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ifioridelmale
quaderno quadrimestrale
POESIA
CULTURA LETTERARIA E ARTE
anno IX n. 58
maggio-agosto 2014
I FIORI DEL MALE
QUADERNO QUADRIMESTRALE DI POESIA CULTURA LETTERARIA E ARTE
Con il Patrocinio della FUIS Federazione Unitaria Italiana Scrittori
I fiori del male è una rivista libera rivolta ai poeti, emarginati o
affermati, che con la forza segreta e profonda della poesia hanno
sostanziato ricerca esistenziale ed espressiva. Una rivista che sia
testimonianza preziosa della nostra tradizione poetica e sia anche
percorso significativo nella ricchezza della poesia e della cultura
contemporanea, espressa nei suoi tracciati differenziati.
Direttore Responsabile: Antonio Coppola
Vice Direttore: Francesco Dell’Apa
Redattori: Paolo Carlucci, Melo Freni, Marzia Spinelli, Sabino Caronia,
Daniela Quieti, Monica Martinelli, Roberto Piperno
Critico d’Arte: Robertomaria Siena
I Fiori del male anno IX n. 58 supplemento al n. 18 di SR, autorizzazione del
Tribunale di Roma n. 488/89
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SOMMARIO
I FIORI DEL MALE QUADERNO QUADRIMESTRALE
DI POESIA CULTURA LETTERARIA E ARTE
N.58 maggio-agosto 2014
LETTERATURE
Robertomaria Siena Intervista a Giorgio Manganelli
pag 5
Melo Freni Una pagina amara di Storia siciliana
7
Merys Rizzo Appunti
9
Marzia Spinelli Papini: dalla Guerra a Dio
13
Francesco De Napoli Kazantzakis “Da Zorba il Greco” a “Francesco”
17
Sabino Caronia Dino Buzzati
21
Daniela Quieti Alcmane: la Natura e la Notte
25
Plinio Perilli Dona Amati & Rita Pacilio
27
Fausta Genziana Le Piane De Queiroz La metafora della notte
31
Domenico Cara Nicolino Longo: Insoliti e lievi epigrammi
35
Roberto Pagan Un grande ritorno di Grisancich
38
Franco Campegiani Il vernacolo in Mario Dell’Arco
44
Francesco Dell’Apa Il romanzo erotico Greco e Petronio
48
Andrea Mariotti Trentotto anni dalla morte di P.P. Pasolini
52
Maria Adelaide Petrillo Un profilo di D’Annunzio
55
Antonio Coppola Il Poeta-Divo Tra Fantasmi e Carnevali
59
Nel LXX Anniversario della distruzione di Cassino
61
Annalisa Colle Forlin Miopia (Racconto)
62
POESIE
Carlo Cipparrone
Giorgio Linguaglossa
67
72
Iolanda La Carrubba
Giovanni Caso
Nicoletta Di Gregorio
Luca Di Giacomo
Giorgia Chaidemenopoulou
LO SCAFFALE
75
77
80
84
89
pp. 93 – 117
Abbiamo recensito libri di: AA.VV. Veniero Scarselli, Raffaele Stella, Gianni
Rescigno, Vittorio Varano, Claudio Crisancich, Antonio Spagnuolo, Nina
Maroccolo, Luigi De Rosa, Giovanni Baldaccini, Franca Maria Catri, Anna
Ventura, Sandro Varagnolo, Bonifacio Vincenzi, Armando Rudi, Daniele
Giancane, Marco Pavoni, Titti Follieri, Themistoklis Katsaounis, Giorgia
Chaidemenopoulou, Enrico Bagnato, Lina Furfaro, Sandro Angelucci, Mario
Melis, Francesco Forlani, Antonio Coppola, Plinio Perilli, Salvatore
Ritrovato, Eugenio Rebecchi, Emilio Palaz.
Tavole Fuori Testo: Claudio Perri, Alessandro Calizza.
In questo numero hanno collaborato: Robertomaria Siena, Melo Freni,
Merys Rizzo, Marzia Spinelli, Francesco De Napoli, Sabino Caronia,
Daniela Quieti, Plinio Perilli, Fausta Genziana Le Piane, Domenico Cara,
Roberto Pagan, Franco Campegiani, Francesco Dell’Apa, Andrea Mariotti,
Maria Adelaide Petrillo, Antonio Coppola, Annalisa Colle Forlin, Monica
Martinelli, Paolo Carlucci, Pietro Pelosi, Roberto Piperno, Raffaele Piazza,
Antonio Sagredo, Laura Pierdicchi, Pasquale Montalto, Silvana Folliero,
Laura Rainieri, Enrico Bagnato, Sandro Angelucci, Emilio Palaz.
Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
L’INTeRVISTA
Intervista impossibile
A Giorgio Manganelli
di Robertomaria Siena
Giorgio Manganelli (1922-1990)
Robertomaria Siena: Lei, caro professore, si chiederà come mai, amando io
infinitamente la sua scrittura, abbia atteso tanto ad intervistarla. È presto
detto: come faccio a mettere a confronto le mie con le sue interviste impossibili? Testi assolutamente strepitosi.
Giorgio Manganelli: Non ci pensi a questo; pensi solo a lavorare.
R.S.: Infatti; veniamo a noi. I personaggi che ho incontrato finora erano tutti stabiliti nell'Averno; dell'Ade lei, come sappiamo, è però l'imperatore incontrastato.
G.M: Ho sempre vissuto negli Inferi, sia da vivo che da morto.
R.S.: Lei, infatti, lo dice molto bene; da un Inferno si esce per entrare in un altro
Inferno. Dato lo spazio concessomi, voglio privilegiare il Manganelli filosofo.
G.M: Faccia pure.
R.S.: I lettori conoscono le sue idee sulla letteratura: «L'oggetto letterario è
oscuro … muta costantemente linee di frattura, è una taciturna trama di sonore parole. Totalmente ambiguo, percorribile in tutte le direzioni, è inesauribile e insensato». Aggiunge poi che «non nasconde alcun tumore di
Weltanschauung». Mi permetta; non è vero. Lei una visione-del-mondo precisa la possiede: la visione gnostica.
G.M: In fondo ha ragione; il mio Gnosticismo però taglia dal proprio corpo
la concezione salvifica che è quella della Gnosi Storica.
R.S.: È vero; il suo è uno Gnosticismo senza speranza e senza luce; non a
caso è un artista della notte; su questo è esplicito: «La notte è, a nostro avviso, il significato di quella terra … per cui pare confermata che codesta notte
sia sostanza e non accidente». Ora la notte è l'Inferno e l'Inferno è la notte;
ambedue poi sono il mondo. Ricorda? «Ma allora era ed è inferno sempre.
Prima e dopo la condizione che diciamo vita». E Dio? «Diciamo che qui,
dove siamo non v'è alcun indizio che esista». Puro Gnosticismo! In lei c'è
pure il Demiurgo Malvagio; ancora: «Tu sei miniaturizzato, minuscolo
misello, se così accade; e la bambola sarà enorme, grandeggerà sul trono, e
avrà pianeti per natiche, una stella binaria per forami. E dunque accoccolati,
giacché vedrai un gran culo librarsi nel cielo». Veniamo all'arte.
G.M: Non sono stati ancora raccolti tutti i miei lavori di critica d'arte.
R.S.: Infatti; l'ennesima miseria del pianeta Italia nel suo stato di permanente degrado. Mi permetta ora di affrontare l'artista di cui si occupa questo
numero de I Fiori del Male.
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I Fiori del Male
G.M: L'ascolto volentieri.
R.S.: Sto parlando di Claudio Perri, un maestro capace di suonare molti strumenti, come dimostra abbondantemente tutta la Rivista. In copertina il Liberintro dedicato al Dante illustrato da Doré; lo “scavo dei libri” è un'operazione di squisita
avanguardia. Ora però il nostro non condivide il rifiuto della storia coltivato dalle
Neoavanguardie e sceglie un modo personalissimo di dialogare con il museo. La
bestia nera di Perri è la Pop Art e l'idea che l'arte debba mantenersi alla superficie
dell'esistenza. La ricerca, sostiene invece, è destinata alla profondità; ora un luogo
perfetto della profondità è il libro; il maestro si precipita all'interno del libro, lo
scava, ci si perde dentro e così lo esalta fino al cielo. Dialogando con il duo Dante
- Doré, punta all'opera d'arte totale; scultura, poesia, pittura. Tutto però, lo ripetiamo, all'interno del libro.
G.M: Sto guardando, in questo momento, il pastello della terza di copertina.
R.S.: Ha ragione; è bene accennare a questo lavoro. Il fondo di pece facilita
l'esaltazione dell'astrazione d'argento che domina lo spazio. Potrebbe la strana
forma allungarsi o comprimersi; non perderebbe però la sua sottigliezza, la sua
eleganza, la sua incorporea forza. Ci troviamo dinanzi ad una stella? Forse; se ci
mettiamo dal punto di vista dell'antireferenzialismo, la forma non fa altro che
gettarsi nelle braccia di se stessa e cantare la propria epifania misteriosa e lunare. Torniamo a noi; mi dispiace, ma debbo rivolgerle un rimprovero solenne.
G.M: Di che si tratta?
R.S.: Lei si è lasciato travolgere dalla sua malattia neurologica; in una celebre telefonata ha riferito quanto detto dal suo psicanalista: è morto perché ha
rotto i ponti con la vita. Ci ha lasciati orfani degli innumerevoli libri che
avrebbe potuto scrivere ancora; non glielo perdoneremo mai. Non ha permesso all'arte di alleviare le sue tremende afflizioni.
G.M: Vedo che lei, caro amico, è un decadente.
R.S.: È vero; credo nella “religione dell'arte”; credo che avesse ragione il suo
consanguineo Alberto Savinio quando scriveva che «L'arte è un dono che
Dio ci ha fatto per consolarci in questo nostro esilio». Torniamo alla filosofia; lei è un grande pensatore dell'assurdo; un pensatore non inferiore a
Leopardi e a Camus. Se permette, concluderei con qualche riga di Rumori o
Voci, uno dei suoi tanti capolavori.
G.M: Mi consola il suo entusiasmo per me.
R.S.: Entusiasmo ben riposto; ecco Giorgio Manganelli: «forse possiamo
supporre che tutti insieme tu e quelli formiate un sistema, una macchina
incongrua, ma formalmente funzionante, dico, giacché non ha, codesta macchina, senso alcuno, o nesso o valore, o funzione ché anzi nulla opera, ma
che tuttavia è alcunché macchinante e perfino patisce guasti e dinamiche, e
insomma è un motore cui non corrisponde alcuna utilità né azione, qualcosa
che non agisce, non funziona, e tuttavia è, come macchina funzionale».
Morte definitiva per Parmenide e Platone.
G.M: I due filosofi che, parlando della Verità Assoluta, hanno spalancato le
porte ai fondamentalismi che ci stanno affliggendo.
R.S.: Infatti.
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
DONNe DI MILOCCA opera dell'arch.Salvatore Magro
FRA DONNE E CORAGGIO
UNA PAGINA AMARA DI STORIA SICILIANA
di Melo Freni
l coraggio delle donne, eccome! E non quello di cui si parla oggi, delle
conquiste dell'ambiente femminile, per il fatto dell'equilibrio sociale
che ha persino introdotto il principio delle“quote rosa”. C'è stato un
coraggio di altri tempi, quando l' esporsi equivaleva ad un atto di eroismo ed implicava il rischio della stessa vita; come d'altronde avviene ancora
in tanti paesi del mondo dove madri e ragazze affrontano carceri e condanne
anche estreme, per il riscatto della propria dignità. Coraggiose e sprezzanti
del pericolo furono le donne siciliane al tempo dei “Fasci Siciliani”, contro
le ingiustizie e lo sfruttamento dello stato sabaudo, ancora a trent'anni dalle
illusioni dell'impresa garibaldina. A parlarne (meglio, a scriverne) è Antonio
Vitellaro, attivo intellettuale di Caltanissetta, che ci consegna ricche pagine
sulla rivolta delle donne di Milocca. Milocca è il nome originario dell'attuale Milena, paese che fu di contadini e zolfatari, nel cuore degli Erei, i monti
al centro della Sicilia ricche di risonanze storiche fatte di lotte e di speranza.
Delle donne di Milocca, nell'ottobre del 1893, ben oltre 500 si organizzarono per scendere in piazza con vanghe e forconi contro l'esercito inviato dal
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I Fiori del Male
governo sabaudo e l'impatto fu tale che Luigi Pirandello ne dedicò una pagina nel romanzo risorgimentale “I vecchi e i giovani”. Ma fu soltanto una
scintilla. Fra il 1891 ed il '93 in mezza Sicilia le donne si ersero a protagoniste indiscusse delle vicende socio-politiche post-unitarie e, per offrire un
esempio, a Piana degli Albanesi su 9000 abitanti ben 3500 donne aderirono
attivamente al movimento. Erano giorni di dure repressioni e le donne si battevano innanzi tutto, e con successo, per liberare i loro uomini dalle prigioni. Alcune volte trovavano e alla comprensione dei carabinieri che, figli
anche loro di contadini e zolfatari, si armavano di prudenza invece che di
moschetti; al colmo della riconoscenza, uno di essi una volta fu issato dalle
donne sulle loro pelle e portato come in trionfo per il paese. Da un punto di
vista generale, anche per quello che furono gli antefatti dei “Fasci”, molto
inchiostro era stato versato, a cominciare dall'inchiesta governativa di
Sonnino e Franchetti che della situazione siciliana post-unitaria avevano illustrato un quadro quanto mai allarmante e responsabile.
Ma senza alcun provvedimento conseguente. Viene da pensare al
Gattopardo che dell'annessione della Sicilia all'Italia aveva capito l'inganno,
perché con quel plebiscito era stata “uccisa la buonafede”. Ma proprio attorno al “coraggio” di quelle donne si svolse la trama di una delle più intense e
amare storie siciliane: dal primo “fascio dei lavoratori” che sorse Catania il
primo maggio del 1891 ( su iniziativa del sindaco socialista Giuseppe De
Felice ) fino ai “Patti agrari” di Corleone” del 30 luglio 1893, anno fondamentale per l'estendersi delle insurrezioni nell'intera parte sud-occidentale
dell'isola. La sorpresa e l'imbarazzo dei governi erano comprensibili e se
Giolitti fu per un atteggiamento di prudenza, di controllo attraverso l'azione
dei prefetti, il siciliano Francesco Crispi, agrigentino di Ribera (a poche
miglia da Milocca) non si fece scrupolo di inviare ben 30mila soldati ed una
flotta per sedare la rivolta dei “Fasci”, compreso il “Fascio della Donne”,
mentre a Catania il socialista De Felice veniva perseguitato, vessato ed arrestato, su ordine di altri socialisti, quelli dell'apparato governativo, siciliani
compresi. Ebbene, nel discutere di tante situazioni socio politiche del nostro
paese attuale quasi sempre è facile emettere condanne, mentre invece sono
del tutto trascurate le ragioni che stanno alla base di una storia di inganni, di
disparità che vengono sommariamente indicate come “Questione meridionale”. Le donne dei Fasci Siciliani, madri, mogli e sorelle, avevano la vista
lunga e già allora, agli inizi del secolo scorso, più che piangere preferirono
lottare per il futuro dei loro figli, delle loro famiglie. Se anche i loro sogni
sono stati infranti, certamente la colpa non è stata loro.
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
RU B R I C A
Appunti
(a cura) di Merys Rizzo
ì, la luce stessa / così bella, così
cangiante, / la luce stessa è oscura”.
Questi versi di Philippe Jaccottet
dicono la vastità misteriosa,
imprendibile della luce, che dà forma alle cose. Se
la luce si spegne, lo spazio ingoia tutto nell’oscurità indistinta e il tempo vacilla in cerchi senza
desideri. La luce, così pervasiva e ubiqua, trattiene e scatena. “ …che sempre / nell’ora mi svegli
del mattino, dove sei, luce? “ È un verso di
Hölderlin, che spinge la vista fino all’estremo
Antonio Gamoneda
orizzonte del possibile, dove balugina un altro
tempo e dove la luce rende trasparenti tutte le soglie. In poesia la luce è sempre presenza, che introduce alla foresta di simboli, la attraversa e ne fa un
ordito di senso, preservandolo dal disfacimento del buio. Essa racconta spazi
e tempi reclusi, portati alla trasparenza, alla leggerezza, alla vitalità. È, ancora, energia richiamata, è resurrezione della vita da percorsi obliqui, sotterranei, è legame nascosto, segreto con l’arcobaleno dell’origine. Perciò i pensieri, che suggerisce, sono lampeggiamenti di meditazione, che sigillano ogni
margine di “logos” e di “pathos”. La luce, però, in poesia può anche apparire nucleo gravitante di miraggi nella persistenza delle cose, nucleo, che si
dispiega, poi, dal visibile all’invisibile. Vai verso l’invisibile e sai che reale
è ciò che non esiste dice in “Arden las pérdidas” Antonio Gamoneda, il poeta
spagnolo, la cui poesia - qui richiamata nella traduzione di Valerio Nardoni rivela la condotta luminosa del linguaggio, al punto che la luce si presenta,
talvolta, mediante una punta forte di colore. Vidi l’ombra inseguita da gialli
palpiti oppure Quando vedrò il padrone voglio chiedergli / che cosa sono
mille e sedici / e perché mi mette una luce gialla sopra la testa oppure, ancora Nulla si occulta allo sparviero immobile; scintillano i suoi occhi gialli. Il
linguaggio in Gamoneda è così scintillante da condurre al salto dell’immaginazione e fare sbalzare anche la notte contro un cielo splendente. La notte è
tessuta con l’azzurro / che è del crepuscolo. La lingua rossa / accende il suo
profilo./ esco dal silenzio / e penetro la vita delle cose/e non so se la segale
è bellezza / o verità la sete. / In questa ora / di segreta estensione, che la furia
/ lucente del riflesso cereale / non acceca i miei sensi[…]. Ancora in “Arden
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I Fiori del Male
las perdidas” si legga il testo: La luce ferve sotto le mie palpebre / Da un usignolo assorto nella cenere, da quell’oscuro / grembo musicale, si leva la
tempesta. Discende il pianto / nelle antiche celle, avverto palpiti viventi / e
l’immobile sguardo delle bestie, il loro freddo aculeo / nel mio cuore. / Tutto
è presagio. La luce è il midollo di ombra: e mori/ranno gli insetti nelle candele dell’albeggiare. Così / ardono in me i significati. Luce indecifrata,
intoccabile, che illumina battito del cuore, azzardo del pensiero, sapere della
morte. Luce, che mostra arcane vibrazioni anche nella densità stremata dell’ombra e che in modo figurativo si accosta all’accensione del senso, alle
spinte dell’anima, al cuore lampeggiante del tempo. La ricerca della verità
marca il sentiero poetico di Antonio Gamoneda e la luce, talvolta anche oscura, è l’ebbrezza della prossimità alla vita, che prelude, però, già alla morte,
perché vivendo si comincia a non esistere. Scrive il poeta: […] Tutti ci spossessiamo di noi / stessi espellendo la falsità, ci scortichiamo e / non viene
nessuno. Non / c’è né ombre né agonia. Bene:/non ci sia che la luce. È
così/l’ultima ebbrezza:parti uguali/di vertigine e oblio. La consapevolezza
che la vita è interamente strutturata sulla luce è recepita sicuramente dal
poeta portoghese José Saramago, che la trasferisce, poi, nella consistenza
materiale della scrittura mediante un onnipresente “sole”.
Anche se qua e là in “Le poesie possibili” - traduzione di Giulia Lanciani
- il margine frastagliato delle cose con il suo radicamento nel sortilegio della
bellezza sembra accedere alla dimensione epifanica attraverso l’eclisse o la
sospensione della luce.Ritaglio dal muro la mia ombra,….in quest’ombra
priva di spessore,…a cantare alle stelle cancellate… sono versi, che sembrano trattenerci nel recinto appena smosso di un’incorporea oscurità. Però il
verso…dev’esserci un colore da scoprire ci sorprende subito con il suo carico di pienezza e di verticalità. Si definisce, così, la luce del pensiero, confermata dalla parola solare presente in un altro testo. Pensiero e parola come
concrezioni di sole e di luce, come abbacinante spalancarsi della conoscenza. Da me alla stella un passo mi separa: / fuochi di uguale luce che ha
disperso / nell’esplosione fortuita della nascita, / tra la notte che fu e che
sarà, / la gloria solare del pensiero recita così un breve testo . In un altro si
legge: […]Un nascere del sole al posto esatto/nell’ora che più conta di una
vita, / un risvegliarsi degli occhi e del tatto,/un’ansia di sete mai sopita.[…].
E in un altro, ancora, […] Altro sole più aperto mi darà / per gli accenti del
canto altra armonia, / e nell’ombra dirò che si avvicina / l’ordito della luce
che si spande. Luci intermittenti di un solo mondo interiorizzato, che si sfiorano, si trovano. Luce colma di sole, che fa crescere la metafisica del ricordo e del progetto, ridona slancio ai versi e permette al suono della parola di
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
rinnovarsi nello stupore. Luce, che in questo poeta è, quasi, correlativo della
propria esperienza intima e che, perciò, consente di stare anche nell’ombra
senza lasciarsi rinchiudere nel suo guscio compatto, anzi con il suo illimitato e continuo convertirsi in sorgente di conoscenza permette di indicare da lì
sensi e soprasensi. Perché anche lì l’orizzonte si apre all’evento, lasciando
che le figure della speranza prendano forma e attraversino le terre della poesia e dell’esistenza. Nella raccolta “Probabilmente allegria” la luce è presenza, che addirittura appaga. […] Qui riverbera il sole, e si ode in superficie/un
fulvo canto che il vento diffonde. / Nudi, sull’argine, accendiamo convulsi /
il più alto falò. / Nascono in cielo uccelli, i pesci brillano. / Ogni ombra è
scomparsa, che ci manca?. La luce, comunque, può dominare in poesia per
l’esperienza della sua assenza e per il desiderio di un nuovo contatto aurorale con il mondo. L’ombra ammanta la nuda realtà delle cose, così la luce
diventa miraggio dell’immaginazione, controcanto struggente del pensiero.
Non devi, disse la civetta al gallo cedrone, / non devi cantare il sole / il sole
non ha importanza / Il gallo cedrone tolse / il sole dalla sua poesia / ecco un
artista, / disse la civetta al gallo cedrone / e si fece davvero buio.
È un testo significativo della raccolta “Monologo per altri. Poesie e prosa.”
di Reiner Kunze nella traduzione di Gio Batta Bucciol. E, ancora, in un altro
testo della medesima raccolta: L’ alto bosco educa i suoi alberi / Dalla luce
divezzandoli, egli li obbliga / a inviare nelle chiome tutto il loro verde[…].
Nel buio i sensi si allertano e tutto è vivo e incombente più che sotto una perforante luce. Allora domina la vertigine in forma di sguardo in cerca la luce,
affinché essa operi metamorfosi impercettibili, alchimie invisibili, riverberi
profondi. L’ombra è la zona essenziale, necessaria per l’accesso alla luce ed
è anche il non detto, che cammina tra noi e chiede ex-pressione, visibilità; è
recinto, che non spegne il bisogno di spazi aperti, è nervatura di incertezza e
di dubbio, che apre alla luce della verità. In tal senso illuminanti sono due
testi della raccolta “Un giorno su questa terra”. Il primo: Guarda l’ombra
sulla terra l’ombra minuscola / che vola con noi / Così la più grande delle
nostre paure / resta laggiù, dietro di noi / Mai la probabilità che uno muoia
molto prima / dell’altro sarà più esigua. Il secondo: Quando lo abbattemmo,
non sospettavamo / che fosse tanto alto / in noi / Ci eravamo abituati / al suo
orizzonte / e alla bonaccia / Nella sua ombra nessuno/gettava ombre / Ora
siamo privi / d’ogni giustificazione. Nell’assedio di ombre il poeta lascia lo
spasimo delle paure, nel fondo paradossale e isterico di muri interiori cerca i
semi fiammeggianti dello spirito e si lascia invadere dal soffio luminoso dell’altrove. L’ombra per questo autore è nodo e snodo di luce. Dall’ombra può
uscire lo splendore primario della vita, quel riflesso di chiarore, che la lingua
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I Fiori del Male
interiorizza e fa esplodere nella parola poetica, irraggiando colori di poesia,
dopo aver attraversato la profondità interrogativa del pensiero. La luce in
Kunze è sfida e superamento, è presenza, che si attenua fino a ridursi ad allusione, a vagheggiamento, a spoliazione, ad abbozzo e proprio allora si arricchisce di una teoresi in dialogo con il limite e con l’altrove. L’ombra è l’elemento scenico, la luce è il fondale misterioso e calamitante. Ombra e luce:
due battiti dello stesso respiro, due slanci del medesimo volo.
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
Giovanni Papini: dalla guerra a Dio
di Marzia Spinelli
ento anni fa Sarajevo: il conflitto che ne seguì segnò l’intero secolo, attraversandolo, definendo non solo i confini geopolitici, ma
anche i contorni di tragici eventi ad esso correlati di cui per l’intero Novecento la Storia ha voluto crudamente ricordarci che da
quella scintilla, e da quel luogo da cui il conflitto si mosse, altri ne seguirono, come una lunga gittata di orrori che la medesima Storia, in periodi diversi, ci ha posto davanti: dalla tragedia dell’Istria, alle foibe, all’incerto destino di Trieste, alla cortina di ferro, fino ai massacri più recenti della guerra
serbo-croata. In quel lontano contesto si inserì, come è noto, il movimento
Futurista e alcuni dei suoi rappresentanti. Se altra scintilla, stavolta letteraria,
occorre menzionare in queste pagine è quella dell’introduzione al primo
numero del gennaio 1913 di Lacerba, rivista fondata a Firenze da Ardengo
Soffici e Giovanni Papini e da entrambi diretta; stampato in caratteri rosso
mattone ed in seguito neri, riprendeva il titolo dal poemetto del Trecento di
Cecco d'Ascoli - Lacerba - inserendone nella testata un verso: «Qui non si
canta al modo delle rane». L’introibo è una dichiarazione di guerra, letteraria s’intende, ma non solo, si potrebbe dire socio-antropologica, rivolta alle
nazioni borghesi, alle religioni, alle leggi, in nome della superiorità
dell’Arte”giustificazione del mondo – contrappeso nella bilancia tragica
dell’esistenza. Nostra ragione di essere, di accettar tutto con gioia”. E continua: “Sappiamo troppo, comprendiamo troppo: siamo a un bivio. O
ammazzarci – o combattere, ridere e cantare. Scegliamo questa via – per
ora”. Dunque combattenti dell’arte, di cui si rivendica la piena libertà e autonomia, esaltandone la natura anarchica del "genio" e del "superuomo", prediligendo il frammento, il bozzetto, l’aforisma, accogliendo le tesi dei futuristi e ospitandone i massimi rappresentanti, Boccioni, Carrà, Marinetti e
Govoni. Nel n. 20 del 15 ottobre 1913, Lacerba pubblica il Programma politico futurista, seguito da una Postilla del neofita futurista Papini. Il manifesto politico si rivolge agli elettori futuristi in vista delle imminenti elezioni,
invitandoli a votare sia contro il programma clerico-liberal-moderato di
Giovanni Giolitti e del cattolico Vincenzo Ottorino Gentiloni, sia contro il
programma democratico-repubblicano-socialista. Nel frattempo, all’interno
della rivista, iniziano i contrasti: a febbraio del ‘14 Papini pubblica il noto
articolo "Il cerchio si chiude", in polemica con il cosiddetto "marinettismo",
considerato intriso di modernolatria e del culto per la macchina; alla fine del
1914 ci sarà la rottura definitiva. Allo scoppio della guerra, con l’Italia neu-
13
I Fiori del Male
Giovanni Papini (1881-1956)
trale, la rivista prende una direzione più politica rispetto al precedente disimpegno, schierandosi su posizioni interventiste. Nel ’15 Papini assume interamente la direzione della rivista che cesserà le pubblicazioni due giorni prima
dell’entrata in guerra dell’Italia; il suo ultimo editoriale porta il titolo:
Abbiamo vinto!Ma chi era Giovanni Papini? (1881-1956). La sua presenza,
in quel primo ventennio del secolo caratterizzato da una febbre di rinnovamento culturale, fu costante, in particolare nell’ambito delle riviste - non solo
Lacerba di cui si è già detto, ma anche Leonardo e La Voce; un’eco di quell’esperienza turbolenta restò sempre nelle sue opere, espressa nella polemica, nel paradosso, e in generale nell’eterogeneità delle ambizioni. Ma forse
l’aspirazione più grande del nostro fu quella di essere un elemento di rottura, e in parte vi riuscì, esasperando la propria natura controcorrente, che si
rivela romantica ed esibizionistica, col gusto della teatralità, ambigua anche
nelle pagine apparentemente più sincere. Pensiamo a “Un uomo finito”, del
1912, considerato il suo libro migliore, dove nel passo L’arco di trionfo, rievocando l’adolescenza povera e solitaria sogna di emergere da un destino di
sconfitto, confessando nell’incipit il suo tormento: “Io son nato con la malattia della grandezza …” Malessere piccolo borghese che esprime il disprezzo
per quel mondo da cui proviene, la rabbia e l’ostinazione al riscatto attraverso un futuro di trionfi immaginari e velleitari, eppure, da tutto questo perturbante angusto e superficiale emerge una tristezza profonda, una percezione
di futura delusione e di fallimenti che ne disegnano il tratto più umano. Nei
testi poetici è presente un forte e sofferto solipsismo, dove l’ego chiuso in se
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
stesso non trova la via di esprimersi pienamente e al quale sembra precluso anche il riscatto
poetico:“C'è un canto dentro di me che non
potrà mai uscire dalla mia bocca - che la mia
mano non saprà scrivere sopra nessun pezzo
di carta. C'è un canto dentro di me che devo
ascoltare io solo - che devo soffrire e sopportare soltanto io. C'è un canto chiuso nelle mie
vene come gli adagi celestiali nelle canne
argentate degli organi - c'è un canto che non
fiorirà come la radice del giaggiolo sepolta
sotto la frana. C'è un canto dentro di me che
resterà sempre dentro di me”. (da Cento pagine di Poesia, 1915).Affascina il contrasto tra
l’enfasi verbale degli articoli e l’intimismo del ricordo, la malinconia delle
prose liriche da cui è tratto il brano sopracitato, o di alcune poesie di Opera
prima (1917) e di Pane e vino (1926).Verrà poi la crisi religiosa e la conversione al cattolicesimo. Sull’onda dell’ispirazione scriverà Storia di Cristo
(1921), Sant’Agostino (1929), opere che la critica ha ritenuto piuttosto deboli. Uomo e artista tormentato, di cui Prezzolini disse che era la cosa più grandiosa che aveva trovato in Italia, mentre Campana lo dileggiò, fu forse un
antimoderno come un vero contemporaneo e a rileggerlo oggi, parafrasando
Borges, viene il ‘sospetto’, non solo ‘che sia stato immeritatamente dimenticato’, ma che sia stato un italiano doc, pregno del dna italico di contraddizioni, romanticismi, impeti polemisti, attitudine alla rissa, quella rissa di cui
Boccioni ci ha dato, oltre che il Manifesto tecnico della pittura futurista, la
vertiginosa rappresentazione di un’ epoca, al bivio tra vecchio e nuovo, in cui
Papini si trovò imbrigliato. Passaggi e giri di vite ideologici che paiono
alquanto bruschi, se pensiamo a quanto affermato in queste righe: “ Siamo
troppi. La guerra è una operazione malthusiana. C'è un di troppo di qua e
un di troppo di là che si premono. La guerra rimette in pari le partite. Fa il
vuoto perché si respiri meglio. Lascia meno bocche intorno alla stessa tavola. e leva di torno un'infinità di uomini che vivevano perché erano nati; che
mangiavano per vivere, che lavoravano per mangiare e maledicevano il
lavoro senza il coraggio di rifiutar la vita.” e poi, a distanza di pochi anni,
l’inizio della Preghiera a Cristo, in Storia di Cristo:“Sei ancora, ogni giorno, in mezzo a noi. e sarai con noi per sempre. Vivi tra noi, accanto a noi,
sulla terra ch'è tua e nostra, su questa terra che ti accolse, fanciullo, tra i
fanciulli e, giustiziabile, tra i ladri; vivi coi vivi, sulla terra dei viventi che ti
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I Fiori del Male
piacque e che ami, vivi d'una vita non umana sulla terra degli uomini, forse
invisibile anche a quelli che ti cercano, forse sotto l'aspetto d'un Povero che
compra il suo pane da se e nessuno lo guarda …” È pur vero che c’era stata
una guerra devastante, ed altra ne seguì, dopo la quale Papini sembra dimenticato, anche per le compromissioni con il Fascismo, su tutte l’aver firmato
il manifesto della razza!. Tuttavia riemerge improvvisamente tra il ’46 e il
’53, con Le lettere di Celestino V, Vita di Michelangiolo nella vita del suo
tempo e Il diavolo, suscitando ancora curiosità e scalpore. Come d’altronde
saranno oggetto di interesse le schegge pubblicate sul Corriere della Sera,
pagine di articoli poi raccolte in volume. Sono forse queste pagine degli ultimi anni, vessati da una paralisi progressiva, le migliori e incisive della sua
produzione a lasciarci la memoria di un uomo difficile, contraddittorio, che
seppe ripercorrere le proprie posizioni; esempio emblematico è la chiusa di
Mortura, brano tratto da La seconda nascita, pubblicato postumo da
Vallecchi nel 1958:“ Perché si odiavano gli uomini? Perché si uccidevano
senza stanchezza né requie? Perché l’atroce guerra degli infelici contro infelici?”.Forse tallonato dalla morte, forse “finalmente” sincero come solo i
vecchi sanno essere, forse veramente figlio del suo, del nostro Tempo, di quel
secol breve mai concluso, fu cantore di un’arte azione, sulla cui necessità
forse dovremmo ancora riflettere, presente anche in questi versi finali della
Poesia del 25 dicembre 1955 che suona quasi come il suo epitaffio:“Il buio
della notte fiammeggerà / come se mille stelle chiomate / giungessero da
ogni punto del cielo / a festeggiare l'incontro / della tua breve giornata
umana / con la divina eternità”.
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
Nikos Kazantzakis
Nikos Kazantzakis da “Zorba il Greco”
a “Francesco”
Come trasformare la storia in favola
per renderla più vera della realtà.
di Francesco De Napoli
ikos Kazantzakis, il maggior scrittore greco del XX Secolo e tra
i più grandi di tutti i tempi, nacque a Megalokastro (Creta) il 18
febbraio 1883. Figlio d’un commerciante, fin da giovane prese
parte ai moti indipendentisti contro il dominio ottomano che, a
quel tempo, imperava sull’isola di Heraklion. Completati gli studi di giurisprudenza all’università di Atene, si trasferì a Parigi per seguire i corsi di
filosofia di Bergson, imperniati principalmente intorno al pensiero di
Nietzsche. La sua forte personalità, la sua grande cultura, il suo attivismo e
il suo impegno politico fecero sì che Kazantzakis, a partire dal 1919, ricoprisse l’incarico di direttore generale del Ministero per gli Affari Sociali.
Dovette occuparsi, tra l’altro - in seguito alla rivoluzione d’Ottobre in Russia
-, del doloroso esodo in Tracia e in Macedonia delle popolazioni greche già
stanziate nel Caucaso. Negli anni successivi intraprese una serie di viaggi,
soggiornando in Francia, Germania, Unione Sovietica, Spagna e Italia.
Tornato alla vita politica, nel 1945 fu nominato Ministro dell’Educazione,
17
I Fiori del Male
ma l’anno seguente, a causa del mutato clima politico, abbandonò la Grecia
dove non fece più ritorno. Scelse come residenza Antibes (Francia), per dedicarsi alla sua passione per la poesia e la letteratura. Ben presto, però, il suo
spirito inquieto lo spinse a visitare Cina e Giappone. Ammalatosi gravemente a causa d’un’infezione, rientrò in Europa, dove si spense a Friburgo
(Germania), il 26 ottobre 1957. Riposa ad Heraklion, sulla cui austera sepoltura si legge l’epigrafe dettata dallo stesso Kazantzakis, indicativa della sua
indole ribelle: “Non spero nulla. Non temo nulla. Sono libero.” Il carattere
indomito e intimamente anarchico - a dispetto delle rilevanti cariche politiche ricoperte - di Nikos Kazantzakis si riflette per intero nel personaggio di
Alexis Zorba, il protagonista del romanzo “Zorba il Greco” (Milano, 2011),
che l’Editore Nicola Crocetti ha magnificamente dato alle stampe nella prima
traduzione integrale in italiano, condotta direttamente dal testo greco, a cura
dello stesso Crocetti. In una Nota al volume, si sottolinea che, del capolavoro di Kazantzakis, esisteva già una traduzione ad opera di Olga Ceretti
Borsini, pubblicata da Aldo Martello Editore (Milano, 1955), realizzata tuttavia avvalendosi d’una versione in inglese del 1952. Il titolo dell’edizione
greca “Vita e imprese di Alexis Zorbàs” (Atene, 1946) venne modificato in
quello – asciutto ed incisivo - destinato a divenire famoso nel mondo, per
l’appunto “Zorba il Greco”.
