboletta di gas lacrimogeno nascosta nella borsetta, ma quando vengono aggredite non si ricordano mai di averla fino a cose avvenute, perché non
hanno il riflesso automatico a difendersi.»
«Non so...»
Io sì che lo sapevo. Avevo una Ruger .38 caricata a Silver-tip, fra le cartucce più distruttive esistenti in commercio. La sola ragione per cui poteva
venirmi in mente di ricorrere alla pistola era che mi allenavo, che scendevo
parecchie volte al mese al poligono di tiro del mio edificio. In casa da sola
mi sentivo molto più tranquilla sapendo di avere la pistola.
E c'era dell'altro. Pensai al salotto, agli arnesi del camino sistemati in
verticale nei loro piedistalli di ottone. Pur avendo lottato con l'aggressore
in quella stanza, a Beryl non era minimamente passato per la testa di difendersi con l'attizzatoio o la paletta. Difendersi non era un riflesso automatico, per lei. Il suo solo riflesso era quello di scappare, che si trovasse in
cima alle scale o a Key West.
«Può darsi che non avesse dimestichezza con la pistola, Marino» spiegai. «Il campanello suona. Lei è agitata, confusa. Va in salotto e guarda attraverso lo spioncino. Chiunque fosse, si fida abbastanza della persona da
aprirle la porta. Alla pistola non ci pensa più.»
«Oppure aspettava questo ospite» ribadì Marino.
«Del tutto possibile. Ammesso che qualcuno sapesse del suo rientro in
città.»
«È sufficiente che lo sapesse lui.»
«E può darsi che sia "M"» dissi, rimettendo la bottiglia di rum sullo
scaffale e intuendo ciò che Marino desiderava sentirsi dire.
«Caspita. Adesso sì che fila, non trovi?»
Richiusi lo sportello dell'armadietto. «Beryl era minacciata, terrorizzata
da mesi. Non posso pensare che si trattava di un amico intimo e che Beryl
non nutriva il minimo sospetto.»
Marino parve infastidito. Consultò l'orologio e dalla tasca estrasse un'altra chiave. Non sembrava affatto plausibile che Beryl avesse aperto la porta a un estraneo. E ancora meno che qualcuno di cui lei si fidava le avesse
potuto rendere un servizietto del genere. Perché l'aveva lasciato entrare?
La domanda non smetteva di assillarmi.
La casa era collegata al garage da un portico coperto. Il sole si era abbassato sotto gli alberi.
«Te lo dico subito» disse Marino, facendo scattare la serratura. «Sono
entrato qui appena prima di chiamarti. Avremmo potuto sfondare la porta
la sera dell'omicidio, ma non ne vedevamo la ragione.» Si scrollò nelle
spalle massicce, come a farmi ben capire che se voleva poteva davvero
sfondare una porta o sradicare un albero o rovesciare un camion. «Non era
più stata qui dalla partenza per la Florida. Ci abbiamo messo un po' a trovare questa maledetta chiave.»
Era il primo garage rivestito di pannelli che mi capitava di vedere, il pavimento coperto da una sontuosa pelle di drago in costose piastrelle rosse
italiane.
«Era stato davvero progettato come garage?» chiesi.
«La porta è da garage, non trovi?» Marino stava sfilandosi dalla tasca
parecchie altre chiavi. «Un posticino grazioso per mettere la macchina al
riparo dalla pioggia, eh?»
Nel locale non circolava aria e c'era odore di polvere, ma per il resto era
immacolato. Oltre a un rastrello e a una scopa appoggiati in un angolo, non
c'era traccia dei soliti utensili, falciaerba e attrezzature varie che era lecito
aspettarsi. Sembrava più la sala d'esposizione di un concessionario, con la
Honda nera parcheggiata al centro della distesa di piastrelle. Era così lucida e pulita che la si sarebbe potuta scambiare per un'auto nuova mai usata.
Marino infilò la chiave nella portiera del guidatore e l'aprì.
«Sali. Sei mia ospite» disse.
In un attimo mi ritrovai seduta sul sedile di pelle color avorio chiaro, a
fissare attraverso il parabrezza il muro rivestito di pannelli.
Indietreggiando di qualche passo dalla macchina, Marino aggiunse:
«Resta seduta lì, okay? Prova a coglierne lo spirito, osserva l'interno,
dimmi a cosa ti fa pensare».
«Vuoi che la metta in moto?»
Mi allungò la chiave.
«Allora apri la basculante, per piacere, se non vuoi che restiamo asfissiati» aggiunsi.
Aggrottando la fronte Marino lanciò un'occhiata intorno, quindi trovò il
pulsante giusto e fece scattare la porta.
Si accese al primo tentativo, il motore si abbassò subito di parecchie ottave e cominciò a fare fusa gutturali. Radio e aria condizionata erano già in
funzione. Il serbatoio della benzina pieno per un quarto, il contachilometri
fermo su una decina di migliaia di chilometri, la capote parzialmente aperta. Sul cruscotto c'era un tagliando di un lavaggio a secco datato undici luglio, giovedì in cui Beryl aveva consegnato una gonna e una giacca da
tailleur, indumenti mai più ritirati. Sul sedile del passeggero uno scontrino
del dodici luglio, dieci e quaranta del mattino, emesso dalla drogheria in
cui Beryl aveva comprato un cespo di lattuga, pomodori, cetrioli, della
carne macinata, formaggio, succo d'arancia e un pacchetto di mentine, per
un totale di nove dollari e tredici centesimi pagati alla cassa con una banconota da dieci.
Accanto allo scontrino giaceva una sottile busta di banca, vuota; vicino,
un astuccio di pelle marrone per occhiali da sole Ray Ban, anch'esso vuoto.
Sul sedile posteriore c'erano una racchetta da tennis Wimbledon e un asciugamano bianco spiegazzato, che afferrai sporgendomi dal sedile di
guida. Su uno dei bordi appariva la scritta WESTWOOD RACQUET
CLUB, in caratteri minuti. La stessa dicitura era stampata su una borsa di
plastica rossa che avevo notato nell'armadio di Beryl, al piano di sopra.
Marino aveva lasciato il colpo di scena per ultimo. Sapevo che aveva già
controllato tutti gli elementi e voleva che li vedessi in situ. Ma non erano
prove. L'assassino non era mai entrato in garage. Mi stava esasperando. Mi
aveva innervosita fin da quando avevamo messo piede in quella casa. Era
il suo modo di fare normale, e mi irritava moltissimo.
Spegnendo il motore, scesi dalla macchina. La portiera si chiuse con un
tonfo ovattato.
Mi guardò perplesso.
«Un paio di domande» dissi.
«Spara.»
«Westwood è un club esclusivo. Beryl era iscritta?»
Cenno d'assenso.
«Hai controllato quando è stata l'ultima volta che ha prenotato un campo?»
«Venerdì, dodici luglio, nove del mattino. Aveva una lezione col maestro. Prendeva lezioni una volta la settimana, più o meno la stessa frequenza con cui giocava.»
«Se ben ricordo è scappata da Richmond sabato tredici luglio, alle prime
ore del mattino, ed è arrivata a Miami poco dopo mezzogiorno.»
Altro segno affermativo.
«Quindi è andata alla lezione e poi in drogheria. Poi forse è passata in
banca. Comunque stiano le cose, dopo aver fatto gli acquisti a un certo
punto decide di abbandonare la città. Se avesse avuto già in programma di
partire il giorno dopo, non si sarebbe preoccupata di fare la spesa dal droghiere. Non ha il tempo di consumare quello che ha comprato, tuttavia non
lascia della roba nel frigorifero. Evidentemente deve buttare via tutto,
tranne la carne macinata, il formaggio e, se non sbaglio, anche le mentine.»
«Abbastanza convincente» disse Marino, senza enfasi.
«Ha lasciato l'astuccio degli occhiali e altri oggetti sul sedile» continuai.
«In più, la radio e l'aria condizionata sono rimasti accesi e la capote parzialmente aperta. Sembra quasi che sia entrata in garage, abbia spento il
motore e si sia precipitata in casa di corsa con gli occhiali da sole ancora
sul naso. Mi domando se non sia accaduto qualcosa mentre tornava dal
tennis e dalle commissioni...»
«Oh sì. Ne sono assolutamente sicuro. Vieni un po' da questa parte e dai
un'occhiata alla macchina da questo lato, più esattamente alla portiera del
passeggero.»
Lo feci.
Ciò che vidi fece esplodere i miei pensieri come una palla che si abbatte
fra i birilli. Inciso sulla lucida carrozzeria nera, al di sotto della maniglia,
spiccava il nome BERYL racchiuso in un cuore.
«Fa quasi accapponare la pelle, eh?»
«Se l'assassino l'ha fatto mentre la macchina era parcheggiata al club o
dal droghiere» ragionai, «qualcuno dovrebbe pure averlo visto.»
«Già. Magari invece risale a prima.» Si interruppe, fissando il graffito
con aria inespressiva. «Quand'è stata l'ultima volta che tu hai fatto caso alla tua portiera del passeggero?»
Potevano essere diversi giorni. Settimane, addirittura.
«Dunque va a fare acquisti dal droghiere.» Finalmente si accese quella
dannata sigaretta. «Non compra granché.» Inspirò una boccata avida e profonda. «Probabilmente le sta tutto in una borsa sola, giusto? Quando mia
moglie ha una o due borse, le mette sempre davanti, sul tappetino della
macchina, o magari sul sedile. Quindi forse anche Beryl fa il giro della
macchina per infilare la spesa dall'altra parte. Ed è a quel punto che nota
l'incisione nella vernice. Forse sapeva che risaliva a quello stesso giorno.
O forse no. Non ha importanza. La cosa deve averla spaventata, le fa saltare i nervi. Va a casa o forse passa in banca a ritirare del denaro. Prenota il
primo volo da Richmond e scappa in Florida.»
Lo seguii fuori dal garage, verso la sua macchina. La notte stava calando
veloce, l'aria si faceva pungente. Marino accese il motore, mentre dal finestrino fissavo silenziosa la casa di Beryl. I suoi angoli netti sfumavano nell'ombra, le finestre macchie scure. Improvvisamente le luci del portico e
del salotto si accesero.
«Cristo» mugugnò Marino. «I bambini che battono cassa per Halloween.»
«Un congegno a tempo» dissi io.
«Niente scherzi.»
2
Su Richmond splendeva la luna piena, mentre percorrevo la lunga strada
di casa. Soltanto i bambini più tenaci continuavano le loro peregrinazioni
di porta in porta per chiedere dolci, e i miei fari illuminavano le loro maschere spettrali, le sinistre sagome infantili. Mi domandai quante volte avevano suonato invano al mio campanello. Era una delle case preferite, data la mia esagerata generosità in fatto di caramelle: non avevo bambini
miei da compiacere. Mi restavano ancora quattro sacchetti di cioccolatini
da distribuire fra i miei collaboratori il mattino dopo.
Il telefono prese a squillare mentre stavo ancora salendo le scale. Afferrai il ricevitore un attimo prima che si inserisse la segreteria telefonica. Lì
per lì la voce mi suonò poco familiare, ma quando la riconobbi ebbi un tuffo al cuore.
«Kay? Sono Mark. Grazie al cielo ti trovo...»
Sembrava quasi che Mark James stesse parlando dal fondo di un fusto
d'olio. In lontananza sentivo un rumore di macchine che sfrecciavano.
«Dove sei?» riuscii a chiedere, rendendomi conto di tradire il mio nervosismo.
«Sulla Novantacinquesima, circa settantacinque chilometri a nord di Richmond.»
Sedetti sul bordo del letto.
«In una cabina telefonica» proseguì. «Mi servono indicazioni per arrivare a casa tua.» Dopo un'altra raffica di rumori di sottofondo, aggiunse:
«Voglio vederti, Kay. Ho passato la settimana nel distretto di Columbia e
da oggi pomeriggio tardi non faccio che provare a chiamarti. Alla fine mi
sono buttato, ho deciso di noleggiare una macchina. Ho fatto bene?»
Non sapevo cosa dire.
«Ho pensato che avremmo potuto bere qualcosa insieme, vederci» disse
l'uomo che un tempo mi aveva spezzato il cuore. «Ho prenotato due posti
al Radisson, in città. Domattina presto ho un volo di ritorno da Richmond
per Chicago. Pensavo proprio... In effetti, c'è qualcosa di cui vorrei discutere con te.»
Non riuscivo proprio a immaginare cosa potessimo avere da discutere
Mark e io.
«Ti va?» chiese ancora.
No, non mi andava affatto! Ma quello che dissi fu: «Certo, Mark. Sarà
meraviglioso rivederti».
Dopo avergli dato le indicazioni andai in bagno a rinfrescarmi, indugiandovi abbastanza per fare il punto della situazione. Erano trascorsi più
di quindici anni dai giorni in cui frequentavamo insieme la scuola di specializzazione legale. I miei capelli erano ormai più cenere che biondi ed
era passato parecchio tempo da quando Mark e io ci eravamo visti l'ultima
volta. I miei occhi si erano un po' appannati, perdendo l'azzurro di un tempo. Lo specchio, imparziale, continuò a rammentarmi piuttosto freddamente che stavo per lasciarmi alle spalle i trentanove e che per eliminare le rughe esistevano espedienti come il lifting. Nella mia mente Mark era rimasto lo stesso ventiquattrenne oggetto di passione e di dipendenza tale da
condurmi alla fine alla più totale disperazione. Da quando ci eravamo lasciati non avevo fatto altro che lavorare.
Guidava ancora forte e gli piacevano le belle macchine. Meno di tre
quarti d'ora dopo aprii la porta d'ingresso e restai a contemplarlo mentre
scendeva dalla sua Sterling a nolo. Era il Mark che ricordavo, lo stesso
corpo asciutto e la stessa camminata sicura, a passi lunghi. Salì le scale
con fare deciso, sorridendo. Dopo un rapido abbraccio, per qualche istante
restammo goffamente imbarazzati sull'ingresso. Non mi veniva in mente
nessuna frase adeguata.
«Bevi ancora scotch?» chiesi alla fine.
«In quello non sono cambiato» rispose, seguendomi in cucina.
Tirai fuori il Glendfiddich dal mobile bar e gli dosai automaticamente il
drink proprio come un tempo: due jigger, ghiaccio e uno spruzzo di seltz. I
suoi occhi mi seguirono mentre mi muovevo in cucina e appoggiavo i bicchieri sul tavolo. Bevuto un sorso, fissò l'interno del bicchiere e cominciò a
far girare lentamente il ghiaccio, come quando era teso. Lo osservai con attenzione: i lineamenti fini, gli zigomi, i chiari occhi grigi. I capelli neri
cominciavano a ingrigire un po' sulle tempie.
Mi concentrai quindi sul ghiaccio che Mark faceva roteare nel bicchiere.
«Dunque lavori per uno studio legale di Chicago?»
Appoggiandosi allo schienale della sedia, alzò gli occhi e disse: «Appelli; processi veri e propri solo di quando in quando. Ogni tanto vedo Diesner. Ecco come ho scoperto che eri qui a Richmond».
Diesner era il capo medico legale di Chicago. L'avevo incontrato a un
congresso e avevamo lavorato insieme in parecchie commissioni. Non mi
aveva mai detto di conoscere Mark James: il fatto stesso che sapesse che
un tempo lo frequentavo era un mistero.
«Ho commesso l'errore di dirgli che ti avevo conosciuta alla scuola legale, e penso che certe volte tiri fuori il tuo nome apposta per punzecchiarmi» spiegò Mark, leggendomi nel pensiero.
Questo potevo crederlo. Diesner era più scorbutico di un caprone e non
aveva troppa simpatia per gli avvocati della difesa. Alcune sue battaglie e
gesti teatrali in tribunale erano diventati leggendari.
«Come quasi tutti i patologi di medicina legale» stava dicendo Mark, «si
schiera dalla parte dell'accusa. Io rappresento un assassino dichiarato e
quindi sono un cattivo. Diesner non perde occasione per venirmi a raccontare con aria indifferente l'ultimo articolo da te pubblicato o qualche orribile caso con cui sei alle prese. La dottoressa Scarpetta. Il famoso capo Scarpetta.» Rise, ma i suoi occhi rimasero seri.
«Non penso sia corretto dire che noi teniamo per l'accusa» risposi. «Può
sembrare così perché se la prova è a favore della difesa, il caso rischia di
non arrivare in tribunale.»
«Kay, so come funziona» disse con quel tono stile dacci-un-taglio che
ricordavo così bene. «E so cosa ti tocca vedere. Se fossi in te, vorrei anche
che quei bastardi andassero in malora.»
«Sì. Tu sai cosa mi tocca vedere, Mark» iniziai a dire. Era la solita vecchia diatriba, e non riuscivo a crederci. Era arrivato da meno di un quarto
d'ora e già stavamo riprendendo la discussione esattamente da dove l'avevamo lasciata. Alcuni dei nostri peggiori scontri vertevano proprio su quell'argomento. Quando Mark e io ci eravamo conosciuti ero laureata in medicina e mi ero iscritta alla scuola legale di Georgetown. Avevo conosciuto il
lato oscuro, la crudeltà, la tragedia fortuita. Avevo infilato le mie mani
guantate nelle rovine sanguinolente della morte. Mark era il brillante laureato dell'Ivy League, il cui concetto di crimine corrispondeva a uno sfregio sulla carrozzeria della sua Jaguar. Sarebbe diventato avvocato perché
anche suo padre e suo nonno lo erano stati. Io ero cattolica, Mark protestante. Io italiana, lui inglese quanto il principe Carlo. Io venivo da una
famiglia povera, lui era cresciuto in uno dei quartieri residenziali più ricchi
di Boston. Una volta avevo pensato che il nostro sarebbe stato un matrimonio impossibile.
«Non sei cambiata, Kay» disse. «Se non per una certa aria di decisione,
di durezza. Scommetto che oggi sei un avversario temibile, in tribunale.»
«Non mi piace l'idea di essere dura.»
«Non intendo in senso negativo. Voglio dire che hai un aspetto magnifico.» Si guardò intorno. «Che sembri realizzata. Sei felice?»
«La Virginia mi piace» risposi, volgendo gli occhi altrove. «Mi lamento
solo degli inverni, ma immagino tu abbia di peggio, da quelle parti. Come
fai a dover sopportare Chicago sei mesi su dodici?»
«Se vuoi sapere la verità, non mi ci sono mai abituato. Tu la odieresti.
Un fiore di serra di Miami come te non resisterebbe neanche un mese.»
Sorseggiò il suo drink. «Non sei sposata.»
«Lo sono stata.»
«Mmm.» Aggrottò le sopracciglia, pensoso. «Tony qualcosa... mi ricordo che ti eri messa a frequentare un certo Tony... Benedetti, giusto? Alla
fine del terzo anno.»
Ero davvero sorpresa che Mark ci avesse fatto caso, molto meno che se
ne ricordasse. «Abbiamo divorziato, è passato un bel po' di tempo» dissi.
«Mi spiace» fece lui a bassa voce.
Presi il mio bicchiere.
«Frequenti nessuno di interessante?» chiese.
«Nessuno, al momento, né di interessante né di altro genere.»
Mark non rideva più come una volta. «Per poco anch'io non mi sposavo,
un paio d'anni fa» cominciò a raccontare spontaneamente. «Ma poi non
funzionò. O forse dovrei avere l'onestà di dire che all'ultimo minuto fui
preso dal panico.»
Mi era difficile credere che non fosse mai stato sposato. Di nuovo, dovette leggermi nel pensiero.
«Fu dopo la morte di Janet.» Esitò. «In realtà sono stato sposato.»
«Janet?»
Aveva ripreso a far roteare il ghiaccio nel bicchiere. «La incontrai a Pittsburgh, dopo Georgetown. Un avvocato fiscalista dello studio.»
Lo scrutai attentamente, imbarazzata da ciò che vedevo. Era cambiato.
L'intensità da cui una volta mi ero sentita attratta era diversa. Nulla di tangibile, ma mi sembrava più cupa.
«Un incidente in macchina» stava spiegando. «Un sabato sera. Era uscita
a comprare il popcorn, avevamo intenzione di stare alzati fino a tardi a
guardare un film. Un ubriaco la investì. Non aveva nemmeno i fari accesi.»
«Dio, Mark. Mi spiace» dissi. «Che cosa orribile.»
«È successo otto anni fa.»
«Figli?» chiesi sottovoce.
Scosse la testa.
Ci fu silenzio.
«Il mio studio apre un ufficio nel distretto di Columbia» disse, mentre i
nostri occhi si incontravano.
Non risposi.
«È possibile che mi trasferiscano di nuovo. Ci siamo ingranditi molto,
ormai abbiamo un centinaio di avvocati e uffici tra New York, Atlanta e
Houston.»
«E quando ti trasferiresti?» chiesi in tono calmo.
«Potrebbe essere per i primi dell'anno.»
«Intendi davvero accettare?»
«Non ne posso più di Chicago, Kay, ho bisogno di cambiare aria. Volevo che lo sapessi, ecco perché sono qui, o almeno è la ragione principale.
Non mi andava di pensare che magari a un certo punto ci saremmo incontrati per caso. Io vivrò nella Virginia del Nord. Il tuo ufficio è nella Virginia del Nord. Probabilmente ci saremmo incrociati in qualche ristorante, o
a teatro, uno dei prossimi giorni. Non volevo che succedesse così.»
Mi immaginai seduta al Kennedy Center a spiare Mark tre file più avanti, intento a sussurrare nell'orecchio di una splendida giovane accompagna-
trice. L'antico dolore mi riaffiorò alla mente, uno strazio così intenso da
sembrarmi quasi fisico. Mark non aveva avuto rivali. Era stato il mio unico, totalizzante fuoco emotivo. A un tratto una parte di me aveva percepito
che la cosa non era reciproca. Poi, ne ero stata certa.
«Era questa la mia ragione principale» ripeté, l'avvocato al suo discorso
d'apertura. «Ma c'è dell'altro, e in realtà non ha nulla a che vedere con noi
in prima persona.»
Rimasi zitta.
«Qui a Richmond è stata assassinata una donna, un paio di sere fa. Una
certa Beryl Madison...»
Per un attimo l'espressione di stupore sulla mia faccia lo fece ammutolire.
«Me ne ha parlato Berger, il mio socio, in una telefonata all'albergo.
Vorrei discutere la cosa con te...»
«Perché ti interessa?» chiesi. «La conoscevi?»
«Vagamente. La conobbi una volta a New York, l'inverno scorso. Il nostro ufficio di là si occupa di legislazione dello spettacolo. Beryl aveva
problemi di tipo editoriale, una vertenza contrattuale, e si rivolse a Orndorff & Berger per sistemare la cosa. Per combinazione mi trovavo a
New York proprio il giorno in cui Beryl aveva appuntamento con Sparacino, il suo avvocato, che finì per invitarmi a raggiungerli a pranzo all'Algonquin.»
«Se mai la vertenza di cui parli avesse qualche collegamento con l'omicidio, non è a me che dovresti rivolgerti, ma alla polizia» replicai, cominciando ad arrabbiarmi.
«Kay» rispose, «quelli non sanno nemmeno che sono qui a parlare con
te, okay? Quando Berger ieri mi ha telefonato era per tutt'altro, capisci? Se
nel corso della conversazione è venuto fuori l'assassinio di Beryl Madison,
è stato solo per puro caso. Mi ha semplicemente detto di controllare i giornali locali e vedere cosa potevo ricavarne.»
«Se posso tradurre: di vedere cosa potevi cavar fuori dalla tua ex...» Sentii una vampata di rossore risalirmi il collo. Ex-che cosa?
«Non è come credi.» Guardò altrove. «Stavo pensando a te, volevo
chiamarti già prima che telefonasse Berger, prima ancora di sapere di
Beryl. Per ben due sere ho preso in mano il ricevitore: mi ero fatto dare il
tuo numero dal servizio abbonati. Ma poi mi è mancato il coraggio. E forse
non lo avrei mai trovato se non fosse stato per Berger. Forse Beryl mi ha
offerto il pretesto, questo posso concedertelo. Ma non è come pensi tu...»
Non lo stavo più ascoltando. Il fatto che desiderassi credergli fino a quel
punto mi lasciava sgomenta. «Se il tuo studio è interessato al delitto, allora
dimmi con esattezza di cosa si tratta.»
Mark rifletté per un momento. «Non sono sicuro che il nostro interesse
per l'assassinio sia giustificato. Forse si tratta di qualcosa di personale, di
un senso di orrore. Uno shock per chi di noi ha avuto contatti con lei da
viva. Ti dirò anche che la vertenza in cui si era lanciata era piuttosto sgradevole. Stavano per incastrarla grandiosamente per un contratto che aveva
firmato otto anni fa. È una faccenda piuttosto complicata. Ha a che vedere
con Cary Harper.»
«Il romanziere?» chiesi stupita. «Quel Cary Harper?»
«Come probabilmente saprai» continuò Mark, «abita poco distante da
qui, in una ex casa colonica del Settecento, una proprietà chiamata Cutler
Grove. Sul fiume James, a Williamsburg.»
Stavo cercando di ricordare cosa avessi letto su Harper, autore di un romanzo che una ventina d'anni prima aveva vinto il premio Pulitzer. Viveva
con una sorella, in leggendaria reclusione. O forse era una zia? La vita privata di Harper era stata oggetto di innumerevoli congetture. Più lo scrittore
si sottraeva alle interviste, più le speculazioni crescevano.
Accesi una sigaretta.
«Speravo che abbandonassi il caso» disse.
«Dovrebbero lobotomizzarmi.»
«Quel che so è poco. Da giovane, appena adolescente, Beryl aveva avuto
una qualche sorta di relazione con Harper. Di fatto, per un po' era vissuta a
casa sua, insieme alla sorella di lui. Beryl era l'aspirante scrittrice, la figlia
di talento che Harper non aveva mai avuto. La sua pupilla. Fu attraverso le
conoscenze di Harper che Beryl riuscì a pubblicare il suo primo romanzo a
soli ventidue anni; una storia d'amore con qualche pretesa letteraria apparsa sotto lo pseudonimo di Stratton. Harper arrivò addirittura a firmare il
profilo biografico per il risvolto di copertina: un paio di frasi in cui osannava la sua nuova scoperta. La cosa fece inarcare più di un sopracciglio. Il
romanzo di Beryl era un evento più commerciale che letterario, ed erano
anni che da Harper non trapelava una sola parola.»
«Cos'ha a che vedere tutto questo con la sua controversia contrattuale?»
«Magari avrà anche un debole per le giovani sognatrici di eroi» rispose
Mark con disappunto, «ma resta il fatto che Harper era un astuto bastardo.
Prima di farle pubblicare il libro, la costrinse a firmare un contratto in cui
le proibiva per sempre di scrivere qualunque cosa su di lui o che lo ri-
guardasse, fin quando lui e sua sorella fossero rimasti vivi. Harper ha solo
cinquantacinque anni, sua sorella è un po' più anziana. In sostanza, quel
contratto vincolava Beryl per la vita, impedendole di pubblicare le proprie
memorie: e che memorie poteva scrivere, dovendo lasciar fuori Harper?»
«Forse avrebbe anche potuto farcela» replicai, «solo che, senza Harper,
il libro non avrebbe venduto.»
«Esattamente.»
«Perché Beryl si serviva di pseudonimi? Faceva parte anche questo dell'accordo con Harper?»
«Penso di sì. Il mio sospetto è che lui volesse fare di Beryl il suo segreto. Da una parte le assicurava il successo letterario, dall'altra voleva segregarla dal mondo. Il nome Beryl Madison non è poi così conosciuto, anche
se i suoi romanzi hanno riportato un certo successo commerciale.»
«Devo dedurne che la scrittrice intendeva violare gli accordi e che per
questo motivo si era rivolta a Orndorff & Berger?»
Mark sorseggiò il suo drink. «Lascia che ti ricordi che Beryl non era mia
cliente. Per cui non conosco tutti i dettagli della faccenda. Ma la mia impressione è che si sentisse bruciata, che intendesse scrivere qualcosa di eclatante. E questa è la parte che probabilmente tu già conosci. Evidentemente aveva dei problemi, qualcuno la stava minacciando, la tormentava...»
«Quando?»
«L'inverno scorso, più o meno nel periodo in cui la incontrai a pranzo.
Credo che fosse la fine di febbraio.»
«Continua» dissi, incuriosita.
«Beryl non aveva idea di chi potesse essere a minacciarla. E non so dirti
con certezza se tutto cominciò prima o dopo la sua decisione di scrivere
ciò a cui stava lavorando.»
«Come se la sarebbe cavata con il contratto violato?»
«Non sono sicuro che ce l'avrebbe fatta, non del tutto» rispose Mark.
«Ma la linea adottata da Sparacino prevedeva di informare Harper che gli
veniva lasciata una possibilità: se collaborava, l'opera finale sarebbe stata
praticamente innocua. In altre parole, Harper avrebbe avuto limitati poteri
di censura. Oppure, se si fosse ostinato a fare il figlio di puttana, Sparacino
avrebbe dato la cosa in pasto ai giornali, una bomba. Harper era incastrato.
Certo avrebbe potuto citare Beryl, ma lei non aveva poi tutti questi soldi,
una sciocchezza rispetto a quello che valeva lui. Un'azione legale non avrebbe fatto altro che accelerare la corsa all'acquisto del libro di Beryl.
Harper non poteva vincere.»
«E non poteva nemmeno bloccare la pubblicazione?» chiesi.
«Altra pubblicità. E mettere i bastoni fra le ruote della stampa lo avrebbe
dato in pasto ai pescecani.»
«Adesso lei è morta.» Osservai la sigaretta che si consumava nel portacenere. «Il libro non è stato terminato, presumo. Harper non ha più preoccupazioni. È questo che vuoi insinuare, Mark? Che quell'Harper potrebbe
essere implicato nell'omicidio?»
«Ti sto solo fornendo il retroscena» disse lui.
Quegli occhi chiari stavano scrutando nei miei. A volte, ricordai con disagio, riuscivano a essere così incredibilmente irraggiungibili.
«A cosa pensi?» mi stava chiedendo.
Non gli dissi che in realtà mi sembrava alquanto strano che lui mi avesse
rivelato tutto ciò. Il fatto che Beryl non fosse sua cliente non aveva importanza. Mark conosceva bene i canoni dell'etica giuridica, in base ai quali
ciò che un solo membro di uno studio legale sa coinvolge anche tutti gli altri. Le sue confidenze erano ai limiti della sconvenienza, e questo era così
poco in linea con lo scrupoloso Mark James dei miei ricordi, che non mi
sarei stupita di più se improvvisamente mi avesse mostrato un tatuaggio
sull'avambraccio.
«Penso che faresti meglio a scambiare due chiacchiere con Marino, il responsabile delle indagini» risposi. «Oppure potrei riferirgli io stessa quello
che hai appena detto a me. In ogni caso, Marino verrà a controllare al tuo
studio, a fare qualche domanda.»
«Bene. Nessun problema.»
Restammo in silenzio per un po'.
«Che aspetto aveva?» chiesi, schiarendomi la gola.
«Come ho detto, l'ho vista soltanto una volta. Ma ti colpiva. Dinamica,
spiritosa, attraente, vestita di bianco. Un favoloso abito bianco. Dovrei anche aggiungere che era piuttosto riservata. Molto misteriosa. C'era qualcosa di sfuggente, in lei, a cui nessuno sarebbe potuto arrivare. E beveva parecchio, almeno così fece quel giorno durante il pranzo: si scolò tre cocktail, il che mi parve decisamente eccessivo, considerato che eravamo solo a metà giornata. Poteva anche non essere nel suo carattere, comunque.
Era nervosa, scossa, tesa. La ragione per cui si era rivolta a Orndorff &
Berger non era delle più felici. Sono sicuro che tutta quella storia con Harper doveva averla turbata.»
«Cosa bevve?»
«Prego?»
«I tre cocktail. Che roba era?» ripetei.
Mark aggrottò le sopracciglia, spostando lo sguardo verso il fondo della
cucina. «Diamine, non lo so, Kay. Che importanza ha?»
«Non sono sicura che abbia qualche importanza» dissi, ripensando all'armadietto dei liquori. «Parlò anche delle minacce che riceveva? In tua
presenza, intendo?»
«Sì. Anche Sparacino. So che aveva cominciato a ricevere telefonate di
natura piuttosto particolare. Sempre la stessa voce, non di qualcuno che
conoscesse, o almeno così disse. C'erano anche degli altri fatti strani, ma
non riesco a ricordare i dettagli: è passato tanto tempo.»
«E Beryl prendeva nota di questi fatti?» chiesi.
«Non so.»
«E non aveva idea di chi potesse perseguitarla e perché?»
«Così sembrava: che non sapesse.» Spinse rapidamente indietro la sedia.
Era quasi mezzanotte.
Mentre lo accompagnavo alla porta d'ingresso, all'improvviso mi venne
in mente qualcosa. «Sparacino» chiesi. «Come si chiama di nome?»
«Robert» rispose.
«Niente iniziali con la M, vero?»
«No» disse, guardandomi incuriosito.
Ci fu una pausa, carica di tensione.
«Guida con prudenza.»
«Buonanotte, Kay» disse, esitando.
Forse era la mia immaginazione, ma per un istante pensai che stesse per
baciarmi. Poi scese i gradini a passo spedito, e quando lo sentii mettere in
moto ero già dentro casa.
Il mattino seguente fu particolarmente frenetico. Durante la riunione
Fielding ci informò che avevamo cinque autopsie, di cui una "galleggiante", o su un corpo decomposto dal fiume, prospettiva che non mancava mai
di provocare unanimi lagnanze. Richmond ci aveva inviato i cadaveri delle
ultime due vittime di scontri a fuoco; riuscii a sbrigarne uno prima di
scappare al Tribunale John Marshall per testimoniare in un altro caso di
sparatoria, quindi al Medicai College per pranzare con uno degli studenti
che seguivo. Nel frattempo ce la misi tutta per togliermi completamente
dalla testa la visita di Mark. Ma più mi sforzavo di non pensare a lui, più lo
facevo. Era orgoglioso. Caparbio. Non rientrava nel suo carattere contattarmi dopo più di un decennio di silenzio.
Solo nel primo pomeriggio mi arresi e chiamai Marino.
«Stavo giusto per telefonarti» esordì, prima ancora di lasciarmi parlare.
«Sto uscendo. Puoi venire all'ufficio di Benton fra un'ora, un'ora e mezzo?»
«A che proposito?» Non gli avevo nemmeno detto il motivo della mia
chiamata.
«Ho messo le mani sui rapporti relativi a Beryl. Pensavo ti interessasse
essere presente.»
Riagganciò, come faceva sempre, senza salutare.
All'ora stabilita ero al volante, lungo East Grace Street. Mi fermai nel
primo posteggio con parchimetro che riuscii a trovare entro un raggio ragionevole dalla mia destinazione. Il moderno palazzo a uffici di dieci piani
era una sorta di faro che dominava una deprimente spiaggia di negozi di
cianfrusaglie, più arroganti che se fossero stati d'antiquariato, e di piccoli
ristoranti etnici le cui specialità non erano affatto speciali. I marciapiedi
consunti erano affollati di pedoni.
Dopo essermi fatta riconoscere al corpo di guardia nell'atrio, presi l'ascensore diretta al quinto piano. In fondo al corridoio c'era una porta di legno priva di targhetta. La sede dello stato maggiore dell'Fbi di Richmond
era uno dei segreti meglio tenuti della città, la sua presenza anonima e discreta come i suoi agenti in abiti borghesi. Un giovane seduto dietro un
bancone diagonale rispetto alla parete mi squadrò rispondendo al telefono.
Coprì il ricevitore con la mano e alzò le sopracciglia in un'espressione che
significava "Posso esserle d'aiuto?". Gli spiegai le ragioni della mia visita e
mi invitò ad accomodarmi, su una sedia.
L'atrio era piccolo e di tono decisamente mascolino, con mobili rivestiti
di solido cuoio blu e il tavolino ingombro di riviste sportive. Sulle pareti a
pannelli erano appesi ritratti di ex dittatori dell'Fbi, targhe di riconoscimento e una placca d'ottone con incisi i nomi degli agenti morti in servizio.
Di tanto in tanto la porta esterna si apriva e uomini alti e agili, in abiti scuri
e occhiali da sole, attraversavano la stanza senza lanciare un'occhiata nella
mia direzione.
Benton Wesley aveva forse un'indole prussiana come tutti gli altri lì dentro, ma nel corso degli anni si era conquistato il mio rispetto. Dietro la maschera di ferro imposta dal suo ruolo si celava un essere umano che valeva
la pena di conoscere. Scattante ed energico perfino da seduto, era sempre
elegante nei suoi classici pantaloni scuri e camicia bianca inamidata. Portava una cravatta sottile alla moda, perfettamente annodata, e la fondina
nera appesa alla cintura era vuota, poiché in ufficio preferiva non tenersi
addosso la calibro 38. Non lo vedevo da un po' di tempo, ma non era cambiato. Lo trovai in forma e di una durezza quasi attraente, con i suoi capelli
prematuramente argentati che non mancavano mai di sorprendermi.
«Spiacente di averti fatto aspettare, Kay» disse con un sorriso.
La sua stretta di mano era rassicurante e decisa, anche se per niente da
macho. La stretta di mano di certi poliziotti e avvocati è una maledetta
pressione di quindici chili su un grilletto che ne pesa uno e mezzo, una
strizzata che di solito mi spezza quasi le dita.
«Marino è qui» aggiunse. «Avevo bisogno di discutere con lui di alcune
cose, prima di farti entrare.»
Mi tenne la porta aperta e lo seguii in un corridoio vuoto. Dopo avermi
guidata in un piccolo ufficio, andò a cercare il caffè.
«Finalmente ieri sera il computer ha sputato la sua risposta» disse Marino. Era comodamente appoggiato allo schienale della sedia ed esaminava
un revolver .357 apparentemente nuovo di zecca.
«Computer? Quale computer?» Avevo dimenticato le sigarette? No. Di
nuovo sul fondo della borsa.
«Quello della centrale. Ci mette un sacco di tempo. Comunque, finalmente ho avuto una copia dei rapporti. Interessante. Almeno mi sembra.»
«A proposito di Beryl?» chiesi.
«Esatto.» Mise la pistola sulla scrivania di Wesley, aggiungendo: «Bel
giocattolino. Quel fortunato di un bastardo l'ha vinta al raduno dei capi di
polizia a Tampa, la settimana scorsa. Io non riesco a vincere nemmeno un
paio di dollari alla lotteria».
Il mio interesse si rivolse altrove. La scrivania di Wesley era ingombra
di messaggi telefonici, rapporti, videotape e spesse buste di carta Manila,
presumibilmente contenenti dettagli e fotografie di vari crimini che le centrali di polizia sottoponevano alla sua attenzione. Nella vetrina dell'armadietto, contro una parete, una collezione di armi macabre: una spada, tirapugni d'ottone, un fucile a cerniera, una lancia africana, trofei di caccia,
doni di protetti riconoscenti. Una vecchia fotografia mostrava William
Webster che stringeva la mano a Wesley, un elicottero del Marine Corp di
Quantico sullo sfondo. Nulla lasciava sospettare che Wesley avesse una
moglie e tre bambini. Gli agenti dell'Fbi, come molti poliziotti, custodiscono gelosamente la propria vita privata per difenderla dal mondo esterno, specialmente se hanno conosciuto il male abbastanza da vicino per sentirne tutto l'orrore. Wesley si occupava di sospetti omicidi, uno che sapeva
cosa significasse passare in rassegna centinaia di fotografie di incredibili
carneficine per poi visitare i penitenziari e fissare dritto negli occhi i vari
Charles Manson e Ted Bundy.
Riapparve con due bicchierini di caffè, uno per Marino, uno per me.
Wesley non mancava mai di ricordarsi che bevevo caffè nero e avevo
sempre bisogno di un portacenere nelle vicinanze.
Marino si sollevò dal grembo un sottile fascio di rapporti di polizia fotocopiati e cominciò a passarli in rassegna.
«Tanto per cominciare» disse, «ce ne sono solo tre. Tre soli rapporti depositati. Il primo è datato undici marzo, nove e mezzo di mattina, un lunedì. La sera precedente Beryl Madison aveva chiamato il 911 chiedendo che
un agente passasse da lei per sporgere una denuncia. La chiamata, inutile
dirlo, fu classificata di bassa priorità, e fino al mattino successivo non si
presentò nessuno in uniforme. Ci andò Jim Reed, in dipartimento da circa
cinque anni.» Alzò gli occhi verso di me.
Scossi la testa. Non conoscevo Reed.
Marino iniziò a scorrere il rapporto. «Reed riportò che la denunziante,
Beryl Madison, era molto agitata e asseriva di avere ricevuto la sera prima
- domenica sera - alle otto e un quarto, una telefonata di natura minatoria.
Nel corso della telefonata, una voce identificata per maschile e possibilmente bianca aveva proferito le seguenti parole: "Scommetto che ti sono
mancato, Beryl. Ma ti tengo sempre d'occhio. Anche se tu non puoi vedermi, io ti vedo. Puoi scappare, ma non nasconderti." La denunziante riferiva, inoltre, che l'autore della telefonata aveva affermato di averla osservata comprare un quotidiano di fronte a un Seven-Eleven, la mattina presto. L'individuo aveva precisato com'era vestita: "una tuta da ginnastica
rossa, senza reggipetto". Beryl Madison aveva confermato di essersi diretta
in macchina al negozio di Rosemount Avenue, all'incirca verso le dieci, la
domenica mattina, vestita nella maniera descritta. Aveva parcheggiato di
fronte al Seven-Eleven, prelevando un "Washington Post" da un distributore automatico, senza entrare nell'emporio o notare nessuno lì in giro. Era
sconvolta dal fatto che l'autore della telefonata conoscesse quei dettagli, e
sospettava di essere pedinata. Alla domanda se le risultasse di essere mai
stata seguita da qualcuno, aveva risposto di no.»
Marino passò alla seconda pagina del rapporto, quella riservata, e riassunse: «Qui Reed riferisce che Miss Madison era riluttante a far conoscere
i dettagli specifici della minaccia ricevuta. Interrogata a fondo, aveva finalmente affermato che il molestatore aveva assunto toni "osceni", assicu-
randole che quando pensava a come doveva essere senza vestiti addosso
provava il desiderio di "ucciderla". A quelle parole, Miss Madison aveva
detto di aver riattaccato il telefono.»
Marino appoggiò la fotocopia sul bordo della scrivania di Wesley.
«Cosa le consigliò di fare, l'agente Reed?» chiesi.
«Il solito» rispose Marino. «Di cominciare a tenere un promemoria; di
annotarsi la data delle telefonate, l'ora e il contenuto. Le consigliò anche di
tenere la porta chiusa a chiave, le finestre sbarrate, e probabilmente di installare un sistema d'allarme. E, se notava la presenza di qualche vettura
sospetta, di rilevarne la targa e avvertire la polizia.»
Ricordai ciò che Mark mi aveva detto a proposito del pranzo con Beryl,
il febbraio precedente. «E Beryl disse che la minaccia, quella segnalata
l'undici marzo, era la prima che riceveva?»
Fu Wesley a rispondere, mentre allungava la mano verso il rapporto. «A
quanto pare no.» Girò una pagina con un colpetto delle dita. «Secondo le
annotazioni di Reed, Beryl dichiarò che stava ricevendo telefonate moleste
dagli inizi dell'anno, ma prima di allora non aveva mai informato la polizia. Sembra che le chiamate precedenti fossero rare e meno specifiche di
quella ricevuta la sera di domenica dieci marzo.»
«Era sicura che a importunarla fosse sempre lo stesso uomo?» chiesi a
Marino.
«A Reed disse che la voce le era parsa la stessa. La voce di un bianco,
delicata e chiara. Non di qualcuno che conoscesse, o almeno così sosteneva.»
Prendendo in mano il secondo rapporto, Marino riassunse: «Beryl chiamò l'agente Reed un martedì sera alle sette e diciotto. Disse che aveva bisogno di vederlo e Reed arrivò a casa sua in meno di un'ora, poco dopo le
otto. Di nuovo, secondo il suo rapporto, la trovò molto turbata: affermava
di avere ricevuto un'altra telefonata minatoria, poco prima di chiamarlo. La
voce e l'oggetto delle telefonate erano gli stessi di quelle precedenti, disse.
In quel caso il messaggio era stato simile a quello del dieci marzo.»
Quindi iniziò a leggere parola per parola. «"So che ti sono mancato,
Beryl. Verrò presto a cercarti. So dove abiti, so tutto di te. Puoi scappare,
ma non puoi nasconderti." Proseguiva dicendo di sapere che la Madison
aveva una macchina nuova, una Honda nera, a cui aveva rotto l'antenna la
sera prima, mentre era parcheggiata nel vialetto d'accesso. La denunziante
confermava che la sera precedente l'auto era rimasta parcheggiata nel vialetto d'accesso e che, uscendo di casa la mattina di quello stesso martedì,
aveva effettivamente notato che l'antenna era rotta: ancora attaccata alla
macchina, ma completamente piegata all'indietro e troppo danneggiata per
funzionare. L'agente andò a controllare il veicolo e scoprì che l'antenna si
trovava nelle condizioni descritte dalla denunziante.»
«Che iniziativa prese l'agente Reed?» chiesi.
Marino saltò alla seconda pagina e disse: «Le consigliò di cominciare a
parcheggiare la macchina in garage. La Madison affermò di non usare mai
il garage, locale che stava anzi progettando di trasformare in studio. L'agente le suggerì allora di chiedere ai propri vicini di stare all'erta, di avvisarla nel caso notassero veicoli sospetti stazionare in zona o qualcuno aggirarsi nella sua proprietà. Il rapporto dice che Beryl domandò dove poteva
procurarsi una pistola».
«È tutto?» chiesi. «E che cosa ne fu del promemoria che Reed le suggerì
di tenere. Nessun accenno?»
«No. L'agente aggiunse la seguente annotazione nella parte riservata del
rapporto: "La reazione della denunziante al danneggiamento dell'antenna
parve esagerata. Divenne estremamente angosciata e a un certo punto si
fece anche offensiva nei miei confronti".» Marino sollevò gli occhi. «Questo significa, in parole povere, che Reed non le credette. Pensò che avesse
rotto lei stessa l'antenna, o che la storia delle minacce telefoniche fosse tutta una messinscena.»
«Oh, Signore» borbottai disgustata.
«Ehi. Hai idea di quante segnalazioni fasulle con merdate del genere ci
arrivino ogni giorno? Ci sono donne che non fanno altro che passare il
tempo a chiamare, ferirsi, graffiarsi e gridare allo stupro. Alcune inventano
tutto. Hanno qualche rotella fuori posto che le spinge a richiamare l'attenzione...»
Sapevo tutto su malattie e ferite fittizie, su quelli che esagerano, su disadattamenti e manie che inducono la gente a desiderare e anche a procurarsi
malattie e lesioni terribili. Non avevo bisogno di lezioni da Marino.
«Prosegui» dissi. «Cos'altro è successo?»
Marino depose il secondo rapporto sulla scrivania di Wesley e cominciò
a leggere il terzo. «Beryl chiamò Reed di nuovo, questa volta il sei di luglio, un sabato mattina alle undici e un quarto. L'agente si presentò da lei
nel pomeriggio alle quattro in punto e la trovò ostile e sconvolta...»
«Ci credo» commentai in tono brusco. «Aveva dovuto aspettare cinque
ore prima che arrivasse.»
Marino mi ignorò e lesse parola per parola: «"In questa occasione Miss
Madison affermò che sempre lo stesso individuo le aveva telefonato alle
undici di mattina per comunicarle il seguente messaggio: 'Ti manco ancora? A presto, Beryl, a presto. Ti sono venuto vicino, la notte scorsa, ma
non eri in casa. Ti tingi i capelli? Spero di no.' Miss Madison, che è bionda, disse che a questo punto aveva cercato di parlargli. Lo aveva supplicato
di lasciarla in pace, gli aveva chiesto chi fosse e perché la tormentasse. Ma
lui non aveva risposto e aveva riagganciato. Miss Madison confermò di essersi trovata fuori, la sera prima, quando l'individuo si era spinto nei paraggi, come dichiarato." Quando l'agente le chiese dove fosse stata, la Madison si fece evasiva, limitandosi a dire che era stata fuori città.»
«E cosa fece l'agente Reed, questa volta, per alleviare l'ansia della signora?» chiesi.
Marino mi lanciò una tiepida occhiata. «Le consigliò di prendersi un cane, ma lei rispose di essere allergica.»
Wesley aprì uno schedario. «Kay, non dimenticare che stai guardando le
cose in retrospettiva, alla luce di un terribile crimine già commesso. Reed,
invece, valutava la situazione dalla parte opposta. Prova a considerarla attraverso i suoi occhi. Aveva davanti una giovane donna che viveva sola e
stava diventando isterica. Reed fa quello che può per lei, le dà addirittura il
suo numero di telefono privato. All'inizio le dà retta, le mostra una certa
sollecitudine. Ma quando le rivolge domande specifiche, lei si fa evasiva.
Non ha prove. Qualunque agente diventerebbe scettico.»
«Al suo posto» convenne Marino, «so che cosa avrei pensato io. Mi sarei insospettito, sapendo che la donna era sola. Avrei pensato che avesse
bisogno di attenzione, di qualcuno che si occupasse di lei. O anche che
fosse rimasta scottata da qualche amante e stesse inscenando tutto per restituirgli il colpo.»
«Giusto» dissi, senza riuscire a trattenermi. «E se fosse stato suo marito
o il suo ragazzo a minacciare di ucciderla, avresti pensato la stessa cosa. E
Beryl sarebbe morta ugualmente.»
«Forse» rispose lui, irritato. «Ma se si fosse trattato di suo marito, ponendo che ne avesse uno, almeno avrei avuto un sospetto e avrei potuto fare emettere un avviso di garanzia, e il giudice avrebbe potuto spiccare un'ordinanza restrittiva.»
«Le ordinanze restrittive non valgono la carta su cui sono scritte» lo
rimbeccai. La rabbia mi stava facendo perdere il controllo. Non era passato
anno senza che mi fossi trovata davanti una mezza dozzina di cadaveri di
donne brutalizzate ai cui mariti o fidanzati non fosse stata recapitata un'or-
dinanza restrittiva.
Dopo un lungo silenzio, chiesi a Wesley: «Reed non ti ha mai proposto
di mettere sotto controllo il telefono della Madison, per un po' di tempo?».
«Non sarebbe servito a niente» rispose. «Non è facile farsi concedere dispositivi d'intercettazione. La compagnia dei telefoni ha bisogno di una
lunga lista di chiamate, di prove inconfutabili delle molestie.»
«E Beryl non aveva prove inconfutabili?»
Wesley scosse il capo, lentamente. «Sarebbero occorse molte più telefonate di quante ne aveva ricevute, Kay. Tante. Un prospetto preciso di
quando si erano verificate. Una precisa registrazione delle stesse. Senza
tutto questo, puoi scordarti il dispositivo.»
«Tutto lascia pensare» aggiunse Marino «che Beryl non ricevesse più di
una o due telefonate al mese. E che non stesse tenendo il promemoria suggeritole da Reed. Almeno, non l'abbiamo trovato. E non ha neanche registrato nessuna delle chiamate.»
«Buon Dio» borbottai. «Un folle minaccia di ucciderti e ci vuole un atto
del Congresso perché qualcuno ti prenda sul serio.»
Marino sbuffò. «È come nel tuo campo, dottoressa. Nessuno parla di
medicina preventiva. Non siamo altro che una fottuta squadra di pulizie.
Non possiamo fare un bel niente se non dopo il fatto, quando ci sono prove
solide. Come un cadavere.»
«Il comportamento di Beryl avrebbe dovuto costituire una prova sufficiente» risposi. «Da' un'occhiata a questi rapporti. Tutto quello che l'agente
Reed le consiglia, Beryl lo fa. Le dice di installare un sistema d'allarme, e
lei esegue. Le dice di cominciare a parcheggiare la macchina in garage, e
lei lo fa, anche se aveva in progetto di trasformare il locale in uno studio.
Gli chiede dove procurarsi una pistola, e corre a comprarsela. E ogni volta
che telefonava a Reed, era sempre subito dopo che l'assassino l'aveva
chiamata e minacciata. In altre parole, non aspettava ore o giorni prima di
avvisare la polizia.»
Wesley cominciò a disporre sulla scrivania le fotocopie delle lettere di
Beryl da Key West, gli schizzi e il rapporto della scena del delitto e una serie di Polaroid scattate in giardino, all'interno della casa e infine al corpo
nella camera da letto del piano superiore. Scrutò i fogli attentamente, in silenzio, la faccia dura. Voleva farci capire che era ora di sloggiare, che avevamo discusso e ci eravamo lamentati a sufficienza. Quello che la polizia
aveva o non aveva fatto, non aveva nessuna importanza. Contava solo trovare l'assassino.
«Quello che mi lascia perplesso» esordì dopo un po' «è un'incongruenza
nelle modalità d'esecuzione del delitto. La storia delle minacce che Beryl
riceveva è in sintonia con una mentalità psicopatica. Qualcuno che la pedina e la minaccia per mesi, qualcuno che sembra conoscerla solo a distanza.
Indiscutibilmente nella fase iniziale doveva derivare buona parte del suo
piacere da pure fantasie. E la tirava per le lunghe. Quando, alla fine, l'ha
uccisa, l'ha fatto perché lei lo aveva frustrato, lasciando la città. Può darsi
temesse che Beryl intendesse trasferirsi definitivamente, così, nel momento in cui torna, la uccide.»
«Certo, Beryl l'aveva lasciato un bel po' a bocca asciutta» interloquì Marino.
Wesley continuava a guardare le fotografie. «Vedo parecchia rabbia, ed
è qui che trovo l'incongruenza. La sua rabbia sembra diretta personalmente
contro di lei. Nelle mulilazioni al viso in modo particolare.» Tamburellò su
una fotografia col dito indice. «La faccia è la persona. Nel classico omicidio di un maniaco sessuale, il volto della vittima non viene toccato. La vittima assurge a simbolo, si spersonalizza. In un certo senso, lei non ha faccia per l'uccisore perché lei, per lui, non è nessuno. Le zone del corpo che
egli mutila, qualora lo faccia, sono il seno, i genitali...» Fece una pausa, un'espressione di perplessità negli occhi. Nell'assassinio di Beryl compaiono
elementi personali. Le ferite al viso, l'accanimento eccessivo, fanno supporre che l'omicida fosse una persona a lei nota, probabilmente qualcuno
che conosceva bene. Qualcuno affetto da una intensa ossessione nei suoi
personali confronti. Ma il controllo a distanza, il pedinamento, non collimano con questo quadro, sarebbero più in linea con un assassino sconosciuto.»
Marino si era di nuovo messo a giocherellare con la .357 di Wesley.
«Volete sapere la mia opinione?» chiese, facendo ruotare pigramente il cilindro. «Io penso che il nostro amico soffra di un complesso di onnipotenza: finché stai al suo gioco, non ti colpisce. Ma Beryl sgarra: lascia la città
e pianta un cartello VENDESI nel giardino. Finito il divertimento. Tu infrangi le regole, e io ti punisco.»
«Come te lo immagini?» chiesi a Wesley.
«Bianco, tra i venticinque e i trenta. Intelligente, cresciuto in una famiglia divisa e privato della figura paterna. Può anche avere subito violenze
da bambino, fisiche, psicologiche o di entrambi i tipi. È un solitario. Il che
non significa che viva da solo, comunque. Potrebbe essere sposato e abituato a nascondersi dietro qualche maschera ufficiale. Conduce una doppia
vita. C'è l'uomo che vedono gli altri, e il suo lato più oscuro. È un ossessivo-coatto e anche un voyeur.»
«Già» mormorò Marino con sarcasmo. «Esattamente quello che si può
dire della metà dei miei colleghi.»
Wesley si scosse nelle spalle. «Sto sparando a casaccio, Pete. Non ho
ancora inquadrato bene la faccenda. Potrebbe trattarsi di un perdente che
vive ancora con la madre, magari ha dei precedenti, è passato da un istituto
all'altro, da una prigione all'altra. Che ne so, potrebbe lavorare in città in
un grosso studio di titoli e obbligazioni e non avere alcuna storia criminale
o psichiatrica alle spalle. Pare che di solito chiamasse Beryl la sera. L'unica telefonata che ci risulti fatta in pieno giorno cade di sabato. Beryl lavorava fuori casa, era via quasi tutto il tempo. Lui la chiamava quando gli faceva comodo, più che quando aveva probabilità di trovarla in casa. Propenderei per qualcuno con un impiego regolare dalle nove alle cinque e
che sia libero nei fine settimana.»
«A meno che invece, non la chiamasse proprio dal posto di lavoro» osservò Marino.
«C'è sempre questa possibilità» ammise Wesley.
«E a proposito dell'età?» chiesi. «Non pensi che potrebbe essere anche
più vecchio di quanto tu non abbia suggerito?»
«Sarebbe strano» disse Wesley. «Ma tutto è possibile.»
Sorseggiando il caffè, ormai freddo, cominciai a raccontare ciò che
Mark mi aveva detto circa la vertenza contrattuale di Beryl e la sua enigmatica relazione con Cary Harper. Quando ebbi finito, Wesley e Marino
mi fissarono incuriositi. Innanzitutto, trovavano un po' strana quella visita
estemporanea a tarda sera da parte di un avvocato di Chicago. Secondariamente, la rivelazione apriva nuove prospettive. Probabilmente né
a Marino né a Wesley, e di certo nemmeno a me, fino alla sera prima, era
venuto in mente che l'assassino di Beryl potesse anche avere un movente
concreto. La caratteristica più comune negli omicidi a sfondo sessuale è infatti l'assoluta mancanza di movente reale. Gli autori li commettono solo
perché ne godono e perché se ne presenta loro l'occasione.
«Un mio amico poliziotto di Williamsburg» commentò Marino «mi ha
detto che Harper è un vero eccentrico, un eremita. Gira al volante di una
vecchia Rolls-Royce e non parla mai con nessuno. Vive in questa grande
tenuta sul fiume senza ricevere anima viva. Ed è anche piuttosto vecchio.»
«Non così vecchio» dissentii. «Sui cinquantacinque. Ma, sì, è un solitario. Penso che viva con la sorella.»
«È un caso difficile» sentenziò Wesley; sembrava molto teso. «Ma vedi
quello che riesci a fare, Pete. In mancanza d'altro, forse Harper potrebbe
avere delle idee circa questo "M" a cui Beryl scriveva. Ovviamente doveva
trattarsi di qualcuno che lei conosceva bene, di un amico, di un amante.
Qualcuno, laggiù, dovrebbe sapere chi è. Scoperto questo, saremo già a
buon punto.»
Marino non ne era convinto. «Da quanto mi risulta» disse, «Harper non
ne vorrà sapere di parlare con me e io non ho nessun motivo per costringerlo a farlo. Non penso nemmeno sia tipo da ammazzare Beryl, anche avendo una ragione. In quel caso l'avrebbe fatta fuori subito, senza pensarci
troppo. Perché tirarla avanti per nove, dieci mesi? Se a chiamarla fosse stato luì, Beryl avrebbe riconosciuto senz'altro la voce.»
«Ma potrebbe avere assoldato qualcuno» obiettò Wesley.
«Giusto. E noi l'avremmo trovata una settimana dopo con un bel forellino pulito pulito da arma da fuoco nella nuca» rispose Marino. «Non capita
spesso che i killer si mettano alle costole delle loro vittime, le chiamino al
telefono, usino una lama e le stuprino.»
«In genere non lo fanno» concordò Wesley. «Ma nessuno ci assicura che
vi sia stato stupro. Non è stato trovato liquido seminale.» Mi lanciò un'occhiata e io risposi con un cenno di conferma. «Magari soffre di qualche disfunzione. In tal caso però ci risiamo: la scena del delitto potrebbe essere
stata tutta una montatura, il corpo di lei posizionato in modo da lasciar presupporre un'aggressione sessuale quando in realtà non c'è stata. Se le cose
stanno così, tutto dipende da chi è stato assoldato e da qual era il piano. Se
risulta che Beryl è stata fatta fuori nel corso di una lite con Harper, la polizia lo mette per primo nella lista: ma se il suo assassino agisce in modo da
far pensare all'opera di un sadico, di uno psicopatico, nessuno si preoccupa
più di Harper.»
Marino stava osservando la libreria, la faccia carnosa arrossata. Volgendo lentamente uno sguardo imbarazzato su di me, disse: «Che altro sai sul
libro che Beryl stava scrivendo?».
«Esattamente quello che ho già detto, che era autobiografico e che, probabilmente, avrebbe potuto nuocere alla reputazione di Harper» risposi.
«Era a quello che stava lavorando laggiù, a Key West?»
«Direi di sì. Ma non posso esserne certa.»
Esitò. «Be', spiacente di doverti dare la notizia, ma in casa sua non abbiamo trovato niente di simile.»
Lo stesso Wesley parve sorpreso. «E il manoscritto nella sua camera da
letto?»
«Oh, quello.» Marino afferrò il pacchetto di sigarette. «Gli ho dato un'occhiata. Un altro romanzo con altre stronzate sulla Guerra Civile. Nulla
a che vedere con quello di cui parla la nostra amica, di sicuro.»
«C'è qualche titolo o data?» chiesi.
«No. Non sembra nemmeno completo, se è per quello. Grosso così.»
Marino indicò uno spessore di circa un pollice. «Con un sacco di note a
margine, e un'altra decina di pagine scritte amano.»
«Meglio che ripassiamo tutte le sue carte e i dischetti del computer, tanto per essere davvero sicuri che il manoscritto autobiografico non ci sia»
disse Wesley. «Dobbiamo anche scoprire chi è il suo agente o direttore letterario. Può darsi che Beryl, prima di lasciare Key West, ne abbia spedito
una copia a qualcuno. Meglio verificare definitivamente. Se viene fuori
che è tornata a Richmond con il manoscritto, e se adesso è scomparso,
questo elemento diventa quantomeno significativo.»
Controllando l'orologio, Wesley spinse indietro la sedia e annunciò in
tono di scusa: «Ho un altro appuntamento fra cinque minuti». Ci scortò all'ingresso.
Non riuscii a liberarmi di Marino, che insistette per accompagnarmi alla
macchina.
«Devi tenere gli occhi aperti.» Non perdeva occasione per darmi le solite
lezioni col tono di chi la sa lunga. «Molte donne non ci pensano. Le vedo
camminare tranquille, senza la più pallida idea di chi le stia guardando, o
magari seguendo. E quando sali in macchina, tieni a portata di mano le
chiavi e prima guarda se c'è nessuno nascosto sotto, okay? Non hai idea di
quante donne nemmeno ci pensino. Se stai guidando da sola e ti accorgi
che qualcuno ti segue, cosa fai?»
Lo ignorai.
«Punti verso la stazione antincendio più vicina, okay? Perché? Perché là
c'è sempre qualcuno. Anche alle due del mattino del giorno di Natale. Ecco
il primo luogo in cui dirigersi.»
Mentre aspettavo di poter attraversare nel traffico, cominciai a cercare le
chiavi. Sbirciando di là dalla strada notai un sinistro rettangolo bianco sotto il tergicristallo della macchina. Non avevo messo abbastanza monete nel
parchimetro? Accidenti.
«Se ne trovano dappertutto» proseguì Marino. «Comincia a controllare
di non averne dietro qualcuno sulla via di ritorno a casa o quando stai correndo di qua e di là per le spese.»
Gli sparai una delle mie occhiate, quindi attraversai in fretta la strada.
«Ehi» riprese quando arrivammo alla macchina, «non avere troppe arie
di sufficienza con me, okay? Chissà che prima o poi tu non debba sentirti
fortunata se ti starò svolazzando intorno a mo' di angelo custode.»
Il parchimetro era scattato a zero da un quarto d'ora. Afferrando il tagliando dal parabrezza, lo piegai e lo infilai nella tasca della camicia di
Marino.
«Quando svolazzi dalle parti della sede centrale» dissi, «occupati di questo, per favore.»
Mentre mi allontanavo, restò a guardarmi imbronciato.
3
Dieci isolati più avanti mi infilai in un altro posteggio a tempo e ficcai i
miei due ultimi quarti di dollaro nel parchimetro. Esposi la targa rossa di
MEDICO LEGALE bene in vista sul cruscotto della macchina di servizio.
I vigili non sembravano mai farci caso. Parecchi mesi prima uno di loro
aveva avuto il coraggio di farmi una multa mentre mi trovavo in centro per
un sopralluogo sulla scena di un delitto, chiamata espressamente dalla polizia.
Salendo in fretta i gradini di cemento, superai una porta di vetro ed entrai nella succursale principale della biblioteca pubblica, dove la gente si
muoveva silenziosa fra tavoli di legno carichi di libri. L'atmosfera ovattata
mi ispirava la stessa reverenza di quand'ero bambina. Individuata a metà
sala una fila di apparecchi per microfiche, cominciai a scorrere un indice
dei libri scritti da Beryl Madison sotto i vari pseudonimi e ad annotarne i
titoli. L'opera più recente, un romanzo storico ambientato ai tempi della
Guerra Civile e pubblicato sotto lo pseudonimo di Edith Montague, era uscita un anno e mezzo prima. Probabilmente inutile, Mark aveva ragione,
pensai. Nel corso degli ultimi dieci anni, Beryl aveva pubblicato sei romanzi, di nessuno dei quali avevo mai sentito parlare.
Dopodiché iniziai una ricerca sui periodici. Niente. Beryl scriveva solo
libri. Evidentemente non aveva pubblicato articoli, né c'erano mai state interviste su di lei nelle varie riviste. I quotidiani avrebbero dovuto essere
più promettenti. Negli ultimi anni erano state pubblicate alcune recensioni
di libri sul "Times" di Richmond, ma non mi interessavano perché si riferivano all'autore usando lo pseudonimo: invece l'assassino di Beryl la conosceva con il vero nome.
Feci scorrere sul video schede su schede in sfuocati caratteri bianchi.
Maberly, Macon, e finalmente Madison. C'era un brevissimo pezzo su
Beryl sul "Times" del novembre precedente:
CONFERENZA CON AUTORE
La romanziera Beryl Stratton Madison terrà una conferenza per le
Daughters of the American Revolution questo mercoledì al Jefferson
Hotel, Main and Adams streets. La signora Madison, pupilla del vincitore del Premio Pulitzer Cary Harper, è molto conosciuta per i suoi
romanzi storici ambientati ai tempi della Rivoluzione Americana e
della Guerra Civile. Tema della conferenza: "Attualità della leggenda
come veicolo per il fatto".
Preso nota dell'informazione, mi trattenni quanto bastava per dare un'occhiata ad alcuni libri di Beryl. Quindi tornai in ufficio e mi misi a sistemare delle carte, continuamente distratta dalla vista del telefono. Non è affar
tuo. Ero ben consapevole dei confini che separavano il mio ambito di
competenza da quello della polizia.
L'ascensore in fondo alla sala si aprì e alcuni custodi uscirono parlando a
voce alta e dirigendosi verso la stanza dei portieri, parecchie porte più avanti. Arrivavano sempre verso le sei e mezzo. Ero certa che la signora
J.R. McTigue, indicata nell'annuncio come responsabile delle prenotazioni,
non avrebbe mai risposto. Il numero che mi ero trascritta era probabilmente quello dell'ufficio amministrativo del Dar, (le Figlie della Rivoluzione Americana) che chiudeva alle cinque.
Il ricevitore venne sollevato al secondo squillo.
«Parlo con la signora J.R. McTigue?» chiesi, dopo una pausa.
«Sì. Sono la signora McTigue.»
Era troppo tardi. Inutile tergiversare. «Signora McTigue, sono la dottoressa Scarpetta...»
«Dottoressa chi?»
«Scarpetta» ripetei. «Il medico legale che si occupa della morte di Beryl
Madison...»
«Oh, cielo! Sì, l'ho letto. Santo cielo. Era una persona così amabile. Proprio non riuscivo a crederci, quando l'ho saputo...»
«Mi risulta che la scrittrice abbia tenuto una conferenza nel vostro incontro di novembre» dissi.
«Eravamo così eccitate quando accettò di venire. Sa, non erano cose che
faceva spesso.»
La signora McTigue sembrava piuttosto anziana, e avevo già la brutta
sensazione di aver fatto una mossa sbagliata quando lei mi sorprese.
«Vede, Beryl ce lo fece come favore. Ecco la sola ragione per cui venne.
Joe, il mio povero marito, era amico di Cary Harper, lo scrittore. Sono certa che ne avrà sentito parlare. Fu Joe a organizzare tutto, sapeva quanto
fosse importante per me. Ho sempre amato i libri di Beryl.»
«Dove abita, signora McTigue?»
«Ai Gardens.»
Chamberlayne Gardens era una residenza per anziani appartata, non lontana dal centro. Un'altra spiacevole pietra miliare nella mia vita professionale. Negli ultimi anni mi erano capitati diversi casi da quelle parti, così
come del resto in ogni altro pensionato comunitario o casa di riposo della
città.
«Mi domandavo se non potrei passare un minuto da lei, quando esco
dall'ufficio» dissi. «Sarebbe possibile?»
«Credo di sì. Certo che sì. Mi farebbe piacere. Come ha detto che si
chiama?»
Scandii il mio nome lentamente.
«Abito nell'appartamento tre-settantotto. Quando arriverà nell'atrio,
prenda l'ascensore fino al terzo piano.»
Il posto in cui viveva mi diceva già parecchie cose sul conto della signora McTigue. Chamberlayne Gardens provvedeva agli anziani che per sopravvivere non avevano bisogno di ricorrere all'Assistenza Sociale. I depositi sugli appartamenti erano piuttosto salati, l'affitto mensile decisamente
superiore a ciò che i più si sarebbero potuti permettere. Ma i Gardens, come altri complessi dello stesso tipo, erano solo una gabbia dorata: per
quanto fossero eleganti, a nessuno piaceva realmente viverci.
Sul lato ovest del complesso si ergeva un moderno edificio di mattoni,
un ibrido deprimente a metà fra un hotel e un ospedale. Parcheggiata la
macchina nello spazio riservato ai visitatori, puntai verso un portico illuminato che prometteva di essere l'entrata principale. Nell'atrio risplendevano riproduzioni di Williamsburg e pesanti vasi di cristallo lavorato, traboccanti di composizioni di fiori in seta. Sulla moquette rossa c'erano tappeti orientali fatti a macchina, e dall'alto pendeva un lampadario di ottone.
Su un divano era appollaiato un vecchio, bastone stretto nella mano, occhi
spenti sotto la falda di un berretto inglese di tweed. Un'altra inquilina de-
crepita si avventurava sulla moquette con un deambulatore.
Dietro una pianta posta sulla scrivania dell'entrata scorsi un giovanotto
annoiato; non mi prestò nessuna attenzione mentre mi dirigevo verso l'ascensore. Finalmente le porte si aprirono, quindi ci misero un'eternità a
chiudersi, come ci si può aspettare nei luoghi riservati a gente che si sposta
con lentezza. Dovendo salire tre piani tutta sola, mi misi a fissare distrattamente i bollettini attaccati sulle pareti interne: annunci di gite istruttive ai musei e alle piantagioni della zona, di club di bridge, negozi di artigianato e una scadenza per la consegna di lavori a maglia al Centro Comunità Ebraiche. Molti degli annunci erano ormai superati. I pensionati per
anziani, con i loro nomi cimiteriali stile Terra del Sole o Pineta Balsamica
o Chamberlayne Gardens, mi davano sempre un leggero senso di nausea.
Non sapevo cosa avrei fatto quando mia madre non fosse più stata in grado
di vivere da sola. L'ultima volta che l'avevo sentita, mi aveva parlato di
una protesi all'anca.
L'appartamento della signora McTigue era a metà corridoio sulla sinistra
e al mio bussare rispose prontamente una donna avvizzita dai capelli radi,
con riccioli corti e ingialliti come la carta antica. Si era picchiettata le
guance di rosso ed era infagottata in un cardigan bianco fuori misura. Sentii un odore di acqua di colonia floreale misto a un aroma di formaggio al
forno.
«Sono Kay Scarpetta» dissi.
«Oh, mi fa piacere che sia venuta» esordì, dando leggeri colpetti alla mia
mano tesa. «Posso offrirle del tè o preferisce qualcosa di un po' più forte?
Qualunque cosa desideri, ce l'ho. Io berrò del porto.»
Tutto questo mentre mi conduceva nel piccolo salotto e mi indicava una
poltrona a schienale alto. Spegnendo il televisore, accese un'altra lampada.
Il salotto era più opprimente del set operistico dell'Aida. Pesanti mobili di
mogano ingombravano ogni centimetro disponibile sul tappeto persiano
scolorito: sedie, tavolinetti a tamburo, un tavolo carico di oggettini vari, librerie stipate, credenze ad angolo ricolme di servizi in porcellana e bicchieri a calice. Sulle pareti, a distanza ravvicinata gli uni dagli altri, c'erano
cupi dipinti, cordoni di campanelli e parecchie incisioni su ottone.
Tornò reggendo in mano un piccolo vassoio d'argento con sopra una caraffa di porto Waterford, due calici intonati e un piattino di biscotti al formaggio fatti in casa. Riempì i bicchieri, quindi mi porse il piatto e dei tovaglioli di lino merlettato, stirati e dall'aria antica. Un rituale dai tempi abbastanza lunghi. Poi la signora McTigue si sedette a un'estremità consunta
di un divano, dove sospettai che restasse parecchie ore al giorno a leggere
o a guardare la televisione. Sembrava contenta di avere compagnia, anche
se per un motivo non propriamente piacevole. Mi domandai chi, se mai la
cosa succedeva, venisse a farle visita.
«Come le accennavo poco fa, sono il medico legale che si occupa del caso Beryl Madison» esordii. «Ma quelli di noi che stanno indagando sulla
sua morte sanno piuttosto poco di lei o delle persone che potrebbero averla
conosciuta.»
La signora McTigue sorseggiò il suo porto, il viso inespressivo. Ero talmente abituata ad andare subito al sodo con la polizia e i procuratori, che
qualche volta mi dimenticavo di come il resto del mondo avesse bisogno di
una fase introduttiva. Il biscotto era burroso e davvero squisito. Glielo dissi.
«Ah, grazie.» Sorrise. «Prego, favorisca pura. Ce ne sono in abbondanza.»
«Signora McTigue» tentai di nuovo, «conosceva già Beryl Madison,
prima di invitarla a parlare al suo gruppo l'autunno scorso?»
«Oh, sì» rispose. «Almeno indirettamente, perché ero una sua accanita
ammiratrice da anni. Mi riferisco ai suoi libri, sa. Il romanzo storico è il
mio genere prediletto.»
«Come sapeva che lei li scriveva?» chiesi. «Quei libri sono pubblicati
sotto pseudonimi. Sulle copertine o nelle note biografiche non viene mai
citato il suo nome reale.» Prima di lasciare la biblioteca avevo passato in
rassegna un certo numero di libri di Beryl.
«Verissimo. Suppongo di essere una delle poche persone al corrente della sua identità, grazie a Joe.»
«Suo marito?»
«Lui e il signor Harper erano amici» ribadì. «Be', nei limiti in cui lo si
può essere realmente con il signor Harper. Si conobbero per ragioni d'affari, a causa dell'attività di Joe. Ecco come incominciò.»
«Di che affari si occupava suo marito?» chiesi, decidendo che la mia ospite era molto meno confusa di quanto non avessi immaginato poco prima.
«Costruzioni. Quando il signor Harper comprò Cutler Grove, la casa necessitava di restauri urgenti. Joe trascorse quasi due anni come sovrintendente ai lavori.»
Avrei dovuto collegare le cose immediatamente. L'Impresa McTigue e la
Compagnia Legnami McTigue erano le più grosse compagnie di Ri-
chmond, con uffici in tutta la regione.
«Il restauro terminò quindici anni fa» proseguì la signora. «E fu mentre
Joe lavorava al Grove che vidi Beryl per la prima volta. Lei veniva spesso,
in compagnia del signor Harper, e presto si trasferì nella casa. Era molto
giovane.» Fece una pausa. «Ricordo che a quel tempo Joe mi riferì di come il signor Harper avesse adottato una giovane e bellissima autrice di
grande talento. Penso fosse orfana, o qualcosa di altrettanto triste. Ma ovviamente il particolare passò sotto rigoroso silenzio.» Depose con delicatezza il bicchiere e attraversò lentamente la stanza fino allo scrittoio. Aprendo un cassetto, estrasse una busta color panna di formato regolare.
«Ecco» disse. Le tremavano le mani mentre me la porgeva. «È la sola
fotografia che ho di loro.»
Dentro la busta c'era un foglio bianco di pesante carta grezza, che avvolgeva una vecchia fotografia in bianco e nero, leggermente sovresposta. Fra
due imponenti uomini abbronzati, in abiti sportivi, appariva un'adolescente
delicata e bionda. Le tre figure, vicine l'una all'altra, fissavano l'obiettivo
di traverso, fra i bagliori di un sole infuocato.
«Questo è Joe» disse la signora McTigue, indicando l'uomo alla sinistra
della ragazza, che ero certa fosse Beryl da giovane. Aveva le maniche della camicia kaki arrotolate fino ai gomiti delle braccia muscolose, gli occhi
schermati dalla falda di un cappello International Harvester. Alla destra di
Beryl c'era un corpulento individuo dai capelli bianchi, che la signora
McTigue, proseguendo nella spiegazione, mi indicò come Cary Harper.
«Venne scattata vicino al fiume» riprese. «Al tempo in cui Joe lavorava
alla casa. Il signor Harper aveva già i capelli bianchi, anche allora. Suppongo che lei conosca la storia. Sembra che i capelli gli siano diventati
bianchi mentre scriveva The Jagged Corner, appena trentenne.»
