La grande sfida del LAC

Cooperativa
Migros Ticino
G.A.A.
6592
Sant’Antonino
Settimanale
di informazione e cultura
Anno LXXVII
29 settembre 2014
Azione 40
-75
ping
M shop ne 45-54 / 67
i
alle pag
Società e Territorio
Pippi Calzelunghe sta per
compiere settant’anni e
ha bisogno di un fratellino
Ambiente e Benessere
Soltanto una persona su dieci,
tra coloro che ne avrebbero bisogno,
si sottopone a una psicoterapia:
ne parliamo con lo psichiatra
Paolo Migone
Politica e Economia
La Turchia alle prese
con la doppia emergenza
califfato-Kurdistan
Cultura e Spettacoli
Quattro artisti si confrontano
con il filo del discorso
pagina 13
pagina 3
pagina 23
di Roberto Porta e Simona Sala pagine 40-41
Keystone
La grande sfida del LAC
pagina 35
Una voce nel deserto
di Peter Schiesser
È stato un appello accorato o disperato, quello di Barack Obama davanti all’Assemblea generale dell’ONU, in cui ha invitato la comunità internazionale e in particolare i Paesi arabi ad unirsi contro il terrorismo
islamico (v. pag. 25)? È stato il discorso, forte, di un presidente americano che guida il suo Paese in guerra? Oppure, affermando schiettamente che nessuna strategia contro il terrorismo potrà avere successo fino
a quando i giovani avranno solo la scelta fra uno Stato tirannico e un
estremismo brutale, ha voluto anche esprimere la sua enorme frustrazione di uomo che vorrebbe la pace ma è costretto alla guerra?
Benché gli sforzi diplomatici del Segretario di Stato americano Kerry
abbiano portato alla creazione di una vasta alleanza nella lotta contro
il sedicente califfato islamico guidato da al-Baghdadi, chi pianifica e
conduce i bombardamenti è e resta l’America. Dei 50 Paesi che formano l’alleanza, non uno è disposto a inviare truppe di terra a combattere
contro i fondamentalisti dell’Isis, pochi a inviare qualche bombardiere. Ma una guerra non si vince dall’alto dei cieli, men che meno contro
un esercito-guerriglia pronto a ritirarsi di fronte alle bombe e lesto a
occupare il terreno lasciato libero. E soprattutto: così non si vincerà
mai la pace. Poiché la pace può attecchire solo laddove c’è giustizia, rispetto, democrazia, libertà di pensiero... condizioni che i popoli arabi
non conoscono da secoli, per la cui conquista erano nati quattro anni
fa i moti denominati speranzosamente «Primavera araba».
Certo, distruggere i centri logistici dello Stato islamico, le raffinerie di
petrolio che assicurano la sua ricchezza, frenare il flusso di capitali che
alimentano il fondamentalismo islamico ha un senso militare, strategico e psicologico: l’aura di invincibilità di un movimento che in pochi
mesi ha occupato vaste parti di Siria e Iraq ne uscirà scalfita e qualche
jihadista internazionale troverà meno eccitante lasciare i sobborghi
di Londra o di Parigi per farsi bombardare in Siria piuttosto che poter
sgozzare un ostaggio davanti ad una telecamera. Ma è importante
distinguere la cura dei sintomi dalla cura della malattia. E qui ha
ragione Obama: finché esiste l’humus che alimenta la violenza degli
estremismi, ogni guerra è persa e la pace impossibile. A complicare il
quadro ci sono poi numerosi fattori, il primo fra questi è che l’America
è malvista in Arabia, dopo le guerre di Bush padre e figlio in Iraq e di
Bush figlio in Afghanistan. Lo ha ricordato, non a torto, il presidente
dell’Iran, Hassan Rohani (Paese che per decenni ha sponsorizzato
terroristi arabi contro interessi occidentali...).
Abbandonando i toni diplomatici, Obama si è dunque rivolto senza
ambiguità ai Paesi arabi affinché riconoscano che la pace può nascere
solo dal dialogo, dalla libertà, dal rispetto e dalla giustizia, gli ideali
che hanno generato le proteste della Primavera araba. Ma quale nazione araba è disposta a imboccare quella via? Forse la Giordania. Non
l’Egitto dei generali che hanno incarcerato e ucciso esponenti della
Fratellanza musulmana, non l’Arabia Saudita che si fonda su quel
fondamentalismo wahabita/salafita da cui sorge la fenice del califfato
islamico, non il Qatar che sostiene finanziariamente i palestinesi-islamisti di Hamas, non questo Paese, non quello, non quell’altro... E in
questo conto negativo ci sta pure Israele, più a suo agio come potenza
militare regionale che come partner economico dei suoi vicini arabi.
Dunque: era un appello accorato o disperato, quello di Obama? Bush
figlio era convinto di poter imporre la democrazia (in Iraq e Afghanistan), Obama ha capito che la risposta immediata ad una tirannia
è spesso una tirannia peggiore, non la democrazia. Ma il mondo
attende un’opzione migliore, di fronte al baratro.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino¶29 settembre 2014¶N. 40
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Attualità Migros
MIl nuovo
Do it + Garden
a Losone
Migros news
Il programma 2014/2015
di Forum elle Ticino
Tutti gli incontri sono aperti ad
amiche/amici o simpatizzanti di Forum-elle, la piattaforma di scambio
per donne che si interessano a temi
sociali e culturali.
Giovedì, 16/10– pomeriggio
Gita ad Airolo e visita all’Agroval
Sabato, 25/10 – giornata intera
Mostra «Leonardo 3» a Milano
Mercoledì, 5/11 – pomeriggio
Ristorante Migros Serfontana.
Dedicato ai più piccoli… impariamo a fare la pizza!
Giovedì, 13/11 – ore 18.30
Suitenhotel Parco Paradiso, Lugano
«4 chiacchiere con...»: Sara Rosso,
donna, moglie, mamma e presidente della Planhotel Group Resorts di
Lugano
Giovedì, 11/12 – ore 16.00
Visita alla TSI
Giovedì, 15/1/2015 – ore 14.30
Visita alla Vanini SA – Rivera
Info: www.forum-elle.ch
Migros Ticino Inaugurato la scorsa
settimana, rispetta lo standard Minergie
e sul tetto ospita un impianto fotovoltaico
realizzato con la Società Elettrica
Sopracenerina
Ha aperto giovedì 25 settembre il nuovo
centro Do it + Garden Migros in via dei
Pioppi a Losone. Situato al piano terra,
con una superficie di 2000 mq e 65 posteggi, il nuovo negozio offre un vasto
assortimento per il fai da te, il giardinaggio e il tempo libero con le migliori marche del settore e – novità in Ticino – uno
shop dedicato alla sicurezza, che propone videocamere, casseforti, sistemi di allarme e accessori per la tutela della casa e
di chi ci abita.
In aggiunta agli assortimenti più
tipici del Do it + Garden, il centro offre
inoltre una scelta di articoli sportivi,
lampade e articoli di arredo per la casa,
grandi elettrodomestici (lavatrici, frigoriferi e congelatori) e accessori melectronics, cartoleria, articoli per cani e gatti e
per la pulizia. La superficie di vendita è
completata da uno spazio appositamente climatizzato destinato all’assortimento di piante e fiori, mentre un bar ubicato nella zona di accesso offre un punto
di ritrovo e di ristoro per gli avventori.
L’edificio è stato realizzato considerando tecnologie avanzate nel campo
del risparmio energetico e della protezione ambientale (materiali isolanti,
pompe termiche, sistemi di illuminazione LED, ecc.) ed è a standard Minergie.
Si tratta del secondo stabile Minergie
edificato da Migros Ticino, dopo il supermercato di Taverne, che ha ricevuto
la certificazione lo scorso anno.
Sul tetto dello stabile – come già
avvenuto in precedenza a Sant’Antonino e Taverne – sono inoltre stati installati dei pannelli fotovoltaici, in grado
di produrre circa 250 mila kilowattora
per anno, corrispondenti al fabbisogno di circa 55 economie domestiche.
L’impianto, di cui Migros Ticino si è assicurata circa la metà della produzione
di energia elettrica, è stato realizzato in
collaborazione con la Società Elettrica
Sopracenerina SA (SES), che ne è proprietaria.
Formazione professionale
alla Scuola Club Migros:
Group Fitness Instructor
Sei appassionato di fitness e vuoi
farne la tua attività principale?
Il percorso formativo Group Fitness
Istructor riproposto anche quest’anno dalla Scuola Club Migros permette di ottenere un diploma riconosciuto che abilita a lavorare come
professionista del settore.
La formazione verrà presentata in
dettaglio mercoledì 1 ottobre alle
ore 19.00 presso la sede della Scuola
Club Migros Ticino in Via Pretorio
13 a Lugano.
Iscrizioni e informazioni: Tel. 091
821 71 50 o all’indirizzo di posta
elettronica: [email protected].
Al primo piano dello stabile aprirà
il 31 ottobre 2014 il primo centro Activ
Fitness del Ticino, accanto al quale troveranno spazio attività nel campo dei
servizi e dell’artigianato.
Anche in questa realizzazione, che
comporta un investimento di 6,5 milioni di franchi, Migros Ticino ha fatto il
possibile per favorire imprese e artigiani
ticinesi e svizzeri, ai quali è stato affidato
circa il 70%, rispettivamente l’85% delle
commesse.
Il centro Do it + Garden di Losone
impiega 15 collaboratori, tra cui un apprendista, sotto la responsabilità di Bruno Gogov. Aperto dalle 08.00, chiude
alle 18.30 dal lunedì al venerdì, alle 21.00
il giovedì, alle 17.00 il sabato.
La Cooperativa
Migros Ticino
a Rüschlikon
Integrazione
sociale e
professionale
«Solo per un sorriso»
Una delegazione partecipa alle sessioni di
studio tenute all’Istituto Gottlieb Duttweiler
discuterà stasera
all’USI di Lugano
Convegno Se ne
Negli scorsi giorni si sono tenute all’Istituto Gottlieb Duttweiler le biennali
«Giornate di Studio», dedicata all’approfondimento e alla discussione di
temi che riguardano presente e futuro
della Comunità Migros. Alla sessione
ha partecipato anche una delegazione
della cooperativa ticinese, composta
da membri del Consiglio d’amministrazione e del Consiglio di cooperativa.
Nella foto, da sinistra: Monica
Duca Widmer (presidente del Consiglio di amministrazione), Roberto
Bontà, Antonella Delmenico, Daisy
Andreetta, Flavia Camozzi, Patrizia
Guerini (membri del Consiglio di cooperativa), Gianfranco Covino (membro del Consiglio di amministrazione),
Maja Werder (membro del Consiglio
di cooperativa), Gabriella Malacrida
(membro del Consiglio di cooperativa e
delegata), Lorenzo Emma (direttore di
Migros Ticino).
Lunedì 29 settembre alle 18.00 nell’Auditorio del Campus di Lugano dell’Università della Svizzera italiana si terrà
una tavola rotonda sul tema dell’integrazione socio-professionale. Alla tavola rotonda, moderata da Marcello Foa, parteciperanno Luca Albertoni,
direttore della Camera di commercio,
dell’industria, dell’artigianato e dei
servizi del cantone Ticino, Monica
Duca Widmer, presidente del Consiglio
di amministrazione della Cooperativa Migros Ticino, Michele Passardi,
presidente del Consiglio di fondazione della Fondazione Diamante, Sergio
Rossi, professore di macroeconomia e
di economia monetaria all’Università
di Friburgo e Laura Sadis, direttrice del
Dipartimento finanze ed economia del
Canton Ticino.
L’incontro è organizzato da Fondazione Diamante e Migros Ticino in
occasione del 25° di collaborazione.
In conclusione dei lavori è previsto
un rinfresco. Per motivi organizzativi è gradita l’iscrizione all’indirizzo
[email protected] o telefonando
allo 091 610 00 20 la mattina.
Azione
Sede
Via Pretorio 11
CH-6900 Lugano (TI)
Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89
[email protected] www.azione.ch
Editore e amministrazione
Cooperativa
Migros Ticino
CP, 6592 S. Antonino
Telefono 091 850 81 11
La corrispondenza va indirizzata
impersonalmente a «Azione»
CP 6315, CH-6901 Lugano
oppure alle singole redazioni
Stampa
Centro Stampa Ticino SA
Via Industria
6933 Muzzano
Telefono 091 960 31 31
Settimanale edito da Migros Ticino
Fondato nel 1938
Redazione
Peter Schiesser (redattore responsabile),
Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica
Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli,
Ivan Leoni
Riconoscimenti Il premio Adele Duttweiler
2014 a una fondazione romanda
che si impegna nell’aiuto agli invalidi
Ogni due anni la «Fondazione Premio
Adele Duttweiler», istituzione che prende il nome dalla moglie del fondatore di
Migros, ricompensa una persona, un’organizzazione o un’istituzione riconosciuta per i suoi meriti nel settore sociale.
Per il 2014, le dieci cooperative
Migros, che sono membri della fondazione presieduta da Max Alter, direttore di Migros Vallese, hanno deciso di
sostenere il prezioso lavoro del gruppo «Just for Smiles»: il premio è stato
consegnato il 24 settembre 2014 in una
cerimonia tenuta all’Istituto Gottlieb
Duttweiler di Rüschlikon.
La fondazione «Just for Smiles» di
Villeneuve, nel canton Friborgo, ha sviluppato da più di dieci anni una serie di
originali attività all’aria aperta pensate
per le persone colpite da handicap gravi
o che soffrono di mobilità molto ridotta. Nel porto di Estavayer-le-Lac, ad
esempio, è stato apprestato un catamarano specialmente modificato, allestito
in stretta collaborazione con alcuni architetti navali. Questa barca permette
ogni stagione a circa mille invalidi di
partecipare a delle uscite sul lago.
La fondazione è attiva allo stesso
tempo in programmi sulla terraferma:
grazie a una sorta di carrozzina montata su cingoli, in grado di avventurarsi
su tutti i tipi di terreno, soprannominata Joëlette, le persone coinvolte possono
intraprendere passeggiate su sentieri di
media montagna accuratamente selezionati. In inverno poi, quattro stazioni sciistiche sono state scelte per offrire
giornate speciali sulla neve. In tali situazioni tutti gli elementi necessari (accesso agli impianti di risalita, toilettes,
ristoranti ecc.) sono stati preventivamente adattati e messi in sicurezza. Gli
stessi insegnanti di sci sono formati appositamente per accompagnare gli invalidi sulle piste con uno speciale tandem sviluppato per la pratica dello sci.
Per finanziare queste attività «Just
for Smile» conta soltanto sulla generosità di donatori. Il premio di 100’000
franchi che la fondazione Adele
Duttweiler si appresta ad attribuirle è
dunque più che benvenuto, anche se coprirà solo una parte dei costi sostenuti
per l’organizzazione delle uscite e per la
loro preparazione.
Tiratura
98’645 copie
Abbonamenti e cambio indirizzi
Telefono 091 850 82 31
dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00
dal lunedì al venerdì
fax 091 850 83 75
[email protected]
Inserzioni:
Migros Ticino Reparto pubblicità
CH-6592 S. Antonino
Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00
[email protected]
Costi di abbonamento annuo
Svizzera: Fr. 48.–
Estero: a partire da Fr. 70.–
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino¶29 settembre 2014¶N. 40
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Società e Territorio
La canapa fa discutere
Legalizzazione: la situazione in
Svizzera tra progetti progressisti
e Confederazione prudente
Creatività che rivive in un’officina
Incontro con Adele Vanzetta e Aldo
Mariotti Nesurini, due originali fioristi
di Biasca
pagina 6
La rappresentazione del tempo
Il mondo digitale non è sempre moderno:
per rappresentare il tempo regredisce
di secoli
pagina 8
pagina 4
Simpatica,
scanzonata e un
po’ magica, Pippi
Calzelunghe è
stata ed è ancora
un punto di
riferimento per
molte bambine.
(Keystone)
Pippi ha bisogno di un fratellino
Bambini Sta per compiere settant’anni il personaggio inventato da Astrid Lindgren simbolo della bambina
«maschiaccio», forte e indipendente, eppure in letteratura non esiste un suo corrispettivo maschile: il bimbo
che ama le bambole è ancora un tabù?
Laura Di Corcia
Pippi Calzelunghe l’anno prossimo
compie settant’anni. Dal 1945 la sua
espressione vivace e le sue trecce rosse
rappresentano un punto di riferimento
per quelle bambine cui non va di giocare
solo con le bambole, che a trine e ai merletti preferiscono un paio di più pratici
pantaloni e (perché no?) comodi scarponi da montagna per andare a costruire le
capanne.
Ma il corrispettivo maschile qual è?
Ci sarebbe Billy Elliot, ma la sua vicenda ha davvero avuto una ripercussione
sull’immaginario comune? Se le bimbe
intraprendenti, con i capelli corti e le
macchinine come giocattolo oggi come
oggi suscitano ammirazione e sguardi
di approvazione, magari più delle coetanee tutte bambole e profumini, i rappresentati del «sesso forte» dotati di animo
più delicato, estetizzante, attratti dalla
morbidezza dell’universo da sempre
prerogativa quasi esclusiva del «gentil
sesso», se la passano peggio, sono sprovvisti di modelli e spesso si ritrovano ad
essere vittime di forme di violenza più
o meno esibita, da parte dei coetanei ma
anche degli adulti. Eppure, avere gusti
diversi da quelli dettati dalla società dei
generi-rigidamente-contrapposti dovrebbe essere un diritto accordato a tutti
i bambini, che soprattutto in alcuni momenti sentono la necessità di esplorare e
sperimentarsi, di dare sfogo alla loro immaginazione.
«È molto importante contestualizzare fenomeni di questo tipo. È vero che
un maschietto può preferire le Barbie,
ma come mai le ha sottomano? Magari
sono le sorelle che ci giocano e lui, trovandosele davanti, le usa senza porsi
troppe domande». A parlare è Tiziana
Marcon, responsabile di formazione
e pedagogista, la quale precisa che la
scelta del giocattolo spesso e volentieri
ha poco a che fare con l’orientamento
sessuale, che si palesa in età più matura,
quando le ceste con le macchinine e gli
altri giocattoli sono già state riposte in
cantina da un pezzo. «Io lavoro con una
fascia di bambini molto piccoli, sotto i
quattro anni, e posso assicurare che a
quell’età non hanno ancora la percezione che esistano giochi adatti ai maschi
e giochi adatti alle femmine. I bambini,
specie quelli così piccoli, si fanno guidare dall’istinto e dalle sensazioni che i
giocattoli regalano loro, più o meno piacevoli. Sono gli adulti, poi, a veicolare i
loro gusti, anche se bisogna ricordare
che il bambino è imitativo, quindi tende ad accodarsi ai suoi coetanei e ai loro
giochi, specie in contesti di condivisione
come l’asilo».
La pedagogista sottolinea anche che
la società oggi è più aperta per quel che riguarda l’uguaglianza fra i generi: «Si vedono spesso bimbe che indossano le magliette azzurre con disinvoltura e questo
non crea ormai nessun allarmismo fra
gli adulti. Un po’ diverso per quanto riguarda l’altro sesso: è più difficile che a
un bimbo si proponga un vestito rosa».
Mara, di Morbio Inferiore, madre di due
bambini di sette e quattro anni (Pietro e
Cecilia), è l’esempio lampante di come
i genitori abbiano fatto passi da gigante in campo educativo, eliminando con
un colpo di spugna tabù inutili e poco
costruttivi per la crescita dei bambini. «I
miei figli si sono sempre scambiati i giochi» – racconta. «Cecilia, per esempio,
ama le spade, le macchinine e i Lego di
suo fratello. Se le capita di imbattersi in
Spiderman, non ci pensa due volte e ci si
relaziona. La stessa cosa fa Pietro: quando sua sorella ha voglia di giocare con
le bambole, non si tira certo indietro».
Mara non sembra preoccupata. Se è vero
che Pietro tende a utilizzare giochi «femminili» soprattutto con la sorella, è anche
vero che spesso rivisita gli stessi in chiave
diversa, più legata al suo immaginario
maschile. «Non mi sono mai sognata di
imporre ai miei figli divieti e restrizioni
in questo senso, credo che sia un modo
di fare obsoleto, sicuramente non al
passo coi tempi; quando vedo che Pietro
prende la bici rosa della sorella lo lascio
fare senza farmi nessun tipo di problema. Stessa cosa se gioca con la palla delle
Winks».
Mara spiega che il gioco molto spesso non ha valore in sé, ma è uno strumento attraverso il quale dare il via libera alla creatività e del bambino o della
bambina, che può costruirci attorno un
universo di significati e inventare storie e soggetti attinti dalla sua fantasia.
Nondimeno, qualche sbavatura c’è. La
preoccupazione di Mara va più verso la
fascia di età che il genere. «Pietro adora i
peluche, nonostante sia già un po’ grandino per giocarci ancora. Eppure non
va a letto senza il suo orsacchiotto preferito e ama circondarsi di nuovi pupazzi.
Quando mi chiede di comprargliene
uno nuovo, non sono entusiasta e cerco
di fargli capire che sono giocattoli pensati per bambini più piccoli. Ecco, forse in
questo alla base del mio comportamento
c’è un pregiudizio: se fosse una bambina
reagirei così? Probabilmente no». La mescolanza va bene, ma la preoccupazione
rimane, soprattutto quando si tratta di
sesso maschile. Mara la sa riconoscere, e
gli altri genitori? La stessa pedagogista,
Tiziana Marcon, ammette: «Io stessa
faticherei a regalare ad un bambino una
tutina color pesca». Ecco, forse è giunta
l’ora che qualcuno regali a Pippi Calzelunghe un fratellino innamorato delle
bambole.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino¶29 settembre 2014¶N. 40
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Società e Territorio
Canapa, che fare?
Legge sugli stupefacenti Dibattito aperto sulla depenalizzazione della canapa, dagli Stati Uniti all’Europa.
La situazione in Svizzera tra città progressiste e Confederazione prudente
Fabio Dozio
Il conto alla rovescia verso la depenalizzazione della canapa è iniziato. Esattamente un anno fa, il primo ottobre del
2013, è entrata in vigore in Svizzera la
modifica della legge sugli stupefacenti
che trasforma il consumo di canapa in
reato amministrativo. Chi fuma uno
spinello, se maggiorenne, rischia una
multa di cento franchi. Un esperto l’ha
definita una depenalizzazione de facto. Un punto di svolta radicale che, per
i nemici della canapa, rappresenta un
cedimento significativo verso la legalizzazione.
«Dobbiamo cambiare rotta». Lo dice
Kofi Annan, ex Segretario generale
delle Nazioni Unite e Presidente della
Commissione globale delle politiche
sulle droghe. Le politiche di proibizione della canapa e la criminalizzazione
dei consumatori sono giudicate fallimentari. Non si riduce il consumo, si
riempiono le prigioni di consumatori e
gli spacciatori alimentano un mercato
della droga che vale miliardi di franchi
ogni anno. Secondo la Commissione
ONU presieduta da Annan, «la prossima sessione speciale delle Nazioni Unite contro le droghe, nel 2016, è un’opportunità senza precedenti per rivedere
le politiche sulle droghe». Lo scorso
mese di marzo, un rapporto dell’Ufficio delle Nazioni Unite sulle droghe e
il crimine (Unodc) ha sottolineato che
«la depenalizzazione del consumo della
droga può essere una forma efficace per
“decongestionare” le carceri, redistribuire le risorse in modo da assegnarle
alle cure e facilitare la riabilitazione».
L’ONU rimane contraria all’uso ricreativo della marijuana, ma afferma che
i consumatori di stupefacenti devono
essere considerati come «pazienti in
cura» e non come «delinquenti».
Attorno all’«erba», la sostanza illegale più diffusa al mondo, soffia un
vento nuovo. L’Uruguay ha legalizzato
il consumo di canapa, così come gli Stati
americani del Colorado e di Washington, mentre in California è ammesso l’uso terapeutico della marijuana. In Spagna e in Portogallo, per fare due esempi
europei, si regolamenta il consumo grazie alla creazione dei cannabis club. In
Italia si pensa di ridiscutere la legge FiniGiovanardi, che trattava l’erba alla stregua delle droghe pesanti, e s’incomincia
Keystone
Il Canton Ginevra sta
studiando un progetto
pilota che prevede dei
cannabis club i cui
membri potranno
acquistare canapa
per uso personale
proveniente da colture
controllate
Alcuni Stati americani come il Colorado hanno legalizzato il consumo di canapa. (Keystone)
a sperimentare la distribuzione per motivi terapeutici.
In Svizzera alcune città si stanno
muovendo per depenalizzare e legalizzare il commercio e il consumo della
marijuana. Zurigo, Berna, Basilea, Bienne, Winterthur stanno valutando proposte in questo senso. Ma soprattutto a
Ginevra il cantone sta preparando un
progetto pilota. I membri dei cannabis
club potranno acquistare canapa per
uso personale, proveniente da colture
controllate dallo Stato e da consumarsi in privato. Togliere la marijuana dal
mercato nero avrebbe indubbi vantaggi,
affermano le autorità ginevrine, meno
trafficanti e meno lavoro per la polizia.
Il Canton Ginevra ha appena nominato Ruth Dreifuss, ex consigliera
federale, alla testa della Commissione
consultiva in materia di dipendenze. La
voce dell’ex ministra socialista si è fatta
subito sentire: «Bisogna depenalizzare
tutti gli stupefacenti. Va sperimentata
questa soluzione per valutare l’effetto
che può avere sui venditori e sui consumatori».
Il Consiglio federale si muove però
a piccoli passi: all’inizio di settembre,
rispondendo a due atti parlamentari,
ha chiarito che al momento non intende rivedere la legge sugli stupefacenti
con l’obiettivo di legalizzare la canapa.
Il governo vuole seguire gli sviluppi nel
settore e perciò incaricherà la Commissione federale per le questioni relative
alla droga di stilare un rapporto entro la
fine del 2017 con le raccomandazioni in
merito. Sui progetti che stanno nascendo a Ginevra e in altre città, Berna dice
che «non è possibile valutare in modo
definitivo la compatibilità di tali progetti con la legge sugli stupefacenti, poiché
all’Ufficio federale della sanità pubblica
è stata inviata soltanto una bozza elaborata da un gruppo ginevrino». Da parte
sua, l’Ufficio della sanità ritiene che «la
legge permette eccezioni a fini curativi,
mentre i club non rispondono a questa
tipologia: non si tratta di malati, ma di
adulti che consumano la canapa a fini
ricreativi».
Potranno essere tollerati i progetti
pilota di Ginevra e delle altre città che
intendono introdurre i cannabis club?
«A mio giudizio no – ci dice il consigliere nazionale Ppd Fabio Regazzi – sono
contrario a qualsiasi violazione della legge, se la repressione non funziona, non è
un buon motivo per rinunciarvi. Quando non si riesce a combattere ci si rassegna. È la tattica del salame, si smonta un
pezzo alla volta e alla fine si cede. Io resto
irremovibile, la canapa è una sostanza
proibita e tale deve rimanere».
«Essere contrari alla sperimentazione – ci dice Ignazio Cassis, consigliere nazionale Plr – è un atteggiamento
da Medioevo, quando si proibiva alla
gente di sapere». Cassis, che è stato medico cantonale in Ticino, sottolinea che
«naturalmente la cannabis non è senza
pericoli. Ma lo è forse un hamburger? A
lungo termine gli hamburger portano
all’obesità, al diabete e a malattie di cuore. E la gente muore a causa di ciò, come
per la nicotina e l’alcol. Insomma, tutto
fa male, dipende dalle dosi! Comunque,
le città svizzere devono poter sperimentare, bisogna concedere un margine di
tolleranza».
In Svizzera si stima che più di un
quarto della popolazione con più di 15
anni abbia provato la cannabis. I consumatori abituali sarebbero circa 220
mila. La legge svizzera sugli stupefacenti
risale al 1951 e offre leggeri margini di
tolleranza. Agli inizi degli anni Duemila
il Consiglio federale decise di depenalizzare lo spinello. Sarebbe stato il primo
Paese al mondo a introdurre una legge
che regolava il mercato della canapa. Fra
gli obiettivi della riforma figuravano la
protezione della gioventù e la lotta contro il mercato nero. Ma il Parlamento
nel 2004 bocciò la proposta, rifiutando
persino di entrare in materia, cioè non
ne volle nemmeno discutere! Pascal
Couchepin, allora consigliere federale,
esortò i deputati ad affrontare il dibattito per evitare di «far finta che non esista
un problema droga in Svizzera». Dopo
questa sconfitta del fronte che intendeva
modificare la legge sugli stupefacenti, fu
lanciata un’iniziativa popolare che invitava a depenalizzare la marijuana, ma il
popolo e i cantoni l’affossarono nel 2008.
La tendenza sembra chiara. Nel
mondo intero si va verso la depenalizzazione e la legalizzazione della canapa,
anche se in forme e con tempi diversi. «È
chiaro: in questo momento è improbabile che vi sia in Svizzera una maggioranza
a favore della legalizzazione – afferma il
presidente della commissione federale
per le questioni relative alla droga, Toni
Berthel – ma a medio termine dobbiamo chiederci che fare con le sostanze
psicoattive, come la cannabis. Perché,
anche se sono vietate, continuano a venir consumate. Soprattutto fra i giovani, che si procurano la droga al mercato
nero e finiscono così nel mondo della
criminalità. Questa non è una soluzione.
E se negli Stati Uniti si fanno passi verso la legalizzazione, questo è un segnale
importante. Con i divieti e con la repressione non risolviamo il problema».
Il popolo svizzero ha bocciato la depenalizzazione della canapa nel 2008.
«Bisogna lasciar passare almeno dieci
anni – sostiene Ignazio Cassis – per pensare a una depenalizzazione definitiva.
Anche perché è un tema intriso di ideologia, è una vera e propria guerra di religione!»
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29.9. –
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino¶29 settembre 2014¶N. 40
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Società e Territorio
Non solo petali
Fiori e arte Incontriamo Aldo e Adele a Biasca, in un’ex officina
di metalcostruzioni ristrutturata, dove uniscono creazioni floreali,
arte e artigianato
Trovare il loro spazio, «l’Officina creativa», non è facile. Non essendo il classico negozio affacciato sul paese, per
conoscere il mondo di Adele Vanzetta
e Aldo Mariotti Nesurini, due originali
fioristi di Biasca, bisogna cercarlo volutamente. A loro questo piace molto.
Fuori dal borgo, bisogna addentrarsi
nella zona industriale, in via Prada 6,
là dove c’era una fabbrica di metalcostruzioni. Una volta trovato il luogo ci
si accorge subito che ne è valsa la pena.
È come se, per una volta, contenente e
contenuto abbiano la stessa valenza:
è lo spazio, il ricordo di com’era e il lavoro conservativo ancora presente, che
stimola tutto il resto. Adele e Aldo hanno unito le loro forze in un’avventura
molto originale: rinnovare parzialmente un’ex officina, mantenendone
intatta gran parte dell’architettura, per
abbinare la loro passione per la flora,
specie le piante grasse e cascanti, che è
anche profondo rispetto della natura.
«In Ticino siamo gli unici, prima di
tutto come tipo di spazio – spiega Aldo
– cioè la “famosa” officina restaurata,
perché trovare edifici così qui da noi non
è facile ed è stata una grande fortuna.
Infine il fiore, la pianta, contribuisce a
creare un’atmosfera bella per tutti». «In
sei mesi, con l’aiuto di amici e parenti –
racconta Adele – siamo riusciti a ristrutturare questa ex officina di metalcostruzioni, un tempo molto conosciuta. Qui
non c’era niente, solo le mura e abbiamo
fatto tutto noi! Abbiamo conservato alcune caratteristiche e, nonostante sia un
negozio, vogliamo mantenere il concetto di “officina” da cui poi è nato il nome.
Abbiamo pensato di creare uno spazio
un po’ diverso dagli altri, ispirandoci ad
esempi visti nella Svizzera interna, dove
usano rivalutare le ex fabbriche».
L’«Officina creativa»
è un luogo luminoso,
un esempio riuscito
di unione tra organico
e inorganico
Il bello di questo luogo è che si respira,
è invaso dalla luce, sembra spoglio tanto è ampio, l’allestimento è minimale
ma studiato. Il contrasto tra la serenità
calda sprigionata dalla flora, e la concretezza fredda dell’acciaio e della pietra,
è solo apparente. Insomma, una bella
unione tra organico ed inorganico. Ma
l’idea non si ferma qui. Non c’è solo la
creatività floreale, con i suoi abbinamenti, i suoi vasi originali, le sue mises
en place, ma anche quella di giovani artisti della Svizzera italiana, artigiani e
creativi, forse ancora poco conosciuti ai
più, come Giar Lunghi, Clyo Lurati, Renata L. Scapozza, Tita Malingamba, ecc.
«All’inizio – spiega Adele – puntavamo soprattutto sui giovani che
finivano la Csia o Brera, ma venivano
in pochi, quindi abbiamo voluto dare
un’opportunità alla gente della zona
creando una piccola galleria d’arte
all’interno, sia perché non ci sono tanti posti dove si può esporre nelle nostre
valli, sia per differenziarci dal classico
negozio di fiori. Gli artisti e gli artigiani ormai arrivano da soli, finora non
abbiamo cercato nessuno!». Cosa si
espone e come vengono selezionati?
«Solitamente esponiamo quadri, ma
non diciamo di sì a tutti, c’è anche una
scelta qualitativa. C’è chi lavora col feltro, chi crea folletti, chi è nella sartoria,
poi sculture, foto, ceramiche, ecc., non
necessariamente legate ai fiori o alla natura. Poi in base a quello che porta l’artista noi cerchiamo di allestire il negozio e creare delle composizioni a tema».
«Il nostro è già un lavoro creativo – afferma Aldo – e visto che siamo
su quella direzione abbiamo pensato:
perché non far esporre giovani e anche
non giovani, creando una sinergia? Gli
artisti ispirano anche noi. Se c’è nero e
bianco, anche noi inseriamo oggetti di
questi colori, in modo che si crei un’armonia, un insieme voluto. Gli artisti
apprezzano innanzitutto lo spazio, l’energia positiva che c’è qui, quindi anche se portano opere un po’ “forti”, si
addolciscono anch’esse». Oltre a una
mostra a Natale di creazioni a tema,
nell’officina si organizzano quattro
esposizioni all’anno
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Adele Vanzetta e Aldo Mariotti Nesurini nella loro «Officina creativa». (Davide Frizzo)
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino¶29 settembre 2014¶N. 40
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Società e Territorio
Rappresentare il tempo
Mondo digitale Prima di diventare una linea, il tempo è stato tante cose: un animale, un corpo umano,
un edificio, un fiume, una mappa. Ora deve diventare una rete?
Lorenzo De Carli
Il cuore del sito web del Metropolitan
Museum of Art è un’enorme linea del
tempo denominata Heilbrunn Timeline
of Art History. Articolata in trecento diverse cronologie che partono dall’8000
a.C. per arrivare ai nostri giorni, corredata di quasi mille saggi per quasi
settemila opere d’arte, quando venne
messa online nel 2000 «fu guardata con
trepidazione dai curatori del museo»,
scrivono i due storici americani Daniel
Rosenberg e Anthony Grafton, ma: «divenne subito evidente che la metafora
della linea del tempo era connaturata
al progetto stesso del museo; di fatto,
anzi, apparve talmente radicata nell’essenza dell’istituzione che diventò difficile capire come mai si fosse deciso di
esplicitarla solo allora».
