GIUSEPPE BIANCA MONOGRAFIA AGRARIA DEL TERRITORIO DI AVOLA EDIZIONE DIGITALE PRO LOCO-AVOLA e-book realizzato da ANGELO PALMERI 2014 La Pro Loco di Avola pubblica in edizione digitale alcune significative opere della cultura regionale e locale con lo scopo di agevolarne la diffusione soprattutto fra i giovani sempre più fruitori delle nuove tecnologie .La speranza è che le nuove pubblicazioni contribuiscano alla definizione dell’identità dei giovani avolesi che nella conoscenza del passato troveranno la spiegazione di tanti problemi attuali. Gli e-book sono stati realizzati, in spirito di puro volontariato ,dall’Insegnante in pensione Palmeri Angelo. Avola,Aprile 2014 il Presidente della Pro loco Peppino Corsico I. - TOPOGRAFIA A. Topografia terraquea. - Avola, Comune di Sicilia, giace in aperta pianura sotto il grado 37° 29' di latitudine Nord, a 23 chilometri N. N. E. da Siracusa e a 7 chilometri O. da Noto. Il suo territorio amministrativo ha limiti molto angusti con una superficie dí ettari 6000 a un dipresso, che riduconsi a non più di 5000, se ne togli le rocce nude ed i luoghi alpestri. La configurazione di esso è quella d'un trapezio, o meglio d'un cono smussato all'apice, la cui base, alquanto sinuosa e quasi lunga 10 chilometri, poggia sul mare Jonio dal lato dell'E.S.E., con le coste alquanto elevate nella parte di mezzo e declinanti ai due estremi, mentre l'apice vien chiuso da una linea convenzionale malamente determinata e appena lunga 4 chilometri. Dal lato tramontana gli è limite naturale il fiume Cassibili (il Caccipari degli antichi) che lo divide in parte dal territorio di Siracusa; dal lato di mezzogiorno lo confina per un buon tratto il fiume Asinaro dalla foce all'insù, poscia una linea rientrante di pura convenzione; e contermina tutto all'intorno sino a più di metà del lato settentrionale col vasto territorio di Noto, che comprende diciannove ex -feudí ed ha l'enorme superficie di quasi 86,000 ettare, sproporzionatamente grande per la sua popolazione quanto il nostro è sproporzionatamente piccolo per la nostra. mentre le due anagrafi quasi pareggiano(2.) Il sito della città è presso l'angolo S. E. ove coincidono i due lati meridionali e marittimo, distando da quello quasi 3 chilometri, e appena un sol chilometro dal mare. Tutta la parte occidentale del territorio non è che un'obliqua catena di colline, il cui nòcciolo è costituito da una roccia calcaria, bianchiccia e sonora, di tessitura granulare, di mezzana durezza, disposta regolarmente a banchi orizzontali, appartenente al periodo pliocenico e designata dai geologi sotto nome di calcario ibleo. I terreni clismicimoderni, che rivestono in parte questa roccia (giacché molta porzione resta affatto denudata dalle acque piovane) riduconsi a poca terra vegetale mista al detrito del calcario stesso che le sta sotto. La pianura mediterranea, qua e là leggermente ondulata, che dalla base di queste colline si distende sino al mare, sotto al breve strato di terra vegetale pertinente al periodo contemporaneo, e che varia di composizione e di spessezza quasi ad ogni passo ed è ordinariamente non più profondo d'un piede (condizione di grande importanza a non potervisi mantenere l'umidità) presenta un sottosuolo di formazione plistiocenica, il quale viene costituito sino a grandi profondità e senz'alcun ordine reale di successione da piccoli strati di ciottoli rotolati di varia natura, da ghiaie e sabbie calcari, da argille, da tufi calcari e frattura farinosa, in qualche luogo da banchi di calcario grossiere, e più ordinariamente da una breccia di pietre calcari di varia grossezza a tessitura compatto - silicea collegate da un cemento quasi tanto duro quanto le pietre stesse, con le quali forma una massa solida e continua. Nella parte superiore poi di