«Fu scattata a Cutler Grove?»
«Sì, a Cutler Grove» rispose.
Il viso di Beryl mi turbava. Era una faccia troppo saggia e accorta per
una persona così giovane, carica della malinconia, del desiderio e della tristezza che generalmente associo ai bambini maltrattati e abbandonati.
«Beryl era appena una ragazzina, allora» disse la signora McTigue.
«Immagino che avesse sedici anni, forse diciassette?»
«Be', sì. Mi sembra di sì, più o meno» rispose, osservandomi mentre
riavvolgevo la fotografia nel foglio di carta e rimettevo tutto nella busta.
«La trovai solo dopo che Joe venne a mancare. Sospetto che l'abbia scattata qualcuno dei suoi collaboratori.»
La signora McTigue riportò la busta nel cassetto e, quando l'ebbe risistemata, aggiunse: «Penso che una delle ragioni per cui mio marito se la
intendeva così bene col signor Harper sia che Joe era un po' come una
strada a senso unico, per quanto riguardava le faccende degli altri. Doveva
conoscere parecchie cose delle quali sono certa che neppure mi accennò».
Fece un debole sorriso e prese a fissare la parete.
«Evidentemente, il signor Harper parlò a suo marito dei libri di Beryl,
quando iniziarono a essere pubblicati» osservai.
La signora McTigue tornò a guardarmi e parve sorpresa. «Sa, non sono
sicura che Joe mi disse mai con precisione come ne fosse a conoscenza,
dottoressa Scarpetta. Che nome grazioso. Spagnolo?»
«Italiano.»
«Oh! Allora scommetto che lei è una vera cuoca.»
«Cucinare mi diverte» risposi, sorseggiando il mio porto. «Quindi, evidentemente, fu il signor Harper a parlare a suo marito dei libri di Beryl.»
«Oh, cielo!» La donna aggrottò la fronte. «È curioso che me lo chieda. È
qualcosa a cui non ho mai prestato attenzione. Ma deve essere stato il signor Harper a parlargliene, a un certo punto. Diamine, sì, non posso immaginare in quale altro modo Joe possa essere venuto a saperlo. Comunque lo seppe. Quando Bandiera d'onore uscì la prima volta, me ne regalò
una copia a Natale.»
Si alzò di nuovo. Frugando in vari scaffali, alla fine estrasse un grosso
volume e me lo porse. «È autografato» aggiunse orgogliosa.
Lo aprii e guardai la generosa firma di "Emily Stratton", apposta nel dicembre di dieci anni prima.
«Il suo primo libro» ripetei.
«Decisamente uno dei pochi che Beryl abbia mai firmato.» La signora
McTigue era raggiante. «Credo che Joe fosse riuscito a ottenerlo grazie al
signor Harper. Naturalmente, non potrei averlo avuto in alcun altro modo.»
«Ha altre edizioni firmate?»
«Non delle sue. Sa, posseggo tutti i suoi libri, li ho letti tutti, molti anche
due o tre volte.» Esitò, spalancando gli occhi. «È successo proprio come
hanno riferito i giornali?»
«Sì.» Non stavo dicendo proprio tutta la verità. La morte di Beryl era
stata ben più brutale di quanto non avesse riportato la stampa.
Allungò una mano verso un altro biscotto al formaggio, e per un istante
parve sull'orlo delle lacrime.
«Mi dica del novembre scorso» la pregai. «È passato quasi un anno da
quando Beryl venne a parlare al vostro gruppo, signora McTigue. Lo fece
per le Figlie della Rivoluzione Americana?»
«Era la nostra colazione annuale con l'autore. L'evento più importante di
ogni anno, quando invitiamo un oratore speciale, un autore: di solito qualche nome molto noto. Era il mio turno di presidenza del comitato, toccava
a me occuparmi dell'organizzazione, trovare l'oratore. Fin dall'inizio seppi
che volevo Beryl, ma le difficoltà non tardarono a presentarsi. Non sapevo
come rintracciarla. Il suo numero di telefono non figurava nell'elenco e io
non avevo idea di dove vivesse, nessun sospetto che abitasse proprio qui a
Richmond! Alla fine, chiesi a Joe di aiutarmi.» Esitò, ridendo imbarazzata.
«Sa, sospetto che volessi verificare se sarei riuscita a organizzare l'incontro
tutta da sola. E mio marito era così occupato. Be', una sera Joe chiamò il
signor Harper e proprio la mattina dopo il telefono squillò. Non potrò mai
dimenticare il mio sbigottimento. Diamine, ero quasi senza parole, quando
Beryl si presentò.»
Il telefono di Beryl. Non mi era venuto in mente che il suo numero non
figurasse nell'elenco. Il dettaglio non era stato minimamente citato, nei
rapporti dell'agente Reed. E Marino, lo sapeva?
«Beryl accettò l'invito, con mio sommo piacere, quindi fece le solite
domande» disse la signora McTigue. «Quanto fosse il pubblico previsto.
Fra le due e le trecento persone, le risposi. Per quanto tempo avrebbe dovuto parlare, e quel genere di cose. Si mostrò estremamente disponibile,
incantevole. Non loquace, in ogni caso. Ed era strano. Non le interessava
portare dei libri. Gli autori pretendono sempre di portare i propri libri, sa.
Per venderli dopo la conferenza, autografati. Beryl disse che non era sua
abitudine e rifiutò anche di essere pagata. Decisamente fuori dalla norma.
Mi parve molto dolce e modesta.»
«Eravate un gruppo di sole donne?» chiesi.
La signora McTigue si sforzò di ricordare. «Penso che qualcuna delle iscritte avesse portato il marito, ma le partecipanti erano in gran parte donne. È quasi sempre così.»
Me l'aspettavo. Mi pareva improbabile che l'assassino di Beryl si trovasse fra le sue ammiratrici, quel giorno di novembre.
«Accettava spesso inviti tipo il vostro?» chiesi.
«Oh, no, tutt'altro» si affrettò a precisare la signora McTigue. «So che
non lo faceva, almeno nella zona. Ne avrei sentito parlare e sarei stata la
prima a parteciparvi. Mi diede l'impressione di essere una giovane molto
riservata, che scriveva per la sola gioia di farlo, non per suscitare attenzio-
ne. Il che spiega perché usasse degli pseudonimi. È raro che gli scrittori
che mascherano la propria identità, come faceva lei, si espongano in pubblico. E sono sicura che non avrebbe fatto eccezione nemmeno per me,
non fosse stato per la conoscenza del signor Harper da parte di Joe.»
«Ho l'impressione che Beryl avrebbe fatto praticamente di tutto per il signor Harper» commentai.
«Diamine, sì. Immagino proprio di sì.»
«L'ha mai conosciuto?»
«Sì.»
«Che impressione le fece?»
«Mi sembrò piuttosto timido» rispose. «Ma qualche volta ho pensato che
fosse un uomo infelice e, forse, che si considerasse un po' al di sopra di
tutti gli altri. Le dirò che aveva una figura imponente.» Si era messa a
guardare di nuovo altrove, e i suoi occhi non brillavano più. «Certamente
mio marito gli era devoto.»
«Quand'è stata l'ultima volta che ha visto il signor Harper?» chiesi.
«Joe è mancato la primavera scorsa.»
«E da allora non ha più visto il signor Harper?»
La signora McTigue scosse la testa e parve estraniarsi in un amaro mondo privato di cui non sapevo nulla. Mi domandai cosa fosse realmente accaduto tra Cary Harper e il signor McTigue. Qualcosa di sgradevole? Un'influenza sul signor McTigue che alla fine lo aveva un po' cambiato rispetto all'uomo che sua moglie aveva amato? Forse, semplicemente, Harper era un egoista insensibile.
«Mi risulta che abbia una sorella» dissi. «Cary Harper vive con lei?»
La signora McTigue serrò le labbra e gli occhi le si inumidirono di lacrime, con mio grande sconcerto.
Posando il bicchiere sul tavolino a un'estremità del divano, afferrai la
borsetta.
La signora McTigue mi accompagnò alla porta.
«Beryl le ha mai scritto, o magari a suo marito?» insistei cauta.
Scosse il capo.
«Le risulta che Beryl avesse altre amicizie? Suo marito le parlò mai di
qualcuno?»
Di nuovo, scosse la testa.
«Ha idea di qualcuno a cui potesse riferirsi come a "M", l'iniziale M?»
La signora McTigue fissò tristemente il corridoio vuoto, la mano sulla
porta. Quando alzò lo sguardo verso di me, i suoi occhi gocciolavano, an-
nebbiati. «Ci sono un certo "P" e un "A", in due dei suoi romanzi. Spie dell'Unione, credo. Oh, Dio, credo di non avere spento il forno.» Sbatté le
palpebre parecchie volte, quasi avesse fissato a lungo il sole. «Verrà a trovarmi ancora, spero?»
«Mi piacerebbe molto.» Toccandole gentilmente il braccio, la ringraziai
e la lasciai.
Chiamai mia madre non appena fui a casa, e per una volta mi sentii sollevata nel ricevere le solite raccomandazioni e i soliti consigli, nell'ascoltare quella voce forte che mi amava nel suo modo assurdo.
«Abbiamo avuto ventisette gradi tutta la settimana e nelle previsioni del
notiziario ho visto che a Richmond la temperatura scenderà fino a cinque»
mi disse. «È quasi da gelo. Non ha ancora nevicato?»
«No, mamma, non ha nevicato. Come va l'anca?»
«Bene, nei limiti di quello che ci si può aspettare. Sto facendoti un plaid
all'uncinetto. Ho pensato che potresti coprirtici le gambe quando sei in ufficio. Lucy ha chiesto di te.»
Erano settimane che non parlavo con mia nipote.
«Sta lavorando a non so quale progetto scientifico a scuola, in questo
momento» proseguì mia madre. «Un robot parlante, credo. L'ha portato
qua l'altra sera e ha fatto scappare il povero Sinbad sotto il letto, dallo spavento...»
Sinbad era un gatto perverso, cattivo, meschino, sgradevole, un randagio
striato di grigio e di nero che si era messo a seguire con ostinazione la
mamma un mattino, mentre lei girava per compere a Miami Beach. Ogni
volta che andavo a trovarla, Sinbad mi dava il suo ospitale benvenuto appollaiandosi sopra il frigorifero come un avvoltoio e guardandomi con occhi da pesce.
«Non immagineresti mai chi ho visto l'altro giorno» iniziai con eccessiva
disinvoltura. Il bisogno di dirlo a qualcuno mi aveva sopraffatta. Mia madre conosceva i miei trascorsi, o almeno buona parte di essi. «Ricordi
Mark James?»
Silenzio.
«Era a Washington e si è fermato a salutarmi.»
«Certo che me lo ricordo.»
«Doveva discutere un caso. Ricordi che è avvocato. Lavora a Chicago.»
Battei in rapida ritirata. «Si trovava nel Distretto di Columbia per affari.»
Più parlavo, più sentivo appesantirsi il suo silenzio di disapprovazione.
«Ah, Katie, ricordo solo che per poco non gli moristi dietro.»
Quando mi chiamava "Katie", era come se avessi di nuovo dieci anni.
4
Un ovvio vantaggio derivante dall'avere i laboratori di medicina legale
all'interno del mio stesso edificio era che non dovevo aspettare le relazioni
scritte. Come me, anche i periti sapevano spesso un mucchio di cose prima
ancora di mettersi a scrivere. Avevo inviato i campioni delle tracce di
Beryl Madison da una settimana esatta, e probabilmente ne sarebbero passate molte altre prima di ricevere i rapporti relativi; ma ero certo che Joni
Hamm disponesse già di opinioni e interpretazioni personali. Avendo esaurito i casi della mattina e sentendomi in vena di ipotesi, mi trasferii al quarto piano, portandomi una tazza di caffè.
L'"ufficio" di Joni era poco più di un'alcova incastrata fra i laboratori di
analisi delle impronte e delle sostanze tossiche, in fondo al corridoio.
Quando entrai era seduta su un bancone nero, intenta a sbirciare attraverso
le lenti di un microscopio stereoscopico, un blocco a spirale zeppo di nitide annotazioni appoggiato vicino al gomito.
«Momento sbagliato?» chiesi.
«Non più di qualsiasi altro» disse lei, girandosi a lanciarmi un'occhiata
distratta.
Presi una sedia.
Joni era una giovane donna minuta con corti capelli neri e grandi occhi
scuri. Aspirante dottore in filosofia, di cui seguiva i corsi serali, e madre di
due bambini, aveva sempre un'aria stanca e un po' stralunata. Ma si sarebbe potuta dire la stessa cosa di quasi tutti i tecnici del laboratorio, e in effetti non si parlava diversamente neanche di me.
«Sto esaminando il caso Beryl Madison» dissi. «Cosa hai trovato?»
«Più di quanto non ti aspetti, mi sa.» Si voltò a scorrere le pagine del
blocco. «Le tracce di Beryl Madison sono una specie di incubo.»
La cosa non mi sorprendeva. Avevo consegnato un'infinità di buste e
tamponi, ma il corpo di Beryl era talmente insanguinato da avere attirato
ogni sorta di minuscoli frammenti, come carta moschicida. Le fibre erano
particolarmente difficili da esaminare: prima di controllarle al microscopio, Joni doveva ripulirle. Il che implicava la necessità di porre ogni singola fibra in un contenitore a soluzione saponosa, che a sua volta veniva immerso in un bagno a ultrasuoni. Separato il sangue dallo sporco, la soluzione veniva fatta passare attraverso un filtro di carta sterile e ogni fibra
montata su un vetrino.
Joni stava scorrendo le annotazioni. «Se fossi un po' meno esperta» proseguì, «sospetterei che Beryl Madison sia stata assassinata non in casa sua,
ma da qualche altra parte.»
«Non è possibile» risposi. «È stata uccisa al piano di sopra e non era
morta da molto, quando è arrivata la polizia.»
«Questo lo so. Allora, iniziamo con le fibre provenienti dall'abitazione.
Ne sono state raccolte tre, dalle aree insanguinate delle ginocchia e delle
mani. Sono di lana. Due rosso scure, una dorata.»
«Compatibili con il tappeto orientale da preghiera nel corridoio superiore?» chiesi, memore delle fotografie della stanza.
«Sì» rispose lei. «Perfettamente concordanti con i campioni portati dalla
polizia. Se Beryl Madison si è trascinata carponi sul tappeto, questo spiega
la presenza delle fibre che hai raccolto e la loro posizione. Fin qui nessun
problema.»
Joni si sporse ad afferrare un fascio di raccoglitori di vetrini in cartoncino duro, passandoli in rassegna fino a trovare quello che cercava. Aprì i risvolti ed esaminò attentamente file di vetrini, continuando a parlare. «In
aggiunta alle precedenti, ne abbiamo una quantità di cotone bianco. Fibre
inutili, perché potrebbero provenire da qualsiasi fonte, probabilmente lo
stesso lenzuolo bianco con cui è stato coperto il cadavere. Ne ho anche esaminato altre dieci, raccolte dai capelli, dalle aree insanguinate del collo e
del petto, e dalla raschiatura delle unghie: tutte sintetiche.» Alzò lo sguardo verso di me. «E non collimano con nessuno dei campioni inviati dalla
polizia.»
«Non corrispondono né agli abiti né alle coperte del letto?» chiesi.
Joni scosse la testa. «Per niente. Sembrano estranee al luogo del delitto,
e poiché erano appiccicate al sangue o sotto le unghie, è alquanto probabile
che si siano trasferite per inerzia dall'aggressore a lei.»
Questo era un premio inatteso. Quando il vicecapo Fielding era finalmente riuscito a rintracciarmi, la sera dell'assassinio, gli avevo detto di aspettarmi all'obitorio. Ci ero arrivata poco prima dell'una di notte e avevamo trascorso parecchie ore a esaminare il corpo di Beryl al laser, raccogliendo ogni particella e fibra illuminata. Sapevo già che un certo numero
di frammenti trovati si sarebbero rivelati insignificanti, in quanto appartenenti agli abiti o alla casa di Beryl. Il fatto che fossero state invece individuate dieci fibre provenienti dall'aggressore era un risultato notevole. Nella
maggioranza dei casi potevo già dirmi fortunata se riuscivo a trovare una
soia fibra sconosciuta, e mi consideravo baciata dalla sorte se ne trovavo
due o tre. Spesso mi era addirittura capitato di non trovarne nessuna. Le fibre sono difficili da individuare, anche con una lente, e basta un leggero
movimento del corpo o il minimo soffio d'aria per rimuoverle molto prima
dell'arrivo del medico legale o del trasporto del cadavere in obitorio.
«Che tipo di materiali sintetici?»
«Olefin, acrilico, nylon, polietilene e dynel, ma in prevalenza nylon» rispose Joni. «I colori variano: rosso, azzurro, verde, dorato, arancio. Al microscopio non si accordano nemmeno tra di loro.»
Cominciò a piazzare un vetrino dopo l'altro sul piatto dello stereoscopio
e a scrutare attraverso le lenti.
«Alcune» spiegò «sono striate longitudinalmente, altre no. Quasi tutte
contengono biossido di titanio in densità variabile, il che significa che alcune appaiono semiopache, altre opache, qualcuna lucida. I diametri sono
tutti piuttosto grossi, fanno pensare a fibre di tappeto, ma in sezione trasversale la forma cambia.»
«Dieci origini differenti?» chiesi.
«Così sembra, per il momento. Decisamente atipico. Se queste fibre
provengono dall'aggressore, vuol dire che ne aveva addosso una varietà
piuttosto insolita. Ovviamente, quelle più grezze non provengono dai vestiti ma sono fibre di tappeto. Tuttavia non appartengono a nessuno di
quelli presenti in casa. Il fatto di trovarsi di fronte a una tale varietà è strano anche per un'altra ragione. Chiunque raccoglie fibre tutto il santo giorno, ma non gli restano attaccate addosso. Ti siedi da qualche parte e raccogli fibre, ma se poi ti siedi da un'altra parte perdi le prime e ne raccogli di
nuove. O comunque basta l'aria a rimuoverle.»
La cosa era sempre più sconcertante. Joni voltò un'altra pagina del blocco e riprese: «Ho anche analizzato al microscopio la sporcizia raccolta dall'aspiratore. In particolare i frammenti che Marino ha asportato dal tappeto
da preghiera sono un vero macello». Lesse da una lista: «Ceneri di tabacco, particelle di carta rosata provenienti dal bollo dei pacchetti di sigarette,
granuli di vetro, un paio di frammenti di vetro rotto da bottiglia di birra e
da un faro d'automobile. Abbiamo i soliti resti di insetti e frammenti vegetali, quindi una pallina sferica di metallo e anche un bel po' di sale».
«Sale da cucina?»
«Esatto.»
«Tutto sul tappeto da preghiera?»
«Anche sulla parte di pavimento in cui è stato rinvenuto il cadavere» ri-
spose. «E altri frammenti identici erano presenti sul corpo, nei campioni
prelevati da sotto le unghie e nei capelli.»
Beryl non fumava. La presenza in casa sua di cenere di tabacco o di
frammenti di pacchetto di sigarette non era dunque giustificata. Inoltre, il
sale si associa al cibo, e quindi non si spiegava nemmeno quello al piano
di sopra o sul suo corpo.
«Marino ha fornito sei diversi contenuti dell'aspirapolvere, tutti provenienti dal tappeto e dalle zone del pavimento in cui c'erano tracce di sangue» disse Joni. «In aggiunta, ho dato un'occhiata ai campioni delle parti
aspirate dalle zone di casa o dai tappeti su cui non c'erano sangue o segni
di lotta: zone nelle quali la polizia ritiene che l'assassino non sia andato. Le
particelle sono sensibilmente diverse. I frammenti appena elencati riguardano solo le zone in cui è presumibile che l'assassino sia passato, e c'è
quindi da sospettare che sia stato proprio lui a lasciare sul luogo e sul corpo di Beryl molto del materiale. Può darsi che in parte l'avesse appiccicato
sotto le scarpe, o attaccato ai vestiti, magari nei capelli, e ovunque è andato
ha trasferito un po' dei frammenti a ciò con cui veniva a contatto.»
«Dev'essere un bel maiale» commentai.
«Questa roba è quasi invisibile a occhio nudo» mi ricordò Joni, immancabilmente seria. «Probabilmente non sapeva nemmeno di avere addosso
tanta roba.»
Esaminai le liste scritte a mano. In passato mi erano capitati solo un paio
di casi in cui apparisse una simile abbondanza di tracce. Uno riguardava un
cadavere gettato in un punto dove il terreno era franato, o forse un bordo di
strada o un posteggio ghiaioso, l'altro un cadavere trasportato in un bagagliaio sporco o sul pavimento sporco di una macchina. Nessuna delle due
ambientazioni era però quella di Beryl.
«Dividimele per colore» dissi. «Quali di queste fibre hanno probabilità
di appartenere a tappeti e quali a indumenti?»
«Le sei fibre di nylon sono rosse, rosso scuro, azzurre, verdi, gialloverdastre e verde scuro. Le verdi potrebbero in realtà essere nere» aggiunse. «Il nero non appare mai chiaro al microscopio. Sono tutte e sei grosse e
corrispondono a fibre di tappeto, anzi sospetto che qualcuna possa addirittura essere di tappezzeria da veicolo, piuttosto che da arredo domestico.»
«Perché?»
«Per via dei frammenti aspirati. Ad esempio, i granuli di vetro sono
spesso associati alla vernice riflettente che si usa nei segnali stradali. Poi ci
sono le sferette di metallo, comuni fra i reperti aspirati dalle macchine. So-
no palline per saldatura provenienti dall'assemblaggio del telaio del veicolo. Tu non le vedi, ma ci sono. Quanto ai pezzetti di vetro rotto, ce ne sono
dappertutto, specialmente lungo i bordi stradali e nei parcheggi. Li raccogli
sotto le scarpe e te li trascini in macchina. Idem per le particelle di sigaretta. E arriviamo al sale: questo mi fa seriamente sospettare che l'origine delle tracce sia un veicolo. Entri in un McDonald's e compri patatine fritte da
consumare in macchina. Probabilmente troveremmo sale in ogni auto della
città.»
«Supponiamo che tu abbia ragione» dissi io. «Supponiamo che le fibre
provengano dalla tappezzeria della macchina. Questo non spiega ancora la
presenza di sei fibre di nylon da tappeto decisamente diverse. Non mi
sembra probabile che l'assassino abbia sei differenti tipi di tappeto nella
sua vettura.»
«No, questo non è probabile» confermò Joni. «Ma le fibre potrebbero
essere finite nell'interno della sua macchina da fuori. Forse esercita una
professione che lo porta a contatto con dei tappeti. Forse per lavoro deve
entrare e uscire da macchine diverse tutto il giorno.»
«Un autolavaggio?» chiesi, immaginando la macchina di Beryl. Era immacolata, dentro e fuori.
Joni ci pensò sopra, il suo giovane viso concentrato. «Potrebbe trattarsi
benissimo di qualcosa del genere. Se lavorasse in uno di questi impianti di
lavaggio per automobili dove c'è del personale addetto alla pulitura degli
interni e dei bagagliai, resterebbe continuamente esposto a una varietà di
fibre per tappezzeria. Inevitabile che finisca con l'assorbirne qualcuna. Un'altra possibilità è che faccia il meccanico.»
Allungai la mano verso il mio caffè. «Okay. Passiamo alle altre quattro
fibre. Cosa puoi dirmi di queste?»
Diede un'occhiata agli appunti. «Una è acrilica, una di ole-fin, una di polietilene, l'altra di dynel. Ancora, le prime tre sono compatibili con fibre da
tappeto. La dynel è interessante perché non se ne vede molto spesso. In
genere si usa per pellicce sintetiche, tappeti di pelo, parrucche. Ma questa è
piuttosto sottile, più adatta a tessuti da abbigliamento.»
«È la sola fibra di vestiario che hai trovato?»
«Penso di sì» rispose.
«Pare che Beryl indossasse pantaloni marrone chiaro...»
«Non è dynel» disse. «Almeno, pantaloni e giacca non lo sono. Sono un
misto di cotone e poliestere. È possibile che fosse di dynel la camicetta,
ma non c'è modo di appurarlo dal momento che non è saltata fuori.» Indi-
viduò un altro vetrino nel raccoglitore e lo montò sul piatto. «Quanto alla
fibra arancione che ti ho citato, la sola acrilica, in sezione trasversale presenta una forma mai vista prima.»
Tracciò un diagramma dimostrativo, tre cerchi uniti al centro, simili a un
trifoglio privo di gambo. Le fibre vengono ottenute forzando un polimero
fuso o disperso in soluzione attraverso i sottilissimi fori di una filiera. In
sezione trasversale, i filamenti o le fibre che ne nascono saranno della stessa forma dei buchi della filiera, proprio come la sezione trasversale di una
pasta dentifricia avrà la stessa forma dell'apertura del tubetto da cui è stata
spremuta. Nemmeno io avevo mai visto prima quella forma a trifoglio.
Molti acrilici in sezione trasversale si presentano come noccioline, ossa di
cane, a manubrio, rotondi o a fungo.
«Guarda.» Joni si tirò da una parte, per farmi spazio.
Scrutai attraverso la lente. La fibra sembrava un nastro contorto e pieno
di macchie, le cangianti sfumature arancione lievemente punteggiate di
particelle nere di biossido di titanio.
«Come vedi» spiegò, «il colore è un po' incerto. L'arancione. Ineguale e
moderatamente denso con particelle delustranti per smorzare la lucentezza
della fibra. Ciononostante, è un arancione sgargiante, un vero arancione da
Halloween, tipico dei tessuti per l'abbigliamento o delle fibre da tappeto. Il
diametro è moderatamente grosso.»
«Il che lo renderebbe compatibile con il discorso della tappezzeria» azzardai. «Nonostante il colore.»
«Senz'altro.»
Cercai di pensare ai tessuti color arancione intenso in cui mi era capitato
di imbattermi. «Che ne dici delle uniformi stradali?» buttai lì. «Sono arancione vivo e una fibra del genere non stonerebbe tra i reperti automobilistici che hai identificato.»
«Improbabile» rispose. «Quasi tutte le divise per lavori stradali che ho
visto sono di nylon, piuttosto che di acrilico, e di solito il nylon ha una
struttura grezza che si separa con difficoltà. Inoltre, le giacche a vento e le
giacche che potresti associare alle squadre stradali o alla polizia stradale
sono lisce, anche queste di difficile separazione, e in genere di nylon.» Fece una pausa, aggiungendo pensierosa: «Oltretutto non mi sembra probabile trovare tante particelle antilucido in una divisa da traffico: a cosa servirebbe opaca?».
Mi allontanai dal microscopio. «Comunque sia, questa fibra è così particolare che sospetto sia brevettata. Ci sarà pur qualcuno in grado di ricono-
scerla, anche se noi non disponiamo di un tessuto noto di confronto.»
«Buona fortuna.»
«Lo so. Segreto di fabbricazione» dissi. «L'industria tessile è reticente in
fatto di brevetti quanto la gente comune in fatto di incontri amorosi.»
Joni sollevò le braccia massaggiandosi la nuca. «Ho sempre considerato
un miracolo che gli agenti federali siano riusciti a ottenere tanta collaborazione nel caso Wayne Williams.» Si riferiva alla spaventosa carneficina di
Atlanta, durata ventidue mesi, in cui un pluriomicida era sospettato di aver
assassinato almeno trenta bambini neri. I frammenti delle fibre recuperati
su dodici corpi delle vittime erano stati ricollegati all'abitazione e alle automobili usate da Williams.
«Forse dovremmo chiedere a Hanowell di dare un'occhiata a questa roba, specialmente alla fibra arancione» dissi.
Roy Hanowell era un agente speciale dell'Fbi, squadra di Analisi Microscopica di Quantico. Aveva esaminato i reperti del caso Williams, e da allora era stato preso d'assalto dalle agenzie investigative di tutto il mondo,
che lo supplicavano di controllare i prelievi più strani, dal cachemire alle
ragnatele.
«Buona fortuna» ripeté Joni, con lo stesso tono ironico.
«Gli hai telefonato?»
«Dubito che possa essere propenso a riguardare qualcosa che è già stato
esaminato» disse lei. Poi aggiunse: «Sai come sono gli agenti federali».
«Lo chiameremo insieme» decisi.
Quando tornai in ufficio trovai una mezza dozzina di foglietti rosa, tutti
messaggi telefonici. Uno in particolare mi balzò agli occhi. Riportava un
numero interurbano di New York e le parole: "Mark. Per favore richiama
immediatamente". C'era una sola ragione per cui lo potevo pensare a New
York: che dovesse incontrare Sparacino, il procuratore di Beryl. Perché la
Orndorff & Berger era tanto interessata all'assassinio di Beryl Madison?
Il numero di telefono era evidentemente la linea diretta di Mark, perché
rispose al primo squillo.
«Quant'è che non vieni a New York?» mi chiese con aria indifferente.
«Prego?»
«C'è un volo da Richmond fra quattro ore esatte. Un volo diretto. Ce la
fai?»
«Di che si tratta?» chiesi, mantenendo la voce calma mentre le pulsazioni aumentavano.
«Non penso sia saggio discutere i dettagli al telefono, Kay» fece lui.
«E io non penso sia saggio da parte mia venire a New York, Mark» risposi.
«Ti prego. È importante. Sai che non te lo chiederei, se non lo fosse.»
«Non è possibile...»
«Senti, ho trascorso tutta la mattina con Sparacino» mi interruppe, mentre i sentimenti a lungo repressi lottavano ora contro la mia decisione. «Ci
sono un paio di sviluppi nuovi che riguardano Beryl Madison e il tuo ufficio.»
«Il mio ufficio?» Niente più autocontrollo. «Che cosa puoi mai discutere
che abbia a che vedere col mio ufficio?»
«Ti prego» disse ancora. «Ti prego, vieni.»
Esitai.
«Ci vediamo al La Guardia.» L'insistenza di Mark ebbe la meglio. «Troveremo un posto tranquillo per parlare. Ho già prenotato il volo, devi solo
ritirare il biglietto al check-in. E ti ho prenotato anche una stanza, ho provveduto a tutto.»
Oh Dio, pensai mentre riagganciavo. Un minuto dopo ero nell'ufficio di
Rose.
«Devo andare a New York, nel pomeriggio» le spiegai in un tono che
non ammetteva domande. «È per il caso Beryl Madison. Resterò assente
dall'ufficio almeno fino a domani a mezzogiorno.» Elusi il suo sguardo.
Benché la mia segretaria non sapesse nulla di Mark, temevo che il motivo
della mia partenza le apparisse evidente come se fosse scritto su un tabellone a caratteri cubitali.
«Posso rintracciarti a qualche numero?» chiese.
«No.»
Aprì l'agenda e si mise immediatamente a verificare gli appuntamenti da
cancellare, mentre mi informava: «Hanno telefonato dal "Times", poco fa.
Volevano una specie di scheda di presentazione, un tuo profilo».
«Al diavolo» risposi irritata. «Vogliono solo mettermi alle strette per il
caso di Beryl Madison. È sempre così. Ogni volta che mi rifiuto di rilasciare dichiarazioni su un delitto particolarmente efferato, improvvisamente
non c'è giornalista in città che non voglia sapere in quale college ho studiato, se possiedo un cane, se sono contraria alla pena di morte e quali sono il
mio colore, il cibo, i film e il tipo di morte preferiti.»
«Dirò di no» borbottò lei afferrando il telefono.
Lasciato l'ufficio, ebbi appena il tempo di arrivare a casa, ficcare qualcosa in una borsa da viaggio e gettarmi a capofitto nel traffico dell'ora di
punta. Come Mark mi aveva promesso, il biglietto mi aspettava all'aeroporto. Mi aveva prenotato un posto in prima classe, e nel giro di poco mi
ritrovai seduta in una fila tutta per me. Un'ora dopo sorseggiavo Chivas
con ghiaccio e cercavo di leggere, mentre i miei pensieri si accavallavano
come le nuvole fuori dall'oblò, in un cielo che si faceva sempre più scuro.
Volevo vedere Mark. Capii che non era una necessità professionale, ma
una debolezza che mi ero illusa di avere completamente sconfitto. A tratti
mi sentivo eccitata, a tratti disgustata di me stessa. Non mi fidavo di lui,
ma desideravo disperatamente di poterlo fare. Non è il Mark che hai conosciuto un tempo, e anche se lo fosse, ricordati quello che ti ha fatto. Ma il
mio cuore non era disposto ad ascoltare gli avvertimenti della ragione.
Scorsi una ventina di pagine di un romanzo scritto da Beryl Madison
sotto lo pseudonimo di Adair Wilds, senza capire nulla di ciò che leggevo.
Le romanticherie di ambientazione storica non sono il mio genere preferito, e quel libro in particolare, non era certo da premio. Beryl scriveva bene,
la sua prosa raggiungeva momenti di lirismo, ma la trama zoppicava come
su una gamba di legno. Era il tipo di vicenda che si scrive quasi su ordinazione, e mi chiedevo se Beryl sarebbe mai potuta assurgere alla dignità letteraria cui aspirava, se solo fosse vissuta.
Improvvisamente la voce del pilota annunciò che saremmo atterrati entro
dieci minuti. Sotto di noi, la città sembrava un abbagliante pannello elettrico con minuscole luci che si muovevano su e giù lungo le autostrade e rossi occhietti ammiccanti dalle cime dei grattacieli.
Nel giro di poco stavo recuperando il mio bagaglio a mano e, uscendo
dal cancello d'imbarco, mi immergevo tra la folla del La Guardia. Mi voltai di soprassalto alla pressione di una mano sul mio gomito. Mark era dietro di me, e sorrideva.
«Grazie a Dio» dissi con sollievo.
«Perché? Mi avevi preso per uno scippatore?» chiese in tono asciutto.»
«In quel caso non saresti ancora lì in piedi» risposi.
«Non ne dubito.» Mi fece strada lungo il terminal. «Tutto lì, il tuo bagaglio?»
«Sì.»
«Bene.»
Sul piazzale prendemmo un taxi guidato da un sikh barbuto in turbante
marrone; un certo Munjar, stando al cartellino di riconoscimento agganciato allo schermo parasole. Munjar e Mark si scambiarono delle urla finché
il primo non parve comprendere la nostra destinazione.
«Non avrai mangiato, spero» disse Mark.
«Solo mandorle tostate...» Finii contro la sua spalla, mentre il taxi sfrecciava stridendo fra le strade.
«Alla steak-house vicino all'albergo si mangiano delle buone bistecche»
mi informò ad alta voce. «Ho pensato che saremmo potuti andare là, visto
che in questa città non so come diavolo muovermi.»
Mi bastava arrivare sana e salva all'hotel, considerai mentre Munjar attaccava uno spontaneo monologo autobiografico: era arrivato in questo
Paese per sposarsi e aveva in progetto di farlo entro dicembre, anche se,
per il momento, non aveva ancora individuato colei che sarebbe stata la
sua futura moglie. Proseguì informandoci che guidava il taxi solo da tre
settimane, e che aveva imparato a guidare nel Panjab, a sette anni, su un
trattore.
Il traffico era una colata ininterrotta di veicoli, i taxi gialli che danzavano colorati nel buio. In centro, fuori dalla Carnegie Hall, superammo una
fila compatta di persone in abito da sera. Quelle vivide luci e la gente in
pelliccia e cravatta nera mi risvegliarono antiche memorie: Mark e io amavano andare a teatro, ai concerti, all'opera.
Il taxi si fermò all'Omni Park Central, un'impressionante torre illuminata
vicino al distretto dei teatri, all'angolo fra la Cinquantacinquesima e la
Cinquantasettesima. Mark mi prese la borsa e io lo seguii nell'elegante atrio, dove si occupò della mia registrazione alla reception e fece mandare il
bagaglio in camera. Qualche minuto dopo stavamo passeggiando, nell'aria
pungente della sera. Ero contenta di avere portato il soprabito, faceva abbastanza freddo da nevicare. Dopo tre isolati arrivammo da Gallagher's,
incubo dei bovini e delle coronarie, nonché sogno di ogni amante della
carne rossa. La vetrina era una specie di cella frigorifera di cristallo, dentro
alla quale faceva sfoggio ogni taglio immaginabile. Il locale, un vero tempio delle celebrità, ostentava pareti tappezzate di fotografie autografate.
C'era un gran frastuono e il barista ci preparò dei drink piuttosto robusti.
Accesi una sigaretta e diedi una rapida occhiata in giro. I tavoli erano fitti,
caratteristica tipica dei ristoranti di New York. Alla nostra sinistra sedevano due uomini d'affari, impegnati in una conversazione; il tavolo alla nostra destra era vuoto, quello subito dopo occupato da un giovane di stupefacente bellezza, alle prese con una birra e una copia del "New York Times". Lanciai una lunga occhiata anche a Mark, cercando di leggergli in
viso. Appariva tirato intorno agli occhi, e giocherellava con il suo scotch.
«Allora, Mark, per quale motivo mi trovo qui?» chiesi.
«Probabilmente volevo solo portarti fuori a cena» rispose.
«Sii serio.»
«Sono serio. Non ti stai divertendo?»
«Come potrei divertirmi mentre aspetto che scoppi una bomba?» ribattei.
Si sbottonò la giacca. «Prima ordiniamo, poi discutiamo.»
Faceva sempre così, con me. Prima mi stuzzicava, poi mi faceva aspettare. Forse era l'avvocato dentro di lui. Mi aveva fatto impazzire in passato, e
ci riusciva ancora.
«Ti consiglierei la cotoletta di prima scelta» disse, mentre scorrevamo il
menu. «Ecco cosa prenderò, e un'insalata di spinaci. Niente di straordinario, ma pare che queste bistecche siano le migliori della città.»
«Non eri mai venuto qui?»
«Io no. Sparacino sì» rispose.
«È stato lui a consigliarti questo posto?» chiesi, in preda a una vaga paranoia. «E anche l'hotel, immagino.»
«Certo» rispose, passando alla lista dei vini. «È d'obbligo. I clienti vengono in città e stanno all'Omni perché alla ditta fa comodo.»
«Anche i tuoi clienti mangiano qui?»
«Sparacino c'è già venuto altre volte, di solito dopo il teatro. Ecco come
ha scoperto il locale.»
«Che altro sa Sparacino?» chiesi. «Gli hai detto che mi avresti incontrata?»
Mark incrociò il mio sguardo. «No» rispose.
«Com'è possibile, se sono a carico della tua ditta e se Sparacino ti ha
consigliato l'hotel e il ristorante?»
«Ha consigliato l'hotel a me, Kay. Devo pur stare da qualche parte. Devo
pur mangiare. Sparacino mi aveva proposto di uscire con una coppia di altri avvocati, stasera. Ho declinato l'invito, ho detto che dovevo controllare
delle carte e che probabilmente mi sarei cercato una bistecca. Cosa mi consigliava? Eccetera.»
Stavo cominciando a rendermi conto di come funzionava la cosa, e non
ero sicura se mi imbarazzava o piuttosto mi angosciava. Probabilmente tutte e due. Non erano Orndorff & Berger a pagare per quella gita. Era Mark.
Il suo studio non ne sapeva nulla.
Il cameriere era riapparso e Mark ordinò. Stavo rapidamente perdendo
l'appetito.
«Sono arrivato in aereo ieri sera» riprese. «Sparacino mi ha rintracciato
a Chicago in mattinata, dicendo che aveva bisogno di vedermi immediatamente. Come avrai intuito, si tratta di Beryl Madison.» Parve a disagio.
«Allora?» lo sollecitai, con crescente inquietudine.
Mark trasse un profondo respiro e disse: «Sparacino sa del mio legame,
insomma, di me e di te. Del nostro passato...».
La fissità del mio sguardo lo bloccò.
«Kay...»
«Bastardo.» Spinsi la sedia indietro e lasciai cadere il tovagliolo sul tavolo.
«Kay!»
Mi afferrò per un braccio, obbligandomi di nuovo a sedere. Mi divincolai con rabbia e sedetti irrigidita, fissandolo torva. Era accaduto in un ristorante di Georgetown, molti anni prima: mi ero strappata dal polso il pesante braccialetto d'oro che mi aveva regalato e gliel'avevo depositato nella
zuppa di vongole. Puerile, da parte mia, ma si era trattato di uno dei rari
momenti della mia vita in cui avevo perso completamente il controllo, facendo una scenata.
«Ascolta» riprese, abbassando la voce, «non ti faccio una colpa per quello che stai pensando. Ma non è così. Non sto approfittando del nostro passato. Stammi a sentire solo un minuto, per favore. È molto complicato, ha
a che vedere con cose di cui non sai nulla. Non mi dimentico neanche per
un attimo del tuo interesse, lo giuro; nessuno mi ha detto di parlarti. Se
Sparacino o Berger lo sapessero, mi impiccherebbero al primo albero.»
Non risposi. Ero così agitata che non riuscivo nemmeno a pensare.
Si sporse in avanti. «Cominciamo col dire questo: Berger dà la caccia a
Sparacino e, in questo preciso momento, Sparacino dà la caccia a te.»
«La caccia a me?» sbottai. «Non ho mai conosciuto quell'uomo. Perché
dovrebbe darmi la caccia?»
«Perché c'è di mezzo Beryl» ripeté. «La verità è che lui è stato il suo avvocato fin dagli esordi della carriera di Beryl. E non faceva parte del nostro studio finché non abbiamo aperto un ufficio anche qui a New York.
Prima lavorava in proprio. Avevamo bisogno di un procuratore specializzato in legislazione dello spettacolo. Sparacino è a New York da una trentina d'anni, ha le conoscenze giuste. Ci ha portato i suoi clienti, ci ha portato subito un sacco di lavoro. Ricordi quando ti accennai al mio primo incontro con Beryl, a quel pranzo all'Algonquin?»
Feci segno di sì, mentre dentro di me il tumulto andava placandosi.
«Era stato preparato ad arte, Kay. Non fu per caso che mi trovai là. Ero
stato mandato da Berger.»
«Perché?»
Guardandosi intorno, Mark rispose: «Perché Berger era preoccupato.
Stavamo appena cominciando a ingranare, a New York, e non devi dimenticare quanto sia difficile sfondare in questa città, costruirsi una solida
clientela, una buona reputazione. L'ultima cosa di cui abbiamo bisogno è
uno stronzo come Sparacino, che sputtana il nome dello studio».
Mark restò in silenzio, in attesa che il cameriere, arrivato con le insalate,
stappasse cerimoniosamente una bottiglia di Cabernet Sauvignon. Quindi
assaggiò il rituale primo sorso e i bicchieri vennero riempiti.
«Quando assunse Sparacino, Berger sapeva che si trattava di un tipo un
po' chiassoso, uno a cui piace giocare pesante, e senza scrupoli» riprese.
«Pensi, va be', fa parte del suo stile: certi avvocati sono conservatori, ad altri invece piace fare un sacco di baccano. Il guaio è che Berger e alcuni di
noi hanno cominciato a intuire fino a che punto riesce a spingersi Sparacino solo pochi mesi fa. Ricordi Christie Riggs?»
Mi ci volle un attimo per mettere a fuoco il nome. «L'attrice che sposò
quel terzino?»
Annuì. «Fu Sparacino ad architettare ogni cosa, dalla A alla Zeta. Christie è una modella agli esordi, che gira qualche spot qui in città. Questo all'incirca un paio d'anni fa, esattamente mentre Leon Jones è sulle copertine
di quasi tutte le riviste. I due si conoscono a un party e vengono fotografati
mentre escono insieme e si infilano nella Maserati di Jones. Quel che succede dopo è che Christie Riggs è seduta nella sala d'attesa di Orndorff &
Berger. Ha fissato un appuntamento con Sparacino.»
«Vuoi dirmi che era stato Sparacino a manovrare l'intera faccenda?»
chiesi incredula.
Christie Riggs e Leon Jones si erano sposati l'anno precedente e dopo
circa sei mesi avevano divorziato. La stampa aveva dato ampio risalto alla
loro tempestosa relazione e allo sgradevole epilogo del divorzio.
«Sì.»
Mark sorseggiò il suo vino.
«Spiegati.»
«Sparacino punta su Christie» riprese. «Lei è stupenda, elegante, ambiziosa. Ma ciò che la rende più interessante è che si è messa a frequentare
Jones. Sparacino prospetta il piano di gioco. Christie vuole diventare famosa. Vuole diventare ricca. Tutto quello che deve fare è attirare Jones
nella sua ragnatela e poi cominciare a piangere sulla loro vita privata da-
vanti agli obiettivi dei fotografi: lei lo accusa di maltrattamenti, ne parla
come di un ubriacone, di uno psicopatico, di uno che si fa di coca, che
spacca i mobili. Poi, Christie e Jones si dividono e Sparacino le fa firmare
un contratto da un milione di dollari per un libro.»
«Questo mi fa sentire più comprensiva nei confronti di Jones» borbottai.
«La cosa peggiore è che, secondo me, lui la amava davvero e non riusciva a rendersi conto di chi si trovava davanti. Cominciò a giocare male al
pallone e finì nella clinica di Betty Ford. Da allora è scomparso dalle cronache. Uno dei terzini più grandi d'America spazzato via, rovinato per
sempre. E tutto questo, indirettamente, per colpa di Sparacino. Sono azioni
legali a base di scandali e calunnie che non rientrano nel nostro stile. Quello di Orndorff & Berger è un nome consolidato, prestigioso, Kay. Quando
Berger cominciò ad avere sentore di cosa gli stava combinando il suo legale del mondo dello spettacolo, non ne fu propriamente felice.»
«Perché il tuo studio non se ne sbarazza e non la fa finita?» chiesi, cercando di catturare una foglia di insalata con la forchetta.
«Perché non abbiamo prove, non ancora. Sparacino sa come venirne
fuori pulito. È potente, soprattutto a New York. È come tenere stretto un
serpente: come diavolo fai ad allentare la presa senza farti mordere? E la
lista continua.» Gli occhi di Mark erano pieni di rabbia. «A ripercorrere la
storia professionale di Sparacino e a esaminare certi casi di cui si era occupato quando lavorava in proprio, saltano fuori delle vere sorprese.»
«Quali ad esempio?» chiesi con una sorta di repulsione.
«Un'infinità. Un autore scandalistico decide di scrivere una biografia
non autorizzata su Elvis, John Lennon o Sinatra, e quando viene il momento di pubblicarla, la celebrità, o i suoi parenti, intentano causa al biografo.
Tutti argomenti ideali per trasmissioni televisive basate su ospiti celebri, o
per riviste come "People". Il libro esce comunque, col beneficio di un'incredibile pubblicità gratuita. E tutti litigano perché il clamore ha pure reso
ottimi frutti. Temiamo che il metodo di Sparacino sia quello di rappresentare lo scrittore, poi andare dietro le quinte a prezzolare la "vittima" o le
"vittime" e convincerle a scatenare l'inferno. È tutta una messinscena, ma
funziona d'incanto.»
«Ci si domanda a cosa si deve credere.» Infatti, me lo chiedevo spesso.
La carne era in arrivo. Quando il cameriere se ne fu andato chiesi: «Come è stato possibile che Beryl Madison si sia fatta agganciare da uno come
lui?».
«Attraverso Cary Harper» rispose Mark. «Questa è l'ironia della cosa.
Sparacino rappresentava Harper da un bel po' di anni. Quando è saltata
fuori Beryl, Harper l'ha mandata da lui. Sparacino le è stato al fianco fin
dall'inizio, facendole insieme da agente, avvocato e padrino. Penso che
Beryl fosse piuttosto vulnerabile di fronte a uomini più anziani e potenti, e
la sua carriera è stata alquanto scialba, finché non si è decisa a mettere in
cantiere quest'opera autobiografica. Ho l'impressione che sia stato Sparacino a suggerirgliela, inizialmente. Comunque, Harper non ha più pubblicato
niente a partire dal suo Grande Romanzo Americano. Lui è ormai storia
passata su cui si possono buttare soltanto tipi come Sparacino, se appena si
prospetta qualche possibilità di sfruttamento.»
Riflettei. «È possibile che Sparacino stesse, come dire, giocando con entrambi? In altre parole: Beryl decide di rompere il silenzio e infrange il
contratto con Harper. Sparacino gioca su tutti e due i tavoli. Va dietro le
quinte e incita Harper a metterle i bastoni fra le ruote.»
Mark riempì di nuovo i bicchieri e rispose: «Sì, credo che stesse organizzando un combattimento ravvicinato all'insaputa di entrambi. Come ho
già detto, è il suo stile».
Mangiammo in silenzio per qualche minuto. Gallagher si stava confermando all'altezza della sua reputazione: quella cotoletta era morbida come
burro.
«Ciò che mi sembra più terribile, Kay» riprese Mark finalmente, alzando
gli occhi verso di me, la faccia scura, «è che il giorno in cui pranzammo all'Algonquin e in cui Beryl accennò al fatto di essere perseguitata, di ricevere minacce di morte...» Esitò. «Se proprio devo essere sincero, sapendo
quello che sapevo su Sparacino...»
«Non le credesti» terminai per lui.
«No» ammise. «Non le credetti. Francamente, mi parve solo una montatura pubblicitaria. Sospettai che fosse stato Sparacino a convincerla a inscenare quella storia, per spingere le vendite del libro. Non solo Beryl è in
guerra con Harper, ma adesso c'è anche qualcuno che minaccia di ucciderla. Insomma, non prestai molta fede a quanto diceva.» Si fermò. «Ma mi
sbagliavo.»
«Sparacino non sarebbe arrivato a tanto» osai suggerire. «Non vorrai dire che...»
«In realtà mi sembra più probabile che Sparacino possa avere pungolato
Harper fino a sconvolgerlo, tanto da indurlo ad andare da lei per ucciderla,
o a ingaggiare qualcuno che lo facesse al posto suo.»
«Se le cose stanno così» dissi piano, «Harper dovrebbe avere parecchie
cose da nascondere sul tempo in cui Beryl viveva con lui.»
«Potrebbe» ammise Mark, tornando a concentrarsi sul piatto. «Ma se anche non fosse, lui conosce Sparacino e sa come si muove. Verità o finzione
non hanno importanza. Quando Sparacino decide di sollevare un polverone
lo fa e basta, e nessuno si ricorda delle conseguenze, ma solo delle accuse.»
«E adesso, Sparacino cercherebbe me?» chiesi dubbiosa. «Non capisco.
Cosa c'entro io?»
«Semplice: vuole il manoscritto di Beryl. Questo libro è qualcosa di prezioso, visto quanto è successo all'autrice.» Mi guardò. «Sparacino è convinto che il manoscritto sia stato portato nel tuo ufficio come prova. Ma
adesso è scomparso.»
Allungai la mano verso la panna acida. Ero molto calma quando gli
chiesi: «E cosa ti fa pensare che sia scomparso?».
«Non so come, ma Sparacino è riuscito a mettere le mani sul rapporto di
polizia. L'avrai letto anche tu, immagino.»
«Le solite cose» risposi.
Mark mi rinfrescò la memoria. «Sul retro del foglio c'era una lista delle
prove raccolte, una per una, comprese le carte trovate sul pavimento della
camera da letto di Beryl e un manoscritto rinvenuto nel suo armadio.»
Oh, Dio, pensai. Era vero che Marino aveva trovato un manoscritto. Solo che si trattava di quello sbagliato.
«Stamattina ha parlato con l'investigatore» disse Mark. «Un certo Marino. Costui gli avrebbe detto che il manoscritto non ce l'ha più la polizia,
che ogni prova è stata mandata ai laboratori, nel tuo edificio. Gli ha consigliato di rivolgersi al medico legale: a te, in pratica.»
«È un pro forma» dissi io. «Gli agenti dirottano tutti su di me, e io li rimando da loro.»
«Prova a dirlo a Sparacino. Lui sostiene che il manoscritto sia stato
mandato da te, insieme al cadavere di Beryl. E se adesso non c'è più, ne ritiene responsabile il tuo ufficio.»
«Ma è ridicolo!»
«Davvero?» Mark mi guardò con aria interrogativa. «Non è forse vero
che a volte insieme al cadavere ti arrivano delle prove e che le consegni
personalmente ai laboratori o le custodisci nel deposito prove?» Mi sembrava un terzo grado.
Certo che era vero.
«E non fai parte della schiera dei testimoni, nel caso di Beryl?» prose-
guì.
«Non per quanto riguarda ciò che è stato trovato sul luogo del delitto,
come gli scritti personali, ad esempio» risposi, tesa. «Quella roba è stata
portata ai laboratori dalla polizia, non da me. Di fatto quasi tutte le cose
raccolte in casa di Beryl si trovano depositate presso il dipartimento di polizia.»
«Vai a raccontarlo a Sparacino» disse ancora Mark.
«Non ho mai visto il manoscritto» affermai in tono deciso. «Non si trova
nel mio ufficio e mai c'è arrivato. E per quanto ne so, non è nemmeno mai
saltato fuori, punto e basta.»
«Mai saltato fuori? Vuoi dire che non era a casa di Beryl? Che la polizia
non l'ha trovato?»
«No. Il manoscritto in questione non è quello di cui parli tu. È roba vecchia, probabilmente un libro pubblicato anni fa, e per giunta incompleto,
non più di un paio di centinaia di pagine. L'abbiamo trovato in camera da
letto, nell'armadio. L'ha preso Marino per fare controllare le impronte digitali, nel caso l'assassino l'avesse toccato.»
Mark si appoggiò allo schienale della sedia.
«Se non è vero che è stato trovato» mi chiese con voce calma, «allora
dov'è?»
«Non ne ho idea» risposi. «Potrebbe trovarsi ovunque, suppongo. Forse
Beryl l'ha spedito a qualcuno.»
«Aveva un computer?»
«Sì.»
«Hai controllato sul disco rigido?»
«Il suo computer non ha disco rigido, solo due drive per floppy» dissi.
«Marino sta controllando i dischetti. Non so cosa contengano.»
«Non ha senso» insisté Mark. «Anche se Beryl avesse spedito il manoscritto a qualcuno, non può essere che non se ne fosse fatta una copia da
conservare in casa.»
«Quel che non ha senso è che non ne abbia una copia Sparacino» ribattei
io, caustica. «Non posso credere che non abbia mai visto il libro. Anzi, non
posso credere che non ne abbia una bozza da qualche parte, magari proprio
l'ultima stesura.»
«Lui sostiene di no, e io sono propenso a credergli per una buona ragione. Dalle informazioni che ho raccolto su Beryl, pare fosse molto gelosa
dei propri scritti; non permetteva a nessuno - nemmeno a Sparacino - di
vedere quello che stava facendo finché non l'aveva terminato. Lo teneva
informato sugli sviluppi del lavoro per telefono o per lettera. Secondo Sparacino, l'ultima volta che ne sentì parlare da lei fu circa un mese fa. Beryl
probabilmente gli disse che stava rivedendo il testo e che doveva consegnarlo per la pubblicazione ai primi dell'anno.»
«Un mese fa?» chiesi, sospetta. «Hai detto che gli scrisse?»
«Gli telefonò.»
«Da dove?»
«Diamine, non lo so. Da Richmond, immagino.»
«È questo che ti ha detto?»
Mark ci pensò un momento. «No, non mi ha accennato al luogo da cui
Beryl l'aveva chiamato.» Si bloccò. «Perché?»
«Era stata fuori città per un po'» risposi, come se la cosa non avesse importanza. «Mi domandavo solo se Sparacino sapeva dove si trovava.»
«La polizia non lo sa?»
«Ci sono tante cose che la polizia non sa» risposi in tono vago.
«Questa non è una risposta.»
«Una risposta migliore è che noi due, Mark, dovremmo smetterla di discutere di questo caso. Ho già parlato fin troppo, e non sono nemmeno sicura delle vere ragioni del tuo interessamento.»
«Soprattutto non sei sicura che siano oneste» disse lui. «Non sei sicura
che non stia offrendoti vino e pranzo solo perché voglio scucirti qualche
informazione.»
«Sì, se proprio vuoi sapere come la penso» risposi.
Ci guardammo negli occhi.
«Sono preoccupato, Kay.» Vedevo bene che lo era, dalla tensione espressa dalla sua faccia, una faccia che aveva ancora potere su di me. Riuscivo a malapena a staccargli gli occhi di dosso.
«Sparacino sta combinando qualcosa» proseguì Mark. «Non voglio che
tu ci vada di mezzo.» Versò l'ultimo residuo di vino nei bicchieri.
«Cosa intende fare, Mark?» chiesi. «Chiamarmi e chiedermi un manoscritto che non ho? E allora?»
«Ho la sensazione che lui sappia che tu non ce l'hai» disse Mark. «Il
problema è che non gliene importa niente. Sì, lo vuole. E alla fine lo avrà,
riuscirà ad averlo, a meno che non sia andato perduto. È il suo esecutore
testamentario.»
«Splendido» dissi io.
«So solo che è alle prese con qualcosa.» Stava quasi parlando tra sé e sé.
«Un'altra delle sue montature pubblicitarie?» azzardai, un po' troppo di-
sinvoltamente.
Sorseggiò il vino.
«Non riesco a immaginare di che tipo» proseguii. «Né in che modo mi
possa riguardare.»
«Io ci riesco benissimo» fece lui, serio.
«Allora, ti prego, sputa il rospo» lo esortai.
Lo fece. «Titolo: "Capo medico legale sottrae manoscritto conteso".»
«Ma è assurdo!» Scoppiai a ridere.
Mark non rise. «Prova a pensarci. Una biografia controversa scritta da
un'autrice solitaria brutalmente assassinata. Poi il manoscritto scompare e
il medico legale viene accusato di averlo sottratto. Quel dannato libro è
scomparso nell'obitorio, Cristo! Quando alla fine verrà pubblicato, diventerà un bestseller incontrastato e Hollywood cercherà di accaparrarsi i diritti
di riduzione cinematografica.»
«Non sono preoccupata» dissi senza convinzione. «È tutto così improbabile, non riesco a immaginarlo.»
«Sparacino è un fenomeno in queste cose, Kay» mi avvisò. «Semplicemente non vorrei vederti fare la fine di Leon Jones.» Si guardò intorno, in
cerca del cameriere. Gli occhi gli si bloccarono in direzione della porta
d'ingresso. Abbassò rapidamente lo sguardo verso la carne che gli restava
ancora nel piatto. «Oh, merda» mormorò.
Dovetti fare appello a tutto il mio autocontrollo per non girarmi. Tenni
gli occhi incollati alla bistecca e continuai a fare finta di nulla finché il
corpulento sconosciuto non fu al nostro tavolo.
«Ehi, salve, Mark. Ero sicuro di trovarti qui.»
Era un uomo dalla voce dolce, di un'età compresa tra i cinquanta e i sessanta, la faccia carnosa resa più dura dagli occhi piccoli e tanto azzurri
quanto privi di calore. Era rosso in volto e respirava a fatica, come se il solo sforzo di trasportare quel peso formidabile gli affaticasse ogni cellula
del corpo.
«Mi era venuta voglia di fare un salto qui per offrirti un drink, vecchio
mio.» Sbottonandosi la giacca di cachemire, si voltò verso di me, porgendomi la mano con un sorriso. «Non credo che ci siamo mai incontrati. Robert Sparacino.»
«Kay Scarpetta» dissi io, con sorprendente padronanza di me.
5
Non so come, ma alla fine avevamo trascorso un'ora con lui, bevendo.
Era stato terribile. Si era comportato come se fossi una sconosciuta, invece
sapeva benissimo chi ero, ed ero certa che l'incontro non fosse accidentale.
E come poteva, in una città delle dimensioni di New York?
«Sei proprio sicuro che non sapesse che sarei venuta?» chiesi.
«Non vedo come avrebbe potuto scoprirlo» rispose Mark.
Mi sembrava di avvertire il senso di fretta sulla punta delle sue dita,
mentre mi trascinava verso la Cinquantaduesima. La Carnegie Hall si era
ormai svuotata; sul marciapiede restava ancora qualcuno a passeggiare.
Era quasi la una di notte e i miei pensieri fluttuavano nell'alcol, avevo i
nervi tesi.
A ogni Grand Marnier Sparacino si era fatto sempre più vivace e ossequioso, finché non aveva cominciato ad articolare male le parole.
«Non gli sfugge nulla. Tu ti illudi che ormai sia partito e che la mattina
dopo non si ricorderà più di niente. Accidenti, invece è sempre in massima
allerta, anche quando dorme della grossa.»
«Non è che questo mi faccia sentire meglio» commentai.
Puntammo dritti verso l'ascensore, dove salimmo in un silenzio imbarazzato, guardando i bottoni dei piani lampeggiare via via. I nostri passi non
fecero alcun rumore sulla moquette del corridoio. Raggiunta la stanza, fui
sollevata nel vedere che il mio bagaglio era stato regolarmente depositato
sul letto: ci contavo.
«Tu stai qui vicino?» chiesi.
«Un paio di porte più giù.» I suoi occhi esplorarono la stanza. «Perché
non mi offri il bicchiere della buonanotte?»
«Non ho portato niente...»
«C'è un mobile bar perfettamente fornito. Dico sul serio.»
Avevamo bisogno di un altro drink come di una botta in testa.
«Cosa intende fare Sparacino?» domandai.
Il "bar" era un piccolo frigorifero pieno di birra, vino e bottigliette di liquore mignon.
«Ci ha visti insieme» aggiunsi. «Cosa può succedere?»
«Dipende da quello che gli dirò» rispose Mark.
Gli porsi uno scotch, in un bicchiere di plastica. «E allora permettimi di
riformulare la domanda in questo modo: cosa hai intenzione di dirgli,
Mark?»
«Una bugia.»
Sedetti sull'orlo del letto.
Mark avvicinò una sedia e cominciò ad agitare lentamente il liquore ambrato. Le nostre ginocchia quasi si toccavano.
«Gli racconterò che tentavo di scucirti tutto quel che potevo» disse. «Per
aiutarlo.»
«Che mi stavi usando» precisai, e la mia mente era piena di interferenze,
come una cattiva trasmissione radio. «Che eri in grado di farlo. Per via del
nostro passato.»
«Sì.»
«E davvero è una bugia?» chiesi.
Mark rise. Avevo dimenticato quanto amassi il suono della sua risata.
«Non riesco a cogliere l'umorismo» protestai. Faceva caldo, in camera.
Mi sentivo le guance infiammate dallo scotch. «Se questa è una bugia,
Mark, allora qual è la verità?»
«Kay» riprese, ridendo e senza smettere di fissarmi. «Te l'ho già detta la
verità.» Tacque per un momento. Poi si sporse in avanti e mi accarezzò
una guancia. Ero spaventata da quanto desideravo che mi baciasse.
Si riappoggiò allo schienale. «Perché non ti fermi almeno fino a domani
pomeriggio? Forse faremmo bene a parlare tutti e due con Sparacino, domattina.»
«No» dissi. «Questo è esattamente quello che lui vorrebbe che io facessi.»
«Come preferisci.»
Quando Mark se ne fu andato, rimasi per ore sveglia con gli occhi spalancati nel buio, consapevole di quanto era fredda e vuota l'altra metà del
letto. Ai vecchi tempi Mark non si fermava mai tutta la notte, e al mattino
mi svegliavo e giravo per l'appartamento a raccattare indumenti, bicchieri
sporchi, piatti, bottiglie di vino e portaceneri da svuotare. Fumavamo tutti
e due, allora. Restavamo fino alla una, alle due, alle tre del mattino a parlare, a ridere, ad accarezzarci, a bere, a fumare. A litigare, anche. Io detestavo le discussioni, che troppo spesso si trasformavano in duelli maligni,
colpo su colpo, botta e risposta, sezione-del-codice tale per concetto filosofico tal'altro. Speravo sempre mi dicesse che mi amava. Non lo faceva mai.
La mattina avevo lo stesso senso di vuoto di quando, da bambina, il Natale
era finito e dovevo aiutare mia madre a raccogliere le carte da regalo abbandonate sotto l'albero.
Non sapevo quello che volevo. Forse non l'avevo mai saputo. La distanza emotiva non consentiva intimità, e ancora non l'avevo imparato. Non
era cambiato nulla. Se mi fosse venuto vicino, mi sarei lasciata andare. Il
desiderio non conosce ragione, e il bisogno di intimità non era mai svanito.
Per anni avevo evitato di rievocare il ricordo delle sue labbra sulle mie,
delle sue mani, della pressione del desiderio. Adesso ne ero tormentata.
Avevo dimenticato di chiedere il servizio sveglia e non mi diedi la briga
di usare l'orologio accanto al letto. Puntai la mia sveglia mentale sulle sei,
e aprii gli occhi esattamente a quell'ora. Mi tirai subito a sedere e mi sentii
male proprio come l'aspetto faceva pensare. Una doccia calda e un accurato lavoro di restauro non riuscirono lo stesso a nascondere i cerchi neri e
gonfi sotto gli occhi e il pallore. La luce del bagno era uno specchio brutalmente sincero. Chiamai la United Airlines e bussai alla porta di Mark
verso le sette.
«Salve» mi salutò lui, l'aspetto disgustosamente fresco e allegro. «Hai
cambiato idea?»
«Sì» dissi. La fragranza familiare della sua acqua di colonia giocò con i
miei pensieri quasi fossero lucidi frammenti di vetro in un caleidoscopio.
«Sapevo che l'avresti fatto» disse lui.
«E come facevi a saperlo?»
«Non sei mai stata un tipo da sottrarti a un combattimento» sentenziò
osservandomi nello specchio dell'armadio, mentre riprendeva ad annodarsi
la cravatta.
Mark e io avevamo concordato di incontrarci negli uffici della Orndorff
& Berger nel primo pomeriggio. La sala d'aspetto dello studio era uno spazio freddo e profondo. Dalla moquette nera si alzava una massiccia console dello stesso colore, sotto una lampada mobile di ottone lucente con un
solido blocco d'ottone che serviva da tavolo sistemato fra due poltrone di
acrilico nero. Incredibilmente non c'erano altri mobili, né piante o quadri,
nulla a parte alcune sculture contorte disseminate in giro come frammenti
di proiettili per spezzare l'enorme vuoto della stanza.
«Posso aiutarla?» La receptionist mi rivolse un sorriso efficiente dai recessi della sua postazione.
Prima che potessi rispondere, una porta indistinguibile dalle pareti scure
si aprì senza rumore e Mark afferrò la mia borsa da viaggio guidandomi
giù per un lungo e ampio corridoio. Oltrepassammo una serie di porte che
si aprivano su spaziosi uffici dalle finestre a pannelli di cristallo, attraverso
le quali si godeva di una grigia vista di Manhattan. Non c'era un'anima in
giro. Immaginai che fossero tutti a pranzo.
«Chi ha progettato la vostra sala d'attesa, in nome di Dio?» sussurrai.
«La persona da cui stiamo andando» rispose Mark.
L'ufficio di Sparacino era grande il doppio dei precedenti, la sua scrivania un superbo blocco di ebano cosparso di fermacarte di lucenti pietre dure e circondato da pareti di libri. Non meno spaventoso di quanto mi era
apparso la sera prima, l'avvocato di luminari e letterati indossava ora un
costoso completo John Gotti, vivacizzato da un fazzoletto da taschino rosso sangue. Al nostro ingresso mantenne la sua espressione di calma indifferenza e lasciò che ci accomodassimo da soli. Per un gelido istante non ci
guardò nemmeno.
«So che state per andare a pranzo» disse infine, alzando gli occhi freddi
e azzurri e chiudendo con le mani grassocce un raccoglitore. «Prometto di
non trattenerla a lungo, dottoressa Scarpetta. Mark e io abbiamo riesaminato alcuni dettagli riguardanti il caso della mia cliente, Beryl Madison. In
qualità di suo procuratore ed esecutore testamentario, ho alcune esigenze
piuttosto precise e confido che lei potrà aiutarmi ad assecondare i suoi desideri.»
Non dissi nulla. La mia ricerca di un portacenere era rimasta vana.
«Robert ha bisogno delle sue carte» disse Mark senza enfasi. «Con particolare riguardo al manoscritto del libro che stava scrivendo, Kay. Gli stavo giusto spiegando che l'ufficio del medico legale non custodisce tutti gli
effetti personali, almeno non in questo caso.»
Avevamo fatto una serie di prove nel corso della colazione. Mark avrebbe dovuto lavorarsi Sparacino prima del mio arrivo, ma avevo già la sensazione di essere io l'oggetto della manovra.
Fissai Sparacino e gli dissi: «Gli articoli recapitati al mio ufficio sono di
natura probatoria e non comprendono alcun documento di cui lei potrebbe
avere bisogno».
«Mi sta dicendo che non ha il manoscritto» fece lui.
«Proprio così.»
«E che non sa nemmeno dove si trovi» aggiunse.
«Non ne ho idea.»
«Be', avrei di che eccepire al riguardo.»
La sua faccia rimase impassibile mentre riapriva il raccoglitore ed esibiva una fotocopia che riconobbi come il rapporto di polizia su Beryl.
«Secondo la polizia, sul luogo del delitto è stato rinvenuto un manoscritto» scandì. «Adesso lei mi dice che non c'è alcun manoscritto. Le spiacerebbe chiarire la cosa?»
«Sono state recuperate alcune pagine di un manoscritto, ma non penso si
tratti di ciò che le interessa, signor Sparacino. Quelle pagine non sembravano appartenere ad alcuna opera in corso e, per essere più precisa, non
sono mai finite in mano mia.»
«Quante pagine?» chiese.
«Non le ho viste di persona.»
«Chi le ha?»
«Il tenente Marino. È lui che deve contattare, in realtà.»
«Già fatto, ma il tenente Marino ha riferito di avere disposto della consegna di questo manoscritto proprio a lei.»
Non credevo che Marino avesse davvero affermato una cosa simile. «Un
malinteso» risposi. «Penso si riferisse alla consegna di un manoscritto parziale ai laboratori della Scientifica: pagine di quello che potrebbe essere un
lavoro precedente. L'ufficio scientifico legale è una sezione separata, il fatto che sia situato nel mio stesso edificio non significa nulla.»
Lanciai un'occhiata a Mark. Aveva la faccia dura e stava sudando.
Sparacino si girò sulla poltrona, facendo scricchiolare il cuoio.
«Intendo essere franco con lei, dottoressa Scarpetta» disse. «Non le credo.»
«Non ho nessun potere su ciò che lei crede o non crede» risposi molto
calma.
«Ho riflettuto parecchio sulla cosa» continuò Sparacino, altrettanto calmo. «Il fatto è che quel manoscritto resterà un mucchio di carta qualsiasi
finché qualcuno non si renderà conto del valore che potrebbe avere per terzi. Conosco almeno due persone, per non parlare degli editori, disposte a
pagare una cifra considerevole per il libro a cui Beryl stava lavorando prima di morire.»
«Tutto ciò non mi riguarda» risposi. «Il mio ufficio non ha il manoscritto. Non l'abbiamo mai avuto.»
«Qualcuno deve pur averlo preso.» Guardò fuori dalla finestra. «Conoscevo Beryl meglio di chiunque altro, dottoressa Scarpetta, conoscevo le
sue abitudini. Era rimasta a lungo fuori città e quando l'hanno assassinata
era rientrata solo da qualche ora. Mi riesce impossibile pensare che non
avesse con sé il manoscritto. Nel suo studio, nella cartella, in una valigia.»
I piccoli occhi azzurri tornarono a puntarsi su di me. «Beryl non disponeva
di una cassetta di sicurezza in banca, né di un altro posto protetto in cui tenerlo: non che l'avrebbe lasciato lì, comunque. L'aveva con sé fuori città, e
ci stava lavorando. Quindi doveva averlo anche quando tornò a Richmond.»
«È stata via per parecchio tempo» ripetei. «Ne è sicuro?»
Mark non mi guardava.
Sparacino si appoggiò allo schienale della poltrona e si intrecciò le dita
sulla pancia prominente.
«Sapevo che Beryl non era a casa» disse. «Erano settimane che cercavo
di telefonarle. Poi mi chiamò lei, circa un mese fa. Non volle dirmi dove si
trovava ma si dichiarò "al sicuro", citando alla lettera, e proseguì mettendomi al corrente dei progressi fatti con il libro. Disse che ci stava dando
sotto. Per farla breve, non volli essere indiscreto. Beryl era terrorizzata da
questo psicopatico che la minacciava. Non mi importava realmente sapere
dove fosse ma solo che stava bene e che lavorava sodo per diventare famosa. So di sembrarle insensibile, ma dovevo essere pragmatico.»
«Noi non sappiamo dove si fosse rifugiata Beryl» mi informò Mark. «Evidentemente, Marino non ha voluto dircelo.»
Il pronome scelto mi colpì: "noi", cioè "io e Sparacino".
«Se mi state chiedendo di fornirvi questa informazione...»
«È esattamente quello che intendevo fare» tagliò corto Sparacino. «Pare
che negli ultimi mesi Beryl si trovasse nel North Carolina, Washington,
Texas, o dove diavolo era. Ho bisogno di saperlo e subito. Lei mi dice che
il suo ufficio non ha il manoscritto. Alla polizia mi dicono che non ce
l'hanno nemmeno loro. L'unico modo sicuro per me di andare a fondo della
cosa è scoprire dove Beryl sia stata per ultimo, tentare di rintracciare il
manoscritto a partire da là. Può darsi che qualcuno l'abbia accompagnata
all'aeroporto. Può darsi che abbia fatto delle amicizie. Può darsi che qualcuno sappia cos'è accaduto al suo libro. Per esempio: ce l'aveva in mano,
quando è salita sull'aereo?»
«Per avere questa informazione deve rivolgersi al tenente Marino» risposi. «Io non sono autorizzata a discutere i dettagli di questo caso con
lei.»
«Non mi aspettavo che lo fosse» disse Sparacino. «Probabilmente perché lei sa che Beryl aveva il manoscritto con sé quando è salita sull'aereo
per tornare a casa a Richmond. In altre parole, probabilmente perché è finito nel suo ufficio insieme al cadavere e adesso è scomparso.» Si fermò, fissandomi con freddezza. «Quanto l'hanno pagata, Cary Harper o sua sorella, o magari tutti e due, per farselo restituire?»
Mark era annichilito, il viso del tutto privo di espressione.
«Quanto? Dieci, venti, cinquantamila?»
«Credo che questo ponga fine alla nostra conversazione, signor Sparaci-
no» dissi, afferrando la borsa.
«No. Non lo credo, dottoressa Scarpetta» ribatté Sparacino.
Sfogliò con aria casuale i documenti del raccoglitore. Altrettanto casualmente spinse verso di me alcuni fogli di carta.
Raccogliendo quelle che riconobbi come fotocopie degli articoli pubblicati dai giornali di Richmond più di un anno prima, mi sentii defluire il
sangue dal viso. La storia mi era tristemente familiare:
MEDICO LEGALE ACCUSATO
DI FURTO A UN CADAVERE
Quando Timothy Smathers venne assassinato il mese scorso davanti
alla sua residenza, indossava un orologio d'oro al polso, un anello d'oro e aveva 83 dollari nelle tasche dei pantaloni; questo secondo le dichiarazioni della moglie, testimone dell'omicidio presumibilmente
commesso per vendetta da un ex impiegato. La polizia e i membri della squadra di pronto intervento accorsi nell'abitazione di Smathers dopo la sparatoria affermano che i suddetti oggetti di valore si trovavano
ancora sul cadavere al momento dell'invio all'ufficio del medico legale
per l'autopsia...
C'erano altri ritagli, ma non ebbi bisogno di leggerli per sapere cosa dicevano. Il caso Smathers aveva attirato sul mio ufficio la peggiore pubblicità mai ricevuta.
Passai le fotocopie alla mano protesa di Mark. Sparacino mi aveva messa al muro e io ero decisa a non scompormi.
«Come noterà, se davvero è informato» dissi, «sulla vicenda fu fatta
piena luce e il mio ufficio venne scagionato da ogni imputazione.»
«Sì, certo» rispose Sparacino. «Fu lei a consegnare i valori in questione
all'impresa funebre, personalmente. E subito dopo essi scomparvero. Il
problema era dimostrare la sua innocenza. La signora Smathers è ancora
dell'opinione che fu il suo ufficio a sottrarre i gioielli del marito e il denaro. Le ho parlato.»
«Il suo ufficio è stato scagionato, Robert» ripeté Mark con voce monotona, mentre dava un'occhiata agli articoli. «E comunque, qui si dice anche
che alla signora Smathers venne recapitato un assegno pari al valore degli
oggetti in questione.»
«Esatto» commentai, fredda.
«Il valore sentimentale non ha prezzo» osservò Sparacino. «Anche se
l'assegno fosse stato di una cifra dieci volte superiore al valore degli oggetti scomparsi, la vedova continuerà a sentirsi danneggiata.»
Era tutta una barzelletta. La signora Smathers, che la polizia ancora sospettava di qualche responsabilità nell'assassinio del marito, aveva sposato
un ricco vedovo prima ancora che sulla tomba del defunto fosse spuntato
un solo filo d'erba.
«E come sottolineano questi altri articoli» stava dicendo Sparacino, «il
suo ufficio non fu in grado di produrre, come prova, la ricevuta della consegna all'impresa funebre degli effetti personali del signor Smathers. Ora,
conosco i dettagli. Probabilmente il vostro amministratore mise la ricevuta
nel posto sbagliato e in seguito si trasferì a lavorare altrove. Alla fine, fu la
sua parola contro quella dell'impresa funebre, e anche se la vicenda non
venne mai del tutto chiarita, almeno non in modo soddisfacente, adesso
nessuno se ne ricorda o preoccupa più.»
«Dove intendi arrivare?» chiese Mark con lo stesso tono piatto.