Quasi un manifesto programmatico, che il regista Michael Cacoyannis
mantenne nella trasposizione cinematografica del 1964, con la straordinaria
interpretazione di Anthony Quinn nel ruolo di Zorba, accompagnata dalle
mitiche musiche di Mikis Theodorakis. La nuova traduzione di Nicola
Crocetti, intensa e coinvolgente, soprattutto accuratissima e fedele al testo, si
apre con un Prologo in cui vengono ricordate le “tre o quattro persone” capaci d’imprimere “l’impronta più profonda” nell’esistenza dell’autore:
“Omero, Bergson, Nietzsche e Zorba”. Significativa la circostanza che
Kazantzakis considerasse delle semplici “persone” - a lui quasi familiari - dei
mostri sacri della Cultura d’ogni tempo, collocandoli sullo stesso piano
d’uno sconosciuto: per l’appunto, Zorba… Ma a chi corrisponde, in definitiva, questo epico personaggio? Nient’altro che ad un “vecchio operaio” –
forse realmente esistito, e comunque vicino al mondo ideale caro a
Kazantzakis, popolato da umili lavoratori -, che l’io narrante confessa d’aver
“molto amato”. La descrizione del protagonista, magistrale e toccante, così
prosegue: “Zorba mi ha insegnato ad amare la vita e a non temere la morte.
Perché lui aveva tutto quello che serve ad uno scribacchino per salvarsi: lo
sguardo primitivo che agguanta fulmineo dall’alto il suo nutrimento; la naturalezza creativa, che si rinnova ogni mattino, di guardare incessantemente
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
alle cose come se fosse la prima volta e di ridare la verginità ai secolari elementi quotidiani (…); la sicurezza della mano, la freschezza del cuore, l’ardire virile di beffarsi della propria anima, come se avesse dentro di sé una
forza superiore all’anima stessa; e infine la risata limpida e selvaggia che
scaturiva da una sorgente profonda (…)”. La trama è presto detta: un giovane scrittore appassionato di Dante e della Divina Commedia giunge a Creta,
dove ha ereditato una vecchia miniera di lignite, e durante il viaggio conosce
Zorba, un greco in età matura dal carattere istintivo e passionale. Tra i due
nasce un’amicizia densa di vicende paradossali e anche tragiche: la lapidazione, con successiva decapitazione, della vedova di cui il giovane era divenuto l’amante; la triste fine di Madame Hortense, sposatasi con Zorba con un
privato e teatrale rito nuziale; il fallimento del tentativo di riaprire la miniera dopo il crollo dei piloni della teleferica, i cui lavori di costruzione erano
diretti da Zorba. Nonostante le tante contrarietà, il “padrone” è affascinato
dalla filosofia di vita del Greco, dal suo profondo disprezzo per i beni materiali a cui contrappone un viscerale amore per la vita in tutte le sue forme.
Confessa il giovane: “Capii che questo Zorba era l’uomo che da tanto tempo
cercavo: un cuore vivo, una bocca vorace, un’anima grande e spontanea”.
Così una notte, mentre “l’Orsa Maggiore danzava intorno all’asse immobile
del cielo”, Zorba all’improvviso esclamò: “L’uomo è una bestia selvaggia!”.
Al termine di quest’incredibile percorso iniziatico-formativo, caratterizzato da un rapporto molto particolare e tormentato, lo scrittore si separerà da
Alexis, pur apprendendo l’ultima, indimenticabile lezione: “Zorba drizzò il
collo ossuto, gonfiò il petto e lanciò un grido selvaggio e disperato (…), e
dalle sue viscere cominciò a montare una vecchia melodia monotona, piena
di passione, tristezza e solitudine”. In qualità di poeta, Nikos Kazantzakis ci
ha lasciato il monumentale poema Odissea (1938), che si compone di ben
33.333 versi, di cui è disponibile per ora, in italiano, solo la traduzione di
alcuni canti nel volume “Poeti Greci del Novecento” (Milano, Mondadori,
Meridiani, 2010), a cura di Nicola Crocetti e Filippomaria Pontani. Nel
Prologo, l’Omero del nostro tempo ribadisce i limiti dell’intelletto umano, e
di conseguenza la necessità d’accantonare ogni fanatismo ideologico-religioso per dar voce ai valori indifferibili di solidarietà e fratellanza: “Toglimi il
senno, Dio, e schiudimi le tempie, / che si aprano le botole della mente e
prenda fiato il mondo.” Nikos Kazantzakis è l’autore di numerosi altri testi
narrativi di eccezionale valore, imperniati con insistenza intorno al problema
religioso, opere tuttavia in buona parte messe all’indice, perché giudicate
iconoclaste, sia dalla Chiesa Ortodossa che da quella Cattolica. È il caso dei
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I Fiori del Male
romanzi “Capitan Michele” (1950) e soprattutto “L’ultima tentazione di
Cristo” (Frassinelli, 1988, trad. di Marina Aboaf e Bruno Amato), dal quale
Martin Scorsese, nel 1988, trasse l’omonimo film. Spunti ritenuti tali da
destare scandalo non mancano neppure in “La seconda crocifissione di
Cristo” (Castelvecchi, 2011, trad. di Mario Vitti), a cui si ispirò il regista
Jules Dassin per il film “Colui che deve morire” (1957), con Melina
Mercuri. Nella bellissima biografia del Poverello d’Assisi, “Francesco”
(Milano, 2013), edita di recente sempre da Crocetti nell’ottima traduzione di
Valentina Gilardi, Kazantzakis chiarì, nel Prologo, le linee-guida della sua
ricerca poetico-letteraria, una concezione non convenzionale che gli procurò
diffidenza e incomprensioni: “Se ho tralasciato molte parole e azioni di
Francesco, se ho modificato alcune vicende e ne ho aggiunte altre (…), l’ho
fatto non per ignoranza, né per impudenza o per mancanza di rispetto, bensì
per la necessità di armonizzare (…) la vita e il mito del santo.
L’arte ha questo diritto, anzi, non solo il diritto, ma il dovere: subordinare
tutto alla sostanza; si nutre della storia, la assimila lentamente, con fatica, e la
rende favola.” È incarnando l’animo irriducibile ed intrepido - niente affatto
empio né dissacratore - di Zorba il Greco, che Kazantzakis ha potuto donarci
favole “più vere persino della verità”. E probabilmente, è proprio questo che
non gli fu perdonato: l’aver sempre intrecciato sapientemente storia e favola,
ovvero realtà e mito, discipline che chierici, laici e farisei, con i loro dogmi
striscianti e con le loro chiusure mentali, pretendono che debbano rimanere
separate, onde alimentare controversie pretestuose ma utili per la tacita spartizione del potere. La storia, si sa, non è una scienza esatta: spesso la fantasia
supera di gran lunga la realtà, e viceversa… È lecito ritenere che il profondo
sentire – tanto indulgente con il prossimo quanto severo e coerente nei confronti di se stesso - di Kazantzakis, ricco di pietà per le vicende umane, corrisponda in pieno all’autentico spirito cristiano. Per i tipi di Crocetti Editore, è
in preparazione la prima edizione italiana della fondamentale autobiografia di
Kazantzakis, “Rapporto a el Greco”, uscita postuma nel 1961.
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
DINO BUZZATI A CINQUANT’ ANNI
DA “UN AMORE”
di Sabino Caronia
ei confronti dell’opera di Dino Buzzati la critica è stata troppo
spesso ingenerosa in particolare dopo la pubblicazione di Un
amore nel 1963. Giacomo Debenedetti, riprendendo a proposito
dei Sessanta racconti il giudizio estremamente positivo di Emilio
Cecchi in una recensione a Il crollo della Baliverna, ne ridimensionava la
portata. Secondo il giudizio di Debenedetti in un suo scritto intitolato significativamente Buzzati e gli sguardi del di qua lo scrittore «maneggia strumenti nati per creare il brivido cosmico, ne ottiene misurate, sopportabili
emozioni». Come il protagonista di un suo racconto, anch’egli «è un borghese stregato, stregato ma borghese, e fedelmente e con educazione così perfetta da diventare anche stile». E ciò, a giudizio del critico, trova conferma nei
limiti dello stile: «La sua parola, la sua frase paiono fatte apposta per mantenersi nel modo più ligio, a livello quotidiano delle apparenze. La parola non
ambisce di immedesimarsi, impressionisticamente o espressionisticamente,
con la materia sensibile o la sostanza ineffabile delle cose. Rimane il segno
convenzionale, di cui tutti ci serviamo per la nomenclatura ordinaria. E la
frase sembra, per lo più, che si contenti di mettere in ordine quei nomi, di
indicarne i nessi, di articolare le azioni, secondo le regole della comunicativa più abituale». Di questo saggio di Debenedetti non si può non sottoscrivere il seguente giudizio: «Ci sono scrittori di cui si dice, a maggior lode, che
per loro il mondo esterno non esiste. Buzzati è invece uno scrittore per cui il
mondo esterno esiste, ma a patto che sia anche un indizio o uno stemma di
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I Fiori del Male
qualcos’altro da ciò che è. Le apparenze contano solo se dai loro tratti familiari e inalterati emani un magnetismo di apparizione. Non debbono, di regola, scoccare uno sguardo speciale che ci metta sull’avviso. Il caso ideale è
quando agiscono normalmente su uno o parecchi dei nostri sensi; ma nello
stesso tempo, e senza che si disturbino a prendere iniziative fuor via, diventano stimoli del sesto senso». Ma come non dissentire dal grande critico
quando considera tutta la narrativa di Buzzati un itinerario ai limiti dell’«universo a noi proibito» che si arresta al di qua, appunto, dei suoi esiti estremi
e conclude: «Bisogna essere artisti più invasati, più coatti, e anche più
sostanziali di lui, per sentirsi arruolati al servizio ossessivo di un unico
tema»?Pensiamo inoltre a quanto scriveva Giorgio Bocca a proposito de Le
notti difficili. Diceva Bocca: Buzzati è uno scrittore che mi piace, anche se è
«reazionario allo stato puro». Ed ecco i due «rischi», a suo giudizio, di
Buzzati: di essere un «Cretinetti che si balocca con le favole e che rifiuta il
nuovo perché non lo capisce; e di stare oggettivamente dalla parte di coloro
i quali vogliono che tutto stia fermo com’è per non perdere un solo dei loro
privilegi». Ma c’è di più, Bocca denunciava anche il «difetto capitale» di
Buzzati: il rifiuto non dico del progresso, ma della storia.
Questi rilievi squalificano non Buzzati ma chi li muove, soprattutto se si
tratta di Giorgio Bocca il quale a chi, come Pietro Citati, si permette di rivendicare agli scrittori il diritto di innalzarsi al di sopra del proprio tempo
risponde con malgarbo accusandolo di presunzione. Tra i motivi dello scarso consenso critico di Buzzati, prima di tutto bisogna ricordare il fatto che
egli proveniva dal giornalismo. Nel 1933, l’anno del suo esordio narrativo
con Barnabo delle montagne, lavorava nella redazione del «Corriere della
Sera», dove era entrato nel 1928. Perciò molti letterati lo guardavano un po’
dall’alto afflitti da una sorta di complesso di superiorità del tutto ingiustificato. Inoltre i suoi libri, tra i quali spiccano per eccellenza Il deserto dei tartari e I sessanta racconti, con cui vinse il Premio Strega, si iscrivono nella
dimensione, poco praticata fino a quegli anni nella nostra letteratura, del fantastico, un fantastico che nasce spesso dalla cronaca o dalla cronaca prende
avvio per invenzioni ora angosciose, ora suggestive ma sempre inquietanti
sul mistero che circonda la nostra vita e che all’improvviso penetra dentro
come da uno spiraglio, da un oblò lasciato chiuso, motivi che sono agli antipodi degli schemi e dei moduli narrativi di impianto naturalistico prevalenti
nel neorealismo letterario allora imperante. Infine ancor più doveva pesare
sul giudizio dell’opera di Buzzati la mancanza nell’uomo e nello scrittore di
qualsiasi forma di engagement o impegno socio-politico, in ciò in linea con
altri scrittori del suo periodo come l’autore del Gattopardo e quello del
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
Giardino dei Finzi Contini che dovevano conoscere, accanto ad un larghissimo consenso di pubblico, analoghe riserve da parte di una critica che non era
disposta a riconoscere come altro e ben diverso dovesse essere l’impegno,
libero da condizionamenti o mode, dell’artista. A questo impegno rispondono i libri di Buzzati che più sono destinati a durare nel tempo e meglio permettono di conoscere i modi della sua attività cui è difficile appiccicare
un’etichetta. Esemplare in proposito Il deserto dei tartari, dove la storia del
tenente Giovanni Drogo esprime in forma allegorica e simbolica il senso
della vita come attesa e come solitudine, che non può risolversi se non nella
rinuncia o nella sconfitta. Inviato in un fortino al confine del deserto, Drogo
vi attende per tutta la vita il nemico e la gloria sperata. Ma solo con la morte
dopo anni di vana attesa, egli dà senso alla sua vita, consumata nella dignità
del dovere. È un senso concreto della vita e dell’ordine che la esprime, cui lo
scrittore non sa e non vuole rinunziare, malgrado tutte le negazioni che giorno per giorno ha dovuto infliggere al suo eroe: «La camera si è riempita di
buio, solo con grande fatica si può distinguere il biancore del letto, e tutto il
resto è nero. Fra poco dovrebbe levarsi la luna. Farà in tempo, Drogo, a
vederla o dovrà andarsene prima? La porta della camera palpita con uno
scricchiolio leggero. Forse un soffio di vento, un semplice risucchio d’aria di
queste inquiete notti di primavera. Forse è invece lei che è entrata, con passo
silenzioso, e adesso sta avvicinandosi alla poltrona di Drogo.
Facendosi forza, Giovanni raddrizza un po’ il busto, si assesta con una
mano il colletto dell’uniforme, dà ancora uno sguardo fuori della finestra,
una brevissima occhiata, per l’ultima sua porzione di stelle. Poi nel buio,
benché nessuno lo veda, sorride».Se è vero che la cifra della grandezza di
Buzzati sta in quell’autocontrollo che ha sempre cercato di esercitare sul lato
oscuro del suo temperamento – la tristezza, la sensualità – non meraviglia il
fatto che molti critici abbiano provato difficoltà a mettere insieme quella
parte dell’opera di Buzzati i cui motivi sono così fusi nella loro immediatezza espressiva, nella loro contenuta intensità poetica, come, abbiamo detto, la
storia che narra gli amori dell’architetto Dorigo e della giovane prostituta
Laide, i protagonisti di Un amore, l’ultimo romanzo apparso nel 1963. Quali
rapporti, è stato detto, possono intercorrere fra l’esposizione dei particolari
anatomici ed erotici che rendono appetibile Laide e la contenuta poesia di
tante pagine create in precedenza dallo scrittore? Ma giustamente i critici più
avvertiti hanno sottolineato la dimensione di «poeta puer» (Eugenio
Montale), di «poeta bambino» (Guido Piovene) che colloca il romanzo in
una linea di svolgimento da Il grande ritratto (1960) attraverso Un amore
(pubblicato nel 1963 ma scritto prima della morte della madre avvenuta nel
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I Fiori del Male
1961) fino al racconto I due autisti che chiude significativamente La boutique del mistero (1968). In quest’ultimo racconto lo scrittore si chiede che
cosa si dicevano i due autisti del furgone funebre mentre trasportavano la
madre al cimitero di famiglia, lontano più di trecento chilometri, e rivive il
rimorso e il dolore inconsolabile per il proprio egoismo di figlio di fronte alla
sofferenza e alla solitudine della mamma malata e conscia di morire: «Allora,
mi ricordo, eravamo quasi a Vicenza e il caldo del mezzodì incombeva facendo tremolare i contorni delle cose, pensai a quanto poco io avessi tenuto compagnia alla mamma negli ultimi tempi. E sentii quella punta dolorosa nel
mezzo del petto che abitualmente si chiama rimorso. In quel preciso momento – chissà come, fino allora, non era scattata la molla di questo miserabile
ricordo – cominciò a perseguitarmi l’eco della sua voce, quando al mattino
entravo in camera sua prima di andare al giornale: “Come va?” “Stanotte ho
dormito” rispondeva (sfido, a forza di iniezioni). “Io vado al giornale”.
“Ciao”. Facevo due tre passi nel corridoio e mi raggiungeva la temuta voce:
“Dino”. Tornavo indietro. “Ci sei a colazione?” “Sì”. “E a pranzo?” “E a
pranzo?” Dio mio, quanto innocente e grande e nello stesso tempo piccolo
desiderio c’era nella domanda. Non chiedeva, non pretendeva, domandava
soltanto un’informazione.
Ma io avevo appuntamenti cretini, avevo ragazze che non mi volevano
bene e in fondo se ne fregavano altamente di me, e l’idea di tornare alle otto
e mezzo nella casa triste, avvelenata dalla vecchiaia e dalla malattia, già contaminata dalla morte, mi repelleva addirittura, perché non si deve avere il
coraggio di confessare quelle orribili cose quando sono vere? “Non so” allora rispondevo “telefonerò”. E io sapevo che avrei telefonato di no e nel suo
“Ciao” c’era uno sconforto grandissimo. Ma io ero il figlio, egoista come
sanno esserlo soltanto i figli».Di particolare interesse è il volume L’attesa e
l’ignoto. L’opera multiforme di Dino Buzzati, a cura di Mauro Gennari,
recentemente pubblicato da L’Arcolaio (Forlì, 2013) che contiene una preziosa intervista alla moglie Almerina, di trentacinque anni più giovane, sposata nel 1966. E forse l’immagine più viva e significativa è per noi quella
dello scrittore del Deserto dei tartari, ormai malato e vicino alla morte,
costretto a fare anticamera di fronte alla porta della direzione del «Corriere
della sera». Così ce lo descrive Giovanni Mosca nelle pagine conclusive del
suo ultimo romanzo, La signora Teresa, e così ci piace concludere queste
note a cinquant’anni dalla pubblicazione di Un amore.
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
Alcmane: la natura e la notte
di Daniela Quieti
a poesia ellenica arcaica,
anche se giunta incompleta al nostro millennio,
apre un varco nella storia
di quella cultura illuminandola di
sembianze e di stupori. Alcmane,
originario forse di Sardi. È un antico poeta lirico1 greco le cui opere
ci sono pervenute in un insieme di
frammenti non sempre facilmente
interpretabili.Vissuto, secondo gli
studiosi, nel contesto sociale spartano della seconda metà del VII
secolo a.C. tra forti trasformazioni
politiche e vivaci impulsi culturali,
fu cantore di suggestivi miti e riti,
acquisendo l’elevato rango di
maestro corista dello stato. Inni,
peani, iporchemi, scoli e parteni2 in chiari versi giambico - trocaici ed esametri
e tetrametri dattilici consegnano al nostro tempo avvincenti immagini di un antico mondo mediterraneo, come quello descritto nel famoso Notturno di
Alcmane. Una tranquilla quiete avvolge il sonno del creato e di tutti gli esseri
viventi circondati da una natura non turbata dalla presenza dell'uomo, almeno
non nel brano rimasto. Alcmane rappresenta con potenza descrittiva l’ecosistema della sua contemporaneità, riverberandone l’incanto del territorio
egeo: “εὕδουσι δ'ὀρέων κορυφαί τε καὶ φάραγγες / πρώονές τε καὶ
χαράδραι / φῦλά τ'ἑρπέτ'ὅσα τρέφει μέλαινα γαῖα / θῆρές τ'ὀρεσκώιοι καὶ γένος μελισσᾶν / καὶ κνώδαλ'ἐν βένθεσσι πορφυρέας
ἁλός· / εὕδουσι δ οἰωνῶν φῦλα τανυπτερύγων.”. Salvatore Quasimodo
traduce così il frammento: “Dormono le cime dei monti e le vallate intorno,
/ i declivi e i burroni; / dormono i rettili, quanti nella specie la nera terra alleva, / le fiere di selva, le varie forme di api, / i mostri nel fondo cupo del mare;
/ dormono le generazioni degli uccelli dalle lunghe ali”. Le interpretazioni
critiche di questo breve testo poetico sono numerose e sempre attuali.
Appaiono reminiscenze omeriche, tuttavia il Notturno di Alcmane pone la
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I Fiori del Male
sua originalità nell’assenza di uomini e déi sullo sfondo dello scenario presentato. I protagonisti sono gli elementi della natura contemplati con raccoglimento e meraviglia. Alcmane usa il verbo al presente, manifestando senza mediazioni proprie o altrui lo stupore della rappresentazione all’ascoltatore e al lettore. La visione dell’intera natura nella serenità del sonno è comunicata con
toccante semplicità. Infatti il verbo εὕδουσι (dormono) dell’incipit mostra la
condizione di pace di tutti gli elementi della scena alla quale l’uomo non sembra appartenere.
Fin dal tempo di Omero, numerose figurazioni dello stato di calma notturno sono a volte turbate dalle ansie e dalle angosce dell'esistenza. Nel paesaggio delineato da Alcmane regna invece la centralità di una concezione benevola della notte, senza nessuna compartecipazione antropica. Alcuni critici hanno
ipotizzato che tale scena ideale di armonia notturna potesse preannunciare
un’apparizione divina, ma l’assenza della percezione di un seppur minimo
imminente turbamento nella placida atmosfera circostante sembra allontanare
tale supposizione. Questi versi accendono emozioni che si traducono in una
notte estatica e benigna, ispirazione di altissima sacralità poetica, capace di
consolare le ore fredde e senza sole vissute e temute dalla maggior parte dell’umanità nel corso dei millenni, e che hanno ispirato tanti generi di artistici
notturni. Leggere Alcmane, rivalutando la notte come momento di tranquilla
bellezza, sconfigge la predominante concezione delle tenebre quale espressione di paura dell’ignoto e di senso della morte. Da questa opera trasuda prorompente l’intimo rapporto dell’uomo con la natura che lo circonda e che suscita il rispetto dei più profondi valori ecologici da essa espressi.
1 Nella tradizione greca l’aggettivo lirico indicava una forma d’arte composita di versi e melodia.
2 L’inno è una composizione poetica rivolta solitamente agli dei o semidei; il peana è un canto corale di propiziazione o ringraziamento originariamente dedicato ad Apollo, in seguito canto di guerra, vittoria o salvezza; l’iporchema è un canto corale accompagnato da pantomima e danza; lo scolio è un canto lirico monodico o corale eseguito nei simposi; il partenio è un canto eseguito da un coro di fanciulle.
NOTIZIA
Gli Autori che desiderano collaborare possono inviare gli articoli
ai redattori (max 3 cartelle A/4), le recensioni (max 1 cartella A/4)
e le poesie per un massimo di cinque. I lavori devono pervenire
esclusivamente in formato Word, entro il 2 febbraio; 2 maggio; 2
ottobre. Si possono inviare indifferentemente ai redattori della
rivista qui di seguito segnati:
[email protected] - [email protected]
[email protected] - [email protected]
[email protected] - [email protected] - [email protected]
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
COME INNO DELLA LINGUA
ABITERÀ AMORE
Dona Amati & Rita Pacilio
Giovanne d’arco di Animus e Anima
di Plinio Perilli
opo anni di assurda banalizzazione – ahinoi – della poesia “al
femminile” (inevitabile e consacrato frutto delle rivendicazioni
femministe e di tutte le rivalse psico-socio-culturali dei decenni di lotta contro le sciagurate ma concrete disuguaglianze, perfino a livello, diciamo così, “artistico” e “creativo”!), fa piacere poter tornare a leggere poesie di poeti “donne” con la gioia bipartizan di un vero approdo espressivo, che per fortuna spiazza e spazza via ogni accezione, collocazione, menzione, porzione, limitazione… di Verità. Finalmente BASTA! con
le ormai vetuste categorizzazioni e agnizioni delle Donne in Poesia e compagnia bella, che ci hanno educato, formato, entusiasmato, ma a lungo andare anche stancato, oberato, fuorviato dal ’68 in poi, nella provvida fornace
civile, etica ed emotiva dei progressisti – manichei? – anni ’70, impennati ma
anche invischiati di urgenze velenose, faziose… La poesia, se ha sesso, ha
quello insieme dell’Anima e del Corpo: o meglio, per usare una grande intuizione di Sabina Spielrein (allora amorosamente legata a Carl Gustav Jung,
diciamo, come paziente in transfert, ma anche musa di un appassionato contro-transfert), di Anima e Animus – uscendo definitivamente da ogni sterile
pretesa o categoria scientifica… Correlate, eppure in fertile, calamitante
distinguo, esiste dunque un’anima corporea, infibrata d’impulsi e pulsioni,
desideri, eventi e avventi del dio Eros; così come una suggestione, una presenza, una strenua valenza corporale, una densa ipoteca fisica, tattile, epidermica, viscerale, umorale della medesima anima anche mentre si libra eterea
ad amare e farsi amare…Due libri recenti, uguali e contrari, di due brave
poetesse contemporanee, Dona Amati e Rita Pacilio, mi hanno appunto
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I Fiori del Male
riportato alla salvezza e salvazione di questi opposti – tra metodo e contenuto che è insieme psichico e formale, lirico ed esistenziale: il concetto junghiano (e alchemico) di vaso ermetico (e cosa lo è più di un’opera, di un
libro!), in cui possa avvenire la trasfusione, la distillazione, la coniunctio
oppositorum, e si compia l’opus, cioè la trasformazione, diciamo pure la
sublimazione del mistero degli opposti… Dove ogni poeta, sia ben chiaro, dà
a questa valenza il nome, il senso che più gli aggrada: Anima e Animus,
Corpo e Spirito, Femminile e Maschile, Poesia e Prosa, Volontà e Ragione,
Essere e Tempo, Arte e Storia, Idealismo e Realtà –: ma tutto in sapienza,
vorticante assieme, libero e redento…Per obbedire al corpo, vuol proprio
dirci Dona Amati (Riguardo all’obbedienza – Poesie dal corpo), dobbiamo
essere per davvero signoreggiati dall’anima – e ancor più signoreggiarla…
Ti desidero la linea / l’eruzione della pelle / farti tramontare la lingua /
all’orizzonte del seno / io zitta come / casualità bianca di scogliera / che
cerca spinge / carnalità messaggere / dell’incanto del mondo. Attenzione:
“Poesia dal corpo” – non “del” – poesia dunque che ci giunge dal corpo, ma
non del tutto gli appartiene, se si fonde e trasfonde all’energia, all’anima
stessa dell’amore; se si transustanzia in un rito o sacramento che entrambi li
prende, ci esige all’unìsono: Sto portando fuori dal corpo / singolarmente /
le oscillazioni insonni / dell’osmosi viva / del sesso sonoro. / Un’unica cellula rossa / s’addensa di noi / e appesantisce le tue mani / della sapienza
femmina / che t’invocai quando nuda / inventavo l’argilla dei nostri corpi.
Ha ragione Letizia Leone nella lucida, partecipe post-fazione, “Centralità
del corpo”, a ricordare le ipoteche maligne di tanta e tale – incommensurabilmente sana, benedetta! – energia d’Eros… Ma anche a invocare, riconoscere la potenzialità salutare e terapica di “questa ampia distesa metafisica”
che “attraversa la poesia carnale”, e la riscatta, l’arricchisce finanche in qualità espressiva, istintiva genialità di forma : “Qui la dimensione energetica
dell’erotismo coincide in pieno con la qualità primaria della poesia che è
puro piacere della forma, un percepire sensoriale che riporta le parole alla
loro dimensione concreta e tattile, sensuale”… Ricordiamo del resto un saggio fondamentale di Freud, “Contributi alla psicologia della vita amorosa”
(1910-1918), capace al solito di svelarci assai scomodi e talvolta obbrobriosi arcani della Psiche (specie di quella, ahinoi, maschile): “… La principale
misura protettiva presa dagli uomini contro il verificarsi di un disturbo del
genere a causa di questa scissione del loro amore, consiste in una devalorizzazione psichica dell’oggetto sessuale, riservando così la sopravvalutazione
che normalmente gli si rivolge, all’oggetto incestuoso e ai suoi rappresentanti. Non appena si realizza la condizione di devalorizzazione, la sensualità può
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
esprimersi liberamente e si possono sviluppare notevoli capacità sessuali e
un alto grado di piacere.”…
Incredibile dictu: “devalorizzazione psichica dell’oggetto sessuale”…
Quando tutto il ruolo e il sogno e il bisogno della poesia sono perfettamente
all’opposto! È tempo, è tempo da troppo tempo – ci direbbe Dona Amati
(nomen omen! Dona agli Amati! Amati doni!) – di trasformare l’oggetto in
soggetto, di essere sempre oggettivamente soggettivi! Ora sei tu che scivoli
come / un’unghia che ha sacrificato la presa, / non ci salva più la fretta
anchilosata sul sesso / i corpi marciscono al primo orgasmo, la voglia /
dismette la sua sete, una bancarotta ai sussulti del piacere. / È quella foga di
andartene, il soldo di latta del tuo bottino / che pretende pagar d’ufficio la
mia rabbia. / Resto, indigente – e illesa – come un dio infame.
*********
Ancor più ci consola e s’accanisce a innamorare, eccitare il Bene la poesia di
Rita Pacilio, non meno ardua e coraggiosa di quella di Dona nello sdoganare le antiche, vetuste formule delle convenzioni e convinzioni… Gli imperfetti sono gente bizzarra è molto di più di un elogio dell’imperfezione, è la
consacrazione e il ribaltamento di ogni fallace dogma di ciò che è equilibrio,
canone, misura, metro campione, recta via – direbbero i dediti uomini di
fede, sapienti sia dell’Altissimo che dell’altrove… Ha tolto lo spillo dalla
costola / dove la Santa si scioglieva rossa / nello specchio del cielo cotonato / nell’orologio che lo ignora. / Che è un gioco del dio cieco / sotto le crepe
limpide di acqua / rimodella i collant / mezza sorda di perdono e vita. C’è
insomma una fede (“una sola fede diventare burrasca”), un miracolo nella
dismisura, nella ferita, nella Imperfezione che ci avvince d’anima e risana il
corpo, omeopaticamente, dello stesso male contro cui si agiva, che ci impediva di agire… Conosco tragitti della mancanza / che dividono a metà le
braccia / il dubbio è nell’angolo destro / se questa è l’estate dei saluti. /
Rientra in gola l’urlo e la lancia / nella cella pietrifica l’anima / si tengono
strette due rose bianche / chiavi e chiavistelli il sigillo. “Il libro è visionario
e intimo,” – scrive prefandolo un ammirato, fervido Davide Rondoni – “ma
in forza di una speciale capacità di composizione e di concentrazione, evita
tutti i rischi che si incontrano in un corpo a corpo così stretto con l’abisso.
Voglio dire i rischi del ripararsi, del coprirsi dietro la letteratura, i luoghi
comuni, lo stereotipo.”…
L’abilità di Rita Pacilio è insomma di parlare al corpo – il suo, quel del suo
uomo, ma anche di tutti gli altri da sé, cittadini, degenti, pazienti, lettori
d’ogni seme infuriato, di tutte le foglie sulla via o le file di formiche sui bordi
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I Fiori del Male
– sempre e solo con l’anima. E al contempo di convocare sempre e solo l’anima con prove e dedizioni corporali, turgide estasi o sfinite estenuazioni fisiche (una ininterrotta contro/estasi di Santa Teresa? – inopinata ma berniniana come il neo-barocco sinuoso, danzante, dei suoi versi, madornali e sacri,
bruniti e lampanti di misticismo)… È la caviglia che porta l’altra me / o un
tacco, un colpo lascivo / potrai inalare muschio dai reni / forse sono stata
senza errori / nell’isolamento. Ma allora? Di che cosa parliamo quando parliamo d’amore? titolava Carver una sua asciutta, lapidaria raccolta di short
stories, nemmeno troppi anni fa (1981). Gli rispondiamo, ci affabuliamo con
due risposte in versi delle nostre due amiche e campionesse, Giovanne
d’Arco del Dio d’Amore. Rita: “L’amore prevede due bugie / una crepa nel
monte / un verbo finito sul petto / dove i canneti hanno smesso di dire. //
Lontano dal battito dell’altro.” Dona: “L’amore non è mai innocente, nemmeno / fatto di tempi morti. / e se scortica l’anima a blandi pezzi, / è risulta
di facili bocconi d’eros. / Non più giaciglio di sinapsi.” Per tornare davvero
a inventare l’argilla dei nostri corpi; per rimeritare ogni inquieto goduto
amplesso come rito d’anima, cielo in una stanza, abisso di sole: “se nasci
nuovamente giovinezza / senza le rughe mi farai l’amore”.Confessava
Sabina Spielrein al suo Diario, in data 15.1.1911: “Dopo un prolungato stato
di depressione, ora sono tranquilla. Voglio affrontare il destino piena di speranza. Da quando amo la vita sinceramente, credo che i demoni nella mia
anima non abbiano il coraggio di litigare: questi ‘cattivi’ saranno sconfitti.
Ma che cosa si deve intendere per ‘cattivi’? ecc. ecc. Per ora lasciamo da
parte la filosofia. Adesso, destino, mi affido a te!”.
Dona Amati, Riguardo all’obbedienza – Poesie dal corpo, (Roma, 2013)
Pacilio, Rita, Gli imperfetti sono gente bizzarra, (Milano, 2012)
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
“L’impressione iniziale della bellezza delle cose”
José Maria Eça de Queiroz: tra sogno e spiritualità,
la metafora della notte
di Fausta Genziana Le Piane
osé Maria Eça de Queiroz (o anche Queirós) nasce in una cittadina del
Nord del Portogallo nel 1845. Dal 1855 al 1861 studia in collegio a
Oporto, dal 1861 al 1866 frequenta l’Università di Coimbra, ove consegue la laurea in giurisprudenza. Lì conosce Teófilo Braga e Antero
de Quental, esponenti significativi della generazione del ’70, che mirava a un
rinnovamento del clima intellettuale e sociale portoghese. Nel 1866 si trasferisce in casa dei genitori, a Lisbona. Lì prende a esercitare la professione in
uno studio legale. Incomincia a scrivere sulla “Gazeta de Portugal” cronache
e feuilletons con richiami al mondo onirico e fantastico secondo il gusto del
romanticismo nordeuropeo, che saranno raccolti postumi in volume sotto il
titolo Prosas Bárbaras (Prose barbare). Mette su uno studio di avvocato.
Partecipa alle riunioni del Cenáculo, gruppo di intellettuali d’avanguardia.
Nel 1869 compie un viaggio in Egitto: impressioni di questo viaggio saranno utilizzate per lo sfondo del romanzo
A Relíquia (La reliquia). Ritornato a
Lisbona, pubblica sul “Diário de
Notícias” resoconti del suo viaggio in
Oriente, scrive O Mistério da estrada
de Sintra (Il mistero della strada di
Sintra), sorta di giallo pieno di misteri e
colpi di scena. Nel 1871 partecipa alle
Conferências do Casino Lisbonense,
ciclo di conferenze su politica, arte e
letteratura, presto interrotte per disposizione governativa con la motivazione
che “esponevano e cercavano di sostenere dottrine e proposizioni che attaccavano la religione e le istituzioni politiche dello Stato”. La sua conferenza,
tenuta nel mese di giugno, era dedicata
José Maria Eça de Queiroz,
al Realismo come nuova espressione del-
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I Fiori del Male
l’arte. Fonda il periodico “As Farpas” (“frecciatine”), in cui inserisce articoli critici e satirici di materia sociale e politica. Nel 1872 entra nella carriera
diplomatica ed è inviato come console all’Avana, nel 1873 compie un viaggio in Canada, Stati Uniti d’America e America centrale. Pubblica
Singularidades de uma Rapariga Loira (Singolarità di una ragazza bionda),
O crime do Padre Amaro (La colpa di don Amaro). Nel 1878 è trasferito a
Bristol, pubblica O Primo Basílio (Il cugino Basilio), un romanzo sul tema
dell’adulterio femminile nell’ambiente della borghesia di Lisbona, O Conde
de Abranhos (Il conte di Abranhos), disegno satirico della figura di un politico arrivista. Nel 1883 è eletto socio corrispondente dell’Accademia Reale
delle Scienze di Lisbona. Nel 1885 visita Zola a Parigi dove, nel 1888, è
nominato console e dove rimarrà fino alla morte. Pubblica tanti racconti,
interviene a proposito del caso Dreyfus, prendendo posizione a favore dell’ufficiale condannato. Muore a Neuilly nel 1900. Molte sue opere escono
postume.