La perplessità degli studiosi del
Met era più che legittima perché i siti
web dei musei, così come i tanti CDRom dedicati alle opere d’arte pubblicati negli anni Novanta, non erano
caratterizzati da una navigazione cronologica ma topografica. Senza saperlo,
i designer e gli sviluppatori informatici
di quegli anni stavano lavorando con
categorie concettuali incentrate sulla
dimensione spaziale, che nel corso del
Settecento la cultura occidentale aveva rapidamente accantonato in favore
della più astratta «linea del tempo». Lo
studio delle interfacce web rende evidente quanto poco moderno può essere
il mondo digitale. Oggi, «insieme all’elenco e al link, la linea del tempo è una
delle strutture organizzative centrali
dell’interfaccia degli utenti» – scrivono
Rosenberg e Grafton nel loro Cartografie del tempo. Una storia della linea del
tempo – ma nel web non è infrequente
trovare forme di organizzazione del
contenuto precedenti la modernità.
La linea del tempo nasce
attorno alla metà del
Settecento:
una conquista che
però non scalzò
definitivamente le altre
rappresentazioni
«Per molti lettori del Cinquecento e
del primo Seicento il tempo assomigliava a una tabella, preferibilmente
suddivisa in caselle tramite assi orizzontali». Tabelle di questo tipo sono
tuttora molto frequenti online perché
soddisfano la necessità (come nelle
La New Chart of
History (1769) di
Joseph Priestley
fu la prima
linea del tempo
moderna. (www.
thenewatlantis.
com)
antiche cronache) di conoscere fatti
eterogenei ma contemporanei, mentre
la moderna realtà virtuale altro non è
che la riproposta digitale delle seicentesche Kunst- und Wunderkammern
(«Gabinetti d’arte e di meraviglie»).
Il lavoro di ricerca compiuto da
Rosenberg e Grafton per documentare
come l’Occidente ha illustrato il tempo è particolarmente utile in questo
momento storico. Proprio il miscuglio
di antico e moderno tipico del postmodernismo digitale non ci permette
di comprendere quanto storicamente
determinate siano alcune soluzioni di
rappresentazione grafica che usiamo
tutti i giorni online e offline. La linea
del tempo, per esempio, non è una rappresentazione a tal punto intuitiva, da
essere priva di storia; tutt’al contrario,
essa nasce attorno alla metà del Settecento, come «nuovo metodo di espressione e quantificazione dei rapporti
cronologici». È il teologo e scienziato
inglese Joseph Priestley a realizzare per primo linee del tempo come le
usiamo oggi: «fu il primo cronografo
a concettualizzare i suoi diagrammi
in termini simili a quelli dell’illustra-
zione scientifica, e il primo ad esporre principî sistematici per il trasferimento dei dati storici in un medium
visivo». Ma se «dopo di lui la maggior
parte dei lettori aveva introiettato l’analogia tra tempo storico e lo spazio
misurato», che cosa c’era prima?
Fino alla metà del Settecento, per
rappresentare il tempo storico si usava
«una semplice matrice con i regni segnati nel margine superiore della pagina su un asse orizzontale e gli anni
elencati verticalmente nelle colonne
di sinistra o di destra». Il modello ispiratore è quello della Cronaca del padre della Chiesa Eusebio di Cesarea,
replicato continuamente e tutt’ora da
noi usato, quando – per esempio – con
Excel adoperiamo le colonne verticali per le diverse categorie di contenuti e quelle orizzontali per le date (o
viceversa). Ma la rappresentazione a
matrice della storia non era l’unica: a
lungo si sono adoperate immagini di
edifici, di corpi umani o animali. Anche oggi, nelle interfacce multimediali, la metafora dell’edificio – un tempo
funzionale alla tecnica mnemonica
detta del «teatro della memoria» – è
molto usata per collocare le informazioni nello spazio virtuale. Edifici e
corpi erano funzionali allo scopo di
rappresentare una storia di regni e regnanti che prolungava quella biblica.
Quando, nel Seicento, il sapere
astronomico permise di ancorare a
date precise gli eventi storici (facendoli corrispondere a regolari eclissi
o allineamenti di pianeti) e quando
la conoscenza delle cronologie cinesi e dell’antico Egitto fece vacillare la
cronologia biblica, quelle rappresentazioni rassicuranti furono messe in
crisi, mentre il grande progresso della
rappresentazione cartografica delle
terre via via scoperte suggeriva la possibilità di trattare l’estensione temporale come una estensione spaziale. Ma
sarebbe sbagliato sostenere che la linea
del tempo sia stata una conquista che
abbia scalzato definitivamente le altre.
Se «nel corso dell’Ottocento divenne del tutto naturale pensare la storia
come una linea del tempo», Charles
Darwin, provando nei suoi taccuini a
rappresentare graficamente il processo dell’evoluzione, si rese conto quanto essa possa essere concettualmente
è stato diverso per la Apple di Jobs,
ricorda Rampini, trasferitosi nella
Silicon Valley quattordici anni fa per
vivere dal di dentro la rivoluzione di
Internet. Nata come distinguo dagli
altri colossi informatici, indirizzata
ad un pubblico giovane di creativi e
trasgressivi, la Apple era sinonimo
di anticonformismo, usciva dalle logiche di monopolio di Microsoft e
Ibm. Poi però, con il successo «Jobs si
sforza di costruire un sistema chiuso,
impenetrabile. E al tempo stesso diventa l’artefice di uno sfruttamento
ignobile della manodopera cinese…».
Proprio come Google e Facebook anche la Apple ci spia a nostra insaputa.
I telefonini, gli iPad senza i quali non
possiamo più immaginare la nostra
quotidianità, sanno tutto di noi. A tal
punto che «non ricordate dov’eravate
un mese fa a quest’ora, cos’avete fatto,
in quali locali siete entrati, chi avete
visto?» chiede Rampini, «niente paura, la smemoratezza ha un rimedio.
Se siete proprietari di un iPhone o di
un iPad hanno registrato tutti i vostri
spostamenti, minuto per minuto. E ne
conservano traccia fedele».
Assange, Snowden hanno avuto il
grande merito, e a caro prezzo, di
metterci in guardia di fronte ad una
nuova forma di totalitarismo digitale. Ci hanno spiegato che la favola
della democrazia digitale, della Rete
che ci rende tutti uguali e liberi, apre
al dialogo e al confronto, fa valere la
voce di tutti, è davvero solo una favola
e forse nemmeno a lieto fine. La NSA,
le aziende high-tech e la grande Rete
sono sistemi di sorveglianza di massa
volti a carpire quante più informazioni possibili su noi cittadini e a trarne
profitto. Lo spiega bene Andrew Keen
ingannevole. La linea del tempo ci
suggerisce un’idea di continuità ineluttabile, di progresso senza fine, di
necessaria concatenazione di cause e
di effetti – mentre, in realtà, il caso e la
necessità s’intrecciano senza posa e la
contingenza è costantemente presente
nel corso dell’evoluzione.
Oramai sappiamo che la linea del
tempo è del tutto inadeguata, per esempio, a rappresentare l’evoluzione del genere Homo sapiens: convissuti con altri
ominidi in varie zone del pianeta, proprio in questi anni ci stiamo rendendo
conto che il nostro DNA reca tracce di
altre specie, come per esempio l’Homo
neanderthalensis. Per rappresentare
queste relazioni genetiche la metafora
della linea del tempo è fallace, e s’impone con forza la necessità di una nuova
conquista cognitiva: quella di abituarci
a rappresentare le relazioni dei fenomeni non più come a relazioni causali sulla linea del tempo bensì come a nodi di
reti interconnesse, le quali – nel tempo
– retroagiscono, modificando costantemente le reciproche connessioni. Ma
forse non siamo ancora abbastanza
moderni per le reti.
La società connessa di Natascha Fioretti
La tecnologia che ci spia
I giornalisti Federico Rampini e Fabio Chiusi ci mettono in guardia dalla supremazia digitale e tecnologica
che avanza, ci circonda nella nostra
quotidianità e ci spia senza che neanche ce ne accorgiamo. Il primo
con un nuovo libro pubblicato per
Feltrinelli Rete padrona. Amazon,
Apple, Google & Co. Il volto oscuro
della rivoluzione digitale, il secondo
con un’intervista esclusiva a Julian
Assange uscita qualche giorno fa sul
quotidiano «la Repubblica» dal titolo
Il nuovo totalitarismo sono i colossi
del web (http://www.repubblica.it/
esteri/2014/09/22/news/l_ultima_sfida_di_assange_il_nuovo_totalitarismo_sono_i_colossi_del_web96367542/?ref=HREC1-5).
Nell’intervista il fondatore di Wikileaks non fa sconti e accusa Google di
sorvegliare milioni di persone. Come
riporta Chiusi, nel suo ultimo libro
When Google Met Wikileaks, Assange scrive: «Se volete una visione del
futuro, immaginate occhiali di Google promossi da Washington e legati a
volti assenti – per sempre».
Rampini è dello stesso avviso e nel
suo libro ricorda gli esordi rivoluzionari e progressisti del colosso di
Mountain View, il voler escludere,
in un primo momento, la pubblicità dai risultati del motore di ricerca.
Poi Google diventa il numero uno nel
mondo, «to google» entra nei dizionari d’inglese e il motore di ricerca
si trasforma in una macchina pubblicitaria di proporzioni gigantesche
guidata dalle spietate logiche del profitto. E quel che è peggio, in un mercato così nuovo da non essere ancora
adeguatamente regolamentato. Non
in Vertigine digitale, i dati e le informazioni di noi cittadini sono il petrolio, l’oro nero dell’epoca di Internet, le
nostre identità e la nostra reputazione
sono merce di scambio in quella che
di fatto è un’economia dell’attenzione, un’economia che come tutte le
altre guarda al profitto e non all’amicizia, al benessere o ai diritti umani.
«Un’occasione mancata» scrive Rampini. Jobs in particolare aveva le risorse necessarie per cambiare non solo il
paradigma tecnologico ma anche un
modello di capitalismo imperante.
Tocca a noi cittadini fare qualcosa;
in primo luogo informarci, diventare
utenti consapevoli, conoscere da vicino le dinamiche di Internet e delle
nuove tecnologie, perché indietro non
si torna, e nonostante i lati oscuri, tanti, troppi, sono i benefici che la rivoluzione epocale del web ci ha portato.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino¶29 settembre 2014¶N. 40
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Società e Territorio Rubriche
Lo specchio dei tempi di Franco Zambelloni
Una contraddizione apparente
Mi capita, non spesso, di dare un’occhiata agli spot pubblicitari che nei
canali televisivi privati interrompono le
trasmissioni che sto seguendo. Di solito
approfitto delle interruzioni per farmi un
caffè o per controllare la posta informatica, ma ultimamente ho voluto rimanere
incollato al televisore per verificare
un’impressione che mi era venuta. Adesso ne sono certo: la maggior parte degli
spot pubblicitari riguarda il corpo, la sua
manutenzione e la sua cosmesi. La pubblicità dichiara un’implacabile guerra ai
più sordidi nemici del corpo: l’obesità,
la cellulite, il sudore, le «piccole perdite
di urina», il «prurito nelle parti intime»,
l’acne e così via. Vengono offerti favolosi
rimedi: c’è il prodotto straordinario che
tramuta il sudore in profumo, così che
«più sudi, più profumi»; c’è lo shampoo
che rende i capelli morbidi e splendenti;
la crema che fa la pelle vellutata, quella
che spiana le rughe e via seguitando.
E qui emerge una contraddizione: da
un lato la nostra epoca è attratta dalla
smania del «bio» e si afferma la convinzione che «bio è meglio»; dall’altro,
invece, il corpo umano non dev’essere
«bio». L’estetica del corpo rifiuta ciò che
è naturale e tende a porre una distanza
crescente tra la dimensione corporea e
la natura.
È pur vero che questa distanza l’uomo
l’ha coltivata, in certa misura, fin dai
primordi della civiltà: con i vestiti,
anche quando il clima non li richiedeva,
secondo il codice del pudore imposto
dalla cultura del momento; con l’acconciatura dei capelli e della barba; con gli
ornamenti, i tatuaggi, la cosmesi; con
l’igiene personale, da ultimo (e non poi
tanto tempo fa…). Un tempo ci si lavava
ben poco, anche per l’assenza di acqua
corrente nelle case e a dipendenza della
stagione; specie nelle città, la pulizia
del corpo era cosa insolita. Alla scarsa
pulizia corporea si suppliva – chi se lo
poteva permettere – con abbondanti
dosi di profumo. Ci si aggiungevano poi
regole di un codice morale rigidissimo
per quanto riguardava la sessualità: guai
a guardarsi nudi, guai a toccarsi nelle
parti intime; racconta ad esempio lo storico francese Bologne, nella sua Histoire
de la pudeur, che in epoca Biedermeier,
ossia nella prima metà dell’Ottocento, si
raccomandava alle giovinette di coprire
l’acqua del bagno di segatura, per evitare
di vedere quanto stava al di sotto del
pelo dell’acqua. Era così da secoli: nel
XIII secolo il domenicano Vincenzo
di Beauvais disapprovava che, dopo
l’infanzia, le fanciulle facessero il bagno.
Si capisce che, con un simile codice di
comportamento, l’odore di santità non
sempre coincideva con quello della
pulizia corporale.
Da un estremo si è passato a quello opposto. Il naturalista americano Theodor
Rosebury sentenzia: «Stiamo diventando un popolo di nevrotici, smacchiati,
strigliati e deodorati». Meglio strigliati
che sozzi, comunque. Ma credo sia chiaro a chiunque che le pratiche igieniche
attuali vanno ben al di là della semplice
tutela della salute: il corpo è diventato
oggetto di culto, emblema da esibire,
carta d’identità sociale. In un libro pubblicato da Daniel Pennac due anni fa,
Storia di un corpo, un vecchio padre dice
alla giovane figlia: «Il corpo è un’invenzione della vostra generazione. Almeno
per l’uso che se ne fa e per lo spettacolo
che ne viene dato. [...] Quanto ai medici
(a quando risale la tua ultima visita?),
è molto semplice: oggi il corpo non lo
toccano più. A loro importa soltanto il
puzzle cellulare, il corpo radiografato,
ecografato, tomografato, analizzato, il
corpo biologico, genetico, molecolare,
la fabbrica di anticorpi. Vuoi che ti dica
una cosa? Più lo si analizza, questo
corpo moderno, più lo si esibisce, meno
esso esiste».
C’è del vero. Quando i pittori del passato
dipingevano «le tre età della Vita», la
vecchiaia era rappresentata com’era per
natura – grinzosa, smagrita, decadente;
oggi anche la vecchiaia va rimossa e il
mito della giovinezza si rafforza con
gli interventi della chirurgia e con gli
artifici della cosmesi che rendono le
facce levigate.
Così il corpo umano, ritoccato ad arte,
viene ad essere il contrario del «bio»:
artificiale e contraffatto. Però, a ben
guardare, anche il trionfo del «bio»
nell’alimentazione e nell’abbigliamento
è sostenuto dalla preoccupazione per il
corpo, per la sua salute e la sua immagine. Dunque, non si tratta propriamente
di una contraddizione, bensì piuttosto
di un contrario che integra l’altro: sono
i due volti di un unico nuovo culto.
Grazie, mio bio!
le munizioni per Buckingham Palace.
Ecco la bomba Brändli fondente,
servita con un coltello. Taglio a metà,
ottima. Peccato solo che spesso dico
caffè dimenticando che in Svizzera interna o romanda, va precisato
«espresso» per non avere uno stagno
da bere. Il signor Brändli ora ha da fare
e gentilmente si congeda. Nella vetrina
c’è la testa trasognata di Einstein: negli
anni 1895-1896 frequenta infatti la
scuola cantonale qui ad Aarau. Entro
a chiedere informazioni: fanno un
biscotto Einstein, quadrato, imbevuto
nel kirsch con sopra cioccolato nero.
Nella panoramica dei praliné esposti
è ancora il tocco di Celestino Piatti a
dare nell’occhio con grazia: la scatola
delle mandorle al cioccolato. Quando la moglie di Mark Brändli vede
che prendo appunti e sente la parola
articolo, si allarma: «ho avuto una
brutta esperienza con un giornalista».
Sulle altre specialità e le bombe non
ha «niente da dire». Le bombe Brändli
sono in scatole da due, quattro, otto,
dodici. Costano una sassata, va detto,
faccio comunque una piccola scorta e
via. Se fate un giretto da queste parti,
già che ci siete, oltre ad alzare gli occhi
sui celebri tetti dipinti del centro
storico di questa città capoluogo del
Canton Argovia sorta su uno sperone
roccioso sulla sponda destra dell’Aar
da cui trae il nome, non potete perdervi le scimmie birraiole. Folgorante una
scimmia in ferro battuto con tanto di
palma che brinda con un boccale di
birra. Era l’insegna del leggendario
Restaurant Affenkasten chiuso otto
anni fa e luogo dove lo spazzino e il
professore bevevano gomito a gomito.
E ancor prima, di un’antica birreria;
ora c’è una libreria niente di che.
Sulla facciata neogotica ci sono altre
splendide scimmie affrescate nel 1920,
un paio bevono birra altre giocano a
carte. Apro la scatola e ne mangio una
al latte, a morsi. Devo dire che sono
migliori mangiate così, in giro, queste
adorabili bombe a mano di quaranta
grammi l’una.
di 200mila, e provengono da tutto il
mondo: in testa gli americani, seguiti
da brasiliani, indiani, inglesi, cinesi.
Alcuni italiani: 35, giovani fra i 25 e i
40 anni, per lo più studenti di geologia,
geografia, fisica, medicina. E perfino
quattro svizzeri. Come emerge dalle
interviste rilasciate, nel loro comune
denominatore figurano la curiosità
scientifica, la sollecitazione dell’ignoto, l’ambizione di collocarsi a fianco
dei grandi scopritori, mentre sembrano minimizzati sentimenti, prevalenti
nella condizione di residenti sulla
Terra, quali gli affetti familiari, le abitudini, l’attaccamento a persone e cose
della quotidianità. Una quotidianità
che, del resto, loro pensano di ricreare
lassù. Non mancano, del resto, nelle
dichiarazioni di questi futuri «marsonauti», anche accenni all’insofferenza nei confronti di un ambiente
«terreno» limitato, soffocante, non
in grado di soddisfare aspirazioni
alternative, magari confuse. Non tutte
le motivazioni, che stanno dietro a
questa scelta, testimoniano chiarezza
e consapevolezza. Insomma, per dirla
tutta, l’identikit di questo viaggiatore
di futura generazione appare contraddittorio. Si percepisce, pure qui, la
sensazione di un andarsene, tanto per
andare.
Ma c’è, poi, un altro aspetto, ancora
in sordina ma qua e là affiorante, ed
è lo sfruttamento a uso politico di un
pianeta, di cui si stanno studiando le
possibili condizioni abitative. E che,
come tale, potrebbe diventare una
nuova colonia: gestita da chi e con
quali obiettivi? Tempo fa, di fronte al
problema degli sbarchi di profughi
africani e mediorientali, a un politico
italiano è sfuggita una battutaccia: «E
se li spedissimo su Marte?».
Un incidente verbale, a suo modo
rivelatore. Una colonia lontana, anzi
lontanissima, potrebbe servire allo
scopo: accogliendo gli indesiderabili.
Insomma, andare su Marte senza
ritorno, potrebbe anche non essere una
scelta libera.
Passeggiate svizzere di Oliver Scharpf
Le bombe Brändli di Aarau
Le bombe Brändli sono state inventate
nel 1924 da Ernst Brändli (1897-1939)
ad Aarau. Bombe dal cuore di ganache
ammantato di marzapane e ricoperte
da uno strato di cioccolato con scaglie
di mandorle. A quanto pare la regina
madre, Sua Maestà Elisabetta d’Inghilterra, ne andava matta. Da quando
ne sono venuto a conoscenza da una
vecchia signora, una sera di aprile
al bancone del bar Rio di Basilea, le
bombe Brändli mi si sono conficcate
in testa come schegge di granata. Dalla
stazione di Aarau – dove un notevole
atollo azzurro trasparente di etilene
tetrafluoroetilene sta sulle teste di chi
aspetta un bus come una nuvola-pensilina ideata dagli architetti Vehovar
& Jauslin – neanche cinque minuti
e scovo la Confiserie Brändli. Mica
sono un cane da tartufo, è proprio qui
a due passi, sulla Bahnhofstrasse, al
trentasette. Tende blu, tre tavolini fuori, nome in minuscolo sulla facciata,
linee arrotondate delle vetrine. Questa
storia inizia nel 1893 a Lenzburg,
tredici chilometri da qui, con Arnold e Anna Brändli che aprono una
pasticceria. Nel 1918 il figlio Ernst
con la moglie Martha, focalizzando
la produzione sul cioccolato, prende
in mano la piccola ditta dolciaria di
famiglia spostatasi intanto ad Aarau
e nel 1922, apre l’attuale confiserie.
Alla prematura morte di Ernst, sarà
Martha Brändli a condurre il negozio
e il caffè fino al 1973, poi è il turno
della terza generazione con la figlia
di Martha, Esther Gehring-Brändli;
anche lei presto vedova con tre figli.
Due dei quali, Mark e Nik, con le rispettive mogli Rita e Josée, gestiscono
dal 2003 la confiserie Brändli. Varco
così la soglia della confiserie Brändli
una metà pomeriggio di fine settembre, cercando subito di catturare con
l’occhio le bombe Brändli di Aarau
(382 m). Non le vedo, scorgo però, alle
spalle della venditrice, il verde elettrico di alcune lettere alternate a quelle
bianche delle fenomenali scatole marroni delle Brändli Bomben. Le scatole
sono state create negli anni Sessanta
da Celestino Piatti (1922-2007) nato a
Wangen-Brüttisellen – papà scalpellino di Capolago e mamma figlia di un
agricoltore zurighese – e noto come
grafico e illustratore soprattutto per
le migliaia di copertine dei libri della
Deutscher Taschenbuch Verlag di Monaco. Inconfondibili i suoi gufi stralunati. Ordino un caffè e una Brändli
Bombe. Ci sono al latte e fondente.
Intanto salgo al primo piano dove c’è
il tea-room anni Quaranta entrato a
far parte dei più bei caffè e bar della
Svizzera secondo l’Heimatschutz.
Nonostante la bella giornata, qualche
anziana signora c’è. «Benvenuto ad
Aarau» esclama la gioviale cameriera
bionda quando le dico la ragione del
viaggio. Mi manda «il boss», dice.
Seduto fuori mi raggiunge Mark
Brändli, volto serio, occhiali, la quarta
generazione. «È un vescovo di Olten»
che ha fatto conoscere le bombe di
cioccolato alla regina, da lì via ogni
anno, per Natale, da Aarau, partivano
Mode e modi di Luciana Caglio
Vivere su Marte: scelta libera o imposta?
Mai dire mai. Nell’autunno 2012 Bas
Lansdorp, un giovane imprenditore
olandese, già ricercatore in tecnologia all’università di Delft, lanciava il
progetto Mars One che prevedeva voli
su Marte come destinazione stabile.
Cioè, un’andata senza ritorno. Sono
passati due anni, un tempo più che
sufficiente per affossare nel dimenticatoio e nel ridicolo una proposta
che, a prima vista, sembrava una
sfida all’impossibile o, un’ambiziosa
ipotesi da laboratorio, o, peggio, una
bufala mediatica. Insomma, qualcosa
privo di fondamento, da non prendere
sul serio. Così, invece, non è stato.
Mars One si presentava, infatti, con
le carte in regola, sul piano scientifico: sia pure senza l’avallo della
Nasa, poteva contare sul sostegno di
due fisici, premi Nobel. Mentre, sul
piano finanziario, si valeva di sponsor privati, allettati dalla pubblicità
di dimensioni planetarie che dovrà
accompagnare la futura missione. Le
varie fasi, preliminari a terra, viaggio
di ben sei mesi, arrivo sul Pianeta
Rosso, adattamento alle condizioni
ambientali, tutto ciò si svolgerà sotto
le luci delle telecamere diventando il
materiale destinato a uno spettacolare
Reality Show, ovviamente intercalato
da spot. Sin qui, dunque, le promesse
e le garanzie da parte degli ideatori e
promotori dell’impresa, impegnati,
evidentemente, in un’operazione
delicata e dagli esiti imprevedibili:
il reclutamento dei candidati a un
viaggio, insolito, non soltanto per la
meta ma per l’obiettivo. Diversamente
da altri voli spaziali, non si trattava
di vacanze destinate a miliardari
stravaganti, in cerca di diversivi elitari
per distanziarsi dalla banalità degli
itinerari ormai resi accessibili a tutti
dal turismo di massa. Accettando la
proposta di Mars One si metteva in
gioco la propria esistenza imponendole un cambiamento di contenuti totale
a senso unico: su Marte, per sempre,
senza via di scampo.
Ora, e qui sta la sorpresa, questa
prospettiva, terrificante secondo
il comune buon senso, ha ottenuto
un’adesione assolutamente imprevedibile, tanto da indicare un fenomeno
su cui interrogarsi. I candidati, in
lista d’attesa per la selezione che potrà
abilitarli a quel volo, sono ormai più
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino¶29 settembre 2014¶N. 40
13
Ambiente e Benessere
Apparentemente morto
Biodiversità: continua la serie
di approfondimenti
dedicati agli alberi e ai boschi
pagina 16
I disagi creati dal ritorno del lupo
La presenza e il passaggio di questo
grande predatore sul territorio elvetico
causa non pochi grattacapi agli allevatori,
soprattutto in Ticino
Il ritorno del tatuaggio
I primi a tatuarsi prima
di tornare a casa dall’Oriente
furono i viaggiatori inglesi
L’hockey che emoziona
La lotta e l’impegno sono tali
da mettere a dura prova anche
i campioni stranieri
pagina 18-19
pagina 20
pagina 21
Lo psichiatra
dottor Paolo
Migone,
fondatore della
sezione italiana
della Society for
Psychotherapy
Research.
(Vincenzo
Cammarata)
Psicoterapia, lusso o necessità?
Psicologia Costi e benefici valutati in una giornata di studio promossa dagli specialisti del settore
Maria Grazia Buletti
Lo scorso 24 settembre l’Associazione
ticinesi psicologi (Atp) – in collaborazione con l’Ospedale sociopsichiatrico
cantonale e il sostegno della Federazione svizzera delle psicologhe e degli
psicologi e dell’Associazione svizzera
degli psicoterapeuti – ha promosso un
pomeriggio informativo focalizzato
sulla valutazione dell’offerta, dei costi
e dell’efficacia della psicoterapia. Un
tema sul quale oggi più che mai è importante chinarsi, anche in ragione dei
dati statistici in possesso dell’Ufficio
federale della sanità pubblica (Ufsp) secondo il quale gli svizzeri riceverebbero troppa poca psicoterapia.
«Vengono svolte poche terapie rispetto a quante sarebbero necessarie»,
afferma il vicedirettore dell’Ufsp Stefan
Spycher, il quale indica che, secondo
il rapporto nazionale sulla salute, annualmente si rivolge allo psicoterapeuta il 5 per cento della popolazione, mentre ne avrebbe bisogno circa il 10 per
cento». Numeri d’attualità, già confermati dal sondaggio svizzero sulla salute
del 2007, secondo il quale il 4 per cento
della popolazione manifesterebbe sofferenza psicologica elevata, ma soltanto
un terzo di queste persone si sottopone
a un trattamento, mentre il 13 per cento
della popolazione ha affermato di patire una sofferenza psicologica media,
ma soltanto uno su dieci di essi si sottopone a una terapia.
«La coscienza della malattia è un
fattore importante nella decisione di
intraprendere una psicoterapia», afferma lo psichiatra dottor Paolo Migone,
condirettore della rivista «Psicoterapia
e Scienze Umane» (www.psicoterapiaescienzeumane.it), fondatore della
sezione italiana della Society for Psychotherapy Research e relatore del pomeriggio di studio. Egli si dice provocatorio quando osserva in prima battuta:
«Quelli che vanno dallo psicoterapeuta
sono spesso più sani degli altri, si dimostrano più maturi perché consapevoli
di avere un problema che in tal modo
oggettivizzano, esplorano e tentano di
cambiare».
Migone afferma altresì che comunque parecchie persone sono consapevoli della loro malattia, e bisogna
riconoscere che ve ne sono di molto
ammalate che pure intraprendono la
via della cura. «Non dimentichiamo
chi non se la sente di parlare dei propri
problemi con un altro e quelli che temono di mettersi in discussione e scappano, mentre naturalmente ci sono
persone sanissime che non entrano in
terapia perché consapevoli del fatto che
tutti andiamo incontro a problemi esistenziali da risolvere, se si è in grado di
farlo, per mezzo delle nostre risorse»,
ricorda il nostro interlocutore il quale
porta pure ad esempio Woody Allen
che della psicoterapia ha fatto un mezzo di ricerca interiore e un percorso di
crescita personale.
Restano i numeri a parlare chiaro:
in Svizzera la metà delle persone che necessiterebbe una terapia psicologica non
vi si sottopone per una serie di ragioni
che possono essere individuate nelle
osservazioni del dottor Migone, ma forse anche per altre ragioni di tipo puramente economico che ci fanno tirare in
ballo l’ipotesi dei costi come pure della
penuria di psicoterapeuti. «Più psicoterapeuti aumenterebbero però i costi
per la sanità», afferma Felix Schneuwly,
Head of Publich Affairs presso il servizio di confronto internet Comparis e in
passato attivo per associazioni di psicologi e casse malati. Con differente avviso si è espressa la presidente dell’Atp,
dottoressa Angela Andolfo Filippini:
«Al momento le prestazioni degli psicologi specialisti in psicoterapia che
lavorano in studio privato non sono riconosciute dalla LaMal e questo, ovviamente, costituisce un limite alle cure».
La Cassa malati complementare
copre di fatto solo una parte delle presta-
zioni fornite dagli psicoterapeuti privati,
mentre le prestazioni di quelli che lavorano come dipendenti in delegazione
presso uno studio psichiatrico rientrano
nelle coperture di base. «Un altro elemento che scoraggia a volte le persone a
richiedere un aiuto professionale specialistico è il mancato riconoscimento della
dimensione psicologica del disagio, cosa
che porta a percorrere strade “terapeutiche” altre che poco o nulla hanno a che
fare con la capacità di identificare il problema e, quindi, di risolverlo».
Eppure l’importanza della psicoterapia è dimostrata anche dalla ricerca,
sebbene ancora troppo giovane e con
risultati talvolta controversi, come afferma il dottor Migone: «In teoria è la
ricerca che dirime le questioni inerenti
la valutazione dell’efficacia e dell’importanza del trattamento psicoterapico. Ad esempio, la ricerca empirica
ha dimostrato come la psicoterapia sia
più indicata dei farmaci in date condizioni come la depressione, malessere
dove la psicoterapia dà risultati simili se
non migliori, più a lungo termine e con
meno ricadute». Lo psichiatra ammette
però che questi dati di ricerca empirica
non sono molto diffusi: «Condizionerebbero la cultura medica a sua volta
influenzata dalle case farmaceutiche.
Eppure abbiamo sempre più numeri
che indicano come la depressione sia
molto meglio curabile con la psicoterapia associata a qualche farmaco, se necessario».
Il dottor Migone porta un altro
esempio che concerne la schizofrenia:
«In questo caso i farmaci sono utilissimi, ma è pure comprovato l’enorme
beneficio della psicoterapia. In fondo,
non possiamo pensare a una psichiatria unicamente farmacologica». Largo appoggio, dunque, alla ricerca sulla psicoterapia: «Da alcuni decenni è
sorto un movimento mondiale molto
importante che, attraverso la ricerca,
vuole verificare nel modo più attento
possibile l’efficacia di determinate tecniche psicoterapiche. Perché si tratta di
un campo ancora molto giovane, che va
esplorato, e dove esiste un ampio ventaglio di tecniche e metodi di trattamento
per le differenti malattie».
Orientarsi non è semplice e dipende molto dall’alleanza che si crea fra
persona e terapeuta, senza sottovalutare neppure l’effetto placebo: «Soprattutto nei disturbi nevrotici come ansia
e depressione non va trascurato l’effetto
placebo: il conforto del terapeuta, poter parlare di sé e la soddisfazione delle
aspettative di ascolto sono una potentissima cura», conclude il dottor Paolo
Migone.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino¶29 settembre 2014¶N. 40
14
Ambiente e Benessere
Cucina
di Stagione
La ricetta
della settimana
Tiramisù ai mirtilli
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Ingredienti per 4 persone: 4 bicchieri di circa 3 dl · 100 g di savoiardi · 1 dl di
vino dolce · 100 g di mirtilli · 2 cucchiai d’acqua · 6 cucchiai di zucchero · 2 uova
fresche · 100 g di mascarpone · 1 dl di panna intera
1. Accomodate i savoiardi in un piatto piano e irrorateli con il vino dolce. Portate brevemente a ebollizione i mirtilli con l’acqua e 1/3 dello zucchero e fate
raffreddare.
2. Separate i tuorli dagli albumi. Lavorate a spuma, con uno sbattitore elettrico, i tuorli assieme allo zucchero rimasto. Incorporate il mascarpone. Montate
separatamente gli albumi e la panna ben fermi e incorporateli con cura alla
crema di mascarpone. Distribuite a strati nei bicchieri i savoiardi, i mirtilli e
la crema al mascarpone. Concludete con uno strato di crema e qualche bacca.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino¶29 settembre 2014¶N. 40
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Ambiente e Benessere
Alla scoperta del Panko e del Panir
Gastronomia Il primo per ottenere un ingrediente fritto croccante, asciutto e leggero,
Di recente ho scoperto due prodotti
asiatici che si possono benissimo integrare nella nostra cucina. Li condivido
con voi.
Il primo si chiama panko. È un
pangrattato già pronto per essere usato,
un dono dei giapponesi al mondo: viene impiegato nella copertura degli ingredienti da friggere. Come esattamente venga fatto e con cosa sia arricchito
non mi è ancora chiaro, l’ho chiesto ad
alcuni cuochi giapponesi amici e anche
loro, che lo usano molto, non mi hanno
saputo dire perché funzioni così bene.
Però è davvero efficace: di fatto rende
l’ingrediente croccante e questo, somma virtù, lo fa riducendo drasticamente la quantità di grasso che viene assorbita dall’ingrediente. In pratica rende
il fritto croccante, asciutto e leggero.
Oggi lo si trova in vendita praticamente
in tutti i negozi etnici.
Una delle ricette più
amate che vanta il panko
quale ingrediente
è quella per fare
le crocchette di baccalà
Ecco la ricetta delle amatissime crocchette di baccalà fatte col panko.