Sparacino lo guardò, quindi tornò a rivolgere a me la sua attenzione. «Il
caso Smathers, sfortunatamente, non è il solo che documenti questa sorta
di accusa. Nel luglio scorso il suo ufficio ricevette il cadavere di un uomo
anziano di nome Henry Jackson, deceduto per cause naturali. Quando
giunse nel suo ufficio, nella tasca dei pantaloni c'erano cinquantadue dollari in contanti. Anche questa volta il denaro scomparve, e lei fu costretta a
rilasciare un assegno al figlio del deceduto. Il figlio protestò presso una
stazione televisiva locale. Ho una registrazione del servizio trasmesso, se
desidera vederla.»
«Jackson arrivò con in tasca cinquantadue dollari in contanti» risposi,
sul punto di perdere la pazienza. «Era in avanzato stato di decomposizione,
il denaro così putrido che nemmeno il ladro più disperato l'avrebbe toccato. Io non so che fine fece, ma sembra probabile che sia stato incenerito inavvertitamente insieme agli abiti, non meno putrefatti e infestati di vermi.»
«Gesù» borbottò Mark sottovoce.
«Il suo ufficio ha un problema, dottoressa Scarpetta.» Sparacino sorrise.
«Ogni ufficio ha qualche problema» replicai in tono aspro, alzandomi.
«Se vuole i beni di Beryl Madison, si rivolga alla polizia.»
«Mi spiace» disse Mark, mentre scendevamo in ascensore. «Non immaginavo che quel bastardo volesse buttarti tutta questa merda addosso. Avresti potuto dirmelo, Kay...»
«Dirtelo?» lo fissai incredula. «Dirti che cosa?»
«Di quegli ammanchi, della cattiva pubblicità. È proprio il tipo di melma
in cui Sparacino sguazza. Non lo sapevo, e così ho finito per trascinarti nel
suo agguato. Maledizione!»
«Non te l'ho detto» misi in chiaro, alzando la voce, «perché non ha niente a che vedere con il caso Beryl. Le situazioni a cui ha accennato furono
tempeste in un bicchier d'acqua, il tipo di scompiglio inevitabile quando ti
scaricano cadaveri sul gradino di casa in ogni possibile condizione e quando le imprese funebri e i poliziotti entrano ed escono tutto il giorno raccogliendo effetti personali...»
«Ti prego, non prendertela con me.»
«Non mi sto arrabbiando con te!»
«Ascolta, ti avevo avvertita su Sparacino. Sto solo cercando di proteggerti da lui.»
«Non sono poi così sicura di quello che stai cercando di fare, Mark.»
Continuammo a parlare in tono alterato mentre lui si guardava intorno in
cerca di un taxi. Il traffico era quasi bloccato. I clacson strombazzavano, i
motori rombavano e a me stavano per cedere i nervi. Finalmente se ne
fermò uno. Mark aprì la portiera posteriore e depositò la mia valigia sul
tappetino. Capii cosa stava succedendo solo quando allungò al taxista un
paio di banconote, dopo che ero entrata. Mark non sarebbe venuto con me.
Mi rimandava all'aeroporto da sola e senza pranzo. Il taxi ripartì senza lasciarmi il tempo di abbassare il finestrino e dirgli qualcosa.
Viaggiai in silenzio fino al La Guardia. Mancavano tre ore al mio volo.
Ero arrabbiata, ferita e sconcertata. Detestavo che ci fossimo lasciati in
quel modo. Trovata una sedia libera in un bar, ordinai un drink e accesi
una sigaretta. Osservai il fumo azzurro salire in spire e disperdersi nell'aria. Pochi minuti dopo stavo infilando un quarto di dollaro in un telefono.
«Orndorff & Berger» annunciò l'efficiente voce femminile.
«Mark Jones, per favore» dissi, pensando alla console nera.
Dopo una pausa, la donna rispose: «Spiacente, deve avere sbagliato numero».
«Lavora per il vostro studio di Chicago. È di passaggio. L'ho incontrato
proprio oggi, qualche ora fa, nella vostra sede» spiegai.
«Può attendere?»
Per un paio di minuti mi fu offerta in sottofondo la versione ovattata di
Baker Street di Jerry Rafferty.
«Spiacente» ripeté la centralinista dopo l'indagine, «non abbiamo nessuno che risponda a questo nome, signora.»
«Il signor Jones e io ci siamo incontrati nella vostra sala d'attesa appena
due ore fa» sbottai spazientita.
«Ho controllato, signora. Mi spiace, probabilmente ha sbagliato studio.»
Imprecando sottovoce, sbattei giù il ricevitore. Chiamai il servizio informazioni telefoniche, mi feci dare il numero della sede di Chicago di Orndorff & Berger e composi il numero della mia carta di credito. Volevo lasciare un messaggio per Mark e dirgli di chiamarmi appena possibile.
Quando la centralinista di Chicago dichiarò: «Mi dispiace, non c'è nessun Mark James in questo studio» mi si gelò il sangue nelle vene.
6
Mark non figurava nemmeno sugli elenchi telefonici di Chicago. C'erano
cinque Mark James e tre M James: tornata a casa li provai tutti, uno per
uno. Mi risposero una donna e altri sette sconosciuti. Ero così confusa che
non riuscii a dormire.
L'idea di chiamare Diesner, il capo medico legale di Chicago che Mark
aveva detto di incontrare di tanto in tanto, non mi venne in mente fino al
mattino dopo.
Decisi che mi sarebbe convenuto andare subito al sodo e dopo i convenevoli di rito dissi: «Sto cercando di rintracciare Mark James, un avvocato
di Chicago che credo dovresti conoscere».
«James...» ripeté Diesner, pensieroso. «Temo che il nome non mi sia
familiare, Kay. Un avvocato che lavora qui a Chicago, dici?»
«Sì.» Ebbi una specie di tuffo al cuore. «Da Orndorff & Berger.»
«Be', conosco Orndorff & Berger. Uno studio molto apprezzato. Ma non
riesco a ricordare nessun Mark James...» Sentii che apriva un cassetto e
sfogliava delle pagine. Dopo un lungo momento, Diesner riprese: «Proprio
no. Non lo trovo nemmeno sulle Pagine Gialle».
Quando ebbi riattaccato, mi versai un'altra tazza di caffè nero e fissai il
beccatoio vuoto, fuori dalla finestra della cucina. Era un mattino grigio, e
minacciava pioggia. In ufficio mi aspettava una scrivania che come minimo aveva bisogno dell'intervento di un bulldozer. Era sabato. Lunedì sarebbe stata festa nazionale e l'ufficio sarebbe rimasto deserto, i miei collaboratori stavano certo già godendosi quel fine settimana di tre giorni. Sarei potuta andare a sbrigare un po' di lavoro, approfittando dell'insolita pace e tranquillità. Ma non ne avevo voglia. Non riuscivo a pensare ad altro
che a Mark. Era come se all'improvviso non esistesse più realmente, come
se fosse una fantasia, un sogno. Più» cercavo di venirne fuori, più i miei
pensieri restavano intrappolati. Cosa diavolo stava succedendo?
Al colmo della disperazione, cercai di farmi dare dal servizio informazioni il numero di casa di Robert Sparacino, e quando risultò che non era
nell'elenco mi sentii segretamente sollevata. Chiamarlo era un gesto suicida. Mark mi aveva mentito. Mi aveva detto che lavorava per Orndorff &
Berger, che viveva a Chicago e che conosceva Diesner. Niente di tutto
questo era vero! Continuai a sperare che il telefono squillasse, che Mark
mi chiamasse. Misi un po' in ordine la casa, feci il bucato e stirai, preparai
della salsa di pomodoro, feci delle polpette e sbrigai la corrispondenza.
Il telefono non squillò fino alle cinque del pomeriggio.
«Sei tu, capo? Sono Marino» esordì la voce familiare. «Non è che voglia
seccarti anche nel weekend, ma sono due maledetti giorni che cerco di rintracciarti. Volevo solo accertarmi che stessi bene.»
Marino giocava di nuovo all'angelo custode.
«Ho una videocassetta che mi piacerebbe tu vedessi» disse. «Ho pensato
che, se eri in casa, magari potevo passare un attimo a consegnartela. Ce
l'hai un videoregistratore?»
Sapeva che l'avevo. Aveva già "consegnato" videocassette in precedenza.
«Cosa sarebbe?» chiesi.
«È la cassetta di un tizio con cui ho trascorso l'intera mattina. L'ho interrogato su Beryl Madison.» Fece una pausa. Dalla voce, mi era parso piuttosto soddisfatto di sé.
Più conoscevo Marino, più lui insisteva nel propinarmi le sue dimostrazioni a effetto. In parte attribuivo il fenomeno al fatto che mi aveva salvato
la vita, orribile evento servito a trasformarci in un'improbabile coppia.
«Sei in servizio?» gli chiesi.
«Diamine, sono sempre in servizio» borbottò lui.
«Sii serio.»
«Non ufficialmente, okay? Ho staccato alle quattro, ma mia moglie è in
visita da sua madre a Jersey e non ho niente da fare.»
Sua moglie era via. Il figlio era già grande. Era un sabato grigio e umido. Marino non aveva voglia di rientrare in una casa vuota. Nemmeno io
mi sentivo esattamente contenta e allegra nella mia casa vuota. Fissai la
pentola di salsa che bolliva.
«Non devo uscire» dissi. «Passa pure con la videocassetta, la guarderemo insieme. Ti piacciono gli spaghetti?»
Marino esitò. «Be'...»
«Con le polpette. E stavo per mettermi a fare la pasta, adesso. Vuoi
pranzare con me?»
«Sì» disse. «Penso di sì.»
Quando Beryl Madison voleva farsi lavare la macchina, di solito andava
da Masterwash, nella zona sud della città.
Marino l'aveva scoperto battendo tutti i maggiori lavaggi locali. Non erano poi così tanti, una dozzina al massimo, quelli che facevano passare la
macchina vuota e attraverso una serie di cosiddetti "gonnellini hawayani",
che ne spazzolavano la superficie insaponata, subito risciacquata da sottilissimi getti d'acqua. Dopo una rapida asciugatura ad aria calda, la vettura
veniva trasferita da un addetto in un'area in cui veniva aspirata, incerata,
pulita con stracci di pelle, lustrata sui paraurti e sulle altre parti metalliche.
Un "super Deluxe" da Masterwash, mi informò Marino, costava quindici
dollari.
«Ho avuto una fortuna sfacciata» disse, arrotolando gli spaghetti sulla
forchetta con l'aiuto di un cucchiaio da minestra. «Come fai a scovare una
roba del genere, eh? Quella gente è abituata a farsi una settantina, diciamo
un centinaio di macchine al giorno. Come si può sperare che facciano caso
a una Honda nera? Non è nemmeno pensabile.»
Ma lui era tornato dalla caccia vincitore. Aveva acchiappato il pesce
grosso. Quando gli avevo consegnato il rapporto preliminare sulle fibre, la
settimana precedente, sapevo che si sarebbe messo a battere gli impianti di
lavaggio macchine e le officine dei carrozzieri della città. Certamente si
poteva dire una cosa, di Marino: se c'era anche un solo cespuglio in tutto il
deserto, lui andava a darci un'occhiatina dietro.
«Bottino ricco, ieri» proseguì. «Sono andato a farmi un giro da Masterwash. Era quasi l'ultimo della lista, data l'ubicazione. Immaginavo che
Beryl portasse la Honda in qualche impianto della zona ovest, ma sbagliavo: la portava nella zona sud, e la sola spiegazione che riesco a dare è che
in questo posto c'è anche un'officina di carrozzeria e una vendita di ricambi. Salta fuori che Beryl è andata lì nel dicembre scorso, poco dopo
aver comprato la macchina, per un lavoro da cento dollari: stucco e riverniciatura. Dopodiché, ha sottoscritto un abbonamento per usufruire di uno
sconto di due dollari a lavaggio, extra compresi.»
«È così che sei riuscito a saperlo? Per via dell'abbonamento?»
«Oh, sì» fece lui. «Quelli non hanno un computer. Mi sono dovuto sfo-
gliare tutte le loro dannate ricevute. Ma alla fine ho trovato la data di pagamento della quota e, viste le eccellenti condizioni in cui abbiamo rinvenuto la macchina nel garage, ho pensato che dovesse averla fatta lavare
non molto prima di partire per Key West. Mi sono basato anche sui suoi
appunti e sulle fatture di pagamento. Solo una intestata a Masterwash, per
quel lavoro da cento dollari di cui ti dicevo. Evidentemente ha pagato in
contanti, quando si è fatta lucidare la macchina dopo il ritocco.»
«Gli addetti alla pulitura delle auto» domandai «cosa indossano?»
«Niente di arancione che possa accordarsi con quella strana fibra trovata.
Molti indossano jeans e scarpe da ginnastica, e tutti hanno camicie azzurre
con "Masterwash" ricamato in bianco sulla tasca. Ho controllato ogni cosa,
mentre ero là. Nulla che mi abbia colpito. L'unico tessuto vagamente diverso che abbia notato erano le pile di stracci bianchi che adoperano per
lucidare le macchine.»
«Non sembra molto promettente» osservai, spingendo il piatto da parte.
Almeno Marino era di buon appetito. Il mio stomaco era rimasto bloccato
da New York, non sapevo se raccontare o meno ciò che mi era successo.
«Forse no» disse lui. «Ma un tipo con cui ho parlato mi ha fatto rizzare
le antenne.»
Attesi.
«Si chiama Al Hunt, ventotto anni, bianco. Vado dritto da lui. L'avevo
visto fermo in piedi a sorvegliare i colleghi, mi aveva fatto scattare dentro
qualcosa. Sembrava uno fuori posto, lì. Aspetto curato, elegante, neanche
dovesse andare a lavorare in banca, con tanto di valigetta ventiquattr'ore.
Cosa ci fa un tipo come quello - ho cominciato a chiedermi - in un posto
come questo, che non offre prospettive?» Smise di intingere il pane nel
piatto. «Così gli gironzolo intorno e attacco bottone, con aria indifferente.
Gli chiedo di Beryl, gli mostro la sua foto della patente di guida. Gli chiedo se per caso si ricorda di averla vista da quelle parti e, bum!, subito dà
segni di nervosismo.»
Non potei fare a meno di pensare che mi sarei innervosita anch'io, se
Marino si fosse messo a "gironzolarmi" intorno. Probabilmente aveva puntato verso di lui con la delicatezza di un camion con rimorchio.
«E poi?» lo incitai.
«E poi entriamo, prendiamo un caffè e ci mettiamo a parlare seriamente»
prosegue Marino. «Questo Al Hunt non è un tipo qualsiasi. Tanto per cominciare, è laureato. Si è preso un master in psicologia e poi è andato a lavorare come infermiere al Metropolitan, per un paio d'anni, se si può cre-
dere a qualcosa di simile. E quando gli chiedo perché ha lasciato l'ospedale
per venire da Masterwash, scopro che quel fottuto impianto appartiene al
suo vecchio. Il padre di Hunt ha le mani un po' dappertutto, in città. Masterwash è solo uno dei tanti investimenti. È proprietario anche di una serie
di parcheggi, e nel Northside è un piccolo boss. Ne desumo automaticamente che il padre gli sta facendo fare le ossa, che il giovane Al sta imparando a seguire le sue orme, giusto?»
La cosa cominciava a farsi interessante.
«Il fatto è, però, che Al non sa cavarsela, anche se dovrebbe, giusto?
Traducendo, Al è un perdente. Il vecchio non si fida a piazzarlo in abito
gessato dietro una scrivania. Voglio dire, lo fa stare lì a dire agli altri come
si passa la cera sulle macchine e come si lucidano i paraurti. Mi rendo immediatamente conto che deve avere qualcosa che non gli funziona, qui
dentro» si puntò un dito unto alla tempia.
«Forse dovresti chiederlo a suo padre» dissi.
«Giusto. E lui mi dirà che la sua grande speranza è in realtà un povero
incapace.»
«Come intendi andare a fondo della cosa?»
«Già fatto» rispose. «Come del resto testimonia la videocassetta che ti
ho portato, capo. Ho passato l'intera mattina con Al Hunt, giù alla centrale.
Il tizio dice un mucchio di stranezze ed è troppo curioso su quanto è accaduto a Beryl, sostiene di aver letto tutto sui giornali...»
«Come faceva a sapere chi era Beryl?» lo interruppi. «I giornali e le stazioni televisive non hanno mostrato fotografie. L'ha riconosciuta dal nome?»
«Ha detto di no, che non aveva idea che fosse la signora bionda da lui
notata all'autolavaggio finché non gli ho mostrato la foto della patente di
guida. Allora ha inscenato una grossa reazione, si è mostrato sconvolto,
addirittura straziato. Pendeva dalle mie labbra, voleva parlare di lei: davvero eccessivo per uno che doveva conoscerla solo superficialmente.» Appoggiò il tovagliolo spiegazzato sul tavolo. «La cosa migliore è che ascolti
da sola.»
Misi sul fuoco una caffettiera, radunai i piatti sporchi e andammo in salotto a visionare la cassetta. Lo sfondo mi era familiare. L'avevo già visto
parecchie volte in precedenza. La stanza degli interrogatori del dipartimento di polizia era un piccolo vano con un tavolo spoglio al centro del pavimento moquettato. Vicino alla porta c'era un interruttore, e solo un esperto
o gli addetti ai lavori avrebbero potuto notare che era privo della vite supe-
riore. Dall'altra parte del minuscolo buco nero c'era una sala video dotata
di una speciale cinepresa con grandangolo.
A prima vista Al Hunt non sembrava minaccioso. Aveva capelli chiari,
un po' stempiati e carnagione pallida. In realtà non sarebbe stato brutto non
fosse stato per il mento sfuggente che gli faceva sparire la faccia nel collo.
Indossava una giacca di pelle marrone e jeans, e mentre guardava Marino,
seduto di fronte a lui, giocherellava nervosamente rigirandosi una lattina di
Seven-up tra le dita affusolate.
«Cosa accadde con Beryl Madison, di preciso?» chiese Marino. «Cosa ti
spinse a notarla? Passano un mucchio di macchine nel vostro impianto,
ogni giorno. Ti ricordi di tutti i vostri clienti?»
«Ne ricordo più di quanti lei non penserebbe» rispose Hunt. «In particolare i clienti abituali. Forse non ne ricordo i nomi, ma le facce sì, perché di
solito restano in piedi ad aspettare mentre i ragazzi puliscono le macchine.
Molti ci tengono a controllare di persona, se capisce quello che voglio dire.
Li tengono d'occhio, si accertano che non venga tralasciato nulla. C'è chi
raccoglie uno straccio e li aiuta, specialmente se va di fretta; a volte capita,
questo tipo di persona che non riesce a stare ferma e deve per forza mettersi a fare qualcosa.»
«Beryl era così? Controllava?»
«No, signore. Abbiamo un paio di panchine, là fuori. Lei andava a sedersi all'aperto. Ogni tanto leggeva il giornale, o un libro. Davvero non
prestava alcuna attenzione al personale e non era certo un tipo cordiale.
Forse è per questo che l'ho notata.»
«In che senso?» chiese Marino.
«Nel senso che mandava certi segnali. È stato su quelli che è caduta la
mia attenzione.»
«Segnali?»
«Le persone emettono ogni sorta di segnali» spiegò Hunt. «Io sono ricettivo, li capto. Potrei dire molte cose su una persona a partire dai segnali
che emette.»
«Anch'io sto emettendo dei segnali, Al?»
«Sì, signore. Tutti ne emettiamo.»
«E che tipo di segnali sto emettendo?»
La faccia di Hunt era seria, quando rispose: «Rosso pallido».
«Eh?» Marino parve sconcertato.
«Capto i segnali sotto forma di colori. Forse a lei parrà strano, ma non è
un fatto eccezionale. Alcune persone riescono a percepire i colori irradiati
da altre. Sono questi i segnali a cui mi riferisco. I segnali che raccolgo da
lei sono rosso pallido. In parte cordialità, in parte rabbia. Una specie di avvertimento. Ti attirano, ma ti mettono in guardia allo stesso tempo...»
Marino fermò il nastro e mi sorrise malizioso.
«Ti sembra un po' svitato o no?» chiese.
«A dire il vero, lo trovo piuttosto perspicace» dissi. «Tu sei effettivamente un misto di cordialità, rabbia e pericolo.»
«Merda, capo. Quello lì è un idiota. A sentire lui, tutta la popolazione
del pianeta sarebbe un arcobaleno ambulante.»
«C'è una certa validità psicologica in quello che dice» risposi in tono pacato. «Ai colori vengono associate varie emozioni. È su questo principio
che ci si basa quando si combinano i colori destinati a certi luoghi pubblici, come stanze di alberghi o sedi di enti. Il blu, ad esempio, è associato alla depressione. Difficilmente potrebbe capitarti di trovare stanze tappezzate di blu in un ospedale psichiatrico. Il rosso è rabbioso, violento, passionale. Il nero morboso, sinistro e così via. Se non ricordo male, mi hai detto
che Hunt ha un master in psicologia.»
Marino parve infastidito e fece ripartire la cassetta.
«... suppongo che la cosa sia in relazione al ruolo che sta giocando. Lei è
un detective» stava dicendo Hunt. «Ha bisogno della mia collaborazione,
adesso, ma al contempo non si fida e, in caso avessi qualcosa da nascondere, potrebbe rivelarsi pericoloso. Ecco la parte di avvertimento nel rosso
chiaro che percepisco. La cordialità deriva dalla sua personalità estroversa.
Lei vuole sentirsi vicino alle persone, forse le piace stare con la gente: fa il
duro, ma vuole piacere...»
«D'accordo» lo interruppe Marino. «E Beryl Madison? Hai raccolto dei
colori anche da lei?»
«Oh, sì. Fu proprio questa la cosa che mi colpì immediatamente, in lei.
Beryl era diversa, davvero diversa.»
«In che senso?» La sedia di Marino scricchiolò sensibilmente mentre si
appoggiava allo schienale e incrociava le braccia.
«Molto gelida» rispose Hunt. «I colori che emetteva erano artici. Azzurro ghiaccio, il giallo di un sole debole, un bianco freddo tipo quello del
ghiaccio secco, come se fosse pronta a scottare chi l'avesse toccata. Ma era
la parte bianca, quella particolare. Percepisco sfumature pastello in un
mucchio di donne, tonalità femminili che si accordano ai colori degli abiti
che indossano: rosa, giallo, celeste e verde. Donne passive, fredde, fragili.
A volte ne vedo qualcuna che emana colori forti, come il blu mare, il bor-
dò, il rosso. Si tratta di tipi energici. Di solito aggressivi, possono essere
avvocati, medici o donne d'affari, e spesso indossano abiti dei colori che
ho appena detto. Sono quelle che restano vicine alle macchine, le mani sui
fianchi, a controllare il lavoro del personale. E non esitano a segnalare una
striatura sul parabrezza o la minima macchiolina di sporco.»
«Ti piace questo tipo di donna?» chiese Marino.
Hunt esitò. «No, signore. A essere sincero, no.»
Marino rise, chinandosi in avanti, e gli disse: «Ehi, nemmeno a me. Preferisco le ragazzine pastello».
Lanciai a Marino una delle mie occhiate.
Lui mi ignorò, mentre sullo schermo diceva a Hunt: «Dimmi qualcosa di
più su Beryl, su quello che hai captato».
Hunt aggrottò le sopracciglia, concentrandosi. «Le sfumature pastello
che irradiava non erano di per sé insolite, eccetto che non mi davano esattamente un'idea di fragilità. Nemmeno di passività... Erano più fredde, artiche, come ho detto, opposte a quelle floreali. Quasi che Beryl volesse dire al mondo di starle alla larga, di farle spazio.»
«Come se fosse frigida?»
Hunt giocherellò di nuovo con la lattina di Seven-up. «No, signore, non
penso di poter dire questo. Di fatto, non penso di avere proprio captato
niente del genere. Quello che mi veniva in mente era un senso di distanza.
Un'ampia distanza che bisognava attraversare se si voleva arrivare fino a
lei. Ma se lo facevi, se lei ti lasciava in qualche modo avvicinare, poi ti avrebbe bruciato, con la sua intensità. Ecco da dove provenivano i suoi segnali di calore bianco, quelli che la rendevano particolare. Beryl era intensa, molto intensa. Avevo la sensazione che fosse molto intelligente, molto
complicata. Anche quando se ne stava in disparte, seduta tutta sola sulla
panchina, senza badare a nessuno, la sua mente era all'opera. Captava ogni
segno di quello che le accadeva intorno. Era distante e calda e bianca come
una stella.»
«Hai notato se era nubile?»
«Non portava la fede» rispose Hunt senza pensarci sopra. «Credevo che
fosse una single. Nella sua macchina non notai nulla che facesse pensare il
contrario.»
«Non capisco.» Marino pareva confuso. «In che senso nella sua macchina?»
«Credo fosse la seconda volta che la portava. Stavo osservando uno dei
ragazzi che pulivano l'interno, e dentro non c'era nessun oggetto maschile.
Il suo ombrello, ad esempio, era sul pavimento posteriore ed era uno di
quegli ombrelli sottili che di solito usano le donne, a differenza di quelli
neri con grossi manici di legno adoperati dagli uomini. Sui sedili posteriori
c'erano anche degli abiti freschi di lavanderia, nella loro custodia, e sembravano solo abiti femminili, niente indumenti maschili. Quasi tutte le signore, quando ritirano i propri capi, ritirano anche quelli del marito. E poi,
il portabagagli. Niente attrezzi, nemmeno un cavo elettrico. Niente di maschile, insomma. È interessante, sa; quando si vedono macchine tutto il
giorno, si comincia a stare attenti a questi dettagli e a fare deduzioni sui
guidatori senza nemmeno pensarci su.»
«Pare quasi che invece, nel caso di Beryl, tu ci abbia pensato sopra un
bel po'» disse Marino. «Ti è mai passato per la testa di chiederle di uscire,
Al? Sei sicuro di non aver saputo come si chiamava, di non aver notato il
suo nome sullo scontrino della lavanderia, o magari in una busta lasciata
dentro la macchina?»
Hunt scosse la testa. «Non sapevo il suo nome, no. Forse non volevo
nemmeno saperlo.»
«Perché no?»
«Non lo so...» Si fece imbarazzato, confuso.
«Avanti, Al. Puoi dirmelo. Ehi, magari a me sarebbe piaciuto invitarla a
uscire, sai? Beryl era bella, interessante. Ci avrei fatto un pensierino, probabilmente mi sarei procurato il suo nome di nascosto, forse avrei anche
cercato di telefonarle.»
«Be', io non lo feci.» Hunt si guardò le mani. «Non tentai niente di simile.»
«Perché no?»
Silenzio.
«Forse» riprese Marino, «perché una volta hai avuto una donna come lei
e sei rimasto scottato?»
Silenzio.
«Ehi, capita a tutti, Al.»
«All'università» rispose Hunt, con voce quasi impercettibile. «Uscivo
con una ragazza. Andò avanti due anni. Poi si mise con uno studente del
corso di medicina. Donne come quella... vanno in cerca di certi tipi. Sa,
quando cominciano a pensare a sistemarsi.»
«Puntano in alto.» La voce di Marino stava facendosi aspra. «Avvocati,
medici, banchieri. Non vanno in cerca di ragazzi che lavorano negli impianti di lavaggio.»
La testa di Hunt si rialzò di scatto. «Non lavoravo in un impianto di lavaggio, a quel tempo.»
«Non importa, Al. Le ragazze d'alta classe come Beryl Madison non
sembrano disposte a dirti nemmeno che ora è, giusto? Scommetto che
Beryl non sapeva neanche che esistevi, vero? Scommetto che non ti avrebbe riconosciuto, se l'avessi incrociata nella sua dannata macchina da qualche parte per strada...»
«Non dica queste cose...»
«Vero o falso?»
Hunt si fissò i pugni chiusi.
«Quindi, forse provavi qualcosa per Beryl, eh?» continuò implacabile
Marino. «Forse pensavi tutto il tempo a questa donna calda e bianca, fantasticando, chiedendoti come sarebbe andata se avessi potuto darle un appuntamento, come sarebbe stato fare l'amore con lei. Forse, semplicemente, non avevi il coraggio di parlarle di persona perché immaginavi che ti
avrebbe considerato un essere inferiore, indegno...»
«Basta! Mi dà fastidio! Basta!» urlò Hunt con voce stridula. «Mi lasci in
pace!»
Marino, seduto di là dal tavolo di fronte a lui, lo guardò senza lasciar
trapelare alcuna emozione.
«È proprio come con il tuo vecchio, non è vero, Al?» Marino si accese
una sigaretta e l'agitò mentre parlava. «Il vecchio Hunt che pensa che il
suo unico figlio sia un maledetto finocchio solo perché non è un miserabile
figlio di puttana sfruttatore di poveracci, senza riguardi per il benessere e i
sentimenti di nessuno.» Emise una boccata di fumo, poi riprese a parlare
con dolcezza. «Conosco l'Onnipotente Vecchio Hunt. So anche che quando andasti a lavorare come infermiere diceva a tutti i suoi amici che tu eri
un finocchio, che si vergognava al pensiero che il suo stesso sangue scorresse nelle tue vene. Il fatto è che hai dovuto accettare di lavorare nel suo
fottuto impianto di lavaggio perché altrimenti ti avrebbe diseredato.»
«Lei sa questo? E come?» farfugliò Hunt.
«So un sacco di cose. So anche, di fatto, che al Metropolitan si diceva
che tu eri il migliore, che avevi dei modi davvero delicati, con i pazienti.
Per loro fu un maledetto dispiacere vederti andare via. Penso che l'aggettivo con cui ti definivano fosse "sensibile", forse troppo sensibile per il tuo
stesso bene, vero, Al? Il che spiega perché tu non rimorchi, perché non hai
delle amichette. Hai paura. E Beryl ti faceva cacare dalla paura, non è vero?»
Hunt sospirò profondamente.
«È per questo che non volevi sapere il suo nome? Perché, poi, ti sarebbe
venuta la tentazione di telefonarle, di provarci.»
«L'avevo solo notata» rispose Hunt nervosamente.
«Davvero, non c'era altro. Non ho mai pensato a Beryl nella maniera che
dice lei. Semplicemente, be', semplicemente mi era rimasta molto impressa. Ma non approfondii. Non le parlai nemmeno, fino all'ultima volta in cui
venne...»
Marino premette di nuovo la pausa. «Questa» annunciò, «è la parte importante...» Tacque e mi guardò con attenzione. «Ehi, ti senti bene?»
«Era davvero necessario essere tanto brutali?» risposi indignata.
«Allora non mi conosci, se questo ti sembra brutale» commentò.
«Oh, scusi. Dimenticavo di essere seduta in salotto con Attila l'Unno.»
«È solo una messinscena» precisò lui, ferito.
«Ricordami di fare il tuo nome all'Academy Award.»
«Piantala, capo.»
«Lo hai assolutamente demoralizzato» dissi.
«È solo una tecnica, okay? Un modo per allentare le viti, per spingere la
gente a dirti quello di cui magari non aveva nessuna intenzione di parlarti.» Si voltò di nuovo verso l'apparecchio e, premendo il tasto di avvio, aggiunse: «Quello che sta per dirmi vale l'intera conversazione».
«Quando fu l'ultima volta?» stava chiedendo Marino a Hunt. «L'ultima
volta che venne al lavaggio.»
«Non sono sicuro della data esatta» rispose il ragazzo. «Un paio di mesi
fa circa, ma ricordo bene che era un venerdì mattina, sul tardi. Me lo ricordo perché dovevo fare colazione con mio padre, quel giorno. Vado sempre
a pranzo con lui, di venerdì, per parlare di affari.» Hunt afferrò la lattina di
Seven-up. «Mi vesto sempre un po' più elegante, il venerdì. Quel giorno
avevo la cravatta.»
«Dunque, Beryl arriva sul tardi, quel venerdì mattina, a farsi lavare la
macchina» lo sollecitò Marino. «E in questa occasione le hai parlato?»
«Fu lei, a dire il vero, a rivolgermi la parola» rispose Hunt, come se la
precisazione fosse importante. «La sua macchina stava uscendo dal tunnel
quando Beryl venne verso di me, mi disse che aveva rovesciato qualcosa
sulla moquette del bagagliaio e voleva sapere se potevamo smacchiarla. Mi
portò alla macchina, aprì il portellone e vidi che la moquette era bagnata.
Evidentemente aveva messo dei generi alimentari là dietro e una bottiglia
di succo d'arancia doveva essersi rotta. Immagino che fu per questo che
decise di portare l'auto a lavare immediatamente.»
«E la roba era ancora nel bagagliaio, quando venne?»
«No» rispose Hunt.
«Ti ricordi com'era vestita, quel giorno?»
Hunt esitò. «Completo da tennis, occhiali da sole. Sembrava che avesse
appena smesso di giocare. Lo ricordo perché non l'avevo mai vista arrivare
conciata in quel modo. In passato era sempre stata vestita da città. Ricordo
anche che nel bagagliaio c'erano la racchetta da tennis e altri oggetti, perché lei li tirò fuori quando cominciammo a passare lo shampoo. Ricordo
che li ripulì e li mise sul sedile posteriore.»
Marino tirò fuori un'agenda dal taschino. Aprendola e scorrendo diverse
pagine, disse: «È possibile che fosse la seconda settimana di luglio? Venerdì dodici?».
«Può darsi.»
«Ti ricordi nient'altro? Non disse nulla?»
«Era quasi amichevole» rispose Hunt. «Questo lo ricordo bene. Suppongo che fosse perché la stavo aiutando, perché le assicurai che ci saremmo
occupati noi del suo bagagliaio anche se in realtà non eravamo tenuti a farlo. Avrei potuto dirle di portare la macchina dal carrozziere, dove avrebbe
pagato trenta dollari per uno shampoo. Ma volevo aiutarla. Restai lì nei
pressi mentre i ragazzi lavoravano, quando d'un tratto notai la portiera del
passeggero. Era sfregiata. Strano. Sembrava quasi che qualcuno avesse
preso una chiave e avesse inciso un cuore e alcune lettere proprio sotto la
maniglia. Quando le chiesi com'era successo, andò a vedere ed esaminò il
danno. Restò di stucco. Lo giuro, impallidì come un lenzuolo. Evidentemente non si era ancora accorta della cosa, prima che glielo facessi notare
io. Cercai di calmarla, le dissi che capivo che era sconvolta. La Honda era
nuova fiammante, senza un graffio, una macchina da ventimila dollari. Poi
un cretino le fa una cosa simile. Probabilmente qualche ragazzetto annoiato.»
«Che altro disse, Al?» chiese Marino. «Cercò forse di spiegare il danno?»
«No, signore. Non disse praticamente nient'altro. Era come se si fosse
spaventata: si guardava attorno, assolutamente sconvolta. Poi mi chiese
dove era il telefono più vicino e io le dissi che in ufficio ce n'era uno a
monete. Quando tornò fuori, la macchina era pronta e lei partì...»
Marino fermò la cassetta e la estrasse dal videoregistratore. Ricordandomi del caffè, andai in cucina e preparai due tazze.
«Sembra che questo risponda a una delle nostre domande» dissi, quando
ritornai.
«Oh, sì» fece Marino, tendendo la mano verso la panna e lo zucchero.
«Per come la vedo io, Beryl probabilmente usò il telefono a monete per
chiamare la banca, o forse le linee aeree per fare una prenotazione. La scoperta di quel piccolo omaggio graffiato sulla portiera era la goccia che faceva traboccare il vaso. Andò in paranoia. Dal lavaggio puntò dritta in
banca. Ho controllato dove aveva il conto corrente. Era una cliente modello: mai una discussione.»
«Si fece dare dei traveller's check?»
«No, anche se è difficile crederlo» disse lui. «Questo mi fa capire che
aveva più paura di essere rintracciata che non di essere derubata. Alle Key
paga tutto in contanti. Nessuno deve sapere il suo nome, per questo non
usa carte di credito o traveller's check.»
«Doveva essere terrorizzata» dissi piano. «Non posso credere che portasse con sé tutto quel contante. Bisogna essere proprio fuori di testa o
spaventati a morte.»
Marino si accese una sigaretta. Lo imitai.
Spegnendo il fiammifero, chiesi: «Pensi sia possibile che il cuore sia stato graffiato sulla macchina mentre veniva lavata?».
«Ho fatto a Hunt la stessa domanda, per vedere come reagiva» rispose
Marino. «Mi ha giurato che la cosa non poteva essere avvenuta nell'impianto di lavaggio perché qualcuno se ne sarebbe di certo accorto, avrebbe
visto il responsabile. Io però non ne sono così sicuro. Prova un po' a lasciare mezzo dollaro nella vaschetta degli spiccioli, in posti simili, e vedi
quanto tempo ci resta. Rubano tutti come banditi. Monete, ombrelli, assegni. E se chiedi in giro, nessuno ha visto niente. Avrebbe potuto anche essere Hunt, per quanto ne so io.»
«Hunt è un po' fuori dal comune» ammisi. «Trovo curioso che Beryl gli
fosse rimasta tanto impressa. In fondo era solo una delle tante persone che
passano di lì ogni giorno, una tra la folla. Quante volte ci andava? Una volta al mese, forse meno?»
Marino annuì. «Ma per Al, Beryl spiccava più di un'insegna al neon. Potrebbe essere perfettamente innocente, come non esserlo affatto.»
Ricordai le parole di Mark su Beryl. L'aveva definita "memorabile".
Marino e io sorseggiammo i nostri caffè in silenzio, mentre sui miei
pensieri calava di nuovo il buio. Mark. Doveva esserci un errore, una spiegazione logica del perché non figurava nell'elenco di Orndorff & Berger.
Forse il suo nome era stato lasciato apposta fuori dalla lista, forse lo studio
si era computerizzato di recente ed era stato codificato in modo improprio,
per questo non risultava alla richiesta. Forse le due centraliniste erano
nuove e non conoscevano tutti gli avvocati. Ma perché non figurava nemmeno a Chicago?
«Hai l'aria di una che ha paura di essere mangiata» disse Marino alla fine. «È da quando sono entrato che hai quella faccia.»
«Sono solo stanca» risposi.
«Balle.» Sorseggiò il caffè.
Io invece rischiai quasi di strangolarmi, quando riprese: «Rose mi ha
detto che te la sei svignata fuori città. Hai avuto una piccola e produttiva
chiacchierata con Sparacino, a New York?».
«Quando te l'ha detto?»
«Non ha importanza. E non arrabbiarti con la tua segretaria» rispose.
«Mi ha solo riferito che eri dovuta andare fuori città. Non mi ha detto dove, da chi o per che cosa, il resto l'ho scoperto da solo.»
«Come?»
«Semplicemente me l'hai detto tu, ecco come» fece lui. «Non l'hai negato, giusto? Dunque, di cosa avete parlato tu e Sparacino?»
«Mi ha detto che ha parlato con te. Sarebbe forse meglio che mi dicessi
tu per primo di cosa avete chiacchierato» risposi.
«Niente di importante.» Marino ritirò la sigaretta dal portacenere. «Mi
ha chiamato l'altra sera a casa. Non chiedermi come diavolo abbia avuto il
mio nome e numero. Vuole le carte di Beryl e io non ho intenzione di dargliele. Forse sarei stato più propenso ad aiutarlo se avesse fatto meno lo
stronzo. Ha cominciato a darmi ordini, a comportarsi in modo arrogante.
Ha detto che lui è l'esecutore testamentario, si è messo a minacciare.»
«E tu hai fatto il bel gesto di dirottare lo squalo al mio ufficio» dissi io.
Marino mi guardò inespressivo. «No. Non ti ho nemmeno nominata.»
«Ne sei sicuro?»
«Sicurissimo. La conversazione è durata al massimo tre minuti. Ecco
tutto. Nessuno ha fatto il tuo nome.»
«E che dire del manoscritto da te elencato nel rapporto di polizia? Non ti
ha chiesto di quello, Sparacino?»
«Sì» rispose lui. «Non gli ho dato nessun particolare, gli ho solo detto
che le carte di Beryl erano inventariate come prove e gli ho raccontato la
solita storia, che non ero autorizzato a discutere il caso.»
«E non gli hai detto di aver consegnato il manoscritto al mio ufficio?»
«Diavolo, no.» Mi guardò in modo strano. «Perché avrei dovuto? Non è
vero. L'ho fatto controllare da Vander per le impronte, sono rimasto là durante l'esame e poi me lo sono riportato via. È nel deposito prove, insieme
a tutta l'altra roba.» Fece una pausa. «Perché? Cosa ti ha detto Sparacino?»
Mi alzai per andare a riempire di nuovo le tazze di caffè. Quando tornai,
gli raccontai ogni cosa. Alla fine mi guardò incredulo. Nei suoi occhi scorsi anche un'espressione che mi mise in allarme. Penso fosse la prima volta
che vedevo Marino spaventato.
«Cosa intendi fare, se ti chiama?» mi chiese.
«Se mi chiama chi? Mark?»
«No. Se ti chiamano i sette nani» fece lui, sarcastico.
«Gli chiederò spiegazioni. Per esempio come può lavorare per Orndorff
& Berger e vivere a Chicago senza che ci sia traccia di lui.» La mia frustrazione cresceva. «Non lo so, ma cercherò di scoprire cosa diavolo sta
succedendo.»
Marino guardò altrove, irrigidendo i muscoli delle mascelle.
«Ti stai chiedendo se Mark sia implicato... se sia legato a Sparacino,
coinvolto in attività illecite, nel crimine» dissi, a stento capace di tradurre
in parole quel sospetto agghiacciante.
Marino si accese rabbiosamente un'altra sigaretta. «Cos'altro dovrei pensare? Non vedi il tuo ex Romeo da più di quindici anni, non gli hai più
nemmeno parlato, non sai più nulla di quello che ne è stato di lui. È come
se fosse scomparso dalla faccia della terra. Poi, improvvisamente, te lo ritrovi sulla soglia di casa. Come fai a sapere cosa ha fatto in tutto questo
tempo? Non lo sai. Sai solo quello che ti dice lui...»
Lo squillo del telefono ci fece trasalire entrambi. In cucina, guardai istintivamente l'orologio. Non erano ancora le dieci, e quando sollevai la cornetta il mio cuore era oppresso dalla paura.
«Kay?»
«Mark?» Inghiottii a fatica. «Dove sei?»
«A casa. Sono tornato a Chicago in aereo, appena arrivato...»
«Ho cercato di rintracciarti a New York e a Chicago, in ufficio...» balbettai. «Ho chiamato dall'aeroporto.»
Ci fu una pausa carica di attesa.
«Ascolta, non ho molto tempo. Volevo solo dirti che mi spiace che sia
andata così e accertarmi che tu stia bene. Mi terrò in contatto.»
«Dove sei?» chiesi ancora. «Mark? Mark!»
Ma mi rispose solo il segnale di linea.
7
Il giorno dopo, domenica, dormii senza sentire la sveglia. Dormivo ancora all'ora della messa. Dormivo ancora all'ora di pranzo, e quando finalmente scesi dal letto mi sentivo pigra e stordita. Non riuscivo a ricordare i
miei sogni, ma sentivo che erano stati sgradevoli.
Il telefono squillò poco dopo le sette di sera, mentre affettavo cipolle e
peperoni per una frittata che non ero destinata a mangiare. Pochi minuti
dopo stavo correndo in macchina lungo un oscuro tratto della 64 Est, un
pezzo di carta sul cruscotto con sopra scarabocchiate le indicazioni per
Cutler Grove. La mia mente sembrava un circuito impazzito, i pensieri un
vortice che rimandava sempre alla stessa informazione. Cary Harper era
stato assassinato. Lo avevano aggredito un'ora prima, di ritorno da una taverna di Williamsburg, mentre scendeva dalla macchina. Era successo tutto velocemente, il crimine era stato brutale. Gli avevano squarciato la gola,
come a Beryl Madison.
Fuori era buio, banchi di nebbia mi riflettevano contro la luce degli anabbaglianti. La visibilità era ridotta quasi a zero, e l'autostrada in cui avevo tanto spesso viaggiato in passato mi risultava improvvisamente estranea. Non ero sicura di dove mi trovavo. Stavo accendendomi nervosamente
una sigaretta, quando vidi due fari abbaglianti guadagnare terreno alle mie
spalle. Una macchina scura che non riuscii a distinguere mi si fece pericolosamente vicina, poi, gradualmente, tornò a una certa distanza e la mantenne per i chilometri successivi, sia che accelerassi, sia che rallentassi.
Quando finalmente trovai l'uscita che cercavo, la imboccai e così pure fece
la macchina dietro di me.
La strada in cui svoltai poco dopo non era asfaltata né segnalata da cartelli. I fari restarono puntati sul mio paraurti. Avevo lasciato la calibro 38 a
casa, con me non avevo che una bomboletta di Mace, nella borsa medica.
Quando finalmente la grande casa mi apparve dietro una svolta, il sollievo
fu tale che a voce alta dissi: «Grazie, Signore». Il vialetto semicircolare
pulsava di luci di emergenza ed era gremito di macchine. Parcheggiai,
mentre l'auto che aveva continuato a seguirmi rallentava a sua volta, arrestandosi alle mie spalle. Quando vidi uscire Marino, gli occhi mi si spalancarono dallo stupore. Si tirò su il bavero della giacca fino alle orecchie.
«Per Dio!» esclamai irritata. «Non posso crederci.» «Altrettanto» bofonchiò lui, raggiungendomi con la sua nota falcata. «Non posso crederci
nemmeno io.» Aggrottò le sopracciglia, fissando il cerchio di luci disposte
intorno a una vecchia Rolls-Royce bianca, parcheggiata vicino all'entrata
di servizio della casa. «Merda! Ecco quello che ho da dire. Merda!»
I dintorni pullulavano di polizia. In quella pozza di luce artificiale le facce degli agenti apparivano innaturalmente pallide. Un rombo di motori accesi e gracchianti frasi smozzicate provenienti dalle radio si sovrapponevano nell'aria fredda e umida. Il nastro di demarcazione della scena del delitto, fissato alle ringhiere della scala posteriore, isolava l'area in un sinistro rettangolo giallo.
Un agente in borghese che indossava una vecchia giacca di pelle marrone puntò verso di noi. «Dottoressa Scarpetta?» disse. «Sono l'investigatore
Poteat.»
Stavo aprendo la borsa in cerca di una confezione di guanti chirurgici e
di una torcia elettrica.
«Nessuno ha toccato il cadavere» mi informò Poteat. «Ho fatto esattamente come mi ha detto il dottor Watts.»
Il dottor Watts era uno dei cinquecento medici legali dello Stato posti
sotto la mia autorità, e una delle mie dieci peggiori croci. Appena avvertito
dalla polizia, quella sera, lui aveva immediatamente chiamato me. Avvisare il capo medico legale ogni volta che si trattava di morte sospetta o imprevista di un personaggio celebre, era prassi normale; ma era altrettanto
normale per Watts scaricare sulle spalle altrui quanti più casi possibile, o
ignorarli per non avere fastidi o dover compilare i rapporti. Era notoriamente specializzato nel non presentarsi sulla scena del delitto, e infatti anche questa volta di lui non c'era nemmeno l'ombra.
«Sono arrivato quasi contemporaneamente alla squadra» stava spiegando
Poteat. «Mi sono accertato che gli agenti non facessero niente di più del
necessario, non l'abbiamo né girato né spogliato né altro. Tutto secondo le
regole.»
«Grazie» dissi distrattamente.
«Sembra che abbia ricevuto un colpo in testa, c'è un taglio. Forse gli
hanno sparato. L'assassino ha sparato tutt'attorno; fra un minuto vedrà.
Non abbiamo trovato armi. Pare che sia arrivato verso le sette e un quarto e
che abbia parcheggiato la macchina dove si trova adesso. L'ipotesi più
probabile è che sia stato aggredito mentre scendeva.»
Lanciò un'occhiata alla Rolls-Royce bianca. L'area circostante era affollata di ombre di cespugli di bosso più vecchi e più alti di lui.
«La portiera del guidatore era aperta quando lei è arrivato?» chiesi.
«Nossignore» rispose Poteat. «Le chiavi della macchina sono per terra,
come se le avesse avute in mano dopo essere sceso. Come ho detto, non
abbiamo toccato niente: aspettavo il suo arrivo, a meno che il tempo non ci
costringesse a procedere. Pioverà.» Lanciò un'occhiata al denso strato di
nuvole. «Potrebbe perfino nevicare. Nessun segno di lotta all'interno della
macchina, assolutamente nulla che faccia pensare a una colluttazione.
Supponiamo che l'aggressore lo stesse aspettando, probabilmente nascosto
tra i cespugli. Posso dire soltanto che è successo tutto in maniera velocissima, capo. La sorella, in casa, dice di non aver sentito nessun colpo di arma da fuoco, niente.»
Lo lasciai a parlare con Marino mentre mi chinavo al di sotto del nastro
e mi avvicinavo alla Rolls-Royce, gli occhi istintivamente puntati a ispezionare ovunque mettessi piede. La macchina era parcheggiata parallelamente alla scala, a meno di tre metri di distanza, la portiera del guidatore
dalla parte della casa. Girando intorno al cofano con la celebre statuetta,
mi fermai ed estrassi la macchina fotografica.
Cary Harper giaceva bocconi, la testa a pochi centimetri dalla gomma
anteriore della macchina. Il paraurti bianco era macchiato e striato di sangue, il maglione beige a costa inglese ormai quasi completamente rosso.
Non lontano dal cadavere c'era un mazzo di chiavi trattenute da un anello.
Nel bagliore dei riflettori, tutta la scena sembrava incrostata di una vernice
rossa appiccicosa e luccicante. I capelli bianchi di Cary Harper erano imbrattati di sangue, la faccia e il cuoio capelluto sfigurati dai violenti colpi
di un oggetto smussato che gli aveva lacerato la pelle. Lo squarcio alla gola, tagliata da un orecchio all'altro, gli aveva quasi reciso la testa dal collo,
e ovunque puntassi la torcia brillavano pallini da caccia simili a minuscole
sfere di peltro. Ce n'erano centinaia sparsi sul suo corpo e tutt'intorno, alcuni erano addirittura finiti sopra il tetto della macchina. Ma non erano stati sparati da un'arma da fuoco.
Continuai a scattare fotografie, quindi mi inginocchiai e tirai fuori il
lungo termometro chimico, che infilai cautamente sotto il maglione di
Harper incuneandolo nella piega del suo braccio destro. La temperatura del
corpo era di trentatré gradi e mezzo, quella dell'aria mezzo grado sottozero. Il corpo si stava rapidamente raffreddando al rapido ritmo di un grado e
mezzo all'ora, essendo la temperatura esterna sotto lo zero e Harper non
certo tarchiato né vestito con indumenti pesanti. I muscoli avevano già iniziato a irrigidirsi. Calcolai che doveva essere morto da meno di due ore.
Poi cominciai a cercare eventuali indizi che potessero non sopravvivere
al trasporto all'obitorio. Le fibre, i capelli o altre particelle attaccate al sangue potevano aspettare. Mi concentrai soprattutto sugli elementi liberi, esaminando lentamente il cadavere e l'area immediatamente circostante; all'improvviso, il sottile raggio di luce lambì qualcosa non lontano dal collo.
Mi chinai senza toccarlo, domandandomi cosa potesse essere quel piccolo
grumo verdastro simile a mastice. Sul grumo erano rimasti incastrati alcuni
pallini. Stavo infilandolo con cautela dentro una busta di plastica, quando
la porta di servizio si aprì e i miei occhi incrociarono lo sguardo terrorizzato di una donna, ferma nell'atrio accanto a un ufficiale di polizia che
stringeva un blocco per appunti.
Sentii un rumore di passi che si avvicinavano: erano Marino e Poteat.
Passarono sotto il nastro di demarcazione e furono raggiunti dall'ufficiale
con il blocco. La porta si richiuse silenziosamente.
«Resterà qualcuno con lei?» chiesi.
«Certo» rispose l'ufficiale, il fiato fumante nell'aria fredda. «La signorina Harper dice che verrà un'amica e che è tutto a posto. Terremo un paio di
unità nei dintorni, giusto in caso che l'assassino tornasse per un bis.»
«Cosa cerchiamo?» mi chiese Poteat.
Infilò le mani nelle tasche della giacca, incurvando le spalle per il freddo. I primi fiocchi di neve grossi come quarti di dollaro scendevano a spirale.
«Più di un'arma» risposi. «Le ferite alla testa e alla faccia sono state provocate da un oggetto smussato.» Indicai con un dito guantato e insanguinato. «Ovviamente, la ferita al collo è stata inferta con uno strumento tagliente. Quanto ai pallini da caccia, non sono deformati e non sembra che nessuno di essi sia penetrato nel corpo.»
Marino appariva decisamente sconcertato, mentre fissava i pallini sparsi
dappertutto.
«Ho avuto anch'io la stessa impressione» disse Poteat, annuendo. «Non
sembrano essere stati sparati, e in questo caso non staremmo cercando un
fucile da caccia. Un coltello, piuttosto, o forse un attrezzo per smontare le
ruote?»
«Possibilmente, ma non necessariamente» risposi. «Tutto quello che
posso dirle con certezza, adesso come adesso, è che Harper è stato colpito
con un oggetto smussato e lineare, mentre il collo è stato tagliato con un
oggetto affilato.»
«Potrebbe trattarsi di un mucchio di cose, capo» osservò Poteat, aggrottando le sopracciglia.
«Naturalmente. Un mucchio di cose» gli feci eco.
Benché avessi i miei sospetti circa i pallini da caccia, evitai di fare ipotesi, memore delle esperienze passate. Spesso certe affermazioni vengono
prese alla lettera, e una volta, sulla scena di un delitto, i poliziotti avevano
trascurato un ago insanguinato da tappezziere nel salotto della vittima solo
perché io avevo detto che l'arma aveva a che vedere con un rompighiaccio.
«Potete portarlo via» annunciai, sfilandomi i guanti.
Harper venne avvolto in un lenzuolo bianco e chiuso in un sacco mortuario con cerniera. Rimasi accanto a Marino a osservare l'ambulanza che
ripercorreva lentamente il vialetto scuro e deserto; non accese né luci né sirene, non c'è mai fretta, quando si trasporta un morto. La neve stava facendosi più fitta e cominciava ad attaccare per terra.
«Te ne vai?» mi chiese Marino.
«Cosa pensi di fare, di seguirmi di nuovo?» Non stavo affatto sorridendo.
Puntò lo sguardo sulla vecchia Rolls-Royce, nel cerchio di luce lattiginosa al bordo del vialetto. Fiocchi di neve colpivano la ghiaia macchiata
dal sangue di Harper e si scioglievano subito.
«Non ti stavo seguendo» rispose tutto serio. «Ho captato il messaggio
radio tornando a Richmond...»
«Tornando a Richmond?» lo interruppi. «Tornando da dove?»
«Da qui» fece lui, frugandosi in tasca alla ricerca delle chiavi. «Avevo
scoperto che Harper era un frequentatore abituale della Culpeper's Tavern.
Decido di attaccare bottone. Gli parlo forse per una mezz'ora, prima che,
sostanzialmente, mi dica di lasciarlo in pace. Poi se ne va. Così esco, arrivo a una ventina di chilometri da Richmond, quando Poteat riceve l'ordine
di mettersi in contatto con me e mi riferisce l'accaduto. Giro immediatamente i tacchi e mentre vengo qui ecco che riconosco la tua macchina. Così ti sono rimasto accanto in modo che non ti perdessi.»
«Mi stai dicendo che stasera hai parlato con Harper alla taverna?» chiesi
incredula.
«Sì.» fece lui. «Poi lui mi scarica e cinque minuti dopo viene aggredito.»
Teso e inquieto, si diresse verso la macchina. «Devo incontrarmi con Poteat, vedere cosa riesco a cavarne fuori. Se non hai obiezioni domattina verrò
per un'altra occhiata in loco.»
Lo guardai allontanarsi scuotendosi la neve dai capelli. Quando girai la
chiave di accensione della Plymouth, era già sparito. I tergicristalli rimossero un sottile strato di neve, quindi si bloccarono di colpo al centro del
parabrezza. Il motore della mia carretta si produsse in un ultimo, debole
singulto e si trasformò nel secondo cadavere della serata.
La biblioteca di Harper era un ambiente caldo e stimolante, con tappeti
persiani rossi e oggetti d'antiquariato realizzati nei legni più pregiati. Ero
piuttosto sicura che il divano fosse Chippendale: non mi era mai capitato
di toccarne uno autentico, e meno che meno mi ci ero seduta sopra. L'alto
soffitto era ornato da modanature in stile rococò, le pareti gremite di libri,
molti dei quali rilegati in pelle. Di fronte a me c'era un caminetto di marmo, ben rifornito di ceppi.
Chinandomi in avanti, tesi le mani verso le fiamme e ripresi a studiare il
ritratto a olio sopra la cappa. Il soggetto era una graziosa fanciulla in abito
bianco, seduta su una piccola panca, i capelli biondissimi e lunghi, le mani
morbidamente avvolte intorno a una spazzola d'argento, posata in grembo.
Il ritratto tremolava cupamente nel calore del fuoco: la giovane aveva palpebre pesanti, umide labbra dischiuse, un abito profondamente scollato che
scopriva un seno bianco come porcellana, non ancora sviluppato. Mi stavo
chiedendo perché fosse stato messo così in evidenza, quando la porta si aprì silenziosamente ed entrò la sorella di Cary Harper.
«Ho pensato che questo potesse scaldarla un po'» disse, porgendomi un
bicchiere di vino.
Dopo aver deposto il vassoio sul tavolino, sedette sul cuscino di velluto
rosso di una poltrona laterale, in stile barocco, i piedi uniti da una parte secondo gli insegnamenti impartiti dalle gentildonne più anziane alle più
giovani.
«Grazie» risposi, e mi scusai di nuovo.
La batteria della mia macchina se n'era andata da questo mondo, e nessun cavo elettrico sarebbe riuscito a riportarla in vita. La polizia aveva
chiesto via radio un "salvarelitti", promettendomi un passaggio fino a Richmond non appena terminate le procedure di rilevamento sul luogo del
delitto. Non avevo avuto scelta. Non me l'ero sentita di restare all'aperto
sotto la neve o di sedere per un'ora dentro una macchina della squadra di
polizia. Per questo avevo bussato alla porta di servizio della signorina
Harper.
La mia ospite sorseggiò il vino e guardò il fuoco con aria assente. Anche
lei sembrava splendidamente intagliata, come i costosi oggetti che la circondavano, una delle donne più eleganti che avessi mai visto. Capelli
bianco argento le incorniciavano morbidamente il volto aristocratico. Gli
zigomi erano alti, i lineamenti raffinati, la figura flessuosa e ben proporzionata. Indossava un maglione beige con cappuccio e una gonna di velluto a
coste. Guardando Sterling Harper, la parola "zitella" non ti sfiorava nemmeno.
Era silenziosa. La neve cadeva lambendo di freddo le finestre e il vento
faceva gemere le grondaie. Non riuscivo a immaginare come si potesse vivere da soli in quella casa.
«Ha altri parenti?» chiesi.
«Nessuno vivente» rispose.
«Mi spiace, signorina Harper...»
«La prego, non ne parli più, dottoressa Scarpetta.»
Mentre tornava a sollevare il bicchiere, un grosso anello con smeraldo
risplendette nella luce del fuoco. Mi guardò. Ricordai il terrore dipinto in
quegli occhi quando aveva aperto la porta, mentre esaminavo il cadavere
del fratello. Adesso appariva invece notevolmente padrona di sé.
«Cary non era uno sprovveduto» commentò all'improvviso. «Quello che
più mi sorprende, credo sia il modo in cui è avvenuta la cosa. Non avrei
mai pensato che qualcuno fosse tanto audace da aspettarlo sotto casa.»
«E lei non ha sentito niente?»
«Solo la macchina che arrivava. Poi, nient'altro. Non vedendolo entrare
in casa, ho aperto la porta per dare un'occhiata. Ho chiamato subito il
911.»
«Frequentava qualche altro locale, a parte il Culpeper's?» chiesi.
«No. Nessun altro. Andava da Culpeper's ogni sera» disse, distogliendo
lo sguardo. «Lo avevo messo in guardia contro quel posto, lo avevo avvertito dei pericoli al giorno d'oggi e alla sua età. Cary portava sempre con sé
del denaro ed era facile agli insulti. Non si fermava mai a lungo nella taverna. Un'ora, al massimo due. Mi ripeteva sempre che ci andava per trovare ispirazione, per mescolarsi alla gente comune. Dopo The Jagged Corner, Cary non aveva più niente da dire.»
Avevo letto il romanzo a Cornell, e ne conservavo solo impressioni vaghe: ambientato in un sud gotico, violento, incestuoso e razzista, visto attraverso gli occhi di un giovane scrittore cresciuto in una fattoria della
Virginia. Ricordavo che mi aveva depresso.
«Mio fratello era uno di quei talenti sfortunati che hanno soltanto un libro dentro di sé» aggiunse la signorina Harper.
«Esistono molti splendidi scrittori come lui» replicai.
«Da giovane gli impedirono di vivere alla sua maniera» proseguì con la
stessa snervante voce piatta. «Dopodiché si ritrovò svuotato, con davanti
solo una vita di tranquilla disperazione. Scrivere, per lui, significava costruire una serie di falsi inizi che alla fine gettava nel fuoco. Li guardava
bruciare con le sopracciglia aggrottate, poi vagava per la casa come un toro
infuriato, finché non si sentiva di nuovo pronto a ritentare. È andata avanti
così per più anni di quanti non riesca a ricordare.»
«Sembra molto dura, nei confronti di suo fratello» osservai in tono calmo.
«Il fatto è che sono terribilmente dura verso me stessa, dottoressa Scarpetta» rispose, mentre i nostri sguardi si incontravano. «Cary e io eravamo
della stessa stoffa. La differenza tra noi è che io tendo a prendere atto di
quello che non si può cambiare, senza indugiare in troppe analisi. Cary invece scavava continuamente dentro di sé, nel suo passato, in tutto ciò che
poteva incidere su di lui. Fu questo a fargli vincere il premio Pulitzer.
Quanto a me, ho scelto di non combattere contro ciò che mi è sempre apparso chiarissimo.»
«Vale a dire?»
«La famiglia Harper è ormai alla fine, esaurita e sterile. Non avrà più alcuna discendenza, dopo di noi.»
Il vino era un borgogna secco piuttosto andante e con una punta di retrogusto metallico. Possibile che la polizia non avesse ancora finito? Mi era
parso di sentire il rumore di un camion, un attimo prima, il carro attrezzi
che veniva a rimorchiare la mia macchina.
«Ho accettato come destino quello di prendermi cura di mio fratello, per
assecondare l'estinzione del nostro ceppo» proseguì la signorina Harper.
«Rimpiangerò Cary solo perché era mio fratello. Non ho intenzione di stare qui a mentire su quanto fosse meraviglioso.» Tornò a sorseggiare il vino. «Sono certa di apparirle fredda.»
Fredda non era il termine esatto. «Apprezzo la sua franchezza» dissi.
«Cary aveva una fervida immaginazione ed emozioni intense. Io ho ben
poco di entrambe, e in caso contrario non me la sarei mai cavata. Certamente, non sarei rimasta a vivere qui.»
«Vivere in questa casa significa isolarsi.» Immaginavo fosse ciò che intendeva dire.
«Non è l'isolamento a preoccuparmi» precisò lei.
«Cosa intende, allora, signorina Harper?» indagai, chinandomi a prendere le sigarette.
«Le va un altro bicchiere di vino?» chiese, un lato del viso illuminato dal
fuoco, l'altro in ombra.
«No, grazie.»
«Vorrei che non ci fossimo mai trasferiti qui. In questa casa non è mai
successo niente di buono.» Sospirò.
«Cosa farà adesso, signorina Harper?» Il vuoto nei suoi occhi mi raggelò. «Resterà qui?»
«Non ho altro posto dove andare, dottoressa Scarpetta.»
«Non penso che sia difficile vendere Cutler Grove» commentai, la mia
attenzione nuovamente focalizzata sul ritratto. La fanciulla in bianco sorrideva misteriosa nei bagliori della fiamma, carica di segreti che non avrebbe mai svelato.
«È sempre difficile abbandonare il proprio polmone d'acciaio, dottoressa
Scarpetta.»
«Prego?»
«Sono troppo vecchia per cambiare» spiegò. «Troppo vecchia per cercare ancora la buona salute e nuovi rapporti. Il passato respira per me, è la
mia vita. Lei è giovane ma un giorno capirà cosa significa guardarsi indietro. È ineluttabile che accada. Si sentirà trascinare nel passato dalla sua
storia personale, verso quelle stesse stanze in cui, ironia della sorte, sono
accaduti i fatti che metteranno in moto il suo estraniamento finale dalla vita. Col tempo la durezza della disperazione le sembrerà più confortevole, e
la gente che la deluse più amichevole. Si scoprirà a correre indietro, verso
le braccia del dolore da cui un giorno scappò via. Sarà più facile, è tutto
ciò che posso dirle. Più facile.»
«Ha una vaga idea di chi possa avere ucciso suo fratello?» chiesi bruscamente, ansiosa di cambiare argomento.
La signorina Harper non disse nulla. Fissava il fuoco con gli occhi spalancati.
«Cosa può dirmi di Beryl?» insistei.
«So che era stata tormentata per mesi, prima del fatto.»
«Intende prima della sua morte?»
«Beryl e io eravamo molto intime.»
«Lei è al corrente della persecuzione che subiva?»
«Sì. Delle minacce che riceveva» accennò.
«Le disse esplicitamente che era minacciata, signorina Harper?»
«Naturalmente» rispose.
Marino aveva controllato le bollette telefoniche di Beryl. Non aveva trovato interurbane con Williamsburg, né alcuna lettera della Harper o di suo
fratello.
«Allora ha mantenuto stretti contatti con Beryl per anni?» insistei.
«Strettissimi» rispose ancora. «Almeno, nei limiti del possibile, per via
di questo libro che stava scrivendo e per la chiara violazione dell'accordo
con mio fratello. Be', è stato tutto così sgradevole. Cary era furioso.»
«Come faceva a saperlo? Fu Beryl a dirle cosa stava scrivendo?»
«Lo fece il suo avvocato» disse.
«Sparacino?»
«Non conosco i dettagli di quanto disse a Cary» precisò, la faccia tesa.
«Ma mio fratello era informato del libro. Sapeva abbastanza da esserne estremamente contrariato. L'avvocato stava dietro le quinte a tirare i fili.
Passava da Beryl a Cary, avanti e indietro, agendo come se fosse alleato
ora dell'uno ora dell'altra, a seconda di chi si trovava davanti.»
«Sa a che punto sia il libro, adesso?» chiesi cauta. «Se l'ha Sparacino?
Se sta per essere pubblicato?»
«Il signor Sparacino ha chiamato Cary parecchi giorni fa. Per puro caso
ho captato alcuni frammenti della conversazione, abbastanza per capire
che il manoscritto era scomparso. Parlavano tra l'altro proprio del suo ufficio, dottoressa Scarpetta. Ho sentito dire qualcosa a proposito del medico
legale. Che è lei, immagino. E a questo punto lui si è infuriato. Ne ho concluso che stesse cercando di stabilire se era possibile che il manoscritto l'avesse mio fratello.»
«Ed è possibile?»
Volevo sapere.
«Beryl non l'avrebbe mai ceduto a Cary» rispose, accalorandosi. «Non
aveva senso che Beryl lo lasciasse proprio a lui. Cary era assolutamente
contrario a quel lavoro.»
Restammo in silenzio per un momento.
Poi chiesi: «Signorina Harper, ma di cosa aveva tanta paura suo fratello?».
«Della vita.»
Restai in attesa, osservandola con attenzione. Stava di nuovo fissando la
fiamma.
«Più la temeva, più si ritraeva» disse, con voce strana. «Vivere reclusi ha
strani effetti sulla mente. La sconvolge, fa vorticare pensieri e idee finché
non cominciano a rimbalzare dal centro verso gli angoli, come schegge
impazzite. Penso che Beryl sia stata la sola persona che mio fratello ha mai
amato. Si aggrappava a lei. Aveva il bisogno impellente di considerarla
sua, di tenerla legata a sé. Quando pensò che Beryl lo stava tradendo, che
lui non aveva più potere su di lei, la sua ossessione si trasformò in follia.
Credo che Cary cominciò a immaginare ogni sorta di assurdità che Beryl
potesse divulgare su di lui. Sulla nostra situazione qui.»
Quando allungò la mano per afferrare di nuovo il vino, vidi che tremava.
Stava parlando del fratello come se fosse morto da anni, la sua voce lasciava immaginare un abisso, il pozzo dell'amore nutrito per lui e riempito
con i duri mattoni della rabbia e del dolore.
«Quando Beryl arrivò, io e Cary eravamo rimasti senza nessuno» riprese. «I nostri genitori erano morti. Non avevamo altro che noi stessi, l'uno
per l'altra. Cary era un carattere difficile, un diavolo che scriveva come un
angelo. Aveva bisogno di qualcuno che si prendesse cura di lui. E io desideravo agevolarlo nel suo desiderio di lasciare una traccia in questo mondo.»
«Sono sacrifici spesso accompagnati dal rancore» azzardai.
Silenzio. La luce del camino danzava sul suo viso dai lineamenti raffinati.
«Come incontraste Beryl?» chiesi.
«Fu lei a trovare noi. A quell'epoca viveva a Fresno, con il padre e la
matrigna. Scriveva, era ossessionata dallo scrivere.» Continuava a fissare il
fuoco, mentre parlava. «Un giorno Cary ricevette una sua lettera attraverso
l'editore. L'accompagnava un breve racconto scritto a mano. Me lo ricordo
bene. Pareva promettente, un'immaginazione ancora in boccio che aveva
solo bisogno di essere guidata. Fu così che iniziò la corrispondenza, e
qualche mese dopo Cary le inviò un biglietto, invitandola a farci visita.
Non passò molto tempo, e Cary comprò questa casa e cominciò a restaurarla. Lo fece per lei. Una dolce fanciulla che aveva portato la magia nel
suo mondo.»
«E lei?» chiesi.
Lì per lì non rispose.
La legna si mosse nel fuoco facendo scaturire scintille.
«Non mancarono le complicazioni, dopo che Beryl si fu trasferita da noi,
dottoressa Scarpetta» disse. «Io mi limitavo a osservare ciò che accadeva
fra loro.»
«Fra suo fratello e Beryl?»
«Non volevo relegarla come pretendeva lui» continuò. «Con tutti i suoi
implacabili tentativi di tenerla sotto controllo e averla tutta per sé, alla fine
la perse.»
«Lei doveva amare moltissimo Beryl» commentai.
«È impossibile da spiegare» proseguì. «Era un rapporto molto difficile.»
Continuai a sondare. «Suo fratello non voleva che lei avesse contatti con
Beryl?»
«Specialmente negli ultimi mesi, a causa del libro. Cary l'aveva denunciata e diseredata. Il nome di Beryl non veniva più pronunciato, in questa
casa. Mi proibì ogni sorta di contatto con lei.»
«Ma lei ne ebbe comunque» terminai al suo posto.
«In modo molto limitato» ammise con difficoltà.
«Capisco che deve essere stato molto doloroso, signorina Harper. Rinunciare a qualcuno che le era così caro.»
Tornò a distogliere lo sguardo, di nuovo interessata al fuoco.
«Signorina Harper, quand'è che ha saputo della morte di Beryl?»
Non rispose.
«Le ha telefonato qualcuno?»
«L'ho saputo dalla radio, il mattino dopo» borbottò.
Santo Dio, pensai. Che cosa terribile.
Non disse altro. Le sue ferite erano al di là della mia portata e per quanto
desiderassi offrirle una parola di conforto, non riuscii a trovarne nessuna.
Così sedemmo in silenzio per quello che mi sembrò un tempo lunghissimo.
Quando infine lanciai un'occhiata furtiva al mio orologio, vidi che era quasi mezzanotte.
La casa era silenziosa; troppo silenziosa, realizzai trasalendo.
Dopo il calore della biblioteca, l'atrio mi parve freddo come una cattedrale. Aprii la porta posteriore e il fiato mi si mozzò dalla sorpresa: sotto il
turbinio lattiginoso della neve, il vialetto era un uniforme manto bianco,
con tracce di gomme appena percettibili lasciate dai poliziotti quando se ne
erano andati senza di me. La mia macchina di servizio era stata portata via
da un pezzo, dovevano essersi dimenticati che io ero ancora lì. Maledizione! Maledizione! Maledizione!
Quando tornai in biblioteca, la signorina Harper stava sistemando un altro ceppo sul fuoco.
«A quanto pare la mia macchina se n'è andata senza di me» dissi, e so
che dovetti sembrarle sconvolta. «Avrei bisogno di usare il suo telefono.»
«Temo che questo non sia possibile» rispose lei con voce piatta. «Le linee telefoniche sono saltate non molto dopo che era uscito l'agente. Succede piuttosto spesso, con il brutto tempo.»
La osservai dare colpetti alla legna che ardeva. Contemplai il fumo che
si alzava a spirale sotto di essa, le scintille che salivano sciamando nella
cappa.
Me ne ero dimenticata.
Non mi era venuto in mente fino a quel momento.
«La sua amica...» dissi.
La signorina Harper riprese a smuovere i ceppi.
«La polizia mi ha detto che stava aspettando un'amica, che avreste trascorso la notte insieme...»
Si alzò lentamente, e lentamente si voltò, il viso arrossato dal calore.
«Sì, dottoressa Scarpetta. È stato molto gentile da parte sua venire.»
8
La signorina Harper tornò portando altro vino, mentre l'alto orologio da
muro sul pianerottolo fuori dalla biblioteca scandiva dodici rintocchi.
«L'orologio» parve costretta a spiegare. «È indietro di dieci minuti. Da
sempre.»
I collegamenti telefonici erano ancora interrotti. Avevo controllato. La
città si trovava a parecchi chilometri di cammino su quelli che ormai erano
almeno dieci centimetri di neve. Non sarei arrivata da nessuna parte.
Il fratello era morto. Beryl era morta. La signorina Harper era l'unica rimasta. Sperai che fosse una coincidenza. Accesi una sigaretta e bevvi un
sorso di vino.
La signorina Harper non aveva la forza fisica per uccidere il fratello e
Beryl. E se l'assassino fosse stato anche sulle sue tracce? Se fosse tornato
indietro?
La mia calibro 38 era a casa.
La polizia appostata da qualche parte nei dintorni.
Dentro a che cosa? A degli spazzaneve?
Mi resi conto che aveva ripreso a parlare.
«Chiedo scusa» dissi, con un sorriso forzato.
«Ho l'impressione che lei abbia freddo» ripeté.
Il suo viso era sereno mentre sedeva sulla sedia barocca, gli occhi fissi
sul fuoco. Le fiamme, alte, sembravano una bandiera agitata dal vento, e
rare correnti d'aria mandavano la cenere a spargersi fuori dal camino. Ma
la signorina Harper pareva rassicurata dalla mia compagnia. Al suo posto,
non avrei voluto restare sola nemmeno io.
«Sto bene» mentii. Avevo davvero freddo.
«Sarò felice di darle un maglione.»
«La prego, non si disturbi. Sto benone... davvero.»
«È praticamente impossibile riscaldare questa casa» proseguì. «Soffitti
troppo alti. E poi manca di isolamento. Dopo un po' ci si fa l'abitudine.»
Pensai alla mia casa moderna, a Richmond, riscaldata a gas. Pensai al
mio grande letto con i suoi solidi materassi e la termocoperta. Pensai alle
stecche di sigarette nella credenza vicino al frigorifero e al buon scotch nel
mobile bar. Pensai alle correnti d'aria, alla polvere, all'oscurità del piano
superiore della residenza di Cutler Grove.
«Qui sarà perfetto» dissi. «Sul divano.»
«Sciocchezze. Il fuoco si esaurirà in fretta.» Stava giocherellando con un
bottone del maglione, gli occhi sempre incollati al camino.
«Signorina Harper» tentai per l'ultima volta. «Ha idea di chi possa avere
fatto questo? A Beryl, a suo fratello. E perché?»
«Lei pensa che si tratti dello stesso uomo.» Aveva pronunciato la frase
come un'affermazione, non in tono interrogativo.
«Devo considerare anche questa ipotesi.»
«Vorrei poterle dire qualcosa per aiutarla» rispose. «Ma forse non ha
importanza. Chiunque sia stato, quello che è fatto è fatto.»
«E non desidera che venga punito?»
«Di punizioni ce ne sono state già a sufficienza» sentenziò. «Non si può
più disfare ciò che è stato fatto.»
«Non pensa che Beryl vorrebbe che venisse preso?»
Si volse verso di me, gli occhi spalancati. «Vorrei che l'avesse conosciuta.»
«In qualche modo è così. È come se la conoscessi» dissi dolcemente.
«Non riesco a spiegarmi...»
«Non deve, signorina Harper.»
«Poteva essere così bello...»
Per un istante il suo viso si contrasse in una smorfia di dolore, poi tornò
a distendersi. Non aveva bisogno di terminare la frase. Sarebbe potuto essere così bello, adesso che non c'era più nessuno a tenerle divise, lei e
Beryl. Compagne. Amiche. La vita è così vuota quando si è soli, quando
non si ha nessuno da amare.
«Mi spiace» dissi, commossa. «Mi spiace terribilmente.»
«Siamo a metà novembre» rispose lei, allontanando di nuovo lo sguardo.
«È insolitamente presto, per la neve. Il gelo non tarderà a venire. Lei sarà
in grado di andarsene in tarda mattinata. Quelli che l'hanno dimenticata
qui, si ricorderanno di lei. È stata davvero buona a venire.»