I racconti di de Queiroz (1) sono intrisi di quell’atmosfera di sogno e di
fantasticheria tipiche della cultura portoghese che Antonio Tabucchi, grande
conoscitore di Pessoa e della letteratura portoghese, ci ha abituato a conoscere ed amare. Sono tutti, per un verso o l’altro, anche ambientati di notte: la
notte simboleggia il tempo delle gestazioni, delle germinazioni, delle cospirazioni che diventeranno manifestazione di vita. È uno spazio onirico, un
luogo dove si vive l’amore, lo si preannuncia o lo si perde. Nel primo racconto intitolato Singolarità di una ragazza bionda, la notte è “radiosa” (op.
cit. p. 82) per la vicinanza con la donna amata, sempre idealizzata da questo
scrittore e considerata come una santa o una fata. È di notte che Macario
incontra Luisa “nella saletta buia che dava sul pianerottolo: un piccolo lume
ardeva sopra la tavola: era felice lì in quella penombra, seduto molto castamente, accanto a Luisa, in un angolo di un vecchio canapè di paglia: non la
vedeva di giorno, perché portava oramai vestiti usati, stivali scalcagnati (…)
(p. 87). La notte consente a Macario di nascondere la sua miseria rattoppata,
il suo decadimento alla sua Luisa che – brillante annotazione dello scrittore
– “aveva il carattere biondo, come i capelli” (p. 87) e che forse non lo vorrà
più: “Era notte. Camminò a caso per le strade…“ (p. 91). Ricordi, delusioni,
smarrimenti, nostalgia, paura, fiducia, speranza, tutto ha luogo di notte: ora
la vita di Macario è buia, senza via d’uscita, per il lavoro che non ha e per
l’amore che ha perso. Sarà di sera che lascerà la città e la donna amata dopo
aver scoperto che è una ladra. Nel secondo racconto – Un poeta lirico – il
protagonista arriva di notte a Londra dove “proprio in quella notte ebbi la
singolare felicità di sapere il suo nome e di intravedere un frammento del suo
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
passato” (p. 101): l’altro è il cameriere di un ristorante di Charing Cross, il
poeta, Korriscosso. Il buio, la notte sono l’oscurità del passato del poeta che
resta a servire per amore di Fanny, cameriera tuttofare che, ignara, ama invece un policeman. Nel racconto intitolato Al mulino, storia triste di una
donna, infelice, con marito e figli ammalati, la protagonista scopre l’amore
di notte: “una notte che le comparve questa idea, questa visione – se fosse
mio marito!” (p. 122), “voleva, bramava nelle calde notti in cui non poteva
dormire – due braccia forti come l’acciaio (…) (p. 123). Cadrà nelle braccia
del praticante della farmacia: “Viene di notte ai convegni con pantofole di
cimosa: puzza di sudore: le chiede in prestito denaro (…) (p. 124). Nel racconto Civilizzazione, la notte è segreto, un po’ vereconda, di uno scherzo
per l’amico Jacinto amante di ogni forma di progresso: “in una dolce notte di
San Giovanni il mio super civilizzato amico, desiderando che alcune signore parenti di Pinto Porto (le amabili Gouveias) ammirassero il fonografo,
fece irrompere dalla boccona dell’apparecchio, che pare una tromba, la voce
rotonda e oracolare: -“Chi non ammirerà i progressi di questo secolo?” (p.
128). La molla s’inceppa e la voce gracchia all’infinito…È che la notte rivela: rivela i limiti di troppo tecnicismo e l’essenziale della vita.
Jacinto scopre, guardando di notte le stelle, nella dolce pace del crepuscolo, la bellezza del poco. Notte, invece, buio dell’anima e delle cattive azioni
per il racconto Tema per versi: di notte, “una notte, una notte silenziosa e
buia” (p. 163), avviene il rapimento del principino. Nel racconto Il tesoro, la
notte buia è il luogo ideale per gli omicidi dei due fratelli ad opera del terzo
per avidità. La notte è accompagnata e ribadita dallo scuro del piumaggio dei
corvi – si noti infatti la ripetizione dell’aggettivo nero, come l’anima degli
assassini: “Venne la notte. Due corvi, del branco che gracchiava,laggiù tra i
roveti, si erano già posati sul corpo di Guanes. La fonte cantando lavava l’altro morto. Mezzo sepolta nell’erba nera, tutta la faccia di Rui era diventata
nera. Una stellina tremolava nel cielo. Il tesoro è ancora là, nel bosco di
Roquelanes” (pp. 174-175). Nel racconto Fra Ginepro, la notte è la concentrazione di ogni spiritualità, la sua quintessenza: “nulla lo deliziava più che
giungere di notte, bagnato, affamato, battendo i denti, a una opulenta abbazia feudale, e essere respinto dalla portineria come un vagabondo malvagio
(…)” (p. 182). Ancora incontro d’amore – “assoluto amore che aveva concepito, da quella notte d’autunno, alla luce della luna” - e colpo di fulmine in
José Matias: ”ritornando dalla spiaggia di Ericeira d’ottobre, in autunno,
scorse Elisa Miranda, una notte, sulla terrazza, alla luce della luna! (p. 280).
La notte è la vera protagonista di questo racconto: tutto l’amore nascosto –
letteralmente nascosto – per Elisa si svolge nell’oscurità. Ombra tra le
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I Fiori del Male
ombre, José si nasconde: “…si ritirava nell’oscurità del portone, nella sua
estasi. Quando le finestre di Elisa si spegnevano, ancora trascinava le lunghe
notti, anche le nere notti d’inverno, tutto rattrappito, intirizzito, battendo le
suole rotte sul lastricato (…)” p. 298. Il nero è chiaramente un colore con
connotazioni psicologiche: le nere notti sono quelle della miseria inconfessabile di José. In Adamo ed Eva nel Paradiso, il racconto più perfetto e
visionario, la notte rappresenta il punto culminante e più alto, il luogo del
sorgere vittorioso dell’Uomo Pensante, che si rivela a se stesso, nei confronti della Forza Bruta che s’inchina alla sua potenza e superiorità “tutta la pianura ansimava, sotto la luna nuova (…). Era tutta l’Animalità del Paradiso,
che, sapendo il Primo Uomo addormentato, senza difesa, in un ermo bosco,
correva, nell’immensa speranza di distruggerlo e di eliminare dalla Terra la
Forza Intelligente destinata a sottomettere la Forza Bruta” (p. 237).
La notte è la metafora della Paura, Fame e Furore. “È quando scende la
notte che Troia è nostra”, dichiara Ulisse in La perfezione. Notte trionfante
e vittoriosa, dunque. Di sera il mendicante percorrendo le strade e scendendo per i duri sentieri porta verità e amore (Il soave miracolo). La santità santo è definito il Portogallo-, la devozione, e quella alla Vergine Maria in
particolare, è anch’essa presente nei racconti pervasi da allegria religiosa: la
Vergine assiste all’amore e al bacio di Macario e Luisa (Singolarià di una
ragazza bionda), dà il nome alla chiesa di Nostra Signora del Pilar, a
Segovia (Il defunto), il nome alla protagonista di Al mulino (Maria de
Piedade) ed ha “il bel viso da Vergine Maria” (p. 112). Anche i titoli contribuiscono: Frà Ginepro, Il soave miracolo ecc.a creare questa atmosfera. Lo
sfondo è quello di un Portogallo dai rigidi costumi, dalle antiche educazioni
che producevano spesso situazioni insensate, retto dal senso dell’onore, della
correttezza del lavoro, della dignità. Un Portogallo che conserva le antiche
abitudini severamente chiuse. Infine, lo stile personalissimo di Queiroz: la
sua lingua scorre come un fiume in piena, senza soste, come il flusso del pensiero in un’unica frase, in un unico slancio fatto di susseguirsi di due punti,
di virgole, di sospensioni, di esclamazioni come se non bastasse lo spazio per
dire ciò che urge dentro di essere espresso. Come lo stile di Tabucchi.
(1)José Maria Eça de Queiroz, Racconti, Biblioteca Universale Rizzoli, 2000
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
NICOLINO LONGO TRA INSOLITI E LIEVI EPIGRAMMI
di Domenico Cara
insonnia emozionale dei versi di Nicolino Longo è in tutto
simile a ciò che si legge nelle pagine d’ogni tempo sulle proiezioni continue, intorno a un argomento esistenziale. Ma la
sua opera è insieme assai distante da chi inventa tesi epigrammi per divertirsi o giocare sulla pagina bianca per dire qualcosa e non
morire d’inedia. Il suo percorso, infatti, domina una libertà tutta autonoma, e
che non intende prevalere sui vezzi e lazzi di altri poeti, che riproducono
movimenti di razionalità e di passione derivati da schemi e prevedibili solfe
a illimitabilità di slanci e predilette leggerezze. Egli osserva il campo di
simulazione con una sintomatica audacia di conflitto e ritrova puntualmente
se stesso candido e strano per curiosità di spostamenti descrittivi e sfilacciature estese o assiduamente ininterrotte e fulminee. “Nel profondo Nord / sono
spariti / i lupi // e rimasti / i lupanari // Nel profondo Sud / sono spariti / i
lupi // e rimaste le lupare(Ridatemi i lupi); “Voi anc/or sopra la terra io già
morto // sto meglio di voi / mille volte // Voi // pien di lav/oro e di denari //
avrete sempre a vivere da somari // Io // che pur dalla vita nulla mai ottenni
/ (se non di lavorar con pene e penna) / felice più di voi fui certamente // In
più // io da sottoterra anc/ora parlo // Voi neanche dal ciel potresti farlo”
(Postuma: A tutti i po/liticanti di turno); “Il migliore amico di elio Pecora /
non può che essere Luciano erba” (Epigramma); “Stava per tirare un sasso
/ alla Madonna / e gli partì il braccio / Il sasso / rimase / pendente / al posto
del braccio” (In/ingiustizia); “ Col pagamento ici / e l’aumento di benzina /
vedremo gl’italiANI / in mutande sulle bici”(Austerità); “Non è con la penna
/ ma con i piedi / ch’ognun di noi / giorno dopo giorno / scrive // il maggior
numero / di pagine della propria vita // (Ogni passo è una parola) // ed è per
questo / che poi alla fine // persino ogni scrittore // si ritrova ad aver scritto
/ il romanzo più lungo / della propria vita/”con i piedi”(Asini anch’essi).A
volte (o quasi sempre?) il proposito, positivo o negativo, si fa pretesto di saggezza e quindi traduce l’inverosimile con effetti di ossessive specularità non
marginali, e in ogni caso irregolari e frante. Per spazi vuoti e ondulazioni ilari
(quantunque a ritmi d’isteria) Longo incontra i suoi umori naturali che sembrano spiccioli, ma ivi si nasconde l’identità di un movente coraggioso e persino profetico. E, in un susseguirsi di parole (sembra pigro o mal recepito),
addestra il lettore a capire meglio le sue intenzioni, qua e là solenni e pur
attente, sebbene distratte come un’armata di dormienti nei quali gli effetti
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I Fiori del Male
promettono una logica poco divertita ad ogni conoscenza. Il rituale è iniziato almeno venti anni or sono con: Se sto zitto ascoltatemi, poi Post Nubila
Phoebus, Ablativo assoluto, Chiarità destrorsa, La montagna in cima alla
collina (ma non sono elencate le diverse pubblicazioni, non intendendo scrivere una completa bibliografia del suo lavoro e delle mimetiche ambiguità).
Così, nelle medesime sillogi, si legge di tutto in un abuso corroso, cinico,
proverbiale del suo immaginario. In sintesi cordiale, curiosità lessicali vivide, mozioni di sfiducia contro l’essere, rischia l’isolamento perché in finta
disarmonia con un dettato perso e sparso sulle pagine a genuino commento
della sopravvivenza, dentro cui Longo trasmette un’etica del buonumore e
forse confessa all’attimo fuggente quel non rancore la cui questione si dispone contenuta in un rogo espressivo e parallelamente risorsa moralistica. Il
dialetto calabrese non ha mai inghiottito la sua verve grafica e concettuale,
eppure puntualmente la scrittura si fissa mobile, e possono scorgersi momenti che fanno pensare a Evtusenko e a Ferruccio Brugnaro, Gaio Fratini,
Saverio Vòllaro e Francesco De Napoli, a certi maestri secenteschi e
Palazzeschi, Luciano Folgore, Sinisgalli, Toti Scialoja e ad alcuni epigoni
lontani dalle poetiche che pur ritornano in quadernetti a singolare sintassi, a
montaggio non del tutto illegittimo per ragioni rapidissime. “Ho visto bambini saltare / su mine antiuomo / in aria / fino a congiungersi con Dio //
Uomini farsi il segno / della Croce / e restarvi inchiodati // Vento foglie sollevare / con alberi / ad esse attaccati // Ma anche donne / senza gambe né
braccia / inginocchiate / e a mani giunte pregare”(Ho visto guardando);
“Hai interesse d’arrivare // il più tardi possibile / ad un appuntamento? //
Spedisci per posta” (E il ritardo è assicurato); “Non ho tempo per salutarti /
Se vuoi // posso darti solo la mano / rinviandone la stretta a domani”
(L’uomo tutto fretta all’amico) ; “L’un dopo l’altro mangiò tutti i libri / d’una
biblioteca // Pare che avesse / molta fame di conoscenza” (Un topo); “Per
quanto se ne sappia / è sempre il gatto / a rincorrere il topo // Ma / qualora
ciò avvenisse / in circolarità di movimento // potrebbe anche sembrare / essere il topo / a rincorrere il gatto” (Dicotomia). (Testi comparsi su Capoverso
(CS) n° 26: Luglio-Dicembre 2013, per gentile concessione dell’Editore e
dell’Autore). Qui la disposizione è fremente, neo-crepuscolare e a facoltà
comunicativa docile, più sensibile al bozzetto che studiata per stupire o inerte e animata da casuali motti umoristici. Ogni polisenso è fuggitivo, “saluta
il mondo” e scompare, scova un destino e si avviluppa alla vita di una poeticità esatta, breve, in variazioni sottese e improvvise, su socio-linguismo non
labile, bensì caratteristico di un fermento che appena detto appassisce, e
comunque colora l’occhio, tentando di diventare indipendente da ogni feno-
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
meno-artiglio conosciuto nel valore di essenza trafitta dalla scelta dei suoi
limiti scoperti nella consapevolezza, in effetti diffusa e stratificata. Egli in
più casi significa (ma non avverte) una funzionalità analoga all’aforisma,
mette in luce un controllo alla sua rivolta nel gran mare degli stili e dei contro-stili neo-epocali, quella sfera di fascinazioni che molti altri compagni
della sua e nostra terra non adattano nel proprio interrogarsi, in quanto è più
facile e irrazionale approdare a tracce orali e provvisorie inventando squarci
sorridendo, anziché versare lacrime all’amarezza di non riuscire a scorgere
l’equilibrio all’arguzia linguistica. Tra i fatti e gli antefatti, quello che anche
il calabrese ripete nei suoi contatti col verso (cito per tutti gli eccezionali e
favolistici “dialettali”: Vittorio Butera e Achille Curcio)fonda e spiega ciò
che non è tangibile in ogni fase della contemporaneità polemica e atonale,
uscendo dalle fole di una felice archeologia, senza metafora ma con violento mito. Nel clima di tale sconvenienza Longo espone la metafisica del suasivo dominio di poeta, attrae un giudizio molteplice e assiduamente percepito, usando la sua verità: stanca di tutti; e va letto e riletto assecondando l’intero e interno spirito d’ironia, spostando parole amabili e graffianti per
immergersi in esse, come per sanare una malattia insidiata dall’ombra, continuando il respiro in soliloquio irridente e provocatorio.
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I Fiori del Male
Cronache dal Nord-Est
“Album”: un grande ritorno
di Claudio Grisancich
di Roberto Pagan
a qualche tempo (esattamente nel maggio del 2011) Claudio
Grisancich, il più rappresentativo poeta della tradizione triestina,
aveva raccolto con l’aiuto degli amici tutti suoi versi in dialetto in
unico corpus: un bel libro di quasi 500 pagine in cui c’è anche lo
spazio per un’appendice di note critiche e biobibligrafiche. L’aveva chiamato Conchiglie come l’ultimo mannello di poesie inedite (Trieste 2011) e pubblicato all’insegna di questa epigrafe: drento te ‘scolti / el mar / vose / del
mondo. Solenne tanto da sembrare davvero un congedo. E molti avevano
potuto credere che egli fosse ormai pago dei consensi e degli allori ricevuti:
il libro – anche come riconoscimento alla carriera – aveva conseguito due
premi prestigiosi come il “Biagio Marin” e il “Pascoli”; e l’autore era stato
chiamato a parlarne in tutto l’hinterland mitteleuropeo di Trieste, dovunque
la Storia, come talvolta accade, riprende i suoi diritti e ritrova i suoi rivoli
antichi. Ma chi conosceva Grisancich più da vicino aveva intuìto che, nella
sua natura inquieta e imprevedibile, non era troppo disposto a subire, quasi
imbalsamato nei cartoni dell’opera omnia, un prematuro pensionamento dal
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
mondo delle muse. È vero che, nei momenti di malumore, aveva amaramente ironizzato sui benefici della gloria poetica: esser poeta / per dopo ‘ver el
nome / in t-una piaza / sporcada d’i colombi (in el nome, ora in Conchiglie,
p. 196); ma altra volta aveva pur detto con grande sicurezza di sé e del suo
daimon interiore: Mi go la testa / in fantasia de gloria…No xe boria / ma un
giorno o l’altro / mi penso / che fermarò la storia. Così suonava la pagina
conclusiva di Noi vegnaremo (ora in Conchiglie, p. 160), il libro del suo folgorante esordio, ricco e pieno di un’energia sanguigna, con la baldanza e le
asprezze di un vitalismo che pareva richiamarsi ancora alla pianta slataperiana, non privo tuttavia di inquietudini ventose e oscuri ripiegamenti: Noi
vegnaremo / co’ le braghe / sporche de tera / e co’ l’odor de erba / in- t-ei
maioni (ibidem, p. 5). La stagione aurorale del giovanissimo Grisancich era
maturata rapida e sicura negli anni del dopoguerra giuliano, difficili ma fervidi, vivificati ancora dalla presenza di quei grandi vecchi – Saba, Giotti,
Stuparich, Marin – che frequentavano il cenacolo di Anita Pittoni (noi ne
abbiamo detto recentemente in una di queste cronache del nord-est).
Era stata lei, Anita Pittoni, a “scoprire” questo suo nuovo pupillo e a
vegliare a lungo sulla sua formazione. Finché ritenne venuto il momento di
pubblicare quel libro inserendolo nella ormai affermata collana dello
“Zibaldone”, accanto alle ultime prove di un Saba e di un Giotti e ad alcuni
diari inediti di Svevo e di Stuparich. Era il 1965, ma l’autore aveva preso
l’abbrivio fin dai primi anni ‘50. In realtà, dopo l’esuberanza dell’avvio, la
produzione di Gisancich si era assottigliata nel tempo e si era fatta più diseguale, alternando momenti di grande fecondità a momenti di stagnazione.
Nel 1972 era uscito Dona de pugnai, che – in relazione alle traversie di una
vita privata non facile – appariva dominato dai temi della gelosia, del rimpianto e della solitudine: Un giorno petinandote / davanti el specio te se
domandarà: Ma quando xe sucesso? (cfr. Un giorno petinandote, p.171)
o:…Le calze bianche le calze nere / la disperazion de la mia vita / se sventola a sugarse su le corde (cfr. Le calze bianche le calze nere, p.176). I toni
dunque erano andati incupendosi, e la poesia di Grisancich si velava di
ombre e di dolorose tensioni. E anche la scrittura, dopo il passo agile che
aveva caratterizzato la sua prima stagione, aveva assunto un andamento più
spoglio e dimesso, puntando proprio sulla nudità di una pronuncia secca e
dura, tutta calata nelle cose, disadorna nei modi, il più possibile lontana da
ogni lenocinio retorico. Sicché, in certo senso, quanto si era perso in facilità di scrittura veniva compensato dall’essenzialità di una dizione scabra e
refrattaria agli abbandoni sentimentali: a ben vedere, l’insidia più facile forse
per la poesia dialettale che si nutre di umori e movenze proprie dell’oralità
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I Fiori del Male
popolare.Chiusosi senza concessioni – per volontaria scelta o per destino
biografico – dentro la cerchia del suo mondo e della sua città, poeta di pochi
temi – l’amore, la morte, la solitudine, la rinuncia – Grisancich ha certo evitato con quasi ascetico impegno di inciampare nel rischio della ripetizione e
della maniera. Seguirà, a distanza di tempo, nel 1989, Crature del pianzer
crature del rider, il libro della delusa, distillata maturità: in cui in realtà il
poeta riproponeva tutta la sua produzione precedente aggiungendovi un
breve canzoniere di soli 18 testi. Qui, se confrontata con la confidente allure degli anni giovanili, la voce di Grisancich si è fatta assai più roca e dolente. La struttura stessa dei componimenti appare concentrata nella sostanza
anche se disposta talvolta sulla pagina in forme frammentate, la punteggiatura ridotta al minimo, espunte persino le maiuscole dei nomi propri, smorzato ogni residuo di sonorità.
La tecnica – si direbbe – è ormai tutta “a levare”, e il linguaggio è scavato
e teso all’essenziale. Mentre lo strazio interiore può raccogliersi in una sola
immagine, ingigantita però dall’ombra delle pause: la colomba / contro el
marciapìe / muceto de nebia / mastruzzà / co’l papavero / anca / de ‘sta colpa
/ de mi / te ga volesto el conto (La colomba / contro il marciapiedi / mucchietto di nebbia / calpestato / col papavero / anche / di questa colpa / da me
/ hai preteso il conto )(cfr. r., p. 200). O si veda ancora, anticipatrice della
maniera più recente, la cantilena in falsetto che traccia il bilancio di una vita
come immeschinito da una nuda enumerazione di nomi e cognomi, tutti
livellati dalle implacabili minuscole: Stavimo / de drio de do’ / che sta incontrera / stavimo / visavì carmela de dario / co mi a la s. giorgio / stavimo /
poco via dei fradei de mama / ch’i stava ‘ncora coi veci / stavimo / tacai de
nico de lucia / in via bramante sora / la peliciaia / mi fazevo la prima elementare / in fianco a piaza hortis / diretor / mario todeschini / poeta / co’l
pseudonimo / morello torrespini. Solo il titolo umanità (ora a p. 209) sembra
riscattare il voluto grigiore di questo testo nel segno di una pietas sommessa. Ma da qui – e perciò vi indugiamo anche tralasciando altre sillogi importanti come Bora zeleste, Scarpe zale e altre cose, Su’l ponte de la Roja,
Inventario –, da questo disadorno abbozzo cantilenante ci sembra nascere il
seme della straordinaria fioritura rappresentata ora dall’imprevisto Album
(Trieste 2013) che segna il ritorno in grande stile del nostro poeta. Il corredo
fotografico di Stefano Visintin – tutte immagini in bianco e nero di muri
sbrecciati, portoni, finestre, insegne di vecchie botteghe – ha suggerito forse
titolo e formato, e bene si adatta all’atmosfera propria del libro, alla sua
ambientazione nel tempo (gli anni del dopoguerra e il clima del neorealismo)
e nei luoghi (il quartiere popolare che lungo la via San Michele si abbarbica
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tra vicoli e androne sulle pendici del colle di San Giusto). Sono i tempi e i
luoghi dell’infanzia e dell’adolescenza del nostro poeta. Il quale continuamente compare, ma in terza persona, riconoscibile ma mai nominato, ora
accanto ai genitori, ma più spesso confuso nella turba dei monelli (la clapa
dei pisdrui), svegli e scaltriti dalla strada, che è palestra di iniziazioni alla
vita. Ma tutto intorno, le cose e le case, i vicoli, le piazzette, il viavai delle
gente, l’esistenza affannosa e tumultuante delle piccole persone dicono di
quel tempo “in bianco e nero”: varie nella loro sorte, ma uguagliate senza filtri e pudori nella fatica di esistere, smunte e affamate e tuttavia vitali. Sono
uomini e donne, ragazze disinvolte, madri che vociano dalle finestre, comari che spettegolano nei vicoli, zitelle appassite, vecchi inebetiti dal vino e
dalle disgrazie. E ancora una volta, ecco, persone, cose, chiese, monumenti,
palazzi e botteghe tutti livellati dalle lettere minuscole, che nulla, ma proprio
nulla concedono alla decorazione o alla elegia di maniera.
Quel che colpisce è soprattutto il dinamismo dei versi, che si accavallano
uno sull’altro, in vorticosi enjambements col loro linguaggio ispido e pungente, ma preciso nelle sonorità spigolose del dialetto. La “via san michele”
è al centro della topografia, irta di case e negozi, tutti rievocati dal puntiglio
di una memoria tenace: e fa da argine e sfondo al teatrino di storie e personaggi di questa minuta epopea, corale e privata. Così ci vengono incontro, tra
soffitte e cantine, tra cucine acri di odori, figure e volti, amori e disamori,
ascese e cadute, tra luci e ombre, nel chiaroscuro delle stagioni, nelle mattine di sole o nei tramonti rapidi e assorti: come quello, pregno di attese, che
lascia blu scuro la contrada (in bisi e spinazi, p. 40). Ma non sono certo, questi versi, fatti per la contemplazione e l’indugio: troppo occupati a dire la
realtà, a nominare i fatti e i protagonisti, così come caparbiamente la memoria li evoca e li detta imperiosa alla mano che scrive. Così rivivono la vecchietta che s’addormenta sul cucchiaio nella solitudine della sua cucina (la
magna pian / e in-t-el cuciar / la sogna: in “la drioli”, p.16) o le zitelle che
si ripagano di tutta una vita di stenti nell’osteria sotto casa, concedendosi la
sera un spagnoleto e un otavo (‘le miniussi’, p. 17) o il giovanotto che chiamano il boxeur, sentimentale nonostante i suoi muscoli, capace di scherzare
anche col ragazzino tra do finte e un scapeloto (‘el boxeur’, p. 21). E c’è la
tragedia della povera gente perseguitata dal destino feroce: il figlio di quello
della pescheria, che ha fatto l’impossibile per tenersi in casa una ragazza
buona a nulla, che lui amava però e la tegniva più de una regina; e poi lei
scappa e lui non resiste al dolore, e la mattina dopo i pompieri drio el molo
de la pescheria trovano el motocaro col mulo / ‘ncora suso morto negà i
pugni sul manubrio (‘destin’, p. 19). O un’altra tragedia: quella della donna
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I Fiori del Male
che chiamavano la tedesca; ma di lei, in una mattina del ’43 – la porta spalancada el leto ribaltà – rimangono solo le scarpe (‘le scarpe, p. 22). Ma c’è
anche il grottesco del pelegrinagio (p.55) con lo zio grasso e sudato che si
porta un’anguria enorme bestemmiando fin lassù alla chiesetta, meta della
processione e della merenda sul prato, per poi scoprire che le angurie le vendono pure lì, al baracchino, e persino più fresche. E c’è il patetico di quell’altro (‘el sior pòdersai’, p. 33), grande e grosso come un armadio: lui navigava, ma da quando è sbarcato la moglie lo ha messo in dieta sparagnina,
tanto da destare l’ilare compatimento dei coinquilini. E insomma dir le robe
col suo nome (‘per nome’, p. 23): sembra tutta qui la poetica dell’ultimo
Grisancich, cantore di una realtà minimalista, dove tuttavia la pietas affiora
tra le pieghe del racconto quando si capisce come, nella comune miseria, è
già tanto questo incontrarsi tra vicini sul pianerottolo e parlar anca de gnente giusto / de tocarse co’ la vose.
Ecco, toccarsi appena con la voce: come dire meglio l’autenticità dei gesti
di chi si incontra sul pianerottolo e scambia due chiacchiere appoggiandosi
un momento al passamano? Che è già un abbandono al conforto della reciproca fiducia. A ben vedere, è lo stesso pathos dei films di un Visconti o di
un De Sica, di quelle immagini e di quella cultura: che non a caso vengono
continuamente richiamati e rivissuti nella memoria di chi allora è stato bambino. Come il bambino Grisancich che allora ha visto, al ‘cinema radio’ con
mamma e papà, Ladri di biciclette e ha collegato la trama del film a una realtà vissuta in famiglia; perché ha capito il sacrificio della madre quando l’ha
vista lasciare al ‘monte di pietà’ (cfr. p. 48) tocheti de oro e la vera cavandosela là. Ed è certo questa, la parte autobiografica, il cuore più profondo e il
nucleo generatore del libro: che ricostruisce, in una serie gustosa di flash e di
frammenti, quasi un piccolo romanzo di formazione, e il profilarsi di un
carattere, le inclinazioni del futuro poeta, lo scolaro che si incanta con la
penna in mano (eternità, p. 41), l’amore per i libri (‘el libro’p. 59), la precoce vocazione a recitare i versi, magari quelli imparati sul sillabario (‘el dopo
teatro’, p. 37). Ma un’altra scuola, si sa, era la strada: la prima scuola di vita
di uno dei tanti pisdrui de la clapa, a loro modo padroni del mondo. Non solo
le emozioni dei giochi infantili (‘de fioi’, p.52), ma anche le scoperte dei lati
più ambigui e maliziosi (‘la parolaza’, p. 45), e persino lo spettacolo crudo e
violento del morto ammazzato (‘el delito’, p.39). E poi, verso l’adolescenza,
qualche ventata di fresco erotismo (‘prima de zena’ p. 70 o ‘la siarpa’, p. 84).
Eppure, passato quel tempo, raggiunto in famiglia un maggiore benessere
economico, non resta spazio nemmeno alla nostalgia. Tornando in via San
Michele oggi (p. 71), il poeta non sa ritrovare che il nudo disincanto: l’eroe
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tornà putel / l’Itaca ch’el credeva / lo ’spetassi ‘desso / pol solo darghe el
nome / ‘via san michele’. E così il ribobolo final (p. 94) che chiude l’avvincente epopea di Album, nonostante il ritmo agile e le rime saltellanti, è una
ben malinconica, ubriaca filastrocca: la rassegna degli oggetti di una cucina
disanimata suona infatti come il consuntivo di un banchetto della vita che si
sia ormai lasciato alle spalle. Resta invece al lettore un’opera memorabile,
forse la più unitaria che Grisancich ci abbia mai proposta, scritta – lo si sente
– tutta d’un fiato e con grande energia comunicativa, non solo innovativa nel
piglio, ma pienamente consapevole nell’orchestrazione e nel dominio dei
mezzi espressivi.
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I Fiori del Male
La trasformazione del vernacolo
in Mario dell’Arco
di Franco Campegiani
è un dato inconfutabile: il
Popolo non esiste più. La morte
del Popolo, che già Pasolini a
suo tempo denunciava, è un
processo culturale in atto da secoli, dall’avvento della società industriale, potremmo dire; o
addirittura dalla Rivoluzione francese, come ha
detto Marx, che proprio a quell’evento storico
attribuiva la fine della cultura popolare e l’inizio
della società di massa dei tempi attuali. Ebbene,
il vernacolo non poteva non subire le stesse
sorti. Il destino già da allora era segnato e sarebbe sciocco oggi non prendere atto di questa realtà, giunti dove siamo giunti, e cioè al cosiddetto villaggio globale, con la disintegrazione dei
localismi e delle territorialità. Non vorrei essere
frainteso, però. So bene che non si può essere
universali senza essere locali e che senza parMario Dell’Arco
lare del proprio paesello, o comunque delle particolarità, non si può raggiungere l’universalità, e viceversa. Non intendo
pertanto avallare, con tale constatazione, la rinuncia al sacrosanto desiderio
di ristabilire, nel caos imperante, un principio di sana umanità. Ritengo anzi
necessaria ed urgente una rifondazione popolare, una ricostruzione del senso
comunitario più autentico, ma mi chiedo: per combattere un avversario si
può forse ignorarne la realtà? Lo si può forse eludere? La risposta è: no.
Bisogna guardarlo in faccia invece, l’avversario; capirne l’anima, condividerne la weltanschauung, individuare e vivere i suoi punti deboli, amarli
addirittura. Solo così, dopo averlo abbracciato, potremo sperare di domarlo,
o di attenuarne la nocività. Accettare è farsi accettare. Amare il nemico non
significa eliminare la lotta, ma significa rendere costruttiva l’inimicizia, in
una visione del mondo dove le opposizioni sono complementari, anziché
antitetiche e distruttive tra di loro. L’eden, in fondo, non avrebbe senso, se
non ci fosse la cacciata dall’eden, e viceversa. Il Caos è necessario
all’Ordine, come questo a quello. Fuor di metafora: se non ci si immerge
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nella distruzione in atto, nei disvalori promossi dall’attuale (in)civiltà, non si
acquista la possibilità di riaffermare i valori di un sano vivere civile, di
un’autentica e vitale comunità. Questo preambolo non è peregrino per parlare di un gigante della letteratura mondiale che ha scritto in lingua romana più
che in dialetto romanesco: di romanesco, diceva lui, esiste soltanto il carciofo. Di chi sto parlando? di Mario dell’Arco, che conobbi quando non avevo
ancora trent’anni e che volle tenere a battesimo le mie prime opere letterarie:
io non scrivo in vernacolo, ma ciò non impedì al magnanimo di prendermi a
benvolere. Se ne parla, oggi, di dell’Arco, e sempre se ne parlerà. Se ne parla
finanche negli ambienti romaneschi, dove non ha fatto scuola e dove venne
apertamente osteggiato, anche se dopo la scomparsa molte voci si sono alzate in sua difesa ed in suo onore. Ebbene, il raffinatissimo Mario dell’Arco –
che paradossalmente poteva offrire la propria collaborazione a quel trasgressore del purismo che era Carlo Emilio Gadda, nonché donare la propria amicizia a Pier Paolo Pasolini, accorato testimone e protervo aedo dell’omologazione in atto – contribuiva a demolire a modo suo, con la sua squillante,
coltissima e luminosa eleganza, la vitalità, non voglio dire del sonetto, ma
del manierismo sonettistico, legato ad un senso anacronistico della popolarità. I suoi richiami accorati ad una visione umana e fraterna del vivere non
hanno alcunché di nostalgico, di oleografico, di idilliaco, e risultano totalmente calati nella modernità, immersi nel veneficio dell’attuale momento
storico. Scomparso all’età di novantuno anni, sul finire degli anni Novanta
(esattamente nel ‘96), Mario dell’Arco conobbe molto bene la realtà metropolitana. I tempi e i luoghi della sua poesia sono in buona parte anche i
nostri, visto che ci precede solo di qualche lustro, e d’altro canto la vena con
cui s’è imposto all’attenzione del mondo letterario, nonché di un pubblico
vastissimo, non è stata precoce, essendo nata nel ’46 – lui quarantenne – con
Taja ch’è rosso (Taglia che è rosso: il cocomero), prefato da Antonio Baldini.
