Olio Di Oliva - Greci Romani - Atelier dei Paesaggi Mediterranei

OLIO DI OLIVA
Autore: Antonio Scandurra
Periodo- popolo di riferimento: Greci-Romani
Simbolo di pace e longevità, l'olivo inizia il suo percorso di specie coltivata nella regione compresa
tra i rilievi a sud del Caucaso e ad ovest dell'altopiano iraniano, dove, circa 6.000 anni fa, alla sua
coltivazione si dedicarono i popoli semitico-camiti. L'abbondanza dei reperti e le testimonianze
degli antichi ci parlano dunque della storia millenaria dell' Olea europaea sativa che, dall'Oriente,
presto raggiunse quello che Braudel chiamò, non a caso, il "mare degli oliveti", il Mediterraneo,
giungendo prima in Grecia, quindi sulle coste africane e, infine, nella penisola iberica e italiana. A
partire dalI'VIII secolo a.C., con la colonizzazione greca dell'Italia meridionale, la coltivazione
dell'olivo venne introdotta in quella che verrà chiamata la Magna Grecia. Si narra che Romolo e
Remo, discendenti degli Dei e fondatori di Roma, videro la luce sotto i rami di un olivo, anche se a
dar retta a Fenestrella, storico annalista citato da Plinio nella Naturalis historia, sembrerebbe che
fino al VI secolo a.C, nella città eterna, la coltivazione dell'olivo fosse ancora sconosciuta. In questo
affascinante e lungo viaggio la storia e il mito dell'olivo e dell'olio si intrecciano ripetutamente e se
per il popolo ebraico fu Dio a donare ad Adamo, ormai prossimo alla morte, i tre semi che il figlio
Seth pose tra le sue labbra prima di seppellirlo e dai quali germogliarono il cedro, il cipresso e
l'olivo, è alla Dea Iside, moglie di Osiride, che gli antichi egizi rendevano omaggio per aver dato
loro la capacità di coltivare il sacro albero.
È l'olio il prodotto principe dell'olivo, ab initio apprezzato per il suo legno. L'olio, fonte di luce e
alimento con elevata conversione energetica, elemento simbolico delle grandi religioni monoteiste,
unguento prezioso degli atleti olimpici.
E siamo arrivati al periodo d'oro dell'olio e della sua città d'elezione, Atene. Passata l'età dei miti
l'olio e gli olivi diventano fondamentali nella realtà e nell'economia della Grecia. Di tutta la Grecia,
ma specialmente dell'Attica. Gli Ateniesi ne fanno, insieme al vino, il centro della loro attività
agricola, ma anche centro della loro cultura e civiltà. L'olivo simbolo di pace e di sapienza come la
divinità che l'ha donato e che è nume tutelare della città, la Glaucopide Atena, la dea dagli occhi
che risplendono come le foglie verde-argento degli ulivi. La dea protettrice cui, nell'alto
dell'acropoli, accanto al bosco cresciuto intorno al primo olivo suo dono divino, verrà dedicato il
grande Partenone, il tempio di Pallade, dove accanto alla statua d'oro e d'avorio della Vergine dea
della Saggezza, scolpita da Fidia, risplende perenne la grande lampada votiva che i grati e devoti
ateniesi alimentavano una sola volta all'anno, con l'olio dell'ultimo raccolto dell'oliveto sacro.
E se il vino per i classici esalta la mente e si esprime nel simposio, l'olio cura il corpo e lo esalta
nelle gare atletiche. L'olio unge i muscoli dei corridori e dei lottatori, d'olivo (selvatico) è il serto
che adorna il capo dei vincitori e vasi d'olio sono il premio per le Panatenaiche.
Anche se l'olio era considerato un genere di lusso e comunque prezioso, tra le classi agiate ateniesi,
se ne faceva un uso giornaliero e notevole. È stato calcolato che un cittadino che frequentava il
ginnasio consumava in un anno 30 litri di olio per l’ igiene e la cura del corpo, 20 litri per
l'alimentazione, tre litri come lubrificante e per l'illuminazione, mezzo litro come farmaco e un paio
di litri per i riti sacri. Tra questi, importantissimi, i riti funerari con la purificazione e unzione dei
corpi. Grande la produzione di profumi e di balsami derivati dall'olio d'oliva. Una "moda" che
veniva dall'Oriente e che spopolava in Egitto. Gli Spartani criticavano i "corruttori dell'olio", come
venivano chiamati i produttori di unguenti, ma furono loro a compiere il delitto più grave contro gli
Ateniesi. Durante la guerra del Peloponneso, che si trascinava da anni, abbatterono gli olivi intorno
ad Atene che si arrese.
Ogni città fabbricava le sue anfore con forme e decorazioni particolari. L'olio di Atene veniva
commercializzato in un'anfora detta "SOS", che garantiva agli acquirenti la qualità e la quantità del
prodotto, una specie di garanzia di origine. Ma anche allora non mancavano le truffe e le
sofisticazioni.
Un' altra leggenda narra che fu Ercole, di ritorno dalle sue gloriose spedizioni, a portare l'olivo in
Grecia e a piantarlo sul monte Olimpo.
L'arte di coltivare l'olivo e di ricavarne olio, secondo un mito diffuso nella parte occidentale del
Mediterraneo, è dovuta ad Aristeo, figlio di Apollo e di Cirene, che la portò in Sicilia, in Sardegna e
nella penisola Italica come a segnalare che la domesticazione dell'olivo arriva in Italia dalle coste della
Libia (Cirenaica) per mano di antichi Fenici.
E per tornare a Omero qualche citazione: è in un grande antico olivo che viene intagliato il letto di
Ulisse a Itaca. Di un verde ramo d'olivo è fatta la clava di Polifemo, una scheggia della quale servì a
Ulisse per accecare il mostro. Il manico della scure che Calipso dona a Ulisse è d'olivo, e d'olivo è il
manico dell'ascia di Pisandro e a un olivo Omero paragona Euforbio che cade sotto i colpi di Menelao.