Sembrava quasi che avesse saputo che sarei rimasta lì. Avevo la strana
impressione che in qualche modo l'avesse pianificato. Ma naturalmente era
impossibile.
«Una cosa, voglio chiederle» riprese.
«Di che si tratta?»
«Torni a primavera. Torni in aprile» disse, come parlando alla fiamma.
«Mi piacerebbe» risposi.
«Ci saranno i non-ti-scordar-di-me, copriranno d'azzurro chiaro il prato
del campo di bocce. È un periodo adorabile, il mio preferito. Beryl e io li
raccoglievamo sempre. Li ha mai osservati da vicino? O lei fa come tanti,
che non li notano nemmeno, che non dedicano loro un pensiero solo perché sono tanto piccoli? Sono così belli, da vicino. Così belli, sembrano di
porcellana, dipinti dalla mano perfetta di Dio. Li infilavamo fra i capelli.
Li tenevamo anche in casa, dentro a ciotole d'acqua, Beryl e io. Deve promettere di tornare in aprile. Me lo promette, non è vero?» Si voltò verso di
me, e il suo viso emozionato mi fece soffrire.
«Sì, sì. Certo che glielo prometto» risposi, ed ero sincera.
«C'è qualcosa di particolare che gradisce per colazione?» mi chiese, alzandosi.
«Andrà benissimo quello che preparerà per sé.»
«Abbiamo di tutto, in frigorifero» osservò con voce strana. «Prenda il
vino. Le mostrerò la camera.»
La sua mano seguì la ringhiera, mentre mi guidava al piano di sopra lungo la scalinata magnificamente scolpita. A illuminare il nostro cammino
non c'erano luci a soffitto, solo lampade a parete, e l'aria stantia era fredda
come quella di una cantina.
«Se ha bisogno di qualcosa, io sono in fondo al corridoio, tre porte più in
là», disse, e mi fece entrare in una piccola camera da letto.
I mobili erano di mogano, intarsiati, e sulle pareti rivestite di carta azzurro chiara erano appesi numerosi dipinti a olio: mazzi di fiori e una vista su
un fiume. Il letto a baldacchino era già stato preparato ed equipaggiato di
alcune trapunte. Una porta aperta immetteva in un bagno piastrellato. L'aria sapeva di chiuso e di polvere, come se le finestre non venissero mai aperte e nelle stanze non aleggiassero che ricordi. Ero sicura che là dentro
non ci dormiva nessuno da molti, molti anni.
«Nel cassettone in alto c'è una camicia da notte di flanella. Gli asciugamani puliti e altre cose necessarie sono nel bagno» disse la signorina Har-
per. «Bene, le sembra tutto a posto?»
«Sì, grazie.» Le sorrisi. «Buonanotte.»
Chiusi la porta, tirando il fragile chiavistello. La camicia da notte era il
solo indumento nel cassettone, e sotto di essa giaceva un sacchettino profumato ormai esaurito da lungo tempo. Gli altri cassetti erano vuoti. Nel
bagno c'era uno spazzolino ancora nel suo involucro, un minuscolo tubetto
di dentifricio, un sapone alla lavanda mai usato e parecchi asciugamani,
come la mia ospite aveva promesso. Il lavandino era asciutto come il gesso, e quando girai i rubinetti dorati ne uscì un'acqua simile a ruggine liquida. Dovetti attendere un'eternità prima che si schiarisse e diventasse calda
abbastanza da osare lavarmici la faccia.
La camicia da notte, vecchia ma pulita, era dell'azzurro pallido dei nonti-scordar-di-me. Mi infilai a letto rincalzandomi fino al mento le trapunte
che sapevano di muffa, poi spensi la luce. Il cuscino era gonfio. Sprimacciandolo e battendolo per dargli una forma più confortevole, sentii la pungente imbottitura di piume. Completamente sveglia, il naso gelato, mi tirai
a sedere nel buio di una stanza che ero certa fosse appartenuta un tempo a
Beryl, e finii il mio vino. La casa era talmente silenziosa che sembrava di
udire la quiete avvolgente della neve caduta oltre la finestra.
Non mi resi conto di essermi addormentata fino a quando spalancai gli
occhi di soprassalto, in preda alla paura di muovermi, il cuore che mi batteva forte. Non riuscivo a ricordare l'incubo. Inizialmente non fui nemmeno sicura di dove mi trovavo, o se il rumore che avevo sentito fosse stato
reale. Il rubinetto in bagno perdeva, con un lento ma sonoro stillicidio.
Sentii le assi del pavimento dietro la porta della camera scricchiolare di
nuovo, piano.
La mia mente si impennò in una corsa a ostacoli di ipotesi. Era stato
l'abbassamento della temperatura a provocare lo scricchiolio del legno. O i
topi. O qualcuno che lentamente si allontanava in corridoio. Tesi le orecchie in ascolto, trattenendo il fiato, mentre piedi inciabattati frusciavano
ancora oltre la mia porta chiusa. La signorina Harper, conclusi. Mi parve
quasi che stesse scendendo le scale. Continuai a rivoltarmi nel letto per
quella che mi sembrò un'ora. Alla fine accesi la lampada e mi alzai. Erano
le tre e mezza e avevo perso ogni speranza di poter riprendere il sonno.
Rabbrividendo nella camicia presa in prestito, infilai il cappotto, aprii la
porta e risalii il corridoio nero come la pece fino a riconoscere la sagoma
scura e ricurva della ringhiera in cima alle scale.
Il gelido atrio era fiocamente illuminato dalla luce della luna, che filtra-
va attraverso le piccole finestre ai due lati della porta d'ingresso. Aveva
smesso di nevicare ed erano apparse le stelle. Sotto il manto bianco i rami
degli alberi e il boschetto avevano perso ogni forma. Scivolai in biblioteca,
attirata dalla promessa del calore del fuoco crepitante.
La signorina Harper era seduta sul divano, avvolta in uno scialle di lana.
Fissava le fiamme, le guance rigate di lacrime che non si preoccupò di asciugare. Schiarendomi la gola, cercai di chiamarla per nome senza farla
trasalire.
Non si mosse.
«Signorina Harper?» ripetei, più forte. «L'ho sentita scendere...»
Era appoggiata allo schienale ricurvo del sofà, gli occhi inespressivi
puntati sul fuoco, non un battito di ciglia. Quando mi sedetti accanto a lei
premendole le dita sul collo, la testa ricadde floscia di lato. Era ancora calda, ma senza pulsazioni. Stendendola sul tappeto, mi affannai dalla bocca
allo sterno, cercando disperatamente di soffiarle aria nei polmoni e di rimettere in moto il cuore. Non so per quanto continuai. Quando alla fine
desistetti, avevo le labbra intorpidite, i muscoli della schiena e le braccia
tremanti. A dire il vero, tremavo tutta.
Le linee telefoniche erano ancora bloccate. Non potevo chiamare nessuno. Non potevo fare niente. Andai alla finestra della biblioteca, scostai le
tende e attraverso le lacrime osservai quell'incredibile candore illuminato
dalla luna. Più in là il fiume era nero, e non riuscivo a vedere oltre. In
qualche modo distesi il corpo della signorina Harper sul divano, e la coprii
delicatamente con lo scialle, mentre il fuoco andava consumandosi e la
fanciulla del ritratto sprofondava nell'ombra. La morte di Sterling Harper
mi aveva colta di sorpresa, lasciandomi frastornata. Sedetti sul tappeto davanti al sofà e osservai il fuoco che si spegneva. Non sapevo come ravvivarlo. Di fatto, non cercai nemmeno di farlo.
Quando era morto mio padre non avevo pianto. Era stato malato per tanti anni che, un po' alla volta, mi ero abituata a cauterizzare le mie emozioni. Lo avevo visto a letto per quasi tutta la mia infanzia. Quando finalmente una sera era deceduto, in casa, l'insopportabile dolore di mia madre mi
aveva sospinta verso un distacco ancora maggiore, e da quella posizione di
apparente vantaggio avevo affinato l'arte di contemplare il naufragio della
mia famiglia.
Con quello che era parso un impassibile autocontrollo avevo osservato
l'anarchia prodottasi tra mia madre e Dorothy, mia sorella minore, narcisista e irresponsabile fin dalla nascita. Silenziosamente mi ero allontanata
dai loro scontri e litigi, mentre, dentro di me, avevo cominciato a correre a
perdifiato.
Assente senza permesso dal fronte delle guerre domestiche, avevo passato periodi di tempo sempre più lunghi a rifugiarmi in biblioteca, dove avevo cominciato a rendermi conto della precocità del mio intelletto e delle ricompense con cui mi avrebbe gratificato. Eccellevo nelle scienze ed ero attirata dalla biologia umana. A quindici anni già studiavo con attenzione
l'Anatomia di Gray, testo imprescindibile nella mia formazione di autodidatta nonché elemento fondamentale per le mie scelte future. Avrei lasciato Miami per l'università: in un'epoca in cui le donne facevano le insegnanti, le segretarie o le casalinghe, io mi ero messa in testa di diventare medico.
Al liceo avevo il massimo dei voti. Durante le vacanze e d'estate giocavo
a tennis e leggevo libri, mentre in famiglia proseguivano le battaglie tra
veterani della Confederazione, in un mondo ormai sconfitto dal Nord. Avevo scarso interesse per gli appuntamenti amorosi e pochi amici. Laureata
con il migliore punteggio di tutto il corso, partii per Cornell con una borsa
di studio; poi ci fu il John Hopkins per la scuola medica, e infine la scuola
di legge a Georgetown. Ero stata solo vagamente consapevole delle mie
scelte: la carriera in cui mi stavo imbarcando mi avrebbe riportata in eterno
sulla scena della morte di mio padre. L'avrei fatta a pezzi e ricomposta migliaia di volte, avrei padroneggiato i codici del crimine e li avrei portati in
tribunale, avrei carpito ogni segreto della morte. Ma nulla di tutto ciò mi
avrebbe restituito mio padre, e la bambina che era in me non avrebbe mai
smesso di soffrire.
I tizzoni si mossero nel focolare. Sonnecchiavo a intervalli.
Qualche ora dopo, i dettagli della mia prigione cominciarono a delinearsi
nel gelido azzurro dell'alba. Quando, irrigidita, mi alzai in piedi per andare
alla finestra, sentii una fitta di dolore attraversarmi la schiena e le gambe.
Il sole era un uovo pallido sopra il fiume color ardesia, il nero dei tronchi
degli alberi risaltava contro la neve bianca. Il fuoco si era spento, e in fondo al mio cervello febbricitante si agitavano due domande: la signorina
Harper sarebbe morta ugualmente, se io non fossi stata lì? Certo era stato
comodo, per lei, morire mentre ero a casa sua. Ma perché era scesa in biblioteca? La immaginai mentre scendeva le scale, alimentava il fuoco e si
sistemava sul divano. Il suo cuore aveva semplicemente cessato di battere,
mentre fissava le lingue di fuoco. O era stato il ritratto, l'ultima cosa che
aveva guardato?
Accesi tutte le lampade. Accostai una sedia al camino e vi salii, sfilando
il pesante dipinto dai ganci cui era appeso. Da vicino il ritratto non sembrava poi così sconvolgente: l'effetto complessivo pareva disintegrarsi in
sottili sfumature di colore e in delicate pennellate di spessa pittura a olio.
Mentre scendevo e appoggiavo il dipinto sul pavimento, la polvere della
tela fluttuò libera nell'aria. Non c'erano né firma né data, e non era nemmeno un pezzo così antico come avevo immaginato. I colori erano stati deliberatamente smorzati per sembrare vecchi, e nella pittura non appariva
traccia di screpolature.
Girandolo, osservai il fondale di sostegno in cartone scuro. Al centro
scorsi un sigillo dorato, con impresso il nome di un laboratorio di cornici
di Williamsburg. Ne presi nota e risalii sulla sedia riappendendo il quadro
ai ganci, quindi mi accucciai davanti al fuoco a controllare delicatamente i
frammenti con una matita che avevo estratto dalla borsa. I ciocchi carbonizzati erano coperti da una strana pellicola di cenere bianca, che si sbriciolava come una ragnatela al minimo tocco. Sotto di essa, un pezzo di ciò
che mi parve plastica fusa.
«Senza offesa, capo» disse Marino, tirando fuori la macchina dal parcheggio, «ma hai un aspetto tremendo.»
«Grazie tante» borbottai.
«Ripeto, senza offesa. Immagino che tu non abbia dormito granché.»
Non essendomi presentata per l'autopsia del cadavere di Cary Harper,
quel mattino, Marino non aveva esitato ad avvertire la polizia di Williamsburg. A metà mattina due imbarazzati agenti si erano presentati alla villa,
i pneumatici sferraglianti di catene che rosicchiavano tracce nella neve alta
e compatta. Dopo le deprimenti raffiche di domande sulla morte di Sterling
Harper, il corpo era stato caricato su un'ambulanza diretta a Richmond e
gli agenti mi avevano depositata nella sede centrale di Williamsburg, dove
mi avevano offerto caffè e ciambelle, finché Marino non era venuto a prendermi.
«Per nessuna ragione al mondo sarei rimasto in quella casa tutta la notte» proseguì. «Che mi importa se la temperatura va sotto zero? Mi sarei
gelato il culo là fuori, piuttosto che passare la notte con un cadavere...»
«Sai dov'è Princess Street?» lo interruppi.
«Per cosa ti serve?» Gli occhiali a specchio si girarono verso di me.
Sotto il sole la neve sembrava fuoco bianco, ma sulle strade si trasformava presto in melma.
«Mi interessa un certo indirizzo al cinque-zero-sette» risposi, facendogli
capire dal tono che mi aspettavo mi ci portasse.
Era un indirizzo ai margini del centro storico, incuneato fra i negozi di
Merchant's Square. Nel parcheggio striato di solchi era rimasta solo una
dozzina di macchine, i tetti carichi di neve. Fui sollevata nel constatare che
The Fillage Frame Shoppe & Gallery era aperto.
Marino non fece domande, quando scesi. Probabilmente aveva capito
che non ero in vena di risposte. Nella galleria c'era un unico cliente, un
giovane in cappotto nero che sfogliava distrattamente delle stampe, mentre
una donna dai lunghi capelli biondi lavorava a una calcolatrice dietro il
banco.
«Posso aiutarla?» chiese, alzando lentamente gli occhi su di me.
«Dipende da quanto tempo lavora qui» risposi.
A giudicare dall'espressione fredda e diffidente con cui mi guardò, dovevo avere un aspetto davvero tremendo. Avevo dormito con il cappotto
addosso, e avevo i capelli quanto mai in disordine. Mentre d'istinto sollevavo la mano a lisciarmi un ciuffo ribelle, mi accorsi che ero riuscita a
perdere un orecchino. Dissi alla donna chi ero e mandai a segno il tiro mostrandole il sottile portadocumenti nero contenente la piastrina d'ottone di
riconoscimento.
«Sono qui da due anni» mi informò.
«Mi interessa un dipinto incorniciato nel vostro laboratorio probabilmente prima del suo arrivo» dissi. «Un ritratto forse portato qui da Cary
Harper.»
«Oh, Dio. Ho sentito alla radio, questa mattina. Che cosa terribile.» Stava farfugliando. «Meglio che parli col signor Hilgeman.» Scomparve nel
retro.
Hilgeman era un signore dall'aria distinta, in completo di tweed, che affermò senza incertezze: «Cary Harper non veniva in questo negozio da anni e nessuno, qui, lo conosceva bene, almeno a quanto ne so io».
«Signor Hilgeman» dissi, «sulla cappa del camino della biblioteca di
Cary Harper c'è il ritratto di una ragazza bionda. È stato incorniciato nel
suo negozio, probabilmente molti anni fa. Se ne ricorda?»
Negli occhi grigi che mi scrutavano al di sopra degli occhiali da lettura
non brillava la più debole scintilla di memoria.
«Sembra molto vecchio» spiegai. «Una buona imitazione, ma un modo
di affrontare il soggetto piuttosto insolito. La ragazza ha nove, dieci, dodici
anni al massimo, ma è vestita come una giovane donna, in bianco, e siede
su una panca reggendo una spazzola d'argento.»
Mi sarei presa a calci per non aver scattato una Polaroid del dipinto. Avevo la macchina fotografica dentro la valigetta medica, ma l'idea non mi
aveva neanche sfiorato. Ero troppo sgomenta.
«Sa» rispose a un tratto il signor Hilgeman, gli occhi che si accendevano, «credo di poter ricordare ciò di cui sta parlando. Una ragazza molto
graziosa, ma insolita. Sì. Piuttosto suggestiva, se ricordo bene.»
Non lo incitai oltre.
«Deve essere stato almeno una quindicina di anni fa... Mi lasci pensare.»
Si portò un dito indice alle labbra. «No.» Scosse la testa. «Non fui io.»
«Non fu lei? In che senso non fu lei?» chiesi.
«Non fui io a fare la cornice. Deve averla fatta Clara, un'assistente che
lavorava qui allora. Sì, ne sono praticamente certo, fu Clara a fare la cornice di quel quadro. Un lavoro piuttosto costoso, probabilmente ingiustificato per una tela del genere, se proprio lo vuole sapere. Non era poi questo
granché. In effetti» aggiunse accigliato, «fu uno dei suoi tentativi meno felici...»
«Suoi di chi?» lo interruppi. «Intende dire di Clara?»
«Sto parlando di Sterling Harper.» Mi guardò con aria interrogativa. «La
signorina Harper è un'artista.» Si interruppe. «Anni fa dipingeva moltissimo. Gli Harper avevano uno studio in casa, da quello che mi era parso di
capire. Non sono mai stato là, naturalmente, ma la signorina Harper ci portava sempre una notevole quantità di tele, in genere nature morte, paesaggi. Il dipinto che la interessa è il solo ritratto che ricordi.»
«A quanto tempo fa risale?»
«Almeno a una quindicina d'anni, come le ho già detto.»
«Qualcuno aveva posato per quel ritratto?» chiesi.
«Immagino che l'avesse ricavato da una fotografia...» Aggrottò le sopracciglia. «A dire il vero, non sono affatto in grado di rispondere alla sua
domanda. Se mai ci fu una modella, non so chi potesse essere.»
Cercai di nascondere la mia sorpresa. Beryl doveva avere sedici o diciassette anni, a quel tempo, e vivere a Cutler Grove. Possibile che il signor Hilgeman e la gente del posto, non ne fossero informati?
«È piuttosto triste» rifletté. «Persone così piene di talento, intelligenti:
niente famiglia, niente bambini.»
«Saprebbe dirmi qualcosa sulle loro amicizie?» chiesi.
«Davvero non ne conosco alcuna, personalmente.»
"E non ne conoscerà mai" pensai io, morbosamente.
Quando uscii e tornai al parcheggio, Marino stava pulendo il parabrezza
con una pelle di daino. La neve sciolta e il sale sparso dalle squadre stradali avevano chiazzato e reso opaca la sua bellissima macchina nera. Non
sembrava felice della cosa. Sul selciato sotto la portiera del guidatore c'era
un indecente mucchietto di mozziconi di sigaretta, scaricati dal portacenere
senza troppe cerimonie.
«Due cose» esordii molto seria, mentre ci allacciavamo le cinture di sicurezza. «Nella biblioteca di Cutter Grove c'è un ritratto di una giovane
ragazza bionda che la Harper fece incorniciare in questo negozio una quindicina di anni fa.»
«Beryl Madison?» Estrasse l'accendino.
«Probabilissimo» risposi. «Ma se è così, la ritrasse molto più giovane
dell'età che aveva quando conobbe gli Harper. È un soggetto un po' particolare, alla Lolita...»
«Eh?»
«Sexy» dissi bruscamente. «Una ragazzina dall'aria sensuale.»
«Già. Vuoi forse dirmi che Cary Harper era un insospettabile pedofilo?»
«In primo luogo, fu sua sorella a dipingere il ritratto» precisai.
«Oh, merda.»
«Secondariamente» proseguii, «ho avuto l'impressione che il proprietario del laboratorio di cornici ignorasse completamente il fatto che Beryl
viveva con gli Harper. Mi domando se ne fossero tutti all'oscuro. E altrimenti mi chiedo come sia possibile. Beryl ha vissuto in quella casa per anni, Marino, ad appena un paio di chilometri dalla città. E questa è una piccola città.»
Continuò a guidare guardando diritto davanti a sé, senza dire una parola.
«Be'» decisi, «potrebbe trattarsi solo di supposizioni oziose. Gli Harper
erano dei solitari. E probabilmente Cary Harper fece del proprio meglio
per nascondere Beryl al mondo. Comunque stiano le cose, la situazione
non mi sembra particolarmente sana, anche se magari non ha nulla a che
vedere con le loro morti.»
«Cristo» disse brusco Marino, «sana non mi sembra l'aggettivo adatto.
Solitari o no, non ha senso pensare che nessuno sapesse che lei era là. A
meno che non la tenessero segregata o incatenata a una colonna del letto.
Dannati pervertiti. Odio i pervertiti. Odio la gente che molesta i bambini.»
Si mise di nuovo a lanciarmi occhiate. «Sono cose che odio, davvero. Mi
sta tornando quel sospetto.»
«Quale sospetto?»
«Che il premio Pulitzer si sia sfogato su Beryl» disse Marino. «Lei ha
intenzione di spifferare tutto nel suo libro, e lui diventa matto, va a trovarla
e ha un coltello con sé.»
«E lui da chi sarebbe stato ucciso, allora?» chiesi.
«Be', forse da quella pazza di sua sorella.»
Chiunque avesse ucciso Cary Harper, doveva avergli inflitto colpi così
violenti da fargli perdere coscienza quasi immediatamente; senza contare
che tagliare la gola non è una pratica tipica da aggressore femminile. Anzi,
non mi erano mai capitati casi in cui a fare una cosa simile fosse stata una
donna.
Dopo un lungo silenzio, Marino chiese: «La vecchia signorina Harper ti
ha forse dato l'impressione di essere affetta da senilità precoce?».
«Piuttosto eccentrica, ma non senile, direi.»
«Pazza?»
«No.»
«A giudicare dalla tua descrizione, non mi sembra che abbia reagito all'assassinio del fratello in modo appropriato» commentò.
«Era sotto shock, Marino. Una persona sotto shock non reagisce in modo appropriato a nulla.»
«Pensi si sia suicidata?»
«Questo è senz'altro possibile» risposi.
«Hai trovato tracce di qualche medicina, sul posto?»
«Solo farmaci vendibili senza ricetta medica, nessuno letale» dissi.
«Ferite?»
«Nessuna, almeno a prima vista.»
«Insomma, hai idea di cosa diavolo l'abbia uccisa?» chiese guardandomi
di traverso, la faccia dura.
«No» risposi. «Al momento non ne ho la più pallida idea.»
«Suppongo che tu stia tornando a Cutler Grove» dissi, mentre parcheggiava dietro il mio edificio.
«Non puoi immaginare quanto la cosa mi ecciti» borbottò Marino. «Vai
a casa e fatti una dormita decente.»
«Non dimenticare la macchina per scrivere di Cary Harper.»
Marino si frugò in una tasca in cerca dell'accendino.
«La marca, il modello e ogni nastro usato» gli ricordai.
Si accese una sigaretta.
«E ogni tipo di carta da lettere o di macchina per scrivere che trovi in casa. Ti pregherei di raccogliere personalmente la cenere nel caminetto. Sarà
alquanto difficile conservarle bene...»
«Senza offesa, capo, ma mi sembri mia madre.»
«Marino» reagii brusca, «sto facendo sul serio.»
«Già, sul serio... Sul serio hai bisogno di una buona dormita» ribadì lui.
Era frustrato tanto quanto me, e probabilmente anche lui aveva bisogno
di riposare.
Il reparto era chiuso e vuoto, il pavimento in cemento chiazzato di macchie d'olio. All'interno dell'obitorio avvertii il tedioso ronzio dell'elettricità
e dei generatori che difficilmente notavo durante le ore di lavoro. Quando
spalancai la porta della cella frigorifera, la zaffata d'aria mi parve insolitamente disgustosa e penetrante.
Le barelle con i loro corpi erano parcheggiate contro la parete sinistra.
Forse fu perché ero così stanca, ma quando sollevai il lenzuolo che copriva
Sterling Harper mi sentii mancare le ginocchia e la borsa medica mi sfuggì
di mano, scivolando per terra. Ricordavo la bellezza raffinata del suo viso
e il terrore nei suoi occhi quando l'avevo intravista all'aprirsi della porta di
servizio, mentre mi occupavo del cadavere del fratello, le mani guantate
rosse del suo sangue. Fratello e sorella erano entrambi lì, già registrati. Ecco tutto quello che avevo bisogno di sapere. La ricoprii delicatamente, nascondendo un viso ormai vuoto come una maschera di gomma. Intorno a
lei solo piedi sporgenti, contrassegnati da cartellini.
Appena entrata avevo vagamente notato la scatolina gialla da rullino fotografico sotto il carrello di Sterling Harper, ma solo quando mi chinai a
raccogliere la borsa medica la misi veramente a fuoco, comprendendone il
significato. Kodak trentacinque millimetri, 24 pose. Per contratto governativo, i rullini forniti al mio ufficio erano Fuji e noi ordinavamo sempre
quelli da 36 pose. Il personale paramedico che aveva trasportato il corpo
della Harper era entrato e uscito molte ore prima e non aveva certo scattato
fotografie.
Tornata in corridoio, la mia attenzione fu attratta dalla luce dell'ascensore. Capii che si era fermato al secondo piano. Allora c'era qualcun altro,
nell'edificio! Magari solo la guardia di vigilanza che faceva i suoi giri d'ispezione. Poi, mentre cominciavo ad avvertire un certo pizzicore al cuoio
capelluto, ripensai alla scatola Kodak vuota. Afferrata saldamente la maniglia della borsa medica, decisi di salire le scale. Giunta al pianerottolo del
secondo piano aprii lentamente la porta e prima di entrare restai in ascolto.
Gli uffici nell'ala est erano vuoti, le luci spente. Girai a destra nel corridoio
centrale, superando l'aula vuota, la biblioteca e l'ufficio di Fielding. Non
sentii né vidi nessuno. Per sicurezza, dirigendomi verso il mio ufficio, decisi di chiamare la guardia.
Quando lo vidi, il fiato mi si mozzò in gola. Per un attimo terribile la
mia mente smise di funzionare. L'uomo stava silenziosamente scorrendo
uno schedario aperto, il bavero della giacca blu scuro sollevato fino alle
orecchie, il volto mascherato da occhiali scuri da aviatore, le mani inguainate in guanti chirurgici. Una tracolla di pelle gli attraversava una delle
possenti spalle; attaccata a essa, una macchina fotografica. Un uomo dall'aspetto solido e duro come il marmo. Non facevo più in tempo a sottrarmi
alla sua vista. Le mani guantate improvvisamente si fermarono.
Mentre lui sussultava, io ebbi un riflesso fulmineo: la mia borsa medica
prese a volteggiargli incontro come un martello olimpico, finendogli tra le
gambe con tale forza da fargli cadere gli occhiali. L'uomo si curvò in avanti, piegandosi in due dal dolore, e perse l'equilibrio quel tanto che bastava
da permettermi di mandarlo lungo disteso a terra con un calcio alle caviglie. Non dovette sentirsi meglio quando l'obiettivo metallico della macchina fotografica fece da cuscino tra le sue costole e il pavimento.
Mentre in preda alla frenesia estraevo dalla borsa la bomboletta di Mace,
gli strumenti medici si sparsero rumorosamente all'interno. Lo investii con
il getto in piena faccia. L'uomo si portò le mani agli occhi, muggendo, rotolandosi, urlando, e io ne approfittai per afferrare il telefono e chiamare
aiuto. Lo spruzzai un'ultima volta per sicurezza, un attimo prima che arrivasse il sorvegliante. Poi fu il turno dei poliziotti. Il mio isterico ostaggio
stava ancora supplicando di essere portato in ospedale, quando un agente
dai modi brutali gli immobilizzò le braccia dietro la schiena, lo ammanettò
e cominciò a perquisirlo.
Secondo i dati della patente di guida, il nome dell'uomo era Jeb Price,
età trentaquattro anni, domiciliato a Washington, D.C. Infilata nella cintura
dei pantaloni di velluto a coste, una Smith & Wesson 9 millimetri automatica con quattordici pallottole nel caricatore e una nella camera di caricamento.
Non ricordo di essere tornata nell'ufficio dell'obitorio a recuperare le
chiavi dell'altra macchina di servizio. Ma devo averlo fatto, perché mi ritrovai a parcheggiare la station wagon blu scuro nel vialetto di casa quando
era ormai quasi notte. Normalmente usata per il trasporto delle salme, era
un'auto decisamente fuori misura, il finestrino posteriore oscurato da un
pannello discreto e sul pavimento un piano pieghevole che richiedeva la-
vaggi molto frequenti. Sembrava un incrocio tra una familiare e un carro
funebre, senz'altro la cosa più difficile da parcheggiare in parallelo, dopo
la QE2.
Andai di sopra come uno zombie, senza preoccuparmi di ascoltare i
messaggi telefonici o disattivare la segreteria. Mi facevano male il gomito
e la spalla destra, così come gli ossicini della mano. Stesi gli abiti su una
sedia, feci un bagno caldo e mi gettai intorpidita sul letto. Un sonno profondo, profondissimo. Così profondo da assomigliare al sonno eterno. L'oscurità era pesante e cercavo di nuotarvi dentro, il corpo greve come piombo, quando la segreteria telefonica interruppe di colpo gli squilli del telefono.
«... non so quando sarò in grado di richiamare, quindi ascolta. Per favore
ascolta, Kay. Ho saputo di Cary Harper...»
Il cuore mi batteva forte, quando aprii gli occhi, e la voce concitata di
Mark mi riscosse dal torpore.
«... Per favore tieniti fuori. Non metterti in mezzo. Ti prego. Ti richiamerò appena mi sarà possibile...»
Afferrato il ricevitore, udii solo il segnale di linea. Mentre riascoltavo il
messaggio di Mark, crollai sui cuscini e cominciai a piangere.
9
Il mattino dopo Marino arrivò all'obitorio mentre ero intenta a praticare
un'incisione a Y sul corpo di Cary Harper.
Rimossi l'armatura costale e sollevai il blocco di organi della cavità toracica, mentre Marino osservava in silenzio. L'acqua scrosciava nei lavandini, gli strumenti chirurgici sbatacchiavano e tintinnavano, e in fondo alla
stanza una lama strideva contro una mola: uno degli assistenti stava affilando un bisturi. Avevamo quattro casi, quella mattina. I tavoli d'acciaio
inossidabile per le autopsie erano tutti occupati.
Poiché Marino non sembrava intenzionato a prendere l'iniziativa, fui io a
introdurre l'argomento.
«Cos'hai scoperto su Jeb Price?» chiesi.
«Il controllo in archivio è stato un buco nell'acqua» rispose, guardando
altrove con aria inquieta. «Nessun precedente, nessun avviso di garanzia
significativo, niente. E non canta. Se lo facesse, probabilmente avrebbe
una voce da soprano, dopo quello che gli hai fatto passare. Mi sono fermato all'Intelligence Department appena prima di scendere qui. Stanno svi-
luppando il rullino della macchina fotografica. Ti porterò una copia delle
stampe appena saranno pronte.»
«Hai già dato un'occhiata?»
«Ai negativi» rispose.
«E?»
«Foto scattate nella cella frigorifera: i cadaveri degli Harper» disse.
Me l'aspettavo. «Non credo che sia un giornalista interessato a servizi
scandalistici» osservai in tono scherzoso.
«Già. Nemmeno io.»
Sollevai lo sguardo. Marino non era di umore gioviale. Più scarmigliato
del solito, si era tagliato due volte radendosi e aveva gli occhi arrossati.
«I reporter che conosco non si portano dietro una 9 millimetri caricata a
Glaser» disse. «Di solito piagnucolano quando sono messi alle strette e
chiedono un quarto di dollaro per chiamare l'avvocato del giornale. Questo
bastardo, invece, non dice una parola, un vero professionista. Deve essere
entrato a colpo sicuro. Agisce di lunedì pomeriggio, festa nazionale, quando è facile che non ci sia nessuno in circolazione. Abbiamo trovato la sua
macchina parcheggiata a circa tre isolati da qui nel posteggio di Farm
Fresh, un'auto a nolo con telefono cellulare. Nel bagagliaio aveva abbastanza munizioni e caricatori da fermare un piccolo esercito, più una mitraglietta Mac Ten e una divisa in Kevlar. Decisamente, non è un reporter.»
«Non sono sicura nemmeno che sia un professionista» commentai, infilando una nuova lama nel bisturi. «Piuttosto imprudente, lasciare una scatola vuota di rullino nella cella frigorifera. E se voleva andare proprio sul
sicuro, avrebbe dovuto venire qui alle due o alle tre del mattino, non in
pieno giorno.»
«Hai ragione. La scatola del rullino è stata un'imprudenza» convenne
Marino. «Ma posso capire la scelta del momento. Poniamo che, mentre
Price è in cella frigorifera, entrino gli addetti di un'impresa funebre o una
squadra a consegnare un cadavere: in pieno giorno può sempre far credere
che lavora qui, che ha una ragione legittima per trovarsi sul posto. Poniamo invece che venga sorpreso alle due del mattino: a quell'ora non potrà mai giustificare la sua presenza.»
Comunque stessero le cose, Jeb Price faceva sul serio. I proiettili di sicurezza Glaser erano fra i più tremendi in circolazione, cartucce riempite con
minuscoli pallini che si spargono all'impatto trapassando carne e organi
come una grandinata di piombo. Le Mac Ten sono le mitragliette profes-
sionali preferite dai terroristi e dai signori della droga, armi comunissime
nell'America centrale, in Medioriente e a Miami, mia città natale.
«Potresti prendere in considerazione l'idea di una serratura per la cella
frigorifera» aggiunse Marino.
«Ho già avvisato la Buildings and Grounds» dissi.
Una precauzione che rimandavo da anni. Le imprese funebri e le squadre
di lavoro dovevano essere sempre in condizione di accedere alla cella frigorifera. Avrei dovuto dare le chiavi agli agenti di custodia e ai medici legali in servizio locale. Ci sarebbero state proteste. Sarebbero sorti problemi. Maledizione, cominciavo ad averne abbastanza di difficoltà!
Marino stava guardando il cadavere di Harper. Non c'era bisogno di un'autopsia o di un genio, per stabilire le cause della morte.
«Ha subito fratture multiple al cranio e lacerazioni al cervello» spiegai.
«La gola è stata recisa per ultima, come nel caso di Beryl?»
«Le vene giugulari e le carotidi sono recise, tuttavia gli organi non sembrano particolarmente pallidi» risposi. «Se vi fosse stata pressione sanguigna, sarebbe morto di emorragia nel giro di pochi minuti. In altre parole,
non ha sanguinato abbastanza da poter attribuire a questo il decesso.
Quando gli hanno tagliato la gola, era già morto o moribondo per le ferite
alla testa.»
«Qualche ferita per essersi difeso?»
«Nessuna.» Posai il bisturi per mostrargli le dita irrigidite di Harper, forzandole una per una. «Niente unghie rotte, tagli o contusioni. Non ha
nemmeno cercato di schivare i colpi dell'arma.»
«Non ha fatto in tempo a capire cosa lo stava colpendo» osservò Marino.
«Arriva che è già buio. Il nostro uomo lo aspetta probabilmente appostato
fra i cespugli. Harper parcheggia, scende dalla Rolls. Chiude la portiera e
in quel momento l'assassino gli si avvicina alle spalle e lo colpisce alla nuca...»
«Venti per cento di stenosi del Lad» pensai a voce alta, cercando la matita.
«Harper si accascia di colpo e il folle continua a infierire» proseguì Marino.
«Trenta per cento della coronaria destra.» Scribacchiai gli appunti su una
busta da guanti vuota. «Nessuna traccia di vecchi infarti. Cuore sano ma
leggermente ingrossato, con una calcificazione dell'aorta, un accenno di arteriosclerosi.»
«Poi gli squarcia la gola. Probabilmente per assicurarsi che sia morto.»
Alzai gli occhi.
«Chiunque l'abbia fatto, voleva essere certo che Harper fosse morto» ripeté.
«Non so se attribuirei un pensierino così razionale all'aggressore» risposi. «Guardalo, Marino.» Avevo sfilato il bisturi dal cranio, screpolato come
un uovo sodo. Indicando le linee di frattura, spiegai: «È stato colpito almeno sette volte con tale violenza che non sarebbe sopravvissuto a nessuna
delle singole ferite. Poi gli hanno tagliato la gola. Questo è stra-uccidere.
Proprio come nel caso di Beryl.»
«Okay. Stra-uccidere. Non intendevo discutere» rispose. «Cercavo solo
di dire che l'assassino voleva essere sicuro che Beryl e Harper fossero morti. Insomma, se le stacchi la testa puoi andartene con la certezza che la vittima non riuscirà ad andare a raccontare la faccenda a nessuno.»
Marino fece una smorfia, mentre io cominciavo a svuotare il contenuto
dello stomaco in un recipiente di cartone.
«Non disturbarti» riprese. «Posso dirti io che cosa ha mangiato: ero seduto proprio davanti a lui. Birra, noccioline e due Martini.»
Al momento del decesso, le noccioline avevano appena cominciato a
sciogliersi nello stomaco. Non c'era altro che un fluido di colore marroncino, e riconobbi l'odore dell'alcol.
Chiesi a Marino: «Cosa eri riuscito a farti dire da lui?».
«Cristo! Un bel niente, ecco cosa.»
Gli lanciai un'occhiata, mentre etichettavo il contenitore.
«Sono lì a bermi un'acqua tonica con lime» disse. «Dovevano essere le
cinque meno un quarto. Harper entra alle cinque, minuto più minuto meno.»
«Come hai fatto a sapere che era lui?» I reni si presentavano finemente
granulari. Li misi sulla bilancia e ne annotai il peso.
«Non potevo sbagliarmi, con quella criniera di capelli bianchi» rispose.
«Calzava con la descrizione di Poteat. Lo riconobbi appena lo vidi entrare.
Si siede a un tavolo da solo e non rivolge la parola a nessuno, ordina il suo
"solito" e mentre aspetta mangia noccioline. Lo osservo per un po', quindi
mi avvicino, tiro fuori una sedia e mi presento. Lui dice che non può essermi utile in alcun modo e che non ha voglia di parlare. Lo incalzo, gli dico che Beryl è stata minacciata per mesi, gli chiedo se ne era al corrente.
Lui mi guarda infastidito, dice che non lo sapeva.»
«Pensi che dicesse la verità?»
Mi stavo chiedendo anch'io quale fosse la verità circa il bere di Harper.
Aveva il fegato ingrossato.
«Non ho modo di appurarlo» rispose Marino, scuotendo cenere di sigaretta sul pavimento. «Poi gli chiedo dove si trovava la sera in cui fu assassinata, e lui mi dice che come al solito era lì, alla taverna, poi era tornato a
casa. Quando gli chiedo se sua sorella può confermarlo, risponde che non
era in casa.»
Alzai gli occhi sorpresa, il bisturi levato a mezz'aria. «E dov'era?»
«Fuori città.»
«Non ti ha detto dove?»
«No. Ha detto solo, testuali parole: "Questi sono affari suoi. Non lo
chieda a me".» Gli occhi di Marino si puntarono sdegnati sulle sezioni di
fegato che stavo rimuovendo. «Il mio piatto preferito era fegato con cipolle, un tempo. Ci crederesti? Non conosco un solo poliziotto che mangi ancora il fegato, dopo aver visto un'autopsia...» aggiunse.
Quando cominciai a lavorare alla testa, il rumore della sega Stryker coprì la sua voce. Marino ammutolì e non appena la polvere d'ossa cominciò
a spargersi nell'aria acre, si allontanò. Anche i cadaveri in buono stato puzzano, quando vengono aperti. E non è certo piacevole come andare a vedere Mary Poppins. Tutto sommato, Marino era degno di stima: per quanto
fosse orribile l'esperienza, veniva sempre in obitorio.
Il cervello di Harper era morbido, con numerose lacerazioni frastagliate.
C'erano pochissimi segni di emorragia, a conferma che non era vissuto a
lungo dopo le ferite subite. Almeno, la sua morte era stata misericordiosamente rapida. A differenza di Beryl, Harper non aveva avuto il tempo di
provare terrore o dolore o di implorare per la sua vita.
Ma gli aspetti in cui il suo assassinio differiva da quello di lei erano anche altri. Non aveva ricevuto minacce, almeno nessuna di cui si sapesse;
non c'erano risvolti sessuali; era stato colpito con qualcosa, anziché accoltellato a morte, e non mancava nessuno dei suoi indumenti.
«Ho contato centosessantotto dollari nel suo portafoglio» dissi a Marino.
«L'orologio da polso e l'anello con sigillo sono stati raccolti e inventariati.»
«E la catena?»
Non capii di cosa stava parlando.
«Portava sempre addosso una spessa catena d'oro con una medaglia, uno
scudo, una sorta di blasone» spiegò. «L'ho notata alla taverna.»
«Quando è arrivato qui non l'aveva, e non ricordo di avergliela vista
nemmeno sul luogo del delitto...» Stavo per dire "ieri sera". Ma non era
stata la sera prima. Harper era morto domenica sera, sul presto. Adesso era
martedì. Avevo perduto la cognizione del tempo. Gli ultimi due giorni mi
sembravano irreali, e se quella mattina non avessi riascoltato il messaggio
di Mark ancora una volta mi sarei domandata se anche la sua chiamata non
fosse in realtà frutto della mia fantasia.
«Allora forse se l'è presa l'assassino. Un altro souvenir» commentò Marino.
«Non avrebbe senso» replicai. «Posso capire nel caso di Beryl, se è stata
assassinata da uno squilibrato affetto da ossessione. Ma perché sottrarre
qualcosa ad Harper?»
«Trofei, forse» suggerì Marino. «Pelli di caccia. Potrebbe trattarsi di un
killer su commissione, a cui piace conservare ricordi delle sue imprese.»
«Un killer pagato non sarebbe tanto imprudente da fare una cosa simile»
ribattei.
«Già, è così che lo immagini tu. Proprio come pensi che nemmeno Jeb
Price dovrebbe essere così imprudente da lasciare una scatola di rullino in
cella frigorifera» disse ironico.
Sfilandomi i guanti, finii di etichettare le provette e gli altri campioni
raccolti. Quindi presi gli appunti e Marino mi seguì al piano di sopra, nel
mio ufficio.
Rose mi aveva lasciato il giornale del pomeriggio sulla scrivania. I titoli
di prima pagina erano dedicati all'assassinio di Harper e all'improvvisa
morte della sorella. Fu l'articolo relativo a rovinarmi la giornata:
CAPO MEDICO LEGALE ACCUSATO DI "SMARRIRE"
MANOSCRITTO CONTROVERSO
Arrivava da New York, l'agenzia di stampa era l'Associated Press, e l'articolo conteneva una cronaca della mia "messa fuori combattimento" di un
individuo chiamato Jeb Price, sorpreso a "frugare" nel mio ufficio nel pomeriggio del giorno prima. Dietro le allusioni al manoscritto doveva esserci Sparacino, pensai furiosa. Il pezzo su Jeb Price si basava probabilmente
sul rapporto della polizia, e mentre scorrevo le grossolane imprecisioni del
servizio, notai che per la maggior parte erano opera di cronisti.
«Hai mai controllato i dischetti del computer di Beryl?» chiesi, lanciando il giornale a Marino.
«Oh, sì» fece lui. «Già verificati.»
«Non è che hai trovato anche questo libro che manda tutti così su di gi-
ri?»
«No» borbottò, esaminando la prima pagina.
«Non c'è?» sbottai frustrata. «Non è sui dischetti di Beryl? Come è possibile, se lo stava scrivendo al computer?»
«Non chiedermelo» rispose lui. «Ti dico solo che ne ho controllati almeno una dozzina. Niente di recente. Tutta roba vecchia, romanzi già pubblicati. Nulla che la riguardasse in prima persona, né su Harper. Ho trovato
un paio di vecchie lettere, comprese due indirizzate a Sparacino. Niente di
eccitante.»
«Forse aveva lasciato i floppy in un posto sicuro, prima di partire per
Key West.»
«Forse. Ma noi non li abbiamo trovati.»
Proprio in quel momento entrò Fielding, le braccia da orango che penzolavano dalle maniche corte del camice chirurgico, le mani muscolose leggermente infarinate dal talco dell'interno dei guanti di lattice indossati al
piano inferiore. Fielding era una specie di opera d'arte. Dio sa quante ore
spendeva ogni settimana a scolpirsi in qualche palestra. La mia teoria era
che la sua passione per il body building fosse inversamente proporzionale
a quella per il suo lavoro. Imbarcato con mansione di vicecapo da poco più
di un anno, già tradiva segni di esaurimento. Più aumentava la sua frustrazione, più diventava grosso. Tempo due anni, e avrebbe battuto in ritirata
verso il mondo più lindo e lucroso della patologia ospedaliera, a meno che
non si trasformasse nel degno erede dell'Incredibile Hulk.
«Credo che lascerò perdere, con Sterling Harper» annunciò, appollaiandosi inquieto sul bordo della mia scrivania. «Il tasso alcolico è solo zero
virgola zero tre, e nemmeno quello gastrico dice molto. Niente sangue,
niente odori insoliti. Il cuore è buono, nessuna traccia di vecchi infarti, coronarie sgombre. Il cervello è normale. Ma era in atto qualcosa. Il fegato è
ingrossato, circa duemilacinquecento grammi, e la milza è sui mille, con
ispessimento della capsula. Coinvolti in parte anche i linfonodi.»
«Nessuna metastasi?» chiesi.
«Niente di rilevante.»
«Dai un'occhiata con il microscopio» dissi.
Fielding annuì e se ne andò.
Marino mi guardò con aria interrogativa.
«Potrebbero essere un sacco di cose» dissi. «Leucemia, linfoma o una
delle tante forme di collagenosi, qualcuna delle quali è benigna e qualcun'altra no. La milza e i linfonodi reagiscono in quanto componenti del si-
stema immunitario; in altre parole, in ogni malattia del sangue la milza è
quasi sempre implicata. Quanto al fegato ingrossato, la cosa non ci è di
grande aiuto, sul piano diagnostico. Non saprò nulla finché non avrò osservato le alterazioni istologiche al microscopio.»
«Ti spiacerebbe parlare in una lingua comprensibile, tanto per cambiare?» Si accese una sigaretta. «In termini più terra-terra, cosa ha scoperto il
dottor Schwarzenegger?»
«Che il sistema immunitario della Harper stava reagendo a qualcosa»
dissi. «Che era malata.»
«Malata abbastanza da giustificare la morte sul divano?»
«Così all'improvviso? Ne dubito.»
«Che ne dici di qualche tipo di farmaco pesante?» azzardò. «Sai, lei ingoia tutte le pillole e getta la bottiglia nel fuoco, il che potrebbe oltretutto
spiegare la plastica fusa trovata nel camino e il fatto che in casa non siano
state rinvenute confezioni di farmaci, ma solo stronzate vendibili senza ricetta.»
L'ipotesi di un'overdose da medicinali mi sembrava altamente probabile,
ma per ora era inutile stare a preoccuparmi: nonostante avessi affermato
che il caso di Sterling Harper aveva la massima precedenza sarebbero occorsi giorni, forse settimane, per ottenere i risultati delle analisi tossicologiche.
Quanto al fratello, avevo una mia teoria.
«Penso che Cary Harper sia stato colpito con qualche strumento fabbricato in casa» dissi. «Probabilmente un segmento di tubo di metallo riempito di pallini da caccia per appesantirlo, con le estremità chiuse da qualche
sostanza tipo mastice. Sotto quei colpi, a un certo punto uno dei tappi deve
aver ceduto e i pallini si sono sparsi in giro.»
Scosse pensieroso la cenere della sigaretta. «Niente di ricollegabile all'arsenale da soldato di fortuna che abbiamo trovato nella macchina di
Price. O che faccia pensare a una possibile idea della Harper.»
«Immagino che in casa sua non abbiate trovato niente di simile al mastice, a creta da modellare o a pallini da caccia.»
«No, maledizione!» sbottò Marino, scuotendo la testa.
Il telefono continuò a squillare per tutto il resto della giornata.
Le agenzie di stampa erano state informate del mio presunto ruolo nella
sparizione di un "misterioso e prezioso manoscritto" e avevano ricevuto
esagerate descrizioni del mio "aver messo fuori combattimento un aggres-
sore" introdottosi nel mio ufficio. Altri cronisti stavano cercando di fare un
po' di soldi con qualche scoop e si aggiravano nel parcheggio della mia sede di lavoro, appostandosi nell'atrio per puntarmi contro microfoni e macchine fotografiche a mo' di carabina. Un DJ locale particolarmente insolente stava mandando in onda la notizia che io ero l'unica donna capo della
sezione medicina legale che indossasse "guanti d'oro anziché di gomma".
La situazione mi stava rapidamente sfuggendo di mano, e cominciai a
prendere gli avvertimenti di Mark un po' più sul serio. Sparacino si mostrava perfettamente capace di rendermi la vita impossibile.
Ogni volta che a Thomas Ethridge IV passava per la testa qualcosa,
componeva direttamente il mio numero anziché contattare prima Rose.
Non mi ero dunque sorpresa, quando mi aveva chiamato. Anzi, mi ero sentita sollevata. Nel tardo pomeriggio eravamo seduti nel suo ufficio. Thomas era abbastanza anziano da poter essere mio padre, uno di quegli uomini la cui bruttezza giovanile si trasforma gradualmente in un monumento al
carattere: Ethridge aveva una faccia alla Winston Churchill, adatta a un
parlamento o a un salotto pieno di fumo. Eravamo sempre andati estremamente d'accordo.
«Una montatura pubblicitaria? E tu pensi che qualcuno possa crederci,
Kay?» chiese il procuratore generale, giocherellando distrattamente con la
catena dell'orologio d'oro agganciata al panciotto.
«Ho la sensazione che tu non mi creda» dissi.
La sua reazione fu afferrare una grossa stilografica nera Mont Blanc e
svitarne lentamente il cappuccio.
«Purtroppo non credo di avere molte chance di essere creduta» aggiunsi
debolmente. «I miei sospetti non si fondano su niente di concreto, Tom. La
mia accusa vuole solo contrastare quello che sta facendo Sparacino, ma lui
avrà di che goderne ancora di più.»
«Ti senti molto isolata, non è vero, Kay?»
«Sì. Perché lo sono.»
«Vicende come questa finiscono per gonfiarsi su se stesse, da sole» rifletté. «Il problema è come soffocarle sul nascere, senza suscitare ulteriore
scalpore.»
Sfregandosi gli occhi stanchi dietro gli occhiali con montatura di corno,
si piegò verso un blocco e cominciò a compilare una delle sue liste nixoniane, una riga a dividere in due la pagina gialla, vantaggi da una parte,
svantaggi dall'altra: vantaggi o svantaggi rispetto a che cosa, non avevo idea. Dopo averla riempita per metà, una colonna drammaticamente più
lunga dell'altra, si appoggiò allo schienale della sedia, sollevò gli occhi e
corrugò la fronte.
«Kay» riprese, «ti sei mai resa conto di quanto ti lasci assorbire dai tuoi
casi più dei tuoi predecessori?»
«Mai conosciuto nessuno di loro» risposi.
Accennò un sorriso. «Questa non è una risposta alla mia domanda, avvocato.»
«Francamente, non mi sono mai data alcun pensiero della cosa.»
«Non mi aspettavo che lo facessi» disse, con mia sorpresa. «Non me l'aspettavo affatto, perché guardi maledettamente diritto davanti a te, Kay. E
questa è appunto una delle tante ragioni per cui ho sostenuto con calore la
tua designazione. La parte positiva è che non commetti sbagli, che sei un
patologo maledettamente in gamba, oltre a un buon amministratore. La
parte negativa è che, all'occasione, tendi a esporti al pericolo. Quei casi di
strangolamento, per esempio, un anno fa o giù di lì. Apparentemente insolubili, e molte altre donne sarebbero potute morire, se non fosse stato per
te. Ma quasi ti costarono la vita.
«Adesso questo incidente di ieri.» Si interruppe un attimo, scosse la testa
e rise. «Benché debba ammettere che mi ha fatto una certa impressione.
"Messo fuori combattimento", credo di aver sentito per radio, stamattina.
L'hai fatto davvero?»
«Non esattamente» risposi imbarazzata.
«Sai di chi si tratta, cosa stava cercando?»
«Non ne siamo sicuri» risposi. «So solo che era entrato nella cella frigorifera dell'obitorio e aveva scattato delle fotografie. Gli schedari che stava
scorrendo, quando l'ho sorpreso, non mi hanno rivelato nulla.»
«In ordine alfabetico?»
«Era al cassetto M-N» dissi.
«M come Madison?»
«Probabilmente» risposi. «Ma il suo dossier è chiuso a chiave nell'ufficio di fronte. Non c'è niente su di lei, nei miei archivi.»
Dopo un lungo silenzio, picchiettò il blocchetto col dito indice e disse:
«Ho buttato giù quello che so su queste morti recenti. Beryl Madison, Cary
Harper, Sterling Harper. Ci sono tutti gli ingredienti per un romanzo giallo,
non ti pare? E adesso questo intrigo su un manoscritto trafugato che si presume coinvolga l'ufficio del medico legale. Credo di doverti dire un paio di
cose, Kay. Innanzitutto, se ti telefonano ancora a questo proposito penso
che potresti renderti la vita più facile dirottando le chiamate al mio ufficio.
Sono appunto in attesa che venga inscenata qualche finta azione legale. Ho
coinvolto i miei collaboratori, adesso; vediamo se ci riesce di aspettarli al
varco. Seconda cosa, che ritengo sempre degna della massima considerazione, ti voglio come un iceberg».
«Cosa intendi, per l'esattezza?» gli chiesi un po' stupita.
«Che quello che affiora in superficie dovrà essere solo una minima parte
di ciò che sta sotto» rispose. «Non confonderlo col cercare di non dare nell'occhio, anche se so che cercherai di farlo per motivi pratici. Minime dichiarazioni alla stampa, comportamento il più possibile anonimo.» Riprese
a giocherellare con la catena dell'orologio. «Se vuoi, il tuo livello di attività, o di coinvolgimento, potrà essere inversamente proporzionale alla tua
invisibilità.»
«Il mio coinvolgimento?» protestai. «In pratica stai dicendomi di limitarmi a fare il mio lavoro, nient'altro che il mio lavoro, sottraendo l'ufficio
alla luce dei riflettori?»
«Sì e no. Sì per quanto riguarda l'attenerti alle tue mansioni. Quanto al
sottrarre l'ufficio del medico legale alla luce dei riflettori, temo che la cosa
non dipenda da te.» Si fermò, incrociando le mani sopra la scrivania. «Conosco abbastanza Robert Sparacino.»
«Lo conosci?» gli feci eco.
«Ho avuto la grande sfortuna di fare la sua conoscenza alla scuola legale» confermò.
Lo guardai incredula.
«Columbia, il corso del cinquantuno» proseguì Ethridge. «Un giovane
obeso, arrogante, con una grave mancanza di carattere. Era anche molto intelligente, avrebbe potuto laurearsi come primo del corso e diventare cancelliere del presidente del tribunale, se non l'avessi scavalcato io.» Fece
una pausa. «Andai a Washington ed ebbi il privilegio di lavorare per Hugo
Black. Robert rimase a New York.»
«Ti ha mai perdonato?» chiesi, mentre nella mia mente si addensava una
nuvola di sospetto. «Immagino che dovesse esserci una grande rivalità. Ti
ha mai perdonato per averlo battuto, laureandoti con il massimo dei voti?»
«Non manca mai di mandarmi una cartolina per Natale» disse secco Ethridge. «Esce da una lista computerizzata, firma prestampata, il mio nome
malscritto. Abbastanza impersonale da risultare offensiva.»
Cominciavo a capire meglio perché Ethridge voleva che tutte le battaglie
con Sparacino passassero per l'ufficio del procuratore generale. «Ti pare
possibile che Sparacino stia procurando tutte queste grane a me per colpire
te?» azzardai esitante.
«Cosa? Che il manoscritto scomparso sia solo una macchinazione e lui
lo sappia? Che stia creando tutto questo scalpore solo per farmi indirettamente un occhio nero con un bel contorno di mal di testa?» Sorrise, arcigno. «Mi sembra improbabile che la sua motivazione possa essere così
piccola.»
«Potrebbe comunque costituire un incentivo in più» commentai. «Lui sa
che ogni pasticcio legale, ogni possibile controversia che coinvolga il mio
ufficio finisce in mano al procuratore di stato. Da ciò che dici è un uomo
vendicativo.»
Ethridge si picchiettò lentamente le punte delle dita le une contro le altre. Guardò altrove e disse: «Permettimi di raccontarti una cosa su Robert
Sparacino che mi hanno riferito quando eravamo alla Columbia. Lui veniva da una famiglia disgregata e viveva con sua madre, mentre il padre faceva un sacco di soldi a Wall Street. Evidentemente il ragazzino andava a
trovarlo spesso durante l'anno, a New York. Era precoce, un lettore accanito, assolutamente attratto dal mondo letterario. In una delle visite al padre
lo convinse a portarlo a pranzo all'Algonquin, un giorno in cui dovevano
esserci anche Dorothy Parker e la sua Tavola Rotonda. Robert, che a quel
tempo non doveva avere più di nove o dieci anni, aveva pianificato tutto,
come raccontò a parecchi compagni di bevute alla Columbia: si sarebbe
avvicinato al tavolo di Dorothy Parker, le avrebbe teso la mano e le si sarebbe presentato dicendo: "Miss Parker, è un tale piacere conoscerla" e così via. Quando si diresse al tavolo di lei, ciò che venne fuori invece fu:
"Miss Parker, è un tale piacere soddisfarla". Al che la scrittrice rispose, arguta come solo lei sapeva essere: "Me l'hanno detto in tanti, anche se nessuno giovane come te". La risata che seguì mortificò molto Sparacino. Un'umiliazione che non avrebbe dimenticato mai più.»
L'immagine del piccolo ciccione che porgeva la mano sudata a Miss
Parker e le diceva una cosa del genere era talmente patetica che non risi
nemmeno. Probabilmente se un idolo della mia infanzia mi avesse confuso
a quel modo nemmeno io lo avrei mai dimenticato.
«Ti racconto questo» riprese Ethridge, «per dimostrarti qualcosa che
ormai ha ricevuto conferma, Kay. Quando Sparacino raccontò questa storia
alla Columbia era ubriaco e amareggiato e prometteva ad alta voce di
prendersi un giorno la sua rivincita, dimostrando a Dorothy Parker e al resto del mondo dell'élite che alle sue spalle non si rideva tanto facilmente. E
cosa è accaduto?» Thomas mi guardò con un'espressione di apprezzamen-
to. «È diventato uno dei più potenti avvocati del Paese in campo editoriale,
sempre a contatto con editori, agenti, scrittori; e anche se ognuno può segretamente detestarlo, trova imprudente non temerlo. Dicono che pranzi
abitualmente all'Algonquin e insista nel firmare tutti i contratti cinematografici ed editoriali là, mentre senza dubbio, dentro di sé, sorride compiaciuto al fantasma di Dorothy Parker.» Una pausa. «Ti sembra inverosimile?»
«No. Non occorre essere uno psicologo per immaginarsi qualcosa del
genere» ammisi.
«Ecco ciò che intendo proporti» disse, gli occhi puntati nei miei. «Lascia
che sia io a occuparmi di Sparacino. Voglio che tu non abbia nessun tipo
di contatto con lui, se possibile. Non devi sottovalutarlo, Kay. Anche
quando pensi di avergli detto pochissimo, lui legge tra le righe, è un maestro nel trarre spunti per illazioni che finiscono sempre misteriosamente a
segno. Non sono certo di quale fosse la natura reale dei suoi rapporti con
Beryl Madison e gli Harper o di cosa pensi veramente di fare. Forse un misto di cose disgustose. In ogni caso non voglio che su queste morti venga a
conoscenza di più dettagli di quanti ne sappia già.»
«Ha già ottenuto parecchio» dissi. «Per esempio il rapporto della polizia
su Beryl Madison. Non chiedermi come...»
«È un uomo pieno di risorse» mi interruppe Ethridge. «Ti consiglio di
tenere qualunque rapporto ben custodito, di inviarlo soltanto quando devi.
Metti un coperchio sopra il tuo ufficio, rinforza la vigilanza, tieni ogni
schedario sotto chiave. Assicurati che i tuoi collaboratori non rilascino informazioni a nessuno, su questi casi, a meno di non essere assolutamente
certa che la persona che le richiede sia davvero chi dice di essere. Sparacino utilizzerà ogni briciola a suo vantaggio. È una sfida, per lui. Potrebbe
uscirne ferita parecchia gente, te compresa. Per non parlare di quello che
potrebbe accadere in sede di un eventuale processo. Uno solo dei suoi tipici blitz pubblicitari, e ci toccherebbe trasferire il luogo del processo all'Antartide.»
«Sparacino potrebbe avere previsto la tua mossa» dissi piano.
«Che mi sarei delegato a fare da parafulmine? A scendere in campo invece di lasciare la cosa nelle mani di un collaboratore?»
Annuii.
«Be', forse sì» rispose.
Ne ero sicura. Non ero io la preda designata di Sparacino, bensì la sua
vecchia nemesi. Sparacino non poteva agire direttamente sul procuratore
generale. Non avrebbe mai sfondato il muro dei cani da guardia, degli assistenti, delle segretarie. Così aveva scelto me al posto suo, e stava per essere ricompensato con il risultato desiderato. L'idea di essere stata usata in
questo modo mi rendeva solo più rabbiosa, e all'improvviso mi tornò alla
mente Mark. Qual era il suo ruolo in tutto ciò?
«Sei seccata e non te ne faccio una colpa» riprese Ethridge. «Ma dovrai
proprio mandare giù il tuo orgoglio e le tue emozioni, Key. Ho bisogno del
tuo aiuto.»
Restai semplicemente in ascolto.
«Il biglietto che ci permetterà di uscire dal parco dei divertimenti di Sparacino, sospetto fortemente, è questo manoscritto a cui sono tutti così interessati. Qualche possibilità che tu possa riuscire a rintracciarlo?»
Mi sentii avvampare in viso. «Non è mai passato per il mio ufficio,
Tom...»
«Non intendevo chiederti questo, Kay» disse con fermezza. «Ci sono un
sacco di cose che non passano per il tuo ufficio, eppure il medico legale
riesce a coglierle. Medicine dietro ricetta, un dolore al petto di cui la vittima si lamenta un attimo prima di crollare, intenzioni suicide che in qualche modo riesce a farsi rivelare da un membro della famiglia. Tu non hai
alcun potere di imposizione, ma puoi indagare. E qualche volta può capitarti di scoprire dettagli che nessuno racconterebbe mai alla polizia.»
«Non voglio essere un testimone comune, Tom.»
«Infatti sei un testimone qualificato. Naturale che tu non voglia essere
un testimone comune. Sarebbe uno spreco» disse.
«E i poliziotti, di solito, sanno interrogare meglio» aggiunsi. «Non si aspettano che la gente dica loro la verità.»
«E tu te lo aspetti?» chiese.
«Il medico locale bendisposto di solito se lo aspetta, si aspetta che la
gente gli dica la verità per come la percepisce. Fa il possibile per riuscirci.
Non sono molti i medici pronti a sospettare che il paziente menta.»
«Sei troppo generica, Kay» commentò.
«Non voglio trovarmi nella posizione...»
«Kay, il codice stabilisce che il medico legale indagherà sulle cause e le
modalità della morte e tradurrà le sue scoperte in una relazione. Può spaziare a volontà, quindi. Ha pieni poteri investigativi. La sola cosa che non
può fare, è arrestare qualcuno. E tu lo sai. La polizia non troverà mai quel
manoscritto. Sei tu la sola persona che può farcela.» Mi guardò fiducioso.
«È più importante per te, per il tuo buon nome, di quanto non lo sia per lo-
ro.»
Non potevo più farci nulla. Ethridge aveva dichiarato guerra a Sparacino
e mi aveva arruolato.
«Trova quel manoscritto, Kay.» Lanciò un'occhiata all'orologio. «Ti conosco. Se ti ci metti, lo troverai, o quantomeno scoprirai che fine ha fatto.
Sono morti in tre. Uno era il vincitore di un premio Pulitzer il cui libro si
dà il caso che sia fra i miei preferiti. Abbiamo bisogno di andare a fondo
della faccenda. Inoltre, tutto quello che riuscirai a scovare riguardo a Sparacino, lo riporterai a me. Ci proverai, vero?»
«Sissignore» risposi. «Certo che ci proverò.»
Cominciai ad assillare il personale scientifico.
L'esame dei documenti è una delle pochissime procedure scientifiche
che possano fornire risposte dirette e immediate. È concreto quanto la carta
e tangibile come l'inchiostro. Nel tardo pomeriggio di mercoledì il caposezione, che si chiamava Will, Marino e io eravamo ancora all'opera. Ciò che
stavamo scoprendo ci ricordò in modo lampante che nessuno di noi è immune dalle tentazioni dell'alcol.
Non sapevo bene in cosa sperare. Forse sarebbe stata una soluzione
semplice poter stabilire subito che quello che Sterling Harper aveva bruciato nel caminetto era proprio il manoscritto di Beryl. Così avremmo potuto concludere che Beryl l'aveva affidato in custodia alla sua amica. E dedurre che il lavoro contenesse indiscrezioni che la Harper aveva scelto di
non condividere con il mondo. Cosa assai importante, infine, avremmo potuto concludere che il manoscritto non era affatto scomparso dalla scena
del delitto.
Ma la quantità e la natura della documentazione che stavamo esaminando non si accordavano con questa ipotesi. I frammenti non bruciati o degni
di essere analizzati al comparatore video, dotato di lente schermata con un
filtro a infrarossi, erano pochissimi e non più grandi di una monetina. Nessun aiuto tecnico o test chimico ci avrebbe assistiti nell'esame di quei bianchi ricciolini di cenere di carta velina. Erano così fragili che non osavamo
rimuoverli dalla bassa scatola di cartone in cui Marino li aveva raccolti, e
per evitare ogni movimento d'aria nella stanza avevamo chiuso la porta e
tappato ogni fessura del laboratorio documenti.
La frustrante e minuziosa operazione che stavamo compiendo consisteva
nello smistare per mezzo di pinzette un mucchio di ceneri senza peso,
prendendo qua e là, nella speranza di recuperare qualche parola. Per il
momento sapevamo solo che Sterling Harper aveva bruciato fogli da venti
libbre di carta di stracci con impressi caratteri battuti su nastro al carbonio.
Di questo potevamo essere sicuri per diverse ragioni. Quando viene incenerita, la carta prodotta dalla pasta di legno diventa nera, mentre quella ricavata da fibre di cotone è incredibilmente pulita, le sue ceneri filamentose
bianche come quelle trovate nel caminetto di casa Harper. I pochi frammenti non bruciati che stavamo esaminando coincidevano con le risme da
venti libbre. Infine, il carbonio non brucia. Il calore aveva contratto i caratteri stampati rendendoli simili a quelli dei microfilm. Il nero di alcune parole, presenti per intero, risaltava contro l'impalpabile cenere bianca. Il resto era disperatamente frammentato e indistinto.
«ARRIV» scandì Will, gli occhi iniettati di sangue dietro gli occhiali
dalla comune montatura nera, la giovane faccia spossata. Doveva mettercela tutta per non perdere la pazienza.
Aggiunsi quel frammento di parola alla mezza pagina già riempita del
mio blocchetto.
«Arrivato, arrivando, arriva» ipotizzò con un sospiro. «Non riesco a
pensare a nient'altro.»
«Arrivo, arrivista» riflettei io a voce alta.
«Arrivista?» chiese Marino stizzito. «Cosa diavolo significa?»
«È lo stesso che arrampicatore sociale» risposi.
«Un po' troppo esoterico per me» fece Will senza umorismo.
«Probabilmente un po' troppo esoterico per parecchia gente» ammisi,
pensando con nostalgia al flacone di analgesico nella mia borsetta al piano
di sotto e imputando il mio persistente mal di testa alla stanchezza degli
occhi.
«Gesù» si lamentò Marino. «Parole, parole, parole. Mai viste tante parole in tutta la mia dannata esistenza. E almeno una metà mai sentita prima.
Non che mi dispiaccia, eh.»
Si appoggiò allo schienale della sedia girevole, allungando i piedi su una
scrivania, e riprese a leggere la trascrizione del testo che Will aveva decifrato dal nastro estratto dalla macchina per scrivere di Cary Harper. Il nastro non era al carbonio, il che significava che le pagine bruciate da Sterling Harper non potevano essere state battute con la macchina del fratello.
Sembrava che il romanziere si fosse cimentato in modo irregolare in un
ennesimo tentativo di libro. Poco di quello che stava controllando Marino
aveva senso. Quando l'avevo controllato io, poco prima, mi ero chiesta se
Harper non avesse tratto ispirazione da qualche bottiglia.
«Mi domando se si possa vendere della merda simile» disse Marino.
Will aveva pescato un altro frammento di frase da quella spaventosa e
fuligginosa confusione, e io mi feci più vicina per osservarlo bene.
«Sai» proseguì Marino, «fanno sempre uscire della roba, dopo la morte
di uno scrittore famoso. Gran parte delle stronzate che il poveretto non aveva mai voluto pubblicare, come prima cosa.
«Sì. Potrebbero intitolarle Avanzi di un banchetto letterario» borbottai.
«Eh?»
«Non farci caso. Non ci sono nemmeno dieci pagine qui, Marino» aggiunsi distratta. «Piuttosto difficile tirarci fuori un libro.»
«Già. Allora potrebbero pubblicarle su "Esquire" o magari su "Playboy"
anziché farci un libro. Probabilmente valgono lo stesso qualche dollaro»
osservò lui.
«Questa parola indica decisamente un nome proprio, un luogo o una società, o qualcosa del genere» rifletté Will, dimentico della conversazione
intorno a lui. «Co è con la maiuscola.»
«Interessante» feci io. «Molto interessante.»
Marino si alzò a dare un'occhiata.
«Attento a non respirare» lo avvisò Will, le pinzette ferme come un bisturi fra le dita, mentre maneggiava con cautela il fiocco di cenere bianca
sul quale le minuscole lettere nere scandivano bor Co.
«Contea, company, country, college» proposi. Il sangue ricominciò a
scorrere, svegliandomi.
«Ann Arbor?» suggerì Will.
«Che ne dite di una contea della Virginia?» chiese Marino.
Non riuscivamo a pensare ad alcuna contea della Virginia che finisse
con le lettere bor.
«Harbor» dissi.
«Okay. Ma seguito da Co?» rispose Will, dubbioso.
«Forse qualcosa come Harbor Company» disse Marino.
Controllai sulla guida telefonica. C'erano cinque imprese il cui nome iniziava con Harbor: Harbor East, Harbor South, Harbor Village, Harbor
Imports e Harbor Square.
«Non mi pare che ci stiamo muovendo nella direzione giusta» sentenziò
Marino.
Le cose non migliorarono affatto quando chiamai il servizio informazioni e chiesi i nomi di qualunque cosa cominciasse per Harbor nell'area di
Williamsburg. A parte un residence di appartamenti, non c'era nulla. Allo-
ra chiamai il detective Poteat della polizia locale, ma nemmeno a lui venne
in mente nient'altro oltre al residence.
«Forse non dovremmo fissarci troppo su questo particolare» disse Marino con stizza.
Will era di nuovo assorbito dalla scatola delle ceneri.
Marino sbirciò la lista di parole che avevamo trovato fino a quel momento.
Tu, tuo, io, mio, noi e bene erano comuni. Così come e, è, era, che, questo, il quale, un e uno. Altre ancora un po' più specifiche, come città, casa,
sai, per favore, paura, lavora, pensa e manca. Quanto alle parole incomplete, non potemmo far altro che tirare a indovinare cosa dovevano essere
state nella loro vita precedente. Ricorreva un derivato di terribile, evidentemente per mancanza di altre espressioni comuni che cominciassero con
terri o terrib a cui potessimo pensare. La sfumatura di senso, ovviamente,
ci era preclusa per sempre. Forse la persona aveva inteso terribile come in
"È così terribile"? O terribilmente come in "Sono terribilmente agitata" o
in "Mi manchi terribilmente"? O l'avverbio era stato adoperato in senso
positivo, come in "È terribilmente simpatico da parte tua"?
Cosa interessante, trovammo parecchi residui del nome Sterling e altrettanti del nome Cary.
«Ho la netta sensazione che quello che lei ha bruciato fossero lettere
personali» decisi. «Me lo fanno pensare il tipo di carta e le parole usate.»
Will fu d'accordo..
«Ricordi di aver trovato della carta da lettere in casa di Beryl Madison?»
chiesi a Marino.
«Carta da computer, carta da macchina per scrivere. Tutto qui. Niente a
che vedere con questa costosa carta di stracci di cui state parlando» rispose
lui.
«Nella stampante il nastro è a inchiostro» ci ricordò Will, agganciando
una cenere con le pinzette. Poi aggiunse: «Eccone un'altra, credo».
Diedi un'occhiata.
Questa volta ciò che rimaneva era o C.
«Beryl aveva un computer e una stampante Lanier» dissi a Marino. «Potrebbe essere una buona idea verificare se è l'unica che abbia mai usato.»
«Ho esaminato le ricevute» disse lui.
«Per quanti anni?» chiesi.
«Tutti quelli in cui se ne è servita. Cinque, sei» rispose lui.
«Stesso computer?»
«No» fece lui. «Ma la stessa dannata stampante, capo. Un modello
chiamato 1600, a margherita. Il tipo di nastro usato è sempre stato lo stesso. Non ho idea di cosa adoperasse per scrivere, prima di quella.»
«Capisco.»
«Già, beata te» si lamentò Marino, massaggiandosi le reni. «Io non ci
capisco un accidente.»
10
L'Accademia Nazionale dell'Fbi di Quantico, Virginia, è un'oasi di mattoni e vetro in uno scenario da guerra artificiale. Non dimenticherò mai il
mio primo soggiorno là. Andavo a letto e mi alzavo al rumore delle esplosioni di armi semiautomatiche, e un pomeriggio che presi una direzione
sbagliata nel percorso di addestramento fisico in mezzo ai boschi venni
quasi schiacciata da un carro armato.
Era venerdì mattina. Benton Wesley aveva fissato un incontro e quando
Marino vide apparire la fontana e le bandiere dell'Accademia si ringalluzzì
visibilmente. Dovetti fare due passi per ognuno dei suoi, mentre lo seguivo
dentro lo spazioso e soleggiato atrio di un edificio nuovo e abbastanza somigliante a un albergo da avergli fatto guadagnare il nomignolo di Quantico Hilton. Registrando la pistola in portineria, Marino firmò nel registro
visitatori e ci appuntammo i contrassegni mentre il receptionist telefonava
a Wesley per confermargli il nostro sdoganamento privilegiato.
Un labirinto di passaggi di vetro collega settori di uffici, aule e laboratori e si può andare da un palazzo all'altro senza mai uscire all'aperto. Per
quante volte ci fossi stata, mi perdevo sempre. Marino, invece, sembrava
sapere esattamente dove andare, così mi misi diligentemente alle sue calcagna, osservando il viavai degli studenti in tenute di colore diverso. Quelli in camicia rossa e pantaloni kaki erano gli ufficiali di polizia. Le camicie
grige con calzoni neri da fatica infilati in stivali tirati a lucido erano i nuovi
agenti del Dea, mentre i veterani erano sinistramente vestiti in tinta unita
nera. I nuovi agenti Fbi erano in azzurro e kaki, mentre i membri delle elitarie Squadre Antiostaggio in bianco da capo a piedi. Uomini e donne erano strigliati in modo impeccabile e apparivano tutti in gran forma fisica.
Esibivano una sorta di militaresco autocontrollo, tangibile come l'odore del
solvente per pulire i fucili che lasciavano dietro di sé.
Prendemmo un ascensore di servizio e Marino premette il tasto contrassegnato con le lettere "LL". Il rifugio segreto antibombe di Hoover si trova
venti metri sottoterra, due piani sotto il poligono di tiro. Mi è sempre parso
appropriato che l'Accademia avesse deciso di situare l'Unità di Scienze
Comportamentali più vicina all'inferno che non al paradiso. I nomi cambiano. Stando al più recente che avevo sentito, il Bureau chiamava i delineatori di profili psicologici "Criminal Investigative Agents", o Cias (un
acronimo destinato a generare confusione). In compenso, il lavoro resta
sempre lo stesso. Così come esisteranno sempre psicopatici, sociopatici e
maniaci omicidi, comunque si vogliano chiamare i perversi che traggono
piacere dal provocare inimmaginabili sofferenze alle loro vittime.
Uscimmo dall'ascensore e seguimmo un tetro corridoio fino a una tetra
anticamera. Wesley apparve e ci guidò in una piccola sala riunioni, dove
Roy Hanowell sedeva a un lungo tavolo perfettamente lucidato. Da un incontro all'altro, l'esperto in fibre non sembrava mai ricordarsi di me a prima vista. Così mi facevo regolarmente scrupolo di ripresentarmi ogni volta
che mi porgeva la mano.
«Certo, certo, dottoressa Scarpetta. Come va?» chiese, come suo solito.
Wesley chiuse la porta e Marino si guardò intorno, aggrottando le sopracciglia quando non riuscì a scovare un portacenere. Si sarebbe servito
di un barattolo di Diet Coke estratto da un cestino delle cartacce. Dominai
l'impulso di tirare fuori anche il mio pacchetto. L'Accademia era esente dal
fumo quanto un'unità di cura intensiva.