Siamo dunque nella Roma postbellica, dove in quegli anni inizia la grande
trasformazione che di lì a poco avrebbe portato la Capitale alle dimensioni di
una moderna metropoli, con i complessi problemi derivanti dal progresso
tecnologico-industriale, nonché con le invadenti mode esterofile e quelle non
meno aggressive dei media: stampa, cinema e Mamma-Rai soprattutto. Per
la verità il processo omologativo era già iniziato dopo l’Unità d’Italia, in
seguito ai moltiplicati e facilitati viaggi interni, all’emigrazione dal Sud
verso il Nord, al servizio militare, ai matrimoni misti, all’istruzione obbligatoria, eccetera. Tuttavia, verso la metà del ventesimo secolo esistevano ancora le realtà regionali, con quei grossi centri rappresentativi (di cui Roma era
il più importante) che oggi, per una serie di ragioni che hanno accentuato e
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I Fiori del Male
velocizzato il livellamento su scala planetaria, hanno affievolito enormemente le proprie valenze territoriali. Va anche rilevato tuttavia che in altre regioni italiane l’omologazione non ha avuto quella spinta che ha fatto dell’Urbe
una moderna metropoli, e ciò ha consentito ai relativi vernacoli di conservare una maggiore, e a volte anche integra, indubbiamente autentica, aderenza
alle radici, all’elementarità. La poesia dialettale di Mario dell’Arco è testimone, al contrario, del vasto processo di mutazione che ha stravolto la società. La sua Città non è più il paesone papalino del Belli, né il borgo rusticano
di Pascarella, né il centro piccolo-borghese trilussiano. Roma, nella sua poesia, viene tacitamente assumendo l’aspetto di uno dei tanti, anonimi quartieri dell’immenso villaggio globale dei tempi attuali. Sradicamento, spaesamento, emarginazione, malessere, protesta: una realtà metropolitana inquietante, che in dell’Arco fa da sottofondo, da substrato invisibile e fertilissimo
di una poetica surreale e crepuscolare, moderna ed angosciata, ma nutrita di
speranze mai dome e grondanti umanità. Il disagio metropolitano, in questa
poetica, non è esplicito come nel neorealismo pasoliniano, bensì implicito,
fornendo lo spunto per una poetica del fanciullino paradossalmente coltivata nel mezzo dell’assordante strepito urbano, ponendo tra parentesi i miasmi
cittadini e animando per contrasto i monumenti antichi, la Roma imperiale,
unitamente alle voci della campagna circostante, ancora vigorosa a quei
tempi. Campagna dove alla fine il poeta si trasferì, andando a vivere a
Genzano laziale, da lui ribattezzato Genzano dell’Infiorata. La prospettiva
dellarchiana non ha intonazioni civili o sociali, ma antropologiche, nel più o
meno consapevole intento (antipirandelliano, potremmo forse dire, in controtendenza rispetto alla babele avanguardistica) di una ricostruzione popolare e limpida dell’identità.
Una rinascita della Romanità dalle rovine dell’omologazione trionfante.
Un’umanizzazione del mondo disumano che abbiamo creato, vivendolo per
quello che è e bonificandolo dall’interno, senza osteggiarlo con sterili e presuntuose sfide. Mario dell’Arco riesce veramente a fare il miracolo, portando nel cuore della gazzarra metropolitana il suo immenso amore per il verde
e per il plein air, la sua voglia d’azzurro, il suo paesaggio interiore, ricco di
architetture classicheggianti e di fiabesca monumentalità. Non è vero, allora,
che Roma è sparita. Non è vero che per ritrovare il popolo occorre andare a
ritroso nel tempo e cantare come cento o duecento anni fa. Roma è ancora
qui, la si può toccare con mano in questo idioma totalmente rinnovato nei tessuti gergali, ma lontano anni luce dai capricci dello sperimentalismo, ed anzi
straordinariamente cristallino, assolutamente privo di leziosità. Una vera e
propria lingua, più che un dialetto, come è stato acutamente osservato, capa-
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ce di parlare nuovamente di anima e di ristabilire un’alleanza dell’uomo con
la realtà. C’è, in Mario dell’Arco, una fortissima pietas, un sentimento compassionevole, ma non lacrimevole, per il destino che accomuna tutti i viventi; un’accettazione dolorosa della realtà (o del mistero, che è la stessa cosa),
tipica dello spirito romano autentico, come dell’anima popolare in genere,
che ne ha viste di tutti i colori e non c’è sventura che possa farle smarrire la
bussola. C’è sostanzialmente l’equilibrio di Giano bifronte, con quell’italum
acetum, quella sana ironia che non consente esaltazioni, vuoi nell’ottimismo,
vuoi nella frustrazione e nella negatività. Ma c’è soprattutto la meraviglia per
la vita, per i suoi incanti e disincanti, per la sua realtà semplice e profonda.
Meraviglia sostenuta da una fantasia sbrigliatissima, ma non bizzarra o
baroccheggiante, come potrebbe forse sembrare ad un lettore poco attento.
Non c’è nulla di gratuito o di evasivo, di tortuoso o criptico, in questo mondo
di fantasie fanciullesche. Di una fanciullaggine adulta e smaliziata, però: scafata, come si ama dire a Roma. Ho conosciuto Mario dell’Arco e l’ho frequentato per anni. Apollo e Dioniso vivevano in lui. Testa olimpica e cuore
popolano. Questo è il ricordo che serbo di lui e spero di non dimenticare la
sua voglia di elevarsi al di sopra delle angosce e delle miserie umane,
l’espressione limpida e serena, il desiderio di cieli tersi, mantenendo integre
le radici nell’umanità.
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I Fiori del Male
Il romanzo erotico greco
e il Satyricon di Petronio
di Francesco dell’Apa
l romanzo è il genere letterario che si può considerare come ultima creazione dello spirito ellenistico. La definizione di romanzo, venuta tardi,
colma un vuoto che gli studiosi hanno preferito ignorare ritenendolo, a
torto, un genere “inferiore”. Lo dimostra il fatto che i greci hanno usato
nomi diversi: dràma oppure diégema, mùthos o lògos secondo gli elementi
che lo compongono. I tratti peculiari del romanzo greco sono: l’amore come
centro dinamico e il gusto dell’avventura. Come nasce il romanzo? Le teorie
sono tante ma sicuramente si riferiscono soltanto ad un aspetto, probabilmente la sua genesi si fonde su diversi contributi, alcuni lo fanno derivare dalla
Seconda Sofistica, altri dall’epos omerico, dalla tradizione novellistica, dalla
drammaturgia Euripidea, dalle religioni misteriche. Queste ipotesi colgono
solo singole componenti del romanzo che invece ebbe un chiaro apporto da
tutti i diversi generi letterari. Da questo “ibridismo” si evidenzia una certa
parentela con il romanzo moderno per la sua struttura capace di inglobare
qualsiasi materiale. La struttura narrativa del romanzo è lineare e ripetitiva:
una coppia di giovani fidanzati o sposi separati da un crudele destino dopo
varie peripezie si ricongiungono. La trama ricorda I Promessi Sposi e altri
romanzi moderni, che hanno fatto passi da gigante nello scandagliare la psiche umana e nell’uso di nuove tecniche narrative. I romanzi chiamati erotici, il termine erotico risale alla tradizione medioevale bizantina, si presentano omogenei sia nella loro struttura compositiva sia nei motivi ispiratori.
Non bisogna intendere erotico nell’accezione d’oggi perché nei protagonisti
domina una inaspettata castità, sebbene la passione rimanga intatta, ma perché al centro di ogni racconto vi è un unico eros e l’amplesso alla fine viene
legittimato dal matrimonio. Degli erotici scriptores, di cui ci sono giunti
interi romanzi si annoverano Senofonte efesio, Caritone, Longo Sofista,
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Achille Tazio, eliodoro, di altri abbiamo ampi compendi. Dalla breve e sintetica rassegna di questi scrittori si possono cogliere i tratti salienti del
romanzo erotico. Senofonte Efesio è autore del romanzo le Avventure efesie
di Anzia e Abrocome. I due giovani sono di Efeso.Abrocome, superbo della
propria bellezza, disdegna Eros mentre Anzia si dedica al culto di Artemide.
I due si incontrano ad una festa, s’innamorano e si sposano. Per fuggire l’ira
di Eros e i pericoli annunziati dall’oracolo si imbarcano alla volta dell’Egitto,
ma qui incomincia l’odissea della coppia che cade in mano ai pirati. Dopo
lunghe e dolorose peripezie, restando sempre fedeli al loro amore, si ricongiungono a Rodi e fanno ritorno ad Efeso. L’autore fa rivivere il mito classico che si trova nell’Ippolito di euripide, il giovane, devoto ad Artemide,
punito perché non si cura di Eros. Caritone scrisse le Avventure di Cherea e
Calliroe. L’incipit della storia è una scenata di gelosia. Dopo la celebrazione
delle nozze a Siracusa, Cherea, convinto da un suo antico rivale che Calliroe
lo tradisca in preda all’ira la percuote violentemente e lei, svenuta, stramazza a terra. Credendo che fosse morta la fa seppellire in un mausoleo ricco di
perle e d’oro.
Durante la notte una banda di pirati vi entra per impossessarsi del tesoro e
portano con loro la giovane che nel frattempo ha ripreso i sensi. Cherea viene
a sapere dell’accaduto e da qui incomincia una serie incredibile di peripezie
in una girandola vorticosa di avvenimenti fino al ricongiungersi dei giovani
e al ritorno a Siracusa. Longo Sofista, autore del famoso romanzo le
Avvventure di Dafni e Cloe è una grande ékfrasis (descrizione) di una storia
di amore raffigurata in un dipinto che lo scrittore durante una battuta di caccia ha visto a Lesbo. Il quadro rappresenta donne che partoriscono, bambini
esposti e animali che li allattano. Dafni e Cloe vengono raccolti e allevati dai
pastori in un ambiente naturale e sereno. Da bambini sono cresciuti insieme
ma diventati grandi Cloe si innamora di Dafni che corrisponde al sentimento amoroso. “ Un forte struggimento divorava Cloe; le si annebbiava la vista
per la passione, e al centro dei suoi discorsi c’era sempre Dafni.” Longo
descrive l’iniziazione amorosa dei giovani, quindi i primi turbamenti con
abbracci e baci: Come è strano l’effetto che mi fa il bacio di Cloe: le sue labbra sono più delicate delle rose, la sua bocca è più dolce del miele, fino
all’appagamento totale. Tutto si svolge in una cornice “spaziale e temporale”diversa dalle peripezie degli altri narratori. Achille Tazio scrisse le
Avventure di Leucippe e Ctesifonte. L’opera prende l’avvio dalla fuga dei
giovani innamorati, sorpresi una notte dai genitori, stanchi ed esasperati dal
loro atteggiamento inquisitorio. Mentre navigano alla volta dell’Egitto avviene un naufragio e non si ritrovano più. Ctesifonte crede che Leucippe sia
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I Fiori del Male
morta e si prepara a sposare una ricca vedova. La tensione raggiunge il culmine quando, sul più bello, appare prima il marito della vedova risuscitato
che mena di santa ragione Ctesifone e poi tra le ancelle il giovane vede
Leucippe. La giovane deve sottrarsi alle avances del marito della vedova ma
riesce a conservare intatta la sua verginità e alla fine tutto si risolve e i due
giovani ritornano a Tiro. Eliodoro è autore delle Avventure di Teagene e
Cariclea. Cariclea, figlia dei Reali d’Etiopia, è esposta dalla madre perché di
pelle bianca. Raccolta da un gimnosofista viene condotta nel santuario di
Delfi dove conduce una vita serena. Durante i giochi pitici scorge Teagene,
un atleta tessalo discendente da Achille. È un colpo di fulmine per i due che
si innamorano. Giunge a Delfi un sacerdote egiziano di Iside che conosce la
storia della ragazza e la persuade a ritornare in patria. I giovani devono
affrontare innumerevoli traversie e corrono il rischio di essere sacrificati
l’uno al Sole l’altro alla Luna. Alla fine l’intricata matassa si scioglie i Reali
riconoscono la figlia e si celebrano le nozze. La novità saliente del romanzo
sta nell’afflato religioso. D’altra parte non è senza significato che l’autore si
chiami Eliodoro, “dono di Helios”la divinità più venerata in Etiopia.
Dall’esposizione delle opere degli scrittori risalta una intricatissima serie di
casi che si susseguono l’uno dopo l’altro e che però si saldano intorno al
motivo dell’amore e dell’avventura. Ambedue i motivi che uniscono sono
scanditi da moduli letterari ricorrenti. Lui e Lei sono molto giovani e di nobile famiglia, entrambi belli si incontrano sempre per caso.
Ogni romanzo si snoda all’interno di uno spazio geografico molto ampio
ed è evidente il carattere fittizio delle coordinate spaziotemporali che consente allo scrittore la massima libertà inventiva. Nel mondo latino conosciamo
il romanzo: il Satyricon che i manoscritti attribuiscono a Petronio, elegantae arbiter, di cui Tacito ci offre la famosa descrizione della figura e della
morte nel XVI libro degli Annnales. Senza entrare nelle complesse problematiche che ha sollevato, il Satyricon si presenta come una pungente parodia
del romanzo erotico greco e d’avventura. Lo spirito malizioso di Petronio
sostituisce alla coppia di innamorati o di sposi, fedeli e casti, una equivoca
strana coppia di giovinastri formata da uno studente, Encolpio, esteta e amorale, che vive di espedienti e da Gitone, adolescente capriccioso e furbo. A
loro si uniscono Ascilto, studente violento e grossolano ed Eumolpo, un vecchio e corrotto malus poeta come lo definirebbe Cicerone. I protagonisti
attraversano molte avventure in prevalenza a sfondo erotico. L’intenzione
parodica e dissacratoria si evidenzia nella scelta di una coppia maschile, nei
contrasti sentimentali melodrammatici, nei tradimenti e nelle riconciliazioni,
nelle varie peripezie dove non mancano naufragi, processi e colpi di scena di
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
vario genere. Al tema parodico rientra l’ira del dio Priapo contro Ascilto,
macchiatosi di una colpa sacrilega, che lo condanna all’impotenza. Si trovano altre forme di parodia come quella del retore passatista e della poesia classicheggiante e infine la Cena di Trimalcione. In conclusione si può dire che
Petronio con la sua ironia e la capacità artistica mantiene uno stile limpido
anche quando la materia è triviale. Il linguaggio è colto e moderno lontano
dal barocchismo asiano. Con il suo stile vince quel mondo al quale si sente
estraneo. In ultima analisi il romanzo greco e latino precorre quello moderno che si è evoluto attraverso le sperimentazioni strutturali e lessicali attento al gusto del lettore.
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I Fiori del Male
A distanza di trentotto anni
dalla tragica morte di Pier Paolo Pasolini
di Andrea Mariotti
distanza di trentotto anni esatti dalla
tragica scomparsa di Pier Paolo
Pasolini, vorrei qui riflettere sull’ultimo libro di poesia, Trasumanar e
organizzar (1971) del grande scrittore e regista.
Nel 1971, per inciso, veniva pubblicata una
importante raccolta di Eugenio Montale,
Satura; quasi ovvio che l’attenzione della critica fosse catalizzata da quest’ultimo libro,
rispetto a quello dell’eretico Pasolini (senza per
questo voler disconoscere le novità rimarchevoli presenti in Satura, a fronte delle precedenti “stagioni” dell’impegno poetico del grande
Pier Paolo Pasolini (1922-1975)
Genovese). Ciò, comunque, procurò non poca
amarezza a Pasolini, che molto aveva investito non solo emotivamente ma
anche sul piano dello stile in Trasumanar e organizzar (si pensi, intanto, al
titolo dantesco scelto dal poeta per il suo libro: “Trasumanar significar per
verba / non si poria…”; Paradiso, I, 70-71). Ci si potrebbe in qualche modo
stupire, a proposito dell’impegno stilistico trasfuso in Trasumanar e organizzar dal poeta delle Ceneri che, com’è noto, all’inizio degli anni Settanta, per
sua stessa ammissione, era ormai un intellettuale piuttosto scettico circa la
centralità della poesia. Ma, naturalmente, piaccia o non piaccia ai tanti
detrattori che tuttora non mancano della poesia pasoliniana, stiamo qui parlando di una esperienza poetica saliente del nostro Novecento, quella di
Pasolini, appunto; sorretta da una finissima educazione letteraria che sarà
bene tenere presente anche per comprendere, una volta per tutte, il consapevole, accentuato intento antipoetico dei versi di Trasumanar e organizzar;
laddove tale intento viene a conti fatti percepito, dal lettore sensibile e intellettualmente onesto, come un dono di autentica e struggente poesia. Peraltro
questo movimento dell’impura, contaminata poesia di Pasolini che finisce per
risultare così toccante è stato debitamente valorizzato da Fernando Bandini
nella sua corposa introduzione a PASOLINI, Tutte le poesie, i Meridiani,
Arnoldo Mondadori Editore; Tomo primo, Il “sogno di una cosa” chiamata
poesia; come del resto da Franco Cordelli, nella prefazione all’edizione gar-
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
zantiana di Trasumanar e organizzar, Gli Elefanti, prima edizione 2002. Ora
tanto Bandini quanto Cordelli (senza escludere Enzo Siciliano), insistono
giustamente sull’umiltà dell’ultimo Pasolini, in poesia; nel senso che, abbandonati i fasti della terzina dantesca rivitalizzata a suo tempo dal Pascoli e
quasi scagliata dal nostro poeta contro il Novecento “ermetico” in Le ceneri
di Gramsci (1957), La religione del mio tempo (1961) e Poesia in forma di
rosa (1964); abbandonati tali fasti, stavamo dicendo, ecco quest’ultimo
Pasolini realizzare i suoi affondi antilirici senza più enfasi, con spirito disilluso, talvolta ironico e parodistico (seppure all’occorrenza profondamente
tragico, vedi fra tutte la poesia Patmos). Il risultato finale di tale atteggiamento verso la poesia, in chiave stilistica? ebbene, la scomparsa degli enjambements non sempre felici delle terzine ora assenti; in favore di un evidente
discorrere “in forma di prosa” (e non più di rosa, se ci si passa l’espressione) che, in Trasumanar e organizzar, finisce per dare luogo a un vero e proprio informale poetico, con versi largamente ipermetri destinati alla recitazione. Semanticamente parlando poi, in base a quanto sopra accennato, come
tacere di un balenio della poesia non cercata ma trovata in profondità, e da
questa stessa profondità pronta a risalire fino al cuore del lettore ostinato
(nel leggere e rileggere) e fondamentalmente libero, non condizionato dagli
estetici pregiudizi delle “anime belle” della poesia?
I citati studiosi di Pasolini hanno anche insistito, a proposito di Trasumanar
e organizzar, sulle non poche poesie intrise di “bontà” raccolte nel libro; un
libro nel quale, in sintesi, non è più l’interiorità a piegarsi alla forma ma piuttosto il contrario (qui rammentando un fertile enunciato di Alessandro Piperno,
Premio Strega nel 2012; enunciato incluso nell’ articolo apparso sul Corriere
della Sera del 18.2.2008 in merito alla Certosa di Parma di Stendhal).
Essendo ovvio dover sottoporre a strenuo esercizio di pensiero critico proprio ciò che maggiormente si ama, nell’arte, sarà innegabile riconoscere a
questo punto che il “grido” più memorabile della poesia civile di Pasolini
“L’intelligenza non avrà mai peso, mai, / nel giudizio di questa pubblica opinione…” risulta frutto costante d’estrapolazione da un poemetto del 1962, La
Guinea (incluso nella raccolta Poesia in forma di rosa, del 1964) fatto di terzine sovente estetizzanti, monotone e in stato di materiale poetico per così
dire inerte, rispetto all’erompere del suddetto “grido”, stupendo e vero; e che
vale l’autobiografia di una nazione, in chiave gobettiana. Da quanto finora
osservato si ricava la complessità, come pure la presenza di dislivelli stilistici, all’interno del percorso poetico di Pasolini. Ma, sempre per motivi di
costante esercizio critico del pensiero, non si dovrà neppure esaltare a dismisura la “bontà” delle ultime poesie di Pasolini; per non assecondare a conti
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I Fiori del Male
fatti un revisionismo fin troppo riduttivo e retroattivo, inteso a banalizzare
quella “poesia della ideologia” centrale nelle Ceneri e ben memorabile
(nonostante i limiti formali accennati): ché, tale revisionismo, va ad integrare, guarda caso, quella vera e propria damnatio memoriae gravante tuttora
sull’eretico Pasolini e alla quale, inconsapevolmente o meno, prestano oggi
ausilio curatori di tomi e intellettuali più che raffinati, esiziali, al dunque; tesi
all’egolatria prendendo a prestito la poesia e più in generale l’eredità culturale di Pasolini. Tutto ciò premesso intendo presentare, in funzione non riduttiva ma interrogativa, una breve e famosa poesia tratta per l’appunto da
(Trasumanar e organizzar): Ahi, cane, fermo sul ciglio della via Prenestina
/ che si guarda di qua e di là prima di attraversare la strada./ Non ha nulla
da ridire: accetta tutto./ Non ha dignità da difendere, a causa della sua
bontà./ ecco quindi la mia conclusione:/ la rassegnazione non ha niente da
invidiare all’eroismo. Comunicato all’Ansa (Un cane).
p.s. dedico questo scritto ai pasoliniani miei amici Federica Caggioli, Grazia Gasparro, Massimo Mancini,
Silvio Parrello e Simona Zecchi; ma, soprattutto, alla memoria di Angela Molteni recentemente scomparsa
(ideatrice e curatrice infaticabile del sito web nato come Pagine Corsare e ora raggiungibile all’indirizzo
pasolinipuntonet).
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
di Maria Adelaide Petrillo
ulla vita e sulle opere di D’Annunzio molto si è scritto, ma molto
ancora bisogna studiare ed approfondire, sia per la vastità della sua
opera, sia per la complessità della sua vita, sia perché troppo lo si è
interpretato segmentandone la personalità che va ricomposta in modo
unitario ripulito dalle faziosità. In questi anni Annamaria Andreoli ha fatto un
mirabile lavoro sul Vate, pubblicando tra l’altro anche le meravigliose lettere
d’amore da lui scritte, le più belle della nostra letteratura. D’Annunzio è stato
giudicato da una società perbenista e ipocrita che antepose la condanna dell’uomo politico e dell’edonista sfrenato, all’opera del suo multiforme ingegno. È però lecito chiedersi se Egli fosse davvero tutto ciò che voleva apparire, o non piuttosto un uomo che recitasse una parte in commedia.
Certamente fu espressione del suo tempo: l’eroe (inteso platonicamente
come copia del divino), il guerriero, il superuomo, lo sciupa- femmine, l’edonista, lo spendaccione, l’epicureo, l’esteta … ma fu anche colui che influenzò un modo di vivere e di essere: il suo tempo lo prese a modello e si specchiò in Lui. Lo amò la nascente borghesia, frequentò, ricercatissimo, i salotti eleganti della capitale, ammirato per i folti capelli ricci e neri, per lo sguardo dolcissimo, per la simpatia. Sposò ventenne la principessa Hardouin da
cui ebbe tre figli e dalla quale si separò pur mantenendo con lei buoni rapporti nel corso degli anni. Altri due figli (Renata detta “Sirenetta” che fu la
sua preferita) ebbe dalla Gravina. Fu un grande oratore, un provetto pilota di
auto ed aerei. Dettò legge nella moda: indossava impeccabili abiti di lino
bianco e si mostrava a fianco di splendide elegantissime donne vestite di
nero, colte e intelligenti. Fu un grande seduttore, ma non lo si può definire
bello: basso di statura, si trovò ben presto calvo (ma all’epoca un altro calvo
ebbero grande fortuna), tendeva ad ingrassare. Era infatti ghiottissimo di frittate, di acciughe, di dolci; i cioccolatini non mancavano mai sulla sua scrivania. Piaceva alle donne, certamente per le sue qualità di amatore, era affascinante: scriveva lettere appassionate, piene di dolcezza e tenerezza, faceva
sentire ogni donna adorata come una regina: erano tutte belle, famose,coltissime, intelligenti e non certo sciocche. Alcune, forse, con un briciolo di pazzia. Tra gli innumerevoli nomi, ci piace qui soffermarci su una in particolare: Alessandra Di Rudinì Carlotti. Il loro fu un amore breve ed intenso, lui la
chiamava affettuosamente “Nike” per il suo corpo statuario, le dedicò il dia-
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I Fiori del Male
rio “Solus ad solam”(uscito postumo). Quando Alessandra si ammalò gravemente, le fu a fianco per tutta la malattia, la curò amorevolmente. Alessandra,
quando la loro relazione ebbe fine, entrò in un monastero di clausura delle
Carmelitane scalze e morì in odore di santità. Lungi dal condurla ad una vita
dissipata ed a perdersi, l’incontro con d’Annunzio fu per lei l’anticamera di
una scelta di vita cristiana!Egli amava la donna nella sua essenza, la considerava la più grande forza della natura, la riteneva messaggera del mistero
dell’infinito. Aveva bisogno costante di una figura femminile al fianco perché alimentava la sua creatività, lo faceva sentire in comunione con la natura stessa, ne era attratto anche per la capacità che essa ha fisicamente in sé,
di autorigenerarsi. Quando l’ispirazione si affievoliva, troncava il rapporto e
si volgeva altrove in cerca di nuovi stimoli, nuove sensazioni, nuovi amori.
Sebbene non abbia mai terminato gli studi universitari, “sciacquò i panni in
Arno” studiando al “Cicognini” di Prato, ebbe una cultura vastissima: lesse
Tolstoi e Dostoevski, Beaudelaire, ammirò e conobbe di persona Pascoli,
Carducci ebbe parole di lode per il suo giovanile “Canto novo”. Si guadagnò la stima dei grandi del suo tempo, fu famoso in tutto il mondo. Collaborò
con Mascagni e Debussy, amò la musica di Respighi, fu amico di Marconi,
col quale intrecciò una interessantissima corrispondenza. Mussolini ne comprese tutta la grandezza e si stabilì tra i due un reciproco rispetto; il Duce gli
offrì la pubblicazione della sua opera omnia che fu pubblicata da Mondadori
(per d’Annunzio fu occasione di un enorme guadagno: scherzosamente ribattezzò la casa editrice “Montedoro”).
Mussolini pagò a spese dello stato la permanenza del Vate a Gardone, ed
egli in cambio rese il Vittoriale degli Italiani bellissimo e preziosissimo: la
Bellezza fu il principio guida di tutta la sua vita. Là, in quel luogo incantevole, visse fino alla morte, lavorando anche quindici ore al giorno, scrivendo con penne d’oca (ne consumava anche ventotto in un sol giorno!).Il
Vittoriale vide passare un’infinità di donne, per ventisette anni rimase lì una
fedelissima tuttofare, la sua confidente, che annotava in un diario la movimentata vita quotidiana, ella lo amò profondamente. Pur se ormai vecchio,
grasso e sdentato, egli manteneva il suo fascino. Morì di un ictus. Sembra che
avesse programmato di scrivere un romanzo su santa Caterina da Siena.
Nutrì per Wagner una vera passione, lo difese dagli attacchi di Nietzsche,
definì il grande musicista come colui che “scopre i bisogni metafisici degli
uomini”capace di creare una nuova grande arte. Ne “Le vergini delle rocce”
ecco l’influsso di Nietzsche con la teoria del superomismo, che lo dominò
per un lungo tratto della sua vita, questa concezione lo spinse anche a celeberrimi atti di eroismo (l’impresa di Fiume, la beffa di Buccari, il volo su
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
Vienna …). È la fase del panteismo, dell’ateismo. Il corpo si fa spirito, penetra dovunque, può possedere tutto, diventando dio. Di questo aspetto della
vita, del pensiero e dell’opera di d’Annunzio molto si è parlato e scritto, resta
altrettanto interessante sondare la sua “religiosità”, spesso gli studiosi si sono
occupati di altri aspetti della sua personalità, più vistosi. Hanno giudicato
l’epicureo sfrenato, l’uomo alla ricerca smodata del piacere, il cocainomane
… ma egli fu anche profondo conoscitore dei Vangeli, appassionato lettore
della Commedia: ne “La contemplazione della morte” una sorta di diario spirituale, composta ascoltando la musica di Wagner, il protagonista legge al
santo vecchio Bermond il Martirio di San Sebastiano. In queste pagine traspare una sincera crisi spirituale, il suo misticismo, “la parola che uscì dalle
labbra di Gesù resta in eterno piena del suo soffio vivente”; apprezza la virtù
teologale della speranza e cita Dante“Io contemplai la Speranza scolpita in
quel modo che il Poeta canta:” Speme,- diss’io- è uno attender certo della
gloria futura” … Recandosi a visitare Bermond, il protagonista scorse sul
comodino del letto del moribondo “l’imitazione di Cristo”…”Ora sento continua sopra il mondo la presenza del sacrificio di Cristo”… “Il ritmo della
Resurrezione sollevava la terra”Degna di nota fu nella sua vita la crisi spirituale che visse insieme con la Duse recandosi ad Assisi e avvicinandosi alla
spiritualità francescana. Sappiamo bene che le opere di D’Annunzio furono
messe all’indice, ma sappiamo anche come la Chiesa sia così cambiata dopo
il Concilio! È lecito dunque chiedersi, sulla scia di quanto ci insegna Papa
Francesco: “Chi siamo noi per condannare?” e perché dovremmo etichettare
e chiudere D’Annunzio nella sua visitazione di Nietzsche, nel suo superomismo e panteismo, trascurando la sua spiritualità, il suo misticismo, ciò che
scrive di Cristo, il suo amore per San Francesco, perché non sondarne anche
questi ultimi aspetti in modo più approfondito.
Può farci riflettere il fatto che, ormai alla fine della sua vita, meditasse di
scrivere un romanzo su Santa Caterina. Certo un uomo quale fu d’Annunzio,
non possiamo rivestirlo di una tonaca e mettergli in mano un giglio ed i vangeli, ma è interessante sondarne la spiritualità alla ricerca dei moti interiori e
multiformi del suo animo, per evitare di etichettarlo e chiuderlo in angusti
confini. Ovvio che uno spirito inquieto, insaziabile, irruento come un fiume
in piena, geniale, dovesse sondare ogni esperienza possibile, mettendo in
tutto passione, associarlo sempre e soltanto alla “teoria del superuomo” è
assolutamente superato perché seppe piegare questa idea al suo ingegno, ed
a questa sovrappose quella wagneriana dell’eroe romantico e del raffinato
esteta. Non possiamo qui tralasciare, sebbene la sua produzione spazi dovunque, di menzionare la sua opera poetica. “Il verso è tutto” diceva, in parti-
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I Fiori del Male
colare ricorderemo delle Laudi “L’Alcyone” che possiamo considerare il suo
capolavoro, in cui canta in una sinfonia e in una danza impareggiabile la luce
dell’estate e la sua pienezza vissuta con la Duse a fianco: è la “festa dei
sensi”. I suoi versi sono fatti per fare eternamente parte di noi, egli seppe
dirci con la parola ciò che la musica sa dire con la sua melodia. Il Vate ha
lasciato un’impronta indelebile in tutti noi, è un peccato che la scuola ancora gli dedichi poco del suo tempo e che in tanti ne ignorino ancora la grandezza. Ma chi si avvicina all’opera di questo maestro ne rimane affascinato
e mai sazio di “tacere, ascoltare, udire” la favola bella che Egli solo ha saputo narrare.
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
Nerone Poeta-Divo
Il poeta-divo, chi è questo sconosciuto?
Tra fantasmi e carnevali
di Antonio Coppola
upponiamo che il poeta si trovi in un palcoscenico tutto per lui, investe il suo “io”al massimo del fervore e dell’indecenza, fa il buttafuori di se stesso. L’impudicizia copre ormai tutto lo stivale con l’aggravante che quando i blind test vengono sostenuti dalle istituzioni,
allora tutto si complica e diventa la sua performance una “cosa” ancora non
definibile. Diamo un posto alla poesia! Una cavalcata un po’ farsesca e burlona l’ha data con il suo imprinting l’Università degli studi E/Campus,
(Roma) con un reading di poesia, invitando una bella e agguerrita “settina”
di poeti venuti da vari luoghi. Bene, abbiamo assistito, tra l’altro, un accelerato professore ordinario ingegnere salire sul palco e sciorinare poesie lette a
mitraglia incentrate, come ha fatto sapere, sui Ponti del Mondo. Diapositive
scorrevano sul lenzuolo bianco dell’aula come un film di navi corazzate
messe lì da un occulto disegno strategico e politico. Dieci, venti, trenta poesie sui ponti del mondo. Il professore giulivo e festoso spiegava e leggeva.
Siamo nel ridicolo, ma quante porcate di questo genere si sfornano a Roma
capitale? Tutto all’opposto, invece, la giornata Mondiale della Poesia
(Unesco in testa) ci piace menzionare quella avvenuta in Pescara nelle
Scuole prima, e al Museum dopo. Le Scuole hanno richiamato i poeti venuti da ogni parte per parlare con gli studenti e leggere un mannello di loro poesie. Preside e corpo insegnante tutti lì per il dono del poetare con emozioni
di pubblico attento e coinvolto. Forse Pescara sarà un’eccezione, siamo nella
città di Ennio Flaiano con tanto di monumento, e del Vate d’Annunzio,
inscindibile icona con la città abruzzese. È di pochi giorni fa la notizia
annunciata e caldeggiata al Salone della fiera dell’editoria di Torino, dal
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I Fiori del Male
ministro alla cultura Dario Franceschini, il quale ha dichiarato: “Io penso che
nella scuola dovremo costruire un Festival del libro, dobbiamo mettere la
massima energia per invadere la scuola di libri”. (Messaggero-Cultura 9
maggio 2014) Purché, diciamo noi, il Festival del libro non diventi un porto
franco per gli editori a stampare libri, oltre ai 60.000 titoli all’anno che nessuno legge e/o se ne accorge che esistono. Forse, sarebbe meglio tirare fuori
i libri buoni che già ci sono, non lasciarli negli scaffali come tanti oggetti di
culto.Volesse Iddio che le parole del ministro entrino nelle orecchie dei benpensanti presidi e professori delle scuole italiane e tra i pochi svogliati lettori a modificare l’andazzo della débâcle libraria e, in primis, della poesia contemporanea, oggi esclusa di proposito (salvo rarissimi casi) dai protocolli e
dai programmi di studio. Non ci sono, ad oggi, iniziative degne di nota.
Ma Roma ha le sue iniziative culturali che sono soverchie e mal fatte. È
vero, però, che uno fa incontri plurimi che vuole, ma rari sono quelli in cui
c’è il ventre di una sapienza superiore per tono e autorevolezza? La poesia
rappresenta un’enclave fascinosa a cui bisogna dare il latte a certi operatori
di incultura che sciorinano tra il Tevere e le Biblioteche. Abbiamo una folla
di poeti assatanati che non dicono e non contano nulla sono orgasmi ripetuti
del ridicolo. Quanti carnevali Roma inietta nel suo tessuto? Siamo convinti
che se non avviene una selezione severa su chi rappresentare tra i poeti si va
in una deriva, per modo di dire, universale senza più margini di recupero. Il
Dioscoride poeta-critico Giorgio Linguaglossa ha questo lampo di genio: “la
poesia si accostuma all’andazzo medio, fa finta di produrre “senso” e “valore” ma produce soltanto vuoto, flatulenza di frasari distassici, combusti allegramente…” La poesia per Roberto Galaverni, invece, (La Lettura- Corriere
della Sera, aprile 2014) “ è la forma d’espressione linguistica più eloquente
e insieme più imprendibile che conosca. Quanto più il senso sembra affermarsi con evidenza, correndo dritto e sicuro verso il proprio bersaglio, tanto
più non si lascia davvero cogliere con le mani nel sacco. Irriducibile, così la
si può definire”. Diamo una buona sforbiciata a tanti invasati declamatori di
turno, gli space invaders, che pubblicano le più melense castronerie e si
autoinvitano in improvvisati palchi all’aperto come tante star a offrire il
nulla, palloncini d’aria, la storia di un doppio tradimento. Ci vuole un occhio
notevolissimo per passare in rassegna un serraglio di forsennati che impera
da sempre nei luoghi più disparati; altro che polifonia, è un ragliare all’unisono! Pensate che tanti poeti posseduti da narcisismo sfrenato si odiano loro
stessi e non si leggono ma frastornano la folla dei “Voi”. Stiamo alla larga da
questo alluvionale degrado d’espressioni.