(1)
Pena di morte a chi taglia olivi in Attica: Se qualcuno avrà sradicato o avrà abbattuto un olivo, sia
di proprietà dello Stato sia di proprietà privata, sarà giudicato dal Tribunale, e se sarà
riconosciuto colpevole verrà punito con la pena di morte." Aristotele, Costituzione degli Ateniesi.
(a)
Tra l' VIII e il V secolo a.C. la coltivazione dell'olivo e l'uso dell'olio si diffondono, dalle colonie
costiere siciliane della Magna Grecia, nell'area centrale della penisola italica, specialmente tra gli
Etruschi. E con gli Etruschi verso l'interno e oltre gli Appennini, nella Pianura Padana e verso sud
fino a Benevento. Non si può escludere che anche precedentemente si sia fatto uso sporadico di olio
e olive da olivastro, ma con il fiorire della prima ondata etrusca del VII secolo la precedente
esperienza villanoviana del centro Italia viene travolta dai nuovi arrivati o, come sembra più
probabile, da autoctoni che elaborano velocemente le culture in arrivo da Oriente (con viaggiatori o
esuli più o meno numerosi dalla Lidia come narrano le leggende). Fatto sta che in poche decine di
anni una nuova classe dirigente conquista le città dell'Etruria e introduce nuove forme di cultura
utilizzando idee e prodotti provenienti dalla Grecia e specialmente dall'Attica. Così per il vino e il
simposio. Così per l'olio e le sue utilizzazioni: alimentare, ginnico, estetico, per l'illuminazione e
per i riti sepolcrali. Per questi primi aristocratici etruschi l'olio resta un genere di estrema rarità.
Costoso e di lusso. Sicuramente uno status symbol. Arrivava in contenitori appositi a seconda della
quantità: nelle anfore per l'illuminazione e per i pochi usi alimentari. Molti sono i tipi di lucerne di
questo periodo sempre mutuate dai tipi greci, mentre per la cucina probabilmente era più frequente
l'uso di grassi animali.
Per l'importante uso ginnico arrivava già in splendidi contenitori attici come gli aryballos, che
compaiono attaccati al braccio dell'atleta negli affreschi della tomba della Scimmia di Chiusi.
Oppure negli alabastra da cui veniva spalmato sul corpo dei lottatori come nella Tomba degli Auguri
a Tarquinia. Per le signore etrusche, poi, l'olio d'oliva arrivava in preziose boccettine, specialmente
da Corinto, già mescolato ai profumi di cui si faceva un grande uso ed enorme sfoggio. Non va
dimenticato a tal proposito che i ricchi Etruschi hanno copiato in tutto i modelli greci meno che nella
condizione femminile, che era così "emancipata" da far gridare allo scandalo i viaggiatori del tempo
abituati a una sostanziale separazione delle donne dalla vita sociale maschile. Il simposio greco
prevedeva la presenza muliebre soltanto per le etère, capaci di cantare e di ballare e anche, a volte, di
parlare con gli uomini, ma altrettanto lontane dall'idea di curarne i figli. Le aristocratiche etrusche,
invece, partecipavano a pieno titolo al banchetto con il loro sposo e bevevano insieme a lui il vino
come sono state spesso rappresentate in sculture e in affreschi. È facile immaginarle dunque ben unte
e profumate di balsami costosi e orientali di cui ci restano numerosissimi e bellissimi cocci-ni. E
poiché ogni ricchezza e identità etrusca finiva nelle tombe, anche l'olio aveva un importanza
fondamentale nei riti dell'inumazione ed è frequentissimo trovare preziosi contenitori da importazione
nelle tombe degli uomini più importanti.
Ma verso la fine del VII secolo anche gli Etruschi imparano a fare l'olio oltre al vino e copiano anche i
contenitori. Si producono vasi e anfore e anche i piccoli balsamari vengono realizzati in bucchero nero.
L'olio come il vino non sono più rari e preziosi beni di lusso che vengono da lontano per pochissimi
privilegiati. Diventano via via prodotti di uso più vasto, a portata di una cerchia più larga di agiati
consumatori, e questo è dimostrato anche dalla sempre maggiore presenza nei corredi tombali del VI e
V secolo. Contemporaneamente le dolci colline dell'Etruria, oltre al grano, vedono estendersi la
presenza di olivi e di vigne. Con una tendenza alla specializzazione fino ad allora sconosciuta. È a
questo punto che i Romani apprendono dagli Etruschi l'arte di fare il vino e l'olio. È sotto il regno di
Tarquinio Prisco che questo popolo di pastori avvezzi a bere soltanto il latte di capra (la battutaccia è
di Plinio il Vecchio) imparano ad arare e seminare il grano, imparano a raccogliere l'uva e a farne
vino, capiscono che vai la pena piantare l'olivo e aspettare tutto il tempo necessario a ricavarne l'olio
prezioso. Due o tre generazioni, giusto il tempo di far diventare produttivi gli olivi e si
emanciperanno dal controllo etrusco e sfrutteranno la posizione strategica di controllo del passaggio
sul Tevere- che unisce le più importanti città etrusche, in quel momento in vorticoso sviluppo, alle
terre del Sud dove hanno espanso la loro influenza economica. Roma crescerà circondata dalle terre
dove si coltiva il grano, si cura la vigna, si raccolgono le olive.