La camicia bianca di Wesley era spiegazzata sulla schiena. Quando cominciò ad analizzare le carte contenute in un raccoglitore i suoi occhi apparvero stanchi e preoccupati. Venne immediatamente al punto.
«Niente di nuovo su Sterling Harper?»
Avevo controllato i vetrini istologici il giorno prima e non ero rimasta
eccessivamente sorpresa da quello che avevo trovato. Né mi ero sentita
minimamente più vicina a scoprire la causa della sua morte improvvisa.
«Soffriva di leucemia mielocitica cronica» risposi.
Wesley alzò gli occhi. «La causa della morte?»
«No. Di fatto, anzi, non posso nemmeno essere sicura che sapesse di averla» dissi.
«Questo è interessante» commentò Hanowell. «Si può avere la leucemia
senza saperlo?»
«All'inizio la leucemia cronica è insidiosa» spiegai. «I sintomi possono
essere lievi: sudorazioni notturne, affaticamente, perdita di peso. D'altro
canto, il male poteva anche esserle stato diagnosticato qualche tempo prima ed essere in fase di remissione. Di certo Sterling Harper non era in crisi
acuta. Non c'erano infiltrazioni leucemiche progressive e non soffriva di
alcuna infezione rilevante.»
Hanowell parve perplesso. «Allora cosa l'ha uccisa?»
«Non lo so» ammisi.
«Medicinali?» chiese Wesley, prendendo appunti.
«Il laboratorio tossicologico sta iniziando il secondo giro di controlli» risposi. «Il rapporto preliminare sulla Harper mostra un tasso alcolico nel
sangue di zero virgola zero tre. In aggiunta, sono state riscontrate tracce di
destrometorfan, un antitosse contenuto in numerosi medicinali acquistabili
senza ricetta. Sulla scena del delitto abbiamo trovato una bottiglia di Robitussin, sopra il lavandino del bagno al piano superiore. Ancora pieno, più
di metà.»
«Quindi la parte mancante non sarebbe potuta bastare» borbottò Wesley
tra sé.
«Non sarebbe potuta bastare nemmeno l'intera bottiglia» confermai io,
aggiungendo: «È un rompicapo, sono d'accordo».
«Mi terrai informato? Fammi sapere cosa salta fuori su di lei» disse Wesley. Sfogliò parecchie pagine e si portò all'argomento successivo nell'ordine del giorno. «Roy ha esaminato le fibre del caso Beryl Madison. È di
questo che vogliamo parlarvi. E poi, Pete, Kay» alzò gli occhi verso di noi,
«c'è un'altra faccenda di cui vorrei cominciare a discutere con voi due.»
Wesley pareva tutto fuorché felice, e mi diede la sensazione che il motivo per cui ci aveva convocati non avrebbe fatto felice nemmeno me. Hanowell, al contrario, si mostrava come sempre imperturbabile. Aveva capelli, sopracciglia e occhi grigi. Ogni volta che lo vedevo, sempre mezzo
assonnato e incolore, indifferente e calmo, mi chiedevo se avesse un po' di
pressione sanguigna.
«A parte un'eccezione» esordì laconico, «le fibre a cui mi è stato chiesto
di dare un'occhiata rivelano poche sorprese: nessuna tinta inconsueta o
forme particolari in sezione trasversale di cui valga la pena parlare. Ho
concluso che le sei fibre di nylon, molto probabilmente, hanno sei origini
differenti, come risulta anche al vostro analista di Richmond. Quattro di
esse sono compatibili con il tessuto usato per le tappezzerie delle automobili.»
«Come fa a dirlo?» chiese Marino.
«La tappezzeria di nylon e la moquette si deteriorano molto rapidamente
alla luce del sole e al calore, come può immaginare» rispose Hanowell.
«Se le fibre non vengono trattate con una tintura premetallizzata, aggiun-
gendo cioè degli stabilizzatori UV e termici, la moquette della macchina
può sbiadirsi o deteriorarsi in breve tempo. Usando la fluorescenza ai raggi
X ho potuto scoprire tracce di metalli in quattro delle fibre. Anche se non
potrei dire con certezza che appartengano alla moquette di una macchina,
di sicuro sono compatibili con un'origine del genere.»
«Qualche possibilità di ricondurle a una precisa marca o modello?» volle
sapere ancora Marino.
«Temo di no. A meno che non si tratti di fibre particolarmente insolite
con titolo di variazione brevettata, risalire a un fabbricante è un'impresa
assolutamente ardua, specie se i veicoli in questione sono stati fabbricati in
Giappone. Lasci che le faccia un esempio. All'origine della tappezzeria di
una Toyota ci sono delle palline di plastica che il Giappone importa dal
nostro Paese. Là vengono ridotte in fibre, e il filato rimandato da noi per
essere trasformato in tessuto da tappezzeria; quest'ultimo, a sua volta, viene rimandato in Giappone per essere finalmente utilizzato nel rivestimento
delle macchine in produzione.»
Continuò a parlare con voce monotona. Tutto diventava sempre più senza speranza.
«Abbiamo qualche problema anche con le macchine fabbricate negli
Stati Uniti. La Chrysler Corporation, per esempio, si procura un certo colore per rivestimenti da tre differenti fornitori. Poi, a metà anno, nel corso
della produzione di un dato modello, può decidere di cambiare fornitori.
Poniamo che lei e io guidiamo entrambi delle LeBarons nere dell'ottantasette, con interno rosso bordò. Bene, i fornitori per il tessuto bordò della
mia possono essere diversi da quelli della sua. Il solo fatto significativo
delle fibre di nylon che ho esaminato è la varietà. Due di esse possono derivare da tappezzeria per abitazioni. Quattro da quella per automobili. I colori e le sezioni trasversali variano. Aggiunga a questo il ritrovamento di
olefin, dynel e fibre acriliche e il risultato è un vero guazzabuglio, piuttosto inconsueto.»
«Ovviamente» si intromise Wesley, «l'assassino deve esercitare una professione o comunque occuparsi di qualcosa che lo porta a contatto con parecchi tipi di tappezzerie diverse. E quando ha assassinato Beryl Madison,
indossava qualche indumento che ha fatto aderire numerose fibre.»
Lana, velluto o flanella potrebbero giustificare un fenomeno del genere,
pensai. Ma fra quelle presumibilmente collegabili al killer non era stata
rinvenuta nessuna fibra di lana o di cotone colorato.
«Che dire del dynel?» chiesi.
«Di solito è associato all'abbigliamento femminile: parrucche, pellicce
sintetiche» rispose Hanowell.
«Sì, ma non solo» intervenni io. «Una camicia o un paio di pantaloni in
dynel svilupperebbero elettricità statica, come il poliestere, attirando a sé
ogni sorta di particelle. Questo potrebbe spiegare perché l'assassino aveva
addosso tante tracce.»
«Decisamente» fece Hanowell.
«Quindi può darsi che l'individuo indossasse una parrucca» suggerì Marino. «Sappiamo che Beryl lo fece entrare in casa, il che significa che non
si sentiva minacciata. Molte signore non si sentono minacciate alla vista di
una donna alla porta.»
«Un travestito?» suggerì Wesley.
«Potrebbe darsi» rispose Marino. «Alcuni sembrano splendide ragazze,
fra le più belle che possa capitare di vedere. Davvero nauseante. Ce ne sono certi che non riuscirei a distinguere neanche io, a meno di non sbatterci
il muso contro.»
«Se l'aggressore fosse un travestito» sottolineai, «come potremmo giustificare le fibre che aveva addosso? Se l'origine delle fibre fosse il luogo
di lavoro, non potremmo certo pensare che sia andato al lavoro mascherato.»
«A meno che non lavori come travestito in strada» disse Marino. «Entra
ed esce dalle macchine dei clienti per tutta la notte, forse da stanze di motel con pavimenti di moquette.»
«In questo caso non si spiegherebbe la scelta della vittima» dissi.
«No, ma potrebbe spiegarsi l'assenza di liquido seminale» affermò Marino. «I travestiti maschi, gli omosessuali, normalmente non vanno in giro
a stuprare le donne.»
«Di solito nemmeno ad assassinarle» osservai.
«Vi ho parlato di un'eccezione» riprese Hanowell, guardando l'orologio.
«Si tratta della fibra acrilica arancione che la incuriosiva tanto.» I suoi occhi grigi si puntarono impassibili su di me.
«Quella a forma di trifoglio» ricordai.
«Già» fece Hanowell, annuendo. «È una forma molto insolita, concepita
per nascondere lo sporco e disperdere la luce, come si può dire per altre trilobate. Le sole automobili che io conosca in cui si possono trovare fibre di
questa forma sono le Plymouth fabbricate alla fine degli anni Settanta: sono fibre in tessuto di nylon. In sezione trasversale hanno la stessa forma a
trifoglio della fibra arancione del caso Beryl Madison.»
«Ma la fibra arancione è acrilica» gli ricordai. «Non di nylon.»
«Esattamente, dottoressa Scarpetta. Le sto fornendo solo la descrizione
per dimostrare le eccezionali proprietà di questa fibra. Il fatto che sia acrilico contro nylon, il fatto che i colori brillanti come l'arancione non vengano impiegati quasi mai nel rivestimento delle auto, ci aiutano a escludere
la fibra da una quantità di origini, comprese le Plymouth di cui sopra, o
qualsiasi altra automobile a cui si possa pensare.»
«Dunque lei non aveva mai visto nulla di simile a questa fibra arancione?» chiese Marino.
«È a questo che voglio arrivare.»
Hanowell esitò.
Fu Wesley a intervenire. «L'anno scorso ci imbattemmo in una fibra identica quando a Roy venne chiesto di esaminare i reperti recuperati da un
Boeing sette-quaranta-sette, dirottato ad Atene. Sono sicuro che ricorderete
l'incidente» disse.
Silenzio.
Anche Marino rimase momentaneamente zitto.
«I dirottatori assassinarono due soldati americani a bordo» proseguì Wesley, lo sguardo adombrato dalla preoccupazione, «e ne scaricarono i cadaveri sulla pista. Chet Ramsey era un marine di ventiquattro anni, il primo gettato fuori dall'aeroplano. La fibra arancione aderiva al sangue trovato sul suo orecchio sinistro.»
«E non poteva provenire dall'interno dell'aereo?» chiesi.
«Non sembra» rispose Hanowell. «La confrontai con campioni della
tappezzeria, del rivestimento dei sedili, delle coperte contenute negli stipetti, e non risultò né concordante né simile. O Ramsay raccolse la fibra in
qualche altro posto - cosa che non sembra probabile, dato che aveva aderito al suo sangue - o probabilmente era il risultato di un trasferimento passivo da uno dei terroristi a lui. La sola altra soluzione a cui posso pensare è
che la fibra provenisse da uno dei passeggeri, ma se è così, questo individuo doveva averlo toccato dopo che era stato ferito. Secondo i racconti del
testimone oculare, tuttavia, nessuno dei passeggeri gli si era avvicinato.
Ramsey era stato portato verso la cabina dell'aereo, lontano dal resto dei
passeggeri, e picchiato. Poi gli avevano sparato, avevano avvolto il corpo
in una delle coperte dell'aereo e lo avevano gettato fuori, sull'asfalto. A
proposito, la coperta era marroncina.»
Fu Marino a chiedere per primo, e senza alcuna allegria: «Vorrebbe per
favore spiegare che tipo di collegamento potrebbe esserci tra quel dannato
dirottatorc in Grecia e i due scrittori ammazzati in Virginia?».
«Quantomeno quello della fibra» rispose Hanowell. «La stessa fibra ricorre in entrambi gli incidenti: il dirottamento e la morte di Beryl Madison. Questo non vuol dire che i due crimini siano effettivamente collegati,
tenente. Ma la fibra arancione è così insolita da obbligarci a considerare la
possibilità che vi sia un comune denominatore fra quello che è successo ad
Atene e quello che sta accadendo qui adesso.»
Più che una possibilità, era una certezza. Il comune denominatore c'era.
Persona, luogo, o cosa, pensai: una delle tre. E i dettagli andavano lentamente materializzandosi nella mia mente.
«Non vi fu modo di interrogare i terroristi» completai. «Due di essi vennero uccisi. Altri due riuscirono a scappare e non sono mai stati presi.»
Wesley annuì.
«Siamo almeno sicuri che fossero dei terroristi, Benton?» chiesi.
«Non siamo mai riusciti a ricondurli ad alcun gruppo» rispose, dopo una
pausa. «Ma si pensa che stessero effettuando un'operazione dimostrativa
anti-americana. L'aereo era americano, così come un terzo dei passeggeri.»
«Cosa indossavano i dirottatori?»
«Abiti civili. Pantaloni, camicie sbottonate sul collo, niente di insolito»
rispose lui.
«E non furono trovate fibre arancione sui cadaveri dei due dirottatori uccisi?» insistei.
«Non sappiamo» rispose Hanowell. «Furono abbattuti sull'asfalto, e noi
non riuscimmo a muoverci abbastanza velocemente da reclamare i cadaveri e farceli mandare qui per un esame, insieme a quelli dei soldati americani uccisi. Sfortunatamente, sulle fibre ricevetti soltanto il rapporto delle autorità greche. Non ho mai esaminato di persona gli abiti dei dirottatori, né
le tracce recuperate. Ovviamente parecchie potevano essere andate perdute, ma nemmeno se si fosse trovata una fibra arancione o due su uno dei
corpi la cosa avrebbe consentito di stabilirne l'origine con certezza.»
«Ehi, cosa sta dicendo?» intervenne Marino. «Che dobbiamo cercare un
dirottatorc che adesso si sarebbe messo a uccidere un po' di gente in Virginia?»
«Non possiamo escluderlo completamente, Pete» disse Wesley. «Per
bizzarro che possa sembrare.»
«I quattro uomini che dirottarono l'aereo non sono mai stati associati ad
alcun gruppo» ricordai. «Davvero non sappiamo niente di preciso sui loro
fini o su chi fossero, tranne che due di essi erano libanesi, se la memoria
non mi inganna, mentre i due che fuggirono erano probabilmente greci. Mi
sembra che, secondo certe ipotesi fatte al momento, il loro vero obiettivo
fosse un ambasciatore americano in vacanza che figurava nella lista di quel
volo insieme alla famiglia.»
«Vero» disse Wesley, teso. «Ma quando a Parigi era stata bombardata
l'ambasciata americana, parecchi giorni prima del dirottamento, i piani di
viaggio dell'ambasciatore erano cambiati, senza che peraltro fossero state
modificate le prenotazioni.»
Diresse lo sguardo oltre di me. Si stava picchiettando la nocca del pollice sinistro con la penna stilografica.
«Non abbiamo escluso la possibilità che i dirottatori fossero una hit
squad» aggiunse, «tiratori professionisti al servizio di qualcuno.»
«Okay, okay» fece Marino, spazientito. «E nessuno ha escluso che Beryl
Madison e Cary Harper siano stati assassinati da un tiratore professionista,
anche se ha fatto di tutto per far apparire i due delitti come l'opera di uno
psicopatico.»
«Immagino che il punto di partenza sia vedere cos'altro si può scoprire
su questa fibra arancione, sulla sua possibile origine.» Mi feci più esplicita: «E forse qualcuno dovrebbe controllare un po' più da vicino Sparacino»
dissi. «Accertarsi che non avesse qualche legame con l'ambasciatore che
forse era il vero obiettivo del dirottamento.»
Wesley non rispose.
Improvvisamente Marino parve interessatissimo a un'unghia del pollice,
che prese a regolare con il temperino.
Dall'altra parte della scrivania Hanowell ci fissava e quando sembrò evidente che non avevamo più domande da fargli si scusò e se ne andò.
Marino accese un'altra sigaretta.
«Mi chiedo» disse, soffiando una boccata di fumo «se tutta questa faccenda non sta trasformandosi in una impresa disperata. Intendo dire, non
quadra. Perché rivolgersi a un killer internazionale per far fuori una scrittrice e un ex romanziere che non produceva più nulla da anni?»
«Non so» disse Wesley. «Dipende tutto da chi aveva chissà quali conoscenze. Diamine, dipende da un sacco di cose, Pete. Ogni caso è uguale, in
questo. A noi non resta che utilizzare le prove come meglio possiamo. Il
che mi porta al prossimo argomento all'ordine del giorno. Jeb Price.»
«È di nuovo in libertà» annunciò Marino automaticamente.
Lo guardai incredula.
«Da quando?» domandò Wesley.
«Da ieri» rispose lui. «Ha pagato la cauzione. Cinquantamila dollari, per
l'esattezza.»
«Ti spiace dirmi come ci è riuscito?» sbottai, furiosa che non me l'avesse
detto prima.
«Non mi spiace affatto, capo» fece lui.
C'erano tre modi per pagare la cauzione, mi ricordò. Il primo era su impegno personale, il secondo in contanti o beni, il terzo attraverso un garante che pretendeva un dieci per cento sul totale e un cofirmatario o qualche
altra sorta di garanzia per assicurarsi che non lo si lasciasse a mani vuote,
in caso l'accusato decidesse di squagliarsela dalla città. Jeb Price, disse
Marino, aveva optato per quest'ultimo.
«Voglio sapere come ha fatto» dissi di nuovo, estraendo le sigarette e tirandomi vicino la lattina di Coke, perché potessimo condividerla.
«Riesco a immaginare un solo modo. Ha chiamato il suo avvocato, gli
ha fatto aprire un conto in banca intestato a un terzo e ha mandato un libretto alla Lucky» disse Marino.
«Alla Lucky?» chiesi io.
«Già. La Lucky Bonding Company, sulla Diciassettesima, opportunamente situata a un isolato dalla prigione cittadina» rispose Marino. «L'agenzia di prestiti su pegno per carcerati. Appartiene a Charlie Luck, noto
anche come "Impegna-e-vattene". Charlie e io ci conosciamo da un bel
pezzo, chiacchieriamo, ci raccontiamo barzellette. Qualche volta lui mi fa
una confidenza, altre volte si cuce la bocca. Sfortunatamente questa è una
di quelle altre volte. Nonostante i ripetuti tentativi di strappargli il nome
dell'avvocato di Price, non sono riuscito a farmelo dire, ma ho il sospetto
che non sia uno del posto.»
«Price, ovviamente, deve avere agganci nelle alte sfere» dissi.
«Ovviamente» confermò Wesley in tono cupo.
«E non ha mai parlato?» chiesi.
«Aveva il diritto di non parlare, e ne ha usufruito, sicuro come l'inferno»
rispose Marino.
«Cos'hai scoperto sul suo arsenale?» chiese Wesley, rimettendosi a
prendere appunti. «Hai controllato se era tutto in regola?»
«Risulta intestato a lui» rispose Marino. «Ha una licenza per portare armi nascoste rilasciatagli sei anni fa qui nel nord Virginia da qualche giudice decrepito, che poi si è ritirato e trasferito al sud. In base ai dati della
scheda del distretto giudiziario, al tempo in cui la ottenne Price era celibe e
lavorava in un'agenzia di cambio di argento e oro del distretto di Colum-
bia, chiamata Finklestein's. E vuole saperlo? Finklestein, adesso, non c'è
più.»
«Cosa risulta dalla sua scheda?»
Wesley continuava a scrivere.
«Niente multe. Una BMW dell'ottantanove registrata a nome suo, il suo
indirizzo nel distretto di Columbia, un appartamento vicino al Dupont Circle da cui evidentemente si è trasferito lo scorso inverno. L'ufficio immobiliare ha tirato fuori il vecchio contratto, dove è registrato come libero
professionista. Sto ancora controllando, ci rivolgeremo all'Ufficio imposte
per avere i riscontri delle sue denunce dei redditi degli ultimi cinque anni.»
«È possibile che sia un detective privato?» chiesi.
«Non nel distretto di Columbia» rispose Marino.
Wesley alzò gli occhi verso di me e disse: «Qualcuno lo ha ingaggiato.
Per quale proposito, non lo sappiamo ancora. Chiaramente però ha fallito
nella missione e chiunque ci sia dietro di lui, potrebbe ritentare. Non voglio che tu ti imbatta nel prossimo tentativo, Kay».
«Ti sembro ovvia se ti assicuro che non lo voglio nemmeno io?»
«Sto cercando di dirti, credo» proseguì, come un padre affatto in vena di
scherzi, «che voglio evitare che ti ficchi in qualsiasi situazione in cui potresti risultare vulnerabile. Per esempio, non penso che sia una buona idea
stare in ufficio quando non c'è nessun altro nell'intero stabile. Non intendo
riferirmi solo ai weekend. Se lavori fino alle sei-sette di sera, quando tutti
gli altri sono già andati a casa, non è prudente che uscendo ti avventuri fino a un parcheggio buio per salire in macchina. Non ti è possibile staccare
alle cinque, quando intorno avresti ancora occhi e orecchie?»
«Lo terrò a mente» dissi.
«O se proprio non puoi farne a meno, Kay, allora chiama l'agente di
guardia e chiedigli di scortarti fino alla macchina» insisté.
«Diamine, chiama me, per questo» fu pronto a offrirsi Marino. «Il mio
numero ce l'hai, e se non fossi reperibile chiedi al garagista di mandarti
una macchina.»
"Be'" pensai. "Forse con un po' di fortuna per mezzanotte riuscirei a cavarmela."
«Semplicemente, usa la massima prudenza.» Wesley mi guardò con espressione dura. «Lasciando perdere tutte le teorie, sono state assassinate
due persone e l'assassino è ancora in circolazione. La dinamica e la motivazione mi sembrano sufficientemente strane da farmi ritenere che tutto sia
possibile.»
Le sue parole mi tornarono alla mente più di una volta, mentre guidavo
verso casa. Quando tutto è possibile, niente è impossibile. Uno più uno
non fa tre. O sì? La morte di Sterling Harper non sembrava appartenere alla stessa equazione delle morti del fratello e di Beryl. E se invece fosse stato così?
«Mi hai detto che la sera in cui Beryl fu assassinata la Harper era fuori
città» mi rivolsi a Marino. «Hai saputo qualcos'altro in merito?»
«No.»
«Ovunque fosse andata, pensi che avesse guidato lei?» chiesi.
«No. La sola macchina degli Harper era la Rolls bianca, e la sera della
morte di Beryl l'aveva il fratello.»
«Come lo sai?»
«Ho controllato alla taverna di Culpeper's» disse. «Harper entrò alla solita ora, quella sera. Era arrivato in macchina come sempre, e se ne andò
verso le sei e mezzo.»
Alla luce dei recenti avvenimenti dubitai che qualcuno potesse trovare
strano il fatto che, durante la riunione del personale del lunedì mattina seguente, annunciassi l'intenzione di prendermi le mie ferie annuali.
Il pretesto fu che l'incontro con Jeb Price mi aveva stressata tanto da
farmi sentire il bisogno di staccare, uscire dall'ambiente, e seppellire la testa nella sabbia per un po'. Non dissi a nessuno dove sarei andata, perché
non lo sapevo nemmeno io. Semplicemente me la filavo, lasciando dietro
di me una Rose segretamente sollevata e una scrivania stracolma.
Tornata a casa passai l'intera mattina al telefono, chiamando ogni linea
aerea in servizio presso l'Aeroporto Byrd di Richmond, quello cioè più adatto a Sterling Harper.
«Sì, so che c'è una penale del venti per cento» dissi all'addetto della biglietteria USAir, «ma lei mi fraintende. Non sto cercando di cambiare il
biglietto. Si tratta di una cosa di qualche settimana fa. Sto cercando di scoprire se la persona ha mai preso quel volo.»
«Il biglietto non era per lei?»
«No» ripetei per la terza volta. «Fu rilasciato a nome di Sterling Harper.»
«Allora bisogna che la persona ci contatti personalmente.»
«Sterling Harper è morta» dissi. «Non può contattarvi di persona.»
Una pausa imbarazzata.
«È successo all'improvviso, proprio nel periodo in cui doveva prendere
un certo volo» spiegai. «Se solo lei potesse controllare sul suo computer...»
Ripetei i tentativi. Arrivai al punto di recitare le stesse frasi senza più
nemmeno pensarci. Dai computer USAir non risultava nulla, né da quelli
della Delta, United, American o Eastern. Secondo i dati in loro possesso,
nell'ultima settimana di ottobre, quando Beryl Madison era stata assassinata, Sterling Harper non era mai partita da Richmond. Non se n'era nemmeno andata in macchina, d'altronde, e dubitavo seriamente che avesse
preso un autobus. Restava solo il treno.
Un agente Amtrak di nome John disse di avere il computer fuori uso e
chiese se mi poteva richiamare. Attesi, mentre qualcuno suonava alla porta.
Non erano ancora le dodici. Il giorno era aspro e gelido come una mela
d'autunno. La luce del sole riflessa dal parabrezza della sconosciuta berlina
Mazda color argento, parcheggiata nel vialetto, disegnava bianchi rettangoli nel mio salotto. Il giovane pallido e biondo che osservai attraverso lo
spioncino era fermo a qualche passo dalla porta d'ingresso, la testa abbassata, il collo di una giacca di pelle tirato su fino alle orecchie. Sentivo
la Ruger solida e dura nella mia mano, e mentre aprivo la ficcai nella tasca
della casacca della tuta. Non lo riconobbi finché non ci ritrovammo faccia
a faccia.
«Dottoressa Scarpetta?» chiese lui nervosamente.
Non lo invitai a entrare. Tenevo la destra nella tasca, stretta intorno al
calcio del revolver.
«La prego di scusarmi se mi presento alla porta di casa in questo modo»
disse. «Ho chiamato il suo ufficio e mi hanno detto che era in ferie. Ho
trovato il suo nome nell'elenco, ma la linea era occupata. Così ho concluso
che doveva essere in casa. Io, be', avevo seriamente bisogno di parlarle.
Posso entrare?»
Di persona sembrava ancora più innocuo che sulla videocassetta mostratami da Marino.
«Di che si tratta?» chiesi in tono fermo.
«Beryl Madison» rispose. «Ah, a proposito, io mi chiamo Al Hunt. Non
le ruberò troppo tempo. Promesso.»
Mi spostai e lo lasciai entrare. Sedette sul divano e la faccia gli si fece
bianca come l'alabastro, mentre i suoi occhi si posavano fugacemente sul
calcio del revolver, spuntato dalla mia tasca intanto che mi accomodavo a
mia volta sulla poltrona, a distanza di sicurezza.
«Ah, vedo che ha una pistola» disse.
«Sì, ce l'ho.»
«Non mi piacciono le pistole.»
«Non sono molto piacevoli» convenni.
«No, signora» fece lui. «Mio padre mi portò a caccia di cervi, una volta,
quand'ero ragazzo. Uccise una femmina di daino. Piangeva. La daina, intendo: stramazzò su un fianco e rimase a piangere. Non sono mai riuscito a
sparare a nulla.»
«Conosceva Beryl Madison?» chiesi.
«La polizia. La polizia me ne ha parlato» balbettò. «Un tenente. Marino,
tenente Marino. È venuto all'autolavaggio in cui lavoro e mi ha parlato, poi
mi ha chiesto di seguirlo in Centrale. Abbiamo chiacchierato per un bel
po'. Era là che Beryl Madison portava la macchina. Ecco come la conobbi.»
Mentre continuava a divagare, non potei fare a meno di chiedermi quali
"colori" irradiasse la mia persona. Azzurro acciaio? Forse un accenno di
rosso vivo, perché ero allarmata e facevo del mio meglio per non darlo a
vedere? Presi in considerazione l'idea di ordinargli di andarsene. Poi quella
di chiamare la polizia. Non riuscivo a credere che Al Hunt fosse seduto in
casa mia, e se alla fine non feci nulla forse fu proprio per via della sua audacia e della mistificazione da parte mia.
Lo interruppi. «Signor Hunt...»
«La prego, mi chiami Al.»
«Va bene, Al» dissi. «Perché desiderava vedermi? Se ha delle informazioni, perché non si è rivolto al tenente Marino?»
Le sue guance avvamparono e si guardò le mani imbarazzato.
«Quello che ho da dirle non appartiene alla categoria delle informazioni
che si danno alla polizia» disse. «Ho pensato che lei potesse capire.»
«Perché lo ha pensato? Lei non mi conosce» obiettai.
«Lei si occupa di Beryl. Di norma, le donne sono più intuitive e sensibili
degli uomini.»
Forse era tutto lì. Forse Hunt era venuto da me solo perché credeva che
non lo avrei umiliato. Mi stava fissando, adesso: un'espressione ferita, addolorata negli occhi, prossima a trasformarsi in panico.
«Le è mai capitato di sapere qualcosa con certezza, dottoressa Scarpetta»
mi chiese, «anche senza avere nessuna prova a sostegno delle sue convinzioni?»
«Non sono una chiaroveggente, se è questo che mi sta chiedendo» rispo-
si.
«Sta cercando di apparire razionale.»
«Io sono razionale.»
«Ma ho provato quella sensazione!» insisté Al, i suoi occhi erano disperati, adesso. «Sa bene cosa intendo, vero?»
«Sì» dissi. «Penso di sapere cosa intende, Al.»
Parve sollevato e trasse un respiro profondo. «Io so delle cose. So chi ha
assassinato Beryl.»
Non ebbi alcuna reazione visibile.
«Io so chi è, so cosa pensa, cosa sente e perché l'ha fatto» disse emozionandosi. «Se glielo dico, mi promette di prendermi sul serio, di considerare
le mie parole con attenzione e non... Be', non voglio che lei corra dalla polizia. Quelli non capirebbero. È d'accordo, vero?»
«Considererò con grande attenzione quello che ha da dirmi» risposi.
Si sporse in avanti sul divano, gli occhi luminosi in quel volto esangue
alla El Greco. Portai istintivamente la mano destra alla tasca. Sentivo l'impugnatura di gomma del revolver contro le dita.
«La polizia non capisce» riprese. «Quelli non sono capaci di capirmi. Di
capire perché io abbia lasciato la psicologia, per esempio. Non sanno spiegarselo. Ho una laurea di secondo livello. E vuole saperlo? Ho fatto l'infermiere e adesso sto lavorando in un autolavaggio. Le pare che la polizia
possa capirlo, questo?»
Non risposi.
«Quand'ero un ragazzino sognavo di fare lo psicologo, l'assistente sociale, forse addirittura lo psichiatra» proseguì. «Mi veniva tutto così naturale.
Era quello che dovevo essere, quello che le mie capacità mi portavano a
essere.»
«Ma non lo è diventato» gli ricordai. «Perché?»
«Perché è un lavoro che mi avrebbe distrutto» rispose, distogliendo gli
occhi. «Non riesco a controllare quello che mi succede. Partecipo così
completamente ai problemi e alle idiosincrasie della gente da venirne
completamente assorbito, soffocato. Non avevo realizzato quanto tutto ciò
potesse essere drammatico finché non passai un po' di tempo in un'unità
giudiziaria. Per pazzi criminali. Sa, rientrava nel mio ambito di ricerca, la
ricerca per la mia tesi.» Stava facendosi sempre più ansioso. «Non lo dimenticherò mai. Frankie. Frankie era uno schizofrenico paranoico. Aveva
picchiato a morte sua madre con un pezzo di legna da ardere. Ebbi modo di
conoscerlo. Gli feci ripercorrere delicatamente la sua vita finché arrivam-
mo a quel pomeriggio d'inverno.
«"Frankie, Frankie" gli chiesi, "quale fu quella piccola cosa? Cosa premette quel bottone? Ti ricordi cosa ti passò nella mente, nei nervi?"
«Mi raccontò che era seduto nella sua solita sedia davanti al fuoco, a osservare le fiamme che si consumavano, quando le voci avevano cominciato
a bisbigliargli, a bisbigliargli cose terribili, derisorie. Quando sua madre
entrò lo guardò nel modo di sempre, ma questa volta Frankie lesse nei suoi
occhi. Le voci si fecero così forti che non riuscì più a pensare. Poi si sentì
bagnato e appiccicoso, mentre sua madre non aveva più faccia. Si ridestò
quando le voci cessarono. Non potei dormire per molte notti, dopo il suo
racconto. Ogni volta che chiudevo gli occhi vedevo Frankie piangere, coperto del sangue di sua madre. Lo capivo. Capivo quello che aveva fatto.
Chiunque fosse la persona con cui parlavo, o il racconto che udivo, mi
coinvolgeva allo stesso modo.»
Ero seduta tranquilla, i miei poteri di immaginazione spenti, la maschera
dello scienziato, del clinico, deliberatamente indossata come un abito.
«Ha mai provato voglia di uccidere qualcuno, Al?» gli chiesi.
«Tutti provano sensazioni del genere, prima o poi» rispose, quando i nostri occhi si incontrarono.
«Tutti? Pensa che sia davvero così?»
«Sì. Ogni persona ne è potenzialmente capace. Di sicuro.»
«Chi ha sentito l'impulso di voler uccidere?» insistei.
«Io non possiedo una pistola o altre armi pericolose» rispose. «Perché
non voglio rischiare di cedere a un impulso. Una volta che ti sei visto nell'atto di fare qualcosa, una volta che ti sei lasciato prendere dal meccanismo che sta dietro il gesto, la strada è stata imboccata. Può accadere. Di
fatto, ogni evento nefando che accade in questo mondo è stato prima concepito nel pensiero. Noi non siamo solo buoni o solo cattivi, una cosa o
l'altra.» Gli tremava la voce. «Anche quelli classificati come matti hanno
le loro ragioni per fare quello che fanno.»
«Che ragioni c'erano dietro ciò che è accaduto a Beryl?» chiesi.
I miei pensieri erano precisi e chiaramente definiti. E tuttavia mi sentivo
male dentro, mentre cercavo di fissare le immagini: le macchie scure sulle
pareti, le ferite da lama concentrate sul suo petto, i libri in ordine sullo
scaffale, in paziente attesa di essere letti.
«La persona che l'ha fatto l'amava» disse lui.
«Una maniera piuttosto brutale di dimostrarlo, non trova?»
«L'amore può essere brutale» rispose.
«Lei l'amava?»
«Eravamo molto simili.»
«In che senso?»
«In sintonia.» Prese a studiarsi le mani. «Soli, sensibili, incompresi. Per
questo era così distante, diffidente, inavvicinabile. Io non so nulla di lei...
voglio dire nessuno mi ha mai detto niente su di lei. Eppure intuivo come
era dentro. Intuivo che era molto consapevole di sé, del proprio valore, ma
profondamente amareggiata dal prezzo che doveva pagare per la propria
diversità. Era ferita. Non so da cosa. Qualcosa l'aveva ferita. Questo mi
spingeva a interessarmi di lei. Volevo raggiungerla perché sapevo che l'avrei capita.»
«Perché non l'ha raggiunta?»
«Le circostanze non si presentarono. Forse, se l'avessi conosciuta da
qualche altra parte...» rispose.
«Mi dica della persona che le fece questo, Al» dissi. «Avrebbe potuto
raggiungerla, se le circostanze si fossero presentate?»
«No.»
«No?»
«Le circostanze non si sarebbero mai presentate perché lui non è all'altezza e lo sa» disse Hunt.
La sua improvvisa trasformazione era sconcertante. Adesso faceva lo
psicologo. La sua voce era più calma. Era profondamente concentrato, con
le mani strettamente intrecciate in grembo.
«Lui ha un'opinione molto bassa di se stesso» stava dicendo, «ed è incapace di esprimere sentimenti in maniera costruttiva. L'attrazione si trasforma in ossessione, l'amore si fa patologico. Quando ama, deve possedere, perché si sente così insicuro e indegno, così facilmente vulnerabile. E
poiché il suo amore segreto non è ricambiato, la sua ossessione cresce. Si
fissa al punto che le sue capacità di reazione e azione si fanno limitate. È
come Frankie quando sente le voci. C'è qualcos'altro che lo guida. Non ha
più controllo.»
«È un tipo intelligente?» chiesi.
«Abbastanza.»
«Che istruzione ha?»
«I suoi problemi sono tali che non è capace di operare secondo le capacità intellettuali di cui dispone.»
«Perché lei?» chiesi. «Perché scelse Beryl Madison?»
«Lei è libera e famosa, lui no» rispose Hunt, con gli occhi che gli brilla-
vano. «Pensa di essere attratto da lei, ma c'è di più. Vuole possedere le
qualità che gli mancano. Vuole possedere lei. In un certo senso, vuole essere lei.»
«Intende dire che sapeva che Beryl era una scrittrice?»
«C'è molto poco che gli si può nascondere. In un modo o nell'altro, aveva scoperto che era una scrittrice. Sapeva talmente tante cose su di lei che
quando Beryl cominciò ad accorgersene, si sentì terribilmente violata e
profondamente impaurita.»
«Mi dica di quella sera» lo pregai. «Cosa accadde la sera in cui Beryl
morì, Al?»
«So soltanto quello che ho letto sui giornali.»
«Cosa ha letto sui giornali?»
«Beryl era a casa» fece lui, guardando altrove. «E stava facendosi tardi,
quando lui si presentò alla porta. Molto probabilmente lei lo fece entrare.
A un certo punto, prima di mezzanotte, lui lasciò la casa e il sistema d'allarme scattò. Era stata pugnalata a morte. C'era stato un tentativo di aggressione sessuale. Questo è quanto ho letto.»
«Ha nessuna teoria rispetto a quello che può essere successo?» chiesi in
tono calmo. «Idee che vadano al di là di ciò che ha letto?»
Al si chinò in avanti, mentre il suo aspetto cambiava di nuovo, drammaticamente. I suoi occhi si accesero di emozione. Il labbro inferiore cominciò a tremargli.
«Vedo delle scene nella mia mente» disse.
«Di che tipo?»
«Cose che non vorrei dire alla polizia.»
«Io non sono la polizia» gli ricordai.
«Loro non capirebbero» disse. «Sono cose che vedo e sento senza avere
alcuna ragione di saperle. È come per Frankie.» Ricacciò indietro le lacrime. «È come per gli altri. Riuscivo a vedere quello che accadeva e a capirlo, anche se non sempre mi era dato di cogliere i dettagli. Ma non sempre
si ha bisogno dei dettagli. In parecchi casi non si ha nemmeno la possibilità di conoscerli. Lei sa perché è così, vero?»
«Non ne sono sicura...»
«Perché i Frankie del mondo non conoscono i dettagli, nemmeno loro! È
come un brutto incidente che non si può ricordare. La consapevolezza ritorna come al risveglio da un brutto sogno e ci si ritrova naufraghi. La madre che non ha più faccia. O Beryl che è piena di sangue e morta. I Frankie
si ridestano mentre stanno scappando o un poliziotto che loro non ricorda-
no di avere chiamato si ferma davanti a casa.»
«Mi sta dicendo che il killer di Beryl non ricorda esattamente ciò che fece?» chiesi prudente.
Al annuì.
«Ne è proprio sicuro?»
«Il più abile psichiatra potrebbe interrogarlo per un milione di anni: non
ci sarebbe mai un accurato replay» disse Hunt. «La verità non sarà mai conosciuta. Deve essere ricreata e, in una certa misura, dedotta.»
«Che è quanto lei ha fatto. Ricreato e dedotto» dissi.
Si inumidì il labbro inferiore. Ansimava. «Vuole che le racconti ciò che
vedo?»
«Sì» risposi.
«Era passato molto tempo dal suo primo contatto con lei» iniziò. «Ma lei
non aveva alcuna consapevolezza di lui come persona, anche se poteva averlo visto da qualche parte in precedenza: l'aveva visto e non lo sapeva
nemmeno. Furono la sua frustrazione, la sua ossessione a spingerlo alla
porta della sua casa. Qualcosa diede la spinta iniziale a tutto il resto, gli suscitò un irresistibile bisogno di confrontarsi con lei.»
«Cosa?» chiesi. «Cosa gli diede la spinta iniziale?»
«Non lo so.»
«Cosa sentì quando decise di darle la caccia?»
Hunt chiuse gli occhi e disse: «Rabbia. Rabbia perché non riusciva a far
andare le cose come voleva lui».
«Rabbia perché non poteva avere una relazione con Beryl?»
Gli occhi ancora chiusi, Hunt scosse lentamente la testa da una parte all'altra e rispose: «No. Forse questo è solo quello che affiorava in superficie. Ma la radice era molto più profonda. Rabbia perché niente funzionava
nel modo in cui aveva desiderato all'inizio».
«Quand'era bambino?» chiesi.
«Sì.»
«Era stato violentato?»
«Sul piano emotivo» disse Hunt.
«Da chi?»
Gli occhi ancora chiusi. «Da sua madre. Quando uccise Beryl, uccise sua
madre.»
«Legge libri di psicologia criminale, Al? Si interessa di questi problemi?» chiesi.
Hunt aprì gli occhi e mi fissò come se non avesse sentito la mia doman-
da.
«Deve capire quante volte aveva immaginato quel momento» riprese,
emozionato. «Non si trattò di un impulso, non nel senso che si precipitò a
casa di lei senza premeditazione. La scelta del momento forse fu impulsiva, ma il modo era stato progettato con cura meticolosa. Non poteva assolutamente permettersi che Beryl si allarmasse e si rifiutasse di farlo entrare. Avrebbe chiamato la polizia, avrebbe fornito loro una descrizione. E
anche se non lo avessero arrestato, sarebbe stato come perdere la maschera, non sarebbe più stato capace di avvicinarsi di nuovo a lei. Aveva ideato
un piano che lo garantiva dal fallimento, qualcosa che non avrebbe insospettito Beryl. Quando si presentò alla sua porta, quella sera, le ispirò fiducia. E lei lo fece entrare.»
Immaginai mentalmente l'assassino nell'atrio di Beryl, ma non riuscivo a
vedere la faccia o il colore dei capelli: appena una sagoma indistinta e lo
scintillio della lunga lama d'acciaio, l'arma che aveva usato per assassinarla.
«Ecco come le cose precipitarono per lui» proseguì Hunt. «Ciò che accadde, poi non l'avrebbe ricordato. Il panico di lei, il terrore di lei non gli
risultano piacevoli. Non aveva previsto bene questa parte del rituale.
Quando lei cominciò a correre, cercando di scappare, quando lui vide il
panico nei suoi occhi, comprese pienamente che lei lo rifiutava. Capì la
cosa orribile che stava facendo e il disprezzo per se stesso si trasformò in
disprezzo per lei. Così, perse rapidamente il controllo della situazione,
mentre si riduceva in un essere totalmente infimo. Un killer. Un distruttore. Un selvaggio che lacerava e tagliava e infliggeva dolore. Le grida di lei,
il suo sangue erano orribili, e più distruggeva e deturpava il tempio che aveva adorato tanto a lungo, meno riusciva a sopportarne la vista.»
Al mi guardò come svuotato, il viso privo di ogni emozione. «Riesce a
seguirmi» mi chiese, «dottoressa Scarpetta?»
«Sto ascoltando» fu tutto quello che potei rispondere.
«Lui è in ognuno di noi» disse.
«E prova rimorso, Al?»
«È al di là del rimorso» precisò. «Non penso che si senta bene rispetto a
ciò che ha fatto, non credo nemmeno che se ne renda conto pienamente.
Gli sono rimasti dei sentimenti confusi. Dentro di sé non la lascerà morire.
Si interroga su di lei, rivive i suoi contatti con lei e si illude che la sua relazione con lei sia stata la più profonda, la più intensa di tutte perché è stato
a lui che Beryl ha pensato quando ha tratto l'ultimo respiro: e questo è il
massimo di intimità con un altro essere umano. Nelle sue fantasie si immagina che lei continui a pensare a lui anche dopo morta. Ma la sua parte
razionale è insoddisfatta e frustrata. Nessuno può appartenere completamente a un'altra persona. Ed è appunto questo che sta cominciando a scoprire.»
«Cosa intende dire?» chiesi.
«Il suo gesto non può assolutamente produrre l'effetto desiderato» rispose Hunt. «Lui dubita di quell'intimità... proprio come non si sentiva mai sicuro dell'intimità con sua madre. La sfiducia, di nuovo. E ci sono altre persone, adesso, che hanno una ragione più legittima per avere con Beryl una
relazione più profonda della sua.»
«Per esempio?»
«La polizia.» I suoi occhi si concentrarono su di me. «E lei.»
«Perché stiamo indagando sul suo assassinio?» chiesi, mentre un brivido
mi percorreva la spina dorsale.
«Sì.»
«Perché ci stiamo occupando di lei, e la nostra relazione con lei è più
pubblica della sua?»
«Sì.»
«Dove conduce tutto questo?» chiesi allora.
«Cary Harper è morto.»
«L'ha ucciso lui, Harper?»
«Sì.»
«Perché?» Accesi nervosamente una sigaretta.
«Quello che ha fatto a Beryl è stato un atto d'amore» rispose Hunt.
«Quello che ha fatto a Harper è stato un atto di odio. Adesso lui soggiace a
impulsi di odio. Chiunque sia collegato a Beryl è in pericolo. E questo è
quello che volevo dire al tenente Marino, alla polizia. Ma sapevo che non
sarebbe servito a niente. Lui... loro avrebbero pensato solo che mi manca
qualche rotella.»
«Chi è lui?» chiesi. «Chi ha ucciso Beryl?»
Al Hunt si spostò verso il fondo del divano sfregandosi la faccia con le
mani. Quando alzò gli occhi, aveva le guance chiazzate di rosso.
«Jim Jim» sussurrò.
«Jim Jim?» chiesi sconcertata.
«Non lo so.» La sua voce si ruppe. «Continuo a sentire quel nome nella
mia testa, a sentirlo e risentirlo...»
Restai completamente immobile.
«Molto tempo fa lavoravo al Valhalla Hospital» disse Al.
«L'unità giudiziaria?» lo interruppi. «Questo Jim Jim era uno dei pazienti al tempo in cui lei era là?»
«Non ne sono sicuro.» Le emozioni si stavano addensando nei suoi occhi come una tempesta. «Sento il suo nome e vedo quel luogo. I miei pensieri si volgono indietro verso ricordi indistinti. Come se venissi risucchiato in un gorgo. È tutto così confuso, adesso. Jim Jim. Jim Jim. Come uno
sferragliare di treno. Il rumore non si ferma. Mi fa male alla testa.»
«Quando fu?» chiesi.
«Dieci anni fa» gridò.
Hunt non poteva avere lavorato alla tesi di laurea a quel tempo, calcolai.
Era solo verso la fine della sua adolescenza.
«Al» dissi, «lei non stava facendo nessuna ricerca nell'unità giudiziaria.
Era là come paziente, non è vero?»
Si coprì la faccia con le mani e scoppiò a piangere. Quando finalmente
recuperò sufficiente controllo, si rifiutò di parlare ancora. Profondamente
angosciato, com'era naturale, borbottò che era in ritardo per un appuntamento e quasi si precipitò fuori dalla porta. Il mio cuore stava correndo a
più non posso e non riusciva a rallentare. Mi preparai una tazza di caffè e
andai su e giù per la cucina, cercando di pensare al da farsi. Quando il telefono squillò, sussultai.
«Kay Scarpetta, per favore.»
«Sono io.»
«Sono John, dell'Amtrak. Ho finalmente trovato la sua informazione, signora. Vediamo... Sterling Harper acquistò un biglietto di andata e ritorno
sul Virginian per il ventisette di ottobre, con ritorno il trentuno. Secondo i
miei dati, lei era sul treno, o se non lei, almeno qualcuno con i suoi biglietti. Vuole sapere l'ora?»
«Sì, la prego» dissi, e presi nota. «Quali stazioni?»
«Partenza da Fredericksburg» rispose. «Destinazione Baltimora.»
Cercai di chiamare Marino. Era fuori. Quando mi ritelefonò, con notizie
sue, era ormai sera.
«Vuoi che venga?» chiesi, stordita.
«Non ne vedo la necessità» la voce di Marino sembrava lontana. «Non
ci sono dubbi su quello che ha fatto. Ha scritto un biglietto e se l'è appuntato alle mutande. Ha scritto che gli dispiaceva, ma che non ce la faceva più.
Tipico. Niente di sospetto sulla scena. Stiamo per andarcene. C'è il dottor
Coleman, qui» aggiunse, riferendosi a uno dei miei medici legali locali.
Poco dopo avermi lasciato, Al Hunt era tornato a casa, un edificio coloniale di mattoni a Ginter Park, dove viveva con i genitori. Aveva preso
carta e penna dallo studio del padre e imboccato le scale che conducevano
nello scantinato. Lì, si era tolto la cintura di pelle nera e aveva lasciato
scarpe e pantaloni sul pavimento. Quando più tardi la madre era scesa per
caricare la lavatrice, aveva trovato il figlio appeso a un tubo, nella lavanderia.
11
Dopo mezzanotte cominciò a cadere una pioggia gelida e la mattina dopo il mondo era come vetrificato. Sabato restai in casa. La conversazione
con Al Hunt continuava a tornarmi alla mente facendomi trasalire nella solitudine dei miei pensieri, come il ghiaccio che, sgelando, improvvisamente crepitava nel terreno sotto la mia finestra. Mi sentivo in colpa. Come
ogni altro comune mortale sfiorato da un suicidio, nutrivo la fallace convinzione che avrei potuto fare qualcosa per impedirlo.
Quasi intontita, lo aggiunsi alla lista: quattro persone erano morte. Due
per omicidio a evidente opera di maniaci, due no, e tuttavia tutti e quattro i
casi erano in qualche modo legati. Forse da un filo arancione vivo. Sabato
e domenica lavorai nel mio studio in casa: in ufficio mi avrebbero solo ricordato che non ero in servizio. E poi, non mi sentivo più indispensabile, il
lavoro poteva andare avanti senza di me: la gente mi cercava e poi moriva,
rispettati colleghi come il procuratore generale volevano risposte, e io non
ne avevo.
Reagii nell'unico e debole modo che conoscevo. Mi piazzai davanti al
computer digitando annotazioni sui casi e studiando attentamente alcuni
libri di consultazione. Feci anche un sacco di telefonate.
Non rividi Marino finché non ci incontrammo alla stazione Amtrak in
Staples Mill Road, il lunedì mattina. Avanzammo tra due treni in attesa,
nell'aria scura e ventosa riscaldata dai motori e odorosa di petrolio. Trovammo posto in fondo al nostro treno e riprendemmo la conversazione iniziata in stazione.
«Il dottor Masterson non si è mostrato propriamente loquace» dissi riferendomi allo psichiatra di Hunt, mentre sistemavo la borsa da spesa che
avevo con me. «Ma ho il sospetto che si ricordi di Hunt un po' più di quanto non ammetta.» Perché mi capitavano sempre posti col poggiapiedi rotto?
Marino sbadigliò vigorosamente e abbassò il suo, che funzionava alla
perfezione. Non mi propose di scambiarci i posti: se lo avesse fatto, avrei
accettato.
«Quindi Hunt» rispose «avrebbe avuto diciotto-diciannove anni, all'epoca in cui era in manicomio.»
«Sì, in cura per una grave depressione» dissi.
«Già, be', me lo immagino.»
«Cosa vorresti dire?»
«Che i tipi come lui sono sempre depressi.»
«Qual è il suo tipo, Marino?»
«Diciamo solo che mi è passata per la mente più di una volta la parola
finocchio, mentre gli parlavo.»
La parola finocchio passava per la mente di Marino più di una volta
quando parlava con chiunque fosse in qualche modo diverso da lui.
Il treno prese a scivolare silenzioso, come una barca che si stacca da un
molo.
«Vorrei che tu avessi registrato quella conversazione» proseguì, sbadigliando di nuovo.
«Col dottor Masterson?»
«No, quella con Hunt. Quando è venuto da te.»
«È stata una discussione accademica, senza importanza» risposi con un
senso di disagio.
«Non so. Ho l'impressione che quel pazzo sapesse una quantità di cose.
Vorrei che fosse rimasto qui a bazzicare in giro ancora un po', voglio dire.»
Quello che Hunt mi aveva riferito in salotto sarebbe stato importante se
fosse stato ancora vivo e non avesse avuto un alibi di ferro. La polizia aveva setacciato la casa dei genitori senza trovare nulla che potesse collegarlo
agli omicidi di Beryl Madison e Cary Harper. Tanto più che, la sera della
morte di Beryl, Hunt stava pranzando con i genitori al country-club, e al
momento dell'assassinio di Harper si trovava con loro all'opera. Le deposizioni erano già state verificate: i genitori di Hunt dicevano la verità.
Sobbalzammo, ondeggiammo e sferragliammo verso nord, il fischio del
treno che sibilava sinistro.
«È stata la storia con Beryl, la goccia che ha fatto traboccare il vaso»
stava dicendo Marino. «Se vuoi sapere la mia opinione, si è identificato
con l'assassino a tal punto da averne paura, per questo si è tolto dalla circolazione, è sparito prima di cedere.»
«Mi sembra più probabile che Beryl gli abbia riaperto la vecchia ferita»
risposi. «Che gli abbia ricordato la sua incapacità di avere rapporti.»
«È come se lui e il killer fossero fatti della stessa stoffa. Tutti e due incapaci di avere un rapporto con le donne. Tutti e due perdenti.»
«Hunt non era un violento.»
«Forse stava prendendo quella piega e non riusciva ad accettarlo» osservò Marino.
«Non sappiamo chi abbia ucciso Beryl e Harper» gli ricordai. «Non sappiamo se sia stato uno come Hunt. Non lo sappiamo affatto, e non abbiamo
ancora nessuna idea circa il movente. Potrebbe essere altrettanto probabile
che l'assassino sia un tipo alla Jeb Price. O un certo Jim Jim.»
«Jim Jim un cazzo» fece lui, sprezzante.
«Non penso che sia il caso di tralasciare nulla, a questo punto, Marino.»
«Ascolta: se ti imbatti in un Jim Jim che si è laureato all'Ospedale Valhalla per fare il terrorista part-time e portare a spasso delle fibre acriliche
arancioni, fammi un fischio.» Si sistemò sul sedile e, borbottando, chiuse
gli occhi. «Ho bisogno di una vacanza.»
«Anch'io ho bisogno di una vacanza da te.»
La sera prima mi aveva chiamato Benton Wesley per parlare di Hunt, e
io gli avevo riferito dove stavo andando e perché. Un'evidente imprudenza,
da parte mia, andare da sola, aveva detto: visioni di terroristi, mitragliette e
proiettili si erano subito messe a danzare davanti ai suoi occhi. Aveva preteso che venisse anche Marino, e la cosa avrebbe anche potuto starmi bene,
non si fosse rivelata una tale tortura. Non avendo trovato posti disponibili
su quello delle sei e trentacinque del mattino, Marino aveva prenotato per
entrambi sull'unico treno di tutta la stazione in partenza alle quattro e quarantotto del mattino. Così, alle tre di notte mi ero avventurata in città per
prelevare dal mio ufficio la scatola di styrofoam adesso dentro la borsa da
spesa. Mi sentivo fisicamente prostrata, il deficit di sonno sempre più evidente. Nessun Jeb Price al mondo aveva bisogno di farmi fuori. Potevano
tutti risparmiarsi il disturbo: sarebbe stato sufficiente il mio angelo custode, Marino.
Altri passeggeri stavano sonnecchiando, le luci sopra le loro teste ancora
spente. Presto il treno cominciò a procedere lentamente nel cuore dell'Ashland. Mi interrogai sulle persone che vivevano in quelle case dai lindi
serramenti bianchi, a ridosso dei binari; le finestre erano scuri, nudi pennoni che ci rivolgevano rigidi saluti dalle verande. Superammo le facciate
ancora addormentate dei negozi sulla strada - un barbiere, una cartoleria,
una banca - quindi guadagnammo velocità e girammo attorno al campus
del Randolph-Macon College, con i suoi edifici georgiani e il suo campo
d'atletica gelato e popolato nel chiarore lunare di quell'ora da una fila di
variopinte panchine da football. Oltre la città c'erano boschi e ammassi di
argilla rossa. Mi appoggiai allo schienale, rapita dal ritmo del treno. Più ci
allontanavamo da Richmond, più mi rilassavo, finché, assolutamente senza
volerlo, mi abbandonai al sonno.
Non sognai, ma restai incosciente per circa un'ora e quando riaprii gli
occhi vidi l'azzurro dell'alba al di là del vetro. Stavamo passando sul Quantico. L'acqua era peltro lucidato che catturava la luce in scaglie e increspature. C'erano delle barche. Pensai a Mark. Pensai alla nostra notte a New
York e ai tempi lontani della nostra relazione. Non lo avevo più sentito
dall'ultimo enigmatico messaggio registrato dalla mia segreteria telefonica.
Mi domandai cosa stesse facendo, e tuttavia avevo paura di saperlo.
Marino si raddrizzò, fissandomi con aria intontita. Era l'ora della colazione e delle sigarette, non necessariamente nell'ordine.
La carrozza ristorante era affollata di clienti in stato semicomatoso che
avrebbero potuto trovarsi, perfettamente intonati al luogo, in qualsiasi stazione di autobus d'America. Un giovanotto dormicchiava al ritmo della
musica che gli trasmettevano gli auricolari; una donna stanca reggeva in
braccio un bambino agitato; una vecchia coppia stava giocando a carte.
Trovammo un tavolo libero in un angolo e io mi accesi una sigaretta, mentre Marino andò a occuparsi della colazione. La sola cosa positiva che potrei dire sul sandwich preconfezionato al prosciutto e uova con cui tornò
indietro è che era caldo. Il caffè non era cattivo.
Marino strappò il cellophane con i denti e lanciò un'occhiata alla borsa
da spesa che avevo sistemato accanto a me sul sedile. Dentro c'era il contenitore di styrofoam con i campioni del fegato di Sterling Harper, flaconcini del suo sangue e di contenuto gastrico, tutto imballato in ghiaccio secco.
«Quanto manca perché si sciolga?» chiese.
«Ce la faremo comodamente, salvo deviazioni impreviste» risposi.
«Tempo in abbondanza, ecco tutto ciò di cui disponiamo. Ti spiace rileggermi il pezzo su quel fottuto sciroppo per la tosse? Ero mezzo addormentato, ieri sera, mentre me ne parlavi.»
«Sì, mezzo addormentato, esattamente come stamattina.»
«A te non capita mai di essere stanca?»
«Sono così stanca, Marino, che non sono nemmeno sicura di sopravvive-
re.»
«Be', niente scherzi. Non ho nessuna intenzione di andare a consegnare
quelle schifezze da solo» disse, allungando la mano verso il caffè.
«L'elemento attivo nell'antitosse che abbiamo trovato nel bagno di Sterling Harper» cominciai a spiegare con la lentezza di una conferenza registrata, «è il destrometorfan, un succedaneo della codeina. Il destrometorfan
è innocuo, a meno di non ingerirne una dose potente. È l'isomero -d di un
composto il cui nome non ti dirà niente...»
«Ah, sì? Come fai a sapere che non mi dirà niente?»
«Tri-metoxi-N-metilmorfinan.»
«Hai ragione. Non mi dice un dannato accidente.»
«C'è un'altra medicina» proseguii, «che è l'isomero -1 dello stesso composto di cui il destrometorfan è l'isomero -d. Il composto dell'isomero -1 è
il levometorfan, un narcotico circa cinque volte più potente della morfina.
E la sola differenza tra i due medicinali, analizzati attraverso uno strumento ottico chiamato polarimetro, è che il destrometorfan ruota leggermente
verso destra e il levometorfan leggermente verso sinistra.»
«In altre parole, senza questo strumento non si può vedere la differenza
tra i due prodotti» concluse Marino.
«Non nei controlli tossicologici ordinari» risposi. «Il levometorfan non
si distingue dal destrometorfan perché il composto è lo stesso. La sola differenza distinguibile è che al polarimetro piegano lievemente in direzioni
opposte, proprio come fanno il saccarosio -d e il saccarosio -1, anche se,
da un punto di vista strutturale, sono entrambi lo stesso disaccaride. Il saccarosio -d è lo zucchero da tavola. Il saccarosio -1, invece, non ha valore
nutritivo per gli esseri umani.»
«Non sono sicuro di capire» disse Marino, sfregandosi gli occhi. «Come
possono due composti essere gli stessi, ma differenti?»
«Pensa al destrometorfan e al levometorfan come gemelli identici» dissi.
«Non sono la stessa persona ma sembrano la stessa persona, eccetto che
uno è destro e l'altro mancino. Uno è innocuo, l'altro abbastanza forte da
uccidere. Ti aiuta a capire?»
«Già, penso di sì. Insomma, quanto levometorfan sarebbe occorso alla
Harper per farsi fuori?»
«Probabilmente sarebbero bastati trenta milligrammi. Quindici compresse da due milligrammi, in altre parole» risposi.
«Vuoi forse dire che lo ha fatto?»
«Sarebbe scivolata molto rapidamente in una profonda narcosi e quindi
morta.»
«Pensi che Sterling Harper sapesse di questa faccenda dell'isomero?»
«Potrebbe» risposi. «Sappiamo che aveva un cancro, e sospettiamo anche che volesse mascherare il proprio suicidio: forse questo spiega la plastica fusa nel caminetto e le ceneri di quello che ha bruciato poco prima di
morire, di qualunque cosa si trattasse. È possibile che abbia lasciato deliberatamente fuori la bottiglia di sciroppo per la tosse, per sviarci. Dopo
averla vista, non mi sono sorpresa quando dall'esame tossicologico è saltato fuori il destrometorfan.»
La Harper non aveva parenti in vita, pochissimi amici, forse nessuno, e
non mi aveva dato l'idea di una persona che viaggiasse spesso. Dopo aver
appreso del suo recente viaggio a Baltimora, la prima cosa che mi era venuta in mente era stato il John Hopkins, che ha una delle migliori cliniche
oncologiche del mondo. Un paio di rapide telefonate mi avevano confermato che vi si era recata in visite periodiche per controlli del sangue e
del midollo osseo, una routine relativa a una malattia sulla quale ovviamente era stata alquanto riservata. Nell'apprendere della medicina, i frammenti si erano improvvisamente ricomposti nella mia mente: i laboratori
della mia sede non disponevano di un polarimetro, né permettevano in alcun altro modo di controllare il levometorfan. Il dottor Ismail dell'Hopkins
mi aveva promesso di aiutarmi se gli avessi fornito i campioni necessari.
Non erano ancora le sette, ed eravamo appena usciti dal distretto di Columbia. Dopo una serie di boschi e di paludi, la città apparve all'improvviso e il bianco del Jefferson Memorial luccicò attraverso un varco fra gli alberi. Gli alti stabili a uffici erano così vicini da poter scorgere piante e paralumi attraverso le finestre perfettamente lustre; poi il treno sprofondò
sottoterra come una talpa nascondendosi sotto il Mall.
Trovammo il dottor Ismail nel laboratorio di farmacologia della clinica
oncologica. Aprendo la borsa da spesa, posai la piccola scatola di styrofoam sulla sua scrivania.
«Sono questi i campioni di cui mi ha parlato?» chiese con un sorriso.
«Sì» risposi. «Dovrebbero essere ancora gelati. Siamo venuti qui direttamente dalla stazione.»
«Se le concentrazioni sono buone, potrò darle una risposta in un giorno
o poco più» disse.
«Che cosa farà, di preciso, con quella roba?» domandò Marino guardandosi intorno nel laboratorio, non diverso da qualsiasi altro.
«È molto semplice, davvero» rispose con pazienza il dottor Ismail.
«Prima di tutto un estratto del campione gastrico. Sarà la parte più lunga,
più meticolosa del test. Dopodiché porrò l'estratto sul polarimetro, una
specie di telescopio con lenti rotatorie. Guarderò attraverso l'oculare e ruoterò la lente verso sinistra e verso destra. Se il medicinale è destrometorfan
piegherà leggermente a destra, il che significa che nel corso della rotazione
la luce nel mio campo visivo si farà più viva. Per il levometorfan, vale
l'opposto.»
Continuò spiegando che il levometorfan era un analgesico molto efficace, prescritto quasi esclusivamente per i malati terminali di cancro. Poiché
il medicinale era stato messo a punto proprio lì, il dottore aveva una lista
di tutti i pazienti dell'Hopkins trattati con lo stesso ritrovato, allo scopo di
verificarne lo spettro terapeutico. Il premio extra, per noi, era che aveva
una scheda relativa alle cure somministrate a Sterling Harper.
«Veniva ogni due mesi per il controllo del sangue e del midollo osseo, e
a ogni visita le veniva consegnata una scorta di circa duecentocinquanta
compresse da due milligrammi» disse il dottor Ismail, spianando le pagine
di un voluminoso registro. «Vediamo... La sua ultima visita fu il ventotto
ottobre. Dovevano esserle rimaste almeno settantacinque compresse, se
non un centinaio.»
«Non le abbiamo trovate» dissi.
«Peccato.» Sollevò gli occhi scuri con un'espressione di tristezza. «Stava
andando così bene. Una donna molto gradevole. Mi faceva sempre piacere
vederla, insieme alla figlia.»
«La figlia?» chiesi dopo un momento di sconcertato silenzio.
«Presumo. Una giovane donna, bionda...»
«Era con lei» si intromise Marino «la volta scorsa, l'ultimo weekend di
ottobre?»
Il dottor Ismail aggrottò la fronte. «No. Non ricordo di averla vista, allora. Era sola.»
«Da quanti anni veniva qui?» chiesi.
«Devo tirare fuori il suo dossier. Ma so che veniva da diverso tempo.
Almeno due anni.»
«Sua figlia, la giovane bionda, era sempre con lei?»
«Non così spesso, all'inizio» rispose. «Ma nel corso dell'ultimo anno la
accompagnava in ogni visita, eccetto l'ultima d'ottobre e probabilmente la
precedente. Mi aveva colpito. Quando si è così malati, be', è bello avere il
sostegno della famiglia.»
«Dove alloggiava, Sterling Harper, quando veniva qui?» I muscoli della
mascella di Marino stavano di nuovo distendendosi.
«Molti dei pazienti alloggiano negli alberghi dei dintorni, ma la Harper
amava il porto» disse il dottor Ismail.
Le mie reazioni erano rallentate dalla tensione e dalla mancanza di sonno.
«Lei non sa quale albergo, di preciso?» insisté Marino.
«No. Non ne ho idea...»
Improvvisamente mi baluginarono in testa le immagini dei frammenti di
parole battute a macchina sulla sottile pellicola di cenere bianca.
Li interruppi entrambi. «Potrei avere l'elenco del telefono, per favore?»
Quindici minuti dopo Marino e io eravamo in strada, in cerca di un taxi.
Splendeva il sole, ma faceva piuttosto freddo.
«Accidenti» disse di nuovo. «Spero che tu abbia ragione.»
«Lo scopriremo in fretta» risposi, tesa.
Sugli elenchi telefonici commerciali figurava un hotel chiamato Harbor
Court. bor Co, bor C. Continuavo a vedere le minuscole lettere nere sui
frammenti di carta bruciata. L'hotel era uno dei più lussuosi della città, in
fondo alla strada di Harbor Piace.
«Ti dico quello che penso» proseguì Marino, mentre un altro taxi ci passava davanti senza fermarsi. «Perché tanti scrupoli? Insomma la Harper si
uccide, giusto? Perché preoccuparsi di farlo in un modo tanto misterioso?
Riesci a spiegartelo?»
«Sterling Harper era una donna orgogliosa. Il suicidio, probabilmente, le
appariva un atto poco dignitoso. Per questo forse desiderava non destare
sospetti e ha scelto di togliersi la vita mentre ero in casa sua.»
«Ma perché?»
«Forse perché non voleva che il suo cadavere venisse trovato una settimana dopo.» Il traffico era terribile e stavo cominciando a chiedermi se
non ci sarebbe toccato camminare fino al porto.
«E tu pensi davvero che lei sapesse di questa faccenda dell'isomero?»
«Credo di sì» dissi.
«Come poteva?»
«Perché forse desiderava morire con dignità, Marino. È possibile che
premeditasse il suicidio da parecchio tempo, nel caso che la leucemia si
fosse aggravata: non voleva soffrire o far soffrire gli altri. Il levometorfan
era una scelta perfetta. C'erano molte possibilità che non venisse mai scoperto, purché in casa fosse stato trovato un antitosse al destrometorfan.»
«Merda, incredibile!» si meravigliò quando un taxi uscì dal traffico e
puntò dalla nostra parte. «Mi fa impressione, sai? Davvero.»
«È tragico.»
«Non lo so.» Aprì un pacchetto di gomme da masticare e cominciò a
biascicarne una con vigore. «A me non piacerebbe restare inchiodato a
nessun letto d'ospedale, con tubi infilati su per il naso. Forse avrei ragionato anch'io come lei.»
«Sterling Harper non si è uccisa per il cancro.»
«Lo so» disse Marino, mentre scendevamo dal marciapiede. «Ma c'è
comunque un nesso. Deve esserci. Non sarebbe rimasta a lungo a questo
mondo, in ogni caso. Poi Beryl viene assassinata. Subito dopo viene fatto
fuori anche il fratello.» Rabbrividì. «Perché restare in circolazione?»
Salimmo sul taxi e diedi l'indirizzo all'autista. Per dieci minuti procedemmo in silenzio. Poi il taxi rallentò fin quasi a fermarsi e infilò uno
stretto arco che immetteva in un cortile di mattoni rallegrato da aiuole di
cavoli ornamentali e alberelli. Un usciere in marsina e cilindro mi venne
immediatamente incontro per scortarmi dentro uno splendido atrio illuminato, nei toni del rosa e del panna. Tutto era nuovo e pulito, perfettamente
lucido, con fiori freschi disposti su bei mobili e solerti dipendenti che accorrevano dove necessario, senza invadenza.
Ci guidarono in un ufficio ben arredato, dove l'elegante direttore stava
parlando al telefono. T.M. Bland, come risultava dalla targhetta in ottone
sulla scrivania, alzò gli occhi verso di noi e concluse rapidamente la telefonata. Marino non perse tempo a dirgli quello che voleva.
«La lista dei nostri ospiti è riservata» rispose il signor Bland, sorridendo
benevolo.
Marino si prese da solo una poltrona in cuoio e accese una sigaretta, a
onta del cartello "Non fumare. Grazie", appeso in bella mostra alla parete,
quindi portò la mano al portafoglio ed estrasse rapido il distintivo.
«Mi chiamo Pete Marino» disse laconico. «Polizia di Richmond, Omicidi. Questa è la dottoressa Kay Scarpetta, capo della sezione medicina legale della Virginia. Certo comprendiamo la sua insistenza sulla riservatezza,
e rispettiamo il suo hotel anche per questo, signor Bland. Ma, vede, Sterling Harper è morta. Il fratello di lei, Cary Harper, è morto. E anche Beryl
Madison è morta. Cary Harper e Beryl sono stati assassinati. Quanto alla
Harper, non siamo troppo sicuri di ciò che le è accaduto. Ecco perché siamo qui.»
«Ho letto i giornali, tenente Marino» disse il signor Bland, mentre la sua
compostezza cominciava a vacillare. «Certamente l'hotel collaborerà al
massimo con le autorità.»
«Dunque mi dice che sono stati ospiti qui» fece Marino.
«Cary Harper non è mai stato nostro ospite.»
«Ma la sorella e Beryl Madison sì.»
«Esatto» confermò il signor Bland.
«Quanto spesso? E quando è stata l'ultima volta?»
«Devo andare a prendere la scheda» rispose Bland. «Vuole scusarmi un
momento, per favore?»
Ci lasciò per non più di quindici minuti e quando tornò ci porse uno
stampato di computer.
«Come vede» riprese, rimettendosi a sedere, «Sterling Harper e Beryl
Madison sono state nostre ospiti sei volte, durante lo scorso anno e mezzo.»
«Approssimativamente ogni due mesi» pensai a voce alta, scorrendo le
date sullo stampato, «tranne l'ultima settimana di agosto e gli ultimissimi
giorni di ottobre. In seguito, risulta che la Harper è venuta qui da sola.»
Il signor Bland annuì.
«Qual era lo scopo delle loro visite?» chiese Marino.
«Affari, probabilmente. Acquisti. Semplice svago. Davvero non saprei.
Non è prassi dell'hotel controllare in questo senso gli ospiti.»
«E non è mia prassi preoccuparmi di ciò che riguarda i vostri clienti a
meno che non vengano assassinati» disse Marino. «Mi dica cosa ha osservato mentre le due signore erano qui.»
Il sorriso del signor Bland scomparve ed egli sfilò nervosamente una
penna a sfera d'oro da un blocchetto per appunti, dopodiché non sembrò
sapere cosa farne. Infilandola nel taschino della camicia rosa inamidata, si
schiarì la gola.
«Posso solo dirle quello che ho notato» azzardò.
«La prego» fece Marino.
«Le due donne arrivavano ognuna per proprio conto, di solito Sterling
Harper la sera prima di Beryl Madison, e spesso non partivano nello stesso
momento o insieme.»
«Cosa intende per non "partivano nello stesso momento"?»
«Intendo dire che magari saldavano il conto lo stesso giorno, ma non necessariamente nello stesso momento, e che non sceglievano necessariamente lo stesso mezzo di trasporto. Non lo stesso taxi, ad esempio.»
«Erano entrambe dirette alla stazione ferroviaria?» domandai.
«Credo che la Madison prendesse spesso la limousine per l'aeroporto»
rispose il signor Bland. «Ma penso che la Harper d'abitudine viaggiasse in
treno.»
«Quanto alla sistemazione?» chiesi, studiando lo stampato.
«Già» interferì Marino. «Su questo foglio non c'è scritto nulla circa la
loro stanza.» Picchiettò lo stampato col dito indice. «Prendevano una doppia o una singola? Un letto o due?»
«Alloggiavano sempre in una matrimoniale che dava sul porto» rispose
il signor Bland, mentre le sue guance arrossivano all'allusione. «Erano ospiti dell'hotel, tenente Marino, se proprio ha bisogno di conoscere questo
dettaglio, certamente non destinato a pubblicità.»
«Ehi, ma per chi mi prende, per un maledetto reporter?»
«Vuole dire che stavano nel suo hotel gratuitamente?» chiesi confusa.
«Sì, signora.»
«Le spiace chiarire meglio?» incalzò Marino.
«Era un desiderio di Joseph McTigue» rispose il signor Bland.
«Prego?» mi sporsi in avanti e lo guardai dura. «L'imprenditore edile di
Richmond? Si riferisce a quel Joseph McTigue?»
«Il povero signor McTigue è stato uno dei valorizzatori di gran parte
della zona del porto. Le sue proprietà comprendevano sostanziali interessi
in questo albergo» rispose lui. «Era sua richiesta che ospitassimo Sterling
Harper con ogni riguardo, e abbiamo continuato a onorare la sua volontà
anche dopo la sua morte.»
Qualche minuto dopo porgevo un dollaro all'usciere, prima che Marino e
io salissimo su un taxi.
«Ti spiace dirmi chi diavolo sia questo Joseph McTigue?» chiese Marino, mentre ci inserivamo nel traffico. «Ho la sensazione che tu lo sappia.»
«Sono andata a trovare sua moglie a Richmond. Chamberlayne Gardens.
Te ne ho già parlato.»
«Santa merda.»
«Sì, ci sono rimasta anch'io di sasso» convenni.
«Vuoi dirmi cosa diavolo ne deduci?»
Non lo sapevo, ma stava cominciando a sorgermi un sospetto.
«Mi sembra alquanto bizzarro» proseguì. «A cominciare dal fatto che
Sterling Harper prendesse il treno, mentre Beryl Madison, di solito, l'aereo,
quando erano dirette tutte e due nello stesso posto.»
«Non è così strano» obiettai. «Certamente non potevano viaggiare insieme. Sterling Harper e Beryl Madison non potevano correre un rischio
simile. Non dovevano avere più nulla a che fare l'una con l'altra, ricordi?
Se Cary Harper andava a prendere la sorella alla stazione ferroviaria, Beryl
non avrebbe avuto modo di scomparire improvvisamente, in caso lei e la
Harper avessero viaggiato insieme.» Feci una pausa. Avevo un'altra idea.
«Potrebbe anche darsi che la Harper stesse dando un contributo al libro di
Beryl, che le passasse delle informazioni sulla sua famiglia.»
Marino stava guardando fuori dal finestrino.
«Se vuoi sapere la mia opinione» disse, «penso che quelle due fossero
insospettabili lesbiche.»
Vidi gli occhi incuriositi del taxista nello specchietto retrovisore.
«Credo si amassero» commentai semplicemente. «Insomma, può darsi
che avessero una piccola relazione, che si incontrassero ogni due mesi qui
a Baltimora dove non le conosceva nessuno o dove nessuno prestava loro
la minima attenzione.»
«Sai» insisté Marino, «forse è per questo che Beryl decise di scappare a
Key West. Se era lesbica, si sarebbe sentita a casa sua, là.»
«La tua avversione per l'omosessualità è eccessiva, per non dire noiosa.
Dovresti stare attento. Potresti attirare sospetti su di te.»
«Come no!» disse Marino, tutt'altro che divertito.
Restai in silenzio.
«Il fatto è che forse Beryl si era trovata una giovane amica» proseguì,
«mentre era laggiù.»
«Magari faresti bene a verificare la cosa.»
«Scordatelo, amica mia. Non c'è modo che vada a farmi punzecchiare da
qualche maledetta zanzara nella capitale americana dell'Aids. E parlare con
un branco di finocchi non è esattamente il mio concetto di divertimento.»
«Ti risulta che la polizia della Florida abbia controllato i suoi contatti,
laggiù?» chiesi in tono serio.
«Due di loro mi hanno detto di avere dato un'occhiata in giro. Un incarico poco piacevole, hanno raccontato. Avevano paura a mangiare qualsiasi
cosa, persino a bere l'acqua. Uno degli omosessuali del ristorale di cui
Beryl ha parlato nelle sue lettere sta morendo di Aids proprio adesso. I poliziotti sono stati costretti a indossare guanti tutto il tempo.»