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
manifestazione organizzata da “Paideia”
nel LXX Anniversario
della Distruzione di Cassino e Montecassino
Nell’ambito delle celebrazioni per il LXX Anniversario della Distruzione di
Cassino e Montecassino, si è svolta nella Città Martire, nella Sala della
Biblioteca Comunale, la solenne cerimonia “Un'Idea di Pace”, organizzata
dal Centro Culturale “Paideia”, fondato nel 1978. Nella sua dotta e approfondita relazione, Francesco De Napoli, Presidente dell'Associazione, ha spiegato le finalità dell'evento: “L'incontro è stato concepito come una serata all’insegna della Memoria, e non soltanto perché ricorre il Settantennale d’un
evento terrificante quale fu il Martirio di Cassino. Abbiamo scelto di ricordare personalità scomparse - a volte, precipitate nell’oblio - della Cultura
della vecchia (e nuova) Cassino per una caparbia e costante volontà di non
dimenticare, poiché crediamo nell’insostituibile funzione della Cultura quale
forza motrice e collante superiore a qualsiasi altro elemento d’aggregazione.” Alla presenza d'un folto e qualificato pubblico, De Napoli ha ricordato “in una sorta di “Spoon River” tra il Rapido e il Gari” - i personaggi più rappresentativi della storia locale - noti e meno noti -, a partire dal primo dopoguerra fino agli inizi del nuovo Secolo, si è quindi passati alla commemorazione dei poeti e scrittori che hanno fatto la storia culturale della Città
Martire: Francesco Acciaccarelli, Carlo Baccari, Mario Barbato, Alberto
Cafari Panico, Libero De Libero, Gaetano Di Biasio, Tullia Galasso, Gino
Salveti e Raffaele Valente, i quali, attraverso le loro testimonianze letterarie,
hanno saputo interpretare il Martirio di Cassino con versi intensi e coinvolgenti. Di ciascuno di essi è stato letto un profilo critico-biografico seguito da
una lirica particolarmente significativa, a cura delle attrici Leda Panaccione
e Bruna D’Onofrio del Centro Universitario Teatrale. Il clou del Programma
è stato raggiunto con il conferimento del “Premio del Settantennale”, assegnato da “Paideia” alla Memoria di Paolo Volponi (Urbino, 1924 - Ancona,
1994). Dopo aver puntualizzato la necessità, con l'attribuzione del
Riconoscimento al grande Poeta e Scrittore Urbinate, d'uscire dal limitato
“orticello” della cultura locale per confrontarsi con istanze culturali di più
ampio respiro, è stata data lettura della Motivazione del Premio, ricordando
l'insostituibile lezione di umanità, umiltà e cultura dello Scrittore marchigiano vincitore del Premio “Viareggio” e per ben due volte del Premio “Strega”.
“Paolo Volponi è stato - ha concluso Francesco De Napoli - un vero intellettuale, rigoroso, austero, imparziale, e nello stesso tempo silenzioso, riservato, disponibilissimo al dialogo”. In chiusura, è stato letto ai presenti il commosso messaggio di ringraziamento inviato dalla Signora Giovina Volponi,
moglie di Paolo Volponi, impossibilitata ad intervenire a Cassino per il ritiro
del riconoscimento assegnato alla memoria del compianto scrittore.
61
I Fiori del Male
RACCONTO
Miopia
di Annalisa Colle Forlin
uesta vita è troppo manchevole, troppo al di sotto delle mie aspettative. È una esistenza inattesa per la quale mi sento inadeguato.
È tempo che pensi alla mia morte. La preparerò accuratamente,
senza trascurare alcun dettaglio. Dev'essere prima che sia troppo
tardi. Non vorrei ridurmi come quel tizio. Quel musicista che non ha ancora
cinquanta anni ed è affetto da SLA la malattia che progressivamente arresta
prima le funzioni corporali e poi quelle mentali, riduce alla immobilità assoluta alla impossibilità ad esprimersi a chiedere o decidere. Non voglio trovarmi in una morsa senza via di scampo. Fino a settembre sono stato bene.
Al mare. La spiaggia era quasi deserta e sulla battigia si passeggiava liberamente. Facevo lunghe passeggiate ogni mattina. Senza pensare a niente. In
compagnia delle onde tiepide riposanti monotone. Nessun problema nessun
pensiero nessuna preoccupazione. Nessun senso a quel tempo. Ecco perché
aveva senso. L'unica attenzione era allo scorrere dei giorni perché inevitabilmente quei giorni sarebbero terminati. Ogni cosa ogni evento hanno un
tempo un decorso determinato. Anch'io. Le stagioni sempre uguali ne scandiscono la legge ... un tempo per nascere e un tempo per morire. Fino a ieri
mi pare ieri credevo di continuare a scalare la vetta, di continuare a conquistare il mio destino. Credendo di possedere un futuro. Mi sono reso conto che
non possiedo niente. I miei beni materiali non mi interessano, non hanno
valore, è come se non mi appartenessero. La mia casa è solamente lo spazio
che occupo per non patire invadenze. È solamente uno spazio di cui dispongo. Non appartengo ad alcun luogo né ad alcuna comunità. Sono me stesso e
contemporaneamente nessuno. Non dovere più affaticarmi. Provvedere.
Rimpiangere. Dev'essere un suicidio perfetto. Perfetto per me.
***
Angela, con la vitalità, l'attivismo che riserva ad ogni iniziativa della sua
vita, come se “Vincere” fosse determinante, in fondo è cosciente del fallimento e saggiamente maschera la sua profonda tristezza. Dalla perdita
improvvisa del marito la vita familiare (i tre figli la madre) e il lavoro, hanno
assunto un valore diverso, un doppio legame, con la famiglia e con il mondo.
Non dà spazio a altro. Le mie attenzioni fatte di amicizia profonda e confidenza rispettosa non servono a smuoverla dalla tragedia e dalla riservatez-
62
Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
za dignitosa in cui è trincerata. Così sfiorisce la sua bellezza, scivolando
nella monotonia del quotidiano.E per me é ormai svanita una celata speranza, incerta illusione, ma pur sempre illusione. Saranno i conoscenti o i presunti amici o fugaci distrazioni sempre meno interessanti a sorreggermi le
spalle? O invece la solitudine mi avvolgerà con un lenzuolo nero impedendo
alla luce di filtrare e non riuscirò a scorgere più niente. Come quel ragazzo
cieco che mi sta venendo incontro. Attraversa la strada sul passaggio pedonale, le automobili sono ferme, è il suo momento.”Attento”-Il grido mi è
scappato. Gli ho impedito di sbattere addosso al palo. “Grazie per avermi
avvisato in tempo.” Di niente. Ti accompagno per un tratto di strada se vuoi.
“Abito qua vicino.” Osservo che ritrae il suo bastone da cieco, lo accorcia e
lo ripone nel borsello. Mi prende sotto braccio e mi conduce a casa sua. Sono
guidato da un nonvedente, mi sento persino sorretto da lui. E un uomo sui
trenta, una persona curata nell'aspetto, leggermente profumato. La sua mano
delicata fuoriesce da sotto il mio braccio. Con l'altra mano sorregge la tracolla. Abbiamo più o meno la stessa figura e la stessa statura, posso essere
scambiato per suo padre. Io non ho figli. Né moglie e né figli. Sono solo.
Ogni tanto arriccia il naso e aspira, capisco che gli occhiali scuri gli stanno
scivolando dal naso ed è un espediente perché non gli cadano a terra. Le
braccia sono diversamente impegnate, si ingegna.”Veramente non ti creo
disturbo? Quando incontro qualcuno che mi presta i suoi occhi non mi pare
vero. Mi piace stare in compagnia di qualcuno.” “Hai mai pensato a adottare un cane?” “Tante volte”.
Ma non vorrei trascurarlo o renderlo infelice. Non è giusto sacrificare una
bestia, insegnarle a dominare il suo istinto per l'egoismo di un cieco”.Forse
hai ragione. Davanti ad un portone, senza esitazione mi fa cambiare direzione e mi conduce all'ascensore. Con tempismo perfetto siamo davanti alla
porta d'ingresso. La apre con una tessera magnetica. Si accendono al nostro
passaggio le luci del corridoio e poi del soggiorno. Intravvedo il bagno perché la luce si riflette nello specchio sopra il lavandino. Quando si avvicina
alla soglia si accende in automatico anche quella luce. L'acqua scorre col
sistema della fotocellula, si sta lavando le mani e ne regola la temperatura
con un pedale. “Vivi solo?” “Non si vede?” “Mi è sorto il dubbio per le luci.
A te non servono.” “A me no!” Osservazione banale che potevo risparmiarmi, ma il giovane è comprensivo e equilibrato, affatto insolente. Comprende
che vorrei andarmene e si appresta a porgermi la mano. Goffamente ricambio la stretta, quel saluto è intenso perché sostituisce lo sguardo, è un contatto per conoscerci. Lui non può conoscere il mio aspetto, io non so come
sono i suoi occhi. Quando sto per uscire dal portone mi citofona “Ciao
63
I Fiori del Male
amico, ritorna”. E mi ripete due volte un numero di telefono. Caro ragazzo,
potrei anche tornare, ma non ti sarei di alcun aiuto, non credo. Con tutti i miei
problemi e le mie paturnie faccio meglio a allontanarmi da tutti e da tutto.
Dal cibo dall'acqua, anche quella necessaria a lavarmi, dal denaro dai ricordi dalla vita. Forse potrei riuscire a annebbiarmi la mente, a sedarmi per non
soffrire, forse. Però mi è venuta un'idea, potrebbe essere una buona idea:
intestarti i miei soldi e la mia casa e le poche cose che ancora possiedo. Tu
con me sei stato affabile, simpatico. Senza alcuna diffidenza mi hai fatto
entrare a casa tua e mi hai stretto la mano come se fossi un amico.Ho mai
avuto un vero amico? Quando ti avrò dato tutto spero che non ti dimenticherai di me.
***
Quella conoscenza casuale mi ha motivato. Il pensiero di prevedere tutto mi
ha aiutato a provvedere, a effettuare l'atto di donazione in fretta e correttamente. Il notaio non mi ha fatto domande, ha effettuato le ricerche necessarie e sbrigato tutte le pratiche. Gli atti saranno esecutivi fra trenta giorni, fra
trenta giorni sarà valido il passaggio di proprietà. Ora mi rilasso nella stanza
da letto della casa che sta per appartenerti, sono sempre più rilassato e sereno, tranquillo. E potrei rimanere così ancora per qualche giorno se proprio tu
non venissi a sconvolgere ciò che resta della mia vita. Vorrei non aprire la
porta, ma dalla finestra ho visto che al cancello ci sei tu. Suoni il campanello con insistenza e mi obblighi ad alzarmi in fretta. Infilo la camicia e ti
vengo incontro. Non conosci il posto e potresti essere a disagio. “Credevo
che non volessi aprirmi”:“Non capisco come hai fatto ad accorgerti della mia
presenza. Forse hai semplicemente bleffato. “Questa volta hai accennato un
abbraccio. Ricambiato. Non trovo niente da dirti. Come stai- come mai sei
qui- che sorpresa -ti serve qualcosa -cosa ti offro.
Meglio stare zitto e guardarlo. Tanto ero non visto e difficilmente si sarebbe accorto del mio imbarazzo. “Il silenzio mi disarma ancora più del buio.”
“Allora parla. Se sei venuto avrai qualcosa da dire.” ”Da chiedere. Sei matto?
Non mi conosci nemmeno e mi fai diventare ricco. Devi essere proprio
matto. Io però sono solo cieco.” “Quei soldi potranno esserti utili. A me non
servono. Ho fatto le mie scelte e preso le mie decisioni. Irreversibili.” “Vuoi
morire. Perché?” “Affari miei ragazzino. Non puoi capire” “Già perché io
sono già morto. Anzi accompagnami al cimitero, così ti spiego come si sta da
morti. Però prima copriti bene perché mi dispiacerebbe che morissi di freddo.” Si faceva condurre passivamente. Prima in auto. Poi a piedi lungo il
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
viale di sempreverdi e brina che lentamente accennava a staccarsi dagli aghi.
Rivestiva il lastricato e temevo che all'improvviso lo facesse scivolare, invece procedeva lentamente ma in sicurezza.“Cosa vuoi farmi vedere in cimitero? E poi perché tutta questa confidenza con me?”. Continuavamo a camminare attaccati e stando vicini il freddo era meno pungente. Gli occhiali scuri
erano appannati e il berretto di lana gli stava di traverso, con il frontino rovesciato. La sciarpa gli stava scivolando a terra. Avrei dovuto sistemarlo ma mi
pareva di compromettermi. Ammettere che qualcuno poteva avere bisogno di
me, delle mie attenzioni. Il cigolio sinistro del cancello socchiuso ci introdusse nel regno dei morti. Alcun suono, nemmeno un uccello. Mi guardavo
attorno per scorgere una presenza viva. Solo lui che mi stava appeso al braccio, senza parlare. Le foto dei trapassati, statici inespressivi, non suggerivano alcun pensiero, alcuna reazione. Solo silenzio immobile.”Tutto passa
nella vita. I bei tempi e i brutti tempi. Solo i MIOPI si lasciano influenzare
dal temporale del momento. Ma l'uomo intelligente possiede la curiosità. La
possibilità di vedere oltre al passato anche il presente, e la curiosità di vedere il futuro. Non sei curioso di sapere cosa avverrà dopo la tua morte?”
“Ragazzo, non esiste né passato né futuro. La vita è qui e ora, ed è una merda.
Col suicidio non uccido me stesso, solo il mio corpo e il mio pensiero.
Mentre il mio atto estremo dovrà restare come un urlo per sempre.” “Prima
o poi l'exitus arriva da solo.” Dammi retta, invece di morire fingi di essere
morto. Fottitene del mondo e di qualsiasi obbligo della vita precedente. Non
hai niente da perdere. Solo uno che ha deciso di morire ma è pigro può prendersi questa libertà: morire nella mente facendo finta di essere morto. E continuare a vedere. Resta con me.
Con un cieco. Non essere miope. “All'uscita dal cimitero, intirizziti e doloranti, con le articolazioni congelate, in necrosi, eravamo uno con l'universo.
Furio, si chiamava Furio, mi aveva avvicinato alla morte e mi era apparsa
una entità estranea, che non mi aveva suggerito nulla, non mi aveva confortato, non mi aveva illuso. Era il nulla che non appartiene a nessuno. Era inutile ricercarla, illudermi che potesse essere mia complice, vestale della mia
solitudine. Il suicidio mi avrebbe riservato una ennesima delusione, l'ennesimo tradimento. Angela, se solo avessi provato. Avrei condiviso il tuo dolore,
con te nella disperazione. Furio lui e Leone io. Due nomi e due storie. La
furia della lotta contro il nemico “invisibile”. La resa di un leone sfinito. Mi
ha proposto di trascorrere con lui il resto del mio tempo. Ho accettato. “Non
ti serve niente, né mutande né altro. Ti vestirai dei miei panni. Se ho...visto
bene, siamo simili.”I suoi doppi sensi potevano essere divertenti, ma non per
me. Con lui i ruoli si invertivano. Il giovane esternava la saggezza dell'anzia-
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I Fiori del Male
no e io apparivo inesperto e indifeso. Lui mi stava a guardare mentre il mio
cuore scalpitava per arrivare a qualcosa o qualcuno. Discretamente mi guardava. Senza occhi ma profondamente, coglieva ogni reazione ogni piccolo
bisogno il minimo stimolo che riuscivo a provare. Pronto tempestivo l'esaudiva. Aveva scoperto che mi piace la frittata, e sapeva cuocere delle ottime
frittate. Che non rifiuto un calice di vino rosso, e con le procedure necessarie mi riempiva il bicchiere. Succhiava l'indice estratto dal bicchiere e mi
diceva : “Che buono! Anche il palato ha diritto di godere.” Così ammettevo
tacitamente di poter provare ancora qualche piacere. Davanti alla televisione, solo allora, mi chiedeva qualcosa per sé. Voleva che gli descrivessi ciò
che vedevo, l'aspetto dei personaggi, brutti belli tristi felici. Era uno svago
scelto con disinteresse ma che in fondo riusciva a coinvolgerci.
Ci dava l'opportunità di parlare. Lui voleva distrarmi, usare i miei occhi
per attivarmi il pensiero. Io avrei dovuto confortarlo, era il minimo che potevo offrirgli in cambio. Il nostro progetto sembrava realizzarsi lentamente,
ciascuno di noi a favore dell'altro, noncuranti di noi stessi. I giorni passavano e non volevamo dichiararci sconfitti, né dimostrarci avviliti. Mi stavo
affezionando veramente a quel cieco che si era così totalmente affidato a me.
L'idea di suicidarmi non mi aveva abbandonato ma cominciavo a procrastinarla nel tempo, quando ne avessi avuto l'opportunità. Furio non avrebbe
dovuto rimanere ancora solo. Solo allora l'avrei fatto. Ne ero convinto e mi
parve giusto comunicarglielo. Era riuscito a scuotermi, a farmi apprezzare
ancora qualche valore della vita. L'altruismo, l'amicizia, la bellezza di piccole cose a lui purtroppo sconosciute. Mentre glielo dicevo dai suoi occhi senza
pupilla, bianchi e sbarrati, scorrevano grosse lacrime. Venne verso di me per
abbracciarmi e nella foga si tirò dietro la tovaglia la caffettiera e le tazzine.
Mi passò le mani sul viso. “Finalmente ho sentito la tua faccia. Ti immaginavo più giovane e più bello.” Mi sfuggì una risatina. Lui ammiccò appena.
“Sei un uomo fortunato” mi disse. Ero andato a letto con le sue ultime parole che mi risuonavano nelle orecchie, riecheggiavano nel mio muscolo cardiaco fino agli arti, rinvigoriti. La mattina seguente lo ritrovai seduto sulla
sua poltrona, composto nella rigidità della morte, con gli occhi chiusi.
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
POeSIe
Carlo Cipparrone
1. La mano invisibile
Smerghi in fuga, montagne d’onde
che franano su moli e banchine
tutto sommergendo,
rotte che al largo impazziscono
tra squali e belughe.
Né salpare, né attraccare è possibile.
Una mano invisibile fruga nel mucchio:
piglia a caso persone e cose, sollevandole
le scaglia contro la battigia, le risucchia.
L’acqua col suo furioso sciabordio
invade il fondo sghembo della barca,
entra a fiotti dal rotto della chiglia nella tuga.
Come cavalli rampanti i marosi
saltano la muraglia e invadono le case.
Naufraga e disperata , Najat
si ritrova in un lembo dell’isola assediata
sulla sponda sommersa di fango e d’alghe tra rottami, sugheri, cocci,
ferri ossidati e torti - triste e sola
a vergognarsi della sua salvezza
posando gli occhi
sulle scarpe sparigliate dei morti.
2. Sirene
In mezzo al mare non ci sono chiese,
né campane che annuncino
con mesti rintocchi ai vivi i morti.
Non ci sono bare, né fiori, né esequie,
né pietose sepolture.
Il mare è un mondo a sé, più crudele,
ha regole selvagge.
67
I Fiori del Male
Non sempre i corpi dei morti affogati
risalgono dai cupi fondali in superficie
- gli occhi sbarrati al cielo - mostrando
le loro tumide sagome sfigurate.
Prede d’orche e di squali,
spesso finiscono nelle loro fauci,
tornando nel nulla senza lasciare tracce.
Diversa è stata la sorte di Najat
da quella delle sue compagne
che, sommerse dalle acque intorno a Lampedusa,
una magia divina ha trasformato in sirene.
Quattro sirene nere
che, a chi naviga da quelle parti,
càpita - a volte - di vedere riemergere dalle acque,
d’ascoltare la loro musica ammaliante
fondersi con quella del mare.
FIGURE SILANE
Lunedì dei barbieri
I
Qui non c’era tanti anni fa
che un unico barbiere, un magro
uomo sui quaranta dalle forbici svelte.
So il valore che danno gli artigiani alla festa
gli uomini alla domenica
i barbieri al lunedì;
vivono l’intera settimana
pregustando la partita a tressette,
il vino da bere con gli amici.
Tu eri, invece, un uomo senza festa
senza vino e tressette
unico barbiere nei lunedì.
Cento lire la barba non era
una tariffa da imporre alla gente
se spesso di fronte ai contadini
di Lagarò, di Sculca, t’accontentavi.
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
Ricordo la botteguccia fatta di tavole,
l’unica sedia in cui disponevi i clienti,
i volti seri, crucciati di Marx, di Gramsci
appesi alle pareti come santi
le loro folte gonfie chiome prolisse.
Nella bottega accesa era l’unica lampada
quando l’aria fuori diventava viola e gelida
e la nebbia scendeva bassa fin sulla strada.
In un angolo ardeva la legna di pino,
scoppiettava nella piccola stufa
e l’odore di resina e il fumo usciva
a boccate dalla canna come da una pipa.
II
La baracca di tavole andò in fuoco,
legno di pino, resina, le fiamme
lingue e lingue fameliche di lupo
sulle tenere carni dell’agnello.
Dov’è il piccolo specchio scorticato
sul fontanino? Il tarlato appendiabiti?
La cinghia di cuoio per affilare i rasoi?
Dov’è il cuscino di velluto verde
che rivoltavi sulla sedia ad ogni cliente?
Di quel piccolo museo di miseria
non restò altro che la stufa nera.
Fu allora che vacillò la tua fede di comunista,
si stemperò nell’acqua di rose
che è al fondo del tuo cuore
d’uomo senza odii e veleni,
pieno solo d’amore
per i tuoi figli dalla faccia di mela.
III
Era giugno di fragole e lamponi:
sulla ruggine antica dei tetti di zinco divelti
splendeva il sole. L’aria tiepida, chiara
t’ispirò la bottega all’aperto,
69
I Fiori del Male
presso la casa misera, nei pini.
Così vidi tua moglie grassa e trasandata
stendere al sole le tovaglie
su un filo tra due pini.
Il folle di Trenta
I
L’Africa era un paese lontano,
la nostalgia una ruga incisa
sulla tua fronte alta due dita.
Rileggevi le lettere
che tua moglie analfabeta
dettava al primo figlio:
le notizie del vino fatto aceto,
delle ulive col verme, del morbillo
del piccolo Saverio.
I prigionieri passavano il tempo
inventandosi inutili lavori,
ma il tuo cuore d’uccello si feriva
al filo spinato dei pensieri.
Posavi su ironici interlocutori
lo sguardo fisso dei tuoi occhi
di triste gufo fosforescente
immerso nella notte.
Da allora non ebbero più senso,
per gli altri, le tue parole.
II
Trenta non fu che il capo di quel filo
che si chiama destino. Ci tornasti
come cane che annusa il suo cammino
e ricorda l’odore di una casa,
della sua terra. Ma tua moglie,
i tuoi figli, i pochi amici, nient’altro
ormai che lampi di chiara memoria.
70
Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
Non più pianta di facili trapianti,
eri il fragile pioppo che il fiume trascina.
III
“Muratore che lavorava di fino…”,
racconta la tua favola di pazzo innocuo,
cane che abbaia e non morde.
Ora scompiglia il vento
gli esili rami dei tuoi grigi capelli
e il pulviscolo acceca il passero spaurito
del tuo occhio che guarda il passato.
Dietro non c’è che il tuo antico mestiere:
tanti muri di pietra e calce a piombo,
squadrati su campagne, entro paesi
di castagni e d’ulivi; l’abitudine
di consumare pane secco e lardo
sulle soglie imbiancate d’un cantiere.
Il passato ora brucia, come allora
la calce dentro gli occhi.
Carlo Cipparrone è nato a Cosenza, dove ha sempre vissuto, ad eccezione di un lungo periodo della sua infanzia, trascorso fra Sondrio, Roma e Reggio Calabria. Ha pubblicato, a grandi
intervalli di tempo tra loro, quattro raccolte poetiche: Le oscure radici (Bologna, 1963),
L’ignoranza e altri versi (Cosenza, 1985), Strategie nell’assedio (Cosenza, 1999), Il poeta è un
clandestino (Martinsicuro - Te, 2013), e un’indagine ricognitiva di carattere regionale:
Censimento dei poeti calabresi (Soveria Mannelli - Cz, 1986). Due antologie di suoi versi sono
uscite in edizione bilingue in Polonia e negli USA: Czas, ktòry nadejdzie / Il tempo successivo
(Varsavia, 2006) e Mirror of glances / Specchio degli sguardi (New York, 2009). Sue poesie
sono apparse su varie riviste e antologie. Collabora alle pagine culturali di quotidiani. Ha fondato e dirige con altri la rivista di scritture poetiche “Capoverso”.
71
I Fiori del Male
Giorgio Linguaglossa
da "Tornare alla corte di Cesare?" (inediti)
Confessione di Gaio Cornelio Gallo
«Un giorno o l'altro tornerò alla corte di Cesare»
Un giorno o l'altro tornerò alla corte di Cesare.
Non posso stare qui in eterno in questa villa di campagna
all'ombra del sicomoro e al canto degli uccelli
nell'aria vetrosa del mio esilio
ad attendere un cenno che non verrà.
Ho deciso: domani andrò alla corte di Cesare.
Mi chiederà Cesare le ragioni della mia insolvenza?
Userà clemenza o pretenderà la mia resa
dinanzi al Senato? Userà il bastone o la carota?
Mi imporrà una resa senza condizioni?
O mi lascerà parlare, spiegare le mie ragioni?
Sia come sia, ho deciso, mi devo preparare,
in fin dei conti l'imperatore ha bisogno di soldati
e non va tanto per il sottile, bada al sodo
e al solidus. Mi riabiliterà?, o mi darà in pasto
alle murene della sua piscina? Non lo so
e non lo voglio neanche sapere ma ciò che so
è che non posso stare qui in eterno
all'ombra del sicomoro e al canto degli uccelli.
A un battito di mani accorrono le schiave.
«Portatemi la praetesta con la danda bianca,
i calzari di cuoio e la tunica lussuosa».
Adesso sono pronto. Ho già fatto testamento.
In ogni caso mi preparo al peggio.
Ho deciso: domani andrò alla corte di Cesare,
gli dirò che amo la vita di campagna
stare in compagnia di villici e di bifolchi,
in qualche modo mi giustificherò,
lui capirà, capirà che faccio ammenda
dei miei trascorsi, mi riabiliterà,
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
sorriderà di certo, non so se di scherno
o altro, vedremo...*
* Risposta alla poesia di Zbigniev Herbert «Il ritorno del proconsole»
Portatemi del veleno
«Portatemi del veleno. Qui, nell'anello
c'è una capsula, proprio sotto il topazio.
Là vivrà il suo tempo, ed io il mio.
Ascolterò i lari della mia casa
mi rimetterò ad Esculapio».
Che dire? Il potere logora chi non ce l'ha.
I vincitori non hanno neanche richiamato le legioni,
né arruolato guardie private,
o emesso decreti o ordinanze di epurazioni,
non ce n'è stato bisogno.
Decio e Luciano hanno già fatto
le valigie, Gaio Cornelio anche lui
ha traslocato in Bitinia con la sua amante
Lucrezia che ha dichiarato apostasia;
altri ha abiurato gli dèi, per il galileo, s'intende.
Dopotutto, avranno avuto le loro ragioni,
un dio più potente, dicono,
ha preso il posto degli dèi in Campidoglio
accanto alla gigantesca statua di Costantino.
Guardo sempre con circospezione la porta d'ingresso
della mia stanza, ed evito di guardare negli occhi
il capo delle guardie. Evito di pronunciare
parole inopportune davanti alle astiose
orecchie del Proconsole. E vada come deve,
mi rimetto alla volontà di Poseidone enosigèo.
Le colonne del Foro sorreggono in cielo gli dèi assenti.
«E adesso, la lettiga, portatemi al circo equestre
voglio divertirmi, svagarmi, non pensare
a quale nume domani dovrò votarmi,
quale sarà il mio destino».
73
I Fiori del Male
Sono ottimi consigli, Decio
Luciano mi porta a spasso al Foro
e alle terme. Dice che mi devo
far vedere in giro per non destare sospetti.
Mi porta perfino ai combattimenti dei gladiatori
e alle corse delle bighe,
dice che mi devo mostrare al pubblico
che devo apparire come tutti gli altri,
ilare e di buon umore,
portare a spasso la mia toga di patrizio.
E che devo sorridere,
scambiare chiacchiere con tutti,
insomma, apparire normale,
e anche dichiarare gli dèi insolventi,
oziosi, e prostrarmi al dio dei galilei.
Sono ottimi consigli, Decio,
dovrei seguirli, lo so.
Luciano mi porta anche alle serate di
Navigonelloro quel macellaio
arricchitosi con le navi onerarie
dove saltellano i nani e danzano
odalische egizie
e i poeti recitano le loro poesie,
ché farne cartocci per le olive
sarebbe un lusso.
Giorgio Linguaglossa è nato a Istanbul nel 1949 e vive e Roma. Nel 1992 pubblica Uccelli e
nel 2000 Paradiso. Ha tradotto poeti inglesi, francesi e tedeschi tra cui Nelly Sachs e alcune
poesie di Czeslaw Milosz. Nel 1993 fonda il quadrimestrale di letteratura «Poiesis» che dal 1997
dirigerà fino al 2005. Nel 1995 firma, Giuseppe Pedota, Lisa Stace, Maria Rosaria Madonna e
Giorgia Stecher il «Manifesto della Nuova Poesia Metafisica», pubblicato sul n. 7 di «Poiesis».
È del 2002 Appunti Critici – La poesia italiana del tardo Novecento tra conformismi e nuove
proposte. Nel 2005 pubblica il romanzo breve Ventiquattro tamponamenti prima di andare in
ufficio. Nel 2006 pubblica la raccolta di poesia La Belligeranza del Tramonto. Nel 2007 pubblica Il minimalismo, ovvero il tentato omicidio della poesia in «Atti del Convegno: È morto il
Novecento? Rileggiamo un secolo», Passigli, Firenze. Nel 2010 escono La Nuova Poesia
Modernista Italiana (1980 – 2010) EdiLet, Roma, e il romanzo Ponzio PilatoMimesis, Milano
Nel 2011, sempre per le edizioni EdiLet di Roma pubblica il saggio Dalla lirica al discorso poetico. Storia della Poesia italiana 1945 - 2010. Nel 2013 escono il libro di poesia Blumenbilder
(natura morta con fiori), Passigli, Firenze, e il saggio critico Dopo il Novecento. Monitoraggio
della poesia italiana contemporanea (2000 - 2013), Società Editrice Fiorentina, Firenze.
e-mail: [email protected]
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
Iolanda La Carrubba
Giulietta ricordi? Omaggio a Giulietta Masina
Senti Giulietta, senti
spiriti in questa notte
fumo e sipario...Giulietta...
stringiti nella strada
vai e non voltarti
don't cray my little girl
don't cry.
Ascoltate l'uomo e il suo cappello
vola sulle automobili
sull'anello di Roma
il cavallo bianco non ha principe
ma un solo romantico sceicco.
Vola, don't cray, spiriti nel fumo.
Giulietta corri, vai e non voltarti
nella notte, in quest'acqua fredda
di fontana sorda.
Soffia il vento
tra la danza dei ricordi
occhi che guardano
Papi e motociclette,
feste e tristi appelli.
Vola, don't cry, spiriti nel fuoco
in questa notte, calma.
Gli occhi
I cicloni hanno occhi
strappano via nomi
e sogni di uomini piccoli.
Devastano giorni, mordendo anime
75
I Fiori del Male
superstiti vuoti senza più cuore.
I cicloni rimbalzano, urlano
poi s'addormentano sazi
tra macerie di vita.
Questo
Io ho questo odore
perché mi affermo
nel mondo del silenzio
dove spazio è riposo
tempo invaso
da sogni e prime notti.
Ho questo luogo
nel mondo dell'altrove
dove forza
sta nell'ombra
di una piccola cosa.
Sono questo
tutto e nulla
riparo e sconforto
solitudine allegra
ho questo nome
questo ed altro
ed altro ancora
a me sconosciuto
Iolanda La Carrubba è nata nel 1978 a Roma dove vive, poeta e scrittrice dirige la webTV
/blog EscaMontage con la giornalista Sarah Panatta con la quale dirige inoltre il Bracciano Lago
FilmFestival. Ha pubblicato libri di poesie, fra cui “Sottovuoto” (Roma 2011). Cura rassegne
culturali come L’altra faccia della luna, festival di cortometraggi presso la XVIII edizione
dell’Isola del cinema. Il suo primo lungometraggio Zapping tra web e cultura è un docu-film
incentrato sull'attuale situazione economica-artistica, un colloquio tra l'arte e un'utopica società.
Nel 2012 realizza come regista il film-poetico Fratello dei cani Pasolini e l’odore della fine
interamente tratto dall’omonimo spettacolo di e con Marco Palladini. Ora impegnata nella realizzazione del suo lungometraggio Lavori in corso con protagonista Fabio Traversa, “una commedia onirico-fantastica” così definita dalla Minerva Pictures che ne cura la distribuzione del
corto/trailer.
76
Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
Giovanni Caso
eppure siamo uguali (inediti)
Mi rispecchio nel volto di mio padre,
la stessa luce, il gioco delle rughe
attorno agli occhi ed i capelli corti
nella stessa canizie. Ed ebbe pochi
racconti per parlarmi della vita,
amava lo splendore del frumento
e il tessere del canto di cicale,
ed in silenzio ritornava, a sera,
lavava le sue mani sulla soglia
prima di entrare.
Il mio è un altro rito,
le mie mani non sanno dell’ortica
né della vanga. Srotolo conchiglie
per la china degli anni, ammiro cieli
dentro gocce di brina, sfoglio un libro
come fosse un ciliegio da innestare.
Sono in ansia per tutti i miei pensieri
così fragili, esposti alle intemperie,
brucio sterpi in autunno di parole
senza germogli.
Eppure siamo uguali
nel respiro del vento, nella pioggia
che sorprende l’estate. Quanta grazia
ha la luna tra i salici al tramonto.
Non chiedermi perché sento il suo pianto
bagnarmi gli occhi al suono d’una lacrima,
sto come gli altri petali del fiore
stremato tra le pietre. E guardo il cielo
nel volto di mio padre ed il mio corpo,
simile al suo, si piega come il pruno.
77
I Fiori del Male
*
Sere che si somigliano
nel diverso stellato,
acque lucenti scorrono
negli occhi spalancati.
Due farfalle per sera,
due frutti e due germogli,
due canti per svegliare
una pallida falce lunare.
“Dove potrò incontrarti,
mia anima, in quale aurora?”
“C’è un luogo più lontano,
più vicino al dolore”
Ci scriveremo
Ci scriveremo, avremo notti ed albe
da raccontarci, un soffio di parole
informi, eppure vive, inafferrabili
sussurri che s’illudono di dire.
Ci diremo del mondo e della vita,
delle vaghe promesse della luna
che dona incanti e inganni, scenderemo
nell’arena del foglio con in pugno
il gladio insanguinato dei tanti anni
di lotta senza tregua.
Ormai lo spirito
si fa silenzio dentro il corpo stanco,
forse siamo gli artefici del mondo
che il mondo non comprende. E ci chiediamo
perché la pietra sopravvive al nostro
vago germoglio e quanto grande è l’ora
che muove sul quadrante il nostro tempo.
Guarda, l’abisso già si è fatto cielo
ed il mistero è simbolo di vento
che cade e si rinnova.
78
Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
È tanta pace
nei tramonti che giacciono sul mare.
Ci scriveremo, avremo da narrarci
il fulgore degli astri che s’accendono
negli occhi della notte. E le parole,
elfi e farfalle, ci faranno strada
persino sui dirupi, sulle stoppie
che pungono il calcagno. Adesso è quiete
alle falde del cuore, adesso dorme
dentro un letto di foglie anche il dolore.
*
Da quest’esilio verremo,
da questa ombra di luna
che grida sul silenzio delle case,
verremo come il fiore viene al vento
come il papavero
viene al riposo.
Nella parola è il fuoco,
il segno dell’abisso
che si trasforma in cielo.
Appronteremo il piccolo bagaglio,
fogli sparsi di libri,
versi bianchi di neve.
Non serve altro per il viaggio,
d’altri Beatles
la musica ascolteremo.
Giovanni Caso (1943) risiede a Siano (SA). Laureato in giurisprudenza, ha svolto la professione di
Ufficiale dell’Esercito ed è stato insignito dell’onorificenza di Cavaliere dell’Ordine al Merito della
Repubblica Italiana. È vincitore di primo premio in numerosi concorsi nazionali, sia per l’edito sia
per l’inedito. Ha pubblicato: Il cuore della terra (1979); Simile dissimile (1980); Questo significato di noi (1983); Viaggio oltre l’anima (2000); Tra silenzi e urli del cuore (2001); Ahmed e Shimon
poeti (2001); Gli spiriti amanti (2002); I versi della luna (2004); Se per poco mi ascolti (2007);
Dove la terra chiama (2007); Per assonanze e dissonanze (2008); Le radici del vento (2011);
Trilogia di possibili eventi (2013). È Accademico di varie Associazioni culturali. Nel 2010
l’Associazione Amici Insieme di Siano (SA) gli ha conferito la targa alla carriera. È stato insignito,
nell’ottobre del 2010, della “Laurea Apollinari”, a cura della fondazione del Premio “Milano
Streghetta”, con cerimonia nella sede dell’Università degli Studi Milano Bicocca.