Furono proprio i Romani a esaltare l'uso alimentare dell'olio che fino a questo punto era sempre
apparso secondario. L'olio va ad arricchire di grassi e di sapori le polente, le verdure e i cereali che per
tutto il periodo repubblicano costituiscono la base alimentare anche dei Patrizi. E per questa
utilizzazione l'olio doveva essere buono: su questo le idee, i Romani, le avevano veramente chiare e
fin dai primi scrittori le indicazioni per il mantenimento degli oliveti e per la produzione dell'olio
sarebbero ancora oggi applicabili con giovamento della qualità complessiva.
Del resto in questo periodo furono introdotti alcuni importanti perfezionamenti nella tecnologia
olearia raccontati dalle numerose opere latine di agronomia scritte a partire dal III secolo a.C. La
più antica è il Liber de agricultura o De re rustica di Marco Porcio Catone, il grande Catone il
Censore nato a Tusculum, terra d'olivi, nel 234 a.C. e vissuto prima come soldato, poi come
castigatore delle cattive abitudini dei suoi contemporanei, infine come scrittore della ponderosa
opera summa della sapienza agricola del tempo in cui si legge qualcosa che tutti vorremmo veder
applicare anche oggi: "olea ubi leda siet, oleat fiat in continuo, ne corrumpatur" tradotto "appena
raccolte, bisogna subito estrar l'olio dalle olive, per evitare che si sciupi". E prosegue: "Pensa alle
intemperie grandi che ogni anno avvengono e sogliono far cadere le olive. Se fai presto la raccolta,
e i recipienti sono pronti, nessun danno da esse, mentre l'olio sarà più verde e migliore. Se rimangon troppo a terra o su un tavolato, le olive cominciano a putrefare e l'olio avrà cattivo odore".
Per Catone l'olivo nella graduatoria d'importanza tra le coltivazioni del buon agricoltore nella sua
villa veniva dopo la vigna, l'orto irriguo e il saliceto, ma prima del prato, del seminativo e del
bosco.
Ma mentre il vigneto tipo, nell'idea del buon padrone, doveva essere di circa 100 iugeri (i nostri 20
ettari) con dedicati 2 fattori, 10 braccianti, un aratore, un asinaio, un legatore e un porcaro (naturalmente tutti schiavi), l'oliveto ideale raggiungeva i 240 iugeri (più del doppio) e vi lavoravano
soltanto 13 schiavi.
Questa idea che l'oliveto costa poco e rende bene è molto radicata nella concezione romana e resta
centrale nei secoli dalla Repubblica all'Impero se anche Lucio Giunio Moderato Columella, il più
importante scrittore di agricoltura nel I secolo della nostra era, scriveva nell'Ale dell'Agricoltura:
"ex omnibus stirpibus minorem inpensam desiderat olea, quae prima omnium arborum est" ("tra
tutte le piante l'olivo è quello che richiede spesa minore, mentre tiene tra tutte il primo posto").
E prosegue notando da accorto agricoltore che l'olivo si mantiene con poco e con qualche attenzione
moltiplica il frutto: "trascurato anche per diversi anni non si rovina come la vite e comunque continua a portare qualche frutto al padrone; e quando poi si torna a coltivarlo, in un anno si rimette".
E infine la più attuale delle indicazioni: "quando le olive cominciano a cambiare colore e alcune
sono già nere, ma la maggior parte ancora verdi, si dovranno cogliere a mano in una giornata
serena, distenderle su cannicci o su stuoie e vagliarle e pulirle. Appena si sono mondate con
diligenza, si portino subito al torchio". Tra questi due autori divisi da tre secoli poche sono le
differenze di posizione rispetto all'olivo e alla sua importanza che comunque cresce con l'espandersi
della potenza romana, che necessita sempre più della facile conservazione dell'olio, del suo prezzo
stabile e della relativa facilità di trasporto che lo ha reso nei secoli antichi il più importante prodotto
di scambio. Di oltre un secolo posteriore a Catone un grande prolifico letterato, Marco Terenzio
Varrone - il Reatino terrore dei liceali - con splendida lingua latina dà i suoi consigli: "Quanto
all'oliveto, quel le olive che tu puoi raggiungere con le mani da terra o per mezzo di scale, è meglio
coglierle che bacchiarle, perché quelle che sono spiccate con le mani" non sono danneggiate e
consiglia i proprietari di proibire agli schiavi di usare ditali di metallo, ma di brucare le olive a mani
nude per non ammaccare le bucce e non scortecciare i rametti che resterebbero esposti alle gelate. E
aggiunge con una battuta che non sfigurerebbe in qualche attuale pubblicità: "Le olive danno alla
villa lo stesso duplice ricavato dell'uva, quello del cibo e quello dell'olio, e non solo per lubrificare
il corpo all'interno, ma anche per ungerlo all'esterno. Pertanto esso va dietro al padrone e quando
si reca al cesso e quando si reca alla palestra".
Varrone chiarisce nel suo De lingua latina l'origine della parola olea (oliva) che viene dal Greco
elaia e con sicurezza giudica l'olio di Venafro il migliore del mondo: "Al contrario in Italia cosa
v'ha di utile che non solo non nasca, ma non venga anche bene? Quale olio (si potrebbe
paragonare) a quello di Venafro?". Un giudizio tanto lusinghiero sull'olio di Venafro condiviso anche da altri scrittori e poeti: Marrone, Plinio, Orazio e Stradone. E Giovenale che dileggia un tal
Virrone che maltratta gli ospiti di poca importanza: "Sul suo pesce Virrone versa olio di Venafro,
mentre ai clientes viene dato olio da lucerne, un olio che usava dopo il bagno un tale, così acido e
puzzolente, che alle terme per il tanfo tutti se ne tenevano alla larga". L'oliaccio insomma che
Marziale definisce: "l'olio di cui si ungono i capelli le puttane".