«Durante le interviste?»
«Eh, già. Maschere chirurgiche, anche: almeno quando hanno interrogato il morente. Non sono venuti a capo di nulla, nessuna informazione che
valesse un accidente.»
«Immagino di no» commentai. «Impensabile che la gente si apra, se la
tratti da lebbrosa.»
«Se mi domandi cosa ne penso, farebbero meglio a segare quella parte
della Florida e a mandarla alla deriva.»
«Be', fortunatamente nessuno te lo ha domandato.»
Quando tornai a casa, verso sera, mi aspettavano numerosi messaggi registrati dalla segreteria.
Sperai che uno fosse di Mark. Sedetti sul bordo del letto con un bicchiere di vino in mano, ascoltando con scarso entusiasmo le voci che uscivano
dall'apparecchio.
Bertha, la mia cameriera, aveva l'influenza e annunciava che non sarebbe potuta venire il giorno dopo. Il procuratore generale voleva incontrarmi
a colazione il mattino seguente e proseguiva riferendo che l'esecutore testamentario di Beryl Madison avrebbe adito le vie legali per il manoscritto
mancante. Tre reporter avevano chiamato per un commento, e mia madre
voleva sapere se a Natale preferivo tacchino o prosciutto: un modo ingenuo per scoprire se poteva contare su di me almeno per una festività, quell'anno.
Non riconobbi la voce sommessa che seguì.
«... Hai dei capelli così biondi. Sono naturali o te li tingi, Kay?»
Riavvolsi il nastro. Aprii freneticamente il cassetto del comodino.
«... Sono naturali o te li tingi, Kay? Ho lasciato un piccolo dono per te
sulla tua veranda posteriore.»
Stordita e con la Ruger in mano, riascoltai il nastro ancora una volta. La
voce era quasi un sussurro, molto calma e decisa. Un maschio bianco. Non
riuscii a riconoscere alcun particolare accento, ad avvertire alcuna emozione nel tono. L'eco dei miei passi sulle scale mi angosciò. Accesi le luci in
ogni stanza in cui passavo. La veranda posteriore era oltre la cucina.
Quando mi accostai a un lato della finestra panoramica che guardava sul
beccatoio, il mio cuore batteva forte. Tirai appena le tende, il revolver levato in aria, la canna puntata verso il soffitto.
La luce che filtrava dalla veranda respingeva l'oscurità dal prato e delineava le forme degli alberi nella boscosa tenebra ai margini del terreno. Il
portico di mattoni era deserto. Non vidi nulla, né sul pavimento né sui gradini. Chiusi le dita intorno alla manopola della porta e restai immobile, il
cuore che mi martellava in petto mentre aprivo la serratura.
Percepii appena una raschiata contro la superficie esterna della porta di
legno. Appena vidi ciò che si profilava sulla maniglia esterna, sbattei la
porta così forte da far tremare i vetri.
Quando telefonai a Marino, ebbi l'impressione di averlo tirato giù dal
letto.
«Corri subito qui!» gridai, la voce un'ottava sopra la norma.
«Resta ferma dove sei» rispose con decisione. «Non aprire la porta a
nessuno finché non sono lì. Hai capito? Sto arrivando.»
Quattro macchine di pattuglia occupavano la strada di fronte a casa mia.
Nell'oscurità, gli agenti frugavano con lunghe dita di luce fra boschi e cespugli.
«L'unità K-9 sta arrivando» disse Marino, appoggiando la ricetrasmittente sul tavolo di cucina. «Dubito che l'individuo sia nei paraggi, ma prima
di spostarci dobbiamo esserne certi.»
Era la prima volta che lo vedevo in jeans: sarebbe parso elegantemente
casual, non fosse stato per i calzini bianchi da ginnastica, i mocassini dozzinali e la blusa della tuta sportiva grigia troppo striminzita. L'odore del
caffè fresco riempiva la cucina. Ne stavo filtrando una pentola abbastanza
grande da bastare per metà del vicinato. I miei occhi si posavano inquieti
all'intorno, in cerca di cose da fare.
«Ripetimi tutto daccapo, ma adagio» disse Marino, accendendosi una sigaretta.
«Stavo ascoltando i messaggi alla segreteria telefonica» ripetei. «Quando sono arrivata all'ultimo ho sentito questa voce maschile, un bianco, giovane. Devi ascoltarla di persona. Ha detto qualcosa sui miei capelli, voleva
sapere se me li schiarisco.» Gli occhi di Marino si puntarono fastidiosamente sulle radici dei miei capelli. «Poi ha detto che mi aveva lasciato un
regalo sulla veranda posteriore. Sono scesa da basso, qui in cucina, ho
guardato fuori dalla finestra e non ho visto niente. Non so cosa mi aspettavo. Non lo so. Qualcosa di terribile in una scatola, in carta da regalo.
Quando ho aperto la porta, ho sentito qualcosa graffiare contro il legno.
Era agganciato al pomello esterno.»
Dentro una busta di plastica per le prove, al centro del tavolo, c'era un
insolito medaglione d'oro attaccato a una spessa catena, anch'essa d'oro.
«Sei sicuro che sia quello che indossava Harper alla taverna?» chiesi di
nuovo.
«Oh, sì» rispose Marino, la faccia tirata. «Non ho dubbi. Come adesso
non ho più dubbi su dove sia rimasto per tutto questo tempo. L'assassino
l'ha preso dal cadavere di Harper e te lo manda come regalo, un anticipo
sul Natale. Sembra quasi che il nostro amico si sia innamorato di te.»
«Ti prego» feci spazientita.
«Ehi, dico sul serio, okay?» Non stava sorridendo, mentre tirava la busta
più vicino ed esaminava la catena attraverso la plastica. «Vedi che il gancio e l'anellino sono piegati? Ho quasi l'impressione che si sia rotta quando
l'assassino l'ha strappata dal collo di Harper. Poi, forse, l'ha aggiustata con
delle pinzette. Probabilmente l'ha anche indossata. Merda.» Scosse la cenere. «Trovata qualche ferita attribuibile alla catena, sul collo di Harper?»
«Non era rimasto granché del suo collo» gli ricordai con voce opaca.
«Hai mai visto un medaglione come questo?»
«No.»
Ricordava una sorta di blasone, in oro da diciotto carati, ma non c'era inciso niente, tranne la data: 1906, sul retro.
«A giudicare dai quattro marchi di gioiellieri impressi qui, penso che sia
inglese» dissi. «I marchi sono un codice universale per indicare quando,
dove e da chi il medaglione è stato fatto. Un gioielliere potrebbe interpretarli. So che non è italiano...»
«Capo...»
«Avrebbe avuto un sette-cinquanta impresso sul retro, per diciotto carati
d'oro, cinquecento per l'equivalente di quattordici carati...»
«Capo...»
«Ho un consulente gioielliere da Schwarzschild's...»
«Ehi» disse forte Marino. «Non ha importanza, va bene?»
Stavo continuando a blaterare come una vecchia isterica.
«Nemmeno l'intero dannato albero genealogico di tutti quelli che hanno
posseduto questa catena potrà mai dirci la cosa più importante: il nome
dello squilibrato che l'ha appesa alla tua porta.» I suoi occhi si addolcirono
un po', e abbassò la voce. Cos'hai da bere, in questa casa? Brandy. Hai un
brandy?»
«Sei in servizio.»
«Non per me» fece lui, ridendo. «Per te. Vai a versartene tanto così.»
Toccandosi con il pollice la nocca centrale del dito indice, indicò cinque
centimetri. «Poi parleremo.»
Andai al mobile bar e tornai con un bicchierino di brandy. Lo sentii bruciare, mentre scendeva: istantaneamente cominciò a diffondere calore attraverso il sangue. Smisi di rabbrividire. Smisi di tremare. Marino mi
guardava con espressione strana. La sua attenzione cominciò a darmi la
consapevolezza di molte cose. Avevo ancora indosso lo stesso abito spie-
gazzato con cui ero tornata in treno da Baltimora. Il collant mi punzecchiava alla vita e faceva delle borse sulle ginocchia. Ero conscia di un bisogno furioso di lavarmi la faccia e di spazzolarmi i denti. Il cuoio capelluto mi pizzicava. Ero certa di avere un aspetto terribile.
«Questo individuo non minaccia a vuoto» disse Marino con calma, mentre sorseggiavo il brandy.
«Probabilmente se la sta prendendo con me perché sono implicata nel
caso. Mi provoca. Non è insolito per gli psicopatici prendersi gioco degli
investigatori, o mandare dei souvenir.» Non ci credevo molto. Certamente,
Marino non ci credeva neanche un po'.
«Farò appostare un'unità o due qui fuori. Terremo d'occhio la casa» disse. «E ho un paio di regole per te. Seguile alla lettera. Niente imprudenze.»
Incontrò i miei occhi. «Tanto per cominciare, qualunque siano le tue abitudini, voglio che tu le sconvolga il più possibile. Se di solito vai dal droghiere il venerdì pomeriggio, vacci di mercoledì, la prossima volta, e cambia negozio. Non mettere mai piede fuori casa o fuori dalla macchina senza
prima guardarti intorno. Se noti qualcosa che dà nell'occhio, come un'auto
strana parcheggiata in strada o una prova che qualcuno ha violato la tua
proprietà, vattene subito o sprangati qui dentro e chiama la polizia. Quando cammini in casa tua, se hai sentore di qualcosa - intendo anche il solo
provare una sensazione che ti fa rabbrividire - esci, cerca un telefono e
chiama la polizia perché ti mandino un agente con cui rientrare e accertarti
che tutto sia in ordine.»
«Ho un allarme» dissi.
«Ce l'aveva anche Beryl.»
«Ma lei lo fece entrare.»
«Tu non farai entrare nessuno di cui tu non sia sicura.»
«Pensi che potrebbe eludere il mio sistema di allarme?» insistei.
«Tutto è possibile.»
Ricordai di aver già sentito quella frase da Wesley.
«Non lasciare l'ufficio dopo il tramonto o quando non c'è nessuno in giro. Lo stesso dicasi per quando arrivi. Se sei abituata a entrare quando è
ancora piuttosto buio e il parcheggio vuoto, cerca di arrivare un pochino
più tardi. Tieni in funzione la segreteria telefonica. Registra tutto. Se ricevi
un'altra chiamata, avvertimi immediatamente. Un paio ancora e metteremo
sotto controllo la linea...»
«Come hai fatto con Beryl?» Stavo cominciando ad arrabbiarmi.
Marino non rispose.
«Che cosa devo pensare, Marino? Che anche i miei diritti saranno rispettati solo ad aggressione avvenuta? Quando sarà troppo tardi perché possano rivelarsi in qualche modo utili?»
«Vuoi che dorma sul tuo divano, stanotte?» mi chiese in tono calmo.
Affrontare il mattino successivo sarebbe stato abbastanza difficile. Immaginai Marino in calzoncini boxer, una T-shirt tesa sulla grossa pancia
mentre si trascinava in direzione del bagno. Probabilmente era uno di quegli uomini che lasciano il sedile alzato.
«Me la caverò» risposi.
«Hai il porto d'armi per la pistola, non è vero?»
«Per portarmi in giro un'arma nascosta?» chiesi. «No.»
Spinse indietro la sedia e decise. «Farò una chiacchierata col giudice
Reinhard, domattina. Te ne procureremo una.»
Fu tutto. Era quasi mezzanotte.
Pochi momenti dopo ero sola e incapace di dormire. Mi versai un altro
goccio di brandy, poi un altro ancora e restai a letto a fissare il soffitto scuro. Quando te ne succedono un po' troppe, gli altri cominciano a chiedersi
se non sia tu stesso ad attirarti i guai, se non funzioni come una sorta di calamita che attrae la sfortuna o il pericolo o il malanno. Be', cominciavo a
chiedermelo anch'io. Forse Ethridge aveva ragione, mi lasciavo assorbire
troppo dai miei casi e finivo per espormi a dei rischi. Ne avevo già corsi in
precedenza, rischi che avrebbero potuto mandarmi dritta al creatore.
Quando finalmente sprofondai nel sonno, sognai cose senza senso. Ethridge che si faceva un buco nel panciotto con la cenere del sigaro. Fielding che trasformava un cadavere in una sorta di puntaspilli perché non
riusciva a trovare un'arteria con del sangue. Marino che si arrampicava con
un trampolo a molla su per una ripida collina, mentre io sapevo che sarebbe caduto.
12
Prima dell'alba ero già in salotto, al buio, a fissare le ombre e le forme
del mio giardino.
La Plymouth non era ancora tornata dal garage governativo. Fissando la
smisurata giardinetta che mi restava a disposizione, mi sorpresi a chiedermi quanto poteva essere difficile per un adulto nascondersi là sotto e agguantarmi un piede mentre aprivo la portiera del guidatore. Non avrebbe
avuto bisogno di uccidermi. Sarei morta prima, di infarto. La strada era
vuota, i lampioni diffondevano una luce fioca. Sbirciando attraverso la
tenda appena scostata, non vidi nulla. Non sentii nulla. Non c'era nulla che
mi sembrasse fuori posto. Probabilmente era sembrato tutto come al solito
anche a Cary Harper, quando era rientrato in macchina dalla taverna.
Mancava meno di un'ora al mio appuntamento per la colazione con il
procuratore generale. Sarei arrivata in ritardo, se non trovavo il coraggio di
uscire dalla porta e superare i trenta passi di marciapiede che conducevano
alla macchina. Studiai gli arbusti e i piccoli alberi di corniolo che bordavano il prato, esaminando le loro sagome silenziose, mentre il cielo gradualmente si rischiarava. La luna era un disco iridescente, una bianca gloria del
mattino, e l'erba argentata di brina.
Com'era arrivato alle loro case, a casa mia? Doveva pur avere un mezzo
di trasporto. Era stata data scarsa considerazione al mezzo di trasporto del
killer. Il tipo di veicolo è utile quanto l'età e la razza, nella ricostruzione
del profilo di un criminale, e tuttavia nessuno aveva fatto commenti, nemmeno Wesley. Mi domandai perché, mentre fissavo la strada vuota. E l'atteggiamento cupo di Wesley a Quantico continuava a preoccuparmi.
Manifestai la mia perplessità mentre facevo colazione con Ethridge.
«Semplicemente, potrebbero esserci cose che Wesley sceglie di non dirti» azzardò lui.
«È sempre stato molto aperto con me, in passato.»
«Il Bureau tende a essere molto riservato, Kay.»
«Wesley ricostruisce profili di criminali» insistei. «È sempre stato generosamente esplicito rispetto alle sue ipotesi e opinioni. Ma in questo caso
non parla. Si limita ad abbozzare appena la situazione. È cambiato, non ha
più il suo senso dell'umorismo e mi guarda a stento negli occhi. È misterioso e mi dà incredibilmente sui nervi.»
Trassi un profondo respiro.
«Ti senti ancora isolata, vero, Kay?»
«Sì, Tom.»
«E anche un po' paranoica.»
«Sì, anche» confessai.
«Ti fidi di me, Kay? Credi che sia dalla tua parte e che pensi solo al tuo
interesse?» chiese.
Annuii e trassi un altro respiro profondo.
Parlavamo a voce bassa, nella sala da pranzo del Capitol Hotel, tempio
prediletto da politici e plutocrati. Tre tavoli più in là sedeva il senatore Partin, la faccia più rugosa di quanto non ricordassi; parlava in tono serio a un
giovanotto che avevo già notato da qualche altra parte, in precedenza.
«Molti di noi si sentono isolati e un po' paranoici, nei momenti di stress.
Soli in terra selvaggia.» Gli occhi di Ethridge mi fissavano con calore, la
sua faccia era preoccupata.
«Io sono sola in terra selvaggia» risposi. «Mi sento così perché è vero.»
«Posso capire perché Wesley sia preoccupato.»
«Ovviamente.»
«Quello che mi impensierisce di te, Kay, è che nelle tue teorie fai leva
sull'intuizione, agisci d'istinto. A volte può essere molto pericoloso.»
«A volte. Ma può essere anche molto pericoloso complicare troppo le
cose. Di solito un omicidio è qualcosa di tristemente semplice.»
«Non sempre, però.»
«Quasi sempre, Tom.»
«Tu non pensi che le macchinazioni di Sparacino siano collegate a queste morti?»
«Penso che sarebbe troppo facile lasciarsi fuorviare. Le manovre di Sparacino e quelle del killer potrebbero essere treni che corrono su binari paralleli. Sono tutti e due pericolosi, perfino mortali. Ma non la stessa cosa.
Non sono collegati. Non sono spinti dalle stesse forze.»
«Tu non pensi che c'entri il manoscritto scomparso?»
«Non lo so.»
«Non hai qualche idea nuova su dove possa essere finito?»
La domanda mi fece sentire come se non avessi fatto i compiti a casa.
Avrei tanto preferito che non me la rivolgesse.
«No, Tom» ammisi. «Non ho idea di dove sia finito.»
«È possibile che fosse ciò che Sterling Harper aveva bruciato nel caminetto appena prima di morire?»
«Non credo. I frammenti di carta carbonizzata analizzati appartengono a
una carta pesante, carta di stracci di alta qualità. Quella che si usa per le
lettere importanti o che adoperano gli avvocati per i documenti legali. È
molto improbabile che qualcuno scrivesse una bozza di libro su carta del
genere. È più probabile che Sterling Harper avesse bruciato delle lettere,
qualche documento personale.»
«Lettere di Beryl Madison?»
«Non possiamo escluderlo» risposi, anche se, per quel che mi riguardava, io l'avevo quasi escluso.
«O forse lettere di Cary Harper?»
«È stata trovata una discreta quantità di documentazione privata di Cary
Harper, in casa sua» dissi. «E nulla fa pensare che fosse stata manomessa o
esaminata di recente.»
«Se le lettere erano di Beryl Madison, perché Sterling Harper le avrebbe
bruciate?»
«Non so» risposi, sapendo che Ethridge stava pensando di nuovo a Sparacino.
Sparacino si era mosso rapidamente. Avevo letto il testo della causa, tutte e trenta le pagine. Accusava me, la polizia, il governatore. L'ultima volta
che mi ero fatta viva con Rose, mi aveva informato che aveva telefonato la
rivista "People" e che uno dei suoi fotografi si era messo a scattare fotografie davanti all'edificio il giorno dopo che gli era stato proibito di spingersi oltre l'atrio. Stavo diventando famosa, ed ero già abbastanza abile nel
rifiutare commenti e rendermi preziosa.
«Pensi che abbiamo a che fare con uno psicopatico, vero?» mi chiese
Ethridge a bruciapelo.
La fibra acrilica arancione connessa o meno ai dirottatori: ecco a cosa
pensavo, e glielo dissi.
Abbassò gli occhi sulla colazione consumata per metà e quando li rialzò
restai turbata da ciò che vi scorsi. Tristezza, dispiacere. Una terribile riluttanza.
«Kay» cominciò, «non esiste un modo facile per dirtelo.»
Allungai la mano verso un biscotto.
«Ma devi saperlo. Non importa cosa sta accadendo o perché, non importa quali siano le tue convinzioni o opinioni personali, devi sentire quello
che sto per dirti.»
Decisi che preferivo fumare e tirai fuori le sigarette.
«Ho un contatto. Ti basti dire che è un consigliere privato del Dipartimento di Giustizia...»
«Riguarda Sparacino» lo interruppi.
«Riguarda Mark James» disse.
Se il procuratore generale si fosse messo a imprecarmi dietro, non avrei
potuto sentirmi più infastidita.
«Cos'hai da dirmi su Mark?»
«Mi domando se non dovrei essere io a chiedere a te una cosa simile,
Kay.»
«A cosa ti riferisci, per l'esattezza?»
«Siete stati visti insieme a New York, qualche settimana fa, da Gallagher's.» Una pausa imbarazzata. Dopo alcuni colpetti di tosse, aggiunse
goffamente: «Sono anni che non ci metto piede».
Fissai il fumo che si sprigionava dalla mia sigaretta.
«A quanto ricordo, le bistecche non sono niente male...»
«Smettila, Tom» dissi con calma.»
«Un sacco di simpatici scozzesi, in quel posto, sempre pronti a prendersi
una sbornia o a scherzare...»
«Smettila, dannazione» sbottai, un po' troppo a voce alta.
Il senatore Partin guardò dritto al nostro tavolo, gli occhi vagamente incuriositi si posarono veloci su Ethridge, quindi su di me. Il cameriere accorse improvvisamente a versare altro caffè, domandando se avevamo bisogno di qualcosa. Mi sentivo fastidiosamente accaldata.
«Non raccontarmi balle, Tom» ripresi. «Chi mi ha visto?»
Fece un cenno vago. «Quello che conta è come lo conosci.»
«Lo conosco da molto tempo.»
«Questa non è una risposta.»
«Dai tempi della scuola legale.»
«Eravate amici?»
«Sì.»
«Amanti?»
«Gesù, Tom.»
«Mi spiace, Kay. È importante.» Picchiettandosi le labbra con il tovagliolo, tese la mano per afferrare il caffè, gli occhi che vagavano inquieti
nella sala da pranzo. Ethridge era molto a disagio. «Diciamo solo che avete
trascorso insieme gran parte della notte, a New York. All'Omni.»
Le mie guance bruciavano.
«Non me ne importa un accidente della tua vita privata, Kay. E dubito
che importi a chicchessia. Eccetto in questo caso. Sai, mi spiace molto.» Si
schiarì la gola e finalmente riportò gli occhi su di me. «Accidenti. L'amico
di Mark, Sparacino, è sotto inchiesta da parte del Dipartimento di Giustizia...»
«Suo amico?»
«È curioso, Kay» riprese Ethridge. «Io non so come fosse Mark James
quando tu lo conoscesti alla scuola legale, ma so cosa è diventato dopo.
Conosco la sua fedina. Dopo che sei stata vista con lui, ho fatto delle indagini. Sette anni fa, a Tallahassee, si è trovato in guai seri: estorsioni, frodi,
crimini per i quali è stato condannato e per i quali ha effettivamente scontato del tempo in prigione. È stato dopo tutto questo che è finito con Sparacino, e Sparacino è sospettato di legami con la criminalità organizzata.»
Mi sentii come se una morsa mi stesse rapidamente spremendo sangue
dal cuore; probabilmente impallidii, perché Ethridge mi porse premuroso
un bicchiere d'acqua e aspettò paziente che mi ricomponessi. Ma quando
incontrai di nuovo il suo sguardo, riprese esattamente da dove aveva interrotto la sua devastante rivelazione.
«Mark non ha mai lavorato per Orndorff & Berger, Kay. L'agenzia non
ha mai sentito parlare di lui. Il che non mi sorprende. Mark James non potrebbe in alcun modo esercitare la professione legale. È stato radiato dall'albo. Pare non sia altro che il braccio destro personale di Sparacino.»
«E Sparacino lavora per Orndorff & Berger?» riuscii a chiedere.
«È il loro avvocato nel campo dello spettacolo. Almeno questo è vero»
rispose.
Non dissi nulla, le lacrime che lottavano per sgorgare.
«Tienti alla larga da lui, Kay» disse Ethridge, la voce una rude carezza
nel tentativo di essere tenero. «Per amor di Dio, taglia con quell'uomo.
Qualunque cosa ti dia questo rapporto, dacci un taglio.»
«Non mi dà un bel niente, questo rapporto» risposi tremando.
«Quand'è stata l'ultima volta che avete avuto un contatto?»
«Alcune settimane fa. Mi ha telefonato. Abbiamo parlato per non più di
trenta secondi.»
Ethridge annuì, quasi si fosse aspettato esattamente quella risposta. «La
vita del paranoico. Uno dei frutti avvelenati dell'attività criminale. Dubito
che Mark James si presti a lunghe conversazioni telefoniche, e dubito che
ti possa avvicinare se non perché vuole qualcosa. Dimmi come mai vi siete
incontrati a New York.»
«Voleva vedermi. Voleva mettermi in guardia contro Sparacino.» Aggiunsi poco convinta: «O, almeno, così disse».
«E ti mise effettivamente in guardia contro di lui?»
«Sì.»
«Che cosa ti disse?»
«Esattamente le stesse cose a cui hai accennato tu, a proposito di Sparacino.»
«Perché Mark te ne parlò?»
«Disse che voleva proteggermi.»
«Ci credi?»
«Non so più cosa credo» risposi.
«Sei innamorata di quest'uomo?»
Fissai muta il procuratore generale, i miei occhi che si facevano di pie-
tra.
«Ho bisogno di sapere quanto sei vulnerabile» riprese con voce molto
calma. «Ti prego di non pensare che la cosa mi diverta, Kay.»
Ethridge rimosse il tovagliolo dal grembo e lo piegò con cura, deliberatamente, prima di ficcarlo sotto il bordo del piatto.
«Ho ragione di temere» disse, così sommessamente che dovetti sporgermi in avanti per udirlo, «che Mark James potrebbe farti un male terribile, Kay. Ho ragione di sospettare che dietro l'irruzione nel tuo ufficio ci sia
lui...»
«Quale ragione?» lo interruppi, alzando la voce. «Di cosa stai parlando?
Quale prova...» Le parole mi si strozzarono in gola, mentre il senatore Partin e il suo giovane compagno si avvicinavano improvvisamente al nostro
tavolo. Non mi ero accorta che si erano alzati e puntavano verso di noi.
Dall'espressione dipinta sulle loro facce, capii che si erano resi conto di interrompere una conversazione difficile.
«John, felice di vederti.» Ethridge spinse indietro la sedia. «Conosci già
il capo della sezione medicina legale Kay Scarpetta, non è vero?»
«Naturalmente, naturalmente. Come sta, dottoressa Scarpetta?» Il senatore stava stringendomi la mano, sorridente, gli occhi distanti. «Questo è
mio figlio Scott.»
Notai che Scott non aveva ereditato i lineamenti duri e piuttosto grossolani del padre, né la sua corporatura tarchiata e pesante. Al contrario, si
trattava di un giovane di incredibile bellezza: alto, prestante, il viso fine e
incorniciato da magnifici capelli neri. Aveva circa vent'anni. L'ardore insolente dei suoi occhi mi infastidì. La cordialità della conversazione non
smorzò il mio turbamento, né mi sentii meglio quando padre e figlio finalmente ci lasciarono soli.
«L'ho già visto da qualche parte» dissi a Ethridge, dopo che il cameriere
ebbe di nuovo riempito le nostre tazze di caffè.
«Chi? John?»
«No, no... ovvio che avevo già visto il senatore. Sto parlando di suo figlio, Scott. Ha una faccia molto familiare.»
«Probabilmente l'hai visto in televisione» rispose Ethridge, dando un'occhiata furtiva all'orologio. «Fa l'attore, o almeno ci prova. Penso sia riuscito a farsi dare qualche particina in un paio di quei drammoni sentimentali a
puntate.»
«Oh, mio Dio» mormorai.
«Forse anche qualche ruolo secondario nel cinema. Viveva in California,
adesso sta a New York.»
«No!» esclamai sbalordita.
Ethridge posò la tazza e puntò gli occhi calmi su di me.
«Come faceva a sapere che avremmo fatto colazione qui stamattina,
Tom?» chiesi, sforzandomi di controllare la voce, mentre le immagini mi
riaffioravano alla mente. Gallagher's: il giovanotto solitario che beveva
birra due tavoli più in là.
«Non so come lo sapesse» rispose Ethridge, gli occhi che brillavano di
segreta soddisfazione. «Ti basti dire che non sono sorpreso, Kay. Il giovane Partin mi sta pedinando da giorni.»
«Non sarà lui il tuo contatto col Dipartimento della Giustizia...»
«Buon Dio, no» disse Ethridge, deciso.
«Sparacino?»
«Penso di sì. Questo avrebbe più senso, non trovi, Kay?»
«Perché?»
Si mise a studiare il conto, poi disse: «Per essere sicuro di quello che
succede. Per spiare. Per intimidire». Mi lanciò uno sguardo. «Fai la tua
scelta.»
Scott Partin mi aveva colpito come uno di quei giovani indipendenti
spesso assorti nella propria cupa bellezza. Ricordai che da Gallagher's aveva continuato a leggere il "New York Times" e a bere malinconico la
sua birra. L'avevo notato distrattamente soltanto perché è difficile non notare le persone di grande bellezza, così come una splendida composizione
floreale.
Provai l'impulso di raccontare tutto a Marino, mentre più tardi, quella
mattina, scendevamo con l'ascensore verso il primo piano della mia sede.
«Ne sono certa» ripetei. «Era seduto a due tavoli da noi, da Gallagher's.»
«E non c'era nessuno con lui?»
«Nessuno. Stava leggendo. Beveva una birra. Non penso che fosse lì a
mangiare, ma in realtà non lo ricordo» risposi, mentre attraversavamo un
ampio magazzino pieno di cartoni e di polvere.
La mia mente e il mio cuore correvano, volevano sottrarsi all'ennesima
bugia di Mark. Mi aveva assicurato che Sparacino non sapeva del mio arrivo a New York, che la sua apparizione al ristorante era stata una coincidenza. La cosa non poteva essere vera. Aveva mandato il giovane Partin a
spiarmi, quella sera, e se l'aveva fatto significava che Sparacino era al corrente della mia presenza lì, con Mark.
«Be', c'è un altro modo per spiegare la cosa» disse Marino, mentre avanzavamo tra le polverose viscere del mio edificio. «Diciamo che uno dei
modi in cui il giovane Partin sopravvive nella Grande Mela è fare qualche
spiata part-time per Sparacino, okay? Potrebbe darsi che fosse stato mandato a pedinare Mark, non te. Ricorda, fu Sparacino a raccomandare quella
steak house a Mark, o almeno così ti disse lui. Quindi, Sparacino aveva
modo di sapere che Mark sarebbe andato a cena là, quella sera. Sparacino
dice a Partin di andare sul posto a controllare cosa fa Mark. Partin esegue,
è seduto da solo a bere una birra quando voi due entrate, Forse, a un certo
punto, sguscia fuori per telefonare a Sparacino, gli dà l'imbeccata. Bingo!
Subito dopo, come sai, Sparacino arriva nel locale.»
Avrei voluto credere a quella spiegazione.
«Ma è solo una teoria» aggiunse.
E sapevo che non potevo crederci. La verità, mi ricordai con durezza, era
che Mark mi aveva tradito, che era il criminale descritto da Ethridge.
«Devi prendere in considerazione ogni possibilità» concluse Marino.
«Naturalmente» borbottai.
In fondo a un altro stretto corridoio ci fermammo davanti a una pesante
porta di metallo. Trovata la chiave giusta, ci immettemmo nel poligono
dove gli esperti in armi da fuoco effettuavano tiri di prova con ogni tipo di
arma immaginabile. Era una stanza grigia, di blocchi di calcestruzzo corrosi dal piombo, un'intera parete coperta da un cartellone forato e gremita di
centinaia di pistole e mitragliatrici confiscate dai tribunali e rilasciate al laboratorio. Infilati nelle rastrelliere c'erano fucili a pallini e carabine. La parete opposta era di acciaio pesante, rinforzata al centro e butterata da migliaia di raffiche sparate negli anni. Marino puntò verso un angolo dove
nudi manichini di torsi, fianchi, teste e gambe erano accatastati in un orrido mucchio che evocava le fosse comuni di Auschwitz.
«Preferisci la carne bianca, vero?» chiese, selezionando un pallido torace
maschile.
Lo ignorai, mentre aprivo la mia custodia ed estraevo la Ruger d'acciaio
inossidabile. La plastica scricchiolò, mentre Marino rovistava optando infine per una testa caucasica con capelli e occhi scuri. La mise sopra il torace e depose entrambi su una scatola di cartone contro la parete d'acciaio, a
circa trenta passi da noi.
«Lo fai fuori in un colpo solo» disse.
Mentre infilavo proiettili nel revolver, alzai gli occhi: Marino stava estraendo dalla cintola dei pantaloni una pistola 9 millimetri. Tirò indietro il
cursore, sollevò il caricatore, quindi lo fece scattare di nuovo al suo posto.
«Buon Natale» disse porgendomela, la sicura sollevata, l'impugnatura
verso di me.
«No, grazie» declinai, il più educatamente possibile.
«Cinque colpi con la tua e sei spacciata.»
«Se sbaglio.»
«Merda, capo. Tutti sbagliano, qualche volta. Il problema è che con la
tua Ruger puoi azzeccarne pochi.»
«Meglio qualche colpo ben piazzato con la mia. Tutto quello che fa la
tua è spruzzare piombo.»
«Ma ha una potenza estremamente superiore.»
«Lo so. Circa cento in più della mia a cinquanta passi di distanza, se uso
munizioni Silvertip Plus.»
«Per non parlare del triplo dei colpi» aggiunse Marino.
Avevo già sparato con una 9 millimetri in precedenza. Quelle pistole
non mi piacevano. Non erano precise come la mia 38 special. Non erano
altrettanto sicure, e potevano incepparsi. Non ero mai stata il tipo che sostituisce la quantità alla qualità, senza contare che nulla ripagava la conoscenza e l'esperienza.
«Basta un colpo solo» dissi, mettendomi un paio di tappi protettivi nelle
orecchie.
«Già. Se lo becchi in mezzo agli occhi, però.»
Stringendo il revolver nella mano sinistra, premetti ripetutamente il grilletto e sparai alla testa del manichino una volta, al petto tre volte; con il
quinto colpo gli sfiorai la spalla sinistra: tutto questo nel giro di pochi secondi, mentre la testa e il torso schizzavano sopra la scatola e finivano con
un tonfo sordo contro la parete d'acciaio.
Ammutolito, Marino mise la 9 millimetri su un tavolo ed estrasse la sua
.357 dalla fondina a tracolla. Potevo dire di averlo ferito nei suoi sentimenti. Senza dubbio si era dato un sacco di fastidi per trovarmi l'automatica.
Aveva pensato che mi avrebbe fatto piacere.
«Grazie, Marino» dissi.
Facendo scattare il cilindro al suo posto, alzò lentamente il revolver.
Cominciai ad aggiungere che avevo apprezzato le sue premure, ma sapevo che non poteva udirmi, e forse non stava nemmeno ascoltando.
Arretrai e mi feci da parte, mentre lui scaricava sei raffiche: la testa del
manichino saltò impazzita sul pavimento. Dopo avere velocemente sostituito il caricatore, cominciò a mirare al torace. Quando si fermò l'aria era
acre e io sapevo per certo che non avrei mai desiderato vederlo in preda a
una rabbia omicida contro di me.
«Non c'è niente come sparare a un uomo quando è a terra» dissi.
«Hai ragione.» Si tolse i tappi dalle orecchie. «Niente di paragonabile.»
Facemmo scorrere un telaio di legno lungo un binario sospeso sopra le
nostre teste e vi attaccammo un bersaglio segnapunti di carta. Quando la
scatola di cartucce fu vuota e io ebbi constatato soddisfatta che ero ancora
in grado di colpire il lato largo di un bersaglio, sparai un paio di Silvertip
per ripulire la canna e vi passai un panno Hoppe n. 9. L'odore del solvente
mi faceva sempre ripensare a Quantico.
«Ti interessa la mia opinione?» disse Marino, pulendo la sua pistola.
«Quello che ti serve a casa è un fucile a pallini.»
Non dissi nulla, mentre riponevo la Ruger nella custodia.
«Sai, qualcosa come un Remington a caricamento automatico, tre pollici
magnum doppio zero. Sarebbe come colpire il bersaglio con quindici pallottole calibro trentadue: il triplo che se lo colpissi con tutte e tre le scariche. Stiamo parlando di quarantacinque dannati pezzi di piombo. Metteresti la vittima in condizione di non nuocerti più.»
«Marino» dissi calma. «Mi va bene così, okay? Davvero non mi occorre
un arsenale.»
Lui mi fissò con uno sguardo duro. «Hai idea di cosa significa sparare a
un individuo che continua a venire avanti verso di te?»
«No, non ce l'ho» ammisi.
«Be', io sì. Una volta a New York scaricai la pistola contro un bastardo
che si era fatto di polvere d'angelo. Lo colpii quattro volte nella parte superiore del corpo, ma quello non rallentò nemmeno il passo. Sembrava una
creatura di Stephen King, continuava ad avanzare verso di me come quei
dannati morti viventi.»
Trovai dei fazzoletti di carta nelle tasche della mia giacca da laboratorio
e cominciai a ripulirmi le mani dall'olio della pistola e dal solvente.
«Il bastardo che inseguiva Beryl in casa sua, capo, era come quello, come il matto di cui ti sto dicendo. Qualunque nefandezza commetta, non accennerà a smetterla, una volta scattata la molla.»
«Quel tizio a New York» azzardai, «morì?»
«Oh, sì. Ci portarono insieme all'ospedale, sulla stessa ambulanza. Quello sì che fu un viaggio.»
«Eri ferito gravemente?»
La faccia di Marino rimase impassibile, mentre rispondeva: «No. Settan-
totto punti. Ferite superficiali. Non mi hai mai visto senza camicia. Il bastardo aveva un coltello».
«Terribile» mormorai.
«Non mi piacciono i coltelli, capo.»
«Neanche a me.»
Uscimmo. Mi sentivo sporca di lubrificante e di residui di colpi d'arma
da fuoco. Sparare sporca molto più di quanto la gente non immagini.
Mentre camminavamo, Marino cercò di sfilarsi il portafoglio dalla tasca
posteriore. Mi porse una piccola tessera bianca.
«Non ho compilato nessun modulo di domanda» dissi, fissando incredula la licenza che mi autorizzava a circolare con un'arma nascosta.
«Già, be', il giudice Reinhard mi doveva un favore.»
«Grazie, Marino» dissi.
Sorrise, tenendo aperta la portiera per farmi salire.
Nonostante le direttive di Wesley, di Marino e la voce del mio stesso
buon senso, restai nel palazzo dell'ufficio finché non fu scuro e il parcheggio rimase vuoto. Avevo gettato la spugna quando mi ero trovata di fronte
alla mia scrivania e avevo dato un'occhiata al calendario.
Rose continuava a riorganizzarmi la vita: aveva rimandato o cancellato i
miei appuntamenti e dirottato su Fielding conferenze e autopsie dimostrative. Il commissario sanitario, mio superiore diretto, aveva cercato di contattarmi tre volte, chiedendo alla fine se ero malata.
Fielding si stava abilmente allargando: adesso Rose batteva i protocolli
d'autopsia e i microdettati, lavorando per lui anziché per me. Il sole sorgeva e tramontava come sempre, e l'ufficio funzionava senza intoppi: avevo
selezionato e addestrato il mio staff molto bene. Mi chiesi come doveva
essersi sentito Dio dopo avere creato un mondo che avrebbe dovuto poter
fare a meno di Lui.
Invece di andare direttamente a casa, passai per Chamberlayne Farms.
Alle pareti dell'ascensore erano ancora appesi gli stessi avvisi scaduti. Salii
con una donnina emaciata che non mi tolse di dosso un istante i suoi occhi
tristi, aggrappata al deambulatore come un uccello al ramo.
Non avevo avvertito la signora McTigue della mia visita. Quando la porta del 378 finalmente si aprì, dopo alcuni colpi decisi, la donna restò a
sbirciare attraverso la fessura che si apriva sul suo covo fittamente stipato
di mobili, la televisione a tutto volume.
«La signora McTigue?» chiesi ripresentandomi, niente affatto sicura che
si sarebbe ricordata di me.
La porta si aprì un po' di più, mentre il suo viso si illuminava. «Sì. Diamine, ma certo! Splendido da parte sua fare un saltino a trovarmi. Vuole
entrare, prego?»
Era avvolta in una vestaglia da camera rosa, trapuntata, con pantofole intonate, e quando la seguii nel salotto spense il televisore e tolse una coperta per le ginocchia dal divano, dove evidentemente era rimasta seduta a
guardare il notiziario della sera, consumando uno spuntino a base di pane
di noci e succo di frutta.
«La prego di perdonarmi» dissi. «Le ho interrotto la cena.»
«Oh, no. Stavo solo mangiucchiando» si affrettò a rispondere. «Posso
offrirle qualcosa?»
Rifiutai garbatamente e mi sedetti, mentre lei, muovendosi qua e là,
riordinava sommariamente la stanza. Mi tornò alla memoria il ricordo di
mia nonna, del suo incrollabile umorismo, anche mentre si osservava la
pelle irrimediabilmente floscia intorno alle orecchie. Non avrei mai dimenticato la sua visita a Miami l'estate prima che morisse, quando, nel bel
mezzo della spesa, il pannolino improvvisato fatto con un paio di mutande
da uomo e imbottito di fazzolettini di carta le era sceso fino alle ginocchia
ai magazzini Woolsworth's, per colpa di una spilla di sicurezza che si era
sganciata. Se l'era tenuto stretto mentre ci affrettavamo verso una toilette
per signore, ridendo tutte e due così forte che quasi non avevo perso anch'io il controllo della vescica.
«Dicono che forse avremo neve, stanotte» disse la signora McTigue,
quando si sedette.
«È molto umido, fuori» risposi distrattamente. «E di sicuro fa abbastanza freddo per nevicare.»
«Non credo che possano prevedere quando comincerà, comunque.»
«Non mi piace guidare nella neve» commentai, la mente oppressa da
pensieri grevi e sgradevoli.
«Forse quest'anno avremo un Natale bianco. Non sarebbe eccezionale?»
«Sarebbe eccezionale.» Mi guardavo attorno invano, alla ricerca di una
macchina per scrivere.
«Non riesco a ricordare quand'è stata l'ultima volta che abbiamo avuto
un Natale bianco.»
Cercava di mitigare l'imbarazzo dando vita a quella nervosa conversazione. Sapeva che non ero venuta a trovarla senza una precisa ragione, e
probabilmente capiva che non si trattava di niente di buono.
«È proprio sicura che non posso offrirle nulla? Un bicchiere di porto?»
«No, grazie» ripetei.
Silenzio.
«Signora McTigue» esordii. I suoi occhi erano vulnerabili e incerti come
quelli di un bambino. «Mi domando se potrebbe mostrarmi di nuovo quella
fotografia. Quella che mi ha fatto vedere l'ultima volta che sono stata qui.»
Batté gli occhi parecchie volte, il sorriso sottile e pallido come una cicatrice.
«Quella di Beryl Madison» aggiunsi.
«Diamine, ma certo» rispose, alzandosi lentamente con aria rassegnata,
per andare a prenderla allo scrittoio. Quando mi porse la fotografia e le
chiesi di vedere anche la busta e il foglio color panna in cui era custodita,
il suo viso tradiva un senso di paura, o forse semplicemente di confusione.
Fin dal primo tocco seppi che era carta da venti-libbre, e quando la inclinai verso la lampada vidi in trasparenza la preziosa filigrana di Crane.
Diedi una rapida occhiata alla fotografia e la signora McTigue mi lanciò
uno sguardo sbigottito.
«Mi spiace» dissi. «So che si sta chiedendo a cosa mi serve.»
Non riusciva a parlare.
«Sono curiosa. La fotografia sembra molto più vecchia della carta da lettere.»
«Lo è» rispose, gli occhi spaventati che non mi lasciavano un istante.
«L'ho trovata fra i documenti di Joe e l'ho messa nella busta, per custodirla.»
«Questa è la sua carta da lettere?» chiesi il più affabilmente possibile.
«Oh, no.» Protese la mano verso il succo e lo sorseggiò adagio. «Era
quella di mio marito, ma gliel'avevo scelta io. Una carta intestata molto
raffinata, per i suoi affari, capisce. Dopo che morì, tenni soltanto i secondi
fogli vuoti e le buste. Ne ho più di quanti me ne serviranno mai.»
Non c'era modo di chiederglielo senza essere diretti.
«Signora McTigue, suo marito aveva una macchina per scrivere?»
«Certo, sì. L'ho data a mia figlia, a Falls Church. Io scrivo sempre a mano le mie lettere. Non più tante, per via della mia artrite.»
«Che tipo di macchina era?»
«Oh povera me» balbettò. «Non me lo ricordo, tranne che è elettrica e
nuova di zecca. Dopo un certo numero di anni Joe la dava indietro in cambio di una nuova. Sa, anche quando sono venuti fuori questi computer lui
insisteva nello sbrigare la corrispondenza come aveva sempre fatto. Burt, il
suo direttore d'ufficio, insisté per anni per convincerlo a usare il computer,
ma Joe non era disposto a rinunciare alla sua macchina per scrivere.»
«A casa o in ufficio?» chiesi.
«Diamine, in entrambi i luoghi. Spesso stava alzato fino a tardi a lavorare in studio, qui a casa.»
«E, che lei sappia, scriveva agli Harper?»
La signora McTigue aveva estratto un fazzolettino di carta dalla tasca
della vestaglia e se lo rivoltava fra le dita.
«Mi dispiace doverle fare tutte queste domande» insistei con gentilezza.
Abbassò gli occhi sulle mani nodose coperte di pelle sottile, e non disse
nulla.
«La prego» aggiunsi piano. «È importante, altrimenti non mi permetterei
di venire a disturbarla.»
«Riguarda lei, non è vero?» Il fazzoletto si stava sbrindellando e la signora McTigue non alzava lo sguardo.
«Sterling Harper?»
«Sì.»
«La prego, mi risponda, signora McTigue.»
«La signorina Harper era molto amabile. E così fine. Una donna splendida» disse.
«Suo marito corrispondeva con lei?»
«Ne sono assolutamente certa.»
«Che cosa glielo fa pensare?»
«Lo sorpresi una volta o due a scriverle. Disse che si trattava di affari.»
Non feci commenti.
«Sì. Il mio Joe.» Sorrise, gli occhi spenti. «Un tale damerino. Sa, baciava sempre la mano a una signora e la faceva sentire una regina.»
«E Sterling Harper gli rispondeva?» chiesi con esitazione, perché non mi
divertiva riaprire una vecchia ferita.
«No, che io sappia.»
«Lui le scriveva, ma lei non rispondeva mai alle sue lettere?»
«Joe era un intellettuale. Diceva sempre che un giorno avrebbe scritto un
libro. Leggeva sempre qualcosa, sa.»
«Posso capire perché apprezzasse tanto Cary Harper» commentai.
«Il signor Harper lo chiamava piuttosto spesso, quando si sentiva frustrato. Immagino che il termine giusto sia "blocco dello scrittore". Chiamava Joe e parlavano delle cose più interessanti. Letteratura e non so che
altro.» Il fazzoletto, ora in grembo, era ridotto a pezzetti. «Il preferito di
Joe era Faulkner, per quanto strano le possa sembrare. Amava molto anche
Hemingway e Dostoevskij. Quando eravamo fidanzati, io vivevo ad Arlington e lui qui. Mi scriveva le più belle lettere che si possano immaginare.»
Lettere come quelle che cominciò a scrivere all'amore dell'ultima parte
della sua vita, pensai. Lettere come quelle che cominciò a scrivere alla
splendida, nubile Sterling Harper. Lettere che lei era stata abbastanza discreta da bruciare prima di suicidarsi, per non spezzare il cuore e infrangere i ricordi della vedova.
«Le ha trovate, allora» disse semplicemente.
«Le lettere alla signorina Harper?»
«Sì. Le lettere di Joe.»
«No.» Era, forse, la più pietosa mezza verità che avessi mai pronunciata.
«No, non posso dire che abbiamo trovato nulla del genere, signora McTigue. La polizia non ha trovato lettere scritte da suo marito tra gli effetti
personali degli Harper, nessuna carta da lettere intestata a suo marito, nulla
di personale indirizzato a Sterling Harper.»
Il suo volto si rilassò, confortato dalle mie parole.
«Ha mai passato un po' di tempo con gli Harper? Incontri di società, ad
esempio?» chiesi.
«Be', certo. Due volte, se ben ricordo. Una volta il signor Harper venne a
una cena. E in un'altra occasione gli Harper e Beryl Madison trascorsero la
notte a casa nostra.»
Quel particolare suscitò il mio interesse. «Quando fu?»
«Solo qualche mese prima che Joe se ne andasse. Credo che fosse il
primo dell'anno, un mese o due dopo che Beryl era venuta a parlare al nostro gruppo. Anzi, ne sono sicura, perché c'era ancora l'albero di Natale.
Me ne ricordo. Fu una tale gioia averla.»
«Avere Beryl?»
«Oh, sì! Ero così felice. Mi pare che fossero stati tutti e tre a New York
per affari. Avevano dovuto incontrare l'agente di Beryl, credo. Erano tornati a Richmond in aereo e furono così carini da fermarsi per la notte qui
da noi. O almeno gli Harper lo fecero. Beryl abitava qui, capisce. La sera
tardi Joe la riaccompagnò in macchina. Poi, il mattino seguente, riportò gli
Harper a Williamsburg.»
«Cosa ricorda di quella sera?» chiesi.
«Aspetti... ricordo che preparai cosciotto d'agnello e che tardarono a tornare dall'aeroporto perché la compagnia aerea aveva smarrito i bagagli del
signor Harper.»
Quasi un anno prima, considerai. E prima che Beryl avesse iniziato a ricevere le minacce, stando alle informazioni in nostro possesso.
«Erano piuttosto stanchi per il viaggio» continuò la signora McTigue.
«Ma Joe era così buono. L'anfitrione più incantevole che si potesse desiderare.»
Aveva saputo, la signora McTigue? Aveva saputo, dal modo in cui suo
marito guardava Sterling Harper, che si era innamorato di lei?
Ricordai lo sguardo distante di Mark, negli ultimi giorni della nostra relazione, tanto tempo prima. Quando avevo capito. Era stato per istinto.
Avevo capito che non pensava a me, eppure non mi ero rassegnata a credere che si fosse innamorato di qualcun'altra, finché lui non me lo aveva confessato.
«Mi dispiace, Kay» aveva detto, mentre per l'ultima volta bevevamo irish coffee nel nostro bar preferito, a Georgetown: minuscoli fiocchi di neve cadevano dal cielo grigio e bellissime coppie ci passavano accanto, avviluppate in giacconi invernali e vivaci sciarpe lavorate ai ferri. «Sai che ti
amo, Kay.»
«Ma non nello stesso modo in cui ti amo io» avevo risposto, il cuore oppresso dal peggior dolore che ricordassi di avere mai provato.
Mark aveva abbassato gli occhi sul tavolo. «Non ho mai voluto ferirti.»
«Certo che no.»
«Mi spiace. Mi spiace tanto.»
Sapevo che era vero. Mark era realmente e sinceramente dispiaciuto. Ma
questo non cambiava un accidente di niente.
Non avevo mai saputo il nome di lei, perché non avevo voluto saperlo,
ma non si trattava della donna che mi aveva detto di avere poi sposato: Janet, che in seguito era morta. Sempre che non si fosse trattato di un'altra
bugia.
«... era piuttosto contrariato.»
«Chi?» chiesi, puntando di nuovo gli occhi sulla signora McTigue.
«Il signor Harper» rispose. Cominciava ad apparire molto stanca. «Era
così irritato per il suo bagaglio. Fortunatamente, lo recuperarono col volo
successivo.» Si fermò. «Bontà divina. Sembra tutto così lontano, ma in realtà non è passato molto tempo.»
«E di Beryl?» chiesi. «Che cosa ricorda di lei, quella sera?»
«Tutti andati, ormai.» Le mani della signora McTigue si fermarono in
grembo, mentre fissava lo specchio scuro e vuoto dei ricordi. Tutti morti,
eccetto lei, gli ospiti di quella rimpianta e terribile cena. Fantasmi.
«Stiamo parlando di loro, signora McTigue. Sono ancora con noi.»
«Immagino che sia così» disse, gli occhi lucidi di lacrime.
«Abbiamo bisogno del loro aiuto, come loro del nostro.»
Annuì.
«Mi dica di quella sera» chiesi di nuovo. «Di Beryl.»
«Lei era molto calma. Ricordo che guardava il fuoco.»
«Cos'altro?»
«Accadde qualcosa.»
«Che cosa? Che cosa accadde, signora McTigue?»
«Lei e il signor Harper sembravano infelici l'una con l'altro» disse.
«Perché? Avevano litigato?»
«Fu dopo che il ragazzo ebbe consegnato il bagaglio. Il signor Harper
aprì una delle valigie e tirò fuori una busta con delle carte. Non lo so, in
realtà. Ma lui doveva aver bevuto un po' troppo.»
«E cosa accadde, poi?»
«Scambiò qualche parola aspra con la sorella e Beryl. Quindi prese le
carte e le gettò nel fuoco. Disse: "Ecco cosa ne penso! Spazzatura, spazzatura!". O qualcosa del genere.»
«Sa cosa bruciò? Un contratto, forse?»
«Non penso» rispose la signora McTigue, guardando altrove. «Ebbi
l'impressione che si trattasse di qualcosa di scritto da Beryl. Sembravano
pagine dattiloscritte, e la rabbia del signor Harper sembrava diretta contro
di lei.»
L'autobiografia che stava scrivendo, pensai. O forse una bozza che Sterling Harper, Beryl e Sparacino avevano discusso a New York con un Cary
Harper sempre più infuriato e fuori di sé.
«Joe intervenne» riprese la signora McTigue, intrecciando le dita deformi e cercando di dominare il dolore.
«Cosa fece?»
«L'accompagnò a casa» disse. «Accompagnò Beryl Madison a casa.» Si
fermò, fissandomi con vera e propria paura. «Ecco perché accadde. Lo so.»
«Ecco perché accadde che cosa?» incalzai.
«Perché sono morti» disse. «Lo so. Ebbi questa sensazione già a quel
tempo. Una sensazione spaventosa.»
«Me la descriva. Può descrivermela?»
«Ecco perché sono morti» ripeté. «C'era tanto odio nella stanza, quella
sera.»
13
Il Valhalla Hospital era situato su una collina nell'aristocratico mondo di
Albemarle County, dove i miei legami di studi con l'Università della Virginia mi riportavano periodicamente nel corso dell'anno. Anche se in lontananza, dall'interstatale, avevo spesso notato il formidabile edificio in
mattoni che si ergeva sull'altura, non avevo mai visitato l'ospedale né per
ragioni personali, né per ragioni professionali.
Ex grande albergo frequentato da gente ricca e famosa, era finito in bancarotta durante la Depressione ed era poi stato acquistato da tre fratelli psichiatri, che si erano dedicati alla sistematica trasformazione del Valhalla in
uno stabilimento freudiano, un luogo di soggiorno psichiatrico privilegiato
dove le famiglie facoltose potevano nascondere i propri imbarazzanti incomodi genetici, i loro anziani decrepiti e i figli nati deformi.
Non mi sorprese affatto che Al Hunt fosse stato ricoverato proprio là, da
adolescente. Quello che mi sorprese fu invece la riluttanza del suo psichiatra a parlare di lui. Dietro la cordialità professionale del dottor Warner Masterson si celava un muro di riserbo abbastanza duro da spezzare le punte
di trapano del più tenace degli inquisitori. Capii che non desiderava discutere con me. Lui capì che non aveva scelta.
Dopo aver parcheggiato nel posteggio di ghiaia riservato ai visitatori,
entrai in un atrio dagli arredi vittoriani, con tappeti orientali e pesanti tende
ornate di mantovane consunte. Stavo per presentarmi all'usciere, quando
sentii una voce dietro di me.
«Dottoressa Scarpetta?»
Mi girai e vidi un uomo alto, magro, in abito blu scuro di taglio europeo.
I capelli avevano sfumature color sabbia, gli zigomi e la fronte erano aristocraticamente alti.
«Sono Warner Masterson» disse, e mi porse la mano con un sorriso aperto.
Stavo chiedendomi se per caso non me lo ero dimenticato da qualche incontro precedente, quando spiegò di avermi riconosciuta dalle foto apparse
sui giornali e nei notiziari televisivi, ricordi a cui avrei rinunciato volentieri.
«Andremo nel mio ufficio» aggiunse affabilmente. «Spero che il viaggio
non sia stato troppo faticoso. Posso offrirle qualcosa? Un caffè? Una bibita?»
Tutto questo mentre continuava a camminare e io facevo del mio meglio
per tenergli dietro. Una consistente porzione della razza umana non ha idea
di cosa significhi essere attaccati a un paio di gambe corte, e io mi ritrovo
sempre ad arrancare indegnamente come un carrello di servizio in un mondo di treni espressi. Il dottor Masterson era già in fondo al lungo corridoio
moquettato quando finalmente ebbe la presenza di spirito di guardarsi alle
spalle. Fermandosi sulla porta, aspettò che lo raggiungessi, quindi mi fece
entrare nella stanza. Mi accomodai da sola, mentre lui si sedeva dietro la
scrivania e con gesti automatici cominciava a caricare una costosa pipa di
radica.
«Non serve che le dica, dottoressa Scarpetta» esordì nel suo lento, preciso modo di parlare, mentre apriva uno spesso raccoglitore, «che sono sgomento per la morte di Al Hunt.»
«L'ha sorpresa?» chiesi.
«Non del tutto.»
«Vorrei dare un'occhiata al suo dossier, mentre parliamo» dissi.
Il dottor Masterson esitò abbastanza a lungo da farmi prendere in considerazione l'idea di ricordargli il mio diritto statutario alla documentazione.
Quindi sorrise di nuovo e me la porse, dicendo: «Certamente».
Aprii la cartella di carta grezza e cominciai a esaminarne il contenuto,
mentre azzurri riccioli di fumo si levavano sopra di me come effluvi di legno aromatico. La storia del ricovero di Al Hunt e l'esito dell'esame fisico
non avevano nulla di fuori dal comune: il ragazzo si trovava in buone condizioni di salute, quando era stato accolto la mattina del dieci aprile di undici anni prima. I dettagli dell'analisi delle sue condizioni mentali raccontavano invece un'altra storia.
«Era in stato catatonico, quando venne ricoverato?» chiesi.
«Estremamente depresso e insensibile» rispose il dottor Masterson.
«Non sapeva dirci perché era qui. Non era capace di dire nulla. Non aveva
l'energia emotiva per rispondere ad alcuna domanda. Noterà dalla documentazione che non riuscimmo a sottoporlo allo Stanford Binet o al Mmpi,
test che dovemmo ripetere in data successiva.»
I risultati erano nell'incartamento. Il punteggio ottenuto da Al Hunt nel
test di intelligenza Stanford Binet era di 130: il suo problema non era certo
la mancanza di acume, se mai ne avevo dubitato! Quanto al Minnesota
Multiphasic Personality Inventory, il paziente non aveva presentato segni
di schizofrenia o di disordine mentale organico. Secondo la valutazione del
dottor Masterson, Al Hunt era affetto da "disordini della personalità schizotipici, con picchi estremi" che si erano tradotti in "un breve attacco di
psicosi reattiva" quando si era reciso i polsi con un coltello da carne, dopo
essersi rinchiuso in bagno. Era stato un gesto suicida, le ferite superficiali
un grido d'aiuto anziché un serio tentativo di porre fine alla propria vita. La
madre lo aveva portato al pronto soccorso ospedaliero più vicino, dove era
stato suturato e rimandato a casa. Il mattino successivo era stato ricoverato
al Valhalla. Un'intervista con la signora Hunt aveva rivelato che l'incidente
era stato affrettato dal fatto che "suo marito aveva perso le staffe" con Al,
durante il pranzo.
«Inizialmente» proseguì il dottor Masterson, «Al non partecipava a nessuna sessione di terapia di gruppo o occupazionale e non aderiva a nessuna
delle funzioni sociali verso cui sono indirizzati i pazienti. La sua reazione
al trattamento antidepressivo era scarsa, e durante i nostri incontri riuscivo
a stento a cavargli una parola di bocca.»
Non essendoci stato alcun miglioramento dopo la prima settimana, il
dottor Masterson continuò a spiegare, aveva preso in considerazione il trattamento elettroconvulsivo, o Ect, in pratica l'equivalente di una partenza a
caldo per un computer quando si tralascia la ricerca delle origini degli errori. Benché il risultato finale possa tradursi in una salutare riconnessione
dei percorsi cerebrali, un riallineamento delle categorie, i "difetti" di formattazione responsabili del problema vengono inevitabilmente dimenticati
e, probabilmente, perduti per sempre. Di norma, l'Ect non è il trattamento
scelto per soggetti giovani.
«E Al fu sottoposto a Ect?» chiesi, visto che sulla scheda non se ne parlava.
«No. Proprio quando avevo quasi deciso che non restava altra via praticabile, un mattino, durante lo psicodramma, vi fu un piccolo miracolo.»
Si fermò per riaccendere la pipa.
«Mi spieghi come venne condotto lo psicodramma, in questo caso» lo
pregai.
«Si può dire che alcuni esercizi vengono compiuti in maniera automatica, come riscaldamento. Durante quella particolare sessione, i pazienti
vennero messi in fila e chiedemmo loro di imitare dei fiori. Tulipani, giunchiglie, margherite, qualunque cosa venisse loro in mente: ogni persona
avrebbe dovuto imitare il fiore che aveva scelto. Ovviamente, dalla scelta
del paziente si possono dedurre parecchie cose. Quella era la prima volta
che Al partecipava a un'attività simile. Formò degli anelli con le braccia e
piegò la testa.» Il dottor Masterson mi fece vedere come, ma sembrava più
un elefante che un fiore. «Quando il terapista chiese che fiore era, Al ri-
spose: "Una viola".»
Non dissi nulla. Provavo un senso di crescente pietà per quel ragazzo
perduto che stavamo ora evocando davanti ai nostri occhi.
«Naturalmente, la prima interpretazione fu che si trattasse di un riferimento a ciò che il padre di Al pensava di lui» spiegò il dottor Masterson,
pulendosi gli occhiali con un fazzoletto. «Aspre, derisorie allusioni ai tratti
effeminati del giovane Al, alla sua fragilità. Ma c'era di più.» Rimettendosi
gli occhiali, mi guardò fisso. «È al corrente delle associazioni di colore di
Al?»
«Vagamente.»
«Viola è anche un colore.»
«Sì. Un violetto molto cupo.»
«È quello che si ottiene unendo l'azzurro della depressione con il rosso
della rabbia. Il colore dei lividi, il colore del dolore. Il colore di Al. Il colore che irradiava la sua anima, disse.»
«È anche un colore passionale» osservai. «Molto intenso.»
«Al Hunt era un giovane molto intenso, dottoressa Scarpetta. Lo sa che
si credeva chiaroveggente?»
«Non proprio» risposi, imbarazzata.
«il suo pensiero magico comprendeva la chiaroveggenza, la telepatia, la
superstizione, inutile dirlo, queste caratteristiche si facevano molto più
pronunciate durante i periodi di forte stress, quando si convinceva di poter
leggere nella mente degli altri.»
«E ci riusciva?»
«Era molto intuitivo.» Il fornello della pipa si era spento di nuovo. «Devo ammettere che spesso c'era un fondo di validità nelle sue percezioni, e
questo era uno dei suoi problemi. Al percepiva ciò che gli altri pensavano
o sentivano e a volte sembrava possedere un'inesplicabile conoscenza a
priori di ciò che avrebbero fatto, o che avevano già fatto. Il problema era
che, come ho brevemente accennato durante la nostra conversazione telefonica, Al si proiettava in avanti, correva troppo in là con le sue percezioni. Sprofondava negli altri, diventava agitato, paranoico, in parte perché il
suo ego era così debole. Come l'acqua, tendeva ad assumere la forma dei
contenitori che riempiva. Per usare un cliché, personalizzava l'universo.»
«Un atteggiamento pericoloso» osservai.
«Come minimo. Infatti è morto.»
«Si considerava un soggetto empatico?»
«Assolutamente.»
«Non mi pare che questo si sposi con la sua diagnosi» dissi. «Gli individui con disordini acuti della personalità generalmente non provano nulla
verso gli altri.»
«Ah, ma questo faceva parte del suo pensiero magico, dottoressa Scarpetta. Al attribuiva la colpa della propria disfunzione sociale e occupazionale a ciò che considerava la sua soverchiante empatia per gli altri. Credeva veramente di sentire il dolore degli altri, di conoscere la loro mente. Di
fatto, Al Hunt era socialmente isolato.»
«Il personale del Metropolitan Hospital lo ha descritto come dotato di
capacità notevoli, quando lavorava là come infermiere» sottolineai.
«Nessuna meraviglia» ribatté il dottor Masterson. «Faceva l'infermiere
al pronto soccorso. Non sarebbe mai sopravvissuto in un'unità di cura a
lungo termine. Al poteva essere molto premuroso, a condizione di non doversi avvicinare troppo a nessuno, a condizione, cioè, di non sentirsi obbligato a stabilire una vera relazione con il paziente.»
«Il che spiega perché riuscì a laurearsi ma non a proseguire con la pratica psicoterapeutica» ipotizzai.
«Esattamente.»
«E che dire della sua relazione con il padre?»
«Era disfunzionale, offensiva» rispose. «Il signor Hunt è un uomo duro,
autoritario. Per lui allevare un figlio è insistere nel farne un uomo. Al,
semplicemente, non aveva la struttura emozionale per sopportare atteggiamenti di prepotenza e sopraffazione, né l'addestramento mentale che secondo suo padre doveva prepararlo alla vita. Questo lo spedì dritto dritto
nel campo d'influenza della madre, dove la sua immagine di sé si fece
sempre più confusa. Sono certo dottoressa Scarpetta, che non la sorprenderà sapere che molti omosessuali maschi sono figli di uomini grossi e brutali che guidano camion dotati di rastrelliera per il fucile e adesivi della bandiera federale sul paraurti.»
Mi venne in mente Marino. Sapevo che aveva un figlio grande. Prima di
quel momento non avevo riflettuto sul fatto che non parlasse mai di lui, di
quel figlio unico che viveva chissà dove nell'ovest.
«Sta cercando di dirmi che Al era un omosessuale?» chiesi.
«Voglio solo farle capire che era troppo insicuro, con sentimenti di inadeguatezza troppo marcati perché potesse interagire con chiunque, intessendo relazioni intime di qualunque natura. Per quel che ne so, non ebbe
mai un incontro omosessuale.» La sua faccia rimase indecifrabile, mentre
guardava oltre la mia testa aspirando dalla pipa.
«Cosa accadde quel giorno, durante lo psicodramma, dottor Masterson?
Quale fu il piccolo miracolo a cui accennava? La sua imitazione di una
viola? Fu quello?»
«Quello fece solo saltare il coperchio» rispose. «Il miracolo, se le va di
chiamarlo così, fu l'intenso dialogo in cui si lanciò con suo padre, che immaginò seduto su una sedia vuota al centro della stanza. Mentre lo scambio si intensificava, il terapista avvertì ciò che stava accadendo: scivolò
sulla sedia e cominciò a recitare nei panni del padre. Ormai Al era così assorbito che sembrava quasi in trance. Non sapeva distinguere il vero dall'immaginario, e alla fine la sua rabbia esplose.»
«Come si manifestò? Diventò violento?»
«Cominciò a piangere incontrollabilmente» rispose il dottor Masterson.
«Cosa gli disse, suo "padre"?»
«Lo aggredì con i soliti rimproveri, criticandolo, dicendogli quanto poco
valeva come uomo, come essere umano. Al era ipersensibile alle critiche,
dottoressa Scarpetta. In parte, la radice della sua confusione stava proprio
lì. Al era convinto di essere sensibile verso gli altri quando, in realtà, era
sensibile solo verso se stesso.»
«Venne affidato a qualche assistente sociale?» chiesi, continuando a
sfogliare le pagine senza trovare annotazioni di alcun terapista.
«Naturalmente.»
«Chi era?»
Sembrava che dal dossier mancassero delle pagine.
«Lo stesso che le ho appena descritto» rispose affabilmente.
«Il terapista dello psicodramma?»
Annuì.
«Lavora ancora presso questo ospedale?»
«No» chiese il dottor Masterson. «Jim non è più con noi...»
«Jim?» lo interruppi.
Il dottor Masterson scosse il tabacco bruciato dalla pipa.
«Qual è il suo cognome e dove si trova adesso?»
«Mi duole dirle che Jim Barnes è morto in un incidente automobilistico,
molti anni fa.»
Il dottor Masterson riprese a pulirsi le lenti. «Penso che sia stato otto,
forse nove anni fa.»
«Come successe? E dove?»
«Non ricordo i particolari.»
«Che tragedia» mormorai, come se la cosa non avesse più alcun interes-
se per me.
«Devo dedurne che lei considera Al Hunt un sospettato, per il vostro caso?» chiese.
«In realtà i casi sono due: due omicidi» precisai.
«Molto bene. Due casi.»
«Per rispondere alla sua domanda, dottor Masterson, non è mio compito
sospettare di nessuno. Spetta alla polizia. A me interessa solo raccogliere
informazioni che potrebbero aiutarmi a verificare se Al Hunt aveva intenzioni suicide.»
«Vi sono dubbi in proposito, dottoressa Scarpetta? Al si è impiccato,
non è così? Potrebbe trattarsi forse di qualcos'altro?»
«Era vestito in modo strano. Una camicia e dei boxer» risposi. «Indizi
simili generano spesso congetture.»
«Allude a un'asfissia autoerotica?» Alzò le sopracciglia sorpreso. «Una
morte accidentale sopravvenuta mentre si masturbava?»
«Sto facendo del mio meglio per poter rispondere a una domanda simile,
sì, se mai mi venisse posta.»
«Capisco. Per ragioni assicurative. Nel caso la famiglia contestasse ciò
che lei scriverà sul certificato di morte.»
«Per qualsiasi ragione» commentai.
«È davvero in dubbio su quanto è accaduto?» Aggrottò la fronte.
«No» risposi. «Penso che si sia tolto la vita, dottor Masterson. Penso che
fosse questa la sua intenzione, quando è sceso nello scantinato; forse si è
tolto i pantaloni quando ha sfilato la cintura. La cintura che ha usato per
impiccarsi.»
«Molto bene. E forse posso chiarirle un altro aspetto, dottoressa Scarpetta. Al non mostrò mai tendenze violente. Il solo individuo cui abbia mai
inflitto qualche danno per quel che ne so fu se stesso.»
Gli credetti. Ma ero anche convinta che il dottor Masterson mi nascondesse parecchie altre cose, che i suoi vuoti di memoria e le sue imprecisioni fossero deliberati. Jim Barnes, pensai. Jim Jim.
«Quanto tempo restò qui, Al?» chiesi, cambiando argomento.
«Quattro mesi, credo.»
«E fu mai ricoverato nella vostra unità giudiziaria?»
«Il Valhalla non ne ha una. C'è un padiglione chiamato Palazzina Posteriore, per i pazienti psicotici, sofferenti di delirium tremens, pericolosi a se
stessi. Ma non ospitiamo i pazzi criminali.»
«E Al non ci entrò mai, in quel reparto?» chiesi di nuovo.
«Non fu mai necessario.»
«Grazie per il tempo che mi ha dedicato» dissi, alzandomi. «Le sarei
grata se volesse inviarmi una fotocopia di questa documentazione.»
«Con piacere.» Sorrise di nuovo nel suo modo aperto, ma senza guardarmi. «Non esiti a chiamarmi, qualora potessi esserle ancora utile in qualche modo.»
Il pensiero continuò a tormentarmi mentre ripercorrevo il lungo corridoio deserto verso l'atrio, ma d'istinto preferii non chiedere di Frankie, e
nemmeno feci il suo nome. Palazzina posteriore. Pazienti psicotici o sofferenti di delirium tremens. Al Hunt aveva accennato al fatto di avere intervistato i pazienti confinati nell'unità giudiziaria: era stata una sua invenzione, una fantasia, oppure si era confuso? Non c'era unità giudiziaria al
Valhalla. Eppure poteva benissimo esserci stato qualche paziente di nome
Frankie, internato nella Palazzina Posteriore. Forse Frankie era migliorato
ed era stato trasferito in un reparto diverso mentre Al era ancora ricoverato
lì? Forse Frankie aveva solo immaginato di avere assassinato sua madre,
aveva semplicemente desiderato di farlo?
Frankie picchia sua madre a morte con un pezzo di legna da ardere. Il
killer picchia Cary Harper a morte con un pezzo di tubo di metallo.
Quando arrivai al mio ufficio era già buio, e i custodi se n'erano andati.
Seduta alla scrivania, mi girai sulla sedia posteggiandomi di fronte al video del computer. Digitati alcuni comandi, lo schermo ambrato si illuminò
e mi ritrovai a esaminare il caso Jim Barnes. Nove anni prima, il ventuno
di aprile, era rimasto vittima di un incidente automobilistico, in Albemarle
County. Causa della morte: "fratture alla testa". Il tasso alcolico nel suo
sangue era quasi il doppio del limite legale, e aveva in corpo nortriptilina e
amitriptilina: Jim Barnes aveva un problema.
Nell'ufficio dell'analista di informatica in fondo al corridoio, l'arcaica,
tozza macchina dei microfilm campeggiava su un tavolo pesante come un
Buddha. Le mie abilità tecniche nel campo degli audiovisivi non erano mai
state straordinarie. Dopo un'impaziente ricerca nella cineteca, trovai la bobina che cercavo e in qualche modo riuscii a caricarla correttamente. A luci spente, guardai scorrere un'interminabile serie di confuse riproduzioni in
bianco e nero. Quando finalmente trovai il caso che cercavo, stavano cominciando a farmi male gli occhi. La pellicola scricchiolò sommessamente
mentre giravo una manopola e mettevo a fuoco il rapporto di polizia scritto
a mano e inquadrato sullo schermo. Verso le dieci e quarantacinque di un
venerdì sera, la BMW del 1973 di Barnes stava viaggiando a velocità so-
stenuta in direzione est, sulla I-64. Quando la ruota destra si era staccata,
Jim aveva sterzato bruscamente schiantandosi contro lo spartitraffico e venendo rimbalzato in aria. Più avanti trovai il primo rapporto investigativo
del medico legale. Nella sezione commenti, un certo dottor Brown aveva
scritto che il deceduto era stato licenziato quel pomeriggio stesso dal Valhalla Hospital, dove lavorava come assistente sociale. Nel lasciare l'ospedale, verso le cinque del pomeriggio, appariva estremamente agitato e rabbioso. Al momento della morte Barnes era celibe e aveva solo trentun anni.
Il rapporto del medico legale indicava due testimoni, interrogati dal dottor Brown: uno era il dottor Masterson, l'altro un'impiegata dell'ospedale di
nome Jeanie Sample.
A volte lavorare a un caso di omicidio è un po' come smarrirsi. Qualunque strada sembri anche solo lontanamente promettente, la si segue. Se si è
fortunati, può capitare che una strada secondaria alla fine conduca verso
quella principale. Come poteva uno psicoterapeuta morto nove anni prima
avere qualcosa a che spartire con i recenti omicidi di Beryl Madison e Cary
Harper? Eppure sentivo che c'era qualcosa, un legame.
Non ero affatto impaziente di interrogare il personale del dottor Masterson, e ci avrei scommesso che aveva già avvisato tutti quelli che contavano: in caso avessi chiamato dovevano mostrarsi cortesi e reticenti. Il mattino dopo, sabato, continuai a lasciar lavorare il mio subconscio intorno al
problema. Intanto telefonai al Johns Hopkins, sperando di trovare il dottor
Ismail. Lo rintracciai, ed egli confermò la mia teoria. I campioni prelevati
dal contenuto gastrico e dal sangue di Sterling Harper provavano che la
donna aveva ingerito levometorfan poco prima di morire: otto milligrammi
per litro di sangue, un livello troppo alto sia per consentire la sopravvivenza, sia per risultare accidentale. Si era tolta la vita e l'aveva fatto in modo
tale che in circostanze ordinarie nessuno se ne sarebbe accorto.
«La signorina Harper sapeva che il destrometorfan e il levometorfan appaiono entrambi come destrometorfan nei controlli tossicologici di routine?» chiesi al dottor Ismail.
«Non ricordo di averne mai discusso con lei» rispose. «Ma Sterling Harper era molto interessata ai dettagli dei suoi trattamenti e dei medicinali,
dottoressa Scarpetta. È possibile che avesse fatto ricerche in merito nella
nostra biblioteca. Ricordo bene che all'inizio mi pose numerose domande,
quando le prescrissi il levometorfan, ma le parlo di parecchi anni fa. Era un
trattamento ancora sperimentale, forse la signorina Harper era curiosa, o
preoccupata...»
Mi limitai ad ascoltarlo, mentre continuava a spiegare e a difendersi.
Non sarei mai stata in grado di provare che Sterling Harper aveva deliberatamente lasciato la bottiglia dell'antitosse nel luogo in cui l'avevo trovata
io, ma ero ormai certa che le cose fossero andate così. Benché determinata
ad andarsene con dignità e senza suscitare riprovazione, non aveva voluto
morire sola.
Dopo aver riattaccato mi preparai una tazza di tè bollente e passeggiai su
e giù per la cucina, fermandomi spesso ad ammirare dalla finestra la luminosità di quella giornata di dicembre. Sammy, uno dei pochi scoiattoli albini di Richmond, stava di nuovo saccheggiando il mio beccatoio. Per un
istante i nostri sguardi si incontrarono, le sue guance pelose freneticamente
all'opera, i semi che gli schizzavano di sotto le zampe, la sottile coda bianca un punto interrogativo contro il cielo azzurro. Avevamo fatto conoscenza l'inverno precedente, mentre dalla finestra osservavo i salti che spiccava
sempre dallo stesso ramo per poi riscivolare puntualmente indietro, lungo
la sommità conica del beccatoio, le zampe che cercavano di aggrapparsi
affannosamente all'aria. Alla fine, dopo un gran numero di ruzzoloni a terra, Sammy era riuscito a capire il trucco. Spesso uscivo a lanciargli una
manciata di noccioline, e la cosa era arrivata al punto che se non lo vedevo
per un po' mi sentivo in ansia e provavo un enorme sollievo quando invece
riappariva per saccheggiarmi il becchime.
Seduta al tavolo della cucina, un blocco davanti e la penna in mano, feci
il numero del Valhalla.
«Jeanie Sample, per favore.» Non dissi chi ero.
«È una paziente, signora?» chiese automaticamente la segretaria.
«No. È un'impiegata...» Mi finsi confusa. «Almeno così penso. Non vedo Jeanie da anni.»
«Un momento, prego.»
La donna tornò al telefono. «Non ci risulta nessuno con questo nome.»
Dannazione. Com'era possibile? Il numero di telefono accluso al suo
nome sul rapporto del medico legale era il numero del Valhalla. Che il dottor Brown si fosse sbagliato? Ma erano passati nove anni. Potevano essere
accadute tante cose nel frattempo. Miss Sample poteva essersi trasferita.
Poteva essersi sposata.
«Mi spiace» dissi. «Sample è il suo nome da ragazza.»
«Conosce il nome da sposata?»
«Oh, terribile. Dovrei saperlo...»
«Jean Wilson?»
Aspettai, incerta.
«Abbiamo una Jean Wilson» proseguì la voce. «Una delle nostre ergoterapiste. Può attendere, prego?» Tornò al telefono molto rapidamente. «Sì,
il nome intermedio è segnato come Sample, signora. Ma questo weekend
non è in servizio. Tornerà lunedì mattina alle otto. Vuole lasciarle un messaggio?»
«Non potrebbe dirmi come rintracciarla?»
«Non siamo autorizzati a rilasciare i numeri di casa.» Stava cominciando
a farsi sospettosa. «Se mi dà il suo nome e numero, posso cercare di rintracciarla e chiederle di chiamarla.»
«Ho paura che non sarò rintracciabile a questo numero ancora per molto.» Riflettei un momento, quindi assunsi un tono tristemente deluso,
quando aggiunsi: «Riproverò la prossima volta che capito da queste parti.
E immagino che potrò scriverle al Valhalla, al vostro indirizzo, no?».
«Sì, signora. Questo può farlo.»
«Qual è l'indirizzo?»
Me lo diede.
«E il nome del marito?»
Una pausa. «Skip, credo.»
A volte è un soprannome per Leslie, pensai. «Coniugata con Skip o Leslie Wilson» borbottai, come se stessi prendendone nota. «La ringrazio
molto.»
C'era un Leslie Wilson a Charlottesville, mi informò il servizio abbonati,
insieme a un L.P. Wilson e a un L.T. Wilson. Cominciai a provare i numeri. L'uomo che rispose quando tentai il numero di L.T. Wilson mi disse che
"Jeanie" era fuori per compere, ma che sarebbe rientrata nel giro di un'ora.
Sapevo che una voce estranea che poneva domande per telefono non avrebbe funzionato. Jeanie Wilson avrebbe insistito per consultarsi prima
con il dottor Masterson, e questo avrebbe posto fine alla faccenda. Già più
difficile è invece rifiutare qualcuno che si presenti inaspettatamente alla
porta, soprattutto se si dichiara capo della sezione medicina legale e ha un
distintivo per provarlo.
Nei jeans e pullover rosso, Jeanie Sample Wilson non sembrava avere
un giorno più di trent'anni. Era una brunetta vivace, con occhi cordiali e
una spruzzata di lentiggini sul naso, i lunghi capelli legati in una coda di
cavallo. Nel salotto oltre la porta spalancata c'erano due bimbetti seduti sul
tappeto, intenti a guardare un programma di cartoni animati alla televisione.
«Da quando lavora al Valhalla?» chiesi.
Esitò. «Be', circa dodici anni.»
Mi sentii così sollevata che quasi sospirai a voce alta. Non solo Jeanie
Wilson era impiegata là quando Jim Barnes era stato licenziato, nove anni
prima, ma anche al tempo del ricovero di Al Hunt come paziente, due anni
prima ancora.
Restò ferma sulla soglia. Oltre la mia, nel vialetto c'era solo un'altra
macchina. A quanto pareva il marito era uscito. Bene.
«Sto indagando sugli omicidi di Beryl Madison e Cary Harper» dissi.
I suoi occhi si spalancarono. «E cosa vuole da me? Io non li conoscevo
neanche...»
«Posso entrare?»
«Naturale, mi scusi. Prego.»
Sedemmo nella piccola cucina di linoleum, formica bianca e credenzini
di pino: tutto impeccabilmente pulito, con scatole di cereali allineate in
bell'ordine sopra il frigorifero e mensole affollate di grossi barattoli di vetro colmi di biscotti, riso e pasta. La lavapiatti era in funzione, e dal forno
si sprigionava l'aroma di una torta che cuoceva.
Avrei smontato le sue resistenze mostrandomi franca e diretta. «Signora
Wilson, Al Hunt era un paziente del Valhalla, undici anni fa, e per un po' è
stato indiziato nei casi in questione. Conosceva Beryl Madison.»
«Al Hunt?» Parve esterrefatta.
«Se lo ricorda?» chiesi.
Scosse la testa.
«Non mi ha detto che lavora al Valhalla da dodici anni?»
«Undici e mezzo, per l'esattezza.»
«Al Hunt era paziente là, undici anni fa, come le dicevo.»
«Il nome non mi è familiare...»
«Si è suicidato la settimana scorsa» dissi.
Adesso era ancora più esterrefatta.
«Gli ho parlato poco prima che morisse, signora Wilson. Il suo assistente sociale è morto in un incidente automobilistico nove anni fa. Jim Barnes. Ho bisogno di parlare di lui.»
Una vampata di rossore le salì al collo. «Pensa che il suo suicidio abbia
qualcosa a che vedere con Jim?»
Era una domanda a cui mi era impossibile rispondere. «Jim Barnes era
stato licenziato dal Valhalla proprio poche ore prima di morire» proseguii.
«Nel rapporto del medico legale, signora Wilson, viene citato anche il suo
nome... o almeno il suo nome da signorina.»
«Ci fu... be', ci fu qualche domanda» balbettò. «Sa, se si era trattato di
un suicidio o di un incidente. Venni interrogata. Un dottore, un coroner,
non ricordo. Qualcuno mi telefonò.»
«Il dottor Brown?»
«Non ricordo come si chiamasse» disse.
«Perché volle parlare con lei, signora Wilson?»
«Immagino perché ero una delle ultime persone che aveva visto Jim da
vivo. Credo che il dottore avesse chiamato il centralino, Betty doveva averlo dirottato su di me.»
«Betty?»
«Era alla reception, a quel tempo.»
«Ho bisogno che mi dica tutto quello che riesce a ricordare sul licenziamento di Jim Barnes» insistei, mentre la signora Wilson si alzava per controllare la torta.
Quando tornò, era un po' più padrona di sé. Non sembrava più tesa: caso
mai, arrabbiata.
«Forse non è giusto parlare male di chi è morto» disse, «ma Jim non era
una persona piacevole. Era un grosso problema, per il Valhalla, e avrebbero dovuto licenziarlo molto prima di quanto non avvenne.»
«E perché costituiva un problema, esattamente?»
«I pazienti dicono un sacco di cose, spesso non molto, be', credibili. È
difficile capire cos'è vero e cosa no. Il dottor Masterson, altri terapisti, avevano ricevuto segnalazioni, di tanto in tanto, ma non si era potuto provare nulla fino al mattino in cui ci fu un testimone, il mattino del giorno in
cui Barnes venne licenziato e successe l'incidente.»
«Si trattò di un fatto a cui lei assistette?» chiesi.
«Sì.» Guardò dall'altra parte della cucina, la bocca piegata, in una smorfia.
«Cosa accadde?»
«Stavo attraversando l'atrio, per andare dal dottor Masterson a proposito
di qualcosa, quando Betty mi chiamò. Era alla scrivania d'ingresso, al centralino, come le ho detto... Tommy, Clay, piantatela, di là!»
Le urla nell'altra stanza si fecero solo più alte, mentre i canali televisivi
cambiavano senza tregua.
La signora Wilson si alzò di malavoglia per andare a dare un'occhiata ai
figli. Sentii il rumore attutito di un paio di scapaccioni, dopodiché il canale
restò fisso. I protagonisti del cartone animato si sparavano l'un l'altro con
quelle che sembravano mitragliatrici.
«Dov'ero rimasta?» chiese, tornando al tavolo di cucina.
«Stava parlando di Betty» le ricordai.
«Oh, sì. Mi chiamò, perché al telefono c'era la madre di Jim, in interurbana: disse che sembrava importante. Non seppi mai di cosa si trattava, ma
Betty mi chiese di cercare Jim. Era impegnato nello psicodramma, che si
teneva nella sala da ballo. Sa, il Valhalla ha una sala da ballo che usiamo
per varie attività. Il sabato sera per danze, feste. C'è un palcoscenico e un
palco per l'orchestra, residui di quando il Valhalla era un hotel. Sgusciai
dentro e quando vidi cosa stava accadendo stentai a credere ai miei occhi.»
Il suo sguardo era pieno di rabbia. Cominciò a giocherellare con l'orlo di
una tovaglietta. «Restai inchiodata a guardare. Jim era di schiena, in piedi
sul palco, con cinque o sei pazienti. Loro erano seduti su sedie girate in
modo che non potessero vedere ciò che lui stava facendo con questa paziente, una ragazza di nome Rita, sui tredici anni, forse. Rita era stata violentata dal patrigno. Non parlava mai, era muta, da un punto di vista funzionale. Jim la stava obbligando a reinscenare l'evento.»
«Lo stupro?» chiesi, calma.
«Maledetto bastardo. Mi scusi, ma se ci penso mi sconvolge ancora.»
«Comprensibile.»
«Jim, poi, disse di non avere fatto niente di male, o di indegno. Un tale
bugiardo! Negò ogni cosa. Ma io avevo visto. Sapevo esattamente. Aveva
interpretato il ruolo del patrigno, e Rita era così terrorizzata che non riusciva nemmeno a muoversi, impietrita sulla sedia. Lui la fissava negli occhi, chino su di lei, le parlava a voce bassa. I rumori rimbalzavano, nel salone, potei sentire ogni cosa. Rita era molto matura, una ragazza sviluppata
per i suoi tredici anni. Jim le chiedeva "È questo che ti fece, Rita?" Continuava a ripeterglielo, e intanto la toccava. La accarezzava, proprio come
aveva fatto il suo patrigno, immagino. Sgusciai fuori. Jim non ebbe idea di
essere stato visto finché il dottor Masterson e io lo chiamammo per un
confronto, qualche minuto più tardi.»
Stavo cominciando a capire perché il dottor Masterson si era rifiutato di
discutere con me di Jim Barnes, e probabilmente perché mancavano alcune
pagine dal dossier del caso Al Hunt. Qualora una vicenda del genere fosse
mai diventata di pubblico dominio, anche se accaduta tanto tempo prima,
la reputazione dell'ospedale ne avrebbe sofferto.
«Lei sospettava che Jim Barnes avesse già fatto in precedenza cose del
genere?» chiesi.
«Secondo alcune fra le prime lagnanze, sì» rispose Jeanie Wilson, gli
occhi inquieti.
«Sempre donne?»
«Non sempre.»
«Quindi ricevette delle lagnanze anche da pazienti maschi?»
«Da uno dei giovani, sì. Ma nessuno lo aveva preso sul serio, a quel
tempo. Il ragazzo soffriva comunque di problemi sessuali, probabilmente
era stato molestato o qualcosa del genere. Proprio il tipo su cui poteva fissarsi uno come Jim, perché... chi avrebbe mai creduto a ciò che diceva quel
povero ragazzo?»
«Ricorda il nome di questo paziente?»
«Dio.» Aggrottò le sopracciglia. «Fu tanto tempo fa.» Rifletté. «Frank...
Frankie. Ecco. Ricordo che qualcuno dei pazienti lo chiamava Frankie.
Non ricordo il cognome.»
«Che età aveva?» chiesi, col batticuore.
«Non lo so. Diciassette, diciotto anni.»
«E cosa ricorda di Frankie?» domandai. «È importante. Molto importante.»
Si sentì una suoneria. La signora Wilson spinse indietro la sedia e andò a
tirare fuori la torta dal forno. Mentre era in piedi, controllò di nuovo i ragazzi. Quando tornò, era accigliata.
«Ricordo vagamente» disse «che era rimasto per qualche tempo nella
Palazzina Posteriore, subito dopo essere stato ricoverato. Quindi fu trasferito da basso, al reparto del secondo piano, dove c'erano gli uomini. Mi
venne affidato per l'ergoterapia.» Stava riflettendo, mentre si accarezzava
il mento con un indice. «Era molto attivo, questo lo ricordo. Faceva un
sacco di cinture di pelle, di incisioni su ottone. E gli piaceva lavorare a
maglia, il che era alquanto inconsueto. Quasi tutti i pazienti maschi non lavorano a maglia, non vogliono. Preferiscono dedicarsi ai lavori in pelle,
fanno portaceneri e così via. Frankie era molto creativo, veramente abile. E
si distingueva anche per un'altra caratteristica: la pulizia. Era ossessivamente pulito, sempre pronto a riordinare il suo spazio di lavoro, a
raccogliere pezzetti e residui di qualsiasi cosa cadesse a terra. Come se non
potesse sopportare il minimo disordine.» Fece una pausa, alzando gli occhi
verso i miei.
«Quand'è che si lagnò di Jim Barnes?» chiesi.
«Non troppo tempo dopo che cominciai a lavorare al Valhalla.» Esitò,
sforzandosi di ricordare. «Penso che Frankie fosse lì solo da un mese o
due, quando riferì il fatto di Jim. Credo che si confidò con un altro paziente.» Si interruppe, mentre le sopracciglia graziosamente arcuate si muovevano all'unisono ricomponendosi in un'espressione decisa. «Di fatto, fu
quest'altro paziente a lamentarsene col dottor Masterson.»
«E ricorda chi fosse il paziente con cui Frankie si confidò?»
«No.»
«Poteva essere Al Hunt? Mi ha detto che lei non lavorava al Valhalla da
molto. Hunt doveva trovarsi là, undici anni fa, durante la primavera e l'estate.»
«Non ricordo questo Al Hunt...»
«Dovevano avere più o meno la stessa età» aggiunsi.
«Interessante.» I suoi occhi si riempirono di innocente meraviglia, mentre fissavano i miei. «Frankie aveva un amico, un altro adolescente. Sì che
mi ricordo. Biondo. Il ragazzo era biondo, molto timido, silenzioso. Non
ricordo come si chiamava.»
«Al Hunt era biondo» confermai.
Silenzio.
«Oh, mio Dio.»
La incalzai. «Era taciturno, timido...»
«Oh, mio Dio» ripeté. «Scommetto che era lui, allora! E si è suicidato la
settimana scorsa?»
«Sì.»
«E le ha accennato di Jim?»
«Ha accennato a qualcuno che lui chiamava Jim Jim.»
«Jim Jim» ripeté. «Gesù. Non lo so...»
«Cosa accadde a Frankie?»
«Non rimase là molto, solo due o tre mesi.»
«Tornò a casa?»
«Suppongo di sì» disse. «C'era qualcosa a proposito di sua madre. Penso
che vivesse con il padre. La madre di Frankie lo aveva abbandonato quand'era piccolo, o qualcosa del genere. Tutto ciò che ricordo è che la sua situazione famigliare era triste. Ma penso si possa dire la stessa cosa di quasi
tutti i pazienti del Valhalla.» Sospirò. «È curioso. Non ci avevo mai pensato in tutti questi anni. Frankie.» Scosse la testa. «Mi domando che fine abbia fatto.»
«Non ne ha idea?»
«Assolutamente no.» Mi guardò a lungo, poi cominciò a capire. Vidi la
paura addensarsi nei suoi occhi. «Due persone assassinate. Non penserà
che Frankie...»
Non dissi nulla.
«Non è mai stato un violento, non quando lavoravo con lui. Era molto
gentile, anzi.»
Attese. Non risposi.
«Voglio dire, era molto dolce e compito con me, mi osservava con attenzione, faceva qualunque cosa gli dicessi di fare.»
«Allora lei gli piaceva» dissi.
«Mi confezionò anche una sciarpa. Adesso ricordo. Rossa, bianca e azzurra. Me ne ero completamente dimenticata. Mi domando dove sia finita.» La sua voce si affievolì. «Devo averla data all'Esercito della Salvezza
o qualcosa del genere. Non lo so. Frankie, be', penso che avesse una specie
di infatuazione per me.» Rise nervosamente.
«Signora Wilson, che aspetto aveva Frankie?»
«Alto, magro, capelli neri.» Chiuse brevemente gli occhi. «Fu tanto
tempo fa.» Mi stava osservando di nuovo. «Non è che ce l'abbia in mente
con chiarezza. Ma non ricordo che fosse particolarmente attraente. Sa, se
fosse stato realmente bello o realmente brutto me lo ricorderei meglio.
Quindi penso che fosse piuttosto insignificante.»
«È possibile che l'ospedale conservi una sua fotografia in archivio?»
«No.»
Di nuovo silenzio. Poi mi guardò sorpresa.
«Balbettava» disse lentamente, poi lo ripeté con convinzione.
«Prego?»
«A volte tartagliava. Lo ricordo. Quando diventava estremamente agitato o nervoso, Frankie tartagliava.»
Jim Jim.
Al Hunt aveva ripetuto esattamente ciò che lui gli aveva detto. Quando
Frankie gli aveva confidato ciò che Barnes gli aveva fatto o aveva cercato
di fargli, doveva essere sconvolto, agitato. Si era messo a tartagliare. E aveva balbettato ogni volta che aveva parlato a Hunt di Jim Barnes. Jim
Jim!
Mi fermai al primo telefono a gettoni che incontrai dopo aver lasciato la
casa di Jeanie Wilson. Quell'idiota di Marino era andato al bowling.
14
Il lunedì portò con sé una distesa di nuvole marmoree che avvolse le colline di Blue Ridge in un grigio minaccioso, occultando la vista del Valhalla. Il vento sferzava la macchina di Marino, e quando parcheggiammo all'ospedale minuscoli fiocchi di neve picchiettavano il parabrezza.
«Merda» si lamentò scendendo. «Ne avevamo proprio bisogno.»
«Non è detto che vada avanti» risposi arretrando, mentre i fiocchi gelati
mi pungevano le guance. Piegammo la testa sotto il vento e ci affrettammo
silenziosi verso l'ingresso principale.
Il dottor Masterson ci aspettava nell'atrio, il viso duro come la pietra dietro un sorriso forzato. Quando i due uomini si strinsero la mano, si squadrarono l'un l'altro come gatti ostili e io non feci nulla per allentare la tensione, francamente seccata dai giochini dello psichiatra. Aveva le informazioni che ci occorrevano e ce le avrebbe date nude e crude e per intero, o
per amore di collaborazione o per ordine del giudice. Poteva scegliere. Lo
seguimmo senza indugi nel suo ufficio e questa volta chiuse la porta.
«Bene, in che cosa posso esservi utile?» chiese subito, mentre si accomodava la poltrona.
«Altre informazioni» risposi.
«Naturalmente. Ma devo confessarle, dottoressa Scarpetta» proseguì
come se Marino non ci fosse, «che non riesco a pensare a nient'altro da dirle su Al Hunt che possa aiutarla nelle sue indagini. Ha visto il dossier e le
ho detto tutto quello che ricordavo...»
«Già, be', noi siamo qui appunto per massaggiarle la memoria» lo interruppe Marino, tirando fuori le sigarette. «E non è solo Al Hunt che ci interessa.»
«Non capisco.»
«Ci interessa di più il suo amico» disse Marino.
«Quale amico?» Il dottor Masterson lo squadrò con freddezza.
«Le dice niente il nome Frankie?»
Il dottor Masterson cominciò a pulirsi gli occhiali, e io decisi che era
uno dei suoi espedienti favoriti per guadagnare tempo.
«C'era un paziente, qui, all'epoca di Al Hunt, un ragazzo di nome Frankie» aggiunse Marino.
«Temo di non mettere bene a fuoco.»
«Si sforzi, dottore. Ci dica chi è Frankie.»
«Il Valhalla ospita trecento pazienti per volta, tenente» rispose il dottor
Masterson. «Non mi è possibile ricordare tutti quelli che sono passati di
qui, in particolare se si sono fermati per poco.»
«In pratica, vuole dirci che questo Frankie non si è fermato molto?»
chiese Marino.
Il dottor Masterson tese la mano per afferrare la pipa. Aveva fatto un
passo falso, e vidi la rabbia nei suoi occhi. «Non le sto dicendo nulla del
genere, tenente.» Pressò lentamente il tabacco nel fornello. «Ma forse, se
potesse darmi qualche indicazione in più su questo paziente, sul giovane a
cui si riferisce come a Frankie, magari potrebbe accendermisi un barlume.
Può dirmi qualcos'altro, su di lui, oltre che era un "ragazzo"?»
Intervenni io. «Al Hunt aveva un amico, mentre si trovava qui, qualcuno
che chiamava Frankie. Me ne ha accennato nel corso della nostra conversazione. Crediamo che questo paziente sia stato sistemato nella Palazzina
Posteriore subito dopo il ricovero, quindi dev'essere stato trasferito in una
sezione diversa dove può avere conosciuto Al. Frankie era alto, bruno,
snello. Inoltre gli piaceva lavorare a maglia, un hobby piuttosto atipico per
un paziente maschio, credo.»
«Questo è quanto le ha detto Al Hunt?» chiese il dottor Masterson, senza
scomporsi.
«Frankie era anche ossessionato dalla pulizia» proseguii, eludendo la
domanda.
«Temo che la passione per il lavoro a maglia non abbia probabilità di
colpire la mia attenzione» commentò il dottor Masterson, riaccendendosi
la pipa.
«Sembra avesse anche una certa tendenza a balbettare, sotto stress» terminai, cercando di dominare la mia impazienza.
«Hm... Forse qualcuno con una disfonia spastica in diagnosi differenziale. Questo potrebbe essere un punto di partenza...»
«Il punto di partenza, per lei, è piantarla di fare lo stronzo» intervenne
rudemente Marino.
«Davvero, tenente.» Il dottor Masterson gli rivolse un sorriso di accondiscendenza. «La sua ostilità è ingiustificata.»
«Già, già, e anche lei è ingiustificatamente privo di un bell'avviso di garanzia, in questo momento. Ma potrebbe venirmi il prurito di modificare la
sua situazione: basterebbe un attimo per trascinarle il culo al fresco con un'accusa di complicità in omicidio. Che ne dice?» Marino lo fissò.
«Penso di averne abbastanza della sua impertinenza» rispose il dottor
Masterson, con calma esasperante. «Non reagisco bene alle minacce, tenente.»
«E io non reagisco bene a chi mi prende per il culo» ritorse Marino.
«Chi è Frankie?» tentai di nuovo.
«Le assicuro che non lo so, nel modo più assoluto» rispose il dottor Masterson. «Ma se sarà così gentile da aspettare un minuto, andrò a vedere
che cosa riusciamo a far saltar fuori dal nostro computer.»
«Grazie» dissi. «Restiamo in attesa.»
Lo psichiatra era appena uscito dalla porta quando Marino commentò:
«Che sacco di merda».
«Marino» mormorai stancamente.
«Non mi sembra che questo posto pulluli di ragazzini. Sono pronto a
scommettere che il settantacinque per cento dei pazienti è sopra i sessanta.
I giovani dovrebbero restarti impressi, giusto? Lui sa benissimo chi è
Frankie, probabilmente potrebbe anche dirci che numero di scarpe porta.»
«Può darsi.»
«Non c'è alcun può darsi. Te lo dico io che quel bastardo ci sta prendendo in giro.»
«E continuerà a farlo fin tanto che tu continuerai a prenderlo di petto,
Marino.»
«Merda.» Si alzò e andò alla finestra dietro la scrivania del dottore. Scostando le tende, fissò il cielo grigio di quel tardo mattino. «Odio i bugiardi
come la merda. Giuro davanti a Dio che gli faccio un culo così, se mi ci
costringe. È questo che mi fa incazzare negli psichiatri. Possono avere Jack
lo Squartatore come paziente e non fanno una piega; continuano a mentirti,
rimboccano il letto al bastardo e lo trattano a brodino di pollo, manco fosse
Mister Simpatia.» Fece una pausa, quindi borbottò: «Almeno ha smesso di
nevicare».
«Penso che tu abbia esagerato» dissi, in attesa che tornasse a sedersi,
«con quella minaccia di incolparlo per complicità nell'assassinio.»
«È servito a smuoverlo, no?»
«Dagli una possibilità di salvarsi la faccia, Marino.»
Fissò accigliato la finestra, continuando a fumare.
«Penso si stia già rendendo conto che è nel suo interesse aiutarci» dissi.
«Sì, be', certo non è nel mio di interesse se me ne sto qua a giocare al
gatto e al topo con lui. Proprio mentre noi stiamo parlando, quello zuccherino di Frankie è là fuori a coltivarsi le sue follie e se ne va in girò ticchettando come una dannata bomba a orologeria.»
Pensai alla mia casa tranquilla, nel mio quartiere tranquillo, alla catena
di Cary Harper appesa alla maniglia della porta e alla voce sussurrante sul-
la mia segreteria telefonica. I tuoi capelli sono biondi naturali o te li schiarisci... Che strano. Mi scervellai sul significato di quella domanda. Che
importanza poteva avere per lui?
«Se Frankie è il nostro assassino» dissi tranquilla, traendo un respiro
profondo, «non riesco a immaginare quale connessione possa esserci tra
Sparacino e questi omicidi.»
«Staremo a vedere» borbottò Marino, accendendo un'altra sigaretta e fissando con espressione arcigna la porta.
«Cosa vuoi dire con "staremo a vedere"?»
«Non finisce mai di sorprendermi come una cosa tiri l'altra» rispose misterioso.
«Che cosa? Quali cose tirano altre cose, Marino?»
Guardò l'orologio e imprecò. «Dove diavolo è finito, quello? È andato a
pranzo?»
«Spero che stia cercando il dossier di Frankie.»
«Già. Lo spero anch'io.»
«Quali cose portano ad altre cose?» gli chiesi di nuovo. «A cosa stai
pensando? Ti spiace essere un po' più preciso?»
«Proviamo a metterla in questo modo» disse Marino. «Ho la fortissima
sensazione che, non fosse stato per il dannato libro che Beryl stava scrivendo, oggi sarebbero ancora vivi, tutti e tre. E probabilmente anche
Hunt.»
«Io non ne sarei tanto sicura.»
«Ovvio che no: sei sempre maledettamente oggettiva, tu. Sono io che lo
dico, okay?» Guardò verso di me e si sfregò gli occhi stanchi fino a farsi
rosso in viso. «Ho questa sensazione, va bene? Mi dice che il nesso sta in
Sparacino, nel libro. È il libro che ha collegato l'assassino a Beryl, all'inizio, poi una cosa ne ha tirata un'altra, finché l'assassino fa fuori anche Harper. Allora la sorella ingoia abbastanza pillole da spedire al creatore un cavallo, così da non dover restare a scorrazzare tutta sola nella grande casa,
mentre il cancro la divora viva. Infine, Hunt si appende a una trave, nelle
sue dannate mutande.»
Nella mia mente si fece largo la fibra arancione, con la sua peculiare
forma a trifoglio, insieme al manoscritto di Beryl, a Sparacino, a Jeb Price,
al figlio hollywoodiano del senatore Partin, alla signora McTigue e a
Mark. Erano membra e legamenti di un corpo che non riuscivo a mettere
insieme. In qualche inesplicabile modo, costituivano l'alchimia attraverso
cui persone ed eventi apparentemente scollegati si ricomponevano in
Frankie. Marino aveva ragione. Non c'è cosa che non porti a un'altra. Un
omicidio non è mai completamente ingiustificato. Il nulla non può nuocere
a nessuno.
«Hai qualche teoria su quale potrebbe essere questo legame?» chiesi.
«Nessuna, Cristo. Nemmeno una» rispose con uno sbadiglio nel preciso
momento in cui il dottor Masterson rientrava in ufficio, chiudendo la porta.
Notai con soddisfazione che aveva in mano un fascio di cartelle di casi
clinici.
«Allora» disse freddamente, senza guardare né me né Marino. «Non ho
trovato nessuno col nome di Frankie ne ho desunto che potesse trattarsi di
un soprannome. Quindi ho selezionato i casi in base alla cronologia, all'età
e alla razza. Quelli che ho qui sono i dossier relativi a sei maschi bianchi,
escluso Al Hunt, pazienti al Valhalla durante il periodo che vi interessa.
Tutti fra i tredici e i ventiquattro anni d'età.»
«Che ne dice di lasciarci dare un'occhiata mentre lei se ne sta seduto a
fumare la sua pipa?» Un filo meno combattivo, ma non molto.
«Preferirei essere io a illustrare le loro storie, per ragioni di riservatezza,
tenente. Se una dovesse rivelarsi di particolare interesse, analizzeremo il
dossier nei dettagli. Le sembra una proposta ragionevole?»
«Ragionevole» risposi, senza lasciare a Marino il tempo di fiatare.
«Il primo caso» cominciò il dottor Masterson, aprendo il dossier, «riguarda un diciannovenne di Highland Park, Illinois, ricoverato nel dicembre 1978 con una storia di abuso di stupefacenti: eroina, in particolare.»
Girò una pagina. «Alto un metro e settanta, peso settantasette chili, occhi
castani, capelli castani. Rimase in terapia per tre mesi.»
«Al Hunt non fu ricoverato fino all'aprile successivo» ricordai allo psichiatra. «Quindi non possono essere stati pazienti nello stesso periodo.»
«Sì, credo che abbia ragione. Una svista da parte mia. Possiamo eliminarlo.» Posò il dossier sul foglio di carta assorbente, mentre io lanciavo a
Marino un'occhiata di avvertimento. Sapevo che stava per esplodere: aveva
la faccia rossa come il costume di Babbo Natale.
Aprendo un secondo dossier, il dottor Masterson riprese: «Poi abbiamo
un quattordicenne maschio, biondo, occhi azzurri, un metro e sessanta,
cinquantadue chili. Fu ricoverato nel febbraio 1979 e dimesso sei mesi dopo. Chiuso in se stesso, soffriva di ossessioni frammentarie. Fu classificato
come schizofrenico del tipo disorganizzato o ebefrenico».
«Le spiacerebbe spiegare cosa diavolo significa?» chiese Marino.
«Si comportava in modo incoerente, aveva modi bizzarri, manifestava
estrema chiusura sociale e altre stranezze comportamentali. Ad esempio»
si fermò a scorrere una pagina «usciva puntuale per prendere l'autobus, la
mattina, ma poi non arrivava a scuola, e in un'occasione fu trovato seduto
sotto un albero che faceva misteriosi disegni privi di senso sul blocco per
appunti.»
«Sì. E adesso è un famoso artista che vive a New York» borbottò ironico
Marino. «Il suo nome è Frank, Franklin o comincia per F?»
«No. Niente che si avvicini.»
«Dunque, qual è il prossimo?»
«Il prossimo è un maschio di ventidue anni, del Delaware. Capelli rossi,
occhi grigi, un metro e settantotto di altezza, sessantotto chili. Fu ricoverato nel marzo 1979 e dimesso in giugno. Diagnosi: affetto da sindrome organica ossessiva. Fattori aggravanti, un'epilessia del lobo temporale e abuso di cannabis. Tra le complicazioni, uno stato d'animo disforico e il tentativo di castrarsi in reazione a una delusione.»
«Cosa significa disforico?» chiese Marino.
«Ansioso, inquieto, depresso.»
«Questo prima o dopo avere cercato di trasformarsi in un soprano?»
Il dottor Masterson stava cominciando a infastidirsi, e in effetti non potevo dargli torto.
«Il prossimo» disse Marino, come un sergente d'addestramento.
«Il quarto caso è un maschio di diciannove anni, capelli neri, occhi castani, un metro e settantaquattro, sessantaquattro chili. Fu ricoverato nel
maggio del 1979 e diagnosticato come schizofrenico di tipo paranoide. La
sua storia» voltò una pagina, quindi tese la mano verso la pipa «include attacchi di rabbia cieca e ansia, dubbi sulla propria identità sessuale e una
marcata paura di essere considerato omosessuale. L'origine della psicosi
era evidentemente legata al fatto di essere stato avvicinato da un omosessuale in una toilette maschile...»
«Si fermi qui.» Se non lo avesse fatto Marino, l'avrei fatto io. «Parliamo
un po' di questo soggetto. Per quanto tempo rimase al Valhalla?»
Il dottor Masterson si stava accendendo la pipa. Esaminando con calma
il dossier, rispose: «Dieci settimane».
«Che sarebbero coincise con il periodo in cui Hunt fu ricoverato qui»
aggiunse Marino.
«Esatto.»
«Dunque fu avvicinato in una toilette maschile e gli diede di volta il cervello? Cosa accadde? Quale psicosi?» insisté.
Il dottor Masterson stava girando le pagine. Sollevando gli occhiali, rispose: «Ebbe un episodio di pensiero maniacale di natura grandiosa. Credeva che Dio gli dicesse di fare delle cose».
«Quali cose?» chiese Marino, sporgendosi in avanti sulla sedia.
«Niente di specifico, niente di riportato qui, eccetto che parlava in maniera alquanto bizzarra.»
«Ed era schizofrenico paranoide?»
«Sì.»
«Vuole chiarire? Quali sono gli altri sintomi?»
«Nei casi classici» rispose il dottore, «si riscontrano sintomi che includono manie di grandezza o allucinazioni di contenuto grandioso. Possono
esserci gelosia maniacale, estrema intensità nell'interazione interpersonale,
litigiosità e a volte violenza.»
«Di dov'era?» chiesi io.
«Maryland.»
«Merda» borbottò Marino. «Viveva con tutti e due i genitori?»
«Con il padre.»
«È sicuro che fosse paranoide» chiesi io «anziché indifferenziato?»
La distinzione era importante. Gli schizofrenici del tipo indifferenziato
mostrano spesso un comportamento disorganizzato. In genere non dispongono dei mezzi per premeditare crimini e sottrarsi con successo all'arresto.
La persona che cercavamo noi era abbastanza organizzata da progettare ed
eseguire con successo azioni criminose e sfuggire all'arresto.
«Ne sono certo» rispose il dottor Masterson. Dopo una pausa, aggiunse
in tono piatto: «Il primo nome del paziente, cosa interessante, è Frank».
Quindi mi porse il dossier, cui lanciammo una rapida occhiata.
Frank Ethan Aims, o Frank E. E così "Frankie", non potei che concludere, aveva lasciato il Valhalla verso la fine del luglio 1979 e poco dopo, secondo un'annotazione che il dottor Masterson aveva successivamente aggiunto, era scappato dalla casa nel Maryland.
«Come fa a sapere che scappò di casa?» chiese Marino, guardando lo
psichiatra. «Come fa a sapere cosa gli accadde dopo che aveva lasciato
questa sede?»
«Mi telefonò suo padre. Era sconvolto» rispose il dottore.
«E allora?»
«Purtroppo non ci fu nulla da fare. Frank era maggiorenne, tenente.»
«Si ricorda di nessuno che si riferisse a lui col soprannome di Frankie?»
chiesi.
Scosse la testa.
«E cosa sa di Jim Barnes? Era lui l'assistente sociale di Frank Aims?»
chiesi.
«Sì» ammise il dottor Masterson con una certa riluttanza.
«E Frank Aims ebbe un brutto incontro con Jim Barnes?» chiesi.
Masterson esitò. «Credo di sì.»
«Di che natura?»
«Probabilmente di natura sessuale, dottoressa Scarpetta. E per amor di
Dio, sto cercando di aiutarvi. Spero che andrete cauti, con la cosa.»
«Ehi» intervenne Marino, «ci andremo cauti, d'accordo? Non abbiamo
certo in mente di mandare comunicati alla stampa.»
«Insomma, Frank conobbe Al Hunt» insistei io.
Il dottor Masterson esitò di nuovo, la faccia tesa. «Sì. Fu Al a tirare fuori
le accuse.»
«Tombola» borbottò Marino.
«Cosa intende dire affermando che fu Al Hunt a tirare fuori le accuse?»
chiesi.
«Intendo dire che se ne lagnò con uno dei nostri terapisti» rispose il dottor Masterson, cominciando ad assumere un tono difensivo. «Disse qualcosa anche a me, durante uno dei nostri incontri. Interrogammo Frank, ma
lui si rifiutò di parlare. Era un giovane molto arrabbiato, chiuso. Non mi
era possibile agire sulla base di quello che aveva detto Al. Senza la collaborazione di Frank, le accuse non erano che parole.»
Marino e io restammo in silenzio.
«Mi spiace» disse il dottor Masterson, ormai apertamente infastidito dalla faccenda. «Non posso aiutarvi di più, non so dove si trovi Frank. Non so
nient'altro. L'ultima volta che ho sentito suo padre dev'essere stato sette,
otto anni fa.»
«Quale fu l'occasione della conversazione?» domandai.
«Il signor Aims mi telefonò.»
«Per quale motivo?»
«Mi chiese se avevo notizie di Frank.»
«Be', e lei?» chiese Marino.
«No» rispose il dottor Masterson. «Non ho più sentito una parola da
Frank, mi dispiace.»
«Perché il signor Aims voleva sapere se aveva sentito Frank?» chiesi,
domanda cruciale.
«Voleva trovarlo, sperava che potessi avere un indizio su dove si trova-
va. Perché sua madre era morta. La madre di Frank, voglio dire.»
«Dove morì e cosa accadde?» chiesi.
«A Freeport, nel Maine. Non ho presenti con chiarezza le circostanze.»
«Morte naturale?» chiesi.
«No» disse il dottor Masterson, rifiutandosi di incontrare il mio sguardo.
«Sono decisamente certo che non lo fu.»
Non occorse molto a Marino per ricostruire il fatto. Chiamò la polizia di
Freeport. Secondo la documentazione, nel tardo pomeriggio del 15 gennaio 1983 la signora Wilma Aims era stata picchiata a morte da un "rapinatore" che evidentemente si trovava in casa sua quando era tornata dal
negozio del droghiere. La donna aveva quarantadue anni, piccola, occhi
azzurri e capelli biondi. Tinti. Il caso era rimasto irrisolto.
Non avevo dubbi su chi fosse il cosiddetto rapinatore. E nemmeno Marino.
«Quindi» disse, «forse Hunt era davvero chiaroveggente, eh? Sapeva che
Frankie aveva fatto fuori sua madre. Questo accadde molto tempo dopo
che i due zuccherini erano stati in manicomio insieme, sicuro come l'inferno.» Stavamo osservando le pagliacciate dello scoiattolo Sammy sul beccatoio. Dopo avermi riaccompagnato in macchina dall'ospedale e avermi
fatto scendere davanti a casa, lo avevo invitato a prendere un caffè.
«Sei certa che Frankie non abbia mai lavorato all'autolavaggio di Hunt,
negli ultimi anni?» chiesi.
«Non ricordo alcun Frank o Frankie Aims, sui loro registri» disse Marino.
«Poteva essersi benissimo cambiato il nome.»
«Probabilmente fu così, se aveva fatto fuori la vecchia. Immaginò che i
poliziotti gli avrebbero potuto dare la caccia.» Si sporse a prendere il caffè.
«Il problema è che non abbiamo una descrizione recente, e posti come il
Masterwash sono peggio di una dannata porta girevole: gente che entra ed
esce continuamente. Lavora un paio di giorni, una settimana, un mese. Hai
idea di quanti siano i ragazzi bianchi alti, magri e scuri di capelli? Sto cercando di ripensare ai nomi, ma non saprei dire.»
Eravamo così vicini, eppure così lontani. C'era di che impazzire. «Le fibre si addicono a un autolavaggio» dissi, frustrata. «Hunt lavorava nell'autolavaggio presso cui si serviva Beryl e probabilmente conosceva l'assassino di lei. Capisci quello che voglio dire, Marino? Hunt sapeva che Frankie
aveva ucciso sua madre: Hunt e Frankie possono essersi contattati, dopo il
Valhalla. Frankie può aver lavorato al lavaggio di Hunt, forse anche di recente. È possibile che all'inizio si sia fissato su Beryl, quando lei portò là la
macchina.»
«Hanno trentasei dipendenti. Tutti neri tranne undici, capo, e di quegli
undici sei sono donne. Quanti ne restano? Cinque? Tre di loro sono sotto i
venti, il che significa che avevano otto, nove anni, quando Frankie era al
Valhalla. Sappiamo quindi che non possono essere loro. Nemmeno gli altri
tre si prestano, per varie altre ragioni.»
«Quali varie altre ragioni?» chiesi.
«Perché sono stati assunti solo nell'ultimo paio di mesi, oppure perché
non lavoravano là quando Beryl portò la macchina. Per non parlare del fatto che la descrizione fisica non si avvicina nemmeno vagamente alla nostra. Un ragazzo ha i capelli rossi, un altro è un tappetto basso quasi come
te.»
«Grazie tante.»
«Continuerò a controllare» disse, distogliendo lo sguardo dal beccatoio,
mentre lo scoiattolo Sammy ci osservava con i suoi occhietti orlati di rosa.
«E tu?»
«E io cosa?»
«Il tuo ufficio in città... si ricordano ancora che ci lavori?» chiese Marino.
Mi guardò con espressione strana.
«È tutto a posto» dissi.
«Non ne sarei così sicuro, capo.»
«Io sì.»
«Per me» Marino non demordeva «non ti stai dando troppo da fare.»
«Intendo stare fuori dall'ufficio per un altro paio di giorni» spiegai con
fermezza. «Devo rintracciare il manoscritto di Beryl. Ethridge ci conta. E
abbiamo bisogno di vedere cosa c'è scritto. Forse è il nesso di cui parlavi
tu.»
«Tanto per attenerti ai miei suggerimenti.» Si scostò dal tavolo.
«Sto agendo con molta prudenza» gli assicurai.
«E niente più notizie del tizio, vero?»
«Vero» confermai. «Nessuna telefonata. Nessun segno. Niente.»
«Be', lascia solo che ti ricordi non era nel suo stile chiamare ogni giorno,
anche con Beryl.»
Non occorreva che me lo ricordasse. E non volevo che ricominciasse
con le sue prediche. «Se chiama, gli dirò semplicemente "Hello, Frankie.
Come va?"»
«Ehi. Non è un gioco.» Si fermò nell'ingresso e si girò. «Stavi scherzando, vero?»
«Naturalmente.» Sorrisi, dandogli una pacca sulla schiena.
«Voglio dire, capo, davvero! Non fare niente di simile. Se lo senti alla
segreteria telefonica, non alzare quella dannata cornetta...»
Quando aprii la porta, Marino restò di ghiaccio, gli occhi spalancati per
l'orrore.
«Santa meeerda...» Uscì dalla veranda, portando stupidamente la mano
al revolver e guardandosi intorno come un pazzo.
Ero troppo esterrefatta per parlare. Dietro di lui, l'aria invernale era ravvivata dal ruggito delle fiamme.
L'LTD di Marino era un inferno contro la notte nera. Le fiamme danzavano, lambendo il quarto di luna. Afferratolo per una manica, lo trascinai
di nuovo dentro casa proprio mentre in lontananza echeggiava il lamento
di una sirena. Il serbatoio della benzina esplose. Le finestre del salotto si
illuminarono, mentre una palla di fuoco schizzava in cielo arroventando i
piccoli cornioli ai confini del mio terreno.
«Oddio» gridai, mentre saltava la corrente elettrica.
La grossa sagoma di Marino prese a misurare la moquette nel buio come
un toro impazzito in procinto di caricare, mentre imprecando annaspava
con la radio portatile.
«Fottuto bastardo! Quel fottuto bastardo!»
Lo mandai via subito dopo che un camion a rimorchio piatto ebbe agganciato il mucchio incenerito che restava della sua adorata macchina
nuova. Aveva insistito per fermarsi la notte. Io gli avevo assicurato che le
unità di pattuglia appostate fuori casa sarebbero bastate. Allora aveva insistito perché mi trovassi un albergo, ma io mi ero rifiutata di muovermi.
Avevamo entrambi un disastro di cui occuparci. La mia strada e il terreno
erano ridotti a un pantano di fuliggine, il piano inferiore invaso da un fumo
che puzzava in maniera disgustosa. La cassetta della posta, in fondo al vialetto, sembrava un fiammifero annerito. Avevo perso almeno una mezza
dozzina di piante di bosso e altrettanti alberi. Dunque, benché apprezzassi
la preoccupazione di Marino avevo bisogno di stare sola.
Era mezzanotte passata e mi stavo svestendo alla luce di una candela,
quando squillò il telefono. La voce di Frankie filtrò come un vapore tossico nella stanza da letto, inquinando l'aria e contaminando il rifugio privile-
giato della mia casa.
Seduta sul bordo del letto, fissai la segreteria telefonica mentre la bile mi
saliva alla gola e il cuore cominciava a battermi dolorosamente contro le
costole.
«... mi sarebbe piaciuto essere lì a guardare. È stato impre-pre-ssionante,
Kay? Non l'hai trovato magnifico? Non mi piace che tu abbia altri uo-uomini per la casa. Adesso lo sai. Adesso lo sai.»
La segreteria telefonica si fermò e la lucina dei messaggi cominciò a
lampeggiare. Chiusi gli occhi e respirai adagio, profondamente, mentre il
mio cuore correva e le ombre proiettate dalla fiamma della candela oscillavano silenziose sulle pareti. Come poteva accadermi tutto questo?
Capii cosa dovevo fare: la stessa cosa che aveva fatto Beryl Madison.
Mi chiesi se stessi provando la stessa paura che aveva attanagliato anche
lei, quand'era scappata dall'autolavaggio dopo aver visto il cuore graffiato
sulla portiera della macchina. Aprii il cassetto del comodino con le mani
che mi tremavano violentemente e tirai fuori le Pagine Gialle. Dopo aver
fatto le prenotazioni, chiamai Benton Wesley.
«Non te lo consiglio, Kay» disse. Si era svegliato in un istante. «No. In
nessun caso. Dammi retta, Kay...»
«Non ho scelta, Benton. Volevo soltanto dirlo a qualcuno. Puoi avvertire
Marino, se hai voglia. Ma non intrometterti. Ti prego. Il manoscritto....»
«Kay...»
«Devo trovarlo. Penso che sia là.»
«Kay! Ti stai sbagliando!»
«Ascolta.» La mia voce si alzò di tono. «Cosa dovrei fare? Aspettare qui
che decida di sfondarmi la porta a calci o di farmi saltare la macchina? Se
resto, sono morta. Non l'hai ancora capito, Benton?»
«Hai un sistema d'allarme, una pistola. Non può farti saltare la macchina, finché sei dentro. Ah, mi ha chiamato Marino. Mi ha detto cos'è successo. L'ipotesi più probabile è che qualcuno abbia impregnato uno straccio di benzina e l'abbia ficcato nel serbatoio. Hanno trovato segni di manomissione. Ha guardato...»
«Gesù, Benton. Non mi stai ascoltando!»
«Ascoltami tu, piuttosto. Per favore, ascoltami, Kay. Ti farò proteggere,
farò in modo che ti mettano qualcuno alle calcagna, va bene? Uno dei nostri agenti femminili...»
«Buonanotte, Benton.»
«Kay!»
Appesi, e quando Benton mi richiamò, subito dopo, non risposi. Ascoltai
intorpidita le sue proteste alla segreteria telefonica, mentre il sangue mi
pulsava nel collo. Avevo davanti agli occhi le immagini della macchina di
Marino che sibilava tra le fiamme, sotto gli archi d'acqua dei gonfi tubi antincendio snodati al di là della strada. Quando avevo scoperto il piccolo
corpo carbonizzato in fondo al vialetto, qualcosa dentro di me si era spezzato. Il serbatoio doveva essere esploso proprio nell'attimo in cui lo scoiattolo Sammy balzava frenetico sul filo della corrente. Aveva spiccato un
folle salto per salvarsi. Per una frazione di secondo, le zampe avevano fatto contatto simultaneamente con il trasformatore a terra. Una scarica di
ventimila volt era fluita nel suo minuscolo corpicino, carbonizzandolo e
facendo saltare il fusibile.
Lo avevo adagiato in una scatola da scarpe e seppellito nel rosaio. L'idea
di vedere ancora la sua sagoma annerita nella luce del mattino era più di
quanto potessi sopportare.
Quando finii di fare la valigia, l'elettricità non era ancora tornata. Da
basso sorseggiai del brandy e fumai finché smisi di tremare, la Ruger che
scintillava sopra il mobile bar alla luce delle candele. Non andai a letto, e
quando mi chiusi la porta alle spalle evitai di guardare il mio giardino devastato. La valigia mi batteva contro la gamba, e mentre correvo verso la
macchina uno schizzo di acqua sporca mi bagnò le caviglie. Non vidi una
sola unità di pattuglia, nemmeno quando imboccai la strada silenziosa. Arrivata in aeroporto, poco dopo le cinque del mattino, mi diressi subito alla
toilette e tirai fuori la pistola dalla borsetta. La scaricai e la infilai in valigia.
15
Oltrepassato il ponte d'imbarco, a mezzogiorno in punto scesi nell'atrio
inondato di sole dell'aeroporto internazionale di Miami.
Mi fermai a prendere il "Miami Herald" e una tazza di caffè. A un tavolino nascosto per metà da una palma in vaso, mi tolsi la giacca invernale e
rimboccai le maniche. Ero bagnata fradicia, il sudore mi gocciolava lungo i
fianchi e giù per la schiena. Gli occhi mi bruciavano per la mancanza di
sonno, la testa mi doleva e quello che scoprii aprendo il giornale non servì
certo a migliorare le mie condizioni: sulla prima pagina, nell'angolo in basso a sinistra, c'era una spettacolare fotografia dei pompieri intenti a spegnere il rogo dell'auto di Marino. Ad accompagnare la drammatica imma-
gine dei getti d'acqua, della cortina di fumo e degli alberi incendiati ai
margini del mio terreno, c'era il seguente titolo:
MACCHINA DELLA POLIZIA ESPLODE
I vigili del fuoco di Richmond alle prese in una tranquilla via residenziale con la macchina in fiamme di un detective impegnato nelle indagini su un caso di omicidio. Quando è esplosa, la notte scorsa, la Ford
LTD era vuota. Non ci sono stati feriti. Si sospetta un incendio doloso.
Grazie a Dio non facevano alcun riferimento al movente o al proprietario
della casa davanti a cui era stata parcheggiata la macchina di Marino. Mia
madre però avrebbe visto la foto e di sicuro avrebbe cercato di telefonarmi.
"Vorrei tanto che ti trasferissi a Miami, Kay. Richmond dev'essere un posto terribile. E il nuovo ufficio del medico legale è così bello, qui: sembra
uscito da un film" avrebbe detto. Stranamente, mia madre non sembrava
mai accorgersi che ogni anno c'erano più omicidi, sparatorie, droga-party,
disordini razziali, stupri e ruberie nella mia cittadina natale di lingua spagnola che non in Virginia e nell'intero Commonwealth messi insieme.
Le avrei telefonato più tardi. "Perdonami, Signore, ma non ho la forza di
parlarle adesso."
Raccogliendo la mia roba, spensi un mozzicone di sigaretta e mi gettai
nella corrente di abiti tropicali, borse del duty-free e lingue straniere in
movimento verso l'area bagagli, la borsa a mano premuta contro un fianco.
Cominciai a rilassarmi solo parecchie ore dopo, quando ormai sfrecciavo
lungo il Seven Mile Bridge sulla macchina presa a nolo. Scendendo verso
sud, il Golfo del Messico da una parte e l'Atlantico dall'altra, cercavo di ricordare l'ultima volta che ero stata a Key West. Nonostante la frequenza
con cui Tony e io andavamo a trovare la famiglia, a Miami, quella era un'escursione che non consideravamo mai. Ero assolutamente certa che l'ultima volta che avevo fatto quel percorso in macchina era stato con Mark.
La sua passione per le spiagge e l'acqua e il sole era una forma di devozione ripagata dalla natura: nel senso che, se è possibile che la natura privilegi una creatura sulle altre, allora privilegiava Mark. Ricordavo a stento
l'anno, e ancora meno dove eravamo andati, comunque aveva trascorso una
settimana con me e la mia famiglia. Ciò che invece ricordavo con chiarezza erano i suoi calzoncini da bagno bianchi e il saldo calore della sua
mano nella mia, mentre passeggiavamo sulla sabbia fresca e umida. Ricordavo l'incredibile candore dei suoi denti contro la pelle ramata, la salute e
la gioia che trasparivano dai suoi occhi mentre cercava denti di pescecane
e conchiglie e io gli sorridevo sotto le falde del cappello a tesa larga. Ma
quello che proprio non potevo dimenticare era di avere amato un ragazzo
chiamato Mark James più di quanto avessi mai creduto possibile a questo
mondo.
Cosa lo aveva cambiato? Era difficile, per me, accettare l'idea che fosse
passato al nemico, come credeva Ethridge, ma non avevo altra scelta che
prendere atto della trasformazione. Mark era sempre stato viziato. Nutriva
un senso di diritto alla vita che gli veniva dal fatto di essere uno splendido
figlio di splendide persone. I frutti del mondo erano tutti suoi, ma non era
mai stato disonesto né crudele. Non potevo nemmeno dire che avesse mai
trattato con disprezzo i meno fortunati di lui, o che si fosse approfittato
delle vittime del suo fascino. Il suo unico peccato era non avermi amato
abbastanza. Dal mio distaccato punto d'osservazione - la mezza età - potevo anche perdonarlo per questo; ciò che invece non potevo perdonargli era
di essersi rivelato disonesto, di essersi ridotto in un uomo meschino, molto
più meschino di quello che un tempo avevo rispettato e adorato. Non potevo perdonargli di non essere più Mark.
Oltrepassando il Naval Hospital sulla U.S.1, seguii la dolce curva del litorale del North Roosevelt Boulevard. Presto mi infilai nel labirinto di
strade di Key West, in cerca di Duval Street. Il sole illuminava le anguste
viuzze bianche, mentre sul selciato danzavano le ombre delle piante tropicali agitate dalla brezza. Sotto un cielo azzurro che si stendeva a perdita
d'occhio, enormi palme e piante di mogano cullavano le case e i negozi nel
vivido verde delle loro braccia frondose, mentre la buganvillea e l'ibisco
omaggiavano marciapiedi e verande di luminosi doni rossi e violetti. Lentamente sfilai accanto a una folla in sandali e pantaloncini corti e a un'interminabile parata di ciclomotori. C'erano pochissimi bambini e un numero
spropositato di maschi.
Il La Concha era una specie di Holiday Inn alto e rosato, con spazi aperti
e lussureggianti piante tropicali. Non avevo avuto problemi con le prenotazioni, evidentemente perché la stagione turistica non sarebbe cominciata
fino alla terza settimana di dicembre. Ma appena lasciai la macchina nel
parcheggio semivuoto ed entrai nell'atrio deserto, non potei fare a meno di
pensare a quello che mi aveva detto Marino. Mai, in vita mia, avevo visto
tante coppie dello stesso sesso, ed era lampante che scavando sotto la robusta apparenza di salute di quella minuscola isola al largo della costa ci si
poteva scontrare con il tetro filone di una malattia. Ovunque guardassi, a-
vevo l'impressione di vedere solo moribondi. Non avevo la fobia del contagio con l'epatite o l'Aids, avendo da lungo tempo imparato a fronteggiare
quel genere di pericoli, nella mia professione endemici, né ero infastidita
dagli omosessuali. Più passavano gli anni, più mi convincevo che l'amore
si può vivere in molti modi diversi. Non esiste amore giusto o sbagliato:
giusto o sbagliato è solo il modo in cui lo si esprime.
Appena l'addetto alla reception mi restituì la carta di credito, gli chiesi di
indicarmi gli ascensori e puntai confusamente verso la mia stanza al quinto
piano. Mi spogliai e, in indumenti intimi, mi infilai a letto e dormii per le
successive quattordici ore.
Il giorno seguente era magnifico come quello che lo aveva preceduto.
Mi vestii come ogni altro turista, tranne per la Ruger carica nascosta in
borsetta: avrei setacciato quell'isola di circa trentamila anime alla ricerca di
due uomini a me noti solo come PJ e Walt. Sapevo dalle lettere scritte da
Beryl nel tardo agosto che erano suoi amici e che vivevano nella stessa
pensione in cui aveva alloggiato lei, in camere ammobiliate. Non avevo il
minimo indizio sull'ubicazione o sul nome della casa, e confidavo che da
Louie's qualcuno potesse dirmelo.
Camminai con in mano una cartina acquistata nel negozio di articoli da
regalo dell'hotel. Seguendo la Duval, superai file di negozi e ristoranti con
terrazzi a balaustra che ricordavano il quartiere francese di New Orleans.
Passai davanti a bancarelle d'arte e a boutique che vendevano piante esotiche, sete e cioccolatini Perugina; poi a un incrocio mi fermai a osservare le
carrozze giallo vivo del Conch Tour Train che sferragliavano via. Cominciai a capire perché Beryl Madison non voleva lasciare Key West. A ogni
passo, la presenza minacciosa di Frankie sembrava sbiadire sempre di più;
quando piegai a sinistra in South Street, era ormai remota come il freddo e
umido dicembre di Richmond.
Louie's era un ristorante di legno con infissi bianchi; un tempo era stato
una casa privata, all'angolo tra Vernon e Waddell Street. I pavimenti di legno duro erano senza macchie, i tavoli coperti da tovaglie color pesca, impeccabilmente apparecchiati e decorati con deliziosi fiori freschi. Attraverso la sala da pranzo con aria condizionata seguii il mio anfitrione fino alla
veranda, dove sedetti abbagliata dalle variegate sfumature di azzurro dell'acqua che incontrava il cielo, mentre le palme e i cesti sospesi di piante in
fiore oscillavano nell'aria profumata di mare. L'oceano Atlantico era proprio sotto i miei piedi, punteggiato di barche a vela ancorate alla distanza
di una breve nuotata. Ordinato un rum e tonic, ripensai alle lettere di Beryl
e mi domandai se ero seduta allo stesso tavolo da cui le aveva scritte.
I tavoli erano quasi tutti occupati. Nel mio angolo a ridosso della ringhiera mi sentivo appartata dalla folla. Alla mia sinistra quattro gradini
scendevano verso un lungo pontile dove un gruppetto di ragazzi e ragazze
bighellonava in costume da bagno vicino a un chikee bar. Un muscoloso
ragazzo latino in slip giallo lanciò un mozzicone di sigaretta in acqua, si
alzò stiracchiandosi languidamente, e si mosse con fare pigro andando a
ordinare un altro giro di birre al barista, un tizio barbuto e non più giovane
con l'aria infastidita di chi è stanco del proprio lavoro.
Solo parecchio dopo che avevo terminato di consumare la mia insalata e
zuppa di molluschi, il gruppo scese la breve rampa di gradini e sguazzando
rumorosamente nell'acqua si diresse verso le barche ancorate. Pagai il conto e accostai il barista, che si era rilassato contro lo schienale di una poltrona sotto un baldacchino dal tetto di paglia, a leggere un romanzo.
«E adesso cosa c'è?» borbottò con voce strascicata, mentre si rialzava
con scarso entusiasmo e riponeva il libro sotto il bancone.
«Mi domandavo se vendete sigarette» dissi. «Non ho visto distributori
automatici all'interno.»
«Eccolo qua» fece, indicando una minuscola vetrinetta alle sue spalle.
Scelsi un pacchetto.
Sbattendolo sul bancone, pretese l'oltraggiosa somma di due dollari e
non fu particolarmente garbato nemmeno quando gliene lasciai mezzo extra, di mancia. Aveva occhi verdi e ostili, il volto scurito dagli anni e dal
sole, la folta e cupa barba picchiettata di grigio. Un uomo duro e scortese;
ebbi l'impressione che vivesse a Key West da un bel pezzo.
«Le spiace se le faccio una domanda?»
«Mi pare che l'abbia già fatta, signora» rispose.
Sorrisi. «Ha ragione. L'ho appena fatta. E adesso sto per fargliene un'altra. Da quanto tempo lavora al Louie's?»
«Vado per il quinto anno.»
Afferrò uno strofinaccio e cominciò a pulire il bancone.
«Allora deve avere conosciuto una giovane donna che si faceva chiamare Straw» dissi, ricordando dalle lettere che Beryl non aveva usato il proprio nome reale, mentre era lì.
«Straw?» ripeté, aggrottando le sopracciglia e continuando a lucidare.
«Un soprannome. Era bionda, snella, molto graziosa, e veniva qui quasi
ogni pomeriggio, quest'estate. Andava a sedersi fuori in veranda, a uno dei
vostri tavoli, e scriveva.»
Smise di lucidare e mi puntò addosso i suoi occhi duri. «Che cosa c'entra
con lei? È una sua amica?»
«È una mia paziente» dissi: la sola cosa a cui avessi potuto pensare che
non fosse né imbarazzante, né una sfrontata bugia.
«Hmm?» Le spesse sopracciglia si sollevarono di colpo. «Una paziente?
Lei è un medico?»
«Esatto.»
«Be', spiacente di dirle che ormai non potrà più esserle di alcun giovamento, dottoressa.» Si lasciò ricadere sulla poltrona, appoggiandosi all'indietro, in attesa.
«Lo so» dissi. «So che è morta.»
«Già, sono rimasto piuttosto sconvolto dalla notizia. Sono venuti dei poliziotti, un paio di settimane fa. Hanno imperversato dappertutto con i loro
tubicini di gomma e altri strumenti di tortura. Glielo dico io cos'hanno risposto i miei colleghi alle loro domande: che nessuno, qui, sa una merda di
niente di quello che è successo a Straw. Era davvero tranquilla, una donna
splendida. Si sedeva sempre laggiù.» Indicò un tavolo vuoto non lontano
dal mio. «Sempre là, tutto il tempo, e badava solo ai fatti suoi.»
«Qualcuno di voi era riuscito a conoscerla?»
«Certo.» Si strinse nelle spalle. «Ci abbiamo tutti bevuto una birra insieme. Lei aveva un debole per la Corona e lime. Ma non direi che la gente
qui la conoscesse personalmente, non so nemmeno se qualcuno saprebbe
dirle di dov'era, mi capisce, eccetto che veniva dai paesi freddi.»
«Richmond, Virginia» dissi.
«Sa» proseguì, «da queste parti è un andirivieni continuo. Key West è un
posto stile vivi-e-lascia-vivere. Ci sono anche un sacco di artisti che fanno
la fame, qui. Straw non era affatto diversa da tanta altra gente che conosco,
tranne che di solito le persone che conosco non finiscono assassinate. Accidenti!» Si grattò la barba e scosse lentamente la testa. «È veramente incredibile. Mi fa quasi saltare il cervello.»
«Restano ancora molti dubbi irrisolti» dissi, accendendo una sigaretta.
«Già, ad esempio: perché lei fuma? Pensavo che i dottori dovessero saperla più lunga.»
«È una pessima abitudine, so che fa male. Ma credo che lei possa prepararmi ugualmente un rum e tonic, perché mi piace anche bere. Barbancourt
con appena una spruzzatina di tonic, prego.»
«Quattro, otto, quale preferisce?» Mise alla prova la mia competenza in
fatto di liquori di qualità.
«Venticinque, se ne ha.»
«No. Quella roba invecchiata venticinque anni la può trovare solo nelle
isole. Va giù così liscia da farti quasi piangere.»
«La migliore che avete, allora» decisi.
Puntò il dito verso una bottiglia dal familiare vetro ambrato, cinque stelle sull'etichetta: Barbancourt Rhum, invecchiato in barile per quindici anni,
proprio come la bottiglia che avevo scoperto nel bar della cucina di Beryl.
«Quello va benissimo» dissi.
Sorridendo apertamente e ringalluzzendosi di colpo, si alzò dalla sedia e
prese a muovere le mani con la destrezza di un giocoliere: afferrò la bottiglia, senza l'aiuto di alcun misurino versò un'abbondante dose del dorato
liquido haitiano, e infine aggiunse sfavillanti spruzzi di tonic. Come gran
finale, tagliò con abilità uno spicchio perfetto di lime che sembrava essere
stato appena staccato dall'albero, lo strizzò nel mio drink e passò una scorza di limone premendola sull'orlo del bicchiere. Sfregandosi la mano nello
straccio infilato nella cintura dei Levi's scoloriti, allungò un tovagliolo di
carta dalla mia parte del bancone e mi fece omaggio del suo capolavoro.
Era senza dubbio il miglior rum e tonic che avessi mai accostato alle labbra, e glielo dissi.
«Offre la casa» rispose lui, respingendo il biglietto da dieci dollari che
gli porgevo. «Ogni dottore che fumi e se ne intenda di rum, è il benvenuto.» Frugando sotto il banco, tirò fuori il suo pacchetto.
«Glielo confesso» riprese, scuotendo il fiammifero per spegnerlo, «sono
maledettamente stufo di questa ipocrita merda sul fumo. Sa cosa intendo?
La gente ti fa sentire una specie di criminale. Ma, per quanto mi riguarda,
vivi e lascia vivere. Questo è il mio motto.»
«Sì. So esattamente cosa intende» commentai mentre aspiravamo lunghe, avide boccate.
«Vogliono sempre giudicarti per qualcosa. Per quello che mangi, che
bevi, per chi frequenti.»
«La gente sa essere estremamente impicciona e scortese» risposi.
«Al diavolo.»
Tornò a sedersi all'ombra del rifugio tappezzato di bottiglie, mentre il
sole mi cuoceva la parte superiore della testa. «Okay» fece, «e così lei è il
dottore di Straw. Cos'è che cerca di scoprire, se mi consente la domanda?»
«Vi sono alcune circostanze accadute prima della sua morte che lasciano
molto perplessi» risposi. «Speravo che i suoi amici potessero chiarirmi un
paio di punti...»
«Aspetti un minuto» mi interruppe, raddrizzandosi a sedere. «Quando lei
dice dottore, che razza di dottore intende?»
«L'ho esaminata...»
«Quando?»
«Dopo morta.»
«Oh, merda. Vuole forse dire che è un impresario di pompe funebri?»
chiese incredulo.
«Sono un patologo legale.»
«Un coroner?»
«Più o meno.»
«Be', che sia dannato.» Mi squadrò dall'alto al basso. «Di sicuro non l'avrei mai immaginato.»
Non sapevo se intendeva farmi un complimento.
«Mandano sempre un... come l'ha chiamato? Un patologo legale a raccogliere informazioni come sta facendo lei?»
«Non mi ha mandato nessuno. Sono venuta di mia spontanea iniziativa.»
«Perché?» chiese, lo sguardo di nuovo incupito dal sospetto. «Ha fatto
un casino di strada.»
«Mi preoccupa ciò che è accaduto a Beryl. Mi preoccupa moltissimo.»
«Insomma, non è stata la polizia a mandarla?»
«La polizia non ha l'autorità per mandarmi da nessuna parte.»
«Bene.» Rise. «Questo mi piace.»
Allungai la mano verso il mio drink.
«Un branco di bulli. Si credono tutti dei Rambo.» Schiacciò la sigaretta.
«Sono venuti qui coi loro dannati guanti di gomma. Gesù Cristo! Che effetto crede che la cosa abbia fatto, sui nostri clienti? Sono andati a trovare
Brent, uno dei camerieri. Sta morendo, no, e loro cosa fanno? Quegli
stronzi si mettono le mascherine chirurgiche e gli si piantano a tre metri
dal letto a chiedergli stronzate. Giuro su Dio che se anche avessi saputo
qualcosa su ciò che è accaduto a Beryl, non mi sarei lasciato sfuggire una
virgola di niente.»
Il nome Beryl mi colpì all'istante, e quando i nostri occhi si incontrarono
capii che aveva già colto il significato di quel lapsus.
«Beryl?» ripetei.
Tornò ad appoggiarsi silenziosamente allo schienale.
«Sapeva che il suo nome era Beryl?» lo incalzai.
«Come ho detto, i poliziotti erano qui a fare domande, parlavano di lei.»
Si accese imbarazzato un'altra sigaretta, incapace di sostenere il mio
sguardo. Come bugiardo l'amico barista non valeva un granché.
«E hanno parlato anche con lei?»
«No. Me la sono svignata quando ho visto quello che stava succedendo.»
«Perché?»
«Gliel'ho detto. Non mi piacciono i poliziotti. Io ho una Barracuda, una
carriola scassata che possiedo da quando ero un ragazzino. Non so com'è,
ma mi incastrano sempre e mi appioppano multe. Spadroneggiando in giro
con i loro pistoloni e i loro Ray Ban: si credono le star dei telefilm, o roba
del genere.»
«Lei sapeva già il suo nome» affermai in tono calmo. «Sapeva che si
chiamava Beryl Madison da molto prima che venisse la polizia.»
«E se così fosse? Che problema c'è?»
«Vede, Beryl era molto riservata sul proprio nome» risposi risentita.
«Non voleva che qui si sapesse chi era. Non lo diceva a nessuno. Pagava
tutto in contanti per non dovere usare carte di credito o assegni, nulla che
permettesse di identificarla. Era terrorizzata. Stava fuggendo. Non voleva
morire.»
Mi guardò a occhi spalancati.
«Per favore, mi dica quello che sa. La prego. Ho la sensazione che foste
amici.»
Senza fiatare, il barista si alzò e uscì dal bancone. Girandomi la schiena,
si mise a raccogliere le bottiglie vuote e i resti disseminati dal gruppo sul
pontile.
Sorseggiai il mio drink in silenzio, ammirando l'acqua dell'oceano. In
lontananza, un giovane abbronzato scioglieva la sagola di una vela azzurro
scuro in procinto di salpare. Fronde di palma sussurravano nella brezza e
un labrador nero da riporto danzava sul litorale, saltando dentro e fuori la
risacca.
«Zulù» sussurrai, fissando intontita il cane.
Il barista interruppe ciò che stava facendo e alzò gli occhi verso di me.
«Cosa ha detto?»
«Zulù» ripetei. «In una delle sue lettere Beryl parlava di Zulù e dei vostri gatti. Diceva che gli animali randagi da Louie's mangiano meglio dei
cristiani.»
«Quali lettere?»
«Beryl scrisse delle lettere, mentre era qui. Le abbiamo trovate nella sua
camera da letto, dopo l'assassinio. Diceva che le persone di qui erano di-
ventate come una famiglia, per lei. Pensava che fosse il più bel posto del
mondo. Vorrei che non fosse mai tornata a Richmond. Vorrei che fosse
rimasta proprio qui.»
La mia voce sembrava quasi uscire dalla bocca di un altro, la vista mi si
era annebbiata. Il sonno irregolare, lo stress accumulato e il rum stavano
coallzzandosi contro di me, mentre il sole asciugava quel poco di sangue
che ancora mi affluiva al cervello.
Quando infine il barista tornò alla sua capanna, parlò con sommessa emozione. «Non so cosa dirle. Ma, sì, ero amico di Beryl.»
«Grazie» risposi, girandomi verso di lui. «Mi piacerebbe pensare che ero
anch'io amica di Beryl. Che sono sua amica.»
Abbassò gli occhi, imbarazzato, ma feci in tempo a cogliere l'espressione addolcita sulla sua faccia.
«Non si può mai essere davvero sicuri su chi è a posto e chi no» commentò. «È davvero difficile distinguere, di questi tempi, su questo non c'è
dubbio.»
Il significato delle sue parole penetrò lentamente attraverso la mia stanchezza. «C'è forse stato qualcuno che ha chiesto di Beryl e che non era a
posto? Gente diversa dalla polizia? Altri... prima di me?»
Si versò una Coca.
«C'è stato qualcuno? Chi?» ripetei, improvvisamente allarmata.
«Non conosco il nome.» Trangugiò una bella sorsata della bibita. «Un
tipo di bell'aspetto. Giovane, sui venti, forse. Bruno. Abiti eleganti, occhiali da sole firmati. Sembrava uscito da un film. Un paio di settimane fa,
credo. Diceva di essere un investigatore privato, o qualche stronzata del
genere.»
Il figlio del senatore Partin.
«Voleva sapere dove stava Beryl mentre era qua» proseguì.
«E glielo ha detto?»
«Non gli ho nemmeno parlato.»
«E qualcun altro glielo ha detto?» insistei.
«Improbabile.»
«Perché improbabile? E... potrei sapere come chiamarla?»
«Improbabile perché non lo sapeva nessuno tranne me e un mio amico»
spiegò. «E non le dirò come mi chiamo se prima non mi dice come si
chiama lei.»
«Kay Scarpetta.»
«Piacere di conoscerla. Mi chiamo Peter. Peter Jones. Gli amici mi
chiamano PJ.»
PJ viveva a due isolati da Louie's, in una minuscola casa completamente
sommersa dalla giungla tropicale. La vegetazione era così fitta che, non
fosse stato per la Barracuda parcheggiata davanti, credo non avrei saputo
localizzare l'edificio dalla facciata scrostata. Uno sguardo alla macchina mi
fece capire esattamente perché la polizia trovasse continuamente da ridire
con il suo proprietario. Sembrava uno sgorbio da graffito metropolitano, su
ruote fuori misura e dotato di alettoni, sponde e coda sollevata verso l'alto,
interamente dipinto nei colori psichedelici degli anni Sessanta, forme e
motivi di natura allucinatoria.
«Questa è la mia bambina» disse PJ, dando un affettuoso colpetto alla
capote.
«È originale, fuori dal comune» commentai.
«Ce l'ho da quando avevo sedici anni.»
«Non la dia mai via» dissi sincera, mentre mi chinavo sotto le fronde per
seguirlo all'ombra fresca e scura.
«Qui non è granché» si scusò, aprendo la porta. «Appena una stanza da
letto in più e il gabinetto di sopra, dove stava Beryl. Credo che uno di questi giorni l'affitterò di nuovo. Ma sono piuttosto schizzinoso, in fatto di inquilini.»
Il salotto era un guazzabuglio di mobili scompagnati: un divano e una
sedia imbottita in sgradevoli tonalità rosa e verdi, diverse lampade mal assortite e ricavate dai più svariati oggetti, come gusci di conchiglia o coralli,
e un tavolino basso costruito con quella che nella precedente esistenza doveva essere stata una porta di quercia. Sparse in giro c'erano noci di cocco
dipinte, stelle marine, giornali, scarpe e lattine di birra; l'aria umida era
pregna di un aspro odore di marcio.
«Come fece Beryl a sapere della stanza che lei affittava?» chiesi, sedendo sul divano.
«Da Louie's» rispose, accendendo alcune lampade. «Le prime notti aveva alloggiato all'Ocean Key, un graziosissimo albergo in Duval Street.
Immagino non ci avesse messo molto a capire che le sarebbe costato un
patrimonio, se si fosse fermata per un po'.» Sedette sulla sedia imbottita.
«Credo fosse la terza volta che veniva a pranzo da Louie's. Ordinò solo un'insalata, e restò seduta a fissare l'acqua. Non aveva ancora iniziato a lavorare. Restò seduta e basta. Era una specie di incanto, il modo in cui restava là, inerte. Voglio dire, per ore, quasi l'intero pomeriggio. Alla fine,
sì, penso fosse proprio la terza volta che veniva da Louie's, scese giù al bar
e si appoggiò alla ringhiera, ad ammirare la vista. Credo di essermi sentito
triste per lei, allora.»
«Perché?»
Alzò le spalle. «Sembrava così smarrita, sa. Depressa, o qualcosa del
genere. Cominciai a parlarle. Non era quello che chiamerei un tipo facile,
questo è sicuro.»
«No, non era facile da conoscere» convenni.
«Era difficilissimo avere con lei una conversazione amichevole. Le feci
un paio di semplici domande, come "È la prima volta che viene qui?" o
"Da dove viene?", roba del genere. In certi momenti non rispondeva nemmeno. Era come se non ci fossi. Ma era buffo. Qualcosa mi diceva di restare là con lei. Le chiesi cosa le piaceva bere. Cominciammo a parlare di
cocktail. Fu come se si sciogliesse, l'argomento era di suo interesse. Poi le
faccio provare alcune specialità offerte dalla casa. Prima una Corona con
uno spicchio di lime, che la manda in visibilio. Infine il Barbancourt, come
quello che ho preparato a lei. Quello era davvero speciale.»
«Be', non ho dubbi sul perché si sia sciolta, alla fine» osservai.
PJ sorrise. «Già, l'ha capito subito. Glielo preparai bello forte. Cominciammo a chiacchierare di altre cose. A un certo punto mi chiese se sapevo
di qualche sistemazione in zona. Ecco quando le dissi che avevo una stanza, e la invitai a venirla a vedere. Le dissi di fare un salto più tardi, se voleva. Era domenica e io mi libero sempre presto, la domenica.»
«E Beryl venne, quella sera?» domandai.
«La cosa mi sorprese davvero. Credevo che non si sarebbe fatta viva.
Invece venne, trovò il posto senza difficoltà. C'era Walt, a casa. Lui stava
sempre in piazza a vendere le sue stronzate fino all'imbrunire. Era appena
rientrato. Iniziammo a parlare tutti e tre, andavamo d'accordo. Poi facciamo una passeggiata per la città vecchia e finiamo allo Sloppy Joe's. Essendo una scrittrice, davvero partì in quarta: continuò a parlare e parlare di
Hemingway. Era una donna in gamba, glielo posso dire.»
«Walt vendeva gioielli d'argento» dissi. «In Mallory Square.»
«Come fa a saperlo?» chiese PJ, sorpreso.
«Le lettere scritte da Beryl» gli ricordai.
Guardò lontano, con un'espressione di tristezza.
«Accennò anche allo Sloppy Joe's. Ho l'impressione che Beryl volesse
molto bene, a lei e a Walt.»