questa pianura, che è immediata all'ultima base delle colline, il solo tratto intermedio presenta qua e là qualche deposito cretaceo, mentre dal lato di tramontana è pietrosa in modo, che ha fatto dare alla contrada il nome di Petrara, e quello dalla parte di mezzogiorno diversifica alquanto nella chimica composizione dei terreni, che son bianchicci - magri e poco ritenitori dell'acqua pel calcario che li domina, di pasta friabilissima e poco collegata. Oltre dunque che in generale i nostri terreni han poco spessore e poca umidità, vi si trovano sempre sparutissimi in confronto del calcare gli elementi liberi degli altri componenti minerali, e l'humus. E poiché la fertilità del suolo si misura dalla sua attitudine ad alimentare la pianta più preziosa per l'uomo, il frumento, e questa pianta non prospera ove non domini o per lo meno non sia molto manchevole la sostanza alluminosa, ed ove l'acqua non aiuti di continuo l'assimilazione, risulta dalla fatta esposizione esser poche in questo territorio le terre ubertose, alquanto più le mediocri, povere di vigore e sterilissime la maggior parte. Arrogi che l'affaticante agricoltore, dandosi studio di sopperire per lavori e per diligenza a questo naturale difetto, mischia a quel poco di terra vegetale i frammenti delle inerti materie che stacca col vomere dagli strati inferiori, e deve poi aspettare che larghe letamazioni e la terra frequentemente rivoltata rendano sciolte ed assimilabili col concorso anche dell'aria quelle sostanze minerali aggregate. Ed intanto, perché la rarità rinforza il desiderio, queste terre medesime (fatta astrazione degli alberi) non possono ottenersi in affitto a minor tasso di L. 51 per ettara, riportando un valore doppio ed anche triplo, se siano irrigabili. È difficilissimo poi dare una cifra anche approssimativa del loro valore d'acquisto, dipendendo esso dalla quantità e dallo stato degli alberi, che valgono bene spesso più del fondo in cui crescono. Bisogna infatti osservare, che se l'industria contadinesca non ha potuto vincere la natura col rendere convenientemente adatti questi terreni alla coltivazione delle biade, si è rivaluta a dismisura con la piantagione di vegetabili perenni più utili, che in ragione del loro più lento sviluppo in un dato tempo richiedono meno alimenti delle specie annuali. Principalmente vigne, olivi, mandorli, carrubi, e poi molti alberi fruttiferi da giardino e di lusso, oltre vari di minor conto, vestono densamente i versanti delle colline e la parte mediterranea del territorio dalla sommità delle stesse pendici sino quasi ad un terzo di chilometro dal mare, ove le condizioni climatologiche non permettono potervi allignare che il fico e la vigna. Le terre di quasi tutta questa estensione, per lo mezzo dell'enfiteusi, trovansi distribuite, anzi a dir proprio quasi sbocconcellate a quanti son capi di famiglia, e la rendita di esse consistendo principalmente nel frutto degli alberi e degli arbusti che non esigono (tranne la vigna) molte spese di produzione, il più povero contadino nella sua piccolissima porzione, con l'aggiunta della mercede che ritrae dall'opera prestata ad altri, trova di che sopperire ai bisogni della sua famigliuola, e uno stato di modesta generale comodità ne risulta, che mortifica la opinione di quella classe di economisti, i quali negano la divisione dei terreni e la piccola cultura potere esser causa di augumento di sussistenze. Tutte queste piccole divisioni, distinte in contrade, vengono intersecate da opportune trazzere e da strette viuzze, e son cinte e difese da muricciuoli di pietre a secco, i quali tengon luogo di siepe, ed intanto per quella energia dello spirito umano, che tanto men si rallenta quanto è più stimolata dal bisogno e dagli ostacoli, non è alcun minimo pezzetto di