Buono era ritenuto anche l'olio Reatino e Sabino e quello della Liburnia in Istria; pessimo era
considerato l'olio africano, che veniva usato esclusivamente per l'illuminazione. Non mancavano
allora, come oggi, le contraffazioni, se dobbiamo credere a una ricetta di Apicio che insegnava a
contraffare l'olio della Liburnia utilizzando uno scadente prodotto spagnolo. Secondo Plinio l'Italia
della metà del I secolo d.C. possedeva tanto ottimo olio e di poco prezzo da superare tutti gli altri
Paesi.
Le varie categorie di olio erano individuate con denominazioni chiare ed efficaci: Oleum ex albis
ulivis era l'olio di altissimo pregio ottenuto da olive ancora acerbe; Oleum viride quello
qualitativamente altrettanto valido, ricavato da olive appena invaiate e prossime perciò a una
maturazione incipiente; Oleum maturum quello ottenuto invece da olive nere e già mature, di
qualità considerevolmente inferiore ai primi due oli; Oleum ca-ducum, di qualità mediocre, quello
che veniva estratto da olive raccolte da terra perché cadute dall'albero per maturazione avanzata;
Oleum cibarium, infine, per indicare un prodotto di pessima qualità, ottenuto da olive aggredite da
parassiti e destinato in parte all'alimentazione degli schiavi e in parte a usi diversi.
Con il crescere di Roma cresce anche la quantità dell'olio utilizzato nei vari settori, alimentare e per
l'illuminazione soprattutto, ma anche per la cosmesi e la cura del corpo e anche per uso, diciamo
così, meccanico-industriale come lubrificante, una novità che solo gli ottimi ingegneri romani
potevano immaginare su larga scala. Alla maggior richiesta di prodotto si risponde con l'ampliamento degli oliveti della Sabina e del Lazio meridionale come pure delle terre che erano più
delle altre adatte ad accogliere i vari tipi di cultivar selezionate dagli agronomi che ne studiavano da
vicino i comportamenti produttivi e le risultanze qualitative degli oli estratti. Da questa selezione
nascono le differenti vocazioni dei tipi e delle zone ora adatte all'alta qualità degli oli alimentari e
balsamici, ora più utili alla produzioni di grande quantità per l'illuminazione e l'industria.
Le legioni romane conquistano prima l'Italia e poi l'Europa, infine tutto il bacino del Mediterraneo e
quando si insediano su un territorio per prima cosa tracciano le strade e vi piantano viti e olivi. Con
l'espandersi dell'Impero e dell'Urbe la produzione locale e italica non basta e l'olio comincia ad
arrivare in gran copia dalle province. Da Africa e Spagna innanzi tutto, anche come pagamento di
tasse. Plutarco loda Cesare perché conquistando l'Africa ha assicurato a Roma 3 milioni di litri di
olio all'anno dalla sola Leptis Magna, perla della costa libica, punita per aver parteggiato per
Pompeo.
Attraverso i suoi tre porti (Ostia, Portus ed Emporio, sotto l'Aventino) giungevano a Roma le
derrate alimentari di cui l'Urbe aveva bisogno. Ai tempi di Augusto l'annona aveva in carico
200.000 cittadini a cui distribuire gratuitamente solo il grano. Ma a partire da Antonino Pio si
ebbero distribuzioni anche di olio e vino. Quelle di olio furono rese stabili da Settimio Severo,
imperatore la cui famiglia si era arricchita in Libia e che era nato proprio a Leptis Magna. Ma
quanto olio si consumava a Roma? Calcoli teorici son stati fatti stilla base delle anfore accatastate al
Testaccio. Sarebbero arrivate a Roma, in età imperiale, circa 320.000 anfore d'olio all'anno,
equivalenti a 22.480 tonnellate, ossia 22 chili a testa. Ogni abitante di Roma (a quei tempi circa 1
milione di abitanti) avrebbe quindi consumato in media due litri di olio al mese. L'alta quantità si
spiega tenendo conto che l'olio non era utilizzato solo per l'alimentazione, ma per l'illuminazione,
l'igiene, la medicina, la cosmesi, la meccanica. Per fare un raffronto oggi in Italia se ne consumano
circa 14 kg a testa all'anno.
Le province che maggiormente contribuivano erano la Betica (Spagna meridionale), l'Africa
Proconsolare (Tunisia) e la Tripolitania. La Betica cominciò a inviare olio a Roma in età augustea.
La quantità crebbe progressivamente, fino a toccare il massimo intorno al 250 d.C. Dal 260 invece
decrebbe, in seguito alle invasioni che devastarono in quegli anni il Mediterraneo occidentale. Le
importazioni ripresero poco prima del 300 con Aureliano, e terminarono definitivamente nel secolo
successivo.
La coltivazione dell'olivo in Campania vanta una storia millenaria La diffusione è attribuita a Fenici
e Greci, presso i quali gli olivi erano coltivati non solo per la produzione di olio alimentare, ma
soprattutto, per l'illuminazione, per ricavarne unguenti e profumi è per accendere lampade votive in
omaggio alle divinità. Testimonianze della presenza dell'olivo in Campania in epoca romana si
hanno negli scavi di Pompei ove sono stati ritrovati reperti di olive carbonizzate, noccioli e foglie,
oltre a bottiglie di vetro contenenti olio e numerose lucerne fittili (Pompei, Termopolio di Asellina).
Raramente l'olivo o le olive figurano nei dipinti delle case romane di Pompei ed Ercolano; tuttavia,
due famose coppe d'argento ornate da rami con foglie e frutti di olivo sono state ritrovate nella casa
del Menandro a Pompei. Numerosi sono i dolii ritrovati nell'area vesuviana contenenti oli, mentre
annessa alla Villa della Pianella (Boscoreale, NA) è stato rinvenuto un frantoio d'epoca romana
(trapetum).
Nel Cilento recenti ricerche archeo-botaniche hanno documentato la presenza dell'olivo già nel VI
secolo a.C; la tradizione vuole che le prime piante siano state introdotte dai Focesi. L'olivo era
certamente presente tra i templi di Paestum e le rovine di Velia. In Campania, poi, è facile
imbattersi in olivi secolari; nel Salernitano, in particolare, sono stati individuati esemplari millenari
attribuibili alle varietà Pisciottana e Rotondella.
Greci e Romani svilupparono la coltura dell'olivo non solo per ricavarne il prezioso olio ma anche
per trasformare i suoi frutti da accompagnare ai cibi.
Le olive venivano raccolte, a seconda dell'uso cui erano destinate, in periodi diversi: ancora acerbe
(olive albae o acerbae), non del tutto mature (olive variae o fuscae), mature (olive nigrae). Secondo
Plinio il Vecchio (24-79 d.C.) nella sua Naturalis historia, lib. XII-XV, quando l'oliva comincia a
scurire (invaiatura), il frutto prende il nome di druppa. Si raccomandava di staccarle dal ramo con le
mani a una a una; quelle che non si potevano cogliere salendo sugli alberi venivano fatte cadere
gioendosi di lunghi bastoni flessibili, sempre ponendo la massima attenzione a non danneggiarle.
In epoca imperiale le olive si servivano in tutte le cene, anche in quelle più importanti: come diceva
Marziale, esse costituivano sia l'inizio sia la fine del pasto, venivano, cioè, sia portate come
antipasti, sia offerte quando, finito di mangiare, ci si intratteneva a bere.
Solitamente erano conservate in salamoia leggera (muria) o forte (muria dura), ben coperte dal
liquido, fino al momento di usarle, poi si scolavano e si snocciolavano tritandole con vari aromi e
miele, oppure venivano anche marinate in aceto e, condite in questo modo, erano pronte all'uso.
Alcune preparazioni prevedevano invece la salatura con conseguente fuoriuscita dell'acqua di
vegetazione (amurca) e raggrinzimento del frutto.
Tutti i più importanti scrittori latini di agricoltura hanno lasciato insegnamenti sulla coltivazione
dell'olivo e sulla produzione di olio e olive da tavola, stilando vere e proprie ricette molto simili a
quelle attualmente seguite per la preparazione di olive schiacciate, di olive all'aceto (Kalamata), di
quelle al sale secco, di quelle variamente condite e dei pàté di olive verdi e nere.
Catone il Censore (234-149 a.C.) ci ha lasciato la ricetta per fare l'Epityrum. Si tratta di una salsa
molto saporita che si otteneva da frutti colti quando cominciavano appena a ingiallire, scartando
quelli con qualche difetto. Dopo aver fatto asciugare le olive sulle stuoie per un giorno, si
mettevano in un fiscolo nuovo, cioè in una di quelle ceste di fibra vegetale fatte a forma di tasca,
con un foro superiore e uno inferiore, in cui si racchiudevano le olive frantumate per poi spremere
l'olio; quindi si lasciavano una notte intera sotto la pressa. Dopo di che venivano sminuzzate e
condite con sale e aromi e, dopo aver messo l'impasto così ottenuto in un vaso, lo si ricopriva d'olio.
Dal nome, c'è da pensare si mangiasse accompagnandolo con del formaggio. Plauto e Varrone la
riportano come una specialità siciliana.
Inoltre, con le olive più pregiate e più grosse, si preparavano ottime conserve che duravano tutto
l'anno e fornivano un nutriente ed economico companatico. Magone il Cartaginese (III sec. a.C.) ha
scritto in lingua punica un trattato sull'agricoltura, tradotto e condensato in greco da Cassio Dioniso
l'Uticense (III sec. a.C), in cui viene riportata la ricetta per le olive colymbadas (letteralmente "le
affiorate"), ripresa in seguito anche nel De re rustica di Columella (4-70 d.C).
Ricetta per le olive colymbadas
"Togli dalla salamoia le olive mature che avrai messo a nuotare in essa a strati, e asciugale con una
spugna; poi con un pezzo di canna verde incidile in due o tre punti e lasciale per tre giorni nell'aceto;
al quarto giorno asciugale bene con una spugna e mettile in un recipiente, voglio dire in un orciolo o in
una marmitta nuova, sul fondo del quale avrai disposto un letto di sedano con poca ruta. Quando poi il
vaso sarà pieno di olive, versavi del vino cotto fino alla bocca. Metti a questo recipiente dei tappi di
lauro, che tengano le olive sotto il liquido. Dopo venti giorni te ne puoi servire." De re rustica, libro XII,
Columella (4-70 d.C), trad. R. Calzecchi Onesti, Collana I Millenni 1977, Einaudi.
Ricetta per le olive al sale secco
"Alcuni, dopo aver colto l'oliva, la salano seguendo le dosi indicate e poi la dispongono in ceste, in
modo da formare degli strati alternati di olive mescolate a seme di lentisco e di sale, poi ancora di
olive e cosi sopra di sale, fino a riempire il cesto. Quando, al termine di quaranta giorni, le olive hanno
trasudato tutta la morchia che potevano avere, le versano in un catino, e passandole al vaglio,
separando i semi di lentisco, le detergono con una spugna in modo che non vi rimanga attaccato del
sale, poi le versano in un'anfora" De re rustica, libro XII, Columella (4-70 d.C), traci. R. Calzecchi Onesti,
Collana I Millenni 1977, Einaudi.
Ricetta per fare l'Epityrum
"Preparerai cosi l'Epityrum di olive verdi, mature o miste: toglierai il nocciolo alle varie qualità di
olive. Poi le condirai cosi: le triterai, aggiungerai olio, aceto, coriandolo, cumino, finocchio, ruta e
menta. Metterai tutti i condimenti in un piccolo orcio, ci verserai sopra l'olio e così saranno pronte
per l'uso." De agricultura CXXVIII, Catone il Censore (234-149 a.C), traci. L Canali e E. Ledi, Collana
Classici Greci e Latini, Mondadori. (1)
L'olio da olive ebbe un ruolo importante anche nello sport. Gli atleti Greci si ungevano d'olio per
combattere, e i vincitori delle olimpiadi erano incoronati con rami prelevati dai sacri olivi di
Olimpia e premiati con ampolle d'olio riccamente ornate.
Ma sia Greci, sia Romani usavano l'olio da olive per scopi terapeutici, medicamentosi, balsamici e
detergenti o come combustibile nelle lampade votive. (2)
Anticamente all’olio di oliva veniva conferito il potere di guarire molte malattie e disturbi, sia in
proprio sia mischiato ad altre componenti.
Primo a interessarsi dell’olio di oliva quale presidio medico fu probabilmente Ippocrate nato
nell'isola di Coo nel 460 a.C. che per primo fissò le basi di una medicina fondata su basi razionali
fuori dai condizionamenti della filosofia.
Ma solo alcuni secoli più tardi verrà alla luce un trattato, a opera di Pedanio Dioscoride sulle
proprietà del succo di oliva. Nel suo trattato “De materia medica” affronta l'uso dell'olio di oliva
"ottimo nell'uso della sanità, è quello, che si cava dalle olive immature, il quale è chiamato
“omphacino”, cioè acerbo, e di questo quello è il migliore, che è nuovo, odorato, et non mordace al
gusto. Questo è utile nel comporre gli unguenti, et è sano allo stomaco per essere egli costrittivo”.
Fu Galeno, però, noto medico greco che nel II secolo dopo Cristo visse e lavorò presso la corte di
Marco Aurelio a mettere l’olio di oliva al centro di molte preparazioni. Il suo ricettario, di circa 150
pagine, è pieno di rimedi costruiti a base di olio. Era considerato infatti un elemento naturale quasi
magico, un ottimo e insostituibile eccipiente e veicolo di sostanze con caratteristiche
farmacologiche dubbie, se non improbabili. Così si trova l’olio di oliva mischiato a numerose erbe
per curare spasmi, mal d’orecchi, dolori, tremori...
Eccovi alcune curiose ricette galeniche.
Per far crescere i capelli
Recipe cape, e brucciale in una tecchia, e poi falle bollire in oglio comune, e ungi il luogo nudo,
che cresceranno, ed è prouato
Per combattere i tremori
Recipe sugo di artemilla, siue artemisia, e mescola con oglio buono, e scalda l’uno con l’altro, e
così caldo ungi la sera, e la mattina, più volete guarirà
A’ dolori che viene alle donne dietro il parto
Recipe foglie di caule, foglie di mirrha, e di mercorella, tanto dell’uno, quanto dell’altro, e cuocile
in oglio, e fanne impiastro, e caldo mettilo sopra il petenecchio, e sopra la natura, manderà via gli
dologi, e purga la natura. (f)
Ippocrate (460-377 a.C.) consigliava il succo di olive fresche per curare le malattie mentali e
impacchi di olive macerate per guarire le ulcere.
L'olio veniva usato anche per combattere le febbri, quale antidoto per alcuni veleni, come
antielmintico, emolliente e lassativo. Associato ad altre sostanze veniva usato per preparare molti
medicamenti: Plinio ne descriveva ben 48. Quando l'olio invecchiava veniva utilizzato per scaldare
il corpo e provocarne il sudore e anche per dissipare la letargia e le convulsioni da tetano.
Plinio ha tracciato numerose ricette curative che utilizzano quasi tutto dell'olivo:
-le foglie, per il forte potere astringente e depurativo, usate schiacciate, mischiate a olio e applicate
come impacchi contro le ulcere e i mal di testa;
-il decotto con miele per togliere le infiammazioni;
-il succo ottimo per gli occhi arrossati, preparato schiacciando le foglie e versandovi del vino e
dell'acqua piovana;
-l'acqua espulsa dal tronco dell'olivo bruciato verde, ideale come cicatrizzante;
-la corteccia delle radici di un olivo giovane, presa con miele per guarire le espettorazioni purulente.
(d)
I cosmetici, dunque, sono nati con l’uomo e si sono sviluppati con il progredire della civiltà.
Il loro uso “viaggiò” dall’Oriente in Grecia e, di lì, nel mondo romano, e l’olio d’oliva ne è sempre
stato l’ingrediente base.
In Grecia venivano utilizzati nel gymnasium, una scuola in cui la cura del corpo e quella della
mente avevano pari importanza, e dove si promuoveva l’educazione, la cultura, la salute, le attività
ginniche e l’igiene del popolo greco, in particolare dei giovani, che qui ci passavano molto tempo.
Gli uomini e le donne adulti trascorrevano il tempo libero ai bagni pubblici ed erano soliti portarsi
dietro un’ampolla di olio d’oliva con cui massaggiare il corpo dopo le abluzioni.
Era molto importante anche la cura dei capelli: la classica acconciatura “a pieghe” delle donne
greche era preceduta da un rituale che prevedeva impacchi di preparazione all’olio di oliva.
Per il viso, famosa era la biacca di Rodi, una sostanza a base di carbonato di piombo che, mescolata
con olio, copriva di bianco il viso delle signore e che dalla Grecia fu “esportato” a Roma.
Nell’antica Roma, le cosmetae erano delle schiave specializzate che avevano il compito di preparare
cosmetici “freschi”. Ed erano parecchie le ricette a base di olio di oliva: un olio antirughe
prevedeva, per esempio, l’utilizzo di foglie di castagno ed edera che dovevano essere immerse in
olio d’oliva e non dovevano essere “disturbate” per due ore.
Un rinforzante per capelli imponeva che si miscelassero olio di oliva e di ricino. A ciò, si
aggiungeva un’essenza profumata per formare una specie di lozione, che si applicava sul capo una
volta al giorno.
Anche i Romani, dopo il bagno, si cospargevano il corpo con olii e unguenti a base di olio di oliva
mescolato con essenze floreali, per esempio rosa e gelsomino. (g)
Presso i Greci il primo pasto della giornata, detto "acrotinos", era costituito da pane e olio intinto
nel vino. I Romani lo utilizzavano per la preparazione di numerose ricette, famosa quella dì
Grazio: una torta fetta con olio, formaggio, farina e miele.
L'olio da olive, nella qualità chiamata "lampante", veniva impiegato quale combustibile da
lampade, per l'illuminazione domestica, in considerazione che la luce ottenuta fosse più splendente
e nel contempo generasse meno fumo. Uso che ha permesso lo sviluppo degli scambi interpersonali
attraverso l'allungamento della durata del giorno ben oltre il tramonto. (2)
L'olio assunse un ruolo fondamentale per la tavola e la cultura dell'epoca imperiale, tanto che
Giulio Cesare costrinse le province vicine dell'impero a consegnare alla città molti litri di olio
come tributo annuale. Il frutto dell'ulivo godeva di una tale considerazione che, in una civiltà
basata su una rigida struttura militare e sul reclutamento obbligatorio, i cittadini che piantavano
almeno un iugero (circa 2.500 metri quadri) di ulivi venivano dispensati dalla leva.
Sempre in quest'epoca le olive venivano servite anche nei pranzi più importanti, sia all'inizio che
alla fine del pasto. Conservate in salamoia erano snocciolate, tritate e mescolate con il miele.
Plinio scrive: "Ci sono due liquidi che fanno molto bene al corpo umano: il vino per uso interno e
l'olio per uso esterno" (e)
A dimostrazione della grandissima importanza che è stata data alla coltivazione dell'olivo, basta
osservare come l'origine dell'olivo, spesso si fonda con la leggenda.
Adamo, prossimo a morire all'età di 932 anni, manda il figlio Seth alla ricerca, nel Paradiso
Terrestre, dell'olio della Misericordia. Un Angelo, dona a Seth tre semi che dovrà porre nella
bocca del padre Adamo dopo la sepoltura sul monte Tabor. Da questi tre semi nacquero: il cedro,
il cipresso e l'olivo.
E se alcuni racconti indicano come agli Egiziani la capacità di estrarre l'olio dalle olive fu dono
della dea Iside, sposa di Osiride, in altri si narra come l'origine di questo albero sia esclusivamente
Greca. Narra la leggenda che sulle colline dell'Attica (regione della Grecia antica) stava sorgendo
una città destinata a glorie future.
Se ne disputarono la sovranità due dei dell'Olimpo: Poseidone, re del mare e Pàllade Athena, dea
guerriera, personificazione della saggezza e dell'intelletto. Zeus, sovrano di tutti gli dei, stabilì le
regole della competizione: "la città avrà il nome di quel dio che saprà darle il dono migliore".
Poseidone percosse la sabbia del mare con il suo tridente d'oro e fece apparire un cavallo bianco:
potente, rapido ed in grado di vincere tutte le battaglie, ma anche un animale con il quale i mortali
avrebbero potuto arare il suolo e percorrere lunghe distanze in breve tempo.
Atena invece toccò quella roccia con la sua lancia e, con sommo stupore da parte di tutti, fece
nascere dalla terra un albero dalle foglie d'argento: l'olivo, per illuminare la notte, per medicare le
ferite e per offrire nutrimento alla popolazione.
Zeus ne sentenziò la vittoria: "la città sarà chiamata Atene; tu donasti agli uomini l'olivo e con esso
tu hai donato luce, alimento ed un eterno simbolo di pace".
L'olivicoltura era molto diffusa al tempo di Omero; l'Iliade e l'Odissea raccontano spesso con
grande rispetto dell'olivo e del suo olio.
Stupenda la descrizione del talamo nuziale nel quale Penelope accoglie Ulisse al suo ritorno; letto
che lo stesso Ulisse aveva costruito nel tronco di un albero di olivo ancora "vivo".
Nell'area islamica molte leggende fanno riferimento all'olivo e al suo prodotto; tra le tante vi è la
storia di Ali Babà ed i suoi 40 ladroni, nascosti negli otri utilizzati per contenere l'olio.
// nome Cristo deriva dal greco Christhos e significa l'Unto; nella traslitterazione latina Christus è
traduzione dell'ebreo Mashiah (o Maschiak), il Messia o l'Unto del Signore. Re Salomone (X
secolo a.C), re di Giuda e di Israele, è passato alla storia per aver costruito il tempio di
Gerusalemme. Per realizzarlo, si alleò con Hiram, re di Tiro, che gli fornì il legname necessario
per la costruzione del tempio pagandolo con "venti kor di olio d'olive schiacciate ogni anno". Ma
era di 20.000 bat d'olio (circa 4.400 quintali) la grande ricompensa promessa da Salomone ai
tagliatori di legno che, con legno d'olivo, realizzarono anche le porte ed i due grandi cherubini alti
dieci cubiti (cubito, antica unità di misura, pari alla distanza tra il gomito e la punta del dito medio
che si ergevano all'interno del Tempio. (2)
Con i Romani, l'olivo, viene coltivato praticamente in ogni zona dell'Impero. Non usavano altro
condimento per cucinare che non fosse olio d'oliva ma ne apprezzavano anche le qualità
terapeutiche per lenire le ustioni, alleviare le irritazioni, curare i disturbi di stomaci» e i sintomi
dell'avvelenamento. Ailianos, scrive nel I I I sec. d. C.: "quando (l'elefante) è ferito da molte aste e
frecce, mangia dei fiori d'olivo o tinche dell'olio e dopo elimina tutto quello che gli ha fatto del male.
Così subito si riprende." E' chiara l'allusione quasi miracolosa alle proprietà taumaturgiche della
pianta visto che riesce a "eliminare" anche il danno causato da una freccia. Fu proprio grazie ai
Romani che vennero realizzati strumenti per la spremitura altamente specializzati e fu perfezionata
la tecnica di conservazione e di lavorazione. Ad esempio, per rendere l'olio più fluido, veniva
riscaldato l'ambiente dove stavano i torchi, il torchiar, sia naturalmente esponendo a sud il locale in
questione sia artificialmente attraverso l'uso di fuochi che però avevano la controindicazione di far
prendere al prezioso liquido l' odore di fumo. L'insieme delle conoscenze e delle pratiche oleario
sviluppate dai Romani è rimasto praticamente inalterato sino al secolo scorso ed è solo con l'
avvento dei frantoi industriali a ciclo continuo che si registra un sostanziale cambiamento tecnologico.
Anche la religione ha sempre riconosciuto un ruolo particolarmente importante all' olivo. Basti
pensare all’ Antico Testamento dove la colomba dell'arca porta a Noè un ramo d'olivo colto sul
monte Ararat. Nel cristianesimo l'olio e l'olivo accompagnano l'uomo dalla nascita alla morte, dal
battesimo all'estrema unzione. (3)
Il commercio dell'olio era, con quello dei cereali, il più importante dell'Impero: coinvolgeva ogni
anno intere flotte che attraversavano il Mediterraneo sotto il controllo diretto o indiretto dello Stato
romano e risalivano i fiumi navigabili.
A Roma un immenso cumulo delle anfore betiche, le Dressel 20, accumulatesi tra il I e il III secolo
d.C. nelle vicinanze delle installazioni portuali sul Tevere, hanno creato un monte alto circa 50
metri,
con
una
superficie
di
circa
22.000
mq.,
il
Monte
Testaccio.
Sotto il regno di Costantino (IV secolo d.C.) nella capitale dell'Impero esistevano 250 forni per il
pane e ben 2300 distributori di olio che fornivano ai cittadini l'olio per cucinare, per la cosmesi, per
i massaggi e la cura del corpo alle terme, per la palestra, per accendere le lucerne, ecc.
La diffusione dell'olivo in età romana: "Quanto a noi, i più giusti tra gli uomini, che non
permettiamo alle nazioni transalpine di piantare l'olivo e la vite al fine di dare maggior pregio ai
nostri oliveti e alle nostre vigne, agendo in tal modo si dice che agiamo abilmente, ciò che
dimostra la differenza tra verità e sapienza." Cicerone, De Repubblica, III, 9, 16. (c)
Manca una documentazione fornita da fonti etrusche sulle abitudini alimentari di questo popolo: le
notizie che possediamo derivano in gran parte da scrittori greci e latini di età romana, i quali
forniscono tuttavia utili testimonianze, sia sulle risorse economiche del territorio sia su alcune
qualità di cibi e di bevande propri della tradizione alimentare etrusca. A tali testimonianze si
aggiunge la documentazione archeologica, che proviene però essenzialmente da studi recenti e
riguarda soprattutto l'Etruria di età protostorica. L'alimentazione degli Etruschi non doveva essere
molto diversa da quella delle popolazioni che abitavano il Lazio arcaico, vicino geograficamente e
culturalmente: la dieta si basava principalmente, soprattutto nell'età più antica, sul consumo di
carboidrati (cereali di varie specie) e proteine vegetali (legumi). La tradizione letteraria fa
riferimento in più occasioni alla notevole fertilità del terreno di alcune zone dell'Etruria,
testimoniando un'abbondante produzione di grano anche attraverso il ricordo di rifornimenti di
questo cereale a Roma da parte di alcune città etrusche nel V e nel III sec. a.C.
I rinvenimenti archeologici sembrano attestare una preferenza per il consumo del frutto allo stato di
natura, piuttosto che sotto forma di olio; quest'ultimo era utilizzato principalmente per
l'illuminazione e per la cosmesi, poiché come condimento erano preferiti i grassi animali.
Contenitori bronzei pieni di noccioli di olive sono stati rinvenuti nel relitto di nave dall'Isola del
Giglio (600 a.C. ca.), nella tomba "delle olive" (VI sec. a.C.) a Cerveteri e nell'abitato etruscoceltico (IV-II sec. a.C.) di Monte Bibele (Monterenzio, Bologna). (b)
Bibliografia
1. L’ulivo e l’olio, p. presentaz., 31-45, 210, 636-637, Renzo Angelini (Coltura & Cultura)
2. Olio di Calabria, p. 6-8, 12, 13, 15, Mario Pirillo
3. La cucina nel mondo antico, p.101, Carlo Casi (Laurum Editrice)
Sitografia
a. http://www.museodellolivo.com/ita/istor4.htm
b. http://www.treccani.it/enciclopedia/il-consumo-e-i-regimialimentari_(Il_Mondo_dell'Archeologia)/
c. http://www.divini.net/chimica/materiali/progetti/olivoilproject/PARTE%20GENERALE/ST
ORIA%20OLIO.html
d. http://www.agricoltura24.com/l-olio-extravergine-d-oliva-tra-alimento-emedicinale/0,1254,97_ART_6419,00.html
e. http://www.oliodeimontiazzurri.it/storiaolio.htm
f. http://www.teatronaturale.it/tracce/salute/1836-alla-scoperta-delle-virta.htm
g. http://www.teatronaturale.it/strettamente-tecnico/l-arca-olearia/19211-marketing-epubblicita-si-sono-appropriati-del-segreto-di-bellezza-di-afrodite-l-olio-d-oliva.htm