Per circa 20 crocchette: lessate 100
g di patate e passatele ancora calde allo
schiacciapatate, unite 1 noce di burro,
1 tuorlo e 1 presa di formaggio grana
o sbrinz grattugiati. Mettete 300 g di
baccalà ben bagnato e ben dissalato in
abbondante acqua fredda, portate al
bollore e fate sobbollire per 10’. Scolatelo, spinatelo e tritatelo, pelle compresa,
che è molto buona. Mescolate il pesce
con il composto di patate e abbastanza
besciamella fino a ottenere un composto omogeneo. A questo punto, se
si vuole avere un impasto a grana fine,
passate al passaverdura – ma non è indispensabile. Formate tante pallottole
dalla forma allungata e passatele prima
nell’uovo sbattuto e poi nel panko. Friggete le crocchette in olio di semi di arachide bollente, scolatele quando saranno dorate e lasciatele asciugare su carta
assorbente da cucina. Cospargete con
poco sale e servite subito.
La seconda scoperta è il panir. Si
tratta di una sorta di formaggio morbido tipico dell’India che si ottiene facendo cagliare il latte con l’aceto o del succo
di limone: farlo è veramente facile. È un
ottimo espediente per usare il latte avanzato ed è fantastico per arricchire antipasti, paste ripiene e salse. Da quando l’ho
scoperto, lo faccio molto spesso e ne sono
molto soddisfatto. Eccone la ricetta.
Per circa 200 g di panir, mettete 1
litro di latte, sia intero sia parzialmente scremato, in una pentola e portatelo
quasi al bollore; meglio ancora, se avete
un termometro portatelo esattamente
a 90°. Abbassate la fiamma, insaporite
con 1 cucchiaino di sale o 1 cucchiaio
di zucchero (l’uno o l’altro in funzione
dell’uso che poi ne farete, ovviamente)
e profumate – solo se volete – con un
pizzico di curcuma o qualche pistillo
di zafferano. Versate il succo filtrato di
un limone o altrettanto di aceto non
troppo intrusivo (comunque è meglio
il limone) e mescolate con un cucchiaio. Dopo qualche minuto inizia a formarsi la cagliata. Spostate dal fuoco e
lasciate riposare per 10’ circa. Passate
il tutto attraverso un colino, in modo
da separare la parte solida dal siero, il
quale non andrà assolutamente gettato
perché con il siero si può ottenere una
sorta di ottima ricotta. Al posto del
colino si possono usare stampi bucherellati per ricotta o le apposite fuscelle
per formaggio in plastica o in vimini.
Pressate delicatamente e passate in frigorifero per almeno un’ora. A questo
punto il panir è pronto per essere gustato da solo, ottimo con del miele, oppure
come base per molte preparazioni.
Morale: curiosiamo sempre nelle
altrui cucine, è una cosa che ci arricchisce molto più di quello che possiamo
immaginare!
CSF (come si fa)
Giovandeste
Allan Bay
Sonja Pauen-Stanhopea
il secondo per godere di un formaggio morbido fatto in casa
Le carote sono la radice commestibile
di una pianta erbacea dal fusto di colore verde, la Daucus carota, appartenente alla famiglia delle Apiaceae.
Sono onnipresenti nella nostra cucina
e in quella di tutto il mondo. Sappiamo
che fanno bene alla salute, soprattutto
se cotte – anche se quest’ultima cosa è
un dettaglio meno noto e prima o poi
ne parleremo – in quanto ricche di vitamina A (il famoso betacarotene), B,
C, PP, D ed E, nonché di sali minerali e
zuccheri semplici come il glucosio.
Vanno lavate molto bene, spuntate e
privare dei punti neri con un coltellino. Non vanno mai pelate: se sono
molto sporche spazzolartele selvaggiamente, ma non privatele della buccia, nella quale si concentrano le virtù
di questa verdura.
Ecco come si fanno tre classicissime e
semplicissime preparazioni a base di
carote.
Carote alla crema. Per 4 persone: pulite 600 g di carote, tagliatele a julienne e
sbollentatele per 1’. Scolatele, trasferitele in una casseruola e copritele a filo
con panna fresca portata a bollore. Lasciate sobbollire fino a che la panna si
sarà ridotta di circa due terzi, regolate
di sale e di pepe, quindi servite.
Carote glassate. Per 4 persone: pulite
600 g di carotine novelle o di carote
tagliate a forma di oliva. Mettetele in
una casseruola coperte a filo di brodo
vegetale e aggiungeteci 1 filo di olio o
1 noce di burro, 2 cucchiai di zucchero (meglio se di canna) e 1 pizzico di
sale. Portate a bollore poi fate sobbollire appena per circa 20’, mescolando.
Se il liquido di cottura non si fosse già
ridotto a sciroppo, alzate la fiamma
per farlo ridurre alla giusta viscosità.
Amalgamate bene le carote allo sciroppo e servitele.
Puré di carote. Per 4 persone: pulite
600 g di carote, tagliatele a pezzetti e cuocetele al vapore per circa 20’.
Scolatele, frullatele con il mixer a immersione, passatele al passaverdure e
amalgamatele in una casseruola con
burro e poco latte, a fuoco dolce, regolando di sale e di pepe.
Ballando coi gusti
Schiacciata di patate con olive,
capperi, cipolle e peperoni
Manuela Vanni
Manuela Vanni
Oggi una
semplicissima
schiacciata di patate
e un polpo cotto
confit, ovvero cotto
in un grasso a meno
di 100°C molto,
molto a lungo.
Polpo confit con patate, mela e olive
Ingredienti per 4 persone: 2 polpi di circa 600 g l’uno · 800 g di patate · 1 cipolla ·
Ingredienti per 4 persone: 4 patate · 1 cipolla rossa · 1 peperone rosso · olive nere ·
1 mela verde varietà Stark · 30 g di olive nere taggiasche denocciolate · prezzemolo ·
olio d’oliva · sale · sale grosso e pepe nero.
capperi sotto sale · limone · olio di oliva · sale e pepe.
1. Lavate i polpi, aromatizzate con sale e pepe, metteteli in una teglia che li
Mondate la cipolla e tagliatela ad anelli. Mondate il peperone e tagliatelo a
piccole falde. Dissalate molto bene i capperi e spezzettateli. Sciacquate le olive, denocciolatele e spezzettatele. Cuocete a vapore le patate per 30’. Scolate le
patate, pelatele e schiacciatele grossolanamente con una forchetta. Mettetele
in un piatto, arricchite con cipolle, peperone, olive e capperi. Condite con 1
pizzico di sale e 1 di pepe, succo di limone e 2 cucchiai di olio a testa e servite.
contenga appena, copriteli a filo di olio e cuoceteli in forno a circa 85°C (ma se
sono 80°C o 90°C non cambia molto, basta stare sotto i 100°C) per 3 ore circa.
Poi scolateli, fateli intiepidire e tagliateli a pezzi. L’olio si può usare per altre
preparazioni, di pesce, ovviamente.
2. Lavate e pelate le patate. Soffriggete la cipolla tritata e unite le patate, bagnate con
acqua, portatele a cottura e frullate, poi regolate di sale e di pepe. Tagliate la mela a
dadi regolari, conservateli in acqua fredda. Mettete nel centro del piatto la crema di
patate, sopra i polpi, il prezzemolo, i dadi di mela e le olive, quindi servite.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino¶29 settembre 2014¶N. 40
16
Ambiente e Benessere
Lo chiamano legno morto
Alberi e boschi In realtà è un prezioso materiale, fonte di vita e riparo per molti animali piccoli e grandi
– Quarta parte
Alessandro Focarile testo e foto
«E anche dopo la morte, i rami caduti,
i tronchi in disfacimento e i ceppi marcescenti offrono asilo e nutrimento alla
più varia, ricca e preziosa comunità
vivente. La Natura rinasce senza fine,
rinnovandosi continuamente: sempre
diversa, eppure sempre uguale a sé stessa». (Franco Tassi, 1996, direttore del
Parco Nazionale di Abruzzo).
Dopo essere stato
intensamente sfruttato
per secoli dall’uomo,
il bosco sta tornando
alla situazione naturale
La più o meno elevata quantità di legno
«morto», in piedi oppure al suolo, esistente in ogni bosco naturale, origina
l’insediamento e l’incessante dinamica di una ricca e composita fauna di
invertebrati: artropodi (in massima
parte insetti) e lumache. Si tratta di comunità (cenosi) pluri-stratificate. Tutti
questi organismi abitanti nel legno decomposto, detti sapro-xilobi (dal Greco: saprós, decomposizione + xylon,
legno) sono deputati alla degradazione
del legno.
Particolarmente significativi sono
gli insetti coleotteri saproxilobi, in
quanto sono i relitti, giunti fino in epoca attuale, di una fauna ben più ricca e
in gran parte ormai scomparsa a seguito della progressiva distruzione della
grande foresta primeva che occupava
in passato l’Eurasia (Urwald-Relikten).
Un bosco «naturalmente» strutturato contiene anche questa componente (il legno deperiente), che contribuisce ad arricchire e diversificare
(attraverso il suo incessante dinamismo) il quadro faunistico complessivo,
grazie alla presenza di specie significative. Esse sono divenute ormai sporadiche e rare a seguito di una gestione
silvo-colturale selettiva ai fini economici, e protrattasi nel tempo a seguito della continua e capillare presenza
umana attraverso i secoli. Nelle Alpi
e negli Appennini, dovunque questa
presenza è testimoniata da spesso tenui documenti: un chiodo arrugginito,
fili di ferro, resti di vecchie teleferiche,
cicatrizzate incisioni nei tronchi di
pino e di larice per ricavare la resina,
vecchie carbonaie. L’uomo aveva bisogno del bosco e nulla era lasciato inutilizzato.
Fino a un recente passato il bosco
doveva essere «pulito», in quanto tutta
la materia vegetale (anche deperiente),
insieme con la lettiera, era regolarmente raccolta e asportata. Attualmente,
diminuita o scomparsa la pressione
umana, si assiste dopo secoli di intensivo sfruttamento a un ritorno alle
Una vecchia ceppaia sforacchiata dal
picchio. Val d’Aosta.
situazioni naturali del bosco. Con la
conseguente presenza della componente faunistica specializzata nell’utilizzo
ottimale e a tutti i livelli della materia
vegetale deperiente o morta. Ovvero
della «necromassa» costituita di alberi
cavi, tronchi, ramaglia, venendo a creare una composita e intricata quantità
di microambienti, nicchie ecologiche,
strutturata in termini temporali, in
quanto il fine ultimo è la trasformazione in un prezioso e fertile humus, che
alimenta e arricchisce i suoli forestali.
Attualmente, le mutate situazioni
socio-economiche, la minore (o nulla)
pressione antropica, e una diversa gestione del patrimonio forestale, stanno
favorendo in alcune aree il lento ritorno
a una situazione ambientale che tenta
di ricostituire le passate situazioni «naturali». Argomento – se non ignorato
– lasciato per lungo tempo unicamente
all’interesse scientifico di entomologi
ed ecologi, il capitolo «legno morto» è
oggetto attuale di interesse generale da
parte delle autorità forestali in diversi
Paesi europei, nel quadro di una gestione naturalistica del bosco, e che prenda
in considerazione tutti gli aspetti presenti, valorizzando e ampliando il concetto di ecosistema forestale.
Nella provincia autonoma italiana di Bolzano (Alto Adige, Sud-Tirolo)
vige già da qualche anno una normativa sui «Principi selvicolturali generali»
(DPGP, 31 luglio 2000). All’articolo 14
essa dispone che «…la necromassa in
piedi e a terra, nonché gli alberi cavi,
devono essere oculatamente lasciati in
bosco in quantità e con distribuzione
adeguata». Inoltre, e grazie al progetto LIFE co-finanziato dalla Comunità
Europea e dal Corpo forestale dello
Stato, è in corso al Bosco della Fontana (Mantova) un’operazione che ha per
scopo la conservazione e il ripristino
dei micro-habitat del legno morto e
dei vecchi alberi cavi. In concreto, la
gestione del Corpo forestale dello Stato ha interrotto qualsiasi prelievo di
legno morto o deperiente, e protetto i
vecchi alberi ancora esistenti, con l’esplicito fine di incrementare la presenza di questa materia vegetale. (Mason
2001, in AA.vari: La Foresta della pianura Padana).
Esaminando in dettaglio la ricca
e complessa fauna sapro-xilobia, che
comprende anche i picchi che ricercano le «gamole» (le larve dei coleotteri
longicorni), notiamo che essa è razionalmente suddivisa nelle seguenti
componenti in funzione del differente
grado di deperienza del materiale vegetale: 1. le specie che popolano i ben noti
funghi legnosi (i polìpori) insediati sul
legno più o meno marcescente, in piedi
e al suolo. Parliamo di organismi che si
cibano e veicolano le spore del fungo.
2. Le specie che utilizzano le essudazioni di linfa, la quale a contatto con
l’aria tende a fermentare, generando
liquidi zuccherini altamente aromatici e attrattivi. 3. Il numeroso contingente di specie che popola l’ambiente
e i substrati legnosi sotto le cortecce: i
«sub-corticicoli». Un composito ed eterogeneo assembramento di utilizzatori
primari del legno marcescente, di consumatori dei miceli, delle ife, e dei micro-funghi quali sono le muffe. Infine,
del corteggio dei predatori e dei parassitoidi (piccole vespe). Spesso molte di
queste specie sub-corticicole hanno il
corpo fortemente appiattito, che facilita loro gli incessanti spostamenti nell’esiguo micro-ambiente tra la corteccia e
il legno sottostante.
Fa nascere un nuovo albero. Ospita
una miriade di rari e variopinti coleotteri, testimoni di antiche faune ormai
scomparse. Il picchio trova grassocce
«gamole» per sé e per i propri figli, che
attendono famelici. Quando è secco,
alberga stuoli di formiche, che ne accelerano la trasformazione. E per ultimo
diventerà un fertile humus. Si può ancora parlare di «legno morto»?
Bibliografia
Roger Dajoz, Les insectes et la forêt,
Lavoisier Tec.Doc. (Paris) 1998, 608 pp.
Francis W.M.R. Schwarze et al., Fungal Strategies of Wood Decay in Trees,
Springer (Berlin, Heidelberg, New
York), 2000, 185 pp.
Thymalus limbatus, 4,5 millimetri.
Denticollis rubens, 8 millimetri.
Ampedus pomonae.
Endomychus coccineus.
Caryopteris per fioriture autunnali
Mondoverde Un arbusto cespuglioso che attira in giardino api e farfalle
Anita Negretti
Una delle fiabe che più mi ha fatto sognare da bambina è senz’altro quella di
Barbablù. Lui, ricco e con quella lunga
barba del colore del cielo, sposa l’ennesima donna con la quale si raccomanda
di non entrare mai in una piccola stanzetta del suo meraviglioso castello. Ma
lei, curiosa, durante l’assenza del suo
sposo disobbedisce, trovandovi all’interno le teste mozzate delle ex mogli.
Barbablù scopre il tradimento della
promessa e tenta di ucciderla, ma accorrono i fratelli della moglie e fanno
giustizia a loro modo togliendogli la
vita. Ve la ricordavate?
Se anche a voi emoziona questa
fiaba di Perrault, portatevi un po’ della
sua magia nel vostro giardino (o in un
vaso sul terrazzo) diventando proprietari di una pianta che in Gran Bretagna
e in America viene proprio chiamata
Barbablù: sto parlando del Caryopteris
x clandonensis. Perenne e rustico, è un
bell’arbusto che creca un cespuglio con
portamento eretto, raggiunge al massimo i 150 centimetri e i suoi rami esili
ricadono a fontana.
Le foglie grigio-verdi, decidue in
inverno, hanno un gradevolissimo
profumo balsamico se spezzettate con
le mani, ma la vera bellezza appare in
questi giorni di fine settembre, quando
tutte le punte dei lunghi rami si ricoprono di ciuffi a forma di coroncina con
vaporosi fiorellini blu-violetto, in grado
di attrarre farfalle e api in cerca degli
ultimi ghiotti bottini a cavallo dell’autunno.
Un esemplare
di Caryopteris x
clandonensis.
Benché l’origine sia Asiatica, la
nascita di C. x clandonensis, che è un
ibrido spontaneo, ha avuto origine
in Europa in un giardino botanico,
dall’incontro tra C. incana e C. mongolica. Non molto appariscente durante
la primavera, dà il meglio di sé in tarda
estate, quando esplode in tutta la sua
bellezza blu intensa, da cui il nome Barbablù. Si coltiva in una zona possibilmente soleggiata, ma può sopportare
anche un po’ di ombra; non richiede un
terreno particolare, ma è sempre meglio aggiungere alla terra di coltivazione anche un poco di sabbia, per renderlo ben permeabile, ed eventualmente
del letame maturo o del concime granulare a lenta cessione, che garantiranno il giusto apporto di sali minerali. Si
accontenta di poca acqua anche se coltivato in vaso, ma richiede spazio per
potersi sviluppare al meglio, da 60-70
cm fino a un metro e più, a seconda della varietà, per via del suo portamento
disordinato, con rami che crescono un
po’ in tutte le direzioni.
D’inverno perde le foglie e in primavera, lentamente, appaiono quelle
nuove. Vi sono alcune varietà, come
«Summer Sorbet» o «White Surprise»
che hanno foglie variegate, veramente
molto belle, con sfumature bianco crema o giallo oro sul verde intenso, che già
caratterizzano la pianta anche senza i
suoi stupendi fiorellini blu intenso.
Un consiglio, per favorire una crescita più ordinata e contenuta, è di potare tutti i rami in modo energico dopo
l’inverno: fiorendo sui rami dell’anno,
all’inizio della primavera tagliate fino
a due terzi la pianta accorciando tutti
i rami fino quasi a raggiungere il legno
vecchio (lasciate solo circa 5-10 cm di
legno nuovo). Inoltre badate ad asportare eventuali rami deboli o rovinati
dal gelo. Arbusti come il Caryopteris
si inseriscono molto bene in qualsiasi
giardino, ma vi consiglio di valorizzarlo
all’interno di un bordo misto con gaure, aquilegie, abelie, lupini od ortensie,
ricordandovi che la sua fioritura verrà
senz’altro apprezzata da api e farfalle.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino¶29 settembre 2014¶N. 40
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Ambiente e Benessere
Ambiente e Benessere
Sotto la minaccia del lupo
Biodiversità Il ritorno di questo predatore preoccupa gli allevatori di montagna che si sentono
minacciati nella loro esistenza, nella loro sopravvivenza economica
Peter Schiesser
Risalendo la ripida strada che da Cevio,
in Vallemaggia, conduce in Val Rovana
si ha immediatamente la consapevolezza
di entrare in un altro mondo. In questo
rigido, per quanto stupendo, ambiente
montano la città è lontana, geograficamente e nelle menti. Chi decide di vivere
qui, lo fa per un innato e radicato senso
di appartenenza al territorio, a un mondo che ancora resiste alla modernità. Un
mondo che più vicino alla natura non si
può, dedito perlopiù alla pastorizia e al
turismo, che proprio un’icona dell’ecologia moderna – il lupo – mette oggi seriamente in pericolo.
Cerentino,
dove il lupo negli
ultimi tre anni
ha sbranato
16 pecore
e un agnello
vicino all’abitato.
(Stefano Spinelli)
Secondo le autorità
federali il lupo è
responsabile di 3/4
dei danni arrecati
agli animali da reddito
dal suo ritorno si sente minacciato nella
sua esistenza, nella sua sopravvivenza
economica, come gli allevatori di montagna, i più esposti alle scorribande dei
lupi, responsabili – stimano le autorità
federali – di circa 160 predazioni all’anno (soprattutto pecore) dal 2005, ossia di
tre quarti dei danni arrecati agli animali
Convivenza difficile,
forse impossibile?
Intervista Loris Ferrari, capo sezione
agricoltura del Dfe, sui problemi
di applicazione della Strategia Lupo nazionale
Maria Grazia Buletti
Secondo l’Ufficio federale dell’ambiente
(Usam), in Svizzera negli ultimi anni il
numero di lupi è andato crescendo e nel
2012 si è formato il primo branco che vive
ai piedi del massiccio del Calanda (GR). La
presenza e il passaggio di questo grande
predatore su territorio elvetico causa
non pochi grattacapi agli allevatori (vedi
articolo sopra), anche nel canton Ticino.
Intanto le autorità federali si stanno adoperando nell’importante rivalutazione
della Strategia Lupo e Lince. Sollecitato da
un mandato del Parlamento e dalle esperienze acquisite negli ultimi anni, infatti,
l’Ufam ha rielaborato nuove tattiche d’intervento, la cui procedura di consultazione
è terminata il 5 settembre. Il risultato, che
dovrebbe presumibilmente entrare in
vigore nella primavera del 2015, pare però
non soddisfare nessuno: né le associazioni
a difesa della popolazione di montagna,
né quelle ambientaliste e neppure gli
esponenti politici. Ad esempio, l’esecutivo
grigionese sostiene ora che il progetto sia
adatto alla gestione di singoli lupi, mentre
oggi si stanno formando sempre più veri
e propri branchi e «dove i lupi vivono in
branchi con rapida riproduzione si deve
urgentemente trovare una nuova strategia
più pragmatica». Il riferimento è chiaramente alla regione del Calanda (GR/SG).
Anche nel canton Ticino, come detto, vi
sono stati alcuni episodi indicativi del
passaggio del lupo e gli allevatori manifestano sempre più il loro disappunto
circa la possibile convivenza con questo
grande predatore. Ne abbiamo parlato
con l’ingegner Loris Ferrari, capo della
sezione dell’agricoltura del Dipartimento
economia e finanze (Dfe).
Qual è la posizione della sezione
agricoltura del Dfe cantonale rispetto
agli allevatori ticinesi e quali i margini
di dialogo con la Confederazione?
Con la modifica dell’Ordinanza federale
sulla caccia, a partire dal 2014 ai Cantoni
è stato assegnato il compito, precedentemente assegnato dall’Ufam a privati, della
consulenza agli allevatori nell’ambito delle
specifiche misure di protezione. Sebbene
con risorse limitate, l’ufficio della consulenza agricola ci permette di mantenere i
contatti sul territorio, conoscere a fondo le
caratteristiche delle aziende agricole e fare
da ponte per la politica delle strategie dei
grandi predatori che poggia sul concetto
nazionale. Oggi possiamo annunciare
l’avvio di uno studio (basato sull’analisi
strutturale dell’applicazione di misure di
protezione delle greggi in Ticino finanziato anche dall’Ufam) della durata di circa
un anno, che sarà effettuato su tutto il territorio ticinese e permetterà di documen-
da reddito in Svizzera (circa 150 animali uccisi in Ticino dal 2001 al 2010).
Ed è proprio per questo che il Consiglio
federale ha elaborato un concetto per la
gestione del lupo (e della lince) che prevede al contempo un’adeguata protezione
degli animali da reddito. La strategia è
chiara: i grandi predatori vanno salva-
guardati (in particolare, si può abbattere
un lupo solo se ha ucciso 35 capi in quattro mesi o 25 capi in un mese), ma vanno
protetti anche gli interessi degli allevatori. I problemi però sono tanti e non è
detto che siano risolvibili (vedasi intervista con Loris Ferrari qui sotto). Ossia:
a vincere la contesa sarà probabilmente il
lupo, a uscire perdenti i piccoli allevatori
di montagna.
Salire a Cerentino, nella frazione di
Corsopra, per incontrare Eros Beroggi conferma la sensazione che la specie
a rischio di estinzione oggi sia proprio
l’allevatore di montagna, il quale, diversamente dal lupo, ha pochi amici e pren-
tare e approfondire il passaggio del lupo,
soprattutto nella zona del Locarnese: la più
soggetta, negli ultimi 10 anni, ad attacchi
da parte di questo grande predatore. Dal
canto suo, la Commissione delle bonifiche del Gran Consiglio ticinese ha già
sposato la tesi secondo la quale, con il lupo,
bisognerebbe considerare soglie d’intervento più basse. Come canton Ticino, si
promuove l’agricoltura di montagna quale
tassello fondamentale per l’economia
locale e per il mantenimento della gestione
del territorio che a sua volta rappresenta
la premessa indispensabile per lo sviluppo turistico e, dal lato naturalistico,
per la presenza di una forte biodiversità.
L’arrivo del Lupo comporta problematiche
specifiche da non sottovalutare per queste
regioni già sfavorite economicamente. Di
ciò dobbiamo essere responsabili, per cui
abbiamo il dovere di mostrare alla Confederazione tali difficoltà oggettive date
dalla conformazione del nostro territorio
e dal tipo di allevamento che vi viene praticato, come il vago pascolo, che presenta
peculiarità specifiche non comuni ad altri
Cantoni.
Rimane la soluzione dei cani da protezione delle greggi, d’altronde fortemente consigliata nell’ambito delle
misure di protezione del bestiame dal
lupo. Anche questa è una misura di difficile attuazione nel nostro Cantone?
Secondo gli allevatori il territorio
variegato e l’allevamento specifico di
caprini e ovini limitano la possibilità di
convivenza con il lupo. Ci permetta di
approfondire questi concetti attraverso esempi concreti e problematiche
esposte dagli allevatori e dalle aziende
agricole.
La realtà ticinese presenta un territorio
di montagna, con tante valli principali e
altrettante laterali: un territorio impervio
e piuttosto avaro a livello di buone superfici agricole, dove si è riusciti a praticare
un’agricoltura e un allevamento che però
esigono alcuni accorgimenti di cui un
territorio più vasto e pianeggiante non
avrebbe bisogno. Mi riferisco, ad esempio,
all’allevamento della capra Nera Verzasca:
un animale selezionato dagli allevatori
de atto con frustrazione di non venire
ascoltato e per nulla capito, nei suoi timori esistenziali. Le sue 80 pecore madri
e i 60 agnelli sono ancora su al pascolo, a
2300 metri, sopra Bosco Gurin, in compagnia di tre lama («abbiamo letto che
negli Stati Uniti li usano contro i coyote,
è forse un palliativo ma il lama ha l’istinto
dendo nella stalla queste piccole greggi,
perché non vi sarebbe sufficiente foraggio
per nutrirle. Comperarlo comporterebbe
una spesa insostenibile e ne andrebbe di
mezzo anche la qualità dei prodotti lattieri,
arricchita dal pascolo libero sul territorio.
Le recinzioni, poi, sono impraticabili in
molte zone proprio perché impervie e
distanti ore di cammino dai centri aziendali. Questa singolare situazione specifica
del nostro Cantone aumenta le difficoltà
oggettive di convivenza con il lupo.
Franco Banfi
Oltre un secolo dopo essere stato sterminato, il lupo ha fatto la sua ricomparsa
in Svizzera nel 1995. Oggi vivono stabilmente nel nostro Paese da 25 a 30 lupi e
si prevede che la popolazione continuerà
ad aumentare, fino a colonizzare, dopo
le Alpi, le Prealpi e il Giura. Scomparsa
l’atavica paura del lupo, poiché la popolazione si è convinta che questo schivo
animale non attacca l’essere umano,
molte persone hanno salutato con entusiasmo il suo ritorno, in nome della biodiversità (ne abbiamo riferito a più riprese su «Azione»). A loro volta, le autorità
federali, in ossequio alla Convenzione di
Berna del 1979 sulla conservazione della vita selvatica e dei suoi biotopi, hanno
deciso di considerare specie protette i
grandi predatori (lupo, lince, orso, sciacallo dorato).
Ma il lupo non ha solo amici. C’è chi
proprio perché, grazie alla sua rusticità e
capacità di spostarsi, riesce a trovare negli
alpeggi impervi e poveri il nutrimento che
necessita e trasformarlo in latte e carne di
alta qualità. Anche se l’allevatore dovrà
dedicarsi alla mungitura sulle cime, alla
raccolta del foraggio nelle poche zone
pianeggianti che lo producono, il fatto che
queste capre possono restare all’aperto
quasi tutto l’anno diminuisce i costi e
permette a questo tipo di allevamento di
sostentare l’allevatore che di ciò vive. A
fronte di questo tipo specifico di allevamento, basato sul maggior benessere e
sulla libertà del bestiame (ovini e caprini
per la maggior parte), diventa difficile trovare una forma di convivenza con il lupo:
queste piccole greggi vivono in montagna
e vanno all’alpe dove trovano le necessarie
risorse che il fondovalle, piccolo e molto
conteso, non può offrire loro. Impensabile,
dunque, prevenire l’attacco del lupo chiu-
I cani da protezione delle greggi potrebbero in realtà avere una certa efficacia, e
in alcune aziende sono già impiegati con
discreto successo. Tuttavia al momento
non è possibile trovare sufficienti cani
appositamente addestrati, anche se la
Confederazione ci sta lavorando. Non è
comunque una misura di difesa di facile
attuazione. I centri di competenza di
allevamento di questi cani stanno strutturando la cosa, ma non è scontato che
ogni azienda, dopo un periodo di attesa
che oggi si aggira anche fino ai due anni,
riesca a ottenere il proprio cane: bisogna
prima passare un approfondito esame
di idoneità e sottostare a valutazioni che
certifichino che il cane è compatibile con
l’azienda che lo richiede. Se, ad esempio,
l’azienda è ubicata in luoghi di passaggio
di escursionisti, i cani da protezione delle
greggi diventano problematici a loro
volta. In un territorio libero, dove si punta
parecchio sul turismo, questo aspetto non
è da sottovalutare. Si sta pure cercando di
addestrare questi cani a tollerare la presenza dei rampichini, fatto per nulla scontato.
Dunque: le caratteristiche ideali che
spesso in Ticino non sono ottemperate,
del pastore, e noi ci sentiamo un po’ più
tranquilli»). In casa ci accolgono Eros,
43 anni, da venti alla guida dell’azienda
agricola ereditata dal padre, dopo aver
imparato un mestiere nell’edilizia, da 14
anni di casa a Cerentino, e sua moglie
Eliana, 42 anni, un passato di infermiera,
madre di quattro ragazzi fra i 9 e i 17 anni.
Il loro reddito deriva interamente dalla
vendita degli agnelli e dai pagamenti diretti previsti dalla legge sull’agricoltura.
C’è gentilezza nei loro modi, passione per la vita che conducono in queste
montagne nelle loro parole, ma anche
rassegnazione nell’animo: si sentono soli,
incompresi e impotenti in questa lotta
contro il lupo per la loro sopravvivenza
(economica). I coniugi Beroggi hanno
perso una pecora gravida nell’ottobre
2013, e nell’aprile di tre anni fa una pecora e un agnello, uccisi dal lupo poco fuori
casa, quindi vicinissimo all’abitato. A un
loro vicino è andata peggio: l’anno scorso
un lupo ha ucciso 14 pecore nei prati poco
al di sopra di Corsopra. E da allora qualcosa dentro di loro si è rotto. «In quel periodo, mi guardavo sempre le spalle, mi
ha fatto impressione vedere un montone
di 70 chili morto, dilaniato dal lupo. Mi
dicono che non attacca le persone, ma di
lasciar fuori casa da soli i miei figli piccoli, non mi fidavo» ricorda Eros, ed Eliana
aggiunge: «forse la paura non è motivata,
però c’è!».
Le bestie predate dal lupo vengono indennizzate, per l’80 per cento dalla
Confederazione e per il 20 per cento dal
Cantone, a patto che l’animale venga
ritrovato e che possa essere prelevato il
DNA e verificato il tipo di morso, per
comprovare l’attacco del lupo. Ma per
Eros e per altri allevatori è una magra
consolazione: «Innanzitutto per me una
pecora non vale l’altra, quel capo l’ho
selezionato, cresciuto, nel caso specifico
i figli si erano affezionati a quell’agnellino ucciso dal lupo, lo avevano chiamato
Rossino. E poi un attacco del lupo genera
tutta una serie di costi che vanno al di là
del valore della singola pecora: il gregge
va tenuto al sicuro, quindi va comprato
fieno e paglia, vanno cercati i capi uccisi,
devo salire molto più spesso all’alpe perché le pecore sono spaventate; tre anni fa
ho calcolato costi per 5000 franchi, me ne
sono stati riconosciuti 3000 in via del tutto eccezionale».
insieme al fatto che la domanda di questi
cani supera di gran lunga l’offerta, rende
difficilmente praticabile anche questa
soluzione: chi oggi viene confrontato con
l’attacco del lupo, avvenuto d’altronde
anche dentro le recinzioni elettriche, è
esposto a grandi rischi che non siamo in
grado di ridurre efficacemente.
Eros Beroggi:
«non c’è futuro ad
allevare pecore
quassù, a causa
del lupo, lotti
contro una forza
insuperabile».
(Stefano Spinelli)
Eliana ed Eros sono pessimisti, «non
c’è futuro ad allevare pecore quassù in
montagna, a causa del lupo, lotti contro
una forza insuperabile. Vent’anni fa siamo partiti tranquilli, volevamo ingrandirci, costruire un essicatoio, oggi ci sentiamo frenati. Andiamo avanti, ma con
pensieri e mal di pancia. E se il lupo ti fa
fuori mezzo gregge non ricominci più.
A noi questa precarietà pesa». Non credono nelle misure di protezione delineate da Berna, non le ritengono adeguate
alla conformazione del loro territorio e
non tengono conto della realtà dei piccoli
allevatori: un pastore non se lo possono
permettere, restare sempre a fianco del
gregge è impossibile, perché ci sono i
prati da falciare e altri lavori da fare mentre le pecore pascolano; un cane di protezione non è così facilmente ottenibile e
anch’esso non dà garanzie assolute, inol-
tre può creare problemi con gli escursionisti e altri cani; recintare i pascoli in alta
montagna è impossibile, come impossibile è metterli al riparo in una stalla durante l’estivazione sui pascoli. E raccontando le difficoltà che incontrano, esce
anche un’amarezza covata da anni: «Ci
sentiamo dire che siamo dei lazzaroni,
che non vogliamo adeguarci, eppure se ci
fosse una soluzione noi la adotteremmo
volentieri! Ma una soluzione per noi deve
anche stare in piedi economicamente».
Eros non ha ancora perso la speranza
che i politici cambino idea e rivedano al
ribasso la soglia di capi predati che permetta l’abbattimento di un lupo, ma è
una speranza che per ora resta delusa.
Alla fine dell’incontro andiamo a
scattare qualche fotografia sul luogo in
cui il lupo uccise le 14 pecore del vicino.
«Il lupo è un bell’animale», dice Eros,
e tornano in mente i discorsi sulla biodiversità da conservare, arricchita dai
grandi predatori, «ma anche noi, piccoli
allevatori di montagna, siamo parte della
biodiversità, manteniamo i pascoli, evitiamo che il bosco e l’erosione avanzi. Io
non mollo, ho diritto anch’io di sopravvivere quassù. Ma ha davvero ancora
senso?». Eliana si accomiata parlando
del marito: «lui è legato ai suoi luoghi, ai
suoi prati, ma il lupo è una legnata, per
noi. Certo, Eros può tornare a lavorare sui cantieri e io come infermiera, ma
dovremmo reimpostare tutta la nostra
vita».
Sì, il lupo sta tornando laddove l’uomo lo cacciò un secolo fa. Ma un mondo,
quello della pastorizia montana che nei
secoli scorsi ha permesso all’essere umano di sopravvivere in questi luoghi impervi e severi, sembra destinato a perire.
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La nuova Strategia Lupo prevederebbe
la possibilità di regolare le popolazioni
protette, purché ne sia garantita la
sopravvivenza e, a determinate condizioni, di semplificare l’abbattimento
di singoli esemplari. Queste misure
potrebbero soddisfare le esigenze
dell’allevamento ticinese?