79
I Fiori del Male
Nicoletta Di Gregorio
Sarò precipizio
e traccia del vento
in questa urgenza d’azzurro
profilo carico
di roccia e vapori
fiero richiamo dell’aquila
e del falco al nido alto di cristallo
voce che ferisce
nel ventaglio della sera
e fresca invalla
tra le forre
la sua sete
limpida d’abbandono
nel fare antico
della goccia che scava
posseggo il timbro fragile
che consola la deriva
e frantuma ogni seduzione
luce che custodisce
in madreperla di linfa
il crinale eroso
a nuova aurora
“i sogni degli angeli” per L’Aquila
Immoto
ci sovrasta in tenerezza
un cielo che deborda
e invade in prospettiva
ogni timore
nell’abbraccio freddo
di pietra
polvere e fango
nel magma
confuso d’universo
peso di terra
che opprime
80
Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
i sogni degli angeli
e in respiro remoto
tramuta l’essere in lampi
di sé
***
Bruciata su pietre
erose, la dinastia
del leone rielabora
iscrizioni e segni
devote insolute
possibilità estinte
alla memoria
del sole
inciso graffio vitale
indomito riaffiora
nel parallelo
galleggiare dei cuori
sarò forma d’acqua
estuario roccioso
tra due sé in dono
eluvio serrato
nel senso perso
del divenire
per Andreij Tarkovskij
Insegnami
il silenzio ipnotico
dell’alga che irretisce
e sprofonda l’anima
che tace
è tormento e litania
l’eco di rondini
come lode impressa
in dipinto trecentesco
Madonna, cripta segreta
“teologia della bellezza”
81
I Fiori del Male
su cui fluisce leggera l’acqua
che inserra il mistero
e depone luminosa icona
l’origine e la vita
come bacio e piuma del vento
sul portale della luna
***
A un paesaggio eletto di note (inedito)
d’oro e metallo traluce
obliquo il pianoro
lama a trafiggere
bruna ombrosa catena di monti
l’acceca l’azzurro che staglia
feritoie di luce a immagine persa
sciolgono un’ala dolce di faggi
l’ultima fioritura a un verbo
opaco di segni
conquista la deriva nuova
tremore che annuncia
a un’alba antica
il tuo limite d’acqua
votata dimensione d’esedra
nel compreso indurre del vuoto
dietro l’ala che vela
un alto volo d’anima
Mistero che inonda (inedito)
parabole e canto
a un’oasi lunare
dischiuse alla vita
un fiore di luce
puro e prezioso
diamante sospeso
d’un sogno che resta
d’un arco sotteso
82
Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
accordo di vento
annuncio d’aurora
da fronda sorpresa
a un’eco lontana
di pioggia una messe
imbruma la terra
in cenere d’aria
monsone di stelle
su faglie di ghiaccio
ferite dal sole
alieni coralli
frustati di sabbia
Dalle sponde del vento (inedito)
s'ingloria, sensibile
al crepuscolo, un'evocata
cuspide d'Uno, stelo di luce
nel delirio d'ombra
tracima l'utopia del vero,
sottesa a scandagli di vuoto,
dilata nel serale turchino
espandersi d'onda
diventa sabbia d'approdo
tocco d'ala smarrito
lembo estremo
al tuo respiro di cigno
Nicoletta Di Gregorio vive e lavora a Pescara. Ha pubblicato otto libri di poesia con prefazioni di: Plinio Perilli, Márcia Theóphilo, Maria Luisa Spaziani, Dante Maffia, Walter Mauro, Tara
Gandhi Bhattacharjee. Sue poesie sono state tradotte in serbo-croato, francese, inglese e russo e
romeno. Le sono stati conferiti Premi alla Cultura, alla Carriera, e Premi per la sua produzione
poetica È stata Presidente delle Edizioni Tracce e dell’Associazione Editori. Ha partecipato a
festivals nazionali ed europei, tra cui: il 43° e il 45° Internazional Writers’ Meeting di Belgrado,
organizzato dall’Associazione Scrittori Serbi nel 2006 e nel 2008; Meeting Internazionale della
poesia a Parigi nel 2007. Ha fatto parte della delegazione internazionale che nel 2010 si è recata a Mosca, nell’ambito del gemellaggio culturale con il Premio Città di Penne - Mosca Università D’Annunzio, organizzato dal Governo della Federazione Russa.
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I Fiori del Male
Luca Di Giacomo
Cammino ciecamente,
ma con questa pelle imbrattata di morte serena
vivo la città e il suo muschio azzurro,
questi pochi metri quadrati di stanza
dove, tra una scrivania e un letto,
sto con la mia rancida paura,
stanca anch’essa di esistere.
Oh, tu che mi passi vicino,
mi accomodo nell’assetto del mondo
che il tuo fiato rinnova
e chiedo di cosa tu sia testimone o superstite,
di quale vita consumata con angelico egoismo.
Ringrazio il corpo,
la sua metà destinata ad amare,
la metà utile a fuggire
e l’imbuto della gola e il sesso scuro e a riposo,
-corpo nella nube di ciò che potrebbe essere,
circonfuso di nulla eppure salvo in sé stessoOh, il mondo s’allontanerà o scivolerà su Dio
ed allora si sentirà un unico “Aiuto mamma”
“No! Mio comprensibile desiderio”
Come ognuno degli oceani,
vorrei essere solo la profondità delle mie viscere,
dove la corrente fredda e l’oscurità si risolvono,
e non avere questo volto d’onda
che la barca riga con il suo scafo
e i venti trasformano.
Ogni comprensione, ogni gioia di cui si parlerà
è posata già nell’anima che si sveste del tempo.
II
Io sono il guardiano del mio profondo,
di una violenza che infrange la proporzione
e affebbra la vita.
Io ascolto quella voce che precipita da lontano,
e per il mio intelletto rupestre,
84
Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
per la paura che mi guarda con occhi di fieno arso,
sono libero ma incapace di dimenticare.
Quale assurdità dovrò raggiungere, quale speranza,
frugando in ciò che non ho detto?
O continuerò a scovare presagi,
preceduto da un folle dispiacere,
capace di troppo per non essere impaurito?
Non cercate nelle mie tasche!
Non sono che un gesto vigoroso del mondo,
un avvicendarsi di anime che vive la possibilità,
chiamato a salvarsi.
III
Dici qualcosa,
a volte basterebbe la parola
senza l’ombra di altri luoghi
per acquietare in me lo spasimo,
ma, altre volte, sono figlio
di un desiderio che agonizza nella bontà
e rimanerti a fianco è un diverso fuggire.
Mi chiedo
quale sia la tua ragione,
mi chiedo
se il tuo amore è ricambiato.
Tu di me non chiedi
e mi ricacci
in questa scheggia di riposo.
IV
Così mi svegliai
sotto il cielo acceso,
sulla terra non più tenera,
chiedendomi se si potessero scorgere ancora
roccia assolata d’attesa,
bambini, i loro pantaloni di velluto,
la Bellezza generata da una mente
85
I Fiori del Male
ferma.
Con voci di fiume d’inferno,
fiume feroce,
ho sentito dire
di lasciar bruciare la radice di ognuno
fino ad annerire il cuore,
consumare in fretta il Paradiso
senza che il mondo vi si rifletta,
volgendomi da un’altra parte
per poi poter dire solo
“amai”.
E nessuno salva qualcosa
dalle terre distrutte,
ora desolate sotto l’Acquario,
o crea città con lievi luci,
nessuno ritorna alla propria casa.
Ah, essere come il fiore alpino
che dalla neve non raccoglie il freddo
ma bagliore di vita.
V
Ed ora il sole sorge ovunque,
non vinto,
e riscopre d’essere il centro.
L’errore fu
ritenermi solo
in questo cerchio d’amore,
l’errore fu
sognare questo sfondo chiassoso,
creare le immagini
che potessi chiamare ogni giorno
“vita”.
Ho confessato al mio corpo
del futuro,
ma il corpo
non ha tremato;
una colomba
s’infiamma nel caos
e si posa sull’armonia
della mia fronte.
86
Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
VI
Non ti conosco, mio Sé,
ma nemmeno ti vedo
posare la guancia su decenni, carta imbrattata,
attraversare in santità questa buia origine.
Costretto allo scintillio fugace del rudere,
incompreso nell’eternità
tra vicoli bianchi che tendono storia umana,
ti vedo annegare nel vortice
di questo destino animale.
Ma ora la mia attenzione ti ravviva,
ti ho posto davanti odio che tanto mi somiglia,
tracciato per primo il piacere
di pollici strofinati su un fianco
e da me si irradiano questi visi,
sicuri forse,
da me queste mille molteplicità
che fingono il caso
e mi rendono meno libero di altri in questo Essere,
se mai sia possibile,
e attento all’Amore.
Oh, non è male questo scorcio di Città e industrie
con rosse schiume salmastre e sottili tronchi d’albero,
ho abbastanza intelligenza da innalzare il canto,
e abbastanza corpo da avere un nome,
verdi sensazioni,
la percezione che ha un enorme cielo
mentre discende in una lingua di pianura.
Ah, mio Sé, tenerezza,
dissolto dinanzi alla prossima persona, vibrante figura,
che il tempo nasconderà,
al prossimo “amore sì” “amore no”
o muro riempito di parole,
hai vissuto con coraggio questi mondi?
Guardando con ironia le tue passioni,
87
I Fiori del Male
piangendo tutte le lacrime che avevi scelto
per poi riconoscerle nella valle di lacrime,
trasformando le paure con scettro mentale
e vagando per baciare il grembo vuoto delle cose,
imparando qualche amorevole gesto
da compiere per sempre?
Ed ora andrai ad urlare tutto questo
nell’orecchio di qualche Creatore,
racconterai di un lieve braccio attorno al collo
ad anime senza corpo confuse nel deserto,
desiderai di vivere altre volte in questo metro e ottanta ,
ti perderai nel vello dell’agnello della notte,
benedirai un’ultima volta le colline lisce di verde
con i loro accenti di roccia e le case oltremodo vivide.
Lascia che trovi continuamente Ispirazione nel tuo addio ,
libera il pensiero del mondo dalla tua impressione
e fammi nutrire nella compostezza dell’Impossibile,
tu, amato, amato, completamente andato,
lasciami la parola che unisca un pensiero di Paradiso
a questo respiro che soffre.
Luca di Giacomo (Salerno 1993) vive nel capoluogo campano, dove ha frequentato il Liceo
Classico Torquato Tasso. È iscritto al secondo anno d’università presso la Facoltà di Giurisprudenza
della Federico II di Napoli. Interessatosi precocemente alla mitologia classica e alla poesia, incomincia a scrivere all’età di dodici anni e raccoglie la sua produzione poetica compresa tra i quattordici e i diciassette anni nell’opera prima “Il Braciere”, edita nel dicembre 2010. Partecipa a diversi concorsi letterari, ottenendo premi di merito, tra cui si evidenzia il terzo posto nell’ambito
della rassegna “Premio Centro” alla nuova poesia d’autore – Esposizione delle arti contemporanee 2012. Da anni si dedica a letture pubbliche dei propri componimenti e all’attività di recensione e critica pittorica, curato dal critico Mario Cerone, affiancando a questi interessi lo studio
della filosofia, della psicologia, della storia delle arti e delle esperienze letterarie che hanno contrassegnato il ‘900. Attualmente sta lavorando alla sua seconda silloge di poesie e alla stesura
del suo primo romanzo. Hanno detto della sua poetica: “ Di Giacomo sorprende per la proprietà del linguaggio, la lirica e la musicalità dei suoi versi. Sorprende per essere un poeta già dalla
prima gioventù e nel contempo un colto. Dicotomia questa che è nutrita si da stimoli esterni ma
anche da una profondità di analisi , quasi che la vita lo incanti nei suoi misteri ancora non svelati, sentendo il dovere che tocca a lui scrutarli, con spietate introspezioni o assolute visioni...(da
una critica di P. Berti)”.
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
Giorgia Chaidemenopoulou
(Traduzione dal Greco: Giorgia Chaidemenopoulou)
Le ali della conoscenza
Apro le ali della Conoscenza
per volare lontano,
come un uccello che non ha dolore,
nella sua anima c'è ardore.
Gli uccelli che dall’alto volano,
vedono i segreti del mondo
che srotolano.
Migliaia di pennuti sul cielo
mentre soffia il venticello,
che passa velocemente
rinfrescando la mente.
Il mio pensiero impazzisce,
e la Conoscenza non finisce...
Il Vento mi spinge
a conoscere la vita.
Nell'aria sto girovagando,
non so dove mi sto avviando.
Con i miei occhi sto osservando,
le cose preziose sto toccando.
Mi ubriaco dagli odori,
provo tutti i sapori!
E questi tesori,
al ritorno dal mio viaggio,
li nascondo nel mio nido,
della vita mi fido...
li cielo come un talismano,
li tengo bene con la mia mano!
E poi, chiudo le ali della Conoscenza
per riposarle, e per poter volare,
il giorno seguente,
ancora più in alto, ancora più velocemente!
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I Fiori del Male
Raggio di Sole
Cielo grigio, nebbia spaventosa,
solitudine amara, Natura spaventosa.
Tu, silenzioso, aggrondato,
da solo nel bosco, abbandonato.
Foglie cadute, speranze appassite,
rami svestiti, riflessioni insipide.
Non è ancora fiorito l'amore,
chiusi i petali del cuore.
Ma sei venuto tu, Raggio di Sole,
gli hai dato gioia e splendore.
Con il tuo vestito soleggiato,
la sua anima hai conquistato,
con la tua bellezza singolare
e il tuo aspetto particolare.
Figlia del sole, bocciolo profumato,
dallo stelo, tu, fiore, sei balzato!
Bei pensieri, colori nella tua mente,
la Primavera, ornata di fiori, sorridente.
Nel bosco, immagini impressionanti,
odori, sapori magici, abbondanti!
I petali sono aperti per ricevere l'abbraccio,
lo sguardo erotico, il suo dolce bacio.
Per te, Sole eterno, cielo illuminato.
Natura fiorita, mondo rosato.
Finite le lacrime, finita la pioggia...
sei venuto tu, raggio del Sole,
gli hai tolto l'afflizione, il dolore,
gli hai dato respiro, vita, amore.
Il Teatro
Sono qui a seguire un nuovo spettacolo.
Il regista deve i ruoli agli attori distribuire.
Il protagonista? Sarò Io.
Sul palcoscenico, tutto è pronto.
Mi chiedo...il pubblico sa che
90
Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
io solamente seguirò e che non parteciperò?
È alzato il sipario, ed io sbigottita
sto dietro l'allestimento scenico, smarrita.
Guarda! In questo teatro sconosciuto,
si presenta il mio spettacolo.
Gli attori, non li posso chiaramente guardare,
con le maschere, il loro viso cercano di celare!
Si srotolano vari pensieri e sentimenti,
molteplici aspetti della mia vita e avvenimenti.
Ma perché al mio spettacolo dovrei assistere?
Voglio andarmene, voglio scomparire.
Ho una angoscia! Che cosa succederà?
Come la mia storia si svilupperà?
Qualcosa però mi trattiene quì...
La trama...deriva dalla vita?
Sto muta e pensierosa,
estranea allo mio spettacolo.
Ma improvvisamente,
desidero ardentemente
anch'io recitare,
e il mio ruolo presentare!
La gente si meraviglia, si emoziona, sta lacrimando
perché vede il protagonista che sulla scena sta camminando.
Dio mio! Forse sono fortunata...perché...
l'ultima scena é piena di speranza!
Tutti sorridono, acclamano.
Spero che applaudano dal fondo del cuore.
O portano anche loro delle maschere?
Bravi! Ho pensato. Gli attori hanno recitato bene.
Magari non fosse tutto questo reale.
Il sipario cala. Le luci si spengono.
Il teatro sembra deprimente, rovinato,
rimane vuoto, scordato.
Però...continua ad esistere, a vivere,
per presentare un nuovo spettacolo,
con un nuovo Protagonista.
91
I Fiori del Male
Serenità è…
Sulla costa sdraiata, sento l'immensità
nella mia anima domina la serenità
Pian piano comincia ad albeggiare,
le onde del mare continuano a scrosciare.
Sul cielo le stelle pallide brillano,
la mia strada senza sosta illuminano,
il loro splendore seguo fedelmente,
ornano l' Universo maestosamente.
Il cuore desidera rilassare
ascoltando la brezza del mare,
e il Vento con i suoi magnifici abbracci,
riempie il mio corpo con innumerevoli baci!
Gli occhi chiudo, mi tranquilizzo...
per poter arrivare sul cielo.
Devo le mani liberamente lasciare,
e le stelle da vicino ammirare!
Giorgia Chaidemenopoulou È greca, di Salonicco. Si é laureata nel 2008 a pieni voti nella
Lingua e Letteratura Italiana all’Universitá Aristotele di Salonicco. Dal Settembre del 2012 frequenta il corso post-laurea con specializzazione: ‘’Letteratura – Civiltá’’ nello stesso dipartimento. Lavora come insegnante d’italiano e di spagnolo.''Un Cubo di Fiabe'' é la sua prima raccolta di fiabe che ha vinto il primo premio al Concorso Panellenico Letterario ‘’Sikeliana 2011’’.
La sua fiaba ‘’La Fonte della Conoscenza’’ ha vinto il primo premio al Concorso Panellenico
dell’Associazione di Scienze e di Arte di Keratsini ed è stata inclusa nel 26esimo volume
dell'Enciclopaideia Letteraria ''Chari Patsi''. Inoltre, é stata premiata per le fiabe “La Speranza
della Natura”, “La gara di Nichi”, ‘’Negli anni bizantini…una fiaba reale!’’. Ha tradotto sette
delle sue favole in italiano e sono state pubblicate nel 2013 con il titolo ''Sette Favole...Sette
Colori dell'Arcobaleno''.Ha ricevuto una Menzione Speciale dall'Accademia Carducci a Napoli.
Ha tradotto dal greco in italiano poesie del libro ‘’Nel Mare della Bellezza’’ (edizioni Vergina
2013) della scrittrice Panagiota Christopoulou-Zaloni e il libro ''Paesaggi immensi
dell’Afflizione'' del poeta Themistoklis Katsaounis (2013). Ha tradotto dall'italiano in greco la
raccolta poetica di Arjan Kallco ''La tua Immensita' m'ubriaca'' (PrintPoint, Korse 2010). Nel
2012 e 2013 ha partecipato al corso estivo dell’Università EMUNI (Literature Text Analysis for
Translation) durante il quale è stato tradotto dall’italiano in greco il racconto di Paolo di Paolo
“La miracolosa stranezza di essere vivi”, il racconto di Brigidina Gentile ''L'ingrediente infinito'' e la favola ''La favola di una storia''. Nell' ambito anche del corso ''Analisi di testi letterari
e traduzione'' del corso post-laurea che frequenta, sono stati tradotti anche altri racconti italiani.'E membro dell’Amfiktionia Ellenica e dell’Unione di Scrittori e Letterati Europei che risiedono a Salonicco.
92
Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
Veniero Scarselli, L’universo parallelo degli acquatici, Genesi editrice,
Torino, 2013
Piace talora alla scienza e vieppiù alla filosofia darsi orizzonti di mondi diversi.
Insomma il.. pezzo di carne biblica si rinnova nella vis immaginativa e sboccia pensiero, aprendosi alla ragionevole speranza leibniziana del migliore dei mondi possibili. Nel probabilismo di ascendenza quantistica, infatti, si aprono indeterminati spazi
in cui la fisica può incontrare nuove … Flatlandie della letteratura. Satira ed etica si
intrecciano in interrogativi, che, in forma di favola, si pensi a Mandeville, inquietano
e danno all’uomo la variegata gamma del divenire. Principe di questa letteratura del
Mirror è stato certamente Swift, che, nel suo capolavoro, I viaggi di Gulliver, rende
con arguzia polemica lo specchio deformato di una società in crisi. Ma l’allegoria dei
Lillipuziani o dei brondignaghi fa storia! L’umanità è relativa attraverso l’artificio
della distanza e del punto di vista. In questa autorevole scia si pone, almeno a livello
intenzionale, l’opera ultima di Veniero Scarselli, ossia L’ universo parallelo degli
Acquatici. Ma nel nostro autore l’occasione di una nuova intrigante modesta proposta, frutto di paradossi di ragione, si rovescia per così dire nella spiritualità dell’acqua. Nel suo universo parallelo degli acquatici, egli parte, infatti, da presupposti
metafisici e qui resta! Scarselli racconta in 42 canti la scienza degli uomini, deformando le idee che quantisticamente divengono molecole affabulanti. Attraverso il
ricorso a termini della fisica e della chimica si cerca o si crede di fare poesia lumeggiando i temi dell’essere. Si prenda l’incipit del canto 21. È dunque generando perfette / figure mentali ideali / che la sapienza della nostra madre dona un’anima alle
sue creazioni. Con le brave molecole acquatiche / ne foggia accuratissime copie di
uomini, animali, vegetali / che ilari entrano finalmente / con le loro piccole anime /
a far parte del grandioso palcoscenico / dell’universo, tutte fedelmente modellate con
materia acquatica nelle forme da essa pensata. L’opera procede su quest’onda di platonismo idealizzante, attingendo a quella memoria dell’acqua che genera esseri diversi nella scala biologica della vita che ha le sue radici nell’acqua e in questo specchio
cangiante si frange in possibili entità di pensiero per un mondo forse migliore, o forse
speculare, ma cantato da eterne branchie in movimento di pensiero e di generazione.
Paolo Carlucci
93
I Fiori del Male
Raffaele Stella, Straniero nel mondo, Edizioni Tracce, Pescara 2013
Straniero nel mondo presuppone un mondo straniero, un non trovarsi presuppone
una inquietudine che sceglie comunque di essere qui e di confrontarsi con ciò che è
straniero (forse ostile) ed esplorarlo. La politica presuppone una sofferta auto conquista e perciò non è solo politica, ma conquista civile, slancio civile, denuncia civile,
anche quando al mondo (straniero) può non piacere. Invece d’essere un demone o un
eroico furore, il poeta sceglie di essere uomo con la sua dignità e con le sue contraddizioni ed i suoi disorientamenti: e l’amore diventa offrirsi, l’essere uno in molti e
molti in uno, essere l’altro e patirlo, essere chi ci è vicino, che ci è prossimo. È questo il segreto della poesia e dell’arte di Raffaele Stella, poeta che a ben ragione Paolo
Saggese non annovera tra gli “utres inflati” ed io aggiungo insufflati: su un altro piano
che, impropriamente viene chiamata umiltà. Ma umile significa inferiore, terra terra
e spesso l’eccesso di umiltà può essere scambiato per basso, oscuro. Qui io preferisco la parola “modesto” che indica “colui che non si esalta per i propri meriti: l’uomo veramente grande è modesto”. L’arte, per Raffaele Stella è una scelta: eligere.
Invece di essere insufflato dai portenti, egli è ispirato da ciò che lo circonda: uomo,
natura, sociale.Il prodigarsi per gli altri non è che amore: e amore sono anche queste
poesie che traboccano di pietà e di rimprovero, di sentimento e di ragione che trovano un equilibrio. La vita di un uomo che trova misura nella parola e nel colore, nel
verso e nella pittura. L’intenso cromatismo dei volumi e delle fughe prospettiche, l’intensità del ritratto o l’ondulazione del paesaggio, diventa nelle poesie, umbra, piano
rarefatto dove solo l’essenziale rimane, lineare e nudo, ma non meno espressivo. Nel
dialogo interiore i bagliori di bellezza del mondo si spengono nell’Irpinia che muore,
nella sua anossia, nei ragazzi che cazzeggiano ai bar, nello storico che tace e nell’antropologo che vacilla. Non è né constatazione né requisitoria: “Il Mondo è morto” in
quanto “… il sostenibile s’è perso …”. Mi preme insistere qui su questo aspetto del
ragionatore profetico, su una poesia che è interpretazione del proprio tempo, ma
anche luogo privilegiato del pensiero. Una poesia che non pensa e non lascia pensare non è tale. D’altronde, Alfred De Vigny, per necessità di nascita poeta romantico e
grande, non aveva paura di definire la poesia: “perla del pensiero”, ad onta d’ogni
forma propriamente o impropriamente platonizzante (Penso alla Repubblica e
all’ostracismo dato ai poeti, ma anche a quell’atteggiamento volutamente titanico e
solipsistico). Sono pienamente concorde con Paolo Saggese che la speranza(ossia
l’attesa) è uno dei punti chiave nell’indefinibile andare del tempo che lavora per eliminare scorie, scorze, mostri e prodigi per estenderci ancora sul rinascere.
Nell’incertezza, “Santo o sciamano…”, la certezza è che tutti abbiano e siano per
questo uguali, tutti abbiano gli occhi, le pupille e le ciglia, tutti siamo un impasto di
istinti animali e di qualcosa che nobilita gli istinti. Meglio, come fa il poeta, non chiamare il mistero con un nome, ma lasciarlo tale nella sua indicibilità, ma con il cuore
aperto a ciò che ci circonda. Ciò che conta è aprirsi all’altro, intridersene, essere,
come diceva Ungaretti una“voce unanime” e un grumo di sogni. Ciò che conta è additare un oltre, un più in là apparentemente irraggiungibile, inseguito da milioni di anni
e che, in fondo, giace in noi stessi come in ciò che vediamo.
Pietro Pelosi
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
Gianni Rescigno, Un sogno che sosta, Genesi Editrice, Torino 2014
Nella lettura di questa ampia raccolta di poesie che spazia nel trattare tanti temi di
vita vissuta, di meditazione sull’essere, di miti, del tempo e dello spazio non si può
che rimanere affascinati dalla profondità del dettato poetico e dalla forza creatrice del
linguaggio. Il titolo Un sogno che sosta è preso dalla prima poesia che apre la silloge: Da dove venimmo / la torneremo: questa / vita un sogno che sosta / tra acqua
e vento / caduta di foglie / e festa di fiori. Questo incipit scaturisce dal pensiero tra
il tempo passato e quello presente, il famoso panta rei del divenire, ed esprime pure
un ripiegarsi su se stesso in una sorta di riflessione su bios e thanatos. Si coglie questo aspetto elegiaco nei versi “cadute di foglie / e festa di fiori” che ricordano il poeta
greco Mimnermo il quale diceva: “ Noi siamo foglie, foglie viventi nel tempo dei
fiori”. In un excursus sulla poesia si possono cogliere alcune tematiche: solitudine,
infanzia, amore, del lungo percorso esistenziale e poetico che danno la misura di un
pensiero fecondo e ricco nell’esplorare il suo mondo interno ed esterno. La riflessione sul tempo ricorre spesso “ Pensavamo che la primavera / non potesse mai finire /
e di un tratto ci trovammo / foglie d’autunno nell’acqua / della sera” ( Primavera
Autunno). In una lirica che si può considerare quasi un manifesto sul ruolo del poeta
e sulla poesia si legge “ I poeti accendono gli occhi / nella notte. / Supini vegliano i
mali / della terra, li trasmettono / al cielo. / Sprofondati nel silenzio / rincorrono parole / nel pensiero.” Si colgono nei versi doti straordinarie d’introspezione psicologica
nella levità del linguaggio e nella sensibilità con cui vengono trattati gli argomenti.
Gianni Rescigno poeta di lungo corso conosce il nostro tempo e sa molto bene come
la storia di ogni individuo si intreccia con gli amori, con i ricordi, con le pulsioni, con
le nostalgie così egli riesce a sprigionare liricamente, con ammirevole maestria,
improvvisi squarci di luce che accendono la nostra mente. Poesia, dunque, sobria ed
essenziale, che rivela molti registri di rappresentazione di una pluralità di temi e di
immagini attraverso una elegante e penetrante scrittura.
Francesco Dell’Apa
Vittorio Varano, Variando, il miolibro, Roma 2013
Un libro avulso dai testi poetici correnti, parte in quarta con un alluvionale produzione di quartine. Vittorio Varano è un dissacratore, maneggia il verso come una colubrina, spara senza riflettere e la preda è abbattuta. Tutto difilato giunge alla meta
affannato in questo non proprio agile manuale poetico. Non si avvale di presentazioni, meglio così, più in alto si muovono le prefazioni e più sanno di vecchio ricatto o
di cattedra stantia. Varano è un giovane che ha “messo la faccia” infiorettando i suoi
versi con un linguaggio sapido, spesso tagliente e lussurioso, sentiamo qualche verso
per avere un’idea : “metà dello stipendio ho destinato / alla mignotta che mi fa il
miglior pompino” Un lungo treno di mottetti, aforismi, calembour che spesso straripano oltre. Questo libro è nato per dire ciò, libertino e seducente fino a fare arricciare il naso a qualche pudica dama di compagnia. Se lo leggete armatevi di buona
95
I Fiori del Male
volontà e seguite la sua rotta, egli vi porterà per mano su palcoscenici di mito sfoderando una cultura classica di portata universale. Se resistete a leggerlo fino alla fine
avete capito chi è Varano. Un libertario non comune, un piromane della parola, un
incendiario, un dissacratore del perbenismo, infoiato e truculento da fare tremare
anche ai più incalliti maestri. Digeritolo come uno stracotto d’asino e non vi annoierete, vi lascio una sua quartina per compagnia: “ti cali le mutande e scopri il culo /
me ne viene un desiderio così acuto / non c’è imene lì che te lo tiene chiuso / lo contrai per non concedermi l’uso”.
Antonio Coppola
Claudio Grisancich, 99 haiku metropolitani, Fuorilinea, Roma 2013
Un percorso esistenziale segnato da amare riflessioni gnomiche, flashes graffianti del
mondo d’oggi, un amore che tradisce ed altre micro meditazioni scandiscono i “tradimenti” di Claudio Grisancich, pubblicati di recente, col titolo 99 haiku metropolitani.
Un te di fretta / neanche un saluto / mesto mattino. Basta questo testo per marcare la
distanza dall’haiku di matrice nipponica, inteso come trasalimento nell’impressione di
un paesaggio, o minuta preghiera nel quotidiano. L’autore triestino, noto per la sua lunga
fedeltà alla produzione in vernacolo, affidata a libri e plaquettes, si smarca con abilità dal
kigo o da altre norme formali del genere; condensa nella gabbia metrica del modello 57-5 spesso un ressentiment soggettivistico, un antagonismo verso il mondo. Già te lo
senti / ti vogliono cacciare / capi schifosi! o Hai la famiglia / tutti da mantenere / e ti
licenziano. Amara solitudine affiora in versi come Ceni da solo / nella grande cucina /
quanto sconforto. Un anelito di speranza sociale in Fervente preghi / sperando che da
lassù / venga giustizia. L’autore sceglie dunque il coltello epigrammatico, la disfatta del
tempo che si sgretola in lampi di sofferenza e di ricordi in cui la natura a volte è un epifenomeno di speranza perso nel bosco / ma tutti ti chiamano / ti senti salvo. Cercando
con fatica di unire vita e arte il poeta si muove, gravido di disillusioni nella città e nella
società che, nel vortice della storia, non sembra avere occhi e cuore né per la grande bellezza della natura, né della vita. Ma è allora che, come soffio di poesia, come tremore di
bellezza atemporale, s’affaccia raro e prezioso il suono giallo delle stagioni. Il vento
gioca / tra foglie ingiallite / già qui l’autunno. Schizzo del tempo in fuga e scrigno di
perfezione, ma soprattutto attimo dell’io che, nella festa galante dell’autunno, sente e trasmette il senso occidentale, il classico tema del pulvis et umbra, insomma della perdita
e non invece del ciclo vitale del vento che permea il crisantemo di vita giapponese.
Paolo Carlucci
Antonio Spagnuolo Come un solfeggio Kairos, Edizioni 2014
Il “solfeggio” di questa recente silloge si sviluppa con tante note che costantemente
emergono dalla memoria di Antonio Spagnuolo, mai inaridita dal silenzio della moglie
Elena, scomparsa da poco. “Come un solfeggio scandiscono le note / melodie / che sapesti donarmi ancora in vita…” Non è la morte di Elena al centro di tutte queste poesie, ma
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
è la vita vissuta insieme con passione, con partecipazione comune nel “meraviglioso
amore” fin dalla gioventù: “ tra i libri dei miei vent’anni / già c’era il tuo sorriso… “.
È la solitudine che emerge e infatti “Oggi ritorna la tua voce nel grigio della nebbia / e
il golfo trema per la solitudine: un incontro perduto.” E ciò è chiaro e forte giacché
l’amore è ancora del tutto presente nel poeta “che trabocca ogni giorno per la tua mancanza”: e infatti “ora è il silenzio ove impazzisce il ricordo”. Dunque in tutti i testi emerge il ricorso alle parole per accedere al più profondo subconscio, in questo diario del
dolore. Lo stesso Spagnuolo nella sua breve introduzione scrive: “L’assenza con il suo
vortice negativo imprime indelebili incisioni nel subconscio, tali da annullare ogni rex
extensa, in un naturale sottofondo d’angoscia, che riporta i termini del logorio e del pronunciamento” . Dunque la poesia emerge dal fondo del soggetto “con cristalli simbolici del reale”. D’altronde, nel fluire di tutta la sua poesia, Spagnuolo lega gli accenni alla
realtà con le suggestioni verbali dell’inconscio. Qui in maniera sotterranea ancor più il
presente e il passato sono in un costante collegamento e il solfeggio è una musica senza
fine. Così i versi lirici e l’inconscio espanso si sviluppano in un solfeggio poetico umano.
Dunque una silloge dove tutte le poesie, intensamente liriche e ricche di combinazioni
musicali e d’immagini, esprimono con estrema chiarezza il profondo e ricco legame vissuto e mai perduto con l’amata moglie, sempre presente a tutti i livelli della memoria e
dell’animo nascosto del poeta.
Roberto Piperno
Nina Maroccolo, “veggente” del XXI secolo
Nina Maroccolo è un talento raro, uno di quelli che si è felici di incontrare perché
tanto c’è da imparare dal loro modo di scrivere e vivere la realtà. È un’artista vera
dalla personalità originale e spiccata anche nel modo di vestire e di porgersi, del tutto
personali, sorprendenti e stravaganti. Vengono in mente i grandi dandies (senza la
loro ostentazione di eleganza, il loro disprezzo, il loro distacco dalla realtà), da Oscar
Wilde a Charles Baudelaire per i quali l’abbigliamento era già poesia, un modo di presentare con orgoglio la propria diversità in un mondo omologato. In un’epoca in cui
l’Arte è grigia, appiattita, fatta di luoghi comuni, Nina, sincera e imbarazzante, è una
voce fuori dal coro: propone sperimentazioni di linguaggi e contenuti mai fini a se
stessi. Questa non vuole essere una recensione a Malestremo perché altri meglio di
me sapranno farla ma, solo una riflessione. La formula breve data ai racconti di
Malestremo – Sedici saggi sull’altrove, (2013) - ne facilita la lettura: ogni racconto è
come un lampo accecante. Nina si tuffa nell’abisso del suo io che diventa sé e poi noi:
“Je est un autre”, fissando le sue vertigini. La sua scrittura – del tutto particolare –
insolita, evocativa, a volte surreale, a volte allucinata - che ricorda, come ho già detto
quella di Arthur Rimbaud - scava l’insondabile, cerca sogni, miti, destinazioni,
magie, luoghi d’appuntamento. Istanti. Dall’infinitamente piccolo all’infinitamente
grande. Dal racconto intitolato Cronistoria di un’attesa dove un appuntamento segnato dallo scorrere dei minuti diventa pretesto per indagare se stessi a quello intitolato
In viaggio dove la ricerca spirituale - cominciata nei due libri precedenti - continua
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I Fiori del Male
puntuale. Il libro è, infatti, sospeso tra realtà – la terra – e spiritualità – il cielo, l’alto, tra realtà e sogno. Ricorre l’immagine della montagna (In viaggio, Si è frantumata la montagna): alta, verticale, vicina al cielo è il simbolo della trascendenza e del
centro. La montagna frana, bisogna iniziare un nuovo cammino. Indimenticabili sono
i ritratti femminili dalle multiformi personalità, intriganti e misteriose, da Musidora a
Jeanne, da Annette a Marianne narrate ora in prima persona, ora in terza. Vale per
Nina ciò che Kezich disse del film Persona di Bergman: Nina riduce all'osso le
ambientazioni per indirizzare il lettore verso i personaggi, come "un diabolico dominatore". Proprio in questo aspetto trova adempimento l'intenzione sperimentalista del
racconto. Tutte le donne si presentano infatti come le rispettive facce della stessa
medaglia, cioè di Nina. E la medaglia è l'anima della donna contemporanea. Passata
la fase dell’identificazione - che è solo una fase di passaggio dall’io si arriva all’altro, all’amore, all’amore che dà la vita. Dice Bergman: “La vita si manifesta in mille
modi diversi” ed uno di questi è l’amore. Il senso della letteratura è quello di rappresentare la realtà, la realtà ultima che è non solo il non senso dell'essere ma anche la
primordiale irrazionalità dell'uomo: Nina con la sua scrittura si addentrai nel sottosuolo del reale.