terra capace di render frutto (anche sul versante più ripido, nei burroni, nelle valli) che i nostri contadini lascino incolto o non vi allevino un albero; e l'aspetto del complesso presenta qualche cosa di straordinario, anzi di unico. E pare di vedervi, come parve un giorno a Licurgo nelle campagne dell'antica Sparta, una sola famiglia di agricoltori, e la divisa eredità di molti fratelli. Anche parecchi poderi di una mediocre estensione, posseduti dai più facoltosi, sono sempre divisi in chiudende e gremiti d'alberi, né discordano dall'aspetto generale. Se trovansi solamente eccettuati da questo sminuzzamento un ex feudo nel confine settentrionale, e la parte superiore delle colline, è stato perché il proprietario del primo ha voluto mantenervi la grande coltura, e perché la seconda non si presta pel clima alle piantagioni arboree, e non offre perciò egual tornaconto alla piccola cultura. Tuttavia non lascia questo territorio d'esser sempre insufficiente ai crescenti bisogni di una popolazione quasi esclusivamente agricola e all'eccesso operosa. Laonde insofferente delle barriere amministrative ad essa opposte, e accumulati per entro all'agro proprio tutti quei valori di cui era suscettibile, ha nobilitato con la propria industria ed anche acquistato coi suoi capitali buona parte dei contermini territori di Siracusa e di Noto, che solleticavano con lo stato di quasi abbandono la di lei attività. Le quali porzioni per difetto di energiche misure governative non è stato finor consentito di aggregarsi al nostro primitivo tenimento, né può sperarsi che mai si ottenga, finché a ciò si richieda il libero consenso dei due comuni interessati, e non venga a mettervi mano l'autorità di una legge ferma ed immutabile, che in mezzo all'urto degli interessi tenga solamente ragione dello svolgimento delle popolazioni e della industria agraria. Peraltro indipendentemente dal non potersi negare, che le terre occupate col mezzo più legittimo che è quello della industria e del lavoro siano giuridicamente divenute nostre, havvi una forte ragione di equità perché Noto specialmente, il quale ha molto soverchio, non avrebbe dovuto mostrarsi renitente. La maggior parte di quelle terre non ha potuto ottenersi dai nostri contadini che a titolo d'enfiteusi perpetua con un canone gravissimo e senza il beneficio della ritenuta fondiaria, cosicché i proprietari che prima le possedevano, or ne ritraggono un utile netto e sicuro che supera del doppio ed anche del triplo la rendita primitiva, resa peraltro incerta dalle vicende delle stagioni. Arrogi che le terre stesse son quasi tutte in luoghi di malsanìa, e la nostra classe agricola ha perduto a cagione di esse quel vigore di salute e di robustezza, in cui tanto per lo innanzi si distingueva, non morendo, ma uccidendosi, per usare la giusta ed energica frase di Flourens. E già le due recenti anagrafi hanno constatato che nessuno dei nostri contadini raggiunge più i 60 anni di vita, e pochissimi sono quelli che vanno oltre i 50. Or in vista dei mentovati due sacrifici, equità vorrebbe che almeno fossero sollevati dal peso che li grava di doversi recare in altro comune per le tante bisogne e amministrative, e giudiziali, e finanziarie, con perdita di tempo che per essi è moneta e con spreco di denaro per alcuno che li assista e li guidi, ciò che facilmente potrebbero risparmiare nel paese nativo. Pria di lasciare questo argomento devo fare avvisati i miei lettori a non credere che un territorio, com'è il nostro, così sbocconcellato e con tanto movimento e complicazione d'industria, non abbia pure i suoi difetti e non incontri in certo modo i suoi ostacoli. Dirò dei principali 'che sono: 1.