Non posso che ribadire la nostra realtà: ci
si sta rendendo sempre più conto che il nostro territorio è variegato e gli allevamenti
sono piccoli e molteplici, ubicati in zone
spesso impervie che creano già di per sé
situazioni difficoltose per il mantenimento della nostra agricoltura di montagna.
Il nostro territorio, infine, presenta poche
superfici foraggiere ampie e produttive
(spesso già utilizzate dall’allevamento
bovino) e questo complica ulteriormente l’attuazione di misure di protezione
altrimenti possibili in Cantoni dove
l’estensione agricola è ben diversa dalla
nostra e le risorse, dunque, più ricche. Il
tipo di allevamento particolare (soprattutto quello caprino che affonda le sue radici
nell’800 e allora era stato determinante per
il sostentamento delle popolazioni delle
Valli), la conformazione del territorio e le
sue ridotte dimensioni con le conseguenti
oggettive difficoltà ad attuare le misure di
protezione dai grandi predatori, la penuria
di cani da protezione delle greggi non permettono un grande margine di manovra.
Una domanda è legittima, a questo punto:
che valore vogliamo dare a questa fragile
realtà che resta essenziale per la vitalità e la
biodiversità del nostro territorio alpino e
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20
Ambiente e Benessere
Viaggi e tatuaggi
Viaggiatori d’Occidente Da simbolo d’infamia e di esclusione sociale a elogio della trasgressione,
Claudio Visentin
Il tatuaggio, insieme ad altre forme
di manipolazione del proprio corpo,
è oggi pienamente accettato e anzi di
moda, ma per secoli è stato un simbolo d’infamia e di esclusione sociale:
nell’antica Roma per esempio identificava gli schiavi e i gladiatori. Ancora
nell’Ottocento l’esercito inglese marchiava con la «D» i disertori catturati
e anche in tempi più vicini a noi i tatuaggi segnavano il corpo di carcerati
(pensate al romanzo Educazione siberiana di Nicolai Lilin), prostitute e altri marginali.
Furono i grandi viaggi di esplorazione nel Pacifico nel Settecento a
cambiare per sempre l’immaginario
legato al tatuaggio. Questa nuova parola fa la sua comparsa quando James
Cook torna dal suo primo viaggio nei
mari del sud (1768-1771) e racconta:
«Uomini e donne si dipingono il corpo
facendo penetrare del colore sotto la
pelle in modo che rimanga indelebile».
Il termine tahitiano tattow riproduce
il suono onomatopeico «tau-tau» dello strumento utilizzato per incidere le
carni.
L’eco delle sue parole si avverte
anche nei racconti di Louis Antoine de
Bougainville, approdato a Tahiti nel
1768, pochi mesi prima di Cook. L’esploratore francese contribuisce più di
ogni altro all’idealizzazione dell’isola
e alla tessitura di un immaginario esotico dove l’umanità vive felice benché
ignara del progresso. I tatuaggi hanno
grande spazio nel suo racconto: «Mentre in Europa le donne si tingono di
rosso le gote, quelle di Tahiti si tingono di turchino le reni e le natiche: è un
ornamento e, insieme, un segno di distinzione. Gli uomini sottostanno alla
stessa moda».
I marinai di queste prime spedizioni si lasceranno presto tentare. Nel
1789, dopo un lungo e felice soggiorno
a Tahiti con finalità botaniche, i marinai del leggendario «Bounty» si ammutinano al loro capitano William Bligh.
Questi viene abbandonato in mare
aperto su di una lancia coi marinai a
lui fedeli, ma riesce miracolosamente a
salvarsi e, giunto a Timor, diffonde una
lettera in cui descrive gli ammutinati. Il
primo della lista è il loro capo, il suo secondo Fletcher Christian: segni distintivi una stella tatuata sul petto a sinistra
e altri tatuaggi sui glutei. Il rivoltoso era
tatuato.
L’incontro con i Maori in Nuova
Zelanda destò maggiore apprensione
perché questi bellicosi guerrieri erano
soliti tatuarsi anche il volto con profondi solchi, utilizzando al posto degli
aghi una specie di scalpellino d’osso,
mentre i tahitiani e gli altri popoli del
sud-est asiatico si limitavano al corpo.
Sono sempre uomini di mare i primi entusiasti: nel 1828 torna a Bristol
dai mari del sud un marinaio inglese,
John Rutherford, completamente coperto di tatuaggi, anche in faccia, alla
maniera maori. Questi tatuaggi tribali, mai completi, che con i loro forti segni neri accompagnavano tutta la vita
Kris Krüg
fino a diventare uno sfregio di moda
dei guerrieri, saranno poi riscoperti in
forma semplificata negli anni Ottanta
del Novecento dalla cultura punk rock
americana, con una deliberata volontà
di apparire selvaggi, estranei alla società occidentale.
L’immaginario legato al tatuaggio
si ampliò ancor più alla fine dell’Ottocento con l’apertura del Giappone al
mondo. Anche in quel Paese i tatuaggi erano guardati con diffidenza dalla
cultura ufficiale: nella regione di Tama
si tatuava in fronte ai criminali «cane»
e a ogni condanna veniva inciso uno
dei quattro segni di cui era composto
tale ideogramma, così che solo i reci-
divi potevano ostentare il tatuaggio
completo. Durante lo shogunato dei
Tokugawa anche i samurai ricorrevano al tatuaggio, ma solo per rendere
possibile l’identificazione del corpo nel
caso fossero spogliati delle vesti e delle
armi dopo la morte.
Ma in Giappone, al di fuori degli ambienti più rispettabili, fiorisce
un’arte sofisticata e complessa del tatuaggio, con nuovi temi (draghi, pesci)
e delicate sfumature di colore, che sedurrà molti europei appartenenti alle
classi elevate. Infatti, mentre i tatuati
venivano esposti come un’attrazione
nei circhi, compreso il famoso Bar-
num, molti aristocratici, ufficiali e alti
funzionari britannici cominciarono
con discrezione a farsi tatuare prima
di tornare a casa dall’Oriente. Il principe di Galles, che salirà al trono col
nome di Edoardo VII, per ricordare
un viaggio si era fatto tatuare sul metacarpo un drago da un famoso tatuatore
giapponese, Soyo. Sir Randolph Churchill, padre del più famoso Winston,
ministro per l’India, aveva un serpente
tatuato sul braccio. E perfino Nicola II,
ultimo sfortunato zar, aveva sulla pelle
un tatuaggio giapponese. Particolarmente ricercati erano i tatuatori nei
porti franchi di Yokohama e Nagasaki.
Nel Novecento la passione per i tatuaggi ha infranto ogni limite di età o
classe sociale, perdendo interamente il
suo originario carattere trasgressivo.
Un risultato paradossale, se pensiamo
che mentre la pratica del tatuaggio si
diffondeva in Occidente nei luoghi
d’origine veniva combattuta e spesso
estirpata dai troppo zelanti missionari,
insieme ai liberi costumi amorosi, alla
musica e alle danze tradizionali. Negli
ultimi anni sono stati proprio i viaggiatori occidentali a riportare in quei
luoghi la pratica del tatuaggio, in una
sempre più consapevole ricerca delle radici e degli originari significati di
questa meravigliosa arte.
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Alessandra Castellani, Storia sociale
dei tatuaggi, Donzelli, 2014, pp.152,
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino¶29 settembre 2014¶N. 40
21
Ambiente e Benessere
Non si dica più
«aspettiamo i playoff»
Sportivamente Il campionato di hockey su ghiaccio è iniziato
Alcide Bernasconi
Quelli dell’hockey sembrano possedere
finalmente la ricetta infallibile per attirare la gente allo stadio. Certo, questo non
era il problema dello Schlittschuh Club
(SC) Berna, che riempie fino all’ultimo
posto il suo vecchio stadio dell’Allmend,
anche lui ribattezzato – credo – con il
nome dello sponsor principale seguito
dall’immancabile «Arena». Una fine (o
un principio? Vedete voi) che farà anche
la Valascia se un giorno sarà costruita
ex novo, dove un tempo atterravano e
decollavano Vampire e Venom con il
compito di difendere il territorio dalla
minaccia dei rossi, con tanto di profumo
di stallatico sparso per i campi da volenterosi contadini. Odore di letame, che ti
accompagnava fin sulla soglia della vecchia Valascia, per la vicinanza di un paio
di stalle.
Ma ora basta: lì, dove un tempo sentivi il muggito di una vacca ora si beve
champagne e si assiste alla partita da alcune suite di lusso, pasteggiando, come a
New York, San Pietroburgo o Stoccolma
e in mille altre arene che hanno cancellato il ricordo delle prime piste di ghiaccio.
Anche a Lugano resiste il vecchio
nome «Resega», dove suppongo un tempo ci fosse nei paraggi una segheria, denominata dai nostri nonni e bisnonni
anche Ressiga; con due esse che sembravano un monito, rievocando il rumore
dello strumento che diventava pericoloso se non usato con la necessaria… concentrazione. Ora, da quelle parti, la parola «concentrazione» è sulla bocca di tutti,
ma per altri motivi.
Dirigenti, staff tecnico, giocatori e
pubblico. Sono tutti d’accordo: solo affrontando l’avversario usando la concentrazione in dosi sempre più consistenti si
può aspirare ai successi e ai posti più alti
della classifica. Qualche errore lo fanno
tutti, stranieri compresi, ma è indubbio
che negli ultimi anni – tre, quattro, forse
anche cinque – il livello di gioco sia continuato a salire nel nostro massimo campionato di hockey per merito di tecnici di
valore, giocatori stranieri, che sanno trasmettere (non tutti, ahimé!) ai compagni
di gioco qualità, e giocate che arricchiscono in qualche caso il loro repertorio.
Ecco spiegato anche il motivo per
cui la medaglia d’argento conquistata
dalla Svizzera, dopo nove vittorie filate contro gli avversari più prestigiosi, ai
Campionati del mondo di Stoccolma
2013 non giunse per caso.
I rossocrociati furono battuti soltanto nella finale dai padroni di casa, del
resto superati dagli svizzeri nella fase
di qualificazione. Non a caso i giocatori
nordici approdati alle nostre parti, pur
dimostrando di possedere tutti i requisiti
per meritarsi l’ammirazione del pubblico, oltre che degli esperti, devono rimboccarsi le maniche e dar sempre prova
di massima concentrazione. La cosa
vale per i canadesi, gli statunitensi e altri campioni di indubbia esperienza per
rispondere alle aspettative dei club che li
hanno ingaggiati.
Ma torniamo al punto iniziale delle
nostre riflessioni: il pubblico dell’hockey
chiede emozioni. Neppure troppe reti,
perché si corre il rischio che i giocatori
ci prendano gusto (anche gli avversari) e
perdano un po’ della concentrazione che
non possono mai abbandonare. Pochi
ma decisivi gol dunque, ma tante emozioni, quello sì. Una partita che si decide
allo scadere con la vittoria della squadra
per la quale si fa il tifo è il massimo per
un venerdì o un sabato sera. Altrimenti
ci sono i cinque minuti supplementari e,
non bastasse, la decisiva sfida ai rigori.
Emozioni che si aggiungono alle emozioni, in un gioco diventato sempre più
veloce, con un ingaggio fisico che ormai
fa sorridere ripensando ai tempi della
così detta «tolleranza zero». Gli allenatori chiedono molta decisione negli
interventi. La preparazione fisica, non
soltanto quella estiva, ha fatto un deciso
salto di qualità. Finiti i tempi in cui alcuni si presentavano alla rimessa in moto
estiva con pancette che denunciavano
un eccesso di chiamiamole pure libagioni. Colpa dei tifosi che invitavano spesso
e volentieri i loro eroi attorno ai tavoli di
un grotto, per il piacere di dimostrarsi
ospitali e per strappare la promessa di un
Mavic
con un’intensità del tutto sconosciuta fino a poco tempo fa
grande campionato. No, ora la musica è
cambiata e chi sgarra (c’è sempre) deve
stringere poi i denti per rimettersi in
riga e non rischiare di perdere la fiducia
del tecnico. Il campionato, quando scatta, non ha riguardo ormai per nessuno.
Finita la ricerca del giusto assetto nelle
prime gare del torneo, perché le corse si
facevano serie soltanto quando la lotta
diventava agguerrita per l’accesso ai playoff. Ora i punti contano subito: guai a
perdere, perché sono tre punti che se ne
vanno, e pure il pareggio, che assicura
almeno un punto, è bene accetto soltanto
nel caso in cui si è rincorso il risultato con
tutte le forze, raggiungendo l’avversario
che pensava di avere la partita vinta.
La classifica indica chiaramente
quanto vicini siano al momento le forze
della varie squadre. Dopo cinque giornate (ossia prima di un weekend sul quale ci
è tecnicamente impossibile riferire per
i tempi di chiusura del giornale) annotiamo un accresciuto valore del Lugano,
partito abbastanza bene (ma un paio
di punti in più non avrebbero guastato,
poiché meritati); un Berna che si è fatto
roccioso come mai lo si era visto nella
passata stagione, quindi desideroso di riscatto; uno Zugo che non può permetter-
si di finire invischiato un’altra volta nel
fondo della classifica. Se i campioni dello
Zurigo capeggiano la classifica, lo devono alla gara in più, vinta contro il Rapperswil, ma nella retroguardia è già una
bella lotta alla quale intende partecipare
anche il Bienne che punta ai playoff così
come l’Ambrì Piotta, con una squadra
rinnovata negli stranieri attesi a un salto
di qualità necessario, così come da parte
di quasi tutti per centrare l’obiettivo più
alto possibile.
La fatidica riga della classifica «imprigiona» un quartetto inatteso: il Kloten, finalista la scorsa primavera, all’asciutto di punti dopo cinque giornate ma
con una squadra in possesso di elementi
che sanno il fatto loro; il Losanna, che
fece ammattire nell’ultimo campionato più di un avversario e ora punta a riprendere una posizione più consona alle
proprie ambizioni. Che dire poi del Friburgo che ha totalizzato gli stessi punti di
Ambrì e Rapperswil? Nulla, se non che ci
attendono altre emozioni a getto continuo e non più come quando a qualcuno
sfuggiva una frase terribile per qualsiasi
dirigente, tecnico, giocatore o autentico
appassionato di hockey: «Aspettiamo i
playoff…».
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino¶29 settembre 2014¶N. 40
23
Politica e Economia
Obama all’Onu
Appello del presidente: l’Isis va
distrutto, il mondo e l’Islam si
uniscano agli Usa
L’internazionale del terrore
Nel Pakistan di Zardari e dintorni
gli studenti di teologia del califfato
islamico chiamano alla Jihad
e muovono le loro pedine come
i Talebani afghani nei primi anni 90
pagina 27
Dilma o Marina?
Il Brasile va alle urne il 5 ottobre per
il primo turno delle presidenziali. La
grande sfida sarà tutta a sinistra fra
la presidente uscente e il nuovo volto
della sinistra, Marina, che piace alla
destra
pagina 29
AFP
pagina 25
La prudenza di Erdogan
Turchia-Isis Unico Paese Nato a condividere un confine con Iraq e Siria dove si estende il «califfato» sunnita, Ankara
evita di schierarsi fino in fondo con l’alleanza occidentale e cerca di far fronte al problema dei profughi curdi
Lucio Caracciolo
Al centro della mischia mediorientale oggi imperniata sulla guerra allo
Stato Islamico del «califfo» Abu Bakr
al-Baghdadi c’è la Turchia di Recep
Tayyip Erdogan, appena insediato alla
presidenza della Repubblica. L’aspirante sultano/califfo neo-ottomano è intenzionato a reggere il timone ad Ankara almeno fino al 2023, per celebrare il
centenario della repubblica di Atatürk.
Del quale Erdogan condivide una certa mania di grandezza personale e di
rinascita della potenza turca, non però
l’apertura all’Occidente laico – meglio: miscredente – poco consentanea
alla sua formazione islamista. Come e
perché questa Turchia si è implicata in
una partita che rischia di minarne la sicurezza e di indebolirne la formidabile
crescita economica, sperimentata nel
primo decennio di leadership dell’Akp
– il partito islamico «moderato» – di
cui Erdogan è il capo incontrastato?
La radice di tutto sta nella strategia geopolitica piuttosto grandiosa
nota come «zero problemi con i vicini»,
battezzata dall’ex ministro degli Esteri
Ahmet Davutoglu, oggi primo ministro. Un piccolo Kissinger del Bosforo, che del grande statista statunitense
condivide il background accademico
ma non la sobrietà – gli avversari e i
detrattori preferiscono chiamarla cinismo. In una frase, l’approccio di Davutoglu si è rivelato superiore alle risorse
disponibili.
Qual era il progetto originario
della leadership islamista, così come
tratteggiata da Davutoglu nel tomo
Profondità strategica e in diversi saggi,
popolarizzata poi dallo stesso Erdogan
nei suoi effervescenti discorsi pubblici? La Turchia prendeva atto che con la
fine della Guerra fredda essa veniva a
trovarsi in una collocazione geopolitica
nuova: non più avanguardia della Nato
a Oriente, sul fronte del contenimento
dell’Unione Sovietica, ma potenza autonoma nel vuoto prodotto dal suicidio
dell’impero di Mosca. Questo subitaneo crollo dell’avversario secolare degli
ottomani apriva ad Ankara orizzonti
promettenti. Di qui il protagonismo
turco, lungo tre direttrici di penetrazione: quella neo-ottomana, specie nei
Balcani e nel Levante; quella pantura-
nica, che faceva leva sulle affinità etnico-culturali, verso l’Asia Centrale (Turkestan Occidentale) e la stessa Cina
(Xinjiang, ossia il Turkestan Orientale,
popolato da una popolazione turchesca, l’uigura, e segnato dalla cultura
musulmana); infine quella panislamica, che mirava a riportare la Turchia
al centro dell’ecumene maomettana,
come ai tempi d’oro del sultano/califfo
(l’ultimo vicario del Profeta, il povero
Abdülmecid II, fu pensionato nel 1924
da Atatürk, per dedicarsi alla ritrattistica). Vasto programma, avrebbe sentenziato il generale de Gaulle. Troppo
vasto, constatiamo noi oggi.
All’incrocio delle direttrici neoottomana e panturanica troviamo anzitutto Siria e Iraq, terreno di elezione
delle campagne anti-terrorismo di
Bush figlio, dal 2003 al 2008, oggi della guerra civile scatenata dalla rivolta
contro il regime di Damasco. Dalla
prima Erdogan preferì tenersi fuori.
Era ancora nella fase fondativa del suo
progetto geopolitico. Nella seconda
è dentro fino al collo. Da quando, tre
anni fa, decise di rompere con Bashar
al-Assad, fin’allora amico di famiglia
e compagno di vacanza, nella certezza
di poter insediare a Damasco una leadership di stretta osservanza filo-turca,
riaffacciandosi così in quel mondo arabo dal quale l’impero ottomano era stato espulso in seguito alla disfatta nella
Prima guerra mondiale.
Il progetto non ha funzionato. AlAssad è ancora al suo posto, sia pure
sulle macerie del suo Paese. I ribelli di
varia taglia e diverse ambizioni che Erdogan pensava di avere in tasca e manovrare come pupazzi, si sono rivelati
insieme inefficienti e intrattabili. Specie nella componente jihadista, che ha
presto avuto ragione dei rivoluzionari
«laici» della prima ora, esponenti della
società civile colta e filo-occidentale,
dunque necessariamente ultraminoritari. Fra le schegge jihadiste più o meno
foraggiate dalle petromonarchie arabe
e dallo stesso Erdogan, è emerso lo Stato Islamico, già Stato Islamico dell’Iraq e del Levante. L’organizzazione del
molto virtuale «califfo» al-Baghdadi,
impegnata a innalzare la bandiera nera
dell’islam salafita sui territori arabosunniti a cavallo dell’ormai teorico
confine fra Siria e Iraq. Un caso da ma-
nuale di inversione del rapporto servopadrone, che avrebbe probabilmente
indotto Hegel a ritoccare le pagine ad
esso dedicate nella Fenomenologia dello
spirito.
E adesso? La Turchia evita di schierarsi fino in fondo con la assai variopinta «alleanza» allestita da Obama contro
lo Stato Islamico, per non esporsi troppo in una mischia nella quale rischia
di dissanguarsi. Già oggi centinaia di
migliaia di profughi fuggiti dalla Siria
e dall’Iraq affollano i campi profughi
turchi, mentre i curdi siriani e iracheni, rafforzati dall’appoggio americano,
pongono le basi del futuro Kurdistan, la
cui propaggine occidentale affonderebbe in Anatolia, a minacciare l’integrità
della Repubblica Turca.
Sigillare la frontiera con l’area in
mano al «califfo» è operazione improbabile e costosa, sotto ogni punto di
vista. Se potesse, Erdogan tornerebbe
forse indietro, a stringere la mano all’ex
amico al-Assad. Ma non può farlo. Non
gli resta che gestire la doppia emergenza «califfato»-Kurdistan, sperando si
esaurisca presto, come una tempesta
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino¶29 settembre 2014¶N. 40
25
Politica e Economia
Guerra totale ma non all’Islam
Obama all’Onu Il presidente americano al Palazzo di Vetro parla come un leader di guerra, rilanciando quel ruolo
di gendarme del mondo che solo un anno fa ne aveva teorizzato il ritiro
La metamorfosi di Obama, da guerriero riluttante a leader della grande coalizione contro i jihadisti, è impressionante. Il cambiamento di linguaggio
e di tono del presidente, da un’assemblea generale dell’Onu all’altra, ha colpito tutti gli osservatori in America e
all’estero. «Oggi parla come un leader
di guerra», nota il «New York Times»,
mentre un anno fa aveva teorizzato un
ritiro dell’America dal ruolo di gendarme del mondo.
Un altro elemento che intriga
gli esperti è Khorasan, «la cellula del
terrore che evitò a lungo i riflettori»,
come lo definisce ancora il «New York
Times». Chi sono esattamente questi
transfughi di Al-Qaeda che tramano
attentati contro Europa e Stati Uniti?
E per il «Washington Post» i raid aerei
contro Khorasan «non sono un K.O.»,
anche se puntano al cuore della risorsa economica dei jihadisti, cioè i pozzi
petroliferi caduti nelle loro mani.
Un altro retroscena importante
in questa fase è la rinascita di un’alleanza di ferro tra l’America e l’Arabia
Saudita, il patto segreto che ha aperto
la strada ai raid aerei congiunti, a cui
hanno partecipato da una settimana
ben cinque Paesi arabi. Le convergenze a sorpresa non si fermano qui. È da
notare anche la concordia improvvisamente sbocciata nel triangolo delle
superpotenze Usa-Russia-Cina, che
ha consentito il voto unanime della
risoluzione Onu al Consiglio di sicurezza: contro i jihadisti l’interesse è
comune visto che Putin ha i suoi ceceni e la Cina è alle prese con gli uiguri.
L’Occidente non è solo in questa sfida.
E anche il presidente iraniano Rohani
ha usato il suo passaggio a New York
per lanciare messaggi di cooperazione. Sia pure con una coda velenosa:
«Dov’erano gli americani quando noi
aiutavamo Assad perché avevamo capito la pericolosità dei ribelli siriani?»
«Il mondo è a un bivio, tra la guerra e la pace, tra la paura e la speranza».
Barack Obama prendendo la parola
mercoledì scorso al Palazzo di Vetro
ha rivendicato la leadership di un’ampia coalizione internazionale contro la
jihad islamica «per estirpare l’ideologia dell’odio e della violenza». Mentre i
jet militari americani dalla notte tra il
22 e il 23 settembre hanno colpito a cadenza regolare le basi dello Stato Islamico in Siria, il presidente americano
nel suo intervento all’Onu ha promesso che non darà tregua ai colpevoli
delle decapitazioni: «Nessun Dio perdona questo terrore. Nessuna lamentela giustifica queste atrocità. Questi
violenti capiscono un solo linguaggio,
la forza. Smantelleremo i network della morte».
L’intervento all’assemblea rievoca
un altro discorso di Obama che fece
epoca, quello del giugno 2009 all’università del Cairo: molti considerano
che contribuì a incoraggiare le successive primavere arabe. Anche se quelle
rivolte antiautoritarie ebbero un esito
deludente o perfino disastroso, e cinque anni dopo Obama ha arruolato
nella coalizione anti-Isis alcune autocrazie come l’Arabia Saudita e gli
emirati del Golfo, il presidente torna
a parlare ai giovani arabi usando il
linguaggio dei valori. «Rifiutare l’estremismo e il fanatismo – ha detto il
presidente – è il compito di un’intera
generazione. Nessuna potenza esterna
può cambiare i vostri cuori e le vostre
menti. Voi venite da una grande tradizione, una civiltà che è sinonimo di
istruzione non di ignoranza; di innovazione non di distruzione; di dignità
della vita non di omicidio».
Sottolineando il ruolo positivo
AFP
Federico Rampini
che le comunità d’immigrati islamici
possono svolgere in Occidente. «Non
esiste lo scontro di civiltà, non siamo
in guerra contro l’Islam, non c’è un
«noi» e un «loro», ci siamo solo «noi».
Inclusi i milioni di musulmani americani che stanno dalla parte del mondo
moderno, della società multiculturale». Ha definito «folle» una visione del
mondo che oppone «credenti a infedeli». Ha accusato i jihadisti di avere
«pervertito una delle grandi religioni
della storia umana».
Damasco approva
tacitamente gli attacchi
americani sul territorio
ma l’America vuole
fugare l’impressione
di un’alleanza
«oggettiva» con Assad
Obama non si è risparmiato alcune
autocritiche, di quelle che la destra
Usa gli rimprovera aspramente. Ha
riconosciuto ritardi e sottovalutazioni
di fronte alla rinascita di forze jihadiste. Ha ammesso che la stessa società
americana ha ancora molto da fare
per superare tensioni di natura etnica «come il mondo intero ha potuto
vedere quest’estate nelle proteste di
Ferguson, Missouri, dopo l’uccisione
di un giovane nero». (Poche ore dopo
quel discorso, peraltro, si è dimesso
il suo ministro di Giustizia Eric Holder, che era stato in prima linea nella
vicenda di Ferguson). Ma Obama si
è rivolto alla comunità delle nazioni
perché ritrovino insieme lo spirito che
animò i fondatori dell’Onu dopo la Seconda guerra mondiale. «La scelta da
fare è questa: rinnovare un sistema di
relazioni internazionali che ha avuto
un ruolo positivo, oppure essere tra-
volti dall’instabilità. Oggi occorre un
nuovo contratto tra popoli civili, che
escluda le ideologie dell’odio. Il futuro dell’umanità intera dipende dalla
sconfitta di coloro che vogliono dividerci su basi religiose o etniche».
Questa sconfitta non può essere
affidata solo all’azione militare. Dopo
aver parlato in assemblea generale,
quando Obama ha presieduto il Consiglio di sicurezza (un gesto altamente
inusuale che sottolinea la gravità del
momento, «è solo la sesta volta che
questo accade nella storia» come ha
ricordato lui stesso), ha ottenuto il sì
unanime alla risoluzione che voleva.
Nel testo approvato ci sono basi per
un’azione legale anche contro quelle
«ong filantropiche» dell’Arabia e del
Golfo che servono a finanziare lo Stato
Islamico. In quella risoluzione viene
stabilito anche l’obbligo giuridico di
impedire il movimento attraverso le
frontiere dei combattenti islamici, che
dal mondo intero traversano confini
porosi come quello turco e affluiscono
in Siria.
Sul fronte siriano-iracheno, fa
scalpore la rivelazione del segretario
di Stato John Kerry: «Siamo intervenuti giusto in tempo, per impedire
che le milizie dello Stato Islamico arrivassero fino a conquistare Baghdad». La sua rivelazione riporta in
primo piano una contraddizione che
intriga tutti i media americani. Con
varie oscillazioni da una dichiarazione all’altra, tra Casa Bianca, Dipartimento di Stato e Pentagono, non è
chiaro se il pericolo numero uno per
la sicurezza dell’intero Occidente sia
lo Stato Islamico oppure l’altro gruppo che si chiama Khorasan, deriva da
Al-Qaeda, e trama attentati in Europa
e Stati Uniti. La minaccia di Khorasan
appare più vicina visto che il gruppo si
prefigge di colpire sul territorio di Paesi Nato, mentre lo Stato Islamico ha
aspirazioni di conquista territoriale
in Medio Oriente (Grande Califfato).
Per l’opinione pubblica americana e
occidentale Khorasan è un’apparizione nuova, una sigla sconosciuta fino a
poco tempo fa. Ma si apprende che già
quest’estate i servizi segreti Usa avevano rafforzato le misure di controllo
agli aeroporti – per esempio sui computer portatili dei passeggeri – perché
già a conoscenza dei preparativi di
attentati. Quello che l’Occidente sta
soffrendo a proprio rischio e pericolo
è comunque una sua lentezza ad avvistare tutte le filiazioni del fondamentalismo islamico, gruppi e sigle che
sono un coacervo, alcune nuovissime,
talvolta in aspra lotta fra loro. Ci sono
derivazioni dell’Islam wahabita che ha
le radici in Arabia Saudita: in primis
lo Stato Islamico che punta a ricreare
il Grande Califfato. Ci sono le schegge
più recenti della galassia Al-Qaeda. E
dalle Filippine all’Algeria, gruppi anche piccoli rispondono all’appello e
procedono con minacce di decapitazioni di ostaggi occidentali.
Guidato da un ex luogotenente di
Osama Bin Laden, Khorasan è «a uno
stadio avanzato di preparazione di attentati», spiega il comando operativo
del Pentagono (Central Command o
Centcom). Stanno reclutando seguaci
con passaporti occidentali, li addestrano come «fattorini del terrore»,
perché s’imbarchino su voli diretti in
America e in Europa. Gli attentati userebbero esplosivi dissimulati in «telefonini, computer portatili, materiali
non metallici come tubetti di dentifricio», secondo Centcom.
Obama ha sottolineato «la forza della coalizione che combatte insieme a noi». Elencando i Paesi arabi
che hanno mandato i loro jet militari:
Arabia Saudita, Giordania, Emirati
arabi uniti, Qatar, Bahrain. L’elenco è
significativo per il presidente americano in quanto c’è lì dentro una forte
rappresentanza del mondo sunni-
ta, a riprova che i jihadisti dello Stato
Islamico (pur combattendo anzitutto
contro gli sciiti) sono considerati un
gravissimo pericolo anche dai loro
«compagni di fede». L’intervento militare dei cinque Paesi arabi serve anche
a rafforzare la tesi americana secondo
cui questi raid avvengono nel rispetto
della legalità internazionale, avvengono «per difendere l’Iraq, a sua richiesta, contro l’aggressione esterna che
viene dalle centrali del terrorismo».
E Damasco? Nessuna opposizione, anzi una tacita approvazione degli
attacchi americani sul territorio della
Siria, da parte di quel dittatore Assad
che poco più di un anno fa rischiava
di essere lui il bersaglio di un bombardamento Usa (dopo le stragi di
civili compiute con armi chimiche).
Damasco e Washington concordano
sulla stessa versione: «La Siria è stata
informata in anticipo dei raid». Ma
la Casa Bianca aggiunge due precisazioni: «Non c’è stato nessun tipo di
coordinamento. Li abbiamo avvisati
solo perché evitassero qualunque atto
ostile contro i nostri aerei». Da parte americana si fa di tutto per fugare
l’impressione di un’alleanza «oggettiva» tra Obama e Assad.
Da «Shock and Awe» in poi, il
mondo è abituato alle prodezze tecnologiche della U.S. Air Force, nonché
degli arsenali missilistici più precisi
del mondo. E tuttavia Washington
non nutre illusioni: la lotta sarà dura,
i raid aerei non possono essere risolutivi, altri dovranno metterci quegli
«scarponi sul terreno» senza i quali
non si vince mai. Lo dimostra l’Iraq,
dove questi raid durano da un mese e
non hanno salvato neppure i peshmerga curdi da gravi sconfitte sul terreno.
Tra i «segni meno» va aggiunta la latitanza della Turchia, unico Paese musulmano della Nato, assente dai raid
della coalizione anti-Isis, pur essendo
invasa di profughi siriani.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino¶29 settembre 2014¶N. 40
27
Politica e Economia
Il supermercato dell’Isis
Pakistan e dintorni Mentre l’attenzione del mondo è concentrata sul Medio Oriente e sulle efferate gesta
del califfato, più a Est i terroristi della Jihad stanno muovendo le loro pedine
Francesca Marino
Il famigerato gruppo
degli studenti di teologia
Islamic State hanno
molte cose in comune
con i Talebani
afghani, fra cui
mostrare teste mozzate
e le tecniche di
combattimento
Il boia di giornalisti e volontari, il britannico Jihadi John, è quasi sicuramente di origine pakistana. Non solo.
A un certo punto l’Isis ha dichiarato,
in una email inviata ai parenti di Foley poco prima della decapitazione, di
volere uno scambio tra lo stesso Foley
e Aafia Siddiqi: la signora, laureata
all’MIT di Boston e un tempo rispettata scienziata, è attualmente in galera negli Usa per aver cercato di ammazzare alcuni soldati americani in
Afghanistan. Il caso di Aafia Siddiqi
è praticamente quasi sconosciuto nel
resto del mondo eccetto che in Pakistan, dove è diventato uno dei cavalli
di battaglia dei jihadi e dei loro sostenitori. Inoltre, secondo Muhammad
Amir Rana, uno dei più rispettati
analisti pakistani, «l’Isis attrae militanti islamici e risorse finanziarie»
esattamente come i Talebani nei primi anni Novanta. E che «i militanti
pakistani sono stati parte del gruppo
fin dall’inizio».
Ci sono membri della fazione
punjabi e baloch della Lashkar-iJhangvi (uno dei gruppi anti-Shia della galassia integralista pakistana autore di sanguinosi attentati all’interno
di moschee e scuole) che combattono
per il califfato islamico in Iraq fin dalla sua costituzione e che costituiscono
lo zoccolo duro e meglio addestrato
delle milizie dell’Isis. E la stessa LiJ
avrebbe aiutato l’Isis, nel 2013, a met-
Un pakistano
legge il pamphlet
«Fatah»
distribuito
dall’Isis che
annuncia la
creazione dello
Stato islamico e
chiama alla Jihad.
(AFP)
tere in piedi il campo di addestramento Ghazi Abdul Rasheed ad Arbil.
Intanto tra i Talebani pakistani
stanno succedendo alcune cose interessanti. Il TTP, il Tehrik-Taliban-i-Pakistan che sotto il suo ombrello riunisce
diversi gruppi della galassia denominata per brevità semplicemente «Taliban»,
sta attraversando uno dei momenti
più travagliati della sua storia. Ci sono
state diverse scissioni al suo interno e
sono nati alcuni nuovi gruppi. A parte
la fazione principale, che si è limitata a
esprimere un generico appoggio morale ai fratelli del califfato, ci sono alcuni
gruppi che sono andati oltre. Nei giorni
scorsi all’indomani dell’ultima scissione all’interno del TTP è nato un nuovo
gruppo che si chiama Jamatul Ahrar
ed è guidato da Omar Khalid Korasani. Korasani segue la stessa agenda di
Baghdadi e si è affrettato a definire l’Isis
«fratelli mujaheddin».