Fausta Genziana Le Piane
Luigi De Rosa, Fuga del tempo, Genesi editrice, Torino 2013
Il titolo di questa silloge poetica richiama alla mente un malinconico endecasillabo
di Dante: Vassene il tempo e l’uomo non se n’avvede (Purg. IV v.5).Il poeta invece è
consapevole della Fuga del tempo e lo manifesta già nella prima lirica con un atteggiamento stoico che rappresenta con parole epigrafiche di grande saggezza ed equilibrio interiore: Tranquilli, amici, non c’è fretta / né ansia, tanto andiamo tutti, / inevitabilmente, / chi prima, chi dopo, verso la foce. La metaforica raffigurazione del
fiume-vita che va bellamente fluminando, per usare le parole del poeta Luzi, suscita
l’idea della vita immersa nella concezione del fluire eracliteo. Nella navigazione interiore del poeta la voce sale dal silenzio della memoria e affiora lo scorrere dei ricordi che lui chiama Lo scrigno dei ricordi che evoca in varie liriche. Nella poesia di
Luigi De Rosa appare evidente una forte spinta alla vita nel rendere i versi pregni di
realismo e densi di emozioni. Balzano in primo piano le riflessioni sulle persone e
sulle cose: Solitudine splendida / sospesa / sul futuro e sul passato oppure: Rosa
rossa a raggiungere il cielo / sul suo tremulo, altissimo stelo / nella sfida al destino.
Risaltano i riflessi metapoietici, come d’altra parte lo sono i rapporti inscindibili tra
poesia e vita. È una poesia tramata di logos, di meditazione e di ansiosa interrogazione sulle problematiche del vivere: Sotto una cappa indifferente di astri / e di pianeti
in uno spazio illimite / da secoli esseri umani / hanno lottato contro la fame e il
degrado / mentre altri esseri umani stranivo / senza ritegno e senza gioia. Ancora
più forte sale la voce del poeta dinanzi al cupio dissolvi dell’uomo Come si fa / dopo
l’incendio, laggiù, ai reattori / a garantire un futuro a figli e nipoti? (E dopo
Fukushima?). La poesia di De Rosa si sviluppa su uno sfondo filosofico-etico, a volte
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
con lo sguardo elegiaco al reale, lontano da ermetismi e preziosismi lessicali cosi che
il dettato poetico risulta sorretto da un linguaggio moderno rivolto con spirito vibrante al passato e al presente.
Francesco Dell’Apa
Giovanni Baldaccini – L’Osservatore ovvero la mistica mortale di Eros,
Fermenti Editrice, Roma 2013
Giovanni Baldaccini, psicologo e psicoterapeuta, vive e lavora a Roma. Ha pubblicato saggi su riviste letterarie e scientifiche, la raccolta di racconti Desiderare altrimenti, per Fermenti e tre racconti in 3 d’union, sempre con la stessa Editrice.
L’Osservatore è composto da numerosi frammenti di varia lunghezza, che hanno per
cifra dominante una commistione di misticismo ed erotismo. Nella prosa dell’autore
si riscontra un realizzarsi di frasi brevi, che danno alla diegesi un tono di forte icasticità e sospensione. Il tessuto linguistico è scattante, nervoso e luminoso, con la presenza di accensioni e spegnimenti. Opera scritta in prima persona, ha per protagonista un giornalista che vive la vita in una doppia dimensione. Infatti alterna quella diurna lavorativa a quella notturna, passata a scrutare il cielo, il firmamento, con un telescopio, nella sua ricerca del senso profondo della vita. Nell’osservare il cosmo egli
cerca di fare luce sulla sua idea di trascendenza. Si potrebbe definire un agnostico
perché, nel suo affrontare il problema dell’esistenza di Dio, cerca una spiegazione
anche attraverso il trascendentale kantiano e l’analisi degli archetipi, come espressione dell’origine delle cose. Esiste una coesione interna tra le varie parti del libro, che,
nonostante la natura frammentaria, presenta una certa organicità.
Serpeggia per tutto il testo una triste ironia, nella descrizione di un uomo, presumibilmente abbastanza giovane, deluso dalla vita e dal prossimo. Non ama il suo lavoro, dal quale viene licenziato, ha problemi nei rapporti amorosi ed è in conflitto con
le problematiche politiche e sociali. Si deve mettere in evidenza che il protagonista
ha una notevole competenza di astrofisica e di astronomia. L’io-narrante compie un
viaggio interplanetario globale, attraverso la penetrazione dello sguardo nelle galassie puntando il telescopio, stando a casa. Nel primo segmento Notturno, si chiede se
oltre lo spazio cosmico ci sia Dio e se lo si possa fotografare. Regola il suo strumento e osserva in modo attento e particolareggiato Venere, Marte e Mercurio; si pone la
domanda se Marte sia abitato. Un altro tema del testo è quello dell’erotismo, vissuto
in modo sofferto: non a caso il protagonista chiama Amara, e non Amata, la donna dei
suoi desideri.
Raffaele Piazza
Franca Maria Catri Uccelli di passo, Edizioni Gazebo Libri, Firenze 2013
Tutti gli uccelli volano ma quelli di passo migrano insieme da luogo a luogo per
ritrovare ogni stagione la zona più adatta a far crescere il loro cibo e le temperature
che li facciano vivere e riprodursi. Così anche ciascuno di noi, come uccello di passo,
è sempre in movimento alla ricerca dei pensieri più adatti alla sopravvivenza e la poe-
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I Fiori del Male
sia diventa un percorso mobile ed elevato per esprimere questa profonda ricerca. La
prima poesia ha il titolo dell’intero libro “…/ questa è la storia / degli uccelli di passo
/ dal sud del nulla mare / che tutto sa e ignora”. E poi la raccolta prosegue in modo
sorprendente per il costante cambiamento di immagini verbali e di riferimenti complessi alle possibilità di poter “con passione e allegria / vivere il mondo / come un
giorno di sole. / come è scritto nella dedica a Giulia e Mara. Franca Maria Catri, poeta
da molto tempo e medico attivo in una zona periferica di Roma, echeggia l’esperienza costante delle più complessive esperienze della salute ed anche della sopravvivenza: “Quale che sia l’errore / si perde in mille ferite / la misura del corpo /... / bisognerà dunque aspettare / che intenerisca il terrazzo / la prima luce /-non hanno foglie
/ o appena le piante- / breve cuore d’uccello / posa sul filo / l’affetto del mattino /. I
versi si susseguono in un continuo palpitare, ali impegnate nel volo per la scoperta
dei luoghi esterni e interni dove si passa dall’alto. “cola il tempo/…/ lacrimando cortesie di ricordi/…/a capofitto è buio / o è una sera che piove/. Sono costanti le tante
domande che intridono i versi anche con suggerimenti di risposte sul senso di tanti
incontri e scontri che si perseguono nel tempo alterno dell’intera vita: / mossi dal
vento e le parole/ sorde del mondo / gli uccelli corifei dalla liquida gola / e il respiro del legno / secolare di cerchi e profumo / sopravvissute specie vegetali / lame di
verde / tagliano il tempo/. I versi si alternano in ritmi densi e a volte inaspettati e i
titoli indicano una polivalenza di temi che s’incrociano in una veloce moltiplicazione di sollecitazioni poetiche per cogliere il passo di tanti diversi uccelli nelle nostre
vite singole e comuni. Così la breve frase di Don Gallo, riportata all’inizio del libro,
è assai indicativa della certezza della poeta che sia possibile procedere oltre i confini
della vita immobile e dell’apparenza quotidiana: “Io vedo che, quando allargo le
braccia, i muri cadono”.
Roberto Piperno
Anna Ventura Antologia Tu Quoque, (1978-2013) EdiLet, Roma 2013
A una prima impressione della lettura delle poesie di Anna Ventura, non so perché
associo tre pittori tra loro differenti in tantissimi tratti, eppure vincolati similarmente dal
come trattano le cose e gli ambienti: l'olandese Vermeer, Utrillo e Morandi. (di certo ce
ne sono altri di pittori che potrebbero riferirsi non tanto ai versi della Ventura, quanto al
lindore del verso stesso, che è semplice, pulito e questo si addice, anzi si appiccica alla
domesticità, alla cameretta: non c'è bisogno di specchi per definire una tale pulitezza,
anzi lo specchio ne uscirebbe sporcato a causa di tale lindezza, suo malgrado! Mi inquieta questo risparmio dei mezzi lessicali e stilistici, ma bisogna considerare che Anna
Ventura si è formata in anni in cui le parole d'ordine oscillavano tra la Parola innamorata (dall'omonima antologia del 1978) alla «poesia degli oggetti», tra la scoperta del «privato» di una Patrizia Cavalli e il minimalismo ai suoi albori; la Ventura non
vuole rischiare che la sua poesia venga ad essere equivocata per un ritorno al privato o
per una poesia dei luoghi familiari, si attiene alle cose, agli oggetti, agli spigoli degli
oggetti, parte di lì. Non che i suoi strumenti stilistici siano minimi, molto spesso di indub-
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
bia qualità, è massima la sua attenzione al risparmio degli strumenti lessicali e stilistici,
è questa la strada che percorrerà Anna Ventura dagli esordi alle poesie inedite di questi
ultimi anni. Il rischio di non volere o dovere avvertire la crisi di una certa visione delle
cose poetiche, la spinge invece ad una osservazione e perlustrazione degli oggetti: a trarre una lezione dagli oggetti. Tutto è osservabile, ergo raccontabile; e osservando questo
e quello e tant'altro ha l'illusione di incidere sulle cose. La poesia della Ventura è in contro tendenza ma in linea di continuità con la tradizione della poesia italiana del
Novecento, la sua non è mai una descrizione asettica, ma asettica è la epochè con cui
sospende il giudizio sugli eventi poi che allude sempre a un non-detto, a un non-scritto,
c'è una morigerata educazione parnassiana in quel nominare le cose con economia e
riguardo, e terrà questo passo fino alle ultime poesie inedite... certo con strategia stilistica diversa, più attuale, ma resterà la povertà di parole che rispecchia fedelmente il vuoto
degli oggetti, la loro insignificanza, per questo tanto più significativi; il non volere o
dover pigiare troppo sulla parola, che la si vuole intatta e non deformata. E poi il verso
citato nella prefazione di Giorgio Linguaglossa «Le cose vogliono un grande silenzio
prima di prendere la parola», si allontana dall'osservazione o descrizione che sia, per
divenire riflessione, indotta di certo, che lascia al lettore il compito di continuare per proprio conto. Intanto quel «prima di prendere la parola» è roba da tribunale; che «le cose
vogliono un grande silenzio» è un Morandi azzittito, quando ogni oggetto del pittore è
un urlo, non qualsiasi, ma ben circostanziato al suo mondo. Ma il punto è nel verbo
usato: «vogliono»; come se le cose debbano possedere di necessità una volontà, come
nella poesia La parola alle cose: Altissima sui sugheri,/ cammino per le stanze./ È estate./ Sposto un calamaio pesante,/ raddrizzo un fiore / nella polla d’acqua / di un vaso di
cristallo./ In questi stessi spazi, / ampliati da un ordine chirurgico,/ ieri,/ uno sciame di
vespe mi seguiva./ Oggi tocco la realtà e le cose: / angoli e superfici tonde,/ la lucentezza degli specchi,/ la scarna ruvidezza del coccio, / la porcellana bianca / del bricchetto del latte,/ il tegamino d’alluminio / dei tempi della guerra /- oro e rame alla patria-.
Ora / mi pare di capire / perché Morandi dipingeva da recluso, / trincerato oltre una fila
/ lunghissima di stanze: le cose / vogliono un grande silenzio / prima di prendere la parola. Ma sicuramente è questa la poetica della Ventura: fermarsi un attimo in silenzio
prima che le cose inizino a parlare, dire ciò che si deve dire nel modo più semplice e
naturale possibile, come per esempio nella poesia Le statue, il penultimo verso: «aveva
trovato il coraggio di partire», lo può dire chiunque senza che faccia affatto poesia, è una
locuzione della lingua naturale.
Antonio Sagredo
Sandro Varagnolo, Memoriale della pietà, Edizioni Anterem 2014
Sandro Varagnolo nel suo nuovo libro Memoriale della pietà continua la sua approfondita ricerca poetica, che riguarda sia la struttura del verso, sia il logos, sia il tema
proposto. Egli è già ben noto per l’abilità di esporre un linguaggio raffinato, colto, a
volte quasi dotto, e la sua poesia non è certo di facile interpretazione, bensì abbiso-
101
I Fiori del Male
gna di una lettura molto attenta. Quando però si riesce ad entrare nel suo pensiero, si
scopre un mondo straricco di concetti e di emozioni. Memoriale della pietà tratta
l’esistenza, e già dal titolo si evince che Varagnolo scava nei meandri per capire il
senso del nostro passaggio terreno. Il suo percorso comprende noi tutti, con la nostra
imperfezione, le nostre azioni, i sentimenti, l’affannosa ricerca di qualcosa che alla
fine non ci soddisfa mai. Una lotta continua, sin dall’inizio, poiché già dalla nascita
si profila l’ombra della fine e sarà sempre la morte a vincere, cosicché la vita appare
priva di significato. L’ombra della morte serpeggia nelle quattro sezioni che compongono il volume e che, nell’insieme, ci offrono un’orchestrazione perfetta. La struttura iniziale si rincorre tra spazi e versi frantumati, quasi una veloce fuga per condurci
alla seconda parte dove, invece, si alterna con testi compatti. Segue la terza sezione,
nella quale il verso si compatta definitivamente, senza un minimo spazio, tanto da
divenire “assillante”, e per finire Varagnolo ci regala un “Epicedio”, con una voce
parlante e caratteri diversi. Così orchestrato, il “Memoriale” assume più pregnanza
poiché si percepisce maggiormente il dramma dell’esistere. Tutto finisce, tutto diviene silenzio. Chi resta può solo cantare il proprio dolore, con la certezza che la morte
attende anche lui. La complessa ricerca testuale di Varagnolo si sofferma sui molteplici aspetti della nostra condizione umana, quasi una meditazione sull’argomento. Ci
mette soprattutto a confronto con la caducità della vita e molte sono le domande che
si pone e ci pone per riuscire a capire se si possa trovare una qualsiasi possibile risposta. Al poeta resta solo la certezza della parola, quel nero su bianco che può continuare e testimoniare il suo pensiero. Vi è pure la consapevolezza che la vita va vissuta pur sapendo di camminare verso la morte, pur trovandosi immersi nel dolore, pur
fingendo di interessarsi ai problemi quotidiani. Non appaiono figure reali perché
anche il dialogo si sposa a una scrittura cerebrale per creare nell’insieme una memoria dell’anima; un Memoriale della pietà, appunto. Varagnolo è dunque riuscito ad
arricchire ulteriormente il suo dettato e a coinvolgerci appieno.
Laura Pierdicchi
Bonifacio Vincenzi (a cura di) Il sentiero magico, Il Musagete, Trebisacce
(CS) 2014
Il libro, fresco di stampa e ben curato nella grafica e con illustrazioni di Mina
Vincenzi, raccoglie venti favole dei nostri giorni, selezionate nell’ambito della Prima
Rassegna Festival Nazionale della Fiaba “Calabria Magica”, indetta dall’Istituto
Culturale della Calabria Il Musagete e stampato con il contributo del Comune di
Villapiana (CS). Una sintesi di queste favole verranno ora lette e votate da ragazzi
della scuola elementare di vari Comuni del Cosentino, per decretare, a manifestazione conclusa, il vincitore del Premio intitolato a Charles Perrault. “Da ogni parte
d’Italia sono arrivate numerose fiabe”, dice il sindaco del Comune di Villapiana
Roberto Rizzuto, “e siamo impegnati perché l’iniziativa, che coinvolge in modo particolare i bambini, possa essere stimolo per la continua crescita del territorio”. Anche
il Presidente de Il Musagete Oreste Bellini, sottolinea come la favola, ancora oggi,
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
“rappresenta la via maestra per il contatto con le emozioni, per il piccolo bambino” e
l’influenza che può avere per la strutturazione della sua identità e la crescita del SE’.
Bonifacio Vincenzi, operatore culturale infaticabile e da giovanissimo votato alle lettere e alla creatività artistica, ideatore e principale motore anche di quest’attività
rivolta al mondo fantastico dell’infanzia, nell’introdurre il volume “Qui tutto è fantastico. Ogni racconto è come un grande specchio dove la nostra vita si riflette. Ogni
racconto si fa metafora, parla al nostro Io più profondo”, così dice, invitando a
seguire l’intero sentiero tracciato dalle favole, respirando e raccogliendo le emozioni
che dalla lettura si risvegliano. Iniziative come queste, di alto valore morale, a più
livelli di cultura, parlano di una periferia ricca culturalmente e pregna di valori tradizionali che, sicuramente, meriterebbe più attenzione, per potersi raccordare ed essere
conosciuta, più meritevolmente e agevolmente, da parte dei grandi canali della letteratura dell’infanzia nazionale. È certo però che il valore che questa periferia esprime
è dato dalla poesia che sviluppa nell’animo della gente e del territorio d’appartenenza, nonché dalla riaffermazione del grande bisogno di conoscenza antropologico esistenziale che la favola, e la magia che con essa s’accende, continua ad esprimere e a
seminare nel cuore dell’uomo. E ne sono personalmente e professionalmente certo,
sarà la Fiaba, il Gioco, la Poesia, sarà l’Arte e la Bellezza che con esse i bambini producono, la vera strada di salvezza per la liberazione della mente e dell’animo umano,
da ogni forma di sofferenza. È per questo che Persone meravigliose come quelle che
riescono a raccogliersi attorno a sollecitazioni culturali d’iniziative come questa
avviata dal Musagete della Calabria, meritano sostegno e amplificazione e replica, a
più cordate e per più alti sentieri di magia. In un mondo confuso e distruttivo come
quello che stiamo vivendo, dove ancora l’uomo è lupo per l’uomo, e dove tutta la consapevolezza fenomenologica del sentire si annienta in un vivere irreale e privo di
autentici contatti d’alterità umanitaria, cosa di più vero c’è, se non che la concretezza della sincerità e dello sforzo di tante persone che, dell’impegno artistico letterario
ed esistenziale, fanno motivo di ricerca, per la costruzione di un uomo e di un mondo
diverso e nuovo, magico come il mondo che la fiaba e la mente del bambino, splendide metafore del futuro, continuano da sempre a proporre.
Pasquale Montalto
Armando Rudi, Residenza decastila, B&B edizioni, Como 2014
Già dal titolo, Residenza decastila, avvertiamo la vis polemica dell’autore che
costringe la poesia a farsi spina etica per un ambiente in pericolo. Lo prova sin dalla
prima Dissertazione sull’adattabilità, la sorte del gabbiano, qui reso emblema della
poesia e insieme della sorprendente adattabilità alla metamorfosi del mare nel.. male
di rifiuti della società moderna. Plasmato da Natura per flutti e scogliere amico d’avventura degli uomini di mare… ora che il mare è sciatto.. si è ridotto all’accatto del
rifiuto cosparso, tra plastiche e immondizie… sa trovare dovizie. Al remigante portento dal piumaggio elegante fanno da contrasto evocazioni di altre bestie estinte o in
via d’estinzione. Naturalmente anche l’uomo, vittima e artefice della catastrofe degli
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I Fiori del Male
habitat naturali è in zona rossa. E in questa trincea di morte prossima a causa del cattivo uso delle risorse ambientali si rifugia in un artificio di nostalgie, aggredite sempre dal duro sparo della realtà. Colonna dopo colonna la residenza interiore si mostra
forte di graffiante satira proprio nel suo essere decastila. L’antifrasi e l’amara ironia
paiono dunque le armi più usate dall’autore. Il castillo interiore, cui occhieggia, è
abilmente capovolto nel presente che affiora tra echi di miti, Ulisse, e nostalgie pastorali. Si viaggia così nel poemetto, variamente strofato, tra ricerche di valori classici
come l’amicizia, dell’uguaglianza, ci si ritrova però nella Borgata Paradiso e poi a
erigere un monumento a una mucca da latte o, dopo melodie classiche, a dire, infine,
le benemerenze della vanga. Interessanti sul piano del linguaggio alcune soluzioni,
stridenti anche sul piano fonico che danno smalto all’amarcord di altri termini più
nobili e poetici, ma qui giocati spietatamente. Essi son visti e usati nella soffitta della
bellezza degli occhi e delle orecchie e pertanto, come direbbe Benn, rapaci di luce
nella morgue della città e della storia.
Paolo Carlucci
Daniele Giancane, Le aritmie del cuore, Tabula Fati, Chieti 2013
Leggendo uno per uno le poesie di Daniele Giancane Le aritmie del cuore si esce da
un moto di fuga dall’horror pleni moto di fuga della produzione della nuova “società del
benessere” per approdare alla realtà definita, al vero senso della poesia. Con questo libro
Giancane ha lasciato indietro tutti i suoi libri e, con un accorato balzo del cuore, è ritornato se stesso, vibrando a piene mani poesie non di facciata ma di attualismo. Che vuol
dire? Ha scritto un libro per i poeti i suoi simili, gli amici, quelli dell’anima cui passa
ogni giorno a rinvenire storie, spesso amare, di poesia e di esistenza. No ha tralasciato i
poeti morti, anch’essi amici sostituendosi ad essi con un sommesso linguaggio e con
fiammeggiante ragionamento. Daniele Giancane è un compagno di strada e segue da
molti anni l’evolversi dell’onda stanca della poesia pugliese con un attento sopralluogo
delle mille anime che lo attendono e soprattutto lo coinvolgono, scrive: “le migliori
anime appartengono ai paria della terra” non solo è vero ma quando stendeva questa
massima la applicava anche a lui. Tutti i poeti appartengono alla “sacra famiglia” cui
Giancane è un oracolo pieno di senso profondo. Una poesia che più lascia a pensare
(Blues della vecchiaia) dove nomina per nome i poeti della sua “casta” e come non vedere un convicium saeculi da antico predicatore? Un libro riuscito, spiegabile, apparentemente “fuori binario” che, ad una analisi superficiale, può apparire. Andiamo a sfogliare la Sezione gli Appunti di viaggio che riappaiono i fantasmi in carne e ossa di Dragan
Mraovic, Slobodan Stojadinovic, Noma Dimic, Ljubivoje Rsumovic, LjubicaMiletic,
citiamo da (A rivederci, Belgrado): (…) A rivederci, Belgrado / dei lutti e delle fughe, /
degli assalti e dei giovani / di ritorno dal fronte / con le gambe amputate… (…)A rivederci, Belgrado / con le tue donne / statue alte / dei magnetici occhi / di ghiaccio ed amarene / A rivederci, Belgrado / dove vive appena respirando, / in tenue equilibrio / fra
Occidente e Oriente / balcanici e latini /. Un libro gradevole, non del “privato” ma della
collettività: questa poesia non va ascritta nel demanio del minimalismo.
Antonio Coppola
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
L’etica della vita in una narrazione di Titti Follieri
L’esemplarità di un testo va cercata e trovata nella sua soluzione epistemologica
non frammentaria sia pure con esempi di natura umana e psicologica. Pur tuttavia i
frammenti si trovano nel testo colloquiale, attraverso epistole, luminose e vere, che
l’insegnante di francese - Titti Follieri - indirizza idealmente ai suoi ex alunni di scuola media-superiore ma nel ricordo concreto di rapporti scolastici vissuti nella coscienza oltre che nella mente. La Follieri è nota scrittrice fiorentina (d’adozione) al suo
attivo diversi libri di poesia e di narrativa, nota anche come traduttrice. Il recente
volume, “La solitudine della cattedra” (Ed. Zona, 2013), formalmente ineccepibile,
ha il merito della leggibilità, nella sapienza didattica che la fa sentire un po’ sola nell’acutezza dei pensieri e profondità coscienziale. Si evidenzia una costante interpretazione di se stessa e - nel contempo - del comportamento e del carattere dei suoi
allievi, ai quali - per ciascuno - indirizza una lettera mai spedita, ad ogni ragazzo un
nome, in quel nome c’è tutta una vita, ancora da gestire e concretizzare. Risultano le
emozioni, i sogni, le aspettative dei giovani che non sanno il loro futuro ma attendono nello studio e nell’utopia. È un costante, emozionante rapporto tra cattedra e banchi - e così dovrebbe essere sempre nella vita, rapporti profondi tra generazioni.
Barbara, Luisa, Nicolò, Michele: nomi, ognuno una freccia nel tempo, un traguardo
da raggiungere.“Cara Maria Laura, sei stata una studentessa speciale; anche se passati trenta anni non ti ho dimenticata (...). Mi è accaduto di meravigliarmi per i tuoi
compiti scritti che rasentavano la perfezione, avevi solo 14 anni, Né per la tua scelta
della facoltà di lingue, del francese in particolare e del tuo divenire ricercatrice
all’Università (...). I tuoi studi ti hanno portato a scrivere saggi e a tradurre, sono felice per te... Una sera ho saputo che eri in servizio in una scuola. Non conosco la situazione del contesto ma ho sentito una collera antica come una ingiustizia verso una
persona di valore, dotata per la ricerca universitaria.” (pag. 49). È solo un esempio.
La Follieri è tra il passato e il presente, per ogni ragazzo. Si tratta di una secolare successione per una ereditarietà biologica e psichica. Diversi e vari i destini dei ragazzi,
secondo caso o necessità. Molto dipende dalla volontà tenace, dalle capacità e fortuna. Molte fiaccole si spengono prima di arrivare alla méta sognata. L’autrice, questa
volta, ha fatto veramente un lavoro di ricerca letteraria e interiore (l’etica della vita)
che la porta a livelli freudiani. Le siamo grati di averci offerto questa lettura - concreta e spirituale nello stesso tempo - testimonianza singola e collettiva.
Silvana Folliero
Marco Pavoni, Permanenza del sogno, Edizioni Tracce, Pescara 2014
Fra i pregevoli versi della raccolta “Permanenza del sogno” di Marco Pavoni, dedicata in esergo alla “madre, piccola grande donna che sa ascoltare il canto della vita”,
colpiscono in modo particolare quelli struggenti rivolti a un affetto scomparso: “È
questa l’ora che irida il tempo” nell’attesa di un ritorno “che sprezza l’apparire /
della fortuna dal passo incerto […] spirito che gioca / nel circo del presente”.Ciò che
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I Fiori del Male
subito si avverte dalla lettura dell’opera – il cui titolo rimanda all’ultima poesia del
testo – è la capacità dell’Autore di universalizzare, con un forte senso d’umanità, stati
d’animo e tematiche scaturite da un mosaico di attraversamenti interiori, per testimoniare una “parola” sgranata “dal margine dell’ambiguità / nel porto dell’equilibrio”.
Approdo, quest’ultimo, dove il senso panico “del divenire / sulla trama iridescente /
del divenuto” incarna un cosmo “che trascolora alla notizia / del nostro vivere sospesi / su un abisso scavato dal caos”. Pavoni porge una silloge compiuta, nella quale la
scansione delle linee d’ombra e di luce, filtrate dalla razionalità dell’intelletto,declina una voce poetica sgorgante certamente da un raffinato itinerario metodologico e
lessicale. Emerge dai componimenti una ricerca di idee, valori, archetipi e dubbi tesi
a indagare il senso dell’essere in frammenti dell’io e di alter ego, spesso “divisi dalle
discordanze / di un moto non più uniforme” o celati negli intimi segni di incancellabili ritorni. Le unità liriche, con sapiente orchestrazione e sensibilità, trasportano
verso dopo verso ad alte incandescenze di contenuto e originale sonorità, incarnandosi in un l’esito vivificante capace di “risolvere la tensione / del momento in un anelito / che varca la soglia dell’infinito / per carpire al tempo / scintille d’immensità”.
Emerge la meditazione sul destino stratificato di esperienze spesso dolorose, con
l’aspirazione a trascendere il memoriale emotivo tramite le illuminazioni dell’amore
“che sempre costella di sorrisi le labbra […] / che il vero e il falso esaltano” pur “rievocando, a tratti, / le occasioni mancate”.La persistenza di una visione onirica aiuta
a controllare il reale quando la malinconia coglie di sorpresa e destabilizza ciò che
resta “d’una speranza promessa” nel tempo in cui “parvenze ancestrali / marciano
nei pensieri divergenti / dall’infinita vanità del tutto”.Mentre appare “l’essenza sfuggevole dell’indifferenza” e “il bianco stupore del canto / affonda nello stupro del
mondo”, allora è la poesia, tormento ed estasi, a ricomporre la cifra inquieta di turbamenti e passioni in vitali barlumi che s’interpongono “tra gli affanni dell’uomo / e la
limpida lucentezza / del sogno sottratto al dolore”. Sembra che ogni brano segua una
forma di regola spirituale per discernere un ordine “sul velo di questo tempo” impoetico, nel desiderio di “risaldare i raggi della ruota, / divisi dalle discordanze / di un
moto non più uniforme”.La consapevolezza della propria e dell’altrui dolente tragicità nei confronti dell’esserci sotto un “cielo spoglio dell’armonia” si traduce in un’intima chiarificazione “che respinge lo sfregio delle ere”. Il canto, pur ferito, distende
una speranza sul pentagramma esistenziale, come una sinfonia dolente protesa a rigenerarsi in un oltre d’eternità, varcando metaforicamente “le colonne d’ercole del
tutto”.La percezione della friabilità delle terrene esperienze, consumate sempre più
nell’indifferenza che s’insinua nei nostri giorni, rimanda al malessere di un’intera
generazione con grande versatilità e ampiezza dei temi affrontati: “Ricordi, mutamenti e destini / si rincorrono col ritmo / che la vita propone” alla cronologia degli eventi. Tuttavia anche quando “è follia sperare nel tempo / che si nasconde dietro una
bugia” o quando gli ideali si perdono “nell’inquieto compiersi della vita”, basta “un
sogno” a sostenere il poeta, a distanziarlo dalla visione della contemporanea devastazione, a trasformarne i bagliori d’intuizioni “nell’oro d’un verso complesso”.
Daniela Quieti
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
Themistoklis Katsaounis, Paesaggi immensi dell’ afflizione, Aletti editore, Roma 2012
Racconti lirici, tappe di un cammino che si sostanzia di sguardi e domande sul proprio
sé e sul giardino interiore in ci si ama smarrirsi per fiorire alla vita e alla poesia; questo
cerca di fare nel suo ultimo libro, Paesaggi immensi dell’afflizione, il giovane autore
cipriota Themistoklis Katsaounis. Testo profondamente esistenziale e pervaso da sogni
impediti spesso di realizzarsi in virtù di un’inclinazione all’angoscia, al diaspro del dolore che deprime ed intorbida anche la natura. E appunto Mare intorpidito è il titolo di uno
dei più significativi racconti in forma di poesia, di cui si compone il libro. La depressione intorpidisce il mare, lo addormenta profondamente.. Tutti quelli che hanno questa
palude nella loro anima, sanno benissimo che significa fallimento, dolore, infelicità.
Questo stato di essere frammento di luce triste porta alla peregrinazione continua di sé e
del proprio andare onirico che vede nel passato, nell’ancestrale eden, i presagi di un’adolescenza inquieta, diversa, rassegnata al rintracciamento nei sentieri della memoria della
disperazione di sé. In questi paesaggi sterminati, immensi di cosmico dolore si staglia il
profeta, la voce del poeta che sente, canta e descrive, a lato della folla, i colori dei sentimenti, condisce lacrime con calzanti metafore di una Grecia, scrigno di poesia, ma
segnata dalla notte della crisi cui pare risplendere tra nubi l’inquietudine della vita in radi
raggi di sole di evanescenti spettri d’amore non colto, ma ahimè solo sogno che illude ed
eterna l’afflizione. A dismisura.
Paolo Carlucci
Giorgia Chaidemenopoulou , 7 Favole …7 Colori dell’arcobaleno, Aletti
editore, Guidonia (RM) 2013
Ci piace entrare nel vivo in una fonte primigenia di vita verso un discorso, mai labirintico, ma prosciugato dalla capacità icastica di soffermarsi con botta e risposta rapida nei piccoli giochetti tra bimbi e natura circostante, con i suoi sortilegi pullulanti di
animali di tutte le specie che divertono i più piccoli. La capacità della scrittrice sta nel
sapere imprimere chiarezza ai dialoghi dei personaggi, di volta in volta, che si presentono nel contesto della favola. Ciò è un chiaro segnale di capacità e padronanza
linguistica maturata dopo un esercizio frequente e appassionato dentro il mondo dei
gnomi, di folletti, di esseri “leggieri” come soffiati, ripescati dentro la psicologia dell’autrice con abilità straordinaria. Vivo e secco il linguaggio. La favolistica della
Grecia è percepita così, gioca con la natura tutta gestendola nella sua aurorale, primigenia coralità con gli animali di ogni specie che popolano la geografia del territorio.
Giogia Chaidemenopoulou riesce a sognare insieme ai bimbi e tra loro nasce un’intesa osmotica dell’evento, il quale aggiunge mistero nel sogno stesso dove nasce; una
capacità che infonde speranza in questo Eden, paradiso di delizie, che i giovinetti
fanno scorrere nelle loro dita nella dovizia dell’infanzia in corale abbraccio e determinata misura. Bella, alata, ci pare la favola La fonte della conoscenza ricca di magici eventi, di piccole furbizie di domande rivolte ai piccoli sulle acque sorgive nelle
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I Fiori del Male
nature rigogliose. La sensibilità visiva posseduta dalla Chaidemenopoulou fa sì di
portare a sé il discorso e tramutarlo in favola dentro la musicalità propria delle parole che diventano leggere, fantasiose e imprendibili. La traduzione italiana fatta dalle
sue mani esperte è impeccabile, senza sbavature o rimandi oziosi, siamo ad una maturità espressiva di indubbia valenza e spessore.
Antonio Coppola
Enrico Bagnato, La moglie di Sir William , Gruppo poeti La Vallisa, Bari 2014
Proporre per titolo un libro La moglie di Sir William è quanto meno da disfida, per
un autore come Bagnato che non è un fantomatico poeta di nicchia, né uno spadaccino
furbo o mattacchione. Bagnato ha operato e opera dentro un nucleo distinto, proprio
mettendo a sfida la poesia di tutto il libro “La moglie di Sir William”, personaggio
inventato o no. Conquista per la coniugazione intensa di un amore assai precario che
finisce la sua espiazione in una cella del torrione di un Castello. L’autore vede tanti Sir
William da enumerare ognuno con i tratti dell’insofferenza amatoria. Le poesie di un
scrittore collaudato e inesauribile rappresentano un perfetto documento di sintesi di una
vita passata per e con la poesia. Sarà anche “ossimoricità” come dice Pegorari, ma cosa
significa “la resistenza inerziale dei modelli, dei generi e degli immaginari pregressi”.
Bagnato è un poeta da tavolino, da caffè, alla vecchia maniera, dove (nei caffè) scriveva Pierro i suoi stoccanti dialetti. Una poesia meditata, tangibile, raccontata; la sua efficacia deriva dall’esercizio stilistico che in Bagnato è fuso dentro una cultura assolutamente piena, robusta. In questo libro si sente la franca disinvoltura nel poetare, quasi
l’ebbrezza, una sua visionarietà geografica e metodologica, si legga la potente e animata Bisceglie: “Se dovessi scegliere un posto per viverci, / sceglierei Bisceglie, in
Puglia…/[…] Una volta a Bisceglie, c’era / un rinomato manicomio. Ora non più” […]
C’è tutto di tutto, servito in gentile cornucopia. / A Bisceglie come in tutta Italia e specialmente al Sud, / si mangia bene e sano. Trovi carne di pascoli, vino vero, / pesce fresco, mozzarelle, focacce, taralli e dolci / della migliore tradizione pugliese…”. Credo
che Enrico Bagnato non è un poeta che può essere messo da parte, non sussurra ai cavalli, vive la sua semplice vita toccando con mano sempre in un posto diverso e quando
avvengono cose nuove siate certi ci darà notizia.
Antonio Coppola
Lina Furfaro, Giuditta Levato, la contadina di Calabricata, Falco editore,
Cosenza 2013
La lettura del romanzo Giuditta Levato La contadina di Calabricata ha rappresentato un utile contributo per riandare con la memoria al periodo postbellico di una
Italia, prostrata e affamata, durante il quale si assistette in alcune aree del profondo
Sud alle lotte dei contadini contro gli agrari per coltivare la terra e rendere meno
afflitta la vita familiare, immiserita da una borghesia, avida e violenta e da una tradizione feudale di marchesi e principi. Il 28 ottobre del 1946 a Calabricata Giuditta
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
Levato, madre di due figli e in stato di avanzata gravidanza, partecipa all’occupazione della terra e durante aspri scontri, gli agrari avevano reclutato uomini pagati per
reprimere il movimento, viene ferita gravemente da un colpo di fucile e muore in
ospedale. Il romanzo ha una architettura a spirale e la storia, raccontata con dovizia
di particolari, si dipana in un climax sempre più incalzante di avvenimenti che segnano l’esistenza della protagonista Giuditta Levato sino all’evento tragico della sua
morte. L’incipit del testo ha una pacata cadenza poetica e un forte impatto di crudo
realismo, prevale la descrizione immediata e rapida dove l’immagine diviene pensiero e la parola testimonianza: Un gruppetto di case appollaiate a pochi chilometri dal
mare… Questo era Calabricata. L’inizio epigrafico raffigura in modo mirabile il palcoscenico naturale dove si svolgono quasi tutte le azioni e si consuma il dramma della
quotidianità dei personaggi, tutti ben caratterizzati e con un ruolo preciso nell’economia del romanzo. Lina Furfaro attraverso una fitta rete di temi e di situazioni dimostra notevole capacità di scrittura nella rappresentazione oggettiva di figure concrete
e di personaggi che attestano tutto il valore e l’intensità dell’opera. Emerge una situazione sociale insostenibile e in una siffatta realtà greve vengono colti comportamenti umani di amore e di amicizia dove non domina l’egoismo o la prepotenza bensì la
solidarietà tra le persone in ogni manifestazione di vita quotidiana. I temi della povertà della terra di Calabria li troviamo bene descritti nelle opere di famosi scrittori: Chi
non ricorda Corrado Alvaro con il famoso attacco in “Gente d’Aspromonte”: Non è
bella la vita dei pastori in Aspromonte, d’inverno, quando i torbidi torrenti corrono
al mare, e la terra sembra navigare sulle acque…” e poi Seminara, Repaci, Strati,
Perri, La Cava. La scrittrice, attenta e acuta osservatrice, non si lascia sfuggire la possibilità di sottolineare il sentimento fatalistico nelle azioni dell’uomo, non solo come
forma di sottomissione al Divino, da qui una religiosità profondamente sentita, ma
pure retaggio di una pregressa cultura magno-greca che ha lasciato una indelebile
impronta. Altro aspetto non secondario nel romanzo è la rappresentazione della natura che ora si manifesta nell’esplosione di colori e di profumi degna delle descrizioni
del poeta greco Teocrito ora si dimostra matrigna nel rendere più difficile la vita della
gente. Nella narrazione la figura di Giuditta Levato è sempre presente e il lettore la
sente familiare e vicina. Amore, gioia, dolore, dignità, libertà sono i sentimenti che
attraversano la sua vita, pertanto il suo esempio, in un discorso diacronico, può diventare patrimonio comune anche in un tempo come il nostro che cambia vorticosamente in cui l’ipocrisia, la violenza e la corruzione rendono complicata la vita del cittadino. Il messaggio, dunque, che Giuditta Levato comunica a tutti è quello di non
lasciarsi vincere dall’ingiustizia, per paura o viltà, ma lottare per la libertà perché alla
fine il bene prevalga sul male. Pregio di questo libro, composito e ricco di storia, di
tradizioni popolari, di riflessioni socio-culturali, di usi e costumi consiste nell’ avere
raccontato fatti ed episodi realmente accaduti con un linguaggio chiaro, misurato ma
nel contempo concreto. L’intercalare talora del lessico dialettale nei dialoghi o nel
riferire motti popolari da bellezza e sostanza al racconto rendendolo vivo e reale. Non
vi è nessuna caduta di stile o tentazione retorica. Lina Furfaro con questo romanzo ha
compiuto non solo una suggestiva e lodevole operazione letteraria ma ha contribuito
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I Fiori del Male
anche con rigore e sensibilità alla divulgazione storica di avvenimenti forse caduti
nell’oblio e certamente sconosciuti alle nuove generazioni e per questo motivo gliene va dato il giusto merito.
Francesco Dell’Apa
Enrico Bagnato, Poema Garibaldi, Tipografia Cortese, Bitonto 2014
La domanda che il lettore si pone leggendo il libro Poema Garibaldi è cosa ha
indotto Enrico Bagnato a scrivere in forma poetica la vita di questo personaggio mitico, molto amato da una storiografia libera che ha influenzato il popolo. In Italia non
vi è città o paese che non gli abbia dedicato una piazza o una via. L’autore poeta
molto stimato, valente scrittore di opere teatrali ama scrivere su personaggi che hanno
suscitato una grande eco non solo nella storiografia ma pure nel popolo. La loro vita
avvolta in un alone di leggenda affascina e accende la fantasia. Dall’incipit balza in
primo piano la narrazione autobiografica di Garibaldi. Intorno a lui si muove una pletora di personaggi di alto rango o di modesti natali che rendono avvincente lo svolgersi degli avvenimenti. Il poema ha un ritmo ascendente in cui l’io narrante, Garibaldi,
percorre la sua vita dall’alfa all’omega: Nacqui a Nizza…e come chiusa Da giorni
scorgo sopra il davanzale due capinere […] Ogni alba vi si posano e attendono / di
volar via insieme. L’incalzare delle elencazioni della vita e delle imprese fa emergere una figura composita di uomo di azione e di lotta amante della vita, innamorato
delle donne e contraccambiato in ogni latitudine, fornito di grande acume militare, di
straordinaria forza d’animo, di immensa passione per la patria. Ne viene fuori il ritratto di un uomo, le cui motivazioni sono uniche ed esistenziali, che cattura, sorprende,
fa battere il cuore e invoglia a soffermarsi e a meditare sulla sua storia inimitabile.
Non solo, dunque, l’aspetto storico e immaginario ma tutta la drammatizzazione del
racconto lasciano alla fine il lettore ammirato di questo “eroe”: generale, condottiero, patriota come figura importante del Risorgimento italiano.
Francesco Dell’Apa
Sandro Angelucci, Rescigno il racconto infinito, Blu di Prussia editrice,
Piacenza 2014
L’orma viva della poesia di Gianni Rescigno, acquisita nel suo inequivocabile valore, viene affidata alla preziosa prefazione di Giorgio Bárberi Squarotti e allo studio
intrapreso da Sandro Angelucci divenuto sentiero prezioso tra cielo e terra, tra l’amore del vivere e l’inesorabile tempo che si frammenta tremula luce e ci oscura nel corso
degli anni. Sebbene la tenacia poetica oppone resistenza, tanto per non smarrire il
cuore sensibile e percettivo, che tanto vorrebbe custodire e salvaguardare, quale alleanza sovrana dell’oltre. Una condizione viva, estesa nell’arco del firmamento, seppure limitata a ridursi in un lieve desio, che s’apposta verso l’auspicio del bene, sino
all’estremo riflesso della speranza, pur nella consapevolezza del breve esistere. Pur
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
librando nel cerchio d’un volo, il senso infinito del poeta, divenuto tutt’uno tra vita e
morte, flusso che dilaga e smuove gli umani confini. Inutile soffrire la solitudine
allorché il grande lago della poesia, si muove in argento al suo dolce luccichio.
Finché, non si ha la convinzione che la certezza della “morte non è la fine, (ma,
bensì), è il trapasso, ancora di più: è un punto d’aggancio: / un passo lontano (in arrivo da dentro), / Un passo che aspetti dall’inizio”.La voce critica di Sandro Angelucci
si sofferma nell’uniformità del percorso poetico, nelle versioni del confronto tra vita
e morte. Una iniziativa del critico per coglierne l’esito giustificativo di levare al cielo
l’eco dell’accostarsi nella continuità dell’affidarsi alla speranza. Unica congiunzione
che si conclude nel chiedersi il perché delle molteplici istanze, per non restare dispersi nella contemplazione di ciò che ci sovrasta. Una ricerca infinita del senso della vita
se poi, si deve comunque giustificare, la continuità del credere per non perdersi nel
fondale oceanico ma, bensì, conservarsi in custodia di vita.
Graziano Giudetti
Mario Melis, Notizie dall’isola, Edizioni Cofine, Roma 2014
Poesia inusuale e per questo ‘difficile’, in quest’opera dove le coordinate spazio – temporali sono annullate e i testi che la compongono convergono, nella misura del poemetto,
verso quello centrale, Alla ragazza di Auschwitz, sicché figure di tempi e luoghi diversi
precipitano nell’identificazione con la vittima della Shoah. Il fatto è che dopo l’affermazione di Adorno, per cui dopo Auschwitz non si può più scrivere poesia, non è possibile
prescindere dalla contraddizione tra l’arte, volta nell’intenzione alle finalità della bellezza, e la coscienza dell’orrore di cui l’uomo è capace, con il pericolo di smarrire nella poesia l’incommensurabilità del male, rarefatta nella sublimazione. Perché quella tragedia, a
differenza di altre, evidenzia le specificità di negare alla radice l’uomo, sia nella veste
della vittima che del carnefice. Sicché se la poesia è insopprimibile, siccome legata all’esistenza stessa dell’uomo, per sottrarsi al compiaciuto carattere ludico, in cui va spesso adagiandosi in un’irrilevanza di senso (bene lo chiarisce nel n. 57 della rivista I fiori del male
Giorgio Linguaglossa), per riacquistarne uno, non può che sottintendere implicita la persistente consapevolezza di una ragazza di Auschwitz. Perciò in questi versi il dettato si fa
sempre più alieno da qualsiasi ipocrita tenerezza e sceglie la strada tutta in salita di una
razionalità ascetica che i turbamenti nel cuore considera quasi blasfemi davanti al rinnovarsi delle ceneri di Auschwitz: e cadranno le foglie di una donna / in attesa di un frutto. E tutto nelle due isole che compongono ciascun essere umano: quella che egli è e quella cui aspira, reciprocamente influenzatesi, alla fine sono entrambe l’Itaca nella copertina
dell’opera. Il mito torna con la polisemia atemporale, o trasversale nel tempo, come nelle
suite dell’esordio (Perché pensi ancora alla guerra di Troia? / Quest’ombra che sta
davanti o dietro, / la sagoma della precarietà…) e ogni figura nasconde, retrostante la
consistenza dell’essere, un’ombra. Alla ricerca di riferimenti, Cristiano Franceschi sottolinea nella breve prefazione i rimandi a Jabés de Il libro dell’assente’, a Cesar Vallejo
(Andiamo, dunque, compagno / ci aspetta la tua ombra premunita / ci aspetta la tua
ombra acquartierata…) e, ineludibile, naturalmente, Paul Celan.
Laura Rainieri
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I Fiori del Male
Francesco Forlani, Parigi, senza passare dal via, Laterza Editori, Bari 2013
Se dovessi scrivergli una lettera comincerei così: “Caro effeffe - questo è il soprannome con cui F.F. ama presentarsi - che il tuo viaggio sia lieve e radioso come il tuo
sorriso aperto e picaro, temprato alla vita e alle amarezze. Ho scoperto e conosciuto
Parigi leggendo questo romanzo. Mi sono emozionata a sentirla palpitare attraverso
la storia di personaggi veri o inventati, felici o affezionati al dolore, con gli imprevisti e le casualità che la vita regala. E l’altro giorno mentre mi mettevo un cerotto su
una mano ho pensato, chissà se anche io, come il protagonista, ho le mani bucate e
tutto ciò che raccolgo rimane o volerà via…”. Sto parlando di Francesco Forlani,
autore talentuoso e versatile con una grande vocazione per la scrittura. Nato a Caserta
e vissuto tra Parigi e Torino, scrive sia in italiano che in francese e passa agilmente
dalla narrativa (bellissimo il suo romanzo omaggio a Pavese “Autoreverse”), alla
poesia (ultimo libro pubblicato “Il peso del Ciao”), al teatro (come gli spettacoli
“Patrioska” e “Cave canem”), alla critica e al giornalismo (redattore del noto blog
“Nazione Indiana”). Ottimo performer, originale e trasgressivo, ironico e fantasista
(per usare un termine che ha un significato calcistico, considerato che Forlani gioca
a calcio!). È uno che ama le sfide al punto che nel 2011 ha deciso di scrivere un
romanzo a puntate su facebook, aperto a commenti dei lettori che potevano partecipare alla scrittura-stesura e poi, attraverso un’operazione di self-publishing, lo ha
stampato e venduto a tiratura limitata in numero di duecento copie, portandolo a
domicilio a tutti i suoi lettori in giro per l’Italia e non solo. Questo romanzo, in parte
autobiografico, dal titolo “Chiunque cerca chiunque” - con sottotitolo ‘romanzo picaro’ - ha dato l’abbrivio al romanzo successivamente pubblicato nel 2013. “Parigi,
senza passare dal via”, e ne ha rappresentato una prima versione (come lo stesso autore afferma). La personalità prorompente e dirompente di Forlani c’è, sta nelle pagine
del libro, guida il protagonista del romanzo coinvolgendo il lettore come in un gioco
(il gioco del Monopoli che è anche metafora della vita). Ed è impegno, energia,
bestemmia, e quella fiera determinazione di uomo del sud! In questo caso vita e letteratura coincidono davvero. Il titolo del romanzo fa riferimento a una delle regole
del Monopoli: il giocatore che si trova spedito da qualche parte, tra prigione, imprevisti e probabilità e “senza passare per il via”, quindi senza ricevere l’incasso che quel
passaggio gli avrebbe fatto vincere, deve affrontare la lotta quotidiana per la sopravvivenza in posizione di svantaggio. Quel che Francesco Forlani ci racconta sono proprio le (dis)avventure di un bohémien di fine Novecento che insieme a un gruppo di
amici insegue il sogno di fondare una rivista d’avanguardia “La bête étrangère”. Ogni
capitolo, infatti, riporta accanto ad un breve titolo anche l’arrondissement in cui si
svolge l’azione ed un disegno che lo identifica nella scacchiera dei venti arrondissements parigini dove il protagonista, con i suoi amici, si aggira nei quartieri di una città
multietnica tra locali jazz e bistrot affollati di fumo e alcol. La girandola di personaggi che si avvicendano si dibatte tra suoni, silenzi, rumore e azione, in una città come
Parigi che rappresenta proprio movimento e frastuono: “Qui a Parigi le cose sono,
mica somigliano a sé stesse..”; questa Parigi con le sue abitudini, contraddizioni,
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
dolore e umanità descritti con un entusiasmo e una passione che non si perdono mai.
L’autore scruta con occhio curioso i molteplici attori del palcoscenico della vita, lo
spazio in cui si muovono, lo esamina e lo restituisce nella realtà, come l’immagine di
uno specchio, modellandolo col suo linguaggio forte e sperimentale - un pastiche tra
francese e casertano - e il suo stile immediato e d’impatto che tira dentro il lettore. Il
ritmo narrativo è veloce e dinamico, ci sono impennate e sobbalzi da equilibrista che
lo rendono godibile e spiazzante. Un diario non solo di ricordi e di sogni, ma soprattutto di libertà, viaggi e amicizia tra distacchi e sorprese. Molto intenso il 14° capitolo “Il dolore dondola” sulla malattia e la morte della fanciulla che pare una madonna
del rinascimento, capitolo che termina con una poesia i cui versi finali dicono così: “..ella
non s’apre al cielo ché non v’è più cielo/ma solo all’anima e scompare.”Trattandosi di
gioco, nell’ultimo capitolo intitolato “Le mani bucate” l’autore, con un passaggio molto
significativo, fa riferimento alla fortuna quando racconta dell’incontro con una zingara
magrebina che nel leggergli le mani gli dice che ha “i buchi dentro”: “...Così m’era venuto in mente quella volta che a passeggio con mio padre alla Rue Miollis...a un certo
punto mi ero fermato che c’era una monetina per terra davanti a noi.” - “Sei fortunato, raccoglila no?” – “Papà, secondo te uno che si abbassa per raccogliere venti centesimi è fortunato o sta proprio inguaiato?” – “Così avevo chiesto alla femmina
magrebina quale fosse il rimedio a quel pasticcio del destino”…“Devi chiudere i
buchi” – “Chiudere i buchi? Come si fa?” – “Bastano due cerotti grandi abbastanza e
vedrai che ti rimarrà fra le mani quello che raccogli in giro.”
Monica Martinelli
SPeCCHIO DI MALIe DI ANTONIO COPPOLA
Non è la prima volta che una raccolta di poesie di Antonio Coppola mi richiami alla
mente la Recherche di Marcel Proust, le intermittenze del cuore, la lotta della scrittura contro l’oblio. In questo suo recente aureo libretto, Specchio di malie – elegantemente corredato da disegni del pittore Adriano Gentili – edito da entrambi in 150
copie -, l’irruzione del passato nel presente del poeta fa deflagrare, con la forza tellurica di un improvviso innamoramento, la vitalità fuori dal tempo di un antico amore.
Un amore che si rinnova, rivive, si eterna nella parola e ferisce a morte, come la prima
volta. Un amore a 360 gradi fatto di sentimento e passione, etereo e carnale al tempo
stesso, che come tutti i veri amori si prospetta come mistero. (“E ti guardo mistero su
me”). Non è soltanto questa la malia in cui cade in preda il poeta, ma pure egli stesso magicamente si trasforma in “sogno / vento di Calabria / che si prepara alla notte.”
Ancora una volta, come allora, l’amore ha un completo compimento, anche eroticamente, nel gioco che i cinesi d’antan chiamavano “del vento e delle nubi”…Dopo
l’accensione memoriale, resta la cenere, “meteora d’anni inquieti”, un “antico amore
andato” di “ un secolo che fu soltanto ieri”. Ora che te ne sei andata – conclude amaramente il poeta – “ghigna la mezzaluna sopra le stelle.”Ma tutto rimane racchiuso e
reso “immortale” nello specchio della poesia.
enrico Bagnato
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I Fiori del Male
IL CIELO IN UNA STANZA
e la religione del rapporto amoroso
Le parole con cui Plinio Perilli mi ha annunciato l’invio del suo ultimo libro - questo inesorabile e inesauribile CANZONIeRe D'AMORe. Tutto sofferto o goduto in
prima persona e solo DOPO testimoniato sulla pagina! - ci spingono a fare alcune
riflessioni sulla scrittura: si compone durante o dopo ogni esperienza vissuta? Durante,
come nel caso di Isabel Allende che in Paula scrive il lucido diario della malattia della
figlia o a posteriori, come nel caso di Casanova o di Dante Alighieri: Nel mezzo del
cammin di nostra vita MI RITROVAI in una selva oscura? Si scrive per se stessi o per
gli altri? Che ruolo ha la memoria? Perché si scrive? Plinio, come dice Yukio Mishima,
si dedica all’arte dopo aver vissuto, descrivendo molto intensamente un percorso interiore lineare e strutturato. L’amore ha i suoi tempi, dal primo bacio fino alla sua conclusione. E noi ci immedesimiamo, ognuno con la propria storia, in questa che è LA
STORIA di un amore, di tutti gli amori fioriti o sepolti dalla Storia. Si comincia con
un bacio - baciavo in te, con te, la vita. Come quello di Rodin? Di felicità pura, chiarezza accecante (Com’è che ti baciai?), con forza e piano. Bacio-fusione: quattro
labbra un bacio (Desiderio).Come non ricordare Cyrano di Bergerac che del bacio
scandaglia tutti i più reconditi significati? Un bacio – ma cos’è poi un bacio? Un giuramento un pò più da vicino…Il bacio è il momento in cui dall’”io” e dal “tu” si
diventa “noi”: e il Noi così inizia, / annettendo, soggiogando l’Io - Com’è che ti
baciai?). Bacio che non si rinnega mai. L’amore nasce (Sempre amore è una nascita) e, come nelle liriche di Baudelaire, la donna è vista come un viaggio: Ti penso
come un bel viaggio (Un’anima), sospesa tra realtà e sogno, viaggio tutto interiore per
Plinio, esteriore, ammantato di lusso, ma tuttavia interiore, quello di Baudelaire:
Fanciulla mia…Non pensi tu alla gioia / Di vivere laggiù?... In quel paese che assomiglia a te! (Ch. Baudelaire, Invito al viaggio). Perché esiste UN LUOGO per l’amore e per Plinio è il cielo. L’amore nasce e non sa ancora di sé, non è cosciente: Non
t’amo e t’amo – da oggi, oppure / non ancora (Nato per te). Sarà amore? Dopo,
seguono le promesse, le confessioni, i rancori, le distanze, le assenze (Mare in sogno),
le liti, la fine. Noi che leggiamo immedesimandoci nella storia di Plinio, che viviamo
con lui l’evolversi dei sentimenti e della passione, che seguendo forse con un po’
d’invidia questi amanti in volo, ci chiediamo anche: quando si arenano i colori e
come? Quando dal cielo poi si tocca terra miseramente in caduta libera? Abbiamo
sufficientemente annaffiato la nostra rosa? Le metafore del sogno (Ma cosa sogni, e
soprattutto chi?- Cielo e mare) e del volo ricorrono spesso. Quella del volo è rinforzata da una serie di allusioni che va dall’azzurro al cielo (dove solo Amore può entrare), dalla nuvola (nuvole sono sogni) alla luce, tutto conduce all’atmosfera rarefatta
in cui vive l’innamorato, proteso fuori dal mondo, in una sorta di idealizzazione della
donna amata. Non tocchiamo forse il cielo con un dito quando siamo innamorati?
Anzi la realtà è talmente stravolta che della casa i mobili scompaiono e il soffitto
diventa cielo. Il termine “azzurro” è frequentissimo, è il colore degli amanti in volo,
contrapposto al grigio, quello di tutti - nella lirica Al pianto - è citato quattro volte!
E quando non è azzurro è blu o celeste. È l’azzurro romantico: La letteratura del-
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
l’epoca dei Lumi e poi quella del primo romanticismo riflettono la nuova moda dei
toni del blu: l’esempio più notevole è costituito dal celebre abito blu e giallo di
Werther (…)”. (M. Pastoureau, blu, storia di un colore). Quando siamo innamorati
non ci sembra di sognare? L’amata, nata da un sogno, è essa stessa volo: Dalle tue
braccia / ali riconosco/ il volo! (Dalle parole) e trascina in volo, in un mondo arioso
e protetto. Donna angelo: Angelo sempre felice, pien di gioia e di luce! (Ch.
Baudelaire, Reversibilità). Donna-dea: Se oggi in te m’apparve una Dea…(Cuore di
sasso). Quando non è fiore, rosa aulentissima con tanto di steli, petali, spine per esaltare attraverso la sua bellezza quella della donna amata. La rosa è il simbolo del dono dell’amore, dell’amore puro. Il tema del volo trova il suo punto culminante nella sezione
intitolata Grande Ricognizione Aerea 2/33, in Pungiluna e l’Invisibile, dedicato
all’aviatore-scrittore Antoine de Saint-Exupéry che ha fatto del volo fonte di vita e di
scrittura: anche lui vola di notte con gli amanti. Delicata rievocazione della gioia pura
del volo, metafora della vita: quanto costa l’alta quota? Costa quanto si è disposti a
rischiare. La vera protagonista di questo canzoniere è la parola, la parola che viene dal
sogno, mima i silenzi, fa da ponte, che è figlia della Poesia. Insomma, scrivere per volare, per inseguire, direi, l’azzurro, quello di Mallarmé: l’Azzurro trionfa. Concludo con
un’ annotazione linguistica: Plinio predilige termini con la “s” privativa che, davanti ad
una parola, ne indica il contrario - svelata, svaporata, sfarinato, spopolato ecc. (viene
dal latino ex-, significa uscire da un luogo o da uno stato). Che cosa toglie? Ma il brutto naturalmente per lasciare solo il bello!
Fausta Genziana Le Piane
Salvatore Ritrovato, L’angolo ospitale, nota critica di Gabriela Fantato,
Milano, La Vita Felice 2013
«Ogni giorno è il primo e l’ultimo / se dietro cessa di esistere / fitto e solido il tuo
futuro». Giorni, e giorni passati in giudicato, il proprio io e lo sguardo su familiari e
sodali, su luoghi (Urbino, Berlino, Venezia). Perdite e attese, sbarramenti e riprese:
un andare che, nel lasciarsi indietro volti e paesaggi, parole e incontri, conserva tutto
il sentire dentro una ricerca vitale come fibra che non si interrompe né svanisce. Un
viaggio avvenuto. E in corso: perché il finito è tale solo nel rapporto evidente, slittato, peraltro, nei figli da esso nati; perché il finito viene interrogato con la calma che
solo la lontananza o la distanza agiscono; perché il vagare-viaggiare è condizione
della vita che si fa mentre la si vive. Magari rifugiandosi in un angolo ospitale: che
non è rimpianto ma solo calda constatazione. «Questa cosa, se un giorno me ne ricorderò / altrove, perso in dotte e ardite conversazioni, / fu l’impossibile svolta di una
vita parallela / alla vita che ogni giorno si svela come una vena / mortale ma chiara
di noi e nei bambini corre / avanti, nella sua strenua innocenza». Salvatore Ritrovato
ripercorre il viaggio dentro un cono d’ombra (un suo dvd del 2011, tre giorni a
Srebrenica, regia di Andrea Laquidara) e all’ombra della memoria (ultimi suoi studi
su Paolo Volponi, da poco in libreria e nelle attenzioni dei critici). Lo ripercorre allargando la visuale e proiettandola in profondità rispetto a Quanta vita, esordio poetico
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I Fiori del Male
del 1997. Centellinando i versi, distendendoli in trasparenza perché siano aderenti
all’intensità del quotidiano e, nello stesso tempo, più sottili nel dare senso ad una
ferialità ferita e sempre in difetto di qualche sostanza. Tale scarto, all’apparenza detto
in via sapienziale, nasconde e rilascia la sofferenza del non più e della pena di esistere. Lo rileva Gabriela Fantato proprio quando scrive che vi è nel testo «un senso di
perdita e di esilio, vissuti come status permanente dell’esistere, con la conseguente
percezione della fragilità della felicità e, talvolta, persino della sua impossibilità».
Impossibilità a fermarsi sul desiderante, sul poeta, sulle persone tutte, divenute participio di necessità.
Maria Lenti
DOMUS AUReA: LA CASA CON IL BALCONE
DOVE NON APPASSISCONO LE ROSE
Il tόpos di questa poesia - sebbene allegoricamente contrassegnato dalle pareti e dalle
pertinenze di un’abitazione - non è un luogo chiuso, circoscritto voglio dire. Al contrario, il suo è uno spazio che tende ad espandersi, ad abbattere gli steccati affinché, nella
casa, entri la luce ed affacciandosi al balcone si veda “il sole in bicicletta” mentre “(scivola) / lungo muri di cielo / colorati di blu.”. I riflessi, allora, danno vita alle ombre, penetrano negli interni e la Domus diventa Aurea (Eugenio Rebecchi. Domus Aurea. Blu di
Prussia 2011) proprio perché dorati sono i bagliori che la investono. Più che di sfacciata solarità, tuttavia, è qui corretto parlare di chiarore soffuso, di selenica luminosità: la
luna è assiduamente presente in queste stanze; la troviamo “illanguidita” che “osserva
dall’alto” la sua effige riprodotta “sullo schermo del computer”, non vi riconosce la sua
anima gemella e allora “si lascia andare, calante, nel buio universale”.Siamo nello
“Studio” ma, presto, la incontriamo di nuovo in “Cucina”, tra un “tripudio di profumi”
ed un fiume di “lambrusco scuro” ad allietare la festa della gioventù emiliana, a confondersi, “falce sottile”, eroticamente quasi, con il “prodigio di natura” della rosea lingua di
una bella biondina; vigorosa sferzata di verità che fa arrivare a scrivere: “Essenziale è
girare pagina credendo / che il foglio seguente sia bianco”, e ancora: “Bisogna ricominciare a vivere. . . / prima che la morte ci sorprenda, / impreparati.”. La incrociamo in
“Corridoio”, affaticata da un lavoro di regia che attira “troppi sguardi”; e, naturalmente,
fuori, in “Giardino”, in uno “scorcio di mare” evaso dall’ombra che rispecchia non una
ma infinite lune. È una guida, il nostro satellite, che ci cammina a fianco, ospitale come
il poeta, e ci accende la luce mentre visitiamo i vari locali della domus. Ma non stiamo
vedendo un museo: Rebecchi ci ha fatto entrare nella sua dimora perché uscissimo, con
lui, all’aperto, affidandoci a quello stesso “buio di luna” cui si abbandona e, non a caso,
chiudendo il testo finale dell’opera, “alimenta” la fiamma che “rischiara” e riscalda le
nostre perplessità, gli interrogativi ai quali non possiamo sottrarci. Ecco, quindi, che senz’altro appropriato è quanto sostiene Paolo Ruffilli prefazionando la raccolta: egli parla
di “un’istintiva tensione elegiaca che. . . ripercorre con ansia e forza visionaria il rapporto tra il sé e il mistero della vita”.Come dargli torto? È questa la percezione che resta,
ultimata la visita: uno spleen dolce-amaro che lascia, però, un piacevole gusto sul palato. È la gioia di vivere - scrive ancora il Prefatore - trascolora ogni volta nella malinco-
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nia. . . Ma la malinconia, ben lungi dal togliere forza, diventa una sorta di calamita che
rende ancora più potente l’attrazione verso (le) ragioni dell’autenticità.”. Sembrerebbe
tutto detto, ma non è così: c’è un’appendice da tenere in alta considerazione. “Ancora un
po’ poeta” - questo il titolo - è la risposta (e la conferma) di come il Rebecchi del nuovo
millennio replica al disorientamento provocato dagli albori dell’egemonia del virtuale sul
fare stesso della poesia. Dopo aver descritto le reazioni della natura alle violenze perpetrate ai suoi danni (“Anche il mare s’accorge di subire mutazioni”), l’autore si chiede:
“Che fa il poeta?”, lasciando - provocatoriamente, verrebbe da pensare - inevasa la
domanda. Ebbene; eccola, immancabile, anche la sua ribellione, la rivalsa dell’amore:
per la donna, per la terra, per la vita: “Ho gridato / nella notte / come lupo / lontano / dal
branco / . . . . / Poi / tu. / E il lupo / ha sorriso.” Il bianco e nero sostituito dai colori: “Ci
sono rose / che non appassiscono / sul balcone / dei sogni.” La storia virtuale rimpiazzata dalla “favola bella” da vivere insieme, da raccontare per sempre.
Sandro Angelucci
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Libri Ricevuti
Marcello Vitale, Revolution (Romanzo) KOINè Nuove Edizioni, Roma
2014 pp.220 € 14,00
Themistoklis Katsaounis, Paesaggi immensi dell’afflizione, Editore
Aletti,Guidonia (RM) 2013 pp.74 €12,00
Giorgia Chaidemenopoulou, 7 Favole… 7 Colori dell’arcobaleno,
Editore Aletti, Guidonia,(RM) 2013 pp. 70 € 12,00
Domenica Cara, Anonimia di formiche, Di Felice Edizioni, Martinsicuro
(TE) 2014 pp.170 € 12,00
Gianni Rescigno, Un sogno che sosta, Genesi editrice, Torino 2014 pp.156 € 16,00
Carla Zancanaro, La folgore e lo schianto, Edizioni Divinafollia,
Caravaggio (BG) 2014 pp. 110 € 14,00
Pen Trieste 2003-2013 10 Anni di Attività (edizione fuori commercio)
Trieste 2013 s.i.p.
Luciano Nanni, La caduta dei Santi (Racconti 1972-3 /2012) Cleup
Padova 2014 pp. 392 €12,00
Franca Maria Catri, Uccelli di passo, Gazebo Firenze 2013, pp.48 s.i.p.
Francesco Dell’Apa, Fuggitivo per scelta (romanzo) Città del Sole
Edizioni, (R.C) 2014, pp.150 € 12,00
Enrico Bagnato, La moglie di Sir William, Gruppo poeti della Vallisa,Bari
2014, pp.112 s.i.p.
Graziano Giudetti, Mio amato bene, Editorial Service System Roma 2014,
pp. 46 s.i.p.
Armando Rudi, Residenza Decastila, B&B edizioni Mozzate (CO) 2014
pp.50 s.i.p.
Andrea Mariotti, Scolpire questa pace , Edizioni Tracce Pescara 2013
pp.7° € 10,00
Raffaele Stella, Straniero nel mondo, Edizioni Tracce Pescara 2013,
pp.100€ 12,00
Veniero Scarselli, L’Universo parallelo degli acquatici, Genesi editrice
Torino, 2013 pp.92 € 11,00
Antonio Spagnuolo, Come un solfeggio Kairòs Edizioni, Napoli 2014
pp.50 € 10,00
Enrico Bagnato, Poema Garibaldi, Arte Teatro, Bitonto 2014 pp.13° s.i.p.
Luigi De Rosa, Fuga del tempo, Genesi editrice Torino 2013 pp.62 €11,00
Lucia Montauro, L’insonnia della psiche Genesi editriceTorino, 2014
pp.60 €10,00
AA.VV. Per un profilo critico di Renato Greco, Edizioni sentieri meridiani,
Foggia2014 pp.193 €20,00
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La prima di copertina è di Claudio Perri, La Divina Commedia - illustrata da G. Dorè,
Liberintro, Libro scolpito cm 34x24x7 2009, così pure la 2a e 3a sono dello stesso autore.
NOTIZIE DEI DuE ARTISTI
Claudio Perri nasce nel 1933 a Roma, dove vive e lavora. Claudio Perri nel 2002 ha “estratto”
dallo scaffale un libro e lo ha scolpito: sono nati i “Liberintro”. Quaranta anni di ricerca e sperimentazione gli hanno permesso di fondere in queste opere scultura, pittura, grafica e architettura. Nel marmo, travertino e legno Perri ha trasferito la tensione di forme in lotta, talvolta sconfinanti nel Nulla o nell’Assoluto. Nei disegni ha “scolpito” l’aria con la matita, catturando la
luce in una miriade di piccoli cerchi che si aggregano in fluttuanti e inquiete superfici. Nelle
“Maceromorfosi” (anni ’70) , sorta di pietre ottenute dal macero di giornali, ha modellato archetipi: le parole sono annullate per raggiungere silenti spazi senza tempo. Nei “Liberintro” le parole sono le venature di un “materiale inusuale”, il libro appunto, considerato reperto archeologico, riportato alla luce per una nuova lettura. Realizzazione riconosciuta unica e premiata con il
I° premio alla XXII Biennale d’Arte di Alessandria d’Egitto, 2003. 1986 XI Quadriennale di
Roma –1996 Scultura Viva di S. Benedetto del Tronto, ricava da un masso di travertino al Molo
Sud una grande scultura astratta – 1998 Concorso Travertino Ascolano, realizza per il comune
di Ascoli Piceno la Croce, sagrato della chiesa S. Maria Inter Vineas (sec. XII) – 2005
Antologica Biblioteca Naz. Centrale di Roma – 2008 Antologica Museo Crocetti Roma - 2009
Ospite del Ministero dei Beni Culturale al Salone del libro di Torino e Artelibro di Bologna e
del padiglione italiano a Mosca nel 150° anniversario dello Stato – 2010 XLIII Premio Vasto 2011 Liberintro d’Arte” – Biblioteca Angelica di Roma – 2011 XXXVIII Premio Sulmona –
2012 Premio Inter.le Limen Arte – Dal 2012 lo Studio Perri è sede di eventi culturali.
Alessandro Calizza, Nato nel 1983, vive e lavora a Roma. I suoi lavori sono stati esposti in
diverse città italiane ed all’estero.Vincitore del Premio Speciale del Concorso Arte Per OGGI
2013 ha preso parte ad una residenza d'artista di 3 mesi in Francia, inoltre dal 2012 collabora
stabilmente con Takeawaygallery di Roma. Le più recenti importanti esposizioni a cui ha preso
parte sono state"Surreality Show", mostra curata da Sofia Francesca Miccichè e Julie Kogler, ed
il Bizzarro Festival 2013, organizzato dalla Galleria Mondo Bizzarro di Roma, con cui ha realizzato la sua ultima mostra Personale dal titolo "Carne Fresca".
Finito di stampare in Roma - Giugno 2014
Stampa: Arti Grafiche De Martino snc
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