° Poca sicurezza dei prodotti per la mancata custodia, non essendo possibile che i vari possessori costantemente sopravvegliassero a tante piccole porzioni di terreno, disseminate per lo più in contrade diverse. Fu tempo che si cercò di rimediare a questo inconveniente con lo stabilimento dei guardiani rurali; ma tale espediente, messo alla prova, non corrispose al fine. E il maggiore ostacolo veniva appunto dalla parte di coloro che, giusta la frase del signor Rabbeno in questo stesso Periodico, dovrebbero essere la sentinella avanzata della pubblica forza. Imperocché non vuolsi tacere, che quanto il nostro contadino è affezionato al proprio campicello, altrettanto non si fa scrupolo di poco rispettare l'altrui; anzi il tirocinio dei figli suoi comincia sempre dall'avvezzarli a decimare i prodotti dei vicini pria del raccolto. 2.° Molte frazioni d'uno stesso agricoltore intersecate a quelle di altri possidenti, e collocate a varie distanze; il che complica l'amministrazione e la maggior parte delle operazioni: le quali ognun vede quanto resterebbero semplificate, e più ordinate e più vantaggiose, se tutte quelle frazioni fossero riunite in un solo spazio. 3.° Sminuzzamento eccessivo e quasi microscopico per effetto delle successioni; giacché una piccola quota posseduta dal padre, dividendosi dopo la di lui morte tra i suoi figli che tutti vogliono la parte loro, riesce così spezzata non potervi applicare alcuna industria che dia frutto apprezzabile. 4.° Ineguale distribuzione del contributo fondiario; poiché non tutti i fondi, ancorchè d’ugual natura, sono gravati di canone in ugual proporzione ; e quindi non lasciano ad alcuni possessori la stessa rendita netta che ad altri. E la Commissione rettificatrice del catasto non avendo potuto mettere a calcolo tali circostanze di variazione, è avvenuto che, tassatisi i fondi simili in ragione di perfetta uguaglianza, la contribuzione di ciascuno, equivalendo a una rendita netta moltissimo differente, non produce gravezza uguale e vien pesando a più doppi sui piccoli risparmi dell'infima classe, che possiede a più forte canone e a cui peraltro neppure può giovare le più volte il beneficio della ritenuta, essendo convenute le più recenti enfiteusi col patto della franchigia. 5.° Complicazione d'interessi per le molte succoncessioni enfiteutiche accumulate l'una sull'altra, e per tanti dritti di dominio diretto e di dominio utile sovente addossati alla stessa porzione di terreno: continua occasione di discordie e di liti. E certamente non potea venire più opportuna per questo Comune la nuova legge che ora vieta le succoncessioni. 6.° Continue questioni per alterazioni di termini e per restringimento ed impaccio di stradicciole comuni; imperocché i contadini cercano sempre spostare i limiti dei loro possessi per guadagnare una striscia di terreno, oppure sgombrandoli dalle pietre, gettan queste nelle vie comuni ed impediscono o rendono malagevole l'altrui passaggio. 7.° La solidarietà a cui soggiacciono varie porzioni pel pagamento del canone, cosicché ove tutti i compossessori non si trovano in condizione di sodisfarlo alla scadenza, l'enfiteuta solvibile è spesso costretto a soffrir la pena dei morosi. Questo inconveniente si è reso più grave dopo l'introduzione del corso forzoso della carta moneta. Per eludere questa legge e trarne profitto a suo pro, un direttario è ricorso in danno degli enfiteuti al seguente stratagemma. Egli alla scadenza del canone passa a pignorare il frutto pendente delle vigne tutte che si trovano nel fondo censito, e non consente a riceversi le rate di ciascun compossessore e a sciogliere dalla procedura coattiva le relative porzioni che mediante il pagamento di moneta in argento. Egli ha previsto che non tutti i compossessori si trovino in istato di saldare il debito loro, perché alcuni han bisogno di procurarsi il denaro con la vendita del mosto. Quindi per un solo che si trovi in quelle strette, tutti gli altri che posson pagare e cui preme non indugiare la vendemmia sono forzati a sottoporsi alle condizioni usurarie del direttario, cambiando la carta con forte sconto e pagando in argento le loro rate così del canone come delle spese!!! 