Anche l’Aharul Islam, una fazione
del TTP, sta lavorando in stretta collaborazione con l’Isis, mentre a Karachi
esiste un altro gruppo jihadi, il Tehreeek-i-Kilafat, che ha pubblicamente
dichiarato di essersi alleato con l’Isis.
Lo scorso 3 settembre, inoltre, a Peshawar e nei campi di rifugiati afghani al
confine tra Pakistan e Afghanistan,
sono stati distribuiti opuscoli intitolati
«Fatah» (Vittoria) che sulla copertina
sfoggiavano la nera bandiera del califfato e un kalashnikov tanto per fare
buon peso. Gli opuscoli, stampati in
Dari e Pashtun, annunciano la creazione dello Stato Islamico e chiamano alla
jihad i gruppi locali invocando l’unità
di tutti i musulmani e la creazione di
un califfato che parte dal Pakistan per
arrivare in Siria e in Iraq. A quanto pare
gli opuscoli non arrivavano dall’estero
ma sono stati stampati in loco, adoperando le stesse strutture usate dai
membri del network Haqqani e dagli
stessi Talebani per stampare simili prodotti letterari.
L’appello a quanto pare è stato raccolto, e non soltanto da parte pakistana.
Anche dall’altra parte del confine, nel
liberato e democratico Afghanistan, un
certo numero di gruppi appartenenti
alle frange più estreme della galassia
jihadi ha pubblicamente dichiarato il
suo sostegno all’Isis: tra gli altri i gruppi di orientamento salafita finanziati
dall’Arabia Saudita e guidati da Abdul
Rahim Muslim Dost e da Maulvi Abdul Qahar. Ci sono state e ci sono voci
sempre più insistenti di un’alleanza tra
l’Isis e l’Hizb-e-Islami guidata dal famigerato signore della guerra Gulbuddin
sulmane e della brutalità mostrata dagli
Stati Uniti verso i musulmani in Iraq e
in altri paesi islamici» e di una reazione
alla «brutalità degli americani verso i
sunniti in Iraq».
Come da copione il governo di
Islamabad, per bocca della portavoce
Hekmatyar, ma il portavoce del gruppo ha negato tutto. Hekmatyar però, in
un certo numero di recenti interviste e
in un articolo scritto di suo pugno per
il quotidiano «Hizb’s Daily Shadat», ha
parlato dell’Isis dichiarando che si tratta: «del risultato delle politiche anti-mu-
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Forse non si tratta proprio dei «nuovi Talebani» come si affannano a dire
molti esperti, ma certamente con il
famigerato gruppo degli studenti di
teologia l’Islamic State, Isis per amici
e nemici, ha in comune parecchie cose.
Alcune tecniche di combattimento e di
guerriglia, ad esempio. L’uso delirante ma mirato dei media e del web e il
vezzo di pubblicare video che mostrano scene raccapriccianti firmate dalla
premiata macelleria del terrore, come
un famoso video in cui si mostravano
alcuni prodi membri dei Talebani suddetti mentre giocavano al pallone con
le teste di alcuni malcapitati individui.
Non si trattava di teste occidentali,
però, quindi la cosa ha destato scalpore
in Pakistan e dintorni per lo spazio di
un sospiro ed è per sempre svanita in
quel nulla eterno in cui molte, troppe
notizie vanno a finire.
E mentre l’attenzione del mondo
è da molti, troppi mesi concentrata sul
Medio Oriente e sulle efferate gesta
dell’Isis e dei suoi derivati, più a est,
dove «la guerra è stata vinta» e stiamo
per lasciare a un trionfo di democrazia
l’Afghanistan e il sempre più destabilizzato Pakistan, il Califfato comincia
a muovere le sue pedine. Non che il
Pakistan, dicono gli esperti, rischi di
trasformarsi in una succursale dell’Isis: ma di sicuro sta diventando o è già
diventato una sorta di supermercato
della jihad da cui i fautori dell’Internazionale del terrore possono fare
shopping a piene mani. D’altra parte,
nonostante a ovest la cosa tenda a passare sotto silenzio, alcuni legami tra
Pakistan, Afghanistan e Islamic State
sono abbastanza noti.
degli esteri Tasneem Aslam, ha negato che esistano connessioni tra gruppi
locali e Califfato Islamico. Secondo la
Aslam i famosi opuscoli «Fatah» non
sono mai stati distribuiti e mezzo Pakistan è stato vittima di una allucinazione collettiva. D’altra parte questa
particolare signora, assurta al ruolo di
portavoce degli Esteri dopo aver servito
come ambasciatrice a Roma, è particolarmente vicina all’esercito e ai servizi
segreti. Che al momento stanno giocando una partita a Risiko con Nawaz
Sharif e i suoi manovrando le proteste
di piazza guidate dall’ex-stella del cricket Imran Khan e dal religioso Tahirul Qadri. Guarda caso, l’agenda del
califfato islamico coincide quasi perfettamente con l’agenda dell’Inter-Service
Intelligence pakistana e con quella del
gruppo (considerato terrorista ovunque tranne che in Pakistan perché
combatte per liberare i fratelli kashmiri
in India e non ha mai compiuto attentati sul patrio suolo) della Lashkar-iToiba.
Non solo. Le prime avvisaglie
dell’avanzata delle armate nere si sono
avute anche in India, sempre nei giorni
scorsi. Dove la polizia di Calcutta ha arrestato quattro ragazzi che cercavano di
passare il confine con il Bangladesh per
unirsi a una locale unità di reclutamento dell’Isis. Secondo i ragazzi fermati a
Hyderabad si sta formando un gruppo
di ragazzi, almeno una dozzina, in contatto con l’Isis e pronti a partire. Il reclutamento avviene via Facebook e tramite
gruppi jihadi locali.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino¶29 settembre 2014¶N. 40
29
Politica e Economia
Brasile, due sinistre a confronto
Primo turno presidenziali La presidente uscente Dilma Rousseff il 5 ottobre dovrà confrontarsi con Marina Silva,
Angela Nocioni
Dilma contro Marina. La presidente
uscente, erede dei 10 anni del Partito dei
lavoratori (Pt) al potere, contro l’ecologista evangelica e radicale, scaraventata in
prima linea dalla morte in un incidente
aereo di Eduardo Campos, leader del
partito socialista rimpiazzato in corsa.
Non è detto che lo scontro diretto sia
tra le due donne, ma il dibattito politico
brasiliano in vista delle presidenziali del
5 ottobre è da loro monopolizzato. L’ultimo sondaggio di Datafolha dà Dilma in
rimonta, dopo che l’onda di Marina Silva
ha travolto tutte le previsioni di voto. In
rimonta, ma non vincente. Al primo turno del 5 ottobre la presidente rimarrebbe
in vantaggio per sette punti, ma al ballottaggio del 26 ottobre si prevede pareggio
tecnico tra le due, 50 e 50, battaglia fino
all’ultimo voto. Esiste un terzo candidato
forte, Aecio Neves (nella foto con Dilma
e Marina), presentato dal Psdb dell’ex
presidente Cardoso, storica opposizione
al Pt di Lula da Silva. Con la forza del suo
partito alle spalle, sostenuta dalla destra
tradizionale ma anche dalla critica liberale alla sinistra di governo, Neves ha
tutti i numeri per farcela. Ma da quando
il partito socialista ha deciso di candidare la Silva, nessun sondaggio sembra
fargli più caso. Chissà se il nome di Neves
resusciterà nell’urna. Per ora è dato per
spacciato, inchiodato al terzo posto, dieci
punti sotto la seconda.
La morte di Campos ha stravolto
la campagna elettorale. Marina, che ha
molto più consenso di lui, fa volare i son-
daggi. Alle ultime presidenziali, corse
per il partito verde, un partitino senza
struttura organizzativa e con pochi soldi,
prese da sola 20 milioni di voti.
Marina è pericolosissima per il Pt, lo
scavalca simbolicamente a sinistra e piace anche alla destra: al mercato del voto è
una merce facile da vendere. La sua storia
di adolescente analfabeta scampata alla
morte per fame è una vicenda di riscatto individuale capace di competere, sul
piano del mito pop, con quella di Lula, il
presidente operaio, che sul suo passato di
tornitore agguerrito e senza un soldo ha
costruito un legame affettivo con mezzo
Brasile. Prima il rivale per il Pt era Neves
e Dilma doveva difendersi da attacchi in
arrivo da destra. Con Marina candidata
invece la partita è da giocarsi tutta a sinistra. La campagna per il Pt è tutta da rifare a pochi giorni dal voto. La strategia
è stata riformulata in gran fretta. Il comandamento (di Lula, ancora padrone
di tutte le decisioni che contano) è diventato: liquidare Marina come «evangelica
fervorosa» e continuare a difendersi dalla destra classica di Cardoso, spiegando
a ogni occasione buona che i due rivali
di Dilma, Neves da destra e Marina da
sinistra, sono entrambi in mano all’alta
finanza. E, soprattutto, inchiodare Marina al cliché di estremista inconcludente
che predica l’antipolitica ma non saprebbe mai governare una potenza mondiale
che per la prima volta in dieci anni, ed è
questo il vero problema, è in recessione.
Se passa Marina al primo turno,
però, il motto dell’opposizione sarà
«uniamoci contro Dilma». E per il Pt po-
trebbero essere dolori. Si sommeranno
i voti dell’opposizione di destra a quelli
della sinistra ecologista, più l’esercito degli evangelici. Una miscela esplosiva che
può portare Marina sopra il 50% al ballottaggio.
Per Dilma la rimonta è possibile,
ma è tutta in salita. L’inflazione galoppa,
le favelas sono sotto occupazione dell’esercito, la classe media vede divorare dal
caro vita i suoi sogni di gloria. Alla politica di redistribuzione dei governi del Pt
che ha trasformato socialmente il Paese
portando fuori dalla miseria 40 milioni
di persone, non si è associata una fase di
irrobustimento dell’industria nazionale. Il miracolo economico brasiliano ha
deluso i suoi primi beneficiari. È proprio
tra quei 40 milioni di ex poveri che Marina pesca voti. I miracolati del decennio
Lula, ora che hanno crediti da spendere
ed elettrodomestici cinesi comprati a
rate, chiedono servizi. Vogliono scuole,
ospedali, strade migliori. Il terrore del Pt
è il voltafaccia, o la sana reazione (dipende dai punti di vista) della famosa «fascia
C» delle statistiche nazionali, la nuova
classe media, il fiore all’occhiello della
politica sociale di Lula che ora, delusa
dalle promesse, è affamata di consumi
che non può permettersi e di diritti di cui
non gode. Nelle città brasiliane è raddoppiato il numero delle automobili negli ultimi sei anni, ma le strade sempre sono le
stesse del ventennio scorso.
Dilma, rigida e stizzita in tv, smitraglia numeri: cerca disperatamente
di spiegare, cifre alla mano, che è grazie
ai dieci anni di Pt al governo che gli ex
AFP
la sfidante principale che piace anche alla destra
poveri possono permettersi di chiedere
nuove strade per circolare con le utilitarie comprate con i crediti agevolati del
governo. Ma la gratitudine non si esige.
Rinfacciare in politica raramente paga.
E a nessuno piace gli si ricordi l’incubo
della sua miseria recente. Tanto meno
ai brasiliani, entusiasticamente inclini a guardare avanti. «Dilma por favor,
meno numeri, più emozione» raccomanda Lula.
Il gioco è molto più facile per Marina. Lei per ora deve solo promettere che
darà a tutti il mondo equo e solidale dei
sogni. Non ha ancora bisogno di mostrare come farà a darglielo, senza prendere
i soldi dal petrolio che dice di non voler
estrarre, senza i sussidi alla benzina che
giura di voler togliere. Ma lo può fare,
perché si trova nella fortunatissima condizione di essere la novità senza essere
una outsider. Fa politica dagli anni Ottanta, ma ha ancora un intatto capitale di
carisma personale da spendere.
Scatenati in una corsa contro il
tempo, i dirigenti del Pt scaraventano
ministri e facce note a rastrellare voti in
ogni angolo del Brasile, oliano con tutti
i mezzi a disposizione la macchina raccattavoti del Nordest, la roccaforte povera e nera che ha salvato Lula in più di
un’elezione. Ma a una settimana dal voto
le seconde file del Pt litigano ancora tra
loro: buttarci a sinistra e rischiare di perdere bene o buttarci a destra e rischiare
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Politica e Economia Rubriche
Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi
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Con la fine della guerra fredda si è
manifestata in tutta l’Europa una
tendenza al ridimensionamento degli
eserciti. Anche in Svizzera l’effettivo dell’esercito è stato ridotto e, in
prospettiva, si ridurrà ancora. Con il
ridimensionamento degli effettivi si
sono però anche ridotti i bisogni in
infrastrutture militari. Diverse caserme sono state chiuse e diversi terreni
di esercizio abbandonati. Da questo
punto di vista, le modifiche maggiori
sono probabilmente quelle che hanno
interessato gli aeroporti militari.
Ancora alla fine degli anni Ottanta, la
Svizzera disponeva di una trentina di
aeroporti militari. Nel frattempo due o
tre sono stati chiusi e più di una decina
sono stati aperti all’aviazione civile.
Numerosi altri aeroporti militari si
trovano nel limbo delle decisioni da
prendere. Il problema di fondo di
questi aeroporti è che l’attività aerea
privata, da sola, non è redditizia. Senza
usi complementari, quindi, la trasformazione di un aeroporto militare in
aeroporto civile o in eliporto conduce, prima o dopo, al fallimento della
società che lo gestisce. Per ora comunque non è che le idee sul cosa fare sulle
superfici degli aeroporti militari che
si rendono libere dal traffico aereo
abbondino. Nella maggioranza dei
casi non esistono progetti di riutilizzo
per altri scopi. L’eccezione alla regola è
rappresentata da Dübendorf che è, con
una superficie di 256 ettari, anche l’aeroporto militare di maggiore estensione. Sulla destinazione futura di questo
aeroporto che non sarà più utilizzato
dall’esercito, si scontrano attualmente
due partiti. Da un lato vi è il partito
di coloro che vorrebbero dedicare
l’aeroporto all’aviazione civile raddoppiando addirittura il numero dei voli.
Dall’altro vi sono invece coloro che
vorrebbero sviluppare sulle superfici
abbandonate dall’aviazione il maggior
parco per l’innovazione tecnologica
della Svizzera. Si può dire che dietro
ai sostenitori dell’aviazione civile c’è
anche la Confederazione che sarebbe
lieta di non dover smantellare le piste.
Invece, dietro ai sostenitori del nuovo
uso come centro dell’innovazione vi
è il Cantone di Zurigo che vorrebbe
togliere da una zona densamente abitata una fonte di inquinamento fonico
come è quella dell’aeroporto. Il pallino
è in mano alla Confederazione che ha
passato molto tempo a studiare chi
potesse essere il nuovo gestore privato
delle infrastrutture aeroportuali. Nel
corso degli ultimi mesi, a fare da terzo
incomodo, è intervenuta nel dibattito
sul futuro dell’aeroporto la consigliera federale Simonetta Sommaruga
chiedendo che si riservasse una parte
della superficie alla creazione di un
centro nazionale per richiedenti l’asilo.
Finalmente, all’inizio del mese di
questo mese, il consiglio federale ha
deciso di affidare la gestione delle piste
dell’aeroporto alla società Aeroporto
Dübendorf S.A. che cercherà di sviluppare l’aviazione commerciale e di
diporto. Per il parco dell’innovazione
tecnologica resteranno a disposizione
circa 70 ettari di terreno. La possibilità
che su questa superficie si crei anche un
centro per richiedenti l’asilo non è stata
del tutto accantonata, ma sembra non
venga considerata come prioritaria nei
piani di sviluppo dell’areoporto. La decisione del Consiglio federale ha messo
fine al dibattito su chi avrebbe dovuto
prendere in mano la gestione del traffico aereo privato. Ma non ha certo messo la parola fine alla discussione sul
futuro dell’aeroporto militare. Da un
lato perché non tutti sono convinti che
il traffico aereo privato sarà redditizio.
Dall’altro perché il grande progetto
del parco dell’innovazione stenta pure
a partire. Alla fine del mese di agosto
di quest’anno, il Canton Zurigo ha
presentato il piano del parco che prevede una realizzazione a tappe. Entro
la primavera del 2015 dovrebbe essere
pronto anche il concetto di realizzazione. In seguito si creerà la società che
dovrebbe por mano alla concretizzazione del progetto. Al momento attuale
due cose appaiono chiare. Primo, lo
sviluppo futuro dell’ex-aeroporto militare sarà guidato fermamente dalla
mano pubblica: la Confederazione per
quel che concerne le concessioni per
l’esercizio del volo, il Cantone per quel
che riguarda il parco dell’innovazione.
Secondo, il passaggio dall’uso militare
ai nuovi usi civili si farà su un arco
di tempo di diversi anni. Qualcuno
parla di 5, altri di 10 anni. Insomma, la
lezione di Dübendorf è che riutilizzare
le superfici di un aeroporto, anche
quando l’iniziativa per la concretizzazione dei nuovi usi dovrebbe passare ai
privati, non è questione da risolvere in
pochi mesi.
realtà, la magistratura non può avere
consenso, perché è destinata a scontentare qualcuno: l’imputato, i suoi
familiari, i suoi avvocati. Anche nel civile, c’è sempre una parte che perde. La
prova sono i regali di Natale. I burocrati
ne ricevono. I politici pure. I magistrati,
almeno quelli che conosco io, no».
Questo non significa che la giustizia
italiana funzioni. Anzi, la sua lentezza
e la sua incertezza sono tra le principali
cause che scoraggiano gli investimenti
stranieri in Italia. Semplicemente, la
via imboccata dal governo non è quella
giusta, almeno secondo un ex magistrato che dopo aver fatto il giudice a latere nel maxiprocesso ha guidato prima
la procura di Palermo, poi la procura
nazionale antimafia. Grasso non crede
alle composizioni extragiudiziali, in
particolare ai collegi arbitrali formati
da avvocati, su cui punta molto il ministro della Giustizia Andrea Orlando
(Partito democratico). «Non posso
entrare nel merito dei provvedimenti: il
presidente del Senato non deve soltanto
essere imparziale, deve anche apparire
imparziale – ha detto Grasso. Faccio
solo notare una cosa: si parla di mezzi
che esistono già. E in molti casi non
funzionano. Si può anche mettere un
termine entro cui decidere: ma se non
lo si rispetta, cosa succede? Chi vince
la causa, chi la perde?». Per Grasso si
tratta semmai di limitare gli appelli e i
ricorsi in Cassazione; insomma, di fare
meno processi, e solo per i reati davvero
gravi, causa di allarme sociale, di intralcio all’economia, di sopruso sui più
deboli, di corruzione, di radicamento
socio-economico delle mafie. E per garantire gli innocenti occorre creare un
sistema di pesi e contrappesi che limiti
gli errori giudiziari: «Nei Paesi anglosassoni il sistema è tranchant: il giudice
stabilisce solo se l’imputato è colpevole
o no. Ma appena una piccola percentuale dei casi sfocia in un processo e in
una sentenza. Solo in Italia i processi si
fanno tutti, perché abbiamo l’assoluta
obbligatorietà dell’azione penale».
Insomma, Renzi e Orlando hanno
materiale su cui riflettere. Ma ci sono
cose positive che Grasso ha detto. Ad
esempio sul Sud. Il presidente del Senato è convinto che se ci fossero i mezzi
per una grande operazione di ripristino
della legalità, la stragrande maggioranza dei cittadini del Sud la appoggerebbe. È una convinzione che condivido.
partecipato…), così ricordo Stoccarda
e Karlsruhe, ma anche l’assenza di
Berlino o Dresda, tra le offerte turistiche tedesche. Per la Francia c’è Parigi,
ricordo anche Digione, però l’assenza
di Lione o della Bretagna suscita perplessità. Chiaro e anche comprensibile
che il sondaggio cerchi di «schivare» la
vicinanza di aeroporti serviti da Zurigo
o Basilea. Ma la qualità del sondaggio,
soprattutto per quel che riguarda le
finalità e le eventuali scelte o cambiamenti che le FFS potrebbero dedurre
dai risultati, a mio avviso va a farsi
benedire.
Comunque siamo sul treno, e FFS
e sondaggisti ne approfittano compiendo un giro di 360 gradi con una
domanda (l’ho copiata) che, scordando i contenuti internazionali, chiede
all’interlocutore di «immaginare che
le ferrovie stanno programmando di
migliorare il confort di viaggio. Quali
migliorie ritiene a suo parere più
importanti?». Due le opzioni: miglio-
rare la comodità del viaggio (comfort
dei treni e dei sedili, disponibilità di
posti a sedere), oppure migliorare i
tempi di viaggio (durata, acquisto
semplificato dei biglietti, sfruttamento
del tempo durante il viaggio). Io ero
decisissimo: avrei voluto chiedere
entrambe le migliorie, soprattutto per
i treni che viaggiano sulla linea del
Gottardo (eternamente vecchiotti e,
un po’ come certi cavalli, «inviati in
riserva» in attesa che sopraggiunga
la fine) visto che costano esattamente come i confortevoli convogli che
sfrecciano sull’Altipiano e rispettano
le coincidenze. Ho anche provato, ma
era impossibile: il sondaggio accettava
una sola risposta ed è già bello che non
sia apparsa la scritta «Non sono mica
scemo»! Non rammento per quale delle due alla fine ho votato. Ricordo però
il messaggio che ho subito desunto dal
sondaggio: le FFS del futuro miglioreranno o i tempi di viaggio o la comodità. Non tutt’e due.
In&outlet di Aldo Cazzullo
Piero Grasso e la sua giustizia
Da qualche settimana cercavo un’intervista importante per il primo,
«storico» numero del «Corriere» in
formato ridotto. Un numero destinato
a restare nelle bacheche, per il quale era
importante contattare un personaggio
non banale che dicesse cose non banali;
e converrete con me che nella politica italiana non è un obiettivo facile
da raggiungere. Il problema me l’ha
risolto il presidente del Senato, Piero
Grasso (nella foto), che qualche giorno
prima avevo intervistato in pubblico su
un’isola al centro del lago Trasimeno.
Era un contesto campestre, familiare,
senza altri giornalisti che potessero
riferire in diretta quel che Grasso
andava dicendo. Così si è lasciato
andare ai racconti, quasi alle confidenze: «Al maxiprocesso sono stato 35
giorni senza uscire dall’aula bunker
dell’Ucciardone e senza comunicare
con nessuno, neppure con la famiglia.
Mia moglie sapeva che ero vivo perché
arrivava a casa la biancheria sporca da
lavare. Poi sono stato otto mesi chiuso
a scrivere la sentenza. Un isolamento
che all’epoca mi costò il rapporto con
mio figlio Maurilio, che aveva 14 anni,
e non accettò la mia sparizione. Si tratta
di un caso eccezionale. Ma è evidente
che il vero problema della giustizia
italiana non sono le ferie». Da qui
l’idea di riprendere la conversazione
sul «Corriere», e di approfondire non
solo la sua storia, ma il suo pensiero sui
cambiamenti che Renzi sta apportando
alla politica italiana.
Grasso non ha avviato un’operazione
contro il presidente del Consiglio. Ha
tenuto a precisare di avere con lui un
ottimo rapporto istituzionale, anche se
non personale («uso poco sms e twitter,
abbiamo ancora una sfida a calcetto in
sospeso»). Ma ha smontato una delle
due riforme qualificanti del governo
(l’altra è quella del mercato del lavoro):
la riforma della giustizia. La magistratura, sostiene il presidente del Senato,
viene raffigurata come una classe che
ha potere e privilegi; ma ci sono giudici
che non hanno neppure l’ufficio. «In
Zig-Zag di Ovidio Biffi
Quel che le FFS sono e… saranno
Non è mai per caso, e nemmeno per un
segno del destino, se un’email vi invita a
partecipare a una ricerca di mercato. È
il marketing, bellezza. Il mio acquisto,
un viaggio in treno organizzato online,
dev’essersi incrociato con le strategie di
un sondaggio elettronico introdotto da
questa motivazione: «Le FFS si stanno
operando (Ndr. Proprio così! O è erroraccio o un’operazione è già in corso!)
per migliorare la loro offerta in merito
ai viaggi internazionali. Vorremmo
pertanto sottoporle alcune domande
per conoscere meglio le sue esigenze
e la sua opinione». Niente di male a
contribuire a una delle più importanti
e benemerite imprese statali. Errore
e impudenza dell’email finiscono in
secondo ordine, e… mi ci butto.
Si entra subito in argomento, i viaggi
internazionali. Mi fa specie la strategia,
visto che (solo per i ticinesi?) il sondaggio ruota attorno a un’offerta strana:
Monaco di Baviera. Chi già ha visitato
la Baviera, sa che la sua capitale non
è proprio una metropoli e nemmeno
un pozzo di attrattive turistiche. Ma
forse l’arte del Maigret al servizio delle
FFS inizia da lontano e vuole agire in
modo soft. Infatti chiede un giudizio
sulla pubblicità che le FFS fanno per i
viaggi internazionali e segnatamente
per Monaco, ovviamente in treno. Così
il dubbio prende un’altra connotazione:
vuoi vedere che le FFS indagano per
vedere come stanno le cose in merito
al servizio di bus tedesco che collegherà Lugano e Bellinzona alla capitale
bavarese? (La notizia era stata presentata come una sfacciata concorrenza
alle ferrovie, ma nessuno ha detto che
a Zurigo, e proprio verso Monaco, da
gennaio è già in attività un servizio di
autobus Intercity offerto dalle FFS!). La
domanda del sondaggio è per misurare
l’efficacia della pubblicità. Nel fotomontaggio (su web e affissioni) si vede
lo scompartimento di un treno con una
coppia di giulivi e giovani passeggeri
seduti ai lati del finestrino del treno da
cui si scorge una chiesa, verosimilmente di Monaco. Non essendo proprio un
monumento (come sarebbe la cupola di
S. Pietro a Roma) potrebbe valere anche
per S. Gallo o addirittura per Zurigo
per quel che uno normalmente ricorda
di edifici religiosi. La gentilezza mi suggerisce di non infierire e nel sondaggio
mi limito a segnalare mancanza di creatività grafica e debolezza del richiamo
relativo a Monaco o alla Baviera.
L’inchiesta prosegue con domande
relative a eventuali visite in treno, in
aereo o in auto di varie città europee,
condecorate da motivazioni personali
per le scelte o le indicazioni date. Ma,
oltre a quel Monaco iniziale, ti accorgi
che qualcosa non quadra nelle offerte.
Se per l’Italia l’elenco è abbastanza
esauriente, visto che con Torino e Milano compaiono anche Venezia, Bologna,
Firenze e Roma, per la Germania e la
Francia siamo a terra. Non ho memorizzato esattamente tutte le città
(impossibile riaprire il link dopo aver
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Risveglia la tua bellezza.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino¶29 settembre 2014¶N. 40
35
Cultura e Spettacoli
Presentato Lugano Modern
Musica per ogni gusto, appetito
e desiderio, ecco quanto si
prefigge il nuovo programma
Il ritorno dei Queen
Per tutti gli ammiratori di una band
che ha fatto la storia musicale
del Novecento, un nuovo CD
Libri fini a sé stessi...
... ma di immenso valore: la
Biblioteca cantonale
di Bellinzona espone libri d’arte
pagina 37
Il ritorno di Sin City
A colloquio con Frank Miller,
a Roma per promuovere l’atteso
Sin City 3D – Una donna per cui
uccidere.
pagina 39
pagina 36
pagina 38
Alex Dorici
Installation Rope.
204 metri, 2014
corda rossa,
dimensioni
variabili
(© Courtesy
Buchmann Galerie
Agra /Lugano and
Alex Dorici; foto:
Cesare De Vita).
L’arte corre sul filo
Mostre Quattro artisti si confrontano negli spazi della Galleria Buchmann
Alessia Brughera
È un’indicazione ben precisa quella che
ci fornisce il titolo della mostra allestita
alla Galleria Buchmann di Agra e Lugano: seguire il filo del discorso. Il filo
intesse trame, crea legami, traccia percorsi. Si muove attraverso spazi reali e
astratti, lungo tragitti fisici e mentali. E
il suo dipanarsi è fatto proprio per essere seguito, rincorso, esplorato.
Questo concetto diventa il filo conduttore attorno a cui ruota la mostra,
il filo rosso che accomuna le opere degli artisti, il filo d’Arianna che guida lo
spettatore.
Qui vediamo il filo farsi matassa
ingarbugliata che racchiude distanze
e relazioni, dissolversi lentamente manipolato da un’immagine fotografica,
dispiegarsi per costruire nuove forme
nello spazio, disporsi scrupolosamente
sulla stoffa per narrare storie.
Ad accoglierci nella prima sala
della galleria di Agra sono le Matasse
dell’artista italiano Alberto Garutti, due
voluminosi grovigli di filo di poliestere
la cui lunghezza equivale alla distanza
reale tra due luoghi coinvolti concettualmente nell’opera stessa. Se una delle
matasse venisse sbrogliata, misurerebbe
esattamente 971 chilometri (come il titolo dell’opera non manca di precisare),
ovvero quelli che intercorrono tra Agra
e Berlino, dove si trovano due delle sedi
della Galleria Buchmann. Garutti porta
in questo viluppo di filo tutta la fisicità
dello spazio ma anche la vicinanza personale con il suo committente, come se
anche la trama di relazioni tra sé stesso e
gli altri diventasse concreta.
È invece un filo d’inchiostro quello che ordisce senza mai interrompersi
un fitto percorso lungo tanto quanto il
tracciato tra due punti della città di Lugano. Si tratta di una stampa digitale di
Garutti dal titolo Ho camminato lungo
il lago per 374 metri dalla fermata centrale del battello all’ingresso del parco
Ciani, opera in cui la perlustrazione e il
contatto fisico con il territorio vengono
accostati all’immancabile dimensione
privata della sua esperienza di vita.
La sala successiva presenta alcuni lavori del fotografo ticinese Marco
D’Anna. Dapprima troviamo esposte
alcune istantanee in cui l’artista immortala fili in tensione tra gli ingranaggi dei telai che, come raggi luminosi intrisi di energia, attraversano la
superficie creando leggere architetture
di luce e colore. Poi è la volta di Visibilio,
una serie fotografica composta di sette
scatti in cui due rocchetti di filo appaiono inizialmente ben definiti per poi
perdere pian piano la loro nitidezza e divenire evanescenti macchie cromatiche.
Il mezzo fotografico cerca di superarsi,
prova a sfidare la pittura indagando il
confine tra dato oggettivo e percezione
immaginifica per vedere fino a che punto la realtà riesce a preservare se stessa.
La sequenza è una sorta di passaggio,
di conversione, in cui il rapporto mimetico con il reale e la sua riproduzione
fedele, peculiari caratteristiche della fotografia, vengono lentamente abbandonati per trascendere l’elemento cosciente e distaccarsi dal mondo sensibile. La
materia si trasforma così in visione.
Di un filo assolutamente concreto
si serve invece l’artista luganese Alex
Dorici per le sue due installazioni realizzate negli spazi esterni della galleria.
Qui è una corda di colore rosso spessa e
resistente, di quelle utilizzate in ambito
navale, che, passando per asole e fissaggi, intesse geometrie essenziali donando una nuova identità all’architettura
con cui interagisce. In entrambi i lavori
è presente la grossa bobina da cui si diparte la corda, a sottolineare l’origine
di un percorso che ridisegna l’intero
spazio secondo nuove direzioni, nuove dimensioni a cui lo spettatore può
accedere diventando parte integrante
dell’opera. Nella serra del giardino della galleria, caratterizzata da trasparenza e leggerezza, l’artista ha progettato
un intervento più elaborato: un unico
filamento che traccia circuiti inediti
interfacciandosi con i punti strategici
della struttura. Per il secondo ambiente, questa volta dominato dalla solidità
del cemento, Dorici ha pensato invece a
un approccio più minimalista in cui la
corda ridefinisce con discrezione le superfici esaltandone il dinamismo.
Il filo del discorso prosegue nello
spazio Buchmann di Lugano, dove è
stata chiamata a esporre l’artista francese Véronique Arnold. Come una moderna copista, ha dapprima trascritto
e poi ricamato pazientemente su due
tele di lino bianco alcuni estratti dal
romanzo Utopia di Thomas More e una
poesia di Paul Celan tratta dalla raccolta Fadensonnen. I tessuti su cui ha
lavorato diventano una sorta di grandi
manoscritti miniati in cui il testo me-
ticolosamente ricopiato viene commentato e impreziosito da immagini e
figure fantasiose che scaturiscono dalla
vivida mente dell’artista. Il filo tesse qui
un profondo vincolo con la tradizione
del passato, con la pratica artigianale
svolta con perseveranza attraverso gesti
antichi e autentici.
Goethe nel suo romanzo Le affinità
elettive parlava in termini marinareschi di un filo rosso che passava attraverso ogni tipo di fune, dalla più robusta alla più sottile, senza il quale la fune
stessa si sarebbe sfaldata. Questo filo
significava legame, continuità, guida.
E, sarà un caso, ma nelle opere di tutti
questi artisti non manca mai del filo
rosso.
Dove e quando
Seguire il filo del discorso. Buchmann
Galerie di Agra. Fino alla fine di
dicembre 2014. Buchmann Galerie
di Lugano. Fino alla metà di ottobre
2014. Orari Agra: ma-ve dalle 13.00
alle 18.00. Orari Lugano: ma-sa dalle
13.00 alle 18.00.
www.buchmanngalerie.com
[email protected]
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino¶29 settembre 2014¶N. 40
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Cultura e Spettacoli
Realini per ora
non convince
Visti in tivù Nelle prime puntate de
Il gioco del mondo è apparso contratto,
deve sciogliersi
Il trio
Rom-SchaererEberle
(Festival
Oggimusica,
11 ottobre
al Teatro Foce).
Da Ulisse al beatbox
Musica Presentato il calendario di Lugano Modern,
che inizia mercoledì con il Festival Oggimusica
Zeno Gabaglio
È stata una piccola parentesi aperta su
quello che potrà essere, su quello che
dovrà essere e su quello che in definitiva sarà il nuovo quartiere (o quartiergenerale?) della cultura luganese e in
parte anche cantonale. Ci riferiamo
alla conferenza stampa tenutasi qualche giorno fa nel chiostro dietro la
Chiesa di Santa Maria degli Angioli,
accanto al LAC e ancora fresco di restauri conservativi – in verità rivelatisi
scopritivi – e di odor d’intonaco. Una
porta sul futuro che si è aperta giusto il
tempo di presentare la nuova programmazione di Lugano Modern, la stagione musicale che più e meglio di tutte
ha già messo in atto quelle sinergie tra
operatori del territorio che, in una pianificazione condivisa ma non omologante, sole possono tracciare la via
verso uno sviluppo culturale urbano al
passo coi tempi.
Oggimusica
Concorsi
Si comincia il primo d’ottobre con il
festival «Enlarge your ears» proposto
dall’associazione Oggimusica. Fondata nel 1977 si tratta del decano – in
un gruppo peraltro sparuto – tra gli
enti che da sempre hanno invitato il
pubblico a un ascolto curioso, oltre gli
steccati di genere e le consuetudini musicali. Personaggi come Philip Glass,
Karlheinz Stockhausen, Steve Reich,
Egberto Gismonti, Fred Frith, Laurie
Anderson, Iva Bittova o Irène Schweizer difficilmente in Ticino avrebbero
potuto trovare altra ospitalità. E que-
sta tradizione si rinnova all’insegna
dell’attualità scolpita nel nome dell’associazione: musica elettronica, musica
contemporanea scritta, cantautorato
punk, jazz elettrico, virtuosismi vocali venati di beatbox e un’improfiaba
– Il viaggio di Ulisse – pensata solo per
bambini, attraverso il magico mondo
sonoro, tattile, olfattivo e gustativo del
grande Odisseo.
Novecento e presente
Ritorna in Lugano Modern anche Novecento e presente, la stagione – da
sempre sostenuta dal Percento Culturale Migros Ticino – dedicata alle
musiche del Novecento storico con
propaggini estese fino all’attualità. E lo
fa ora con un accattivante programma
declinato all’appartenenza culturalnazionale di alcuni tra i più grandi
musicisti del secolo scorso. Così per il
concerto Swissness ci saranno opere di
Klaus Huber, Carlo Florindo Semini e
Giorgio Bernasconi (sì proprio il compianto fondatore della manifestazione,
famoso come direttore d’orchestra e da
scoprire nel ruolo di autore); per Americanness ci saranno invece Ives, Copland e Gershwin; per Italianness una
monografia dedicata a Luciano Berio;
per Austrianness Arnold Schönberg
(dodecafonia!). E come conclusione
fuori tema, la possente messinscena
– con Conservatorio, SUPSI e Teatro
Dimitri riuniti nell’impresa – del Satyricon di Bruno Maderna.
Orario per le telefonate:
dalle 10.00 alle 12.00.
neon&caffeine
Si tratta dell’unica rassegna di musica
È l’ultimo venuto nella famiglia degli
appuntamenti Lugano Modern, e come
ogni giovane virgulto porta con sé una
forza innovativa a tratti anche dirompente. Raccogliendo il testimone di
Lanterna Rossa – la fortunata serie di
spettacoli che negli scorsi anni era riuscita a mischiare le carte della percezione e della fruizione di musica nuova
– neon&caffeine non mette al proprio
centro l’opera musicale (o forse finge di
non farlo) ma crea degli eventi attorno
a personaggi viventi dall’alto potenziale di interesse ma che col mondo della
musica hanno poco a che fare. Salvo poi
lasciar emergere vicinanze empatiche
e suoni suggestivi per offrire un’esperienza autenticamente inedita.
La Via Lattea
Percorso musicale
Vari luoghi del Sottoceneri
Do 5.10.2014 e Do 12.10.2014
Festival delle Marionette
Rassegna teatrale
Teatro Foce, Lugano
Fino al 10 ottobre
Gwenstival
Festival radiofonico
Vari luoghi
Dal 6.10.2014 al 10.10.2014
Tra jazz e nuove musiche
Rassegna di Rete Due
Jazz in Bess, Lugano
Mercoledì 8 ottobre, ore 21.00
Secondo e Terzo movimento
Sa 4.10, ore 15.00
I viaggiatori della giostra
Quinta edizione: Radio Maps
Atomic
Festival Internazionale di Musica e
Radiofonia in cui verrà cartografato
sonoramente il mondo nel quale
Radio Gwen si muove, riunendo le
conoscenze artistiche e umane creando una rappresentazione simbolica
ma veritiera di informazioni.
Fredrik Ljungkvist, sassofoni, clarinetto
Magnus Broo, tromba
Håvard Wiik, piano
Ingebrigt Håker Flaten, contrabbasso
Hans Hulbækmo, batteria
Swiss Chamber Concerts
Secondo Movimento:
Partenza da Melide Pontile, domenica 5/10, ore 11.00–18.00 circa.
Musiche di Bach, Berio e F. Zappa.
Terzo Movimento:
Partenza da Auditorio RSI, domenica
12/10, ore 10.30–18.20 circa.
Musiche di Pagliarani, Nono, Berio,
Pesson.
www.lavialattea11.ch
091/821 71 62
da camera trasversale rispetto a tutta
la nazione e che, ormai da anni, si trova
ad unire – in un gesto di condivisione
non soltanto simbolica – le città di Lugano, Basilea, Ginevra e Zurigo. Ma,
per fortuna, la specificità degli Swiss
Chamber Concerts non è solo questa,
quanto piuttosto il fatto di creare programmi che pongono in un confronto
diretto (dialettico, a volte rude, a volte
delicato, sempre e comunque fertile)
la musica propriamente classica da un
lato, le produzioni moderne e contemporanee dall’altro. Il tutto affidandosi
a un parterre di interpreti tra i migliori
in Svizzera ma non solo. E anche per la
nuova stagione potremo ascoltare musicisti quali Heinz Holliger, Ilja Gringolts, François Benda, Esther Hoppe,
Diego Chenna o Daria Zappa.
È iniziata poche settimane fa la nuova stagione de Il gioco del mondo, il
programma di interviste condotto da
Damiano Realini, in sostituzione di
Maurizio Canetta (RSI La1, domenica,
ore 19.20). L’idea è quella di raccontare di volta in volta un personaggio,
attraversandolo anche nel suo animo
più profondo, secondo le modalità dei
giochi di percorso basati sul lancio
dei dadi, cioè sul caso. In studio c’è un
grande tavolo con un piano dove sono
riprodotte le stazioni della vita: ad ogni
casella corrispondono avvenimenti e
situazioni come la scuola, il cinema, i
libri, le amicizie, gli amori, eccetera. Ci
sono sei pedine ispirate ai tarocchi, c’è
l’azzardo naturalmente rappresentato
da un colpo di dado. L’ospite si fa precedere dalle note di La vita è bella di Roberto Benigni, poi sceglie una pedina e
così comincia la sua avventura.
Quando abbiamo recensito per la
prima volta Il gioco del mondo, più di
un anno fa, accennavamo alla resa televisiva. Da questo punto di vista, il programma non ha nulla da invidiare al
defunto Controluce. Ma, come il defunto Controluce, il suo successo dipende
dagli ospiti e dal conduttore. Sui primi
ci esprimeremo a stagione inoltrata, per
ovvi motivi. Ci concentriamo dunque
sul secondo. In passato il programma
aveva una certa godibilità perché sorretto dalla bravura di un conduttore
molto abile nello scandagliare psicologie più o meno indulgenti, nel frugare
le menti, mescolare i piani del discorso,
tessere storie. Oggi non ce l’ha più perché, per quanto visto finora, dalle prime
puntate di settembre, Realini ti lascia
subito addosso un senso di scoramento.
Non è colpa sua, è colpa di un volto sempre contratto, di uno sguardo sempre
dolente. Quella di Realini non è la faccia più stimolante per passare quaranta
minuti piacevoli davanti alla tv: mai un
sorriso, mai una briciola di brio, mai
un sussulto di vita. Una settimana fa
Alain Messegué, guru del benessere, ha
raccontato di aver trovato il coraggio di
reagire a un momento buio. Bene, bravo. È successo anni addietro, ma il volto
di Realini non smetteva di denunciare
smarrimento. Diamo per scontata l’emozione del nuovo conduttore, abituato
a interpretare ruoli meno definiti, ma
per ora tutto ruota attorno alle tenebre.
Le tenebre predispongono al peggio lo
spettatore.
Antonella Rainoldi
Compagnia Angeles de Trapo
Do 5.10, ore 11.00
Magico teatro d’ombre
Con Valeria Guglietti
In collaborazione con Associazione
Jazzy-Jams e con Radio Gwen.
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1 ottobre al numero sulla sinistra nell’orario indicato.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino¶29 settembre 2014¶N. 40
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Cultura e Spettacoli
In nome dei Queen
Musica Una ristampa che giunge dai primi anni
di carriera degli indimenticati Queen ci ricorda in cosa davvero
consiste l’assoluta eccellenza live di una rock band
Benedicta Froelich
Per gli appassionati dei grandi nomi
del rock angloamericano emersi tra
gli anni 70 e 90, forse nessuna annata
si è rivelata prodiga di sorprese quanto
quella in corso: il 2014 ha infatti già al
suo attivo numerose pubblicazioni di
incisioni inedite riesumate dagli archivi
più disparati, tanto che sarebbe legittimo chiedersi quanto materiale le case
discografiche abbiano effettivamente
mantenuto nascosto nei propri cassetti,
con l’obiettivo di pubblicarlo decenni
dopo con la scusa di un anniversario
particolarmente significativo. E se quasi
nessun nome storico è rimasto immune da simili operazioni, tantomeno ciò
poteva accadere con una band amata e
fortemente rimpianta come la formazione britannica dei Queen – che, dopo
la prematura morte del leader e cantante Freddie Mercury (1991), ha perlopiù
vissuto di ricordi e ristampe. Eppure, il
gruppo londinese ha costituito un vero
e proprio terremoto all’interno della
scena rock a cavallo tra gli anni 70 e 80:
non soltanto grazie all’incredibile voce
e indiscusso carisma del suo inimitabile
frontman, ma anche per via di una connotazione stilistica talmente particolare
da lasciare perplessi (e perfino indignati) molti attempati critici musicali. Infatti, man mano che il sound della band
passava dalle sfumature hard rock alle
commistioni con atmosfere quasi da
musical (a tratti addirittura da vaudeville, come dimostrato da A Day at the
Races, 1976), il repertorio dei Queen
si faceva assolutamente inconfondibile – tanto che, a molti anni di distanza
dal periodo di massimo successo, gli
imitatori si contano sulle dita di una
mano: semplicemente, è troppo difficile, se non impossibile, ambire alle vette
toccate dalla formazione in termini non
soltanto artistici e stilistici, ma anche di
resa dal vivo.
All’interno della scena
musicale internazionale,
i Queen scatenarono
un vero e proprio
terremoto
Lo dimostra, una volta di più, la nuova
pubblicazione Live at the Rainbow ’74:
un raffinato doppio album (disponibile anche come box set e DVD blu-ray)
che racchiude le registrazioni integrali
e perfettamente rimasterizzate di due
show tenuti dai Queen presso il celebre
Rainbow Club di Londra nel marzo e
novembre 1974, nell’ambito di due differenti tour – il primo dei quali seguiva
l’uscita del secondo album del gruppo,
intitolato semplicemente Queen II,
mentre il successivo, risalente ad appena pochi mesi dopo, rappresentava già
il follow-up del suo travolgente successore, Sheer Heart Attack. Come prevedibile, il quarantennale di questa tournée è divenuto l’occasione perfetta per
dare alle stampe cotanto prezioso materiale inedito; e per quanto il pretesto
possa a prima vista apparire scontato,
bisogna ammettere che questo è uno
dei rari casi in cui risulta effettivamente difficile comprendere per quale motivo una testimonianza così cruciale
della storia del gruppo sia rimasta tanto a lungo inedita. La scelta di pubblicare due show cronologicamente così
vicini non denota perciò presunzione,
poiché le tracklist dei concerti mostrano due lati essenzialmente differenti
dell’opera dei Queen – il che, del resto,
riflette i vertiginosi ritmi creativi di cui
la formazione era capace. Così, laddove
il concerto del marzo ’74 concentrava
la propria scaletta essenzialmente sui
primi due album della band, a distanza
di pochi mesi Mercury e compagni già
prediligevano suggestioni differenti,
in cui l’eccellenza tecnica risultava ulteriormente enfatizzata; ed è una gioia
riscoprire queste tracce, poiché quella
ritratta in Live at the Rainbow è una
band agli albori della propria stessa
leggenda, ma già contraddistinta da
una finezza interpretativa più unica
che rara per una formazione così giovane. Tanto che l’innegabile, incredibile energia e vitalità che i Queen
sprigionano dal vivo passa quasi in
La copertina del doppio album dei Queen.
secondo piano davanti all’intensità e
maturità delle singole esecuzioni – in
una maestria che brilla non solo nei
«cavalli di battaglia» più scontati, con
i loro lunghi assoli di chitarra e indiavolate code strumentali, ma anche in
brani più delicati (come, ad esempio,
la ballata Father to Son e l’epico inno In
the Lap of the Gods). Allo stesso tempo,
ciò ci ricorda che i Queen degli esordi
non erano soltanto un gruppo dedito all’heavy rock, ma una formazione
già desiderosa di sperimentare nuove
contaminazioni stilistiche: lo dimostrano, tra l’altro, le inflessioni blues
di Son and Daughter e See What a Fool
I’ve Been, che già anticipano i Queen a
venire.
In questo modo, Live at the Rainbow ’74 diviene qualcosa di più del
classico tuffo nella nostalgia rispolverato dall’industria discografica in occasione di una ricorrenza strategica;
piuttosto, diviene un vero e proprio
«cimelio» di un momento chiave nella storia di uno dei più grandi e geniali
gruppi musicali di sempre – una band
che nelle sue esibizioni dal vivo ha
davvero rappresentato la quintessenza del rock, e che, proprio poco tempo
dopo queste registrazioni, ha avuto il
coraggio, se non addirittura la sfrontatezza, di avventurarsi su terreni
diversi e inesplorati, facendo del proprio, altissimo profilo qualitativo una
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Cultura e Spettacoli
Libri da vivere
Mostre Volumi d’artista alla Biblioteca cantonale di Bellinzona
Il mondo perduto
dell’innocenza
Cinema Con Eau argentée, Timbuktu
è il grande film politico di Cannes 2014
Gianluigi Bellei
Le biblioteche sono dei luoghi speciali, non solo perché racchiudono molto
dello scibile umano e a volte volumi di
rara bellezza e unicità, ma soprattutto
perché sono un elemento vivo della società e ne riflettono le idee, lo stile, gli
intendimenti. Nel mondo ce ne sono di
splendide, dalle antiche e incantevolmente suggestive, come la Herzogin
Anna Amalia Biliothek di Weimar o
la Národní knihovna di Praga, alle più
moderne e lineari come la Bibliothèque
nationale de France François Mitterrand. Quello che forse è importante,
come ha sostenuto Umberto Eco in una
conferenza del 1981, è che oltre ad essere un modello dell’universo siano pure
a misura d’uomo e magari gaie con la
possibilità di prendere un cappuccino e
per due studenti «di sedersi sul divano e,
non dico darsi a un indecente amplesso,
ma consumare parte del loro flirt». La
Biblioteca cantonale di Bellinzona ha un
atrio luminoso, con un bar, dei tavolini,
delle poltrone per iniziare o continuare
la giornata in forma gradevole, prima
magari di accedere all’Archivio di Stato.
L’atrio è la sede della mostra che presenta una serie di libri d’artista del collezionista milanese Marco Carminati.
I libri d’artista sono volumi particolari con una tiratura limitata o addirittura editi in una sola copia. Quello
che li caratterizza è l’amore per l’individualismo inteso come approccio personale a un oggetto che va tenuto tra
le mani con una sorta di religiosità per
sentirne con il tatto le rugosità della
carta o del supporto, muoverlo e aprir-
Fabio Fumagalli
**** Timbuktu, di Abderrahmane
Sissako, con Ibrahim Ahmed, Hichem
Yacoubi (Mauritania – Francia 2014)
Uno degli
esemplari
di libro in mostra
a Bellinzona
fino al 4 ottobre.
lo per scoprirne il contenuto che non
sempre è solo scritto. Più che un libro
vero e proprio è un oggetto da guardare, annusare, scoprire. A Bellinzona ne
sono esposti 50 + 1, lungo un periodo
di tempo che va dal 1963 ad oggi, uno
per ogni anno. Ne citiamo alcuni: l’esemplare unico The surprise di Mirella
Bentivoglio del 1986, la tavoletta di Ugo
Nespolo per Campari del 1990, gli Scritti su acetato di Mauro Ceolin del 1992 e
l’esemplare unico di Emily Joe Proletaritudo del 1998 con interventi di piombo, lacca, resina, foto e lenti Zeiss. Ma
quello maggiormente intrigante è probabilmente il Libro di Aldo Spinelli del
1973. Un volumetto estremo che non
racconta nulla se non sé stesso e come è
stato realizzato. Dai primi incontri con
il tipografo, al tipo di carattere usato,
al corpo, all’interlinea. Solo (?) questo,
dall’inizio alla fine in una sorta di autoreferenzialità che sfiora l’autismo e
contemporaneamente si raffigura in un
autoritratto di parole, materialissimo,
che prende forma e vita nella banalità, o
nell’eccezionalità, del procedimento.
Una parte delle opere è chiusa dentro teche trasparenti e altre, al contrario, sono esposte su bassi tavolini, libere
e consultabili, apribili, maneggiabili,
con appositi guanti, da tutti. Si è così
sfatato il mito dell’opera d’arte irraggiungibile e per pochi eletti, protetta da
vetri improfanabili. Ai lati diverse schede illustrano i libri con spiegazioni e
aneddoti come quella che commenta la
genesi di Parlar m’è dolce alle stelle, con
le incisioni di Stefania Scarnati e le poesie di Elena Santoro Favettini del 2008;
perfino poetica quando troviamo l’artista dentro un sacco a pelo abbracciata di
notte alla nipotina Giada che mormora:
«Nonna, ma le stelle sanno di essere così
belle?».
Bello anche il quaderno che accompagna e illustra le opere in mostra: ultimo lavoro del grafico collaboratore della Biblioteca Chris Carpi, recentemente
scomparso.
Figura di riferimento sempre più attuale
del cinema africano, ma avaro di lungometraggi dal 2006 dell’originalissimo
Bamako, con Timbuktu Abderrahmane
Sissako ritorna da quello che fu un centro di civiltà straordinaria, di riflessione
filosofica e ricerca scientifica, ricostruito oggi in un piccolo villaggio sperduto
ai confini fra la Mauritania e il Mali. Il
suo film è corale, insolito ed eclettico,
specialmente per un cinema come quello della tradizione africana, abituato al
racconto lineare della favola. Timbuktu
presenta un procedimento splendido e
feroce per la forza poetica di certe sue immagini sublimi e per una denuncia morale e politica priva di ogni ambiguità.
Le spoliazioni colonialiste, le lotte
intestine indotte dalla miseria, e ora l’estremismo folle delle milizie jihadiste
giunte in parte dalla Libia, hanno trasformato la serenità dei ritmi del Sahel
nell’insensata violenza raccontata dal
film. Niente più fumo, finito il gioco del
calcio, proibite canzoni e danze; non più,
in particolare, una condizione sociale
accettabile per la donna. In loro vece,
l’opposizione degli estremisti a una religione islamica ragionevole, l’incomprensione crudele fra uomini della stessa
terra. Che, per capirsi fra di loro, sono
costretti a parlare in inglese. Infine, la
vicenda portante del film, quella di Kidane, che vive nella distesa di sabbia che
fa da cornice infinitamente armoniosa al
villaggio, che nella tenda riesce ancora a
suonare la chitarra per la sua famiglia di
pastori poiché nessuno, una volta calata
la notte, se ne accorge. È sereno Kidane,
anche se non proprio fiducioso; perlomeno fino al dramma, quando una delle sue
vacche travolgerà le reti del pescatore che
gli vive accanto.
L’armonia di una vita che ancora
sopravviveva agli stenti, la tenerezza
ingenua ma sempre più consapevole
nell’intimità famigliare del protagonista,
Sissako le esprime grazie al magistero
squisito della propria visione. L’eterna
orizzontalità dei paesaggi, la fluidità
continua dei movimenti di macchina, la
vicinanza con gli attori colti fra la gente.
Ma anche la fuga nel meraviglioso, la realtà che muta in astrazione; e che da sempre appartiene alla sua cultura.
Così, la memorabile partita di calcio
senza pallone fra i ragazzi del villaggio,
più che un rinvio colto alla celebre partita di tennis in Blow Up di Antonioni,
è una squisita pantomina di sfida nei
confronti dell’ottusità degli aggressori.
Visione poetica di un mondo in violenta
mutazione, antologia inedita di comportamenti umani, esigenza incontenibile di
una rabbia non ancora disperata, Timbuktu si china su un mondo al quale calcolo, crudeltà e ignoranza impediscono
l’accesso ai tempi moderni.
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Cultura e Spettacoli
Gli eroici antieroi di Miller
Cinema Il disegnatore e fumettista Frank Miller ha lavorato insieme al regista Robert Rodriguez
per l’atteso sequel del film cult Sin City
Blanche Greco
«Marv è un vero barbaro, ma con un
bell’impermeabile!» dice ridendo
Frank Miller, incontrato a Roma, con
Robert Rodriguez, nelle vesti di autore
e di regista, di Sin City 3D – Una donna per cui uccidere. Il grande disegnatore americano, il creatore di eroi ed
anti-eroi di eguale forza e personalità
e di storie indimenticabili, tra le quali Il ritorno del Cavaliere oscuro, 300 e
Sin City, si sposta su una sedia a rotelle,
ma i suoi occhi non hanno perso quello
sguardo brillante, ironico e pericoloso,
che ha in comune con Marv, il suo protagonista più amato tra quelli che popolano Sin City. Frank lo disegnò a propria
immagine e somiglianza, quando pieno
di rabbia per come il cinema si appropriava delle storie dei fumetti, decise
di raccontarne una che non fosse possibile portare sullo schermo, dotando
Marv di un fisico di tutto rispetto. «Di
solito inizio a pensare a un personaggio
prendendo spunto dalla realtà. All’epoca, appeso al muro di fronte alla mia
tavola da disegno, tenevo un manifesto
con Conan il barbaro. Pensai che se gli
avessi infilato un impermeabile alla
Humphrey Bogart avrei ottenuto l’eroe
che cercavo. Marv è nato così». Al cinema, dove Robert Rodriguez è riuscito a
portare Frank Miller e tutta la «banda»
di personaggi di Sin City una prima volta con grande successo nove anni fa, e
poi di nuovo oggi grazie ad un ispirato
uso del 3D, Marv è un iconico Mickey
Rourke, irriconoscibile in quel ghigno
La locandina
del fim, che
sarà nelle sale
a partire dal 2
ottobre.
protervo e allo stesso tempo d’infantile divertimento, con quell’occhiata in
tralice così Milleriana. «Sin City è una
mappa, una città nella città, un luogo
dove succedono le mie storie criminali
che galleggia in ogni realtà urbana ideata per restare un fumetto. Ci ho messo
tutto quello che secondo me l’avrebbe
resa inaccessibile al cinema: molte storie, e troppi protagonisti e fuorilegge
fatti (come Sin City) del materiale dei
sogni e degli incubi. E senza Robert,
tutto sarebbe rimasto così». Ha detto
divertito Frank Miller che nelle vesti di
regista ha affiancato Robert Rodriguez
(El Mariachi, Desperado, Dal tramonto
all’alba) che con il 3D è riuscito nell’impresa di trasmettere al film quell’astrazione suggestiva che è la caratteristica
delle tavole di Sin City, ma anche tutti
quei dettagli e quelle informazioni che
Miller mette nei suoi disegni.
A chi gli chiede di Batman e del
film in uscita su questo super eroe che
molto deve alla sua fantasia, Frank Miller scuote la testa e dopo un veloce «no
comment» risponde così: «Grazie a Robert ho capito che si può fare un buon
film da un fumetto, “adattando” il cinema alle esigenze delle tavole disegnate e
alla creatività dell’autore e non, viceversa, come fa Hollywood».
In Sin City 3 D – Una donna per uccidere, c’è una scena dove si vedono delle mucche. Per quale ragione? Perché ci
sono anche nel libro. E poi, perché trovo
le mucche molto divertenti da disegnare
e quel luogo, dove ci sarà poi una sparatoria, io lo “vedevo” come un ranch». E
così il film è un prolungamento di quel
sapiente gioco di specchi che Miller ha
creato con il fumetto, capace di evoca-
re allo stesso tempo il romanzo «hard
boiled», il film «noir» francese e molto
cinema americano, dal Postino suona
sempre due volte, a Sunset Boulevard, resuscitando torbide storie di sentimenti
e tradimenti. Non vanno dimenticate le
sue «femme fatale», come la conturbante Ava, interpretata da Eva Green. «Ava
doveva essere la donna del mistero e la
quintessenza della seduzione. Quando
l’ho disegnata pensavo a Veronica Lake,
con un tocco di Marlene Dietrich, di
Rita Hayworth e Ava Gardner, ma con lo
sguardo gelido di Bette Davis. Le donne
di Sin City sono tutte belle e letali, e alle
volte, il film racconta le loro gesta, altre
illumina la loro anima grazie a tocchi di
colore che ci dicono quello che le immagini in bianco e nero non mostrano». Gli
occhi verdi di Ava che sprizzano perfidia, il suo vestito azzurro; la pelle candida e i capelli biondi dell’ingenua Marcie,
e le bocche rosse come il sangue delle varie protagoniste, in un film dai neri pastosi e densi, girato con pellicola a colori
e asciugato sino ad ottenere quel bianco
e nero del fumetto.
«Sì, è vero ci sono molti nudi femminili nel film, come nel libro del resto,
e sono belli e artistici e nessuna attrice
dopo aver letto il fumetto, ha avuto
niente da ridire, puntualizza Frank
Miller, e benché adesso tutte le volte
che mi metto a disegnare una storia, mi
venga in mente Mickey Rourke, e pensi
a come farne un film, sto in effetti lavorando ad un nuovo fumetto. Forse sarà
un’altra sfida con il cinema, o forse solo
con me stesso».
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Cultura e Spettacoli
Cultura e Spettacoli
L’ora della verità
e dei contenuti
Una radio jazz
da Chiasso
a Bellinzona
A fianco, sguardo
sulla hall del
LAC, nella pagina
accanto, la sala da
concerto e teatro.
(Keystone)
Rete Due La rassegna
RSI si apre stasera
con Pontiggia e Fresu
a Lugano
LAC di Lugano La realizzazione del più grande Polo culturale del Cantone
impegna gli attori in campo da ormai molti anni
tensioni tra la città e la Comsa, il gruppo spagnolo che ha gestito il cantiere
più chiacchierato dell’intero Canton
Ticino.
Un aumento di spesa reso ancora
più indigesto dal crollo del gettito fiscale in provenienza dalle banche, finite
nel maremoto degli scudi fiscali italiani, in un contesto di crisi finanziaria
generalizzata, con sullo sfondo la fine,
vicina, del segreto bancario. Certo, nel
2004 tutto questo non era facilmente
prevedibile. Sta di fatto che uno degli
obiettivi politici che si era dato il Consiglio comunale non è stato raggiunto:
quest’anno il moltiplicatore d’imposta
è stato portato all’80%, anche perché
sui conti della città pesano altri investimenti, legati in particolare alle aggregazioni. Con il senno di poi, una
più oculata scelta delle priorità cittadine avrebbe potuto impedire tutto ciò,
come del resto chiedeva dieci anni fa lo
stesso legislativo cittadino.
Roberto Porta
La quiete degli archivi comunali di Lugano conserva un documento che rappresenta una sorta di «prima pietra»
per quello che oggi noi tutti conosciamo attraverso l’acronimo «LAC». Non
si tratta di certo di una misteriosa pergamena storica o di un testo letterario,
ma semplicemente del rapporto con cui
il Consiglio comunale cittadino diede
il via alla realizzazione del nuovo cuore culturale di Lugano. Il testo è datato
primo dicembre 2004 e porta il titolo di
«Polo culturale, area Ex Palace». Il legislativo comunale lo discusse e lo approvò senza opposizioni, e con un solo astenuto, il 22 dicembre dello stesso anno.
Fu quello l’avallo politico definitivo per
il rilancio culturale della città, dopo che
dieci anni prima il comune aveva deciso
di acquistare l’area in totale abbandono
dell’ex albergo Palace, per un importo
di 30 milioni di franchi.
Da quel Natale 2004, il progetto si
è incamminato lungo un percorso che,
contrariamente a quella degli archivi, di
quiete ne ha conosciuta ben poca. Seppur scritto dieci anni fa, il documento
del Parlamento cittadino si snoda lungo una sorta di filo rosso molto vicino
alla realtà del presente, con numerosi
richiami e avvertimenti sulle possibili
difficoltà che la realizzazione del «LAC»
avrebbe potuto riservare. «È infatti evidente – vi si legge – che la decisione di
intraprendere questo investimento avrà
importanti influenze sia positive sia
portatrici di legittime preoccupazioni».
E più avanti: «Non nascondiamo che
le ripercussioni sui conti e sul bilancio
della città possono spaventare e preoccupare; a Lugano e in Ticino non vi è
mai stato un investimento nella cultura
proporzionalmente paragonabile. Ricordiamo che la Città, pur avendo esperienza in materia, non ha potuto evitare
in passato di incorrere in errori in operazioni molto meno onerose». Pur aderendo al progetto con il sostegno di tutti
La regola del «prudent
man» appare come
una sorta di bussola,
che forse porterà
nuova linfa alla città
i partiti – anche di quelli che più tardi
e spesso di domenica si sono ripetutamente scagliati contro l’intero investimento – il Consiglio comunale metteva
in guardia dai possibili pericoli, sottolineando in particolare un aspetto: la
realizzazione del LAC avrebbe potuto
comportare la rinuncia all’esecuzione
di altre opere. «Con questa decisione si
è, in altri termini, scelta la prima priorità della città», scriveva nel suo rapporto
la commissione della gestione del Consiglio comunale.
Insomma, il LAC andava considerato il primo progetto in assoluto, per
importanza economica ma anche politica e strategica. La richiesta di credi-
to – allora – fu di quasi 170 milioni di
franchi per la realizzazione della parte
pubblica del progetto. Un investimento
da affrontare, si legge ancora nel messaggio, «adottando i criteri di prudenza
conosciuti come the prudent man rule
così da contenere, nel limite del possibile, eventuali brutte sorprese che graverebbero pesantemente sul bilancio cittadino e sulle future generazioni». Già,
the prudent man rule, la regola dell’uomo prudente, che tiene conto delle spese
che dovrà affrontare e delle entrate che
gli permetteranno di rimanere perlomeno a galla.
In questa ottica il rapporto del legislativo comunale parla anche di un
aspetto scottante: «la Commissione
ritiene pertanto irrinunciabile porsi
chiari obiettivi politici. Uno su tutti, il
mantenimento dell’attuale attrattivo
moltiplicatore d’imposta al 75%, nel
quadro della socialità e della qualità di
vita finora assunti. Ogni decisione successiva dovrà pertanto essere rapportata a questo parametro». Le peripezie
del LAC ci dicono oggi che la «regola
dell’uomo prudente» è stata in questi
anni più volte disattesa. I costi globali sono aumentati, e si aggirano oggi
attorno ai 230 milioni di franchi. Un
incremento dovuto in particolare alle
tante modifiche e contro-modifiche
del progetto, con relative discussioni e
Un Polo unico e aperto
Il futuro del LAC A colloquio con Giovanna Masoni Brenni,
responsabile dell’Area cultura e dell’istruzione, nonché vicesindaco
di Lugano, sul valore della cultura, dell’ispirazione e delle finanze
Le polemiche attorno alla necessità della
realizzazione del LAC hanno accompagnato, spesso caratterizzandolo, il dibattito politico del nostro Cantone degli
ultimi anni. Abbiamo dunque deciso di
ripercorrere le tappe salienti di un lungo
processo, mettendo in luce quelle che saranno le grandi sfide dei prossimi anni.
Onorevole Giovanna Masoni Brenni,
a che punto sono i lavori del LAC?
Entro la fine dell’anno l’edificio sarà
consegnato e collaudato, e a ruota anche
la questione della facciata troverà soluzione. Prenderemo possesso degli spazi
in modo attivo. Dopo i collaudi tecnici
seguirà la messa in esercizio, dobbiamo
infatti accertarci che tutto funzioni
bene, dall’umidità alla temperatura ideale per il museo, all’acustica per le sale
da concerto, agli impianti della torre
del teatro, e così via. L’apertura ufficiale
avrà luogo il 12 settembre 2015.
Come si intenderà collocare il LAC
in un panorama culturale già per sua
natura fitto e denso come quello ticinese? Intendete affrontare un nuovo
modo di fare cultura?
Punteremo molto sulla transdisciplinarietà: il LAC vuole essere un centro culturale aperto al contemporaneo, rivolto
a tutte le forme espressive dell’arte. Le
barriere tra le varie discipline esistono
infatti solamente nelle nostre teste. Il
LAC avrà un doppio sguardo, rivolto
sia a nord, sia a sud: per il nord guarderà
agli istituti culturali, alla tradizione e
alla scena culturale della Svizzera di
lingua tedesca e romanda, ma anche ai grandi movimenti artistici del
Novecento del nord dell’Europa e agli
sviluppi di essi nell’arte contemporanea; lo sguardo verso sud manterrà viva
l’attenzione nei confronti della cultura
e della lingua italiane. Questo posizionamento privilegiato tra nord e sud è
in fondo la nostra cifra, che al LAC si
indagherà e declinerà in forme diverse.
Vi è un ambito in particolare su cui il
LAC si focalizzerà?
Il nostro focus sarà soprattutto sul Novecento e il Contemporaneo e, come detto,
fra nord e sud. La differenza rispetto al
passato è che vi sarà maggiore attenzione
alla creatività, a co-produzioni e produzioni realizzate qui, anche per quel
che riguarda il teatro. Non vogliamo più
essere unicamente un teatro di accoglienza. La grande sfida sarà quella di riuscire
a coniugare la dimensione locale con
quella internazionale: essere attivatori di
eccellenze locali e attrattori di eccellenze
e competenze esterne. Lavoriamo da
diversi anni per preparare questa anima
ibrida del LAC e del Polo Culturale, ora
avremo finalmente strutture adeguate. A
questo riguardo in corso d’opera siamo
riusciti – con l’approvazione del Consiglio
Comunale – a inserire un teatro studio nel
LAC. Esso ci permetterà di avere contemporaneamente spettacoli nella sala principale e prove e produzioni più raccolte,
ma di qualità, nel teatro studio. Abbiamo
recentemente nominato Carmelo Rifici
come responsabile degli spettacoli: egli
conosce bene il teatro italiano ed europeo, essendo stato per sei anni al Piccolo
Teatro di Milano.
Rifici si è già attivato allacciando un
buon dialogo con le compagnie locali
che mostrano una crescente vitalità, e
Ma al di là di questi aspetti finanziari
– centrali per la riuscita di un’operazione di questo tipo – ciò che colpisce nel
rapporto del Consiglio comunale del
2004 è una lacuna di peso: manca nel
testo che ha dato il via libera politico al
progetto una riflessione sui contenuti
artistici e culturali da dare alla nuova
struttura. Certo, si parla del museo, del
teatro, del nuovo autosilo e degli strumenti per tenere sotto controllo i costi.
Ma di arte e di cultura quasi nulla, ci
sono soltanto riferimenti un po’ fumosi alla «porosità» e «permeabilità» degli
spazi in una «continua dialettica tra antico e moderno». Ma non una parola su
avviando un lavoro importante con le
scuole. Il direttore Michel Gagnon ha
conoscenza della scena teatrale internazionale, ma è attento anche alla realtà e al
pubblico locali. Lo stesso vale per Etienne
Reymond, direttore di Lugano Festival e
della stagione musicale, forte di 13 anni
di esperienza alla Tonhalle di Zurigo. Il
nostro vuole essere un profilo di qualità,
aperto a tutti e a più pubblici.
Esiste un principio su cui il LAC si
fonda?
Crediamo che la cultura sia un investimento: per la crescita culturale, sociale
e per lo sviluppo economico e d’immagine che ne derivano. Ciò presuppone il
riconoscimento dell’esistenza e dell’importanza di una rete di attori diversi
(pubblici, parapubblici e privati) attivi
nella cultura: il Polo Culturale è questo.
Il suo epicentro, a Lugano, sarà il LAC,
che dà e riceve. Tutti sono importanti e
possono trovare la propria collocazione nella rete, rafforzandosi a vicenda:
pensiamo alle biblioteche, agli archivi,
ai musei, alle compagnie teatrali, a
orchestre, gallerie e così via… Manca
però, e dobbiamo porvi rimedio – viste
e considerate le difficoltà delle finanze
pubbliche – una condizione quadro
essenziale per favorire il contributo (in
denaro o in natura, ad esempio opere
d’arte) dei privati; a questo proposito
è necessario creare condizioni fiscali
favorevoli, ad esempio defiscalizzando
maggiormente contributi importanti di
imprese e persone fisiche.
Lo spazio -1 è un immobile donatoci
da privati, riattato da una fondazione
anch’essa originata da un lascito privato. La Collezione Olgiati è un comodato
grazie al quale siamo entrati in possesso
di una grande collezione di provenienza
privata. Chi mette a disposizione della
collettività beni culturali di questa
qualità e importanza deve vedere
riconosciuto il contributo fondante a un
progetto pubblico. Analogamente a chi
versa importanti contributi in denaro:
in molti Paesi e anche in diversi Cantoni
svizzeri, chi dà un contributo in denaro
a istituzioni di interesse pubblico come
il museo di base, può usufruire di una
importante deduzione fiscale, con realtà che toccano picchi del 100%. Da noi
purtroppo si arriva solamente al 20%.
Quando si parla di LAC, in particolar
modo i detrattori, ma anche chi dice
di difendere una visione realistica
dell’investimento, mette in dubbio
l’effettiva sostenibilità del progetto.
Come rispondete a questa critica?
Da anni, ben prima che le finanze di
Lugano si deteriorassero, direi dal
giorno in cui ho ereditato il LAC nel
2004 (quando era già progettato per 7
milioni di franchi) abbiamo avviato un
processo di trasformazione delle istituzioni pubbliche a semplice copertura
del deficit per mano di istituti misti
(pubblico-privato) per arrivare poi a
mandati di prestazione a importo fisso.
Ci siamo orientati su quanto capita
nella Svizzera interna, dove esiste una
forte compartecipazione tra pubblico e
privato. Questo ci aiuterà, anche se sono
necessarie buone condizioni quadro
fiscali e tempo, oltre a un cambiamento
di mentalità. Per quanto riguarda i costi
di gestione, li abbiamo compressi il più
possibile e continueremo a farlo; dai
previsti otto milioni, siamo scesi sotto i
sei all’anno – comprensivi di un potenziamento dell’offerta culturale, ridotto
in considerazione della situazione delle
finanze, ma necessario – e ci stiamo
ancora lavorando. Non dimentichiamo
inoltre che c’è stato anche il restauro
dell’ex Palace, che sta portando nuove
attività e nuovi contribuenti, in buona
parte con residenza primaria.
La sfida del LAC sarà anche questa: la
sua sostenibilità in un momento difficile.
Riuscire a fare bene con i mezzi che
abbiamo e che riusciamo a raccogliere.
Riuscire, con il LAC, ad aiutare una
rinascita di Lugano. Una sfida ancor
più difficile, ma non per questo meno
appassionante.
Giovanna Masoni, in questi anni lei si
è più volte trovata a dovere difendere
le proprie scelte e il proprio operato.
A nessuno è sfuggito il grande impegno, addirittura una sorta di affetto
nei confronti di questo progetto.
Per me è un progetto che si realizza e
in cui ho messo tante energie; in nove
anni all’edilizia pubblica e al genio
civile ho visto molti progetti edilizi,
ma questo è quello che è durato di più
(si è avviato alla fine degli anni ’90!).
Credo che il LAC cambierà Lugano e la
Svizzera italiana, un po’ come il KKL ha
trasformato Lucerna. Una debolezza di
questi anni è stata rappresentata dalle
critiche, non parlo di quelle costruttive,
volte a migliorare, ma di quelle «per
partito preso» o, peggio, per interessi
economici privati spacciati per interesse pubblico. Il LAC ha richiesto
molte energie, anche dal punto di vista
dell’organizzazione, della costruzione
del consenso politico e dei contenuti.
Quando vedrò il LAC funzionante sarò
felice, pur restando consapevole che si
tratterà di un punto di partenza e non di
un punto di arrivo.
In Ticino si ha spesso l’impressione
che in ambito culturale (e non solo,
pensiamo a quello ospedaliero)
ognuno si occupi soprattutto del proprio «orticello». Come si posizionerà
un centro culturale di questo tipo di
fronte a quanto già esiste su un territorio piccolo come quello ticinese?
Da quando sono entrata in Municipio ho
investito molto sulle collaborazioni tant’è
che, sotto la direzione unica di Marco
Franciolli, molto bene inserito nella rete
dei musei, Città e Cantone intendono
fondere Museo Cantonale d’Arte e Museo
d’Arte di Lugano in quello che sarà il vero
e proprio «Kunsthaus» della Svizzera
Italiana – che dovrà poi collaborare con
tutti gli altri musei legati alle arti visive,
ognuno con la sua specificità.
Penso che ognuno dovrebbe rafforzare
i propri punti forti. Credo ad esempio
che Bellinzona dovrebbe valorizzare il
suo museo, realtà piccola ma interessante, e puntare anche sulla storia e sul
museo storico: ha i Castelli (Patrimonio
cosa fare del nuovo polo una volta terminati i lavori: che tipo di arte avrebbe
dovuto ospitare? Quali sguardi culturali avrebbe potuto offrire?
Certo il 15 novembre del 2004 il
Municipio aveva comunque, nel suo
messaggio al Consiglio comunale, abbozzato alcune linee guida, parlando di
«momenti espositivi per la produzione
artistica nostra e italiana» o per quella
di «artisti svizzeri e internazionali, la
cui ricerca deve rappresentare un momento di conoscenza e di confronto».
Oltre queste indicazioni decisamente
generiche, il Municipio però non era
andato, o forse non aveva osato avventurarsi, anche perché in quel momento i
problemi da affrontare erano più tecnici
e finanziari che artistici. Sta di fatto che
questo «vuoto» iniziale ha di certo pesato sull’evoluzione dell’intero progetto,
bersagliato poi da polemiche e guai di
vario genere: appalti e subappalti rimessi in discussione, un caso di caporalato
finito in tribunale, sorpassi di spesa,
direttori artistici durati lo spazio di
una stagione e infine le polemiche sulle
venature del marmo verde che ricopre
buona parte dell’edificio.
Ora manca poco al varo di Lugano Arte e Cultura, dal contenitore l’attenzione si sposterà sempre più verso
il contenuto, in sintonia con il Museo
cantonale d’arte e con la brezza fresca
che spira dal Canada, grazie al direttore
Michel Gagnon arrivato da Oltreoceano, grande amico di Daniele Finzi Pasca, con cui lavorerà in stretta collaborazione. Sarà l’ora della verità per capire
se la scommessa di questo «Kunsthaus»
potrà essere vinta e se il turbinio di polemiche che l’ha finora accompagnata
andrà scemando.
Una cosa appare certa: tra le tante
cose scritte attorno al LAC quella prudent man rule appare oggi come una
sorta di bussola, se si vuole davvero che
dal LAC sgorghi nuova linfa per una città che, scossa dalle cifre rosse, sta ancora cercando la propria identità futura.
La stagione dei concerti jazz di Rete Due
continua nella sua meritevole e anche generosa opera di decentramento logistico.
Dei sette appuntamenti che caratterizzano
il suo programma da qui a dicembre 2014
ben cinque si terranno «in trasferta», cioè
all’esterno degli auditori della Radio di
Besso. Quanto ciò sia importante è forse
inutile ricordarlo. Da un lato permette alla
«musica moderna di qualità» di toccare
diverse località e diversi pubblici del cantone. Dall’altro offre la possibilità a organizzatori locali di vedere messa in rilievo (e
con questo premiata) la propria militanza
nel settore dell’organizzazione musicale.
Per quanto riguarda il programma
(consultabile online all’indirizzo www.rsi.
ch/jazz) segnaliamo con particolare piacere il concerto di questa sera allo Studio
Due di Besso: segna il ritorno sulle scene di
primo piano di un musicista ticinese dalle grandi doti. Dopo il successo ottenuto
dalla pubblicazione del suo ultimo album
(vedi «Azione 26» del 23.6 scorso) Claudio
Pontiggia ripropone a Lugano l’incontro
tra il suo laboratorio sonoro LABOttega
e il trombettista italiano Paolo Fresu. Si
tratterà quindi di vedere consolidata una
formula che, nata sul palco di un concerto
campionese del 2012, vale oggi come ottimo esempio di jazz orchestrale piacevole e
ben confezionato.
Nelle prossime settimane avremo
modo poi di confrontarci con altri eventi
UNESCO), l’Archivio di Stato e un
centro storico molto ben conservato.
Senza contare Castellinaria e Babel.
Locarno è regina del cinema: il Palacinema e i lavori al Fevi rafforzeranno
ulteriormente il Festival di Locarno e
di conseguenza una regione con molte
realtà preziose, come ad esempio quella
delle arti visive. Senza contare il Monte
Verità e le Settimane Musicali. Chiasso ha un Polo Culturale piccolo ma
agguerrito. Mendrisio ha l’architettura,
comprendente, oltre all’Accademia, istituti di ricerca e archivi di architettura
e design molto preziosi e di alto profilo.
Presto avrà anche un museo.
Quello che tutti i centri urbani dimostrano è che non esiste turismo senza cultura.
E mi pare che i sindaci e la sindaca delle
nostre città l’abbiano ben presente. Non
dimentichiamo che la cultura porta un indotto economico stimato fino a sei volte.
La cultura produce lavoro e innovazione,
e ha un ritorno di immagine. Personalmente sono convinta del fatto che, più si
rafforzano le realtà culturali presenti sul
territorio, più il territorio si sviluppa, ed
è uno sviluppo di qualità, e per tutti, a cui
tengo.
Il Ticino ha un’università che ancora
non ha vent’anni; quella di Basilea ne ha
quasi 570 ! Lugano è stata la prima città
del Cantone ad avere un Dicastero cultura, seguito da quello di Chiasso, ma
siamo ancora giovani rispetto ad altre
realtà; è un cammino di sviluppo, che
dobbiamo percorrere insieme, a poco a
poco. / Simona Sala
altrettanto originali e interessanti: si inizia
il 3 ottobre al conservatorio di Lugano (e
qui la sinergia lega Rete Due a OGGIMusica) per l’esibizione del Christoph Stiefel
Trio. Si prosegue l’8 ottobre a Jazz in Bess
di Lugano, sede dell’Associazione Jazzy
Jams, per l’incontro con il jazz scandinavo
del gruppo Atomic, capitanato dal sassofonista Frederik Ljungqvist. Il 16 ottobre
a Bellinzona serata di grandissimo richiamo per l’incontro tra Jan Garbarek e lo
Hilliard Ensemble, all’incrocio tra jazz e
canto gregoriano, mentre l’8 novembre a
Lugano presenteranno un altro meeting di
pregio il pianista Michael Camilo e il chitarrista flamenco Tomatito.
Dopo una puntata tra le sonorità jazz
più moderne offerta il 12 novembre dal
tastierista Tigran Hamaysan a Lugano, di
grandissimo spicco sarà il 23 novembre a
Chiasso il ritorno in Ticino di Steve Swallow e di Carla Bley. Tutti i concerti saranno
naturalmente trasmessi alla radio da Rete
Due, ma è evidente che l’esibizione live rimane luogo privilegiato per apprezzare
il gioco dell’improvvisazione collettiva e
della creatività jazzistica. L’invito è quello
dunque di approfittare di una offerta eccezionale, che ci porta il miglior jazz… fuori
dalla porta di casa. /A.Z.
Carla Bley e Steve Swallow saranno
a Chiasso il 23 novembre prossimo.
In collaborazione con
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino¶29 settembre 2014¶N. 40
43
Cultura e Spettacoli Rubriche
In fin della fiera di Bruno Gambarotta
Cosa lasciare ai posteri?
Ho sognato che curavo la regia del mio
funerale, occupandomi di tutti i dettagli
con la maniacale cura che mi hanno
sempre rimproverato. Pianificavo la
cerimonia, segnando sulla piantina della
chiesa i posti dei presenti, parenti, amici
e semplici curiosi. Con un particolare di
non secondaria importanza: io ero già
morto e il constatarlo mi regalava calma
e serenità, mentre, se fossi stato ancora
vivo, sarei stato assillato dal demone del
perfezionismo. Tornato sveglio, dopo
essermi accertato che popolavo ancora
questa valle di lacrime, ho deciso che
la causa del sogno era da attribuire alla
lettura, fatta la sera prima, di un capitolo
dell’autobiografia di Per Olov Enquist
intitolata Il libro delle parabole (sottotitolo: Un romanzo d’amore). Enquist parla
di sé in terza persona, come già aveva
fatto nel precedente memoir Un’altra vita
e, come ogni vero scrittore, scava senza
pietà e indulgenza nei meandri oscuri di
una vita oramai lunga. L’occasione per
rimettere mano alla sua biografia è data
dal ritrovamento fortuito di un quader-
no di poesie scritte da suo padre che morì
quando lui aveva sei mesi lasciandolo
in balia di una madre dedita a rigorose e
implacabili pratiche religiose. La madre,
sognando per lui un futuro da sacerdote, gli regalò una macchina da scrivere
sulla quale avrebbe dovuto battere le
future prediche e che invece lo invogliò
a diventare scrittore. Si tramandava
in famiglia che il quaderno fosse stato
gettato nel fuoco dalla madre scandalizzata, ma una cugina, quando Enquist
ha 77 anni, lo ritrova e glielo spedisce; ci
sono tracce di bruciature, tali da lasciar
dedurre che la madre, pentita del suo
gesto, l’avesse estratto dalla stufa dove
poco prima l’aveva gettato. Dal quaderno però sono stati strappati nove fogli e
nove sono le parabole di cui si compone
il romanzo che si interroga sul contenuto
dei fogli scomparsi. Una frase mi aveva
colpito e l’avevo trascritta. Diceva: «E
dopo non c’era più niente da aggiungere.
Nemmeno una vita supplementare. (...)
Ma cos’era stata allora? Una pila di libri
e di drammi. E lui come una pelle di
serpente lasciata lì. Era quella pila di libri,
allora, la vita?». Da quell’immagine di
un lascito consistente in una pila di libri
(non quelli scritti da me ma collezionati
nel corso di una vita) ho iniziato a farmi
per la prima volta delle domande su cosa
lascerò a chi mi sopravviverà. Oltre ai
libri, essendo uno che non butta mai via
niente, ho accumulato una montagna
di quaderni e di blocchi di appunti,
di fotocopie, di trascrizioni di pagine
altrui, ritagli di giornale. Molti sono
chiusi in scatole di cartone issate in cima
agli armadi o impilate nel garage. Devo
iniziare a disfarmene mettendo tutta
quella carta nel bidone della raccolta
differenziata o è meglio lasciare questo
compito agli eredi? Non posso pretendere che si mettano a sfogliare pagina
per pagina per decidere cosa buttare e
cosa tenere se io stesso non sarei in grado
di decifrare gli appunti più remoti nel
tempo. È sempre in agguato la tentazione
faustiana di pilotare dall’al di là la vita di
chi ci sopravvive; è il caso di chi vincola
una quota dell’eredità all’accettazione di
precise condizioni. Si legge di collezioni d’arte donate alla collettività con
l’obbligo tassativo di mantenerle unite.
Nel mio piccolo potrei seguire l’esempio,
lasciando a uno dei figli o dei nipoti, con
l’obbligo di non smembrarle, raccolte
di volumi messi insieme solo per avere
tutti gli esemplari del catalogo, anche se
alcuni testi non mi interessano e so per
certo che non li leggerò mai. Sarebbe in
contraddizione con il principio, nel quale
ho sempre creduto, della «distruzione
creativa»: gli eredi che, per svuotare un
appartamento, rimettono sul mercato
i libri, i quadri e gli oggetti d’arte del
defunto, con quel gesto assicurano la
continuità di quel meraviglioso passatempo che consiste nell’andare per
mercati a frugare sulle bancarelle alla
ricerca di un tesoro che solo noi siamo in
grado di riconoscere. In fatto di vincoli,
nel romanzo di Per Olov Enquist il gioco
è ancora più raffinato: il figlio che non ha
mai conosciuto il padre, si arrovella sul
contenuto di quelle nove pagine che la
madre ha strappato dal taccuino di poe-
sie d’amore. Potrei allestire una trappola
simile; però mi vanto di essere uno dei
pochi italiani che non ha mai scritto una
poesia (pare che gli Italiani che ritengono di essere dei poeti perché quando
scrivono vanno a capo prima che la riga
sia completa siano otto milioni, una vera
piaga d’Egitto). Quali simboli sono in
grado di lasciare in eredità ai miei figli
perché si ricordino di me? Di fronte alla
mia scrivania, posati su una mensola,
ho i lasciti dei miei genitori. Di mio
padre tipografo ho il compositore, uno
strumento di metallo cromato formato
da una sbarra piegata ad angolo retto e da
un cursore sul quale scorre un dispositivo di fermo per fissare la giustezza delle
righe. Lì andavano deposti i caratteri e gli
spazi di piombo pescati con una pinzetta
dai cassetti. Di mia madre, pettinatrice,
ho uno strumento ancora più elementare, i ferri per fare i ricci alle clienti. Da
parte mia posso lasciare ai miei figli una
chiavetta USB che archivia i miei testi e
un CD con le fotografie. Con la certezza
che fra pochi anni saranno illeggibili.
non si poneva, nel suo «giardino» avevano spazio anche le donne, ma la filosofia
che cerca solo i piaceri stabili impediva
ogni forma di passione, prima fra tutte
quella amorosa. Scapolo Epicuro e scapolo anche Zenone lo Stoico. È quello che
avrebbe voluto Eloisa per il suo Abelardo,
nella Parigi dopo il Mille. Non sposarmi,
chiedeva Eloisa, come potrai studiare tra
i pianti dei bambini? Consentimi di essere la tua concubina, così da non essere
legato a nessuno, libero di diventare un
grande intellettuale. Abelardo la ascoltò,
ma solo in parte, sposò Eloisa di nascosto, per non rovinarsi la carriera, e così
si rovinò la vita. I parenti della ragazza
infatti la ritennero sedotta e abbandonata, pensarono bene di evirare il colpevole
e poi la storia è nota. Non si sposò invece
Galileo, che ebbe figli ma non da una
moglie. D’altra parte, per essere coerente,
l’innovatore del metodo scientifico sarà
stato ben inviso ai genitori delle fanciulle
che frequentava: se la certezza dipende
dall’esperimento, come essere certi
dell’amore di una donna se non esperendolo? Non c’è niente da fare, i filosofi
hanno sempre disprezzato le unioni
coniugali, fino a dire che «un buon
matrimonio sarebbe quello di una donna
cieca con un uomo sordo», come scrisse
Montaigne. Al massimo dal Settecento
lo si concepì come un dovere verso la
stirpe umana, consigliando quindi una
sposa giovane, in buona salute, senza
grilli per la testa, come scrisse Kant. Solo
il Novecento comincia ad avere filosofe.
A loro credito va detto che non hanno
nei confronti del maschio il disprezzo e
l’acredine dei colleghi. Certo, dal vincolo
matrimoniale si sentono relativamente
legate, però riescono ad armonizzare
la maternità e la passione con gli studi
meglio dei maschi. Pensiamo a Hanna
Arendt, moglie due volte, amante di
Martin Heidegger, pensatrice eccellente.
E oggi? Oggi non è cambiato nulla, ma
su questi temi è meglio parlare «esclusi i
viventi», di cui si sa molto e non sempre
con onore.
che già se ne vedono in atto i risultati è
persino superfluo. «Siamo passati – scrive Maffei – dalla coercizione al metodo
della persuasione e della seduzione»: non
più costringere ma convincere di ciò che
è bene o male per il consumo. Mezzi di
comunicazione e pubblicità sono coalizzati in questa direzione.
Nel sito «Esodo.net» trovo uno straordinario intervento (6) del mio amico
Gianandrea Piccioli, ex direttore
editoriale della Garzanti, che mette in
fila e commenta lucidamente alcuni dati
sul mondo in cui viviamo. Per esempio
questi, tratti dai giornali: il capitale
finanziario che circola nel mondo è di
cinque volte superiore al capitale produttivo (255 miliardi di dollari in moneta
rispetto a 55 miliardi di dollari in beni
materiali); 85 miliardari possiedono da
soli il reddito di 3 miliardi e mezzo di
poveri; l’Occidente (17% dell’umanità)
consuma l’80% delle risorse mondiali.
La domanda di Piccioli è: «È possibile un
grande futuro per un mondo così? O il
problema è solo quello di sapere quando
si andrà a schiantare?». Il teso saggio di
Piccioli si conclude citando un passo del
poeta Raffaello Baldini, nato novant’anni fa a Santarcangelo di Romagna e morto nel 2009 (chi se lo ricorda più?), che qui
trascrivo ricollegandolo alle argomentazioni di Maffei sulla necessità di coltivare
la lentezza e l’inutile come forme non
solo di contravveleno ma di leopardiano
eroismo: «Tanto è tutta roba che, lo so,
non serve a niente, ma se dovessimo buttare via tutto quello che, tutto quello che
non serve a niente, non si può, neanche a
volere, non si può, uno sguardo, per dire,
incontri una bella ragazza, la guardi, a
cosa serve? Alla televisione, stai a vedere
i campionati europei d’atletica, i cento
metri, i duecento metri, i quattrocento
a ostacoli, il salto in alto, a cosa serve? O
quando vengo giù dalla Marecchia, che è
già notte, vedo San Marino e Verrucchio
che è tutta una luce, delle volte mi fermo,
si sentono tanti di quei grilli, a cosa
serve?».
Postille filosofiche di Maria Bettetini
Matrimoni filosofici
Settembre, andiamo, è tempo di sposare.
Nelle cronache mondane è un profluvio
di abiti candidi con scollature meno
virginali, invitati vip mescolati a parenti
ruspanti, è di moda sposarsi. In un
castello se si è non al primo matrimonio
e si possiedono ingenti patrimoni, in una
chiesa con vescovo se si può dare l’impressione del primo e unico, un omaggio
alle mamme e alla tradizione. Le mamme, che cosa pensano ai matrimoni?
Abbi cura del mio bambino. Anche io
ero così magra e piena di speranze. Ma
guarda se sua zia doveva presentarsi senza calze e con lo smalto nero. E gli altri?
Le amiche della sposa: toccherà anche a
me, ma starò ben attenta. Gli amici dello
sposo: che incosciente, così giovane e già
legato. Le zitelle recidive: se ce l’ha fatta
lei… E il corrispettivo maschile: ridi ridi,
vedrai poi come ti tratterà. I sondaggi lo
confermano, l’atteggiamento maschile è
diverso da quello femminile. Ed essendo
nei secoli la filosofia fatta quasi tutta da
uomini, non sarà difficile immaginare i
consigli del filosofo a proposito di matrimonio. Saranno inviti a fuggirlo, oppure
a usarne come di un male necessario alla
sopravvivenza dell’umano genere. Questo è vero, ma invece di rattristarci con
invettive e anatemi, perché non provare
a immaginare come sarà stato, o avrebbe
potuto essere stato, lo sposalizio ideale di
alcuni filosofi? Per esempio Empedocle,
che riteneva odio e amore all’origine
del ciclico farsi e disfarsi del mondo. Se
non lo aveva già lui, avrà dovuto trovare
una donna affetta da disturbo bipolare:
momenti di grande passione e trasporto,
che vedevano i due stretti e inseparabili,
alternati a violente discussioni, dispetti,
musi lunghi. E che dire di Socrate, sposato alla bisbetica Santippe? Ne aveva così
tanta considerazione da cacciarla dalla
cella in cui si apprestava a bere la cicuta
circondato dai discepoli. Al posto di
Santippe ci voleva una fanciulla efebica,
indistinguibile dal riccioluto Fedone e
dagli altri ragazzi allievi del maestro.
Quello che però si è messo davvero nei
guai è un altro discepolo, quel Platone
che nella città ideale vedeva i matrimoni
organizzati dal governo: uomini e donne
si sarebbero uniti solo se selezionati, e in
un giorno preciso, che ancora gli studiosi
non hanno capito quale sia (è la irrisolta
diatriba detta «del numero delle nozze»).
I loro figli sarebbero stati affidati alla comunità, la loro unione sciolta in vista di
altri matrimoni. Nella realtà, nemmeno
i kibbutz né altre forme di società comunistica hanno raggiunto questo grado di
utilitarismo e distacco affettivo. Platone
avrebbe meritato quindi o di essere scartato, oppure di unirsi con una bellissima
fanciulla, per poi doverla abbandonare
alla nascita del primo pargolo. Molto
più pratico, come sempre, Aristotele che
vede la famiglia stessa come una piccola
polis, dove il governo è affidato all’uomo
e a una donna inferiore ma amica, addirittura superiore al maschio se molto
ricca. (Per un pugno di dracme si poteva
chiudere un occhio sull’inferiorità delle
donne). Per Epicuro invece il problema
Voti d’aria di Paolo Di Stefano
L’«homo velox» che è dentro di noi
Giacomo Leopardi, nello Zibaldone, scriveva che «la pazienza è la più
eroica delle virtù giusto perché non ha
nessuna apparenza eroica». Viveva in
un’epoca molto diversa dalla nostra
che gli permetteva di misurare il tempo
secondo criteri che non ci appartengono
più. Questo non è un mondo per gente
paziente. Ma il cervello? Tutto congiura
a favore della velocità e dell’impazienza,
tranne il cervello. È la morale che si trae
dalla lettura del libro di un neuroscienziato, Lamberto Maffei, intitolato Elogio
della lentezza (Il Mulino), voto 5½.
Vivo tutto il giorno nella redazione di un
quotidiano, dove il tempo, con lo spazio,
è la coordinata essenziale e irrinunciabile, ma ogni tanto, lo confesso, vorrei
uscire e respirare in un ritmo diverso.
Ora so che me lo impone il cervello, più
che il cuore. Maffei spiega che i meccanismi cerebrali sono naturalmente lenti
e che il tentativo di farne meccanismi
veloci va incontro a frustrazioni e ansie.
Bisogna seguire con pazienza il suo
ragionamento. Il mondo globalizzato del
consumo produce, alla lunga, desideri
e comportamenti comuni, ma anche
interessi culturali e un linguaggio omologato, privi di creatività di espressione
individuale e di capacità critica: «un
esperanto di parole e di gesti». Ciò che è
comune diviene automatico, cioè viene
accolto senza riserve, per cui il sistema
nervoso sviluppa i circuiti adibiti alle risposte automatiche, in quanto lo stimolo
richiede una reazione rapida, un riflesso
emotivo. Se l’emisfero destro, quello della rapidità, vince sull’emisfero sinistro,
che è quello linguistico evolutivamente
più tardivo, assisteremo, secondo Maffei,
a un «ritorno all’indietro del tempo, cioè
a un cervello che tende a usare funzioni più primitive che lo facilitano nella
socialità del mondo globalizzato, cioè
nella necessità di avere risposte rapide,
nell’emotiva, irrequieta, fideistica idea di
ottimizzazione del tempo perché questo
è denaro, business e così via».
La conseguenza sarebbe paradossale:
la globalizzazione, il più moderno traguardo della civiltà, rischia di produrre
un’involuzione cerebrale riportandoci
su sentieri irrazionali e fuori controllo. Il
guaio è che non sono parole di un pazzo
visionario seguace di Nostradamus, ma
di uno scienziato, dunque vanno prese
molto sul serio. Vorrei riuscire a rispondere con la stessa chiarezza di Maffei a
quanti, tantissimi, quasi tutti, non fanno
che tessere quotidianamente le lodi
della velocità, dello scambio immediato,
del contatto frenetico e senza sosta. Il
successo evolutivo dell’«homo velox o
consumens» comporterebbe il tramonto
delle azioni considerate «inutili», come
la letteratura non finalizzata al consumo,
la poesia, la conversazione per il piacere
di parlare, la filosofia. Più in generale
verrebbe meno la facoltà raziocinante
e dunque l’argomentazione astratta e
complessa: la società dei consumi fonda
il suo successo sulla soddisfazione di
quelli che Freud elencava come istinti
primordiali (cibo, sesso, potere). Dire
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino¶29 settembre 2014¶N. 40
45
Idee e acquisti per la settimana
shopping
Gustare il pesce consapevolmente
Pesce fresco Tutto il pesce al banco della Migros proviene da fonti sostenibili. I responsabili
delle nostre pescherie vi consigliano alcune prelibatezze. Approfittate inoltre del buono sconto accluso
del 10 per cento, da ritagliare (ultima di 4 puntate)
Questa settimana nei reparti pesce Migros il filetto di passera certificato MSC
dell’Atlantico nord-orientale è proposto
ad un prezzo molto vantaggioso. Un’ottima occasione per dilettarvi a casa con
qualche saporita ricetta che lo contempli come ingrediente (vedi sotto).
«La passera è un pleuronettide che vive
sui fondi marini sabbiosi. Data la sua
forma piatta la filettatura del pesce intero non è tra le più semplici. Per questo
proponiamo i filetti bell’e pronti per la
padella». Andrea Oddo, a capo della pescheria di Migros Lugano, ci confida
anche che per esaltare al meglio l’eccel-
lente sapore dei filetti di passera non andrebbero usate spezie troppo forti o salse pesanti.
La passera venduta ai banchi pesce Migros è certificata MSC. Questa organizzazione internazionale indipendente
contrassegna esclusivamente il pesce
selvatico pescato in modo sostenibile.
Insieme a partner quali il WWF e la Migros, MSC si batte per impedire la pesca
eccessiva nei mari. I parametri per ottenere la certificazione MSC si basano
sulla sostenibilità degli stock, le conseguenze sull’ecosistema della pesca e la
gestione della stessa.
Per saperne di più
generazione-m.ch
Parte di
Il Marine Stewardship Council (MSC) è
sinonimo di pesca sostenibile certificata
in modo indipendente. I pesci e i frutti di
mare provengono sempre da pesca selvatica. MSC contribuisce a preservare le
risorse, ossia i pesci e il loro ambiente, negli oceani e nei laghi.
Generazione M è il simbolo dell’impegno
sostenibile della Migros. Il marchio MSC
ne fornisce un prezioso contributo.
Il responsabile del reparto pesce
di Migros Lugano, Andrea Oddo:
«La passera possiede carni bianche
particolarmente gustose».
(Flavia Leuenberger)
Involtini di passera al pesto
con cura e teneteli in caldo nel forno.
Rosolate le mandorle nel fondo di cottura
e mettetele da parte.
2. Bagnate il fondo di cottura con il
fumetto di pesce. Aggiungete la panna e
lasciate ridurre finché ottenete una salsa
cremosa. Tagliate il limone a spicchi.
Insaporite la salsa con sale, pepe e
succo di limone e servitela sugli involtini.
Cospargeteli di mandorle e serviteli con
gli spicchi di limone.
Accompagnate con riso in bianco o
patate lesse.
Preparazione
1. Scaldate il forno a 70 °C. Disponete i
filetti sul piano di lavoro, spennellateli con
un poco di pesto e arrotolateli. Infarinate
gli involtini. Scaldate olio e burro in una
padella antiaderente. Rosolate gli involtini
tutt’intorno per 2-3 minuti. Estraeteli
Tempo di preparazione
ca. 30 minuti
Ricetta di:
BUONO SCONTO
10% di riduzione
su tutto l’assortimento
di pesce fresco
in vendita al banco pescheria
Ingredienti per 4 porzioni
12 filetti di passera, ca 600-700 g
8 cucchiaini di pesto al basilico
farina per infarinare
1 cucchiaio di burro
1 cucchiaio d’olio di semi di girasole
40 g di mandorle a scaglie
1.5 dl di fumetto di pesce
100 g di panna semigrassa per salse
1 limone
sale
pepe
Validità: dal 30.9 al 4.10.2014 / Nessun importo minimo d’acquisto
Buono utilizzabile nelle filiali Migros di Locarno, Lugano
(Via Pretorio), Serfontana e S. Antonino. È possibile utilizzare un solo buono sconto originale per acquisto.
Non cumulabile con altri buoni
sconto.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino¶29 settembre 2014¶N. 40
46
Idee e acquisti per la settimana
Dai delicati champignon
agli aromatici porcini,
funghi per tutti i palati
Attualità Come gustare al meglio
i funghi freschi
I funghi, autentiche gemme dei boschi,
si distinguono per il loro sapore deliziando il palato in preparazioni che spaziano dagli antipasti ai primi, secondi,
zuppe e insalate. Ricchi di fibre e poveri
di grassi, hanno un alto contenuto in sali
minerali quali fosforo, manganese, potassio e calcio e un discreto contenuto di
vitamina B1 e B2 e C. Per queste proprietà, i funghi sono alleati di ossa, sistema
cardiovascolare ed immunitario.
Inoltre, grazie alla loro consistenza, vengono considerati vera e propria «carne
vegetale» da chi adotta una dieta vegetariana. Il loro profumo, la qualità più
spiccata che conferisce loro gusto e sapore, è delicato, motivo per il quale i funghi vanno trattati con cura durante tutte
le fasi, dal raccolto alla conservazione,
fino alla pulitura e cottura. Le parti terrose vanno eliminate con un coltellino
e spazzolate con un pennello apposito. I
funghi non vanno lavati con acqua ma
strofinati delicatamente con una pezzuola umida.
Fortunatamente i funghi in commercio
sono pronti all’uso, e da Migros trovate
una ricca selezione tra cui scegliere.
Prataioli, gallinacci, shiitake, porcini,
pleurotus, ogni fungo con il suo sapore
e le sue caratteristiche. Gli shiitake sono
ideali per chi vuole cimentarsi in piatti
asiatici. I versatili champignon, che nelle
varietà bianca e bruna si prestano ad essere consumati a crudo in insalata come
cotti in salse per carne e pasta. I gallinacci hanno un sapore che ricorda il pepe e
l’albicocca. Grazie al suo aroma nocciolato il porcino è tra i funghi più amati.
Migros pensa a tutto e sulle confezioni trovate dei simboli che indicano le
preparazioni più indicate per la qualità
di fungo che avete acquistato, così da
gustarne al meglio tutte le qualità organolettiche. Largo a freschezza, varietà e
gusto! / Luisa Jane Rusconi
Funghi: consigli in cucina
mono l’accostamento con vini aspri,
tannici e amarognoli, dunque non è indicato accompagnarli con i vini rossi
corposi. Sopportano invece i vini morbidi, bianchi o rosati e lievemente aromatici. Se usati a crudo e in insalata
meglio evitare l’aceto per non comprometterne il gusto.
Rassegna dei prodotti
ticinesi al Serfontana
Flavia Leuenberger
I funghi sono un ingrediente delicato
per il quale è meglio avere qualche accorgimento in quanto subiscono molto
l’influenza dei condimenti e dei tipi di
cottura. Salvo eccezioni, non vanno
cotti troppo a lungo. Per non comprometterne il sapore è meglio evitare l’uso di cipolla e aromi forti. I funghi te-
L’autunno
e suoi sapori
State cercando il meglio della produzione agroalimentare regionale?
In questo caso non potete perdervi la
consueta rassegna autunnale dei prodotti ticinesi, prevista presso il Centro
Shopping Serfontana dal 1. al 4 ottobre. Migros sarà presente all’appuntamento con il suo stand dedicato agli
innumerevoli prodotti dei Nostrani
del Ticino, i quali potranno essere degustati e acquistati.
Ospite speciale della rassegna di
quest’anno sarà Bellinzona Turismo
con la mostra «Bellinzonese da scoprire». Una ruota della fortuna con vari
omaggi da vincere è invece quella proposta dalla Rassegna Gastronomica
del Mendrisiotto e Basso Ceresio. Infine, giovedì e sabato tutti presenti per
partecipare alla lotteria gratuita con
tanti ricchi premi in palio.
Voglia di
un bel piatto
di salmì
di cervo?
Per celebrare come si conviene l’arrivo
della nuova stagione, da oggi e fino al 25
ottobre i Ristoranti di Migros Ticino
propongono ai propri avventori una
straordinaria selezione delle più tipiche
e golose specialità autunnali. Un appuntamento imperdibile per tutti gli amanti
della buona cucina che sono sempre alla
ricerca di qualcosa di particolare e at-
tuale. All’appuntamento gastronomico
non possono ovviamente mancare classici piatti di selvaggina con tutti gli immancabili contorni, i formaggi accompagnati da raffinate mostarde, le zuppe e
i primi piatti colorati e profumati; come
pure deliziosi dolci e dessert realizzati
coi frutti tipici della nuova stagione. Vi
aspettiamo!
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino¶29 settembre 2014¶N. 40
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Idee e acquisti per la settimana
Gnocchi di riso nostrani
più convenienti
A caccia
di piatti esclusivi
Novità L’aromatica carne di cervo si trasforma
Tenera, gustosa e leggera, la carne di cervo è senza dubbio tra le
varietà di selvaggina più apprezzate dai consumatori. E proprio
in occasione della stagione della
caccia, nei maggiori supermercati Migros del cantone sono
state introdotte alcune classiche specialità a base di squisita
carne di cervo che regaleranno
un tocco di originalità ai vostri
menu di selvaggina. Il carpaccio è disponibile nelle varianti
al naturale oppure in quella con
l’aggiunta di rucola e parmigiano reggiano. Prima di servirlo
conditelo con un filo d’olio d’oliva, del sale e del pepe macinato
di fresco e, a piacimento, uno
spruzzo di succo di limone. La
Giovanni Barberis
Loredana Mutta
in tartare e carpaccio
Gnocchi di riso 500 g
Finora Fr. 5.30
Ora Fr. 4.50
tartare è invece bell’e pronta
per essere portata in tavola dal
momento che è già condita con
una delicata miscela di spezie.
Accompagnatela semplicemente con delle fette di pane tostato
imburrato. Correte a gustarvi
queste bontà stagionali perché
saranno disponibili solamente
per qualche settimana!
Carpaccio di cervo con rucola e parmigiano reggiano 100 g Fr. 7.70
Carpaccio di cervo al naturale 100 g Fr. 7.90
Tartare di cervo 100 g Fr. 4.90
In vendita al libero servizio nelle maggiori filiali Migros.
La saporita specialità a base di riso ticinese ora costa il 15 per cento in meno.
La riduzione di prezzo è stata possibile
grazie all’ottimizzazione del processo produttivo da parte del Pastificio
di Lella di Sementina. Questo piccolo
laboratorio a conduzione famigliare
nato nel 1968 – che oltre agli gnocchi di
riso per Migros Ticino produce anche
le cicche del nonno e gli gnocchi tradizionali – è stato recentemente ristrutturato per soddisfare tutti gli attuali
requisiti di qualità. Gli gnocchi di riso
si caratterizzano per la loro leggerezza
e digeribilità. Sono ottimi serviti semplicemente con burro e salvia, oppure,
per gli amanti dei condimenti più saporiti, anche con pesto o sughi tipici quali
amatriciana o arrabbiata.
Castagne che bontà Da farne
una scorpacciata
L’autunno è naturalmente sinonimo di castagne. Povere di grassi ma ricche di vitamine B e C,
nonché di minerali e carboidrati, questi deliziosi
frutti sono apprezzati nei più svariati modi: dalle
tradizionali caldarroste ai vermicelles, dai marron glacé fino alle irresistibili preparazioni a base
di farina di castagne come gnocchi, creme, torte,
paste, confetture, ecc. A proposito: essendo prive
di glutine, le castagne possono essere consumate
senza problemi anche da chi soffre di celiachia.
Inoltre sono un alimento ideale per bambini e
sportivi dal momento che forniscono preziosa
energia all’organismo.
Gli amanti delle castagne nei supermercati Migros trovano non solo le castagne fresche, ma anche vermicelles, marroni sciroppati, alcuni ideali
accompagnamenti quali doppia panna e lardo
nonché un pratico «cuocicastagne» elettrico.
Impossibile resistere: l’offerta di varietà d’uva da tavola attualmente disponibile nei reparti frutta Migros è ricca e invitante. Da quella bianca come
l’uva Italia, la Pizzutella, quella priva
di semi, passando per la varietà rosata
Red Globe e fino alle uve nere Lavallee,
Palieri e Moscata… C’è n’è per ogni
gusto ed esigenza. L’uva, del resto, è un
prezioso alleato per il nostro benessere. Lo zucchero d’uva che contiene, il
glucosio, una volta assunto tramite
l’alimentazione passa direttamente
nella circolazione sanguigna trasformandosi rapidamente in energia. Una
cura a base d’uva è particolarmente
raccomandata per regolare l’intestino, durante le convalescenze, in caso
di anemie e affezioni digestive. Un
tempo, in occasione dell’autunno era
molto diffusa la pratica dell’ampeloterapia, la vecchia «cura dell’uva». Un
metodo tutto naturale per depurare
l’organismo prima della stagione più
fredda dell’anno. Da non dimenticare,
infine: l’uva è ricca anche di potassio,
ferro, calcio e magnesio.
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C
OLTRE 4 MILIONI DI ACQUISTI DIMOSTRANO CHE
LA MIGROS È PIÙ CONVENIENTE DELLA COOP.
Dal 26.8 all’1.9.2014, in collaborazione con l’Istituto di ricerche di mercato
indipendente LP, abbiamo ripetuto il più grande confronto di prezzi nel settore del
commercio al dettaglio svizzero, prendendo in considerazione oltre 5000 articoli.
Nell’ambito di questo studio oltre 4 milioni di acquisti, realmente effettuati,
sono stati messi a confronto con acquisti avvenuti alla Coop. Risultato: alla
Migros si risparmia il 10,6%. È quindi dimostrato ciò che i nostri clienti sanno
da sempre: LA MIGROS È SEMPRE PIÙ CONVENIENTE.
MGB www.migros.ch W
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino¶29 settembre 2014¶N. 40
49
Idee e acquisti per la settimana
Piacere senza lattosio
Sempre più persone utilizzano i prodotti aha!, che sono esenti da lattosio e fabbricati senza l’impiego
di latte vaccino. Tre donne ci parlano dei loro prodotti preferiti
Iris Probus, istruttrice di fitness diplomata e ex Miss Universe
Fitness, è molto attenta all’alimentazione equilibrata.
«A colazione mi concedo volentieri del pane croccante
spalmato con della Délice extra light».
aha! Délice extra light 250 g Fr. 2.20
Elisabeth Schätti, pensionata e più volte nonna, prepara
volentieri dolci per i propri cari. «Amo ingolosire spesso
i miei cari con delle torte fatte in casa. Per mio genero,
che è intollerante al lattosio, utilizzo Sanissa Classic».
aha! Sanissa Classic 250 g Fr. 1.90
Esther Abt, Esther Abt, decoratrice e amante della vita, già da alcuni anni
consuma prodotti senza lattosio. «Non voglio rinunciare al mio pane con
burro alla mattina. Per questo ho scelto il burro aha!».
aha! Burro 100 g Fr. 2.65
L’industria Migros produce numerosi
prodotti molto apprezzati,
tra cui anche i prodotti aha!.
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AFFRETTA
Televisore Ultra HD – 4K
125 cm
/
50"
Sintonizzatore DVB-T/C/S2 CI+
WLAN integrato
CMR 200 Hz
777.–
Samsung UE-50HU6900
N. articolo 7703.123
Offerta valida solo dal 30.9 al 13.10.2014, fino a esaurimento dello stock.
In vendita nelle maggiori filiali Migros e nei punti vendita melectronics.
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Idee e acquisti per la settimana
Foto e Styling Simone Vogel
Dolci sogni
autunnali:
i prodotti American
Favorites apportano
varietà e gusto.
Sweet Dreams
American Favorites porta l’autentico stile
di vita americano sulle tavole svizzere
Anche in Svizzera gli amanti della cucina americana non resteranno a mani
vuote: per loro esiste infatti l’esclusiva
linea della Migros American Favorites
con il suo ricco assortimento di deliziosi
prodotti ispirati al tipico lifestyle a stelle
e strisce. Un classico tra le specialità
americane di pasticceria è il Donut. E
ovviamente queste ciambelle dolci non
potevano mancare nella linea American Favorites. Sono ottenibili in una
pratica variante mini, ideale come
spuntino tra i pasti.
Un’altra bontà è il Brownie: questo dolce
al cioccolato è ottenibile sotto forma di
torta cosparsa di noci. Perché non sorprendere un collega in occasione del suo
compleanno? È sufficiente infilare una
candela sulla torta è già subito può par-
tire la famosa melodia Happy birthday.
Tra le specialità più apprezzate si contano poi i Muffins. Di questi durante la
stagione autunnale il più gettonato è la
variante Blueberry: i mirtilli conferiscono al muffin una nota fruttata che
ben si sposa con la dolcezza della pasta.
Preferite qualcosa di più sostanzioso?
Allora concedetevi una Bagel, con o senza superficie cosparsa di sesamo, da riempire secondo i gusti con carne, formaggio, salmone o insalata.
American Favorites si ispira al tipico lifestyle e gusto americano. L’ampio e variato assortimento è composto da una trentina di prodotti freschi nei settori pane,
pasticceria, convenience food e latticini.
Sono tutti prodotti in Svizzera, seguendo
le ricette della tradizione statunitense.
American Favorites
Bagel con sesamo
340 g Fr. 3.20
American Favorites
Blueberry Muffin
100 g Fr. 2.–
American Favorites
Brownie Cake
380 g Fr. 5.50
American Favorites
Mini-Donuts Sugar
72 g Fr. 2.60
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino¶29 settembre 2014¶N. 40
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Idee e acquisti per la settimana
Scambia,
gioca,
colleziona
ggiare
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e
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a
D
Peluche di Wolli,
5 motivi diversi, l’uno
Fr. 14.80
Una visita dagli abissi! In spettacoli itineranti,
in fotografia o addirittura nella scatola
per il pranzo: tutta la Svizzera è in preda
alla Captormania
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Per
La principale attrazione degli spettacoli
itineranti di Captormania: il gigantesco
sommergibile gonfiabile.
Per i viaggi
Trolley a due ruote, dimensioni:
38 x 50 x 20 cm. Peso: 2,8 kg
Fr. 49.90
SPETTACOLI ITINERANTI
I Captors
in tournee
Scambi, salti, lavoretti manuali,
giochi: fino al 25 ottobre il grande
Tour di Captormania fa tappa nelle
filiali della Migros. In una trentina
di filiali Migros di tutta la Svizzera
si potrà giocare con i Captors
e in alcune vi aspettano giganteschi
castelli gonfiabili a forma di sommergibili.
Luoghi e date degli eventi si trovano
sul sito Internet www.captormania.ch.
ezzare
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Per
ranzo
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I Cap
Pasta Captormania
Delfini fatti di pasta 500 g
Fr. 1.80
lle
Sulle spa
Si torna a scuola
Zainetto Captormania
Fr. 24.90
Per non perdere la chiave
Il portachiavi di Sorp in peluche
Fr. 7.90
Contro la sete
Borraccia in diversi
colori 330 ml
Fr. 5.90 ciascuna
Per spuntini volanti
Scatola per il pranzo
in diversi colori
Fr. 5.90 ciascuna
Portachiavi
Aurobin di peluche,
in cinque diversi motivi
Fr. 7.90 ciascuno
lare
Da cocco
tali
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d
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I fo
Peluche di Aurobin,
5 motivi diversi, l’uno
Fr. 14.80
Per cominciare e per conservare
Starter kit Fr. 5.–
Captorbox Fr. 9.80
Foto Nik Hunger, Thomas Andenmatten
Peluche di Marilin,
5 motivi diversi, l’uno
Fr. 14.80
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to:
Suggerimen cile
per una salsa fa
da preparare ,
ci vuole yogurterbe
sale, pepe ed
fresche o erba uole,
cipollina. Chi v
può spremere ’aglio.
anche un po’ d
All’hamburger e
si addice invec
il ketchup.
Foto e Styling Claudia Linsi
Idee e acquisti per la settimana
3
1
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Ampia scelta
vegetariana:
1. Burger
2. Wienerli
3. Falafel
4. Bio-tofu
affumicato
5. Bio polpette
Okara
6. Bio tartare
6
Per vegetariani
dal palato fine
Sei nuove specialità vanno ad arricchire
la linea Cornatur della Migros
Ogni anno, il primo ottobre si festeggia
la Giornata mondiale dei vegetariani,
istituita ormai nel lontano 1977. Siccome anche molti clienti della Migros
sono vegetariani o flexitariani, la linea
Cornamur propone loro un assortimento variegato composto da una
trentina di gustosi prodotti a base di
Quorn, frumento, soia, latte o verdure. La maggior parte dei prodotti sono
fabbricati in Svizzera ed un terzo possiede la certificazione Bio. In occasione
della Giornata mondiale dei vegetariani di quest’anno, la Migros lancia
sei novità che piaceranno sicuramente
sia ai vegetariani convinti sia ai divoratori di carne. Per la prima volta nel
settore del commercio al dettaglio, ora
c’è la deliziosa tartare vegetariana bio.
Come pure il burger vegano, ha un sapore praticamente identico a quello
della carne. Ai bambini, invece, piacciono molto le salsicce vegetali che, ad
esempio, si possono infilare in un hot
dog con senape e insalata. Perfette per
uno spuntino! Infine, il raffinato il tofu
biologico affumicato, i falafel e le speziate polpettine biologiche di oraka
sono ideali per una versione vegetariana del succulento antipasto turco chiamato «meze», da intingere in una gustosa salsina. L’okara è la pregiata torta
di soja, che si forma dopo aver prodotto il tofu. È ricca di fibre e di proteine.
Naturalmente, non bisogna aspettare
la Giornata mondiale dei vegetariani
per assaggiare queste prelibatezze vegetali. Consumare meno carne giova
anche all’ambiente. Infatti, il cibo vegetariano è più sostenibile della carne,
dato che per produrlo si inquina di
meno. / DH
Bio Polpette di Okara* 180 g Fr. 4.90
Cornatur Falafel*/** 180 g Fr. 4.90
Bio tartare vegetariana*
160 g Fr. 5.90
Cornatur Burger*/** 200 g Fr. 4.90
*Maggiori filiali. **20 x Punti Cumulus
.
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SETTIMA
40%
40%
30%
10.65 invece di 17.80
2.80 invece di 4.–
Salmì di cervo cotto
prodotto in Svizzera con carne della Nuova Zelanda,
600 g
Prosciutto cotto al forno
Svizzera, per 100 g
Da tutte le offerte sono esclusi gli articoli M-Budget e quelli già ridotti.
OFFERTE VALIDE SOLO DAL 30.9 AL 6.10.2014, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK
2.30 invece di 3.90
Uva Italia
Italia, al kg
FRESCHEZZA STRAORDINA RIA A PREZZI BOMBA.
50%
50 0 g
25%
30%
7.75 invece di 15.50
1.40
2.15 invece di 2.90
4.95 invece di 7.10
Wienerli M-Classic in conf. da 5
Svizzera, 5 x 4 pezzi, 1 kg
Peperoni misti
Paesi Bassi
Filetto di passera, MSC
Atlantico Nordorientale, per 100 g, fino al 4.10
Prosciutto crudo ticinese
prodotto in Ticino, affettato in vaschetta, per 100 g
30%
25%
30%
30%
40%
8.40 invece di 12.–
3.50 invece di 4.70
1.30 invece di 1.90
2.65 invece di 3.80
1.10 invece di 1.85
Castagne
Francia, sciolte, al kg
Arance bionde
Sudafrica, rete da 2 kg
Fontina Svizzera
a libero servizio, per 100 g
Spezzatino di vitello, TerraSuisse
Svizzera, imballato, per 100 g
Luganighe
prodotte in Ticino, imballate, per 100 g
40%
30%
2.10 invece di 3.10
Cavolini di Bruxelles
Svizzera, imballati, 500 g
5.60 invece di 7.–
Formentino Anna’s Best in conf. da 2
2 x 100 g, 20% di riduzione
Società Cooperativa Migros Ticino
OFFERTE VALIDE SOLO DAL 30.9 AL 6.10.2014, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK
1.90
1.95 invece di 2.45
2.85 invece di 4.80
Susine rosse
Italia, sciolte, al kg
Formaggio grigionese
alla panna Heidi
per 100 g, 20% di riduzione
Bistecche di manzo
Svizzera, in conf. da 4 x 120 g ca., per 100 g
PIÙ BONTÀ PER MENO SOLDI.
30%
20%
40%
5.20 invece di 6.20
9.95 invece di 13.50
6.–
4.65 invece di 6.70
2.60 invece di 3.30
10.60 invece di 17.70
Tutte le torte in conf. da 2
1.– di riduzione, per es. torta svedese
ai lamponi, 2 x 110 g
Biscotti Walkers Highlanders, Chocolate Chip
o Chocolate Chunk in conf. da 3
25% di riduzione, per es. Walkers Highlanders,
3 x 200 g
Nutella in barattolo da 1 kg
Panna intera UHT Valflora in conf. da 2
2 x 500 ml
Tutti gli yogurt M-Classic in conf. da 6
per es. al cioccolato, 6 x 180 g
Palline di cioccolato Frey in sacchetto da 750 g,
UTZ
per es. palline assortite, 750 g
30%
9.– invece di 12.90
Cappelletti M-Classic in conf. da 3
per es. ai funghi, 3 x 250 g
30%
33%
8.30 invece di 10.40
4.10 invece di 5.90
4.– invece di 6.–
Focaccia all’alsaziana Anna’s Best
in conf. da 2
20% di riduzione, per es. focaccia all’alsaziana,
2 x 350 g
Spinaci alla panna o piselli dell’orto
Farmer’s Best da 1 kg
surgelati, per es. spinaci alla panna
Nidi alle nocciole, amaretti alle nocciole
o discoletti in conf. da 2
per es. nidi alle nocciole, 2 x 215 g
30%
4.50 invece di 5.40
4.60 invece di 5.80
Uova svizzere da allevamento all’aperto
9 pezzi da 53 g+, 15% di riduzione
Tutte le salse per insalata Anna’s Best e Tradition Tutti i brodi Bon Chef ed Emma’s
Pomodori tritati Longobardi in conf. da 6
20% di riduzione, per es. French Dressing
20% di riduzione, per es. brodo di verdure Bon Chef 6 x 280 g
Anna’s Best, 700 ml
senza grassi, 225 g
OFFERTE VALIDE SOLO DAL 30.9 AL 6.10.2014, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK
4.45 invece di 5.60
4.60 invece di 6.60
Tante di queste offerte consegnate anche a domicilio da LeShop.ch
MIGGY FA SCOPPIARE I PREZZI.
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30%
30%
33%
2.80 invece di 4.20
6.30 invece di 7.90
5.60 invece di 8.10
9.35 invece di 13.40
9.10 invece di 13.05
7.90 invece di 11.90
Tutte le salse Bon Chef in conf. da 3
per es. al curry, 3 x 30 g
Tavoletta di cioccolato Frey Suprême
in conf. da 2, UTZ
20% di riduzione, per es. Lait Noisettes, 2 x 180 g
Gomma da masticare M-Classic in conf. da 3
per es. spearmint, 3 x 80 g
Pizza Antipasti Casa Giuliana in conf. da 2
surgelata, 2 x 350 g
Délice di pollo Don Pollo in busta da 1 kg
surgelati
Tonno Rio Mare in confezione multipla
per es. tonno in olio d’oliva, 3 x 52 g, in conf. da 2
33%
50%
6.30 invece di 7.90
5.40 invece di 8.10
10.30 invece di 20.75
Tutte le bevande istantanee al cacao e al malto
20% di riduzione, per es. Banago in sacchetto,
Fairtrade, 600 g
Risotto Subito al pomodoro, ai funghi porcini
o alla milanese in conf. da 3
per es. risotto alla milanese, 3 x 250 g
Branches Classic Frey in conf. da 50, UTZ
50 x 27 g
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Prosciutto cotto al forno, Svizzera,
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in Svizzera con carne della Nuova
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Gomma da masticare M-Classic
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Cotechino, prodotto in Ticino,
imballato, per 100 g
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Arrosto di vitello cotto, Svizzera,
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in vaschetta, per 100 g
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Atlantico Nordorientale, per 100 g
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ai funghi porcini o alla milanese
in conf. da 3, per es. risotto
alla milanese, 3 x 250 g
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nocciole o discoletti in conf. da 2,
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Walkers Highlanders, 3 x 200 g
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9.– invece di 12.90 30%
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cacao e al malto, per es. Banago
in sacchetto, Fairtrade, 600 g
6.30 invece di 7.90 20%
Focaccia all’alsaziana Anna’s Best
in conf. da 2, per es. 2 x 350 g
8.30 invece di 10.40 20%
Tutti i prodotti Nescafé,
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino¶29 settembre 2014¶N. 40
Idee e acquisti per la settimana
Dolce appuntamento d’autunno
Frey addolcisce l’inizio della stagione fredda con delle squisite truffes in edizione limitata
Da Frey l’innovazione è di casa. I cioccolatai di Chocolat Frey identificano
le tendenze e le concretizzano costantemente con nuove creazioni, tra cui
quelle che vanno ad arricchire l’assortimento di truffes. Ed è all’interno del
loro nucleo fondente che si cela il segreto del gusto di ogni varietà di queste prelibatezze, indipendentemente
che si tratti di cioccolato bianco, al
latte o nero.
La star dell’attuale stagione ha appena
fatto la sua apparizione sugli scaffali.
Croccante cioccolato al latte che racchiude un cremoso ripieno, nobilitato
da una spruzzatina di Whisky Irish
Cream. Questa specialità pralinata è
limitata ai mesi autunnali. Perfetta per
chi vuole viziarsi, fare un regalo agli
amici oppure addolcire ulteriormente
un appuntamento galante. / JV
Le truffes all’Irish Cream
sono il contorno ideale
per una piccola pausa nella
vita quotidiana, da soli
o in compagnia.
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Frey Truffes Irish Cream,
Edition limitée
159 g Fr. 10.20
20 x Punti Cumulus fino al 6.10.
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L’Industria Migros produce numerosi
prodotti molto apprezzati,
tra i quali anche le truffes di Frey.
Foto Claudia Linsi
Gusto: il liquore Irish Cream
emerge dal cioccolato in un modo
molto gradevole.
Dolcezza: un po’ troppo dolce
per i miei gusti.
Giudizio complessivo: molto
raffinato, una vera delizia.
Desiderio: lo stesso ripieno
combinato con cioccolato nero.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino¶29 settembre 2014¶N. 40
69
Idee e acquisti per la settimana
Una entrata alla grande
per i piccoli cracker
I nuovi mini-cracker di Blévita sono disponibili in tre varianti di gusto.
Sono ideali come tartine per l’aperitivo
Sono piccoli, leggermente salati e ottenibili nelle note di gusto Paprica, Provençale e Cream & Onion. I nuovi snack
da mordere Blévita mini sono altrettanto croccanti quanto i grandi, conosciuti
come cracker Blévita, che esistono da
oltre 40 anni. Questi tradizionali biscotti svizzeri hanno moltissimi sostenitori;
e non solo durante le pause oppure lo
sport.
Uno snack naturale, ricco di fibre
Avete in programma un ricco aperitivo?
Volete servire qualcosa di diverso dalle
solite chips o noccioline? In questo caso
i mini-cracker leggermente salati sono
perfetti. Si abbinano bene a saporite tartine, e sono indicati anche con le verdure.
Chi ha voglia e tempo, prepara le diverse
salsine da sé: come base si può utilizzare
dello yogurt nature, della maionese oppure della crème fraîche; si potranno poi
affinare a piacimento secondo i gusti culinari personali.
I mini-cracker contengono pregiata farina di spelta, preziose fibre e olio di girasole di qualità. Grazie al pratico sacchetto richiudibile restano freschi e croccanti
a lungo e sono sempre pronti per i vostri
aperitivi. / Heidi Bacchilega
L’industria Migros produce numerosi
prodotti molto apprezzati, tra cui anche
i cracker e sandwiches di Blévita.
Foto René Ruis; Getty Images
Novità: Blévita mini, Provençale 130 g Fr. 2.75
Novità: Blévita mini, Paprica 130 g Fr. 2.75
Novità: Blévita mini, Cream & Onion 130 g Fr. 2.75
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aglio, parmigia
e rucola tritata nare
finemente. Affi lio
con un po’ di o
di oliva.
I mini-cracker
Blévita sono
perfetti serviti
come dip.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino¶29 settembre 2014¶N. 40
71
Idee e acquisti per la settimana
Una tazza di relax:
la cultura del tè può
essere celebrata
anche in modo molto
spontaneo.
Melodia per lo spirito
Love me, Suprise me, Kiss me, Inspire me: parole che sembrano i titoli di canzoni
romantiche, ma che in realtà danno i nomi alla sinfonia di tè della nuova linea Tencha
Illumina la mente, acuisce i sensi, infonde leggerezza ed energia, scaccia la noia e la frustrazione: tutto questo si dice del tè nel suo Paese
d’origine, la Cina. Che si beva il tè per dimenticare il fragore del mondo, per rilassarsi tra
amici, per concedersi una breve pausa o semplicemente per riscaldarsi nei mesi più freddi: il tè
è sulla bocca di tutti e – acqua esclusa – è la bevanda più bevuta al mondo. La nuova linea di tè
del benessere di Migros si chiama Tencha. Con
Tencha Pretty me
16 bustine Fr. 5.70
le loro raffinate miscele, le sei varietà riflettono
la diversità di questo amato infuso. Ad esempio, Spice me è un tè nero combinato con spezie
esotiche come cannella, cardamomo, zenzero e
pepe nero. Il tè di erbe Surprise me è invece una
miscela di menta, mela e camomilla. Pretty me
e Kiss me consistono in una miscela di diverse
bacche, mentre Love me è un te alla frutta, che
seduce con il suo bouquet di boccioli di rosa,
fragole e dolci foglie di mora. E per chi piace la
Tencha Love me
16 bustine Fr. 5.70
Tencha Spice me
16 bustine Fr. 5.70
vaniglia, Inspire me abbina il tè nero con un tocco di vaniglia e limone.
Un regalo ideale
I nuovi tè di Tencha emanano una bella sensazione anche a livello ottico, grazie alla loro graziosa confezione, che si presta perfettamente per
un regalo. Tanto più che i tè della linea Tencha
sono avvolti in pregiati sacchetti di cotone, al
posto delle comuni bustine. / NO
Tencha Surprise me
16 bustine Fr. 5.70
20 x Punti Cumulus sulla nuova linea Tencha fino al 6 ottobre.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino¶29 settembre 2014¶N. 40
72
Foto Yves Roth, Styling Mira Gisler
Idee e acquisti per la settimana
Una botta di vitalità
Actilife apporta al corpo tutto il necessario
Combinati con una dieta equilibrata e
un adeguato esercizio fisico, i prodotti
Actilife apportano al corpo tutto quello
di cui ha bisogno. L’assortimento comprende prodotti per la prima colazione
come il müesli e le bevande, oltre a speciali integratori alimentari che contengono
importanti vitamine e minerali, nonché
altre preziose sostanze. Per esempio,
con i suoi 375 milligrammi di magnesio, un’unica compressa effervescente
di magnesio Actilife copre il fabbisogno
giornaliero di un adulto. Questo minerale favorisce il normale funzionamento di
nervi e muscoli. E non è indispensabile
soltanto alle persone che fanno sport.
Attivo contributo al benessere
Dal canto suo, il ferro è importante per
la normale formazione dell’emoglobina nei globuli rossi e quindi favorisce la
diffusione dell’ossigeno nel corpo. Un
approvvigionamento sufficiente contribuisce a ridurre affaticamento e stanchezza. Due volte al giorno un mezzo
cucchiaio di Actilife Ferro Vital copre il
fabbisogno giornaliero. Questo sciroppo consiste per il 64 percento in succo di
lampone e quindi ha un sapore davvero
buono. Anche la vitamina C aumenta
la capacità del corpo di assumere ferro.
Infine, il succo multivitaminico Bun Di
è un vero e proprio toccasana mattutino per la vitalità: contiene nove vitamine essenziali ed è arricchito di preziose
fibre alimentari. Motivo sufficiente per
iniziare la giornata con un bel sorso di
Bun Di. / JV
Actilife Magnesio Compresse effervescenti
20 pezzi Fr. 5.70
Actilife Bun Di
1 l Fr. 1.85
Actilife Ferro Vital*
240 ml Fr. 16.90
* nelle maggiori filiali
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino¶29 settembre 2014¶N. 40
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Idee e acquisti per la settimana
Ogni pianta
richiede una
cura speciale.
La Migros
fornisce tutte
le informazioni
al momento
dell’acquisto.
1. Yucca
Ama la luce,
ma le basta
qualche ora
di sole al giorno.
D’inverno
va annaffiata
moderatamente.
Vaso 21 cm
Fr. 34.90
2. Beaucarnea –
Piede d’elefante
D’estate vuole
luce e sole,
ma d’inverno
collocatela
in un luogo fresco;
annaffiare appena.
Vaso 14 cm
Fr. 19.90
3. Spatifillo
Vuole luce,
ma non i raggi
diretti del sole.
Annaffiare
regolarmente.
ex. in un vaso di
17 cm di diametro
prezzo del giorno
3
4. Zamioculcas
È una pianta
molto facile, può
stare sia in locali
luminosi che bui.
Necessita di poca
acqua.
Vaso 19 cm
Fr. 29.90
2
5. Livistona
Un posto
luminoso con
poca luce solare
diretta. D’estate
va annaffiata
ogni 2 o 3 giorni,
d’inverno una volta
a settimana.
Vaso 14 cm
Fr. 19.90
4
Nelle maggiori filiali.
I prezzi indicati
non includono
i portavasi.
1
La natura entra in casa
Oltre a creare un bell’ambiente, le piante da interno contribuiscono ad eliminare
le sostanze nocive presenti nell’aria di casa
Quando cadono le foglie è tempo di riportare le piante sempreverdi fra le
quattro mura di casa. Oltre a compiacere gli occhi e la mente, le piante creano
un clima sano all’interno, poiché umidificano l’aria e filtrano gli agenti inquinanti. Contribuiscono così a ridurre
la formaldeide, il benzene o la trielina,
che spesso provocano emicranie ed allergie. Queste sostanze possono annidarsi nei mobili laminati, nei tappeti,
negli interstizi dei pavimenti o nel
fumo di sigarette. Seguendo un paio di
consigli, chiunque può sviluppare un
pollice verde. Il fattore decisivo è collocare le piante nel posto giusto. Alcune,
come ad esempio lo spatifillo o la livistona, non tollerano la luce solare diretta, che ne danneggia le foglie. Inoltre, la
maggior parte delle piante soffre se le si
annaffia troppo. Infatti, d’inverno crescono poco, quindi hanno bisogno di
poca acqua e, in generale, necessitano
anche di meno cure. Una ragione in più
per circondarsi di verde quando fuori
tutto diventa grigio. / AW
Foto: Yves Roth, Styling: Karin Aregger
5
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino¶29 settembre 2014¶N. 40
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Foto Ge
Uno scatto
per il tuo gatto
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Idee e acquisti per la settimana
Dove adora stendersi il vostro quattro
zampe? Sul divano, sul termosifone o
sotto il letto? Nell’ambito della Giornata mondiale degli animali di sabato
4 ottobre, la Migros lancia un grande
concorso fotografico. In palio ci sono
molti alettanti premi: una macchina
fotografica con relativo equipaggiamento del valore di circa 2500 franchi,
due iPad del valore di 500 franchi ciascuno o dieci carte regalo Migros del
valore di 50 franchi. Spediteci entro il
6 ottobre una simpatica foto del vostro
animale domestico in posta nel suo
posto preferito, ovunque esso sia. Troverete tutte le informazioni del concorso su: www.migros.ch/giornatadegli-animali .
Sempre fino al 6 ottobre c’è il 30% di
sconto su tutto l’assortimento di prodotti per animali di Selina, Asco e
M-Classic. L’uno percento del fatturato dell’assortimento di prodotti per
animali generato durante il periodo
dell’offerta speciale, sarà devoluto
alla Protezione svizzera degli animali,
all’Associazione cani da terapia svizzera e alla Stazione ornitologica di
Sempach.
M-Classic Becchime per uccelli esotici e pappagallini 1 kg Fr. 1.80* invece di 2.60
Asco Terrine Sensitive 4 x 150 g Fr. 2.75* invece di 3.95
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Sensitive Plus in conf. da 2*, 2 x 400 ml
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per es. dentifricio White MicroCrystals in conf. da 3, 3 x 75 ml
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medium in conf. da 3, 3 pezzi
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino¶29 settembre 2014¶N. 40
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Idee e acquisti per la settimana
Effetto
abbagliante
La maggior parte dei vestiti non sono
fatti per durare in eternità. Eppure
si vorrebbe che i propri capi preferiti
avessero a lungo un bell’aspetto e conservassero il loro colore come da nuovi. I detersivi per capi delicati Yvette
Color e Yvette Black possiedono una
sofisticata formula proteggi colore, che
impedisce di sbiadire ai capi colorati e,
rispettivamente, a quelli scuri. La formula Brilliant Colour di Yvette Color
ridona splendore ai capi colorati, mentre la formula Brilliant Black di Yvette
Black regala brillantezza ai vostri indumenti neri o di colore scuro. Grazie
allo speciale principio attivo di Yvette,
i vostri vestiti preferiti mantengono a
lungo la loro forma. I prodotti sono testati dermatologicamente e facilmente
biodegradabili.
Yvette Color 2 l Fr. 11.20
L’Industria Migros produce numerosi
prodotti molto apprezzati,
tra i quali anche i detersivi Yvette.
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