«Già, sapevamo come farci fuori qualche birra, noi tre.» Raccolse una
rivista dal pavimento e la gettò sul tavolino.
«È probabile che voi due siate stati i suoi unici amici.»
«Beryl era una persona speciale.» Mi guardò. «Era speciale. Non ho mai
incontrato nessuno come lei, prima, e probabilmente non mi capiterà più.
Una volta superato il muro, era una donna veramente straordinaria. Proprio
in gamba, merda» disse ancora, appoggiando la testa allo schienale della
sedia e fissando il soffitto screpolato. «Mi piaceva un casino sentirla parlare. Sapeva dire le cose così.» Schioccò le dita. «Io non ci riuscirei nemmeno se avessi dieci anni per pensarci. Mia sorella è uguale. Lei fa l'insegnante in una scuola di Denver. Inglese. Io non sono mai stato troppo sveglio con le parole. Prima di fare il barista ho sempre lavorato con le mani.
Lavori di costruzione, di falegnameria. Ho fatto anche il muratore. Per un
po' mi sono dato alle ceramiche, finché non sono quasi morto di fame. Sono venuto qui per via di Walt. L'avevo incontrato nel Mississippi, in una
fottuta stazione di autobus, se può crederci. Cominciamo a parlare, facciamo il viaggio fino in Louisiana insieme. Un paio di mesi dopo, siamo qui.
È così strano.» Mi guardò. «Voglio dire, questo accadeva quasi dieci anni
fa. E tutto quello che mi rimane è questo letamaio.»
«La sua vita è tutt'altro che finita, PJ» dissi in tono gentile.
«Già.» Alzò la faccia verso il soffitto e chiuse gli occhi.
«Dov'è Walt, adesso?»
«Lauderdale, l'ultima volta che l'ho sentito.»
«Mi dispiace» dissi.
«Succede. Che dire?»
Ci fu un momento di silenzio, e decisi che era tempo di cogliere l'occasione.
«Beryl stava scrivendo un libro, qui?»
«Ha indovinato. Quando non stava con noi, lavorava a quel dannato libro.»
«È scomparso» dissi.
Non rispose.
«Il cosiddetto investigatore privato di cui mi parlava oggi e varie altre
persone sarebbero alquanto interessate a ritrovarlo. Ma questo lo saprà già,
suppongo.»
Rimase in silenzio, gli occhi chiusi.
«Lei non ha nessun motivo di credermi, PJ, ma spero che mi ascolterà»
proseguii a bassa voce. «Devo trovare quel manoscritto, il manoscritto a
cui Beryl stava lavorando mentre era qui. Penso che non l'abbia riportato a
Richmond con sé, quando ha lasciato Key West. Può aiutarmi?»
Spalancò gli occhi e mi scrutò attentamente. «Con tutto il rispetto, dottoressa Scarpetta, ammesso che lo sapessi, perché dovrei dirglielo? Perché
infrangere una promessa?»
«Ha promesso a Beryl di non rivelare dove si trova?» chiesi.
«Non importa, sono io che le ho fatto una domanda per primo» rispose.
Sospirai profondamente e abbassai lo sguardo sul lurido tappeto biondo
e peloso sotto i miei piedi, mentre mi sporgevo in avanti sul divano.
«Non vedo alcuna ragione per cui lei dovrebbe infrangere una promessa
fatta a un'amica, PJ» dissi.
«Merda. Lo so che non me lo chiederebbe, invece, se non avesse una
buona ragione.»
«Beryl le ha parlato di lui?» gli chiesi.
«Vuoi dire di quel bastardo che la tormentava?»
«Sì.»
«Sapevo della cosa.» Si alzò di scatto. «Non so lei, ma io mi sento pronto per una birra.»
«Grazie» dissi. Era importante accettare la sua ospitalità, in quel momento, anche se avrei fatto meglio a soprassedere. Mi sentivo ancora stordita dal rum.
Tornando dalla cucina, mi porse una gocciolante bottiglia di Corona
ghiacciata, uno spicchio di lime che galleggiava nel lungo collo affusolato.
Aveva un sapore meraviglioso.
PJ sedette e riprese a parlare. «Straw... voglio dire Beryl, suppongo di
poterla chiamare anch'io Beryl, era terrorizzata. A esser sincero, quando
appresi quello che le era successo non potei che comprenderla. Voglio dire, mi sconvolse. Ma non ero realmente impaurito. Le dissi di restare qui.
Le dissi di fregarsene dell'affitto: poteva restare finché voleva. Walt e io,
be', per quanto possa sembrarle strano, eravamo arrivati al punto di considerarla come una sorella. Anche se quella testa di cazzo mi ha fottuto.»
«Prego?» chiesi, sbigottita dalla sua rabbia improvvisa.
«Walt se ne andò via. Fu dopo che venimmo a sapere. Non lo so. Walt
cominciò a cambiare. Non posso dire che la ragione fu quello che era accaduto a Beryl, ma di sicuro gli fece un brutto effetto. Si fece distante e taciturno. Poi, un mattino, se ne andò. Semplicemente se ne andò.»
«Quando? Parecchie settimane fa, quando apprendeste il fatto dalla polizia, quando gli agenti vennero da Louie's?»
Annuì.
«Sono rimasta fregata anch'io, PJ» dissi. «Totalmente fregata.»
«Cosa significa? Come diavolo c'è rimasta fregata anche lei, se non per i
fastidi che questa faccenda può averle procurato?»
«Sto vivendo l'incubo di Beryl» riuscii a confessare a stento.
Buttò giù un sorso di birra, gli occhi intensi puntati su di me.
«Ormai credo di stare scappando anch'io, per la stessa ragione per cui
scappò lei.»
«Amica, lei mi fa sanguinare il cervello» disse, scuotendo la testa. «Di
che diavolo sta parlando?»
«Ha visto la foto sulla prima pagina dell'"Herald" di stamattina?» chiesi.
«La foto di una macchina della polizia bruciata a Richmond.»
«Sì» disse sconcertato. «Mi pare di ricordare qualcosa del genere.»
«È successo davanti a casa mia, PJ. Il detective era nel mio salotto a parlare con me, quando la sua macchina è stata ridotta a una torcia. E non è la
prima cosa che succede. Vede, lui sta dando la caccia anche a me.»
«Chi, per amor di Dio?» chiese, anche se ormai aveva capito.
«L'uomo che ha assassinato Beryl» risposi con molta difficoltà. «L'uomo
che poi ha macellato il "maestro" di Beryl, Cary Harper, di cui certo avrà
sentito parlare.»
«Un sacco di volte. Merda. Non ci credo.»
«La prego, mi aiuti, PJ.»
«Non vedo in che modo.» Divenne così inquieto che balzò dalla sedia e
prese a camminare su e giù per la stanza. «Perché quel porco le darebbe la
caccia?»
«Soffre di gelosia maniacale. È ossessionato, uno schizofrenico paranoide. Sembra odiare chiunque sia legato a Beryl. Non so perché, PJ, ma devo
scoprire chi è. Devo trovarlo» dissi.
«Io proprio non ho idea di chi possa essere. O di dove diavolo si trova.
Se lo sapessi, lo andrei a prendere e gli staccherei quella fottuta testa!»
«Ho bisogno del manoscritto, PJ» implorai.
«Che cazzo c'entra il manoscritto, adesso?» protestò.
Allora decisi. Gli dissi di Cary Harper e della collana. Gli dissi delle telefonate e delle fibre e dell'opera autobiografica che Beryl stava scrivendo
e che io ero stata accusata di avere rubato. Rivelai ogni dettaglio che mi
veniva in mente, mentre dentro di me rabbrividivo di paura. Non avevo
mai discusso i particolari di un caso con nessuno all'infuori degli investigatori o dei procuratori competenti. Quando ebbi finito, PJ lasciò silenziosamente la stanza. Quando tornò, reggeva uno zaino dell'esercito che mi mi-
se in grembo.
«Ecco» disse. «Giuro su Dio che non avrei mai voluto farlo. Mi dispiace, Beryl» mormorò. «Mi dispiace.»
Sollevando il lembo superiore di tela, estrassi con prudenza quello che
doveva essere un malloppo di circa un migliaio di pagine dattiloscritte e
piene di annotazioni a mano, insieme a quattro dischetti per computer, il
tutto legato da spessi elastici.
«Ci disse di non darlo mai a nessuno, se le fosse successo qualcosa.
Promisi.»
«Grazie. Peter. Dio la benedica» mormorai. Poi gli chiesi un'ultima cosa.
«Beryl vi ha mai parlato di qualcuno a cui si riferiva come a "M"?»
Restò assolutamente immobile, fissando la birra.
«Conosce questa persona?» chiesi.
«Me stessa» rispose.
«Non capisco.»
«"M" per "me stessa". Beryl scriveva lettere a se stessa» spiegò.
«Le due lettere che abbiamo trovato» gli dissi. «Quelle che abbiamo trovato sul pavimento della stanza da letto dopo che fu assassinata, quelle che
accennavano a lei e a Walt, erano indirizzate a "M".»
«L'ho capito subito» disse, chiudendo gli occhi.
«Capito cosa?»
«L'ho capito quando ha parlato di Zulù e dei gatti. Ho capito che aveva
letto quelle lettere. Ecco quando ho deciso che lei era a posto, che era chi
diceva di essere.»
«Allora ha letto anche lei quelle lettere?» chiesi, confusa.
Annuì.
«Non abbiamo mai trovato gli originali» mormorai. «Le due in mano
nostra sono solo fotocopie.»
«Questo perché Beryl ha bruciato ogni cosa» disse, traendo un profondo
respiro e rilassandosi.
«Ma non il libro.»
«No. Mi ha detto che non sapeva dove sarebbe andata e cosa avrebbe
fatto se lui si fosse rifatto vivo, se l'avesse perseguitata ancora. Mi avrebbe
richiamato in seguito per dirmi dove spedire il libro. E se non avevo più
notizie di lei, di tenermelo stretto, di non darlo mai a nessuno. Beryl non
ha mai telefonato, sa. Non ha più chiamato, Cristo!» Si sfregò gli occhi,
distogliendo il viso. «Quel libro era la sua unica speranza, la sua unica speranza di sopravvivere.» La voce si incrinò, quando aggiunse: «Beryl non
ha mai smesso di sperare che le cose si sarebbero rimesse a posto, prima o
poi».
«Cosa ha bruciato, per l'esattezza, PJ?»
«Il suo diario» rispose. «Immagino che lo si possa chiamare così. Le lettere che scriveva a se stessa. Disse che erano la sua terapia e non voleva
che le vedesse nessuno. Erano molto private, contenevano le sue riflessioni
più intime. Il giorno prima di partire, bruciò tutte le sue lettere, eccetto
due.»
«Le due che ho visto» sussurrai. «Perché? Perché non quelle due?»
«Perché voleva lasciarle a me e a Walt.»
«In ricordo?»
«Sì» disse, allungando la mano verso la birra e sfregandosi le lacrime
dagli occhi. «Un pezzo di se stessa, una testimonianza dei pensieri che aveva avuto mentre era qui. Il giorno prima che partisse, il giorno in cui
bruciò quella roba, uscì a fotocopiarle. Si tenne le copie e diede a noi gli
originali. Disse che in qualche modo la cosa ci avrebbe legati uno all'altro:
fu questa l'espressione che usò. Saremmo rimasti sempre insieme, nel pensiero, tutti e tre, finché avessimo conservato le lettere.»
Quando mi accompagnò fuori, mi voltai, gettandogli le braccia al collo
in un abbraccio di riconoscenza.
Tornai in direzione dell'albergo mentre il sole cominciava a calare. Le
palme si stagliavano contro una striscia infuocata, la gente si accalcava
verso i bar sulla Duval, schiamazzando, e l'atmosfera incantata era ravvivata dalla musica, dalle risate, dalle luci. Camminai come se al posto dei
piedi avessi avuto due molle, lo zaino militare appeso alla spalla. Per la
prima volta, dopo settimane, mi sentivo felice, quasi euforica. Del tutto
impreparata a ciò che mi aspettava nella mia stanza.
16
Non ricordavo di aver lasciato accesa alcuna lampada e pensai solo che
il personale delle pulizie si fosse dimenticato di spegnere la luce dopo aver
cambiato la biancheria e svuotato i portacenere. Avevo già chiuso la porta
e stavo canticchiando tra me e me, passando davanti al bagno, quando mi
resi conto di non essere sola.
Mark era seduto accanto alla finestra, una valigia aperta sul tappeto, ai
piedi della sedia. Nell'esitazione del momento, mentre le mie gambe non
sapevano più dove portarmi, i suoi occhi incontrarono i miei in un dialogo
senza parole, eccitando il mio cuore e stringendolo in una morsa di terrore.
Pallido e vestito con un abito grigio invernale, Mark sembrava appena
arrivato dall'aeroporto, la valigia appoggiata contro il letto. Se avesse avuto una specie di contatore geiger mentale, ero certa che il mio zaino glielo
avrebbe fatto scattare. L'aveva mandato Sparacino. Pensai alla Ruger nella
borsetta, ma sapevo che non sarei mai riuscita a puntarla contro Mark James per premere il grilletto, ammesso che arrivassimo a quel punto.
«Come sei entrato?» chiesi, restando immobile.
«Sono tuo marito» mi annunciò, e portandosi una mano alla tasca esibì
la chiave rilasciata dall'albergo.
«Bastardo» sibilai, mentre il cuore mi batteva più forte.
Sbiancò in viso. Distolse gli occhi. «Kay...»
«Oh, Dio. Bastardo!»
«Kay. Sono qui perché mi ha mandato Benton Wesley. Ti prego.» Si alzò dalla sedia.
Lo osservai in sbalordito silenzio estrarre una bottiglia di whiskey dalla
valigia. Mi passò accanto, raggiunse il mobile bar e riempì di ghiaccio due
bicchieri. Si muoveva con gesti lenti e misurati, come se stesse facendo del
proprio meglio per non innervosirmi di più. Sembrava anche lui molto
stanco.
«Hai mangiato?» mi chiese, porgendomi un drink.
Passandogli davanti, andai a posare con aria indifferente lo zaino e la
borsa sopra il cassettone.
«Io sto morendo di fame» riprese, allentandosi il colletto della camicia e
la cravatta. «Devo aver cambiato aereo almeno quattro volte. Non ho mangiato altro che noccioline, da stamattina.»
Non dissi nulla.
«Ho già ordinato per due» proseguì tranquillo. «Vedrai che avrai fame
anche tu, quando arriverà.»
Raggiunsi la finestra e guardai le nuvole grige e violette sospese sopra le
strade illuminate della città vecchia. Mark afferrò una sedia, si slacciò le
scarpe e appoggiò i piedi sul bordo del letto.
«Fammi sapere quando ti senti pronta ad ascoltare le mie spiegazioni»
disse, facendo girare il ghiaccio nel bicchiere.
«Non crederò a nulla di quello che mi dirai, Mark» risposi in tono freddo.
«Abbastanza comprensibile. Sono pagato per fingere, e sono diventato
incredibilmente abile nel farlo.»
«Sì» gli feci eco, «incredibilmente abile. Come hai fatto a scovarmi?
Non credo che te l'abbia detto Benton. Lui non sa dove mi trovo, e devono
esserci almeno cinquanta alberghi sull'isola, più altrettante pensioni.»
«Vero. Sono sicuramente molti, ma a me è bastata una sola telefonata
per trovarti» disse.
Sconfitta, sedetti sul letto.
Allungando la mano verso la giacca, tirò fuori un opuscolo piegato e me
lo porse. «Ti torna familiare?»
Era la stessa guida turistica trovata da Marino nella camera da letto di
Beryl Madison, di cui aveva incluso una fotocopia nel dossier relativo al
caso, la stessa guida che avevo esaminato innumerevoli volte e di cui mi
ero ricordata due sere prima, quando avevo deciso di fuggire a Key West.
Su un lato erano elencati i ristoranti, le mete da visitare e i negozi; sull'altro era riportata una pianta stradale incorniciata di annunci pubblicitari,
compreso quello dell'albergo in cui mi trovavo: era da lì che avevo preso
l'idea.
«Benton è riuscito a rintracciarmi ieri, dopo ripetuti tentativi» proseguì.
«Era piuttosto turbato, ha detto che te ne eri andata, che eri venuta qui, poi
ci siamo messi all'opera per cercare di rintracciarti. Evidentemente c'è una
fotocopia dell'opuscolo anche nel suo dossier di Beryl. Ha pensato che l'avessi visto e che te ne fossi fatta fare una copia per tua documentazione.
Abbiamo deciso che poteva esserti venuto in mente di usarlo come guida.»
«E questo dove l'hai preso?» dissi, restituendogli il fascicolo.
«All'aeroporto. Guarda caso, questo è il solo hotel pubblicizzato. È stato
il primo posto che ho chiamato. Avevano una prenotazione a tuo nome.»
«D'accordo. Insomma, come fuggitiva non sono un granché.»
«Diciamo piuttosto che sei molto scadente.»
«In effetti è proprio da lì che ho preso lo spunto, se vuoi saperlo» ammisi furiosa. «Ho esaminato le carte di Beryl talmente tante volte che mi sono
ricordata dell'opuscolo e dell'annuncio di un Holiday Inn in Duval Street.
Immagino mi sia rimasto impresso perché mi ero chiesta se Beryl aveva alloggiato qui, appena arrivata a Key West.»
«L'ha fatto?»
Alzò il bicchiere.
«No.»
Quando si spostò per rinnovare i drink, ci fu un colpetto alla porta e il
mio cuore sobbalzò, mentre Mark si portava con aria indifferente una mano dietro la schiena e afferrava una pistola 9 millimetri nascosta sotto la
giacca. Tenendola puntata, guardò attraverso lo spioncino, quindi la rimise
a posto e aprì la porta. La cena era arrivata, e quando Mark pagò la giovane donna in contanti, lei sorrise raggiante e disse: «Grazie, signor Scarpetta. Spero che apprezzerà le nostre bistecche».
«Perché ti sei fatto registrare come mio marito?» domandai.
«Dormirò sul pavimento. Ma tu non resterai sola» rispose, mettendo i
piatti coperti sopra il tavolo vicino alla finestra e stappando la bottiglia di
vino. Si sfilò la giacca, la lanciò sul letto e depose la pistola sul cassettone,
non lontano dal mio zaino e a portata di mano.
Prima di chiedergli dell'arma, aspettai che si fosse seduto a mangiare.
«Un mostriciattolo, ma forse il mio solo amico» rispose, tagliando la bistecca. «Del resto, presumo che anche tu abbia la tua trentotto con te, probabilmente nello zaino.» Lanciò un'occhiata al sacco.
«È nella mia borsa, per amor di precisione» spiattellai in modo ridicolo.
«E come fai a sapere che ho una trentotto?»
«Me l'ha detto Benton. Mi ha detto anche che recentemente ti sei procurata una licenza per porto d'arma nascosta. Immaginava che in questi giorni non te ne andassi troppo in giro senza averla con te.» Sorseggiò il vino,
aggiungendo: «Non male».
«Benton ti ha detto anche che taglia di vestito porto?» chiesi, sforzandomi di mangiare malgrado lo stomaco mi supplicasse di non farlo.
«Be', quello non c'è bisogno che me lo dica lui. Porti sempre la quaranta
e sei sempre bella come quando eravamo a Georgetown. Meglio, anzi.»
«Ti sarei enormemente grata se la piantassi di comportarti da damerino
figlio di puttana e mi dicessi come diavolo fai a conoscere il nome di Benton Wesley, e ancora di più a godere del privilegio di tutti questi tête-à-tête
con lui.»
«Kay.» Posò la forchetta, incontrando i miei occhi furiosi. «Conosco
Benton da molto più tempo di te. Non l'hai ancora capito? Devo farti un'insegna al neon?»
«Sì. Scrivilo a lettere cubitali in cielo, Mark, perché io non so più a cosa
credere, non ho più idea di chi tu sia realmente, non mi fido più di te. Anzi,
in questo momento ho una paura fottuta di te.»
Appoggiandosi allo schienale della sedia, la faccia seria come non gliel'avevo mai vista, disse: «Kay, mi dispiace che tu abbia paura di me, e mi
dispiace che tu non abbia fiducia in me. E questo spiega perché a questo
mondo siano così poche le persone che sanno davvero chi sono. A volte
non ne sono sicuro nemmeno io. Non potevo dirtelo prima, ma adesso è fi-
nita». Fece una pausa. «Benton è stato mio insegnante all'Accademia molto prima che lo conoscessi tu.»
«Sei un agente?» chiesi incredula.
«Sì.»
«No» dissi, un uragano che mi vorticava in testa. «No! Non ho nessuna
intenzione di crederti anche questa volta, maledizione!»
Senza dire una parola, Mark si alzò e andò al telefono accanto al letto,
dove compose un numero.
«Vieni qui» disse, facendomi segno con gli occhi.
Mi porse il ricevitore.
«Hello?»
Riconobbi la voce immediatamente.
«Benton?» chiesi.
«Kay? Stai bene?»
«C'è Mark, qui» risposi. «Mi ha scovata. Sì, Benton. Sto bene.»
«Grazie a Dio. Sei in buone mani, sono sicuro che ti spiegherà.»
«Lo farà. Grazie, Benton. Good-bye.»
Mark mi prese il ricevitore di mano e lo appese. Quando tornammo al
tavolo mi guardò a lungo, prima di riprendere a parlare.
«Ho lasciato la professione legale dopo la morte di Janet. Non sono ancora sicuro del perché, Kay, ma non importa. Per un po' sono rimasto nel
campo, a Detroit, quindi ho cominciato a lavorare sotto copertura. La storia del mio lavoro per Orndorff & Berger era tutta una messinscena.»
«Non vorrai dirmi che anche Sparacino lavora per gli agenti federali»
sussurrai, e stavo tremando.
«Diavolo, no» rispose, distogliendo lo sguardo.
«In cosa è coinvolto, Mark?»
«Uno dei suoi reati minori è che imbrogliava Beryl Madison falsificando
i rendiconti dei diritti d'autore, come ha fatto con una quantità di altri
clienti. E come ti ho già detto stava mettendola contro Cary Harper, tanto
per scatenare un ennesimo polverone pubblicitario, la sua specialità.»
«Allora quello che mi hai detto a New York è vero.»
«Be', non tutto. Non potevo dirti tutto.»
«Sparacino sapeva che sarei venuta?»
Era una domanda che mi tormentava da settimane.
«Sì. Fu una mia mossa, chiaramente per ottenere altre informazioni da te
e indulti a parlare con lui. Sparacino sapeva che non avresti mai acconsentito a un incontro. Così presi l'iniziativa di portartici io.»
«Gesù» mormorai.
«Pensavo che fosse tutto sotto controllo, che non ci sarebbe venuto dietro, finché non fummo al ristorante. A quel punto capii che stava andando
tutto a puttane» proseguì Mark.
«Perché?»
«Perché mi aveva pedinato. So da molto tempo che il figlio di Partin è
uno dei suoi scagnozzi. È così che si paga l'affitto in attesa di qualche particina in una soap opera o negli spot commerciali di biancheria intima in
tivù. Ovviamente, Sparacino cominciava a nutrire sospetti.»
«Perché mandò Partin? Non si rendeva conto che l'avresti riconosciuto?»
«Sparacino non sa che io so di Partin» disse. «Il fatto è che, quando l'ho
visto al ristorante, ho capito che Sparacino l'aveva mandato a controllare se
mi stavo davvero incontrando con te e cosa combinavo, proprio come ha
mandato il cosiddetto Jeb Price a frugare nel tuo ufficio.»
«Vuoi dirmi che Jeb Price è anche lui un attore morto di fame?»
«No. Lo abbiamo arrestato nel New Jersey la settimana scorsa. Per un
po' non darà più fastidio a nessuno.»
«E immagino che anche la tua conoscenza di Diesner a Chicago fosse
una bugia» dissi.
«Lui vive nella leggenda. Ma non l'ho mai conosciuto di persona.»
«Era una messinscena anche la tua visita a Richmond, immagino?» Ricacciai indietro le lacrime.
Riempiendo di nuovo i bicchieri di vino, Mark rispose: «Non era vero
che venivo dal distretto di Columbia. Ero volato da New York. Sparacino
mi aveva mandato a sfruttare le tue idee, per scoprire tutto ciò che poteva
sull'assassinio di Beryl».
Sorseggiai il mio vino, per un attimo silenziosa, mentre cercavo di recuperare compostezza.
Poi chiesi: «Sparacino è in qualche modo implicato nell'omicidio di
Beryl, Mark?».
«All'inizio me lo sono chiesto anch'io» rispose. «Mi domandavo se i
giochi di Sparacino con Harper non si erano spinti troppo in là e se Harper
era uscito di testa e aveva assassinato Beryl. Ma quando è stato fatto fuori
anche lui, col passare del tempo ho smesso di fissarmi su qualsiasi elemento che mi facesse collegare Sparacino alle loro morti. Penso che Sparacino
volesse farmi scoprire tutto quello che poteva solo perché era in paranoia.»
«Temeva che la polizia setacciasse lo studio di lei scoprendo che i suoi
rendiconti dei diritti d'autore erano falsificati?» chiesi.
«Forse. So che vuole il manoscritto, non c'è dubbio sul suo valore. Ma al
di là di questo, non saprei.»
«Che dire della sua azione legale, della sua vendetta contro il procuratore generale?»
«Ha mosso un sacco di pubblicità» rispose Mark. «E Sparacino disprezza Ethridge, sarebbe felice di poterlo umiliare o addirittura buttare fuori
dall'ufficio.»
«Scott Partin è stato da queste parti» lo informai. «Non molto tempo fa,
a fare domande su Beryl.»
«Interessante» fu tutto quello che disse, portandosi alla bocca un altro
pezzo di bistecca.
«Per quanto tempo sei stato con Sparacino?»
«Più di due anni.»
«Gesù» mormorai.
«Il Bureau organizzò la cosa molto accuratamente. Fui spedito là come
avvocato sotto il falso nome di Paul Barker, in cerca di lavoro e di rapido
arricchimento. Mandai a segno le mosse necessarie per farmi agganciare.
Naturalmente lui mi fece controllare, e quando scoprì che certi dettagli non
quadravano mi volle vedere di persona. Io ammisi di vivere sotto falso
nome, gli dissi che facevo parte del Federal Protected Witness Program. È
una storia contorta e difficile da spiegare, ma Sparacino abboccò e quando
gli dissi che ero stato implicato in attività illegali, tempo prima, a Tallahassee, che ero stato arrestato e che gli agenti federali mi avevano ricompensato per la mia testimonianza cambiandomi l'identità e il passato, mi credette.»
«Sei stato veramente implicato in attività illegali?» chiesi.
«No.»
«Ethridge è convinto del contrario» dissi. «Dice che hai anche trascorso
del tempo in prigione.»
«Non mi sorprende, Kay. I capi del dipartimento federale tendono a collaborare molto con il Bureau. Sulla carta, il Mark James che una volta tu
hai conosciuto appare in cattiva luce. Un avvocato che ha superato il limite, che è stato radiato dall'albo e che ha passato due anni in gattabuia.»
«Devo dedurne che il legame di Sparacino con Orndorff & Berger è solo
una facciata?»
«Sì.»
«Per quale motivo, Mark? Ci deve essere qualcos'altro, oltre alle macchinazioni pubblicitarie.»
«Siamo convinti che continui a riciclare denaro sporco per la malavita,
Kay. Denaro proveniente dal narcotraffico. Crediamo anche che sia legato
alla criminalità organizzata delle case da gioco. Ci sono implicati politici,
giudici, procuratori, è una rete incredibile. La conosciamo da un bel po' di
tempo, ma quando una parte del sistema di giustizia ne attacca un'altra, la
faccenda si fa pericolosa. Dovevamo procurarci delle prove inoppugnabili,
ecco perché mi hanno infiltrato. Ma più scoprivo, più c'era da scoprire. Tre
mesi sono diventati sei, e poi addirittura anni.»
«Non capisco. Il suo studio è a posto, Mark.»
«New York è la sua roccaforte. Ha potere. Orndorff & Berger sanno
molto poco delle sue attività. Io non ho mai lavorato per lo studio, loro non
sanno nemmeno il mio nome.»
«Ma Sparacino sì» lo incalzai. «L'ho sentito riferirsi a te come a Mark.»
«Sì, conosce il mio vero nome. Come ho già detto, il Bureau è stato molto prudente. Ha fatto un lavoro decisamente accurato nel riscrivere la mia
vita creando una traccia cartacea che fa del Mark James da te conosciuto
un tempo qualcuno che oggi non riconosci più, che ti piace molto meno.»
Si fermò, la faccia severa. «Sparacino e io abbiamo convenuto che lui mi
chiamasse Mark, in tua presenza. Per il resto del tempo ero solo Paul. Ho
lavorato per lui, per un po' ho vissuto con la sua famiglia. Ero una sorta di
figliolo devoto, per lui, o almeno questo era ciò che lui pensava.»
«So che Onrdorff & Berger non hanno mai sentito parlare di te» confessai. «Ho cercato di telefonarti a New York e a Chicago, ma loro non sapevano chi eri. Ho chiamato Diesner. Nemmeno lui lo sapeva. Come fuggitiva potrò non essere un granché, ma nemmeno tu mi sembri un granché
come spia.»
Restò in silenzio per un momento.
«Il Bureau» riprese «aveva deciso di utilizzarmi, Kay. Poi sulla scena sei
apparsa tu, e a me si sono schiuse un sacco di prospettive. Mi sono sentito
coinvolto emotivamente, perché eri coinvolta tu. Sono stato stupido.»
«Non so come reagire a tutto questo.»
«Bevendo il tuo vino e guardando la luna che si alza su Key West. Ecco
il modo migliore di reagire.»
«Mark» dissi, e ormai ero disperatamente coinvolta, «c'è un altro punto
molto importante che non capisco.»
«Di punti che non capisci e che non potresti mai capire ce ne sono molti,
Kay. Da allora a oggi sono passati tanti anni, anni che si sono interposti fra
noi: è impossibile ripercorrerli tutti in una sera.»
«Hai detto che Sparacino ti ha spinto da me a sfruttare le mie idee. Come
sapeva che mi conoscevi? Gliel'avevi detto tu?»
«Sparacino ti nominò in una conversazione subito dopo che apprendemmo dell'assassinio di Beryl. Disse che tu eri il medico legale, il capo in
Virginia. Fui colto dal panico. Non volevo che ti prendesse di mira. Decisi
che sarebbe stato meglio se mi mettevo di mezzo io, al posto suo.»
«Apprezzo la cavalleria» osservai ironica.
«Tuo dovere.» I suoi occhi erano nei miei. «Gli dissi che avevamo avuto
una relazione anni addietro, che volevo ti passasse a me. E lui mi accontentò.»
«Tutto qui?» dissi.
«Mi piacerebbe pensarlo, ma temo che fossero sopraggiunte anche altre
motivazioni.»
«Altre motivazioni?»
«Credo mi allettasse la prospettiva di rivederti.»
«Così mi dicesti.»
«Non mentivo.»
«E mi stai mentendo, adesso?»
«Giuro su Dio che non ti sto mentendo.»
Improvvisamente mi resi conto di essere ancora in maglietta polo e pantaloncini corti, di avere la pelle appiccicosa e i capelli scarmigliati. Mi scusai e andai in bagno. Mezz'ora dopo ero avvolta nel mio accappatoio preferito di spugna, Mark profondamente addormentato sul mio letto.
Quando mi sedetti accanto a lui, gemette e aprì gli occhi.
«Sparacino è un uomo molto pericoloso» dissi, passandogli lentamente
le dita tra i capelli.
«Su questo non c'è dubbio» rispose con voce assonnata.
«Ha mandato Partin. Non sono sicura di capire come facesse a sapere
che Beryl era stata qui.»
«Perché Beryl gli telefonò da qui, Kay. L'ha sempre saputo.»
Annuii, tutt'altro che sorpresa. Beryl poteva essersi fidata di Sparacino
fino all'ultimo, ma a un certo punto doveva aver cominciato a sospettare,
altrimenti avrebbe affidato a lui il manoscritto anziché metterlo nelle mani
di un barista chiamato PJ.
«Cosa farebbe, se sapesse che sei qui?» chiesi sottovoce. «Cosa farebbe
Sparacino se sapesse che tu e io siamo insieme in questa stanza a raccontarci queste cose?»
«Si ingelosirebbe come un demonio.»
«Sii serio.»
«Probabilmente ci ucciderebbe, se potesse sperare di farla franca.»
«E potrebbe farla franca, Mark?»
Attirandomi a sé, mi sussurrò: «Certo che no».
Il mattino dopo fummo svegliati dal sole e dopo aver fatto di nuovo l'amore dormimmo fino alle dieci rannicchiati l'uno nelle braccia dell'altro.
Mentre Mark si faceva la doccia e si radeva, io contemplai quella nuova
giornata fuori dalla finestra: non avevo mai visto colori tanto luminosi.
Nemmeno il sole aveva mai brillato con tanta magnificenza sulla minuscola isola di Key West. Avrei comprato un appartamentino dove Mark e io
avremmo fatto l'amore per il resto della nostra vita, avrei ripreso ad andare
in bicicletta per la prima volta da quand'ero ragazzina, avrei ripreso a giocare a tennis e smesso di fumare. Avrei lavorato più duramente per aiutare
la mia famiglia, e Lucy sarebbe stata spesso nostra ospite. Avrei fatto frequenti apparizioni da Louie's e adottato PJ come nostro amico. Avrei osservato la danza dei riflessi del sole sul mare e recitato preghiere per una
donna di nome Beryl Madison, la cui terribile morte aveva dato un significato nuovo alla mia vita, insegnandomi ad amare ancora.
Dopo una colazione-pranzo che consumammo in camera, tirai fuori il
manoscritto di Beryl sotto gli occhi increduli di Mark.
«Non sarà quello che sospetto che sia?» chiese.
«Sì. Esattamente quello che sospetti che sia» risposi.
«Dove l'hai trovato, Kay?» Si alzò dal tavolo.
«Beryl l'aveva lasciato a un amico» spiegai. Sistemati i cuscini dietro la
testa, il manoscritto tra di noi sul letto, raccontai a Mark del mio incontro
con PJ.
La mattina si volse in pomeriggio, ma noi non mettemmo piede fuori
dalla stanza se non per lasciare i piatti sporchi in corridoio e sostituirli con
sandwich e spuntini ordinati al momento. Per ore e ore scorremmo le pagine della vita di Beryl Madison, senza quasi più parlare. Il libro era incredibile, e più di una volta mi fece salire le lacrime agli occhi.
Beryl era un uccello canoro nato in mezzo alla tempesta, uno splendido
ritaglio di colore appeso ai rami di una vita tremenda. La madre era morta
e il padre l'aveva sostituita con una donna che aveva trattato Beryl con disprezzo. Incapace di sopportare il mondo in cui viveva, Beryl aveva imparato l'arte di crearsene uno tutto suo. Scrivere era stato il suo modo di difendersi: il suo talento ne era uscito corroborato, come la sensibilità verso
la bellezza nel sordo e l'attitudine alla musica nel cieco. Con le parole era
riuscita a modellare un mondo che ora riuscivo a gustare, odorare e sentire.
La relazione con gli Harper era stata intensa quanto disordinata: tre elementi volatili che avevano finito per addensarsi in una nube temporalesca
incredibilmente distruttiva nel periodo di convivenza in quella fiabesca
dimora, affacciata su un fiume di sogni senza tempo. Per Beryl, Cary Harper aveva comprato e restaurato la grande casa ed era stato nella camera da
letto al piano superiore, quella in cui avevo dormito io, che una notte l'aveva privata della sua innocenza, ad appena sedici anni.
Non vedendola scendere a colazione, il mattino seguente, Sterling Harper era andata di sopra a controllare e l'aveva trovata in posizione fetale,
che piangeva. Incapace di accettare l'idea che il famoso fratello avesse stuprato quel surrogato di figlia, aveva opposto resistenza ai demoni della casa erigendo una barriera di diniego. Non aveva mai detto una parola a
Beryl, né aveva tentato di intervenire; la sera, chiudeva dolcemente la porta e scivolava in un sonno agitato.
Le molestie nei confronti di Beryl erano continuate, settimana dopo settimana, meno frequenti via via che lei cresceva, risolvendosi infine con
l'impotenza del vincitore del premio Pulitzer, provocata dalle troppe e pesanti bevute e da altri eccessi, droghe comprese. Quando gli interessi sui
guadagni realizzati con i libri e l'eredità di famiglia non erano più bastati a
sostenere i suoi vizi, Harper si era rivolto all'amico Joseph McTigue. Questi aveva premurosamente e abilmente preso in mano la situazione finanziaria della famiglia, rimettendo l'autore in grado "non solo di tornare a essere solvente, ma abbastanza ricco da permettersi il miglior whiskey sul
mercato e bagordi alla cocaina ogni volta che ne aveva voglia".
Secondo le memorie di Beryl, dopo essersi trasferita a Cutler Grove,
Sterling Harper aveva dipinto il ritratto sopra il camino della biblioteca: il
ritratto di una bimba derubata della propria innocenza che, inconsapevolmente o meno, doveva tormentare Harper per sempre. Lo scrittore beveva
sempre di più e scriveva sempre di meno, cominciò a soffrire di insonnia e
a frequentare la taverna Culpeper's, un rituale incoraggiato dalla sorella,
che usava quelle ore per cospirare al telefono con Beryl contro di lui. Il
colpo finale era stato il drammatico atto di sfida con cui Beryl, incoraggiata da Sparacino, aveva violato il contratto.
Era stato un modo per reclamare indietro la propria vita e "preservare la
bellezza della mia amica Sterling, imprimendo il ricordo di lei fra queste
pagine come fiori selvatici". Beryl aveva avviato la stesura del libro subito
dopo che alla sorella di Cary era stato diagnosticato un cancro. Il loro legame era inviolabile, il loro amore reciproco immenso.
Naturalmente, c'erano anche estese digressioni sui precedenti libri e su
quelle che erano state fonti d'ispirazione. Beryl aveva incluso estratti dalle
prime opere, cosa che poteva spiegare il manoscritto incompleto rinvenuto
nell'armadio della sua camera da letto, dopo l'assassinio. Certo non potevo
esserne sicura, era difficile sapere cosa fosse realmente passato per la mente di Beryl. Capivo solo che il suo lavoro era straordinario, e sufficientemente scandaloso perché potesse aver spaventato Cary Harper e indotto
Sparacino a volerlo.
Ciò che invece non riuscivo a trovare, mentre il pomeriggio si consumava, era il benché minimo accenno allo spettro di Frankie. Nel manoscritto
non si faceva parola del tormento che alla fine aveva spezzato la sua vita.
Immaginai fosse stato un argomento troppo duro. Forse, sperava, la cosa
un giorno sarebbe finita.
Mi stavo avvicinando alla conclusione del libro di Beryl quando Mark,
improvvisamente, mi mise una mano sul braccio.
«Cosa?» Riuscii a stento a distogliere gli occhi dalla lettura.
«Dai un'occhiata a questo» disse, sovrapponendo delicatamente una pagina a quella che stavo leggendo.
Era l'apertura del venticinquesimo capitolo, una pagina che avevo già
letto. Mi ci volle un po' per notare ciò che mi era sfuggito: era una fotocopia molto nitida e non una pagina dattiloscritta originale, come tutte le altre.
«Pensavo mi avessi detto che questa era l'unica copia» mi interrogò
Mark.
«Be', ne ero convinta» risposi, sconcertata.
«Mi domando se Beryl non avesse fatto una copia del dattiloscritto mescolando poi accidentalmente le due pagine.»
«Così sembra» considerai. «Ma allora dov'è l'altra? Non è saltata fuori.»
«Non ne ho idea.»
«Sei sicuro che non l'abbia Sparacino?»
«Se l'avesse, lo saprei. Ho rivoltato il suo ufficio da cima a fondo, durante le sue assenze, e ho fatto la stessa cosa anche a casa sua. Inoltre penso
che me l'avrebbe detto, almeno finché ha pensato che fossimo amici intimi.»
«Credo sia meglio andare a trovare PJ.»
Come scoprimmo, quello era il suo giorno di libertà. PJ non era né da
Louie's né in casa. Il crepuscolo stava calando sull'isola, e non l'avevamo
ancora rintracciato. Quando, alla fine, lo trovammo allo Sloppy Joe's, era
ormai ubriaco fradicio. Lo bloccai al banco del bar e lo portai per mano a
un tavolo.
Feci frettolosamente le presentazioni. «Questo è Mark James, un mio
amico.»
PJ annuì e alzò la bottiglia di birra in un brindisi confuso. Sbatté le palpebre parecchie volte, come se cercasse di schiarirsi la vista, mentre ammirava apertamente la mia attraente compagnia maschile. Mark sembrò non
accorgersene.
Alzando la voce per sovrastare il baccano della folla e del complesso
musicale, dissi a PJ: «Il manoscritto di Beryl. Ne fece una fotocopia, mentre era qui?».
Ingurgitando una poderosa sorsata di birra e dondolandosi al ritmo della
musica, rispose: «Non lo so. Non me ne ha mai parlato».
«Ma è possibile?» insistei. «Potrebbe averla fatta quando andò a fotocopiare le lettere che poi le diede?»
PJ alzò le spalle. Perle di sudore gli rotolavano giù dalle tempie. Aveva
la faccia arrossata. PJ non era sbronzo, era letteralmente partito.
Mentre Mark osservava impassibile, tentai di nuovo. «Be', ha portato il
manoscritto con sé, quando è uscita a fotocopiare le lettere?»
«... Proprio come Bogie e Bacall...» cantò PJ con la sua aspra voce baritonale, scandendo il ritmo sul bordo del tavolo.
«PJ!» gridai.
«Amica» protestò lui, gli occhi fissi sul palco, «è la mia canzone preferita.»
Così mi abbandonai sulla sedia e lasciai che PJ cantasse la sua canzone.
Durante un breve intervallo nell'esecuzione, ripetei la domanda. PJ diede
fondo alla bottiglia, quindi rispose con sorprendente lucidità: «Tutto quello
che ricordo è che Beryl aveva lo zaino con sé, quel giorno, okay? Glielo
avevo dato io. Per metterci la sua merda quando se la trascinava in giro.
Andò al Copy Cat o in qualche altro negozio, e sicuro come la morte aveva
lo zaino con sé. Insomma, sì». Tirò fuori le sigarette. «Poteva avere il libro
nello zaino. E poté farsene fare una copia quando fotocopiò le lettere. Tutto quello che so è che a me ha lasciato solo quello che le ho dato... quando
è stato?»
«Ieri» dissi.
«Già, amica. Ieri.» Chiudendo gli occhi, riprese a battere sul bordo del
tavolo.
«Grazie, PJ.»
Non ci prestò alcuna attenzione mentre ce ne andavamo, uscendo dal bar
per rifugiarci nell'aria fresca della sera.
«Ecco quel che si dice un buco nell'acqua» commentò Mark mentre imboccavamo la via del ritorno verso l'hotel.
«Non lo so» risposi. «Ma secondo me Beryl deve aver duplicato anche il
manoscritto, insieme alle lettere. Non posso immaginare che lasciasse il libro a PJ senza averne una copia.»
«Dopo averlo conosciuto, non riesco nemmeno a immaginare che l'abbia
fatto. PJ non è esattamente quello che chiamerei un custode affidabile.»
«In realtà lo è, Mark. È solo un po' partito, stasera.»
«Cotto è il termine giusto.»
«Forse è stata colpa della mia apparizione.»
«Se Beryl fece una copia del manoscritto e la portò a Richmond con sé»
continuò Mark, «allora chiunque l'abbia uccisa deve averla rubata.»
«Frankie» dissi.
«Il che potrebbe spiegare perché, subito dopo, l'assassino diede la caccia
a Cary Harper. Il nostro Frankie diventò geloso, il pensiero di Harper nella
stanza da letto di Beryl lo fece diventare matto, più matto di prima. Nel libro Beryl racconta che Harper aveva l'abitudine di andare tutti i pomeriggi
al Culpeper's.»
«Lo so.»
«Frankie legge il particolare, trova il posto e immagina che sia il momento migliore per coglierlo di sorpresa.»
«Quale momento migliore di quello in cui sei mezzo sbronzo e stai
scendendo dalla macchina in un oscuro vialetto al centro del nulla?»
«Mi sorprende solo che non abbia dato la caccia anche a Sterling Harper.»
«Forse ne aveva l'intenzione.»
«Hai ragione. Non ne ha avuto il tempo» convenne Mark. «Lei gli ha risparmiato il disturbo.»
Le nostre mani si cercarono. Restammo in silenzio. Ci trascinammo dolcemente lungo il marciapiede, mentre la brezza agitava gli alberi. Avrei
voluto che quell'attimo durasse per sempre, aborrivo la prospettiva delle
verità che avremmo dovuto affrontare. Solo quando fummo nella nostra
stanza davanti a un bicchiere di vino mi decisi a porgli la domanda.
«Che progetti hai, Mark, per dopo?»
«Washington» rispose, girandosi a guardare fuori dalla finestra. «Di fatto, domani. Dopo questa missione verrò interrogato e riprogrammato.» Un
profondo sospiro. «Diamine, non so cosa farò, dopo.»
«E tu cosa vorresti?»
«Non so, Kay. Chi sa dove mi manderanno.» Continuò a fissare il buio,
fuori. «E so che tu non hai nessuna intenzione di lasciare Richmond.»
«No, non posso lasciare Richmond. Non adesso. Il mio lavoro è la mia
vita, Mark.»
«Lo è sempre stato» commentò lui. «Anche per me, il lavoro è la mia vita. Il che lascia poco spazio alla diplomazia.»
Le sue parole, il suo viso, mi spezzarono il cuore. Sapevo che aveva ragione. Quando cercai di parlare di nuovo, non riuscii più a trattenere le lacrime.
Ci abbracciammo stretti, finché Mark si addormentò tra le mie braccia.
Liberandomi con delicatezza, mi alzai e tornai alla finestra, dove restai a
fumare oppressa da mille pensieri, finché l'alba cominciò a tingere di rosa
il cielo.
Mi feci una lunga doccia. L'acqua calda mi distese e rinforzò la mia decisione. Rinfrescata e avvolta nell'accappatoio, uscii dall'umida stanza da
bagno e trovai Mark sveglio, intento a ordinare la colazione.
«Tornerò a Richmond» annunciai in tono determinato, sedendomi vicino
a lui sul letto.
Aggrottò le sopracciglia. «Idea non buona, Kay.»
«Ho trovato il manoscritto, tu te ne vai e io non voglio restare qui da sola ad aspettare l'arrivo di Frankie, di Scott Partin o magari di Sparacino in
persona» spiegai.
«Finché Frankie non sarà stato trovato, è troppo rischioso. Darò disposizioni perché tu venga protetta, qui» protestò. «O a Miami. Meglio lì, probabilmente. Così potrai stare un po' con la tua famiglia.»
«No.»
«Kay...»
«Frankie potrebbe essersene andato via da Richmond, Mark. Potrebbero
non trovarlo per settimane. Potrebbero non trovarlo mai. Cosa dovrei fare,
seppellirmi in Florida per sempre?»
Appoggiandosi indietro sui cuscini, Mark non rispose.
Cercai la sua mano. «Non permetterò che la mia vita, la mia carriera
vengano sconvolte in questo modo. Mi rifiuto di lasciarmi intimidire oltre.
Chiamerò Marino e farò in modo che mi venga a prendere all'aeroporto.»
Prese le mie mani fra le sue. Guardandomi dritto negli occhi, disse:
«Torna con me, Kay. Potresti stare a Quantico, per un po'».
Scossi la testa. «Non mi succederà nulla, Mark.»
Mi attirò a sé. «Non riesco a scacciare dalla mente quello che è accaduto
a Beryl.»
Non ci riuscivo nemmeno io.
Ci scambiammo il bacio d'addio all'aeroporto di Miami, quindi mi allontanai rapida senza voltarmi indietro. Restai sveglia solo durante la sosta ad
Atlanta, per il cambio d'aereo. Il resto del tempo dormii sul sedile, fisicamente ed emotivamente stremata.
Marino mi aspettava all'uscita. Per una volta sembrò avvertire il mio stato d'animo e mi seguì pazientemente e in silenzio lungo il terminal. Le decorazioni natalizie e le chincaglierie nelle vetrine dei negozi dell'aeroporto
non fecero che aumentare la mia depressione. Non stavo affatto aspettando
le vacanze. Non ero sicura di come o quando Mark e io ci saremmo rivisti.
Come se non bastasse, nell'area bagagli restammo un'ora intera a osservare
le valigie che ripetevano i loro pigri giri come sulla giostra. Marino ne approfittò per interrogarmi, mentre la mia depressione si aggravava sempre
più. Alla fine, dovetti prendere atto che la mia valigia non c'era. Dopo aver
compilato un complicato modulo di reclamo, ripresi possesso della mia
macchina e, con Marino sempre alle calcagna, puntai verso casa.
Quando parcheggiammo nel vialetto, il buio della sera piovosa oscurava
pietosamente il danno subito dal mio terreno. Marino mi aveva avvertito
che, durante la mia assenza, la ricerca di Frankie era proseguita senza
troppa fortuna, per cui non voleva correre rischi. Dopo aver illuminato ogni angolo con la sua torcia, in cerca di finestre rotte o di altri elementi che
facessero sospettare la presenza di un intruso, mi guidò dentro casa accendendo le luci in ogni stanza, controllando gli armadi e guardando perfino
sotto i letti.
Stavamo dirigendoci in cucina per un caffè, quando riconoscemmo entrambi lo squillo del segnale della sua radio portatile.
«Due quindici, dieci trenta-tre...»
«Merda!» esclamò Marino, tirando fuori la radio dalla tasca della giacca.
Dieci-trenta-tre era il codice del segnale di soccorso. Le trasmissioni radio rimbalzarono come proiettili nell'aria, mentre le macchine di pattuglia
rispondevano come jet in decollo. Un agente era a terra davanti a un su-
permercato non distante dalla mia abitazione: dovevano avergli sparato.
«Sette-zero-sette, dieci-trenta-tre» abbaiò Marino, precipitandosi verso
la porta d'ingresso.
«Maledizione! Walters! È solo un ragazzino!» Uscì di corsa imprecando
sotto la pioggia, e urlandomi dietro: «Chiudi bene, capo. Ti manderò subito un paio di uomini in uniforme».
Passeggiai avanti e indietro per la cucina finché non mi sedetti al tavolo
con un bicchiere di scotch liscio, mentre una dura pioggia tamburellava sul
tetto e batteva contro i vetri della finestra. La mia valigia era andata persa.
Dentro c'era anche la mia .38: un particolare che avevo trascurato di far
presente a Marino, intorpidita com'ero dallo sfinimento. Troppo agitata per
andare a letto, mi misi a sfogliare il manoscritto di Beryl, che ero stata abbastanza saggia da portare a mano sull'aereo, e sorseggiai il mio drink in
attesa che arrivasse la polizia.
Quando, poco prima di mezzanotte, sentii squillare il campanello della
porta, sobbalzai sulla sedia.
Guardando dallo spioncino della porta d'ingresso e sperando di scorgere
gli agenti promessi da Marino, vidi un giovane pallido avvolto in un impermeabile scuro, con una sorta di cappello da uniforme. Sembrava infreddolito e bagnato e se ne stava curvo sotto la pioggia battente, premendosi
un portablocco contro il petto.
«Chi è?» gridai.
«Omega Courier Service, dall'aeroporto Byrd» rispose. «Ho la sua valigia, signora.»
«Grazie a Dio» esclamai con un moto di sollievo, disattivando l'allarme
e aprendo la porta.
Mentre depositava la valigia nell'ingresso, mi sentii invadere da un terrore paralizzante e improvvisamente, ricordai. Sul modulo di reclamo compilato all'aeroporto avevo scritto l'indirizzo dell'ufficio, non quello di casa!
17
Una lunga frangia di capelli scuri gli spuntava dal berretto. «Basta che
fi-firmi qui, signora» disse senza guardarmi negli occhi. Mi porse il portablocco metallico. Una ridda di voci mi rimbombava nella testa.
«Tardarono a tornare dall'aeroporto perché la compagnia aerea aveva
smarrito i bagagli del signor Harper.»
«I tuoi capelli sono biondi naturali, Kay, o te li schiarisci?»
«Fu dopo che il ragazzo ebbe consegnato il bagaglio...»
«Tutti morti, ormai.»
«L'anno scorso ci capitò una fibra del tutto identica a questa arancione
quando chiesero a Roy di esaminare le tracce recuperate da un Boeing sette quaranta-sette...»
«Fu dopo che il ragazzo ebbe consegnato il bagaglio!»
Afferrai lentamente la penna e il portablocco che mi tendeva con la mano guantata di pelle marrone.
«Vuole essere così cortese da aprire la mia valigia?» gli ordinai con una
voce che stentai a riconoscere. «Non posso firmare nulla, finché non sono
certa della presenza dei miei effetti all'interno.»
Il viso pallido e duro registrò un attimo di smarrimento. I suoi occhi si
dilatarono un po', mentre si abbassavano sulla valigia posata a terra. Lo
colpii con tale rapidità da non lasciargli nemmeno il tempo di alzare le
mani per ripararsi. Il bordo del portablocco di metallo lo ferì alla gola.
Scappai come un animale impazzito.
Ero arrivata in sala da pranzo, quando udii i suoi passi avvicinarsi.
Scappai in cucina, con il cuore che mi martellava contro le costole e i piedi
che scivolavano sul linoleum mentre giravo intorno al tagliere per la carne
e tiravo l'estintore agganciato alla parete, vicino al frigorifero. Nell'attimo
in cui Frankie entrava in cucina, gli irrorai la faccia con una soffocante
tempesta di polvere secca. Si coprì il volto con le mani, respirando a fatica,
mentre un coltello dalla lunga lama cadeva con un tonfo sordo sul pavimento. Afferrata dal fornello una pentola di ghisa, lo colpii violentemente
alla pancia. Col fiato mozzato, il ragazzo si piegò su se stesso. Lo colpii di
nuovo, questa volta sulla testa. Il mio bersaglio si mosse, e sentii la cartilagine cedere sotto il fondo piatto di ferro. Sapevo di avergli rotto il naso, e
probabilmente gli avevo anche spaccato diversi denti. Ma il mio colpo riuscì solo a rallentarlo. Cadendo in ginocchio, tossendo e parzialmente accecato dalla polvere, mi afferrò una caviglia con una mano, mentre con l'altra
brancolava nel tentativo di recuperare il coltello. Gli tirai addosso la pentola, allontanai il coltello con un calcio e scappai dalla cucina, urtando un
fianco contro il bordo aguzzo del tavolo e battendo una spalla contro il telaio della porta.
Disorientata e singhiozzante, riuscii a estrarre la Ruger dalla valigia e a
infilare due cartucce nel cilindro. Ormai mi era quasi addosso. Sentivo il
rumore della pioggia e il suo respiro affannoso. Il coltello era a pochi centimetri dalla mia gola quando, alla terza pressione, il grilletto finalmente
spinse il percussore contro l'innesco. In un'assordante esplosione di gas e
di fuoco, una Silvertip gli lacerò l'addome, facendolo retrocedere di quasi
un metro. Si accasciò per terra, quindi cercò di tirarsi a sedere, gli occhi
che mi fissavano vitrei, la faccia ridotta a un'agghiacciante maschera di
sangue. Tentò di dire qualcosa, mentre alzava debolmente il coltello. Le
mie orecchie rimbombavano. Con la pistola fra le mani tremanti, gli sparai
un secondo proiettile in pieno petto. Sentii l'odore acre della polvere da
sparo mescolarsi a quello dolciastro del sangue, mentre vedevo la luce
svanire dagli occhi di Frankie Aims.
Poi crollai, gemendo. Il vento e la pioggia infuriavano contro la casa e il
sangue di Frankie sgocciolava sul legno di quercia lucidato. Mi sentivo
scossa in tutto il corpo, mentre piangevo, e non mi mossi finché il telefono
non squillò per la quinta volta.
Tutto quello che riuscii a dire fu «Marino. Oh Dio, Marino!»
Non rientrai in ufficio finché il corpo di Frankie Aims non fu dimesso
dall'obitorio, il suo sangue risciacquato via dal tavolo di acciaio inossidabile, eliminato attraverso le tubature e immesso nelle fetide acque delle fogne cittadine. Non mi dispiaceva di averlo ucciso. Mi dispiaceva solo che
fosse nato.
«A quanto pare» disse Marino, osservandomi da dietro la sconsolante
montagna di carte che intasava la mia scrivania, «Frankie arrivò a Richmond un anno fa, in ottobre. O almeno fu allora che prese in affitto l'appartamento in Redd Street. Un paio di settimane dopo si trovò un lavoro
come addetto alla consegna dei bagagli smarriti. La Omega è convenzionata con l'aeroporto.»
Non dissi nulla. Il mio tagliacarte sgusciò dentro un'altra busta destinata
al cestino delle cartacce.
«I fattorini dell'Omega si servono di auto private, e questo creò un problema a Frankie, all'incirca nel gennaio scorso. Alla sua Mercury Linx dell'ottantuno si era rotto l'albero di trasmissione e non aveva i quattrini per
farla aggiustare. Niente macchina, niente lavoro. Ecco quando ha chiesto il
favore ad Al Hunt.»
«Avevano avuto altri contatti, prima?» chiesi, sentendomi - e, sono certa, apparendo - distrutta e sconvolta.
«Oh, sì» rispose Marino. «Non ci sono dubbi per quanto mi riguarda, e
nemmeno per quanto riguarda Benton.»
«Su cosa basate le vostre ipotesi?»
«Tanto per cominciare» disse, «è saltato fuori che un anno e mezzo fa
Frankie viveva a Butler, in Pennsylvania. Abbiamo esaminato le bollette
telefoniche del padre di Hunt degli ultimi cinque anni... tiene da parte tutta
quella merda in caso di controlli. Viene fuori che al tempo in cui Frankie
era in Pennsylvania, gli Hunt ricevettero cinque chiamate a carico del destinatario, da Butler. L'anno prima ce n'erano state altre, sempre a carico
del destinatario, da Dover, nel Delaware, e l'anno prima ancora una mezza
dozzina o giù di lì da Hagerstown, nel Maryland.»
«Le telefonate erano di Frankie?» chiesi.
«Stiamo ancora controllando. Ma sospetto fortemente che Frankie chiamasse Al Hunt, di tanto in tanto. Probabilmente gli confessò ciò che aveva
fatto alla madre. Ecco perché Al sapeva tante cose, quando parlò con te.
Diamine, non leggeva mica nella mente. Era tutta una messinscena, non
faceva che recitarti quello che aveva appreso dalle conversazioni con il suo
amico squilibrato. Sembra quasi che più aumentava il suo stato di follia,
più Frankie si avvicinava a Richmond. Poi, bum! Un anno fa approda nella
nostra deliziosa città e il resto è storia nota.»
«E l'autolavaggio di Hunt?» chiesi. «Frankie era un visitatore regolare?»
«Secondo un paio di tipi che ci lavorano» disse Marino, «di tanto in tanto capitava là qualcuno che combaciava con la descrizione di Frankie.
Questo, evidentemente, fino al gennaio scorso. La prima settimana di febbraio, a giudicare dalle ricevute che abbiamo trovato in casa sua, si fece
revisionare il motore della Mercury per la bellezza di cinquecento dollari,
probabilmente ottenuti in prestito da Al Hunt.»
«Sai se Frankie si trovava per caso all'autolavaggio in uno dei giorni in
cui Beryl aveva portato la sua macchina?»
«Immagino che sia accaduto proprio così. Sai, lui l'adocchia per la prima
volta quando consegna le valigie di Harper a casa dei McTigue, nel gennaio scorso. Poi la rivede ancora, forse un paio di settimane dopo, quando
si fa vivo all'autolavaggio di Al Hunt in cerca di un prestito. È come un
messaggio, per lui. Poi, probabilmente, la rivede all'aeroporto: lui va e viene tutto il tempo, raccoglie bagagli dispersi, fa chissà quali operazioni.
Forse vede Beryl per la terza volta un giorno in cui lei è lì, diretta a Baltimora per incontrare Sterling Harper.»
«Credi che Frankie abbia parlato a Hunt anche di Beryl?»
«Non c'è modo di saperlo. Ma non mi sorprenderebbe. Di sicuro aiuterebbe a spiegare perché Hunt si impiccò. Aveva capito quello che stava per
accadere, poi vide ciò che il suo amico squilibrato aveva fatto a Beryl.
Quando viene eliminato anche Harper, probabilmente Hunt si sente troppo
in colpa.»
Mi girai dolorosamente sulla sedia, spostando le carte in cerca del datario che avevo in mano fino a un secondo prima. Avevo male dappertutto e
stavo seriamente prendendo in considerazione l'idea di fare una radiografia
alla spalla. Quanto alla mia psiche, non ero sicura di quale potesse essere il
rimedio. Non mi sentivo più me stessa, non capivo nemmeno più cosa provavo, eccetto che mi era difficile trovare un attimo di pace e che mi era
impossibile rilassarmi.
«Parte del pensiero maniacale di Frankie» osservai «consisteva nel personalizzare gli incontri con Beryl e attribuirvi un significato profondo. Lui
vede Beryl a casa dei McTigue. La vede all'autolavaggio. La vede all'aeroporto. La cosa gli fa scattare un meccanismo.»
«Già. Crede che Dio gli stia parlando, che gli dica che c'è un nesso arcano tra lui e la bella signora bionda.»
Proprio in quel momento entrò Rose. Afferrai il messaggio telefonico
che mi porgeva e lo aggiunsi alla pila.
«Di che colore era la sua macchina?» Aprii un'altra busta. Frankie aveva
parcheggiato nel mio vialetto. L'avevo vista quando era arrivata la polizia e
la mia proprietà si era riempita dei riflessi rossi delle luci, ma senza metterla a fuoco. Ricordavo pochissimi dettagli di quei momenti.
«Azzurro scuro.»
«E nessuno ricorda di aver visto una Mercury Linx azzurra nei dintorni
della casa di Beryl?»
Marino scosse la testa. «Con il buio, a fari spenti, una macchina azzurra
non doveva essere tanto appariscente.»
«Vero.»
«E quando aggredì Harper, probabilmente aveva parcheggiato lontano
dalla strada, da qualche parte, facendo il resto del percorso a piedi.» Si interruppe. «La tappezzeria del sedile di guida era consunta.»
«Prego?» chiesi, alzando gli occhi dalla lettera a cui stavo dando una
scorsa.
«Ci aveva messo sopra una coperta che doveva avere rubato in uno degli
aerei.»
«L'origine della fibra arancione?» chiesi.
«Aspettiamo i controlli, ma sospettiamo di sì. La coperta ha delle righe
trasversali rossastro-arancioni, e Frankie doveva essercisi seduto sopra
quando andò a casa di Beryl. Probabilmente questo spiega la fottuta storia
del terrorista. Qualche passeggero doveva avere usato una coperta come
quella di Frankie, durante un volo transoceanico. Il tizio cambia aereo e
una fibra arancione finisce su quello che viene dirottato in Grecia. È così
che un povero marine si ritrova con quello stesso tipo di fibra appiccicato
al suo sangue, dopo essere stato ammazzato. Hai idea di quante fibre passino da un aereo all'altro?»
«Non riesco a immaginarlo» convenni, domandandomi perché meritassi
di figurare in ogni elenco di venditori postali di ciarpame degli Stati Uniti.
«E questo spiega, probabilmente, anche perché Frankie aveva tante fibre
sui vestiti: lavorava nell'area bagagli, girava per tutto l'aeroporto e poteva
anche salire sugli aerei. Pensa un po' alla varietà di frammenti che raccoglieva!»
«Il personale dell'Omega indossa un camice d'uniforme» osservò Marino. «Marrone. In dynel.»
«Interessante.»
«Dovresti saperlo, capo» disse, osservandomi da vicino. «Frankie ne indossava uno, quando gli hai sparato.»
Non ricordavo. Ricordavo solo l'impermeabile scuro e la sua faccia insanguinata e coperta della polvere bianca del mio estintore.
«Okay» dissi. «Fin qui ti seguo, Marino. Ma quello che non capisco è
come Frankie sia riuscito a procurarsi il numero di telefono di Beryl. Non
era nell'elenco. E come fece a sapere che lei rientrava in volo da Key West,
la sera del ventinove ottobre? Come diavolo ha fatto a sapere anche del
mio ritorno?»
«I computer» rispose. «Tutti i dati sui passeggeri, comprese le liste dei
nomi, i numeri di telefono e gli indirizzi privati figurano nei computer.
Tutto quello che possiamo immaginare è che Frankie, qualche volta, giocherellasse con i computer, quando ne trovava qualcuno incustodito, forse
la sera tardi o la mattina presto. L'aeroporto era un po' casa sua. Impossibile dire in quante cose mettesse il naso senza che nessuno lo degnasse della
minima attenzione. Non era molto loquace, un vero esemplare di persona
che non dà nell'occhio e che si aggira silenziosa come un gatto.»
«Stando al suo Stanford-Binet» riflettei, premendo il timbro della data
sul tampone senza più inchiostro, «era ben al di sopra della media, in
quanto a intelligenza.»
Marino non fece commenti.
«Il suo quoziente intellettivo» borbottai «era superiore a centoventi.»
«Già, già» borbottò lui con una certa irritazione.
«Era solo per dirtelo.»
«Merda. Tu prendi questi test davvero sul serio, non è così?»
«Sono ottimi indicatori.»
«Ma non sono il Vangelo.»
«No, non voglio dire che i test sul quoziente intellettivo siano il Vangelo» convenni.
«Sai, sono felice di ignorare il mio.»
«Puoi sempre fartelo misurare. Non è mai troppo tardi.»
«Spero solo che sia più alto del mio fottuto punteggio a bowling. Èiutto
quello che ho da dire.»
«Improbabile. A meno che tu non sia un giocatore alquanto scadente.»
«Infatti, nell'ultima gara lo sono stato.»
Sfilai gli occhiali e mi sfregai gli occhi. Avevo un mal di testa che credevo non mi sarebbe passato mai più.
«Tutto ciò che io e Benton siamo riusciti a immaginare» proseguì Marino «è che Frankie si procurò il numero di telefono di Beryl al computer, e
che poi tenne d'occhio i suoi voli. Suppongo che scoprì dal computer che
lei aveva preso un aereo per Miami nel luglio scorso, quando era fuggita
dopo aver trovato il cuore inciso sulla portiera della macchina...»
«Qualche teoria su quando potrebbe averlo fatto?» lo interruppi, avvicinando il cestino della carta straccia.
«Quando Beryl volava a Baltimora probabilmente lasciava la macchina
all'aeroporto, e l'ultima volta che incontrò Sterling Harper laggiù fu ai primi di luglio, meno di una settimana prima del giorno in cui trovò il cuore
sulla portiera.»
«Così Frankie lo aveva fatto mentre la macchina era parcheggiata all'aeroporto.»
«Cosa ne pensi?»
«Mi sembra piuttosto plausibile.»
«Idem per me.»
«Poi Beryl vola a Key West» proseguii, sempre occupandomi della posta. «E Frankie continua a tenere d'occhio il computer per la prenotazione
di rientro. Ecco come seppe con esattezza quando sarebbe tornata a Richmond.»
«La sera del ventinove ottobre» disse Marino, «Frankie aveva già predisposto tutto. Facile come mangiare un pezzo di torta. Aveva accesso ai bagagli dei passeggeri e, probabilmente, controllò quelli del volo di Beryl,
quando vennero caricati sul nastro trasportatore. Vede una borsa con il suo
nome e la fa sparire. Un po' più tardi, lei segnala lo smarrimento della borsa di pelle marrone.»
Marino non ebbe bisogno di aggiungere che Frankie aveva usato lo stesso sistema anche con me. Aveva monitorizzato il mio ritorno dalla Florida
e sottratto il mio bagaglio, quindi si era presentato alla mia porta e io l'avevo lasciato entrare.
C'era un invito a un ricevimento da parte del governatore, scaduto da
una settimana. Immaginai che ci fosse andato Fielding. L'invito finì nel cestino.
Marino continuò a fornire altri dettagli su quello che la polizia aveva
scoperto nell'appartamento di Frankie Aims, nel Northside.
Nella camera da letto c'era la borsa di Beryl, contenente la camicetta insanguinata e biancheria intima. Dentro un baule che serviva da tavolo, vicino al letto, c'era un assortimento di riviste pesantemente pornografiche e
una borsa di pallini, che Frankie aveva usato per riempire la sezione di tubo con cui aveva colpito in testa Cary Harper. Dallo stesso baule erano saltati fuori anche una busta contenente una seconda serie di dischi da computer di Beryl, ancora protetti da due rigidi quadrati di cartone, e la fotocopia del manoscritto, compresa la pagina originale dell'apertura del venticinquesimo capitolo sostituita con la fotocopia nel testo letto da Mark e
me. Benton Wesley aveva ipotizzato che Frankie avesse l'abitudine di sedere a letto a rileggere il libro di Beryl, accarezzando gli abiti da lei indossati quando l'aveva assassinata. Forse era così. Quello che sapevo con certezza era che Beryl non aveva avuto scampo. Frankie si era presentato alla
porta come corriere, con la sua borsa di pelle. Anche se lo avesse riconosciuto dalla sera in cui aveva recapitato le valigie di Cary Harper a casa
McTigue, non avrebbe avuto ragione di insospettirsi, proprio come non ne
avevo avuto io finché ormai avevo aperto la porta.
«Se solo Beryl non lo avesse lasciato entrare» mormorai. Il tagliacarte
che avevo in mano un attimo prima era scomparso. Dove diavolo era finito?
«È comprensibile che lo abbia fatto» rispose Marino. «Frankie è perfettamente identificabile e sorridente. Indossa camicia e berretto della divisa
Omega. Ha la borsa, il che significa che ha anche il suo manoscritto. Lei si
sente sollevata. Gli è grata. Apre la porta, disattiva l'allarme e lo invita
dentro...»
«Ma perché poi lo riattiva, Marino? Anch'io ho un sistema d'allarme antiscasso, e anche da me capitano dei fattorini. Se il mio sistema è in fun-
zione quando una persona arriva, prima lo disattivo e poi apro la porta. Se
mi fido abbastanza da lasciarla entrare, non mi metto di sicuro a riattivare
l'allarme solo per doverlo disattivare e rimettere in funzione di nuovo un
minuto dopo, quando la persona se ne va.»
«Chiudi mai le chiavi in macchina?» Marino mi guardò pensieroso.
«Cosa c'entra questo?»
«Rispondi semplicemente alla mia domanda.»
«Certo, sì.»
Trovai il tagliacarte: ce l'avevo in grembo.
«Come può succedere? Nelle macchine nuove mettono ogni sorta di
congegno di sicurezza per impedirlo, capo.»
«Giusto. E io mi ci abituo al punto da fare i movimenti senza pensarci,
poi mi ritrovo con le portiere bloccate e le chiavi che pendono dall'accensione.»
«Ho la sensazione che sia esattamente quello che fece anche Beryl» proseguì Marino. «Probabilmente era ossessionata da quel dannato sistema di
allarme che si era fatta installare in casa da quando aveva cominciato a ricevere telefonate di minaccia. Penso che lo tenesse in funzione tutto il
tempo, che per lei fosse una sorta di riflesso condizionato premere quei
bottoni nel minuto stesso in cui chiudeva la porta dietro di sé.» Esitò, fissando la mia libreria. «Un po' bizzarro. Beryl lascia quella sua dannata pistola in cucina e reinserisce l'allarme dopo aver fatto entrare in casa il bastardo. Dimostra quanto la sua mente fosse sconvolta, quanto inquieta l'avesse resa tutta la faccenda.»
Sollevai un fascio di rapporti tossicologici e li tolsi di mezzo, insieme a
una pila di certificati di morte. Dando un'occhiata al mucchio di microdettati accanto al microscopio, mi sentii di nuovo immediatamente scoraggiata.
«Gesù Cristo» si lamentò alla fine Marino. «Ti spiace startene un po'
tranquilla, almeno finché non me ne vado? Mi fai diventare matto.»
«Sono rientrata da appena un giorno» gli ricordai. «Non posso farci
niente. Guarda che disastro.» Passai una mano sulla mia scrivania. «Sembra che sia stata via un anno. Mi ci vorrà un mese a rimettermi in pari.»
«Ti do fino alle otto di stasera. Per allora tutto sarà tornato normale, esattamente com'era.»
«Grazie tante» dissi in tono piuttosto brusco.
«Hai dei bravi collaboratori. Loro sanno come fare andare avanti le cose
quando tu non ci sei. Quindi, che problema c'è?»
«Nessuno.» Accesi una sigaretta e allontanai altre carte, in cerca del portacenere.
Marino lo raccolse dall'orlo della scrivania e me lo avvicinò.
«Ehi, non sto mica dicendo che non c'è bisogno di te, qui dentro» disse.
«Nessuno è indispensabile.»
«Già, giusto. Sapevo che era così che la pensavi.»
«Non penso nulla. Sono semplicemente sconvolta» dichiarai, allungando
una mano verso lo scaffale alla mia sinistra e afferrando la mia agenda.
Rose aveva tirato una bella croce sui miei impegni fino alla fine della settimana successiva. Dopodiché era Natale. Mi sentii sull'orlo delle lacrime,
senza saperne la ragione.
Mentre mi chinavo in avanti a scuotere la cenere, Marino mi chiese piano: «Com'era il libro di Beryl, capo?».
«Ti spezza il cuore e ti riempie di gioia» dissi, con gli occhi che mi si
gonfiavano. «È incredibile.»
«Già, be', spero che verrà pubblicato. Sarà come se la facesse rivivere un
po', se capisci quello che voglio dire.»
«Capisco esattamente quello che vuoi dire.» Trassi un respiro profondo.
«Mark vedrà cosa può fare. Immagino che si dovranno stipulare nuovi accordi. Di sicuro non sarà più Sparacino a occuparsi degli affari di Beryl.»
«A meno che non lo faccia da dietro le sbarre. Immagino che Mark ti
abbia detto della lettera.»
«Sì» dissi. «L'ha fatto.»
Una delle lettere d'affari di Sparacino trovate da Marino in casa di Beryl
dopo la sua morte aveva assunto un significato nuovo quando Mark l'aveva
riletta dopo aver scorso il manoscritto di lei:
"Com'è interessante, Beryl, che Joe abbia aiutato Cary a superare le
difficoltà... mi rende tanto più felice se penso che sono stato io, all'inizio, a metterli in contatto, quando Cary comprò quella magnifica casa.
No, non lo trovo affatto strano. Joe era uno degli uomini più generosi
che abbia avuto il piacere di conoscere. Non vedo l'ora di saperne di
più."
Quel semplice paragrafo alludeva a parecchie cose, anche se era improbabile che Beryl avesse avuto dei sospetti. Dubitavo che si fosse resa conto
che menzionando Joseph McTigue si stava pericolosamente avvicinando al
territorio proibito dei traffici illeciti di Sparacino, che comprendevano nu-
merose società di comodo create dall'avvocato solo per facilitare il riciclaggio del denaro sporco. Mark credeva che McTigue, con le sue immense proprietà e le sue holding immobiliari, non fosse estraneo ai traffici di
Sparacino, e che, alla fine, l'aiuto offerto da McTigue a un Harper finanziariamente disperato non fosse stato del tutto lecito. Non avendo mai visto
il manoscritto di Beryl, Sparacino temeva ciò che la scrittrice poteva avere
involontariamente rivelato. Quando il manoscritto era scomparso, il suo
bisogno di mettere le mani su di esso era stato mosso da qualcosa di più
della pura avidità.
«Probabilmente, quando seppe che Beryl era morta pensò che quello era
il suo giorno fortunato» stava dicendo Marino. «Sai, lei non è più lì a mettersi di mezzo quando lui manipola il testo e può eliminare tutto quello che
rischia di puntare un dito contro le sue attività illecite. Dopodiché è pronto
a vendere il dannato malloppo e a fare il colpo grosso. Voglio dire, chi non
sarebbe interessato al libro, dopo tutto il clamore che si è scatenato? Impossibile sapere fino a che punto Sparacino avrebbe spinto l'operazione:
probabilmente con fotografie dei cadaveri degli Harper in bella mostra su
qualche giornale scandalistico...»
«Sparacino non ha mai messo le mani sulle fotografie scattate da Jeb
Price» gli ricordai. «Grazie a Dio.»
«Be', comunque il fatto è che, dopo tutto questo clamore, anch'io mi precipiterei a comprare il libro, nonostante siano almeno vent'anni che non ne
leggo più uno.»
«Peccato» mormorai. «Leggere è meraviglioso. Dovresti provare, qualche volta.»
Alzammo entrambi gli occhi quando Rose entrò di nuovo, questa volta
reggendo una lunga scatola bianca legata con uno sgargiante nastro rosso.
Perplessa, si guardò in giro in cerca di uno spazio libero sulla mia scrivania. Poi, finalmente, rinunciò e me la mise in mano.
«Che cosa...?» mormorai, la mente vuota.
Spingendo indietro la sedia, mi appoggiai in grembo quel dono inatteso
e cominciai a sciogliere il nastro di raso, sotto gli occhi curiosi di Marino e
della mia segretaria. Dentro la scatola c'erano due dozzine di magnifiche
rose dal gambo lungo, che brillavano come gioielli rossi avvolti in carta
trasparente verde. Chinandomi su di esse, chiusi gli occhi e ne assaporai la
fragranza; quindi aprii il bigliettino infilato all'interno.
"Quando la pista si fa dura, i duri vanno a sciare. Ad Aspen, dopo Natale. Buona fortuna e... raggiungimi! Ti amo, Mark."
FINE