8.° Frequente mancanza di braccia per la coltivazione ed elevazione sempre crescente, spesso indiscreta delle mercedi: giacché i contadini trovandosi buona parte dell'anno occupati nelle terre proprie, ed essendo pure ricercati per la loro pratica dagli agricoltori di Siracusa e di Noto, sovente questa borghesia non trova braccia da impiegare alla coltivazione delle terre sue, ed è costretta a differire i lavori con grave scapito delle produzioni. E già nelle bisogne più pressanti si è cominciato ad avere ricorso ai contadini meno occupati di altre popolazioni vicine. 9.° Raccolta affrettata dei prodotti; poiché per quanto il nostro contadino non si stanchi di profondere sulla sua piccola coltura tutte le attenzioni e tutti i lavori possibili, altrettanto è impazientissimo di raccoglierne il frutto, e non aspetta a darvi mano che la maturazione raggiunga il suo stato perfetto. Il che sovente avviene con grave scapito della produzione; ma egli non se ne cura, e trova sempre pretesti per fare a quel modo. Ed intanto essendo le piccole possessioni incastrate le une nelle altre, appena il più impreveggente dà il segno, diviene una insormontabile necessità che i vicini lo imitino per non vedere esposti i prodotti loro alle ruberie dei raspolatori, contro i quali non v'ha precauzione e vigilanza che basti. B. Topografia idraulica. – Si è detto più su essere limitato il nostro territorio dal fiume Asinaro a mezzogiorno e dal Cassibili a tramontana. Aggiungiamo, che da questi due fiumi non si trae per l'irrigazione tutto quel vantaggio che si potrebbe ove le acque venissero inalzate e distribuite con opportuni aquedotti e congegni. Principalmente il Cassibili, che ha una portata di 12 zappe 3 d'acqua, non serve attualmente che all'irrigazione di poche ettare di terreno presso la foce, dopo aver messo in moto quattro molini di grano. Queste acque senza congegni di sollevamento, ove fossero incanalate verso la base stessa delle colline, potrebbero condursi, seguendo la naturale inclinazione del suolo, ad innaffiare molta parte dell'Agro siracusano; e tal disegno era stato vagheggiato dal cessato Governo, ma le vicende politiche arrestarono ogni cosa. Ora intendono risuscitarlo i comunisti di Siracusa. Ciò non ostante, se questo territorio non ha copia di acque, non ne è troppo povero. Oltre i mentovati due fiumi, varie polle pur vi si trovano scaturienti qua e là nella pianura, tutte un tempo destinate alla coltivazione della canna da zucchero ed oggi ad innaffiare orti e giardini. Le falde stesse delle colline e i fianchi delle valli offrono in qualche sito più di una scaturigine, fra le quali è degna di menzione quella di Miranda (l'antico Erineo ricordato da Tucidide) che scorre in una valle dal dorso d'una collina, oggi ridotta a una larga fonte, ma che nei tempi antichi havvi tradizione essere stata un grosso fiume, che poscia il divelto d'una collina chiuse ed in parte disperse. L'acqua di questa fonte, di proprietà privata e della portata di 4 zappe, è la più copiosa di tutte le altre. Essa, raccolta dapprima in apposite conserve, serve a dar moto a 5 successivi mulini da grano, poi si adopera per la irrigazione dei giardini, locandosene l'uso a giornate per ogni settimana. E poiché la coltivazione degli agrumi si ha qui in pregio e vi prospera, e tutte le acque sopraindicate, servendo anche agli ortaggi, non sono sufficienti allo scopo, non si è lasciato di avere ricorso anche a quelle dei pozzi, elevandole coi bindoli, di cui già si fa uso in luoghi parecchi. Non esistono laghi, né terreni paludosi e acquitrinosi; né certamente possono meritare quest'ultimo nome alcuni ristagni di pochissima estensione in due o tre punti del litorale, prodotti dall'ostacolo frapposto dalle arene alla corrente di qualche rigagnolo delle acque piovane. Alcuni torrentelli, formati dagli scoli delle colline, vanno innocuamente a disperdere nel mare le loro acque, ed è assai raro che straripino nei punti di basso livello degli alvei, avendovi provveduto con argini gli stessi riverani. C. Topografia atmosferica. – Per la sua posizione in aperta pianura e presso il mare vi è variabilissimo lo stato atmosferico. L'inverno non vi è né molto rigido né lungo, aprendovisi primavera con ogni sorta di fiori in marzo e talvolta anche in febbraio. I caldi dell'estate sono lunghissimi, da maggio ad ottobre, e piuttosto assai sensibili che temperati. Se non che sull'una e l'altra stagione molto influisce lo stato anemometrico, essendo assai freddi i giorni invernali, quando tirano i venti di N-0., di N., o di N-E., e provandosi in estate un calore bruciante, se soffia il vento di Ovest, che ritiensi come un turbine africano, il quale viene a rompersi in Sicilia, ed è fortuna che non succeda tutti gli anni. È notabile l'arsura che allora ne succede in tutti i vegetali e specialmente sulle uve, verificandosi ordinariamente da giugno ad agosto. A mezzogiorno del 13 luglio 1864 la temperatura per esso salì a gradi + 46 del termometro centigrado tenuto all'ombra, e dopo il tramonto non era discesa più giù di + 45,50. Anche il vento caliginoso di S-E fa vedersi non di rado in autunno, umido e pesante, ad annoiare gli uomini, fare ribollire i mosti e nuocere alla nascente vegetazione erbacea. Il vento poi di N-0, quanto suol essere mite e propizio al tempo della maturazione delle biade, altrettanto qualche volta, sull'avvicinarsi di primavera o in autunno, spira talmente furioso e con forza così crescente e irresistibile da seminare la devastazione e lo squallore per le campagne svettando ed atterrando alberi, opera di lunghe fatiche, o spargendone a terra i frutti, oggetto delle più care speranze dei poveri agricoltori.Né meno pernicioso suole provarsi in primavera quello di Est, designato dai nostri agricoltori sotto la denominazione di livanti siccu appunto perché tira sempre senza alcuno accompagnamento di pioggia. Il soffio di esso attraversando il mare e deponendo sui vegetali l'esalazioni saline di cui si carica, brucia non solo le biade e le vigne vicine a fiorire, ma benanco le tenere vette dei mandorli e degli olivi, compromettendone i frutti attuali e le fruttificazioni avvenire. La pioggia si verifica in inverno più facilmente sotto il predominio dei venti di S., di S-E., e di N-E. Col vento di libeccio non si hanno che qualche fuggitivo acquazzone o leggerissime interrotte spruzzaglie.Dopo febbraio diviene assai rada, e se ne ha quasi sempre penuria negli ultimi giorni di primavera, circostanza che rende più intensa l'azione disseccativa del sole estivo. In estate e sino a tardo autunno è cosa straordinaria che piova. Nembi e tempeste non si hanno che di breve durata. È fenomeno rarissimo che cada neve; e se qualche volta se ne vedono sparsamente per l'aria discendere dei fiocchi, questi, appena han toccato terra, si liquefanno e spariscono. Anche molto rada vi è la gragnuola. La nebbia non vi ha dominio; essa fa vedersi qualche rara volta nelle ore mattutine sul versante delle colline ed anche sul piano, principalmente in maggio, accompagnata dal vento di S-E., e da grosse e rade gocce di pioggia (chiamate dal volgo zicchi di maju) che macchiano le foglie di polvere rossastra; e riesce allora di molto nocumento all'allegagione dei mignoli dell'olivo e dei fiori della vite, i quali, per l'umidità ch'essa vi lascia sopra e pei forti raggi solari che bruscamente li colpiscono, cadono vizzi e scottati senza punto attecchire. Le brine avvengono qualche volta in febbraio e nuocono alla fruttificazione del mandorlo: più di frequente sullo scorcio di marzo ed ai primi giorni di aprile, ed è allora la vigna che più ne soffre essendo sul punto di germogliare. L'aria, per l'immensa quantità degli alberi che ne copre la superficie, generalmente vi è salubre, tranne nelle vicinanze dei mentovati due fiumi. Nel passaggio da una stagione all'altra si alternano brusche e repentine le mutazioni termometriche, e la salute degli abitanti ordinariamente ne soffre, e qualche volta anche se ne risentono gli stessi vegetali. note 1. Questa determinazione è stata rilevata dal Dizionario Corografico del Regno di Sicilia compilato per cura del cav. Ferdinando de Luca e di Raff. Mastriani, Milano 1852, voce Avola. 2. Secondo le Notizie economico-statistiche ricavate sui catasti di Sicilia da Vincenzo Mortillaro (Palermo 1854), il territorio di Avola sarebbe di ettari 6799,91 e quello di Noto di ettari 58487,43 3.La zappa d'acqua siciliana è una vena, che misura un diametro di O n, 1032 e che versa litri 1031,58 d'acqua al minuto primo II.-POPOLAZIONE Non può discorrersi della situazione agraria d'un paese senza che si tenga conto della sua popolazione, che è l'agente generale delle produzioni e delle modificazioni e dei consumi loro. L'ultimo censimento del 31 dicembre 1871, dava per Avola una popolazione effettiva di 11912 distribuita in 2677 famiglie e distinta in 5725 maschi e 6187 femmine. Questa popolazione quasi tutta, sebbene in modo diverso e con differenti condizioni ed effetti, prende parte all'agricoltura locale; e a tale riguardo può considerarsi economicamente scompartita in più classi. In prima linea metterò quelle famiglie, i cui antenati avendo a tedio o a disonore la vita operosa e godendo marcire in un'inerzia improduttiva credettero trovare il loro tornaconto nel concedere in enfiteusi ai laboriosi agricoltori i loro fondi ereditari con gran peso di canone. Ma tali redditi, per ordinario limitatissimi e di lor natura stazionari ed incapaci di aumento, non sopperendo le più volte ai crescenti bisogni delle famiglie, van tuttodì rappicciolendosi per continue alienazioni, e colui che li possiede e che fondava in esse tutto il suo benessere, termina quasi sempre col rendersi tributario della classe industriosa, ch'egli follemente si figurava d'essergli serva. Fortuna pel comune che questa classe è di pochi! Viene appresso la borghesia, ossiano quelli che possiedono terre o in piena proprietà o a livello non molto grave, perché costituito in tempi remoti, amano amministrarle da loro medesimi con l'opera dei braccialieri mercenari, dirigendone i lavori e raccogliendone e conservandone i prodotti. Costoro, in parte civili, in parte villici, costituiscono con varie gradazioni le famiglie agiate, e sono posti quasi segnacolo all'ambizione dell'infima classe, che tuttodì fa sforzi di pareggiarli con emulazione incredibile. E questa infima classe è quella dei braccialieri agricoltori, i quali avendo voluto pur essi partecipare ai godimenti della proprietà e di un lavoro indipendente, non l'hanno potuto che sottomettendosi alle gravi ed usurarie condizioni loro imposte dalla prima classe. E ciò non ostante così ostinato è il loro travaglio, così profittevole il buon uso che essi fanno del tempo, così grande l'aiuto che sanno trarre dalla partecipazione che vi fan prendere alla intera famiglia, che pur essi corrono l'arringo con soddisfacente risultato, e con le loro abitudini ad una vita frugale e con l'aggiunta delle mercedi per l'opera che prestano altrui eglino stessi e i loro figli', rendon sempre migliore il loro stato e si avanzano. Se non che, queste ottime disposizioni economiche del nostro contadino sono molto oscurate dalle sue qualità morali. Egli, oltre il manomettere, come sopra si è detto, le produzioni altrui, è diffidente, maliziosamente infingardo nel prestare ad altri l'opera sua, e poco fedele mantenitore dei patti e delle obbligazioni, finché la forza legale non vel costringe. Subordinate a queste tre classi e quasi come loro appendici sono quelle degli artigianati, degli esercenti professioni liberali, degli impiegati e del clero stesso, giacché in qualunque di queste condizioni alcuno si trovi, sempre fa sforzi di partecipare ai piaceri della proprietà terriera, né giunge mai comunemente a' costituirsi una mediocre agiatezza di vivere e ad acquistarsi la simpatia delle famiglie per le unioni coniugali, finché duri nel nudo esercizio della professione o dell'impiego e non goda una proprietà fondiaria: così precario ed insussistente qui si ritiene ogni profitto che non venga dall'agricoltura. Appena quindi dal numero dei possidenti terrieri possono eccettuarsi i marinai, i facchini, i manovali . . . che non son molti, e pochissimi contadini ed artigiani. L'immediato economico effetto di questa partecipazione di tutti al possesso delle terre, se non è un godimento ed una soddisfazione, è una quiete dolce e conveniente, è come dissi, una modesta generale comodità di tutti i cittadini, ed è natural conseguenza di questa generale comodità l'aumento progressivo della popolazione, cosicché la proporzione dei nati e dei morti di ciascun anno rispetto alla popolazione dell'anno precedente va sempre aumentando pei primi e decrescendo pei secondi. E queste stesse proporzioni sarebbero ancora maggiori senza quel soggiorno di molti nelle terre malsane del territorio di Noto, che miete molte vite precocemente, come più innanzi è stato avvertito. Altra natural conseguenza è l'energico sviluppo del sentimento di famiglia. Per la piccolezza del territorio il nostro contadino dorme di rado in campagna, e si riduce dopo il lavoro ogni sera fra i suoi a dividere colla moglie e coi figli il suo pasto frugale. Ed anche se va a prestar l'opera nei vicini territori di Noto e Siracusa, torna inmancabilmente il sabato al focolare domestico. Non emigra mai a cercar lavoro in paesi lontani, e peraltro non ne sente mai il bisogno. I figli, appena raggiunta l'età maggiore, cercano moglie, e la dote, che la donna più indispensabilmente dee loro recare, è una casetta o il denaro per acquistarla, tanto è il prezzo che essi mettono a questo indipendente e stabile ricovero della nuova famigliuola. Ed intanto questo sforzo di quasi tutto un popolo rivolto ad un fine imprime alla proprietà fondiaria un movimento così straordinario, che le terre balzano dalle mani dell'uno in quelle dell'altro con tale celerità da riuscire incredibile. E qualche vantaggio ne ritraggono i possessori di canoni per la ripetuta consecuzione di laudemii. Alcuni preveggono che lo stato di modesta comodità, risultante da questa posizione economica, verrà fra non guari a decadere, visto che in alcune famiglie si va insinuando il lusso, e che lo stesso contadino non mostrasi stretto al risparmio come per lo passato, e vuole vestire e cibarsi e fumare il sigaro come i più agiati, e spende più che non può nelle feste di famiglia per nascite e nozze. Quanto a me sarei disposto a perdonare queste piccole dissipazioni, se le condizioni economiche dei tempi potessero favorirle; poiché l'uomo, portandosi al travaglio per uno sforzo virtuoso, è trascinato da una maniera quasi istintiva ad usare con moderazione dei beni che gli acquista l'industria. Ed esse peraltro non essendo generali, parrebbe al postutto risultarne un momentaneo spostamento di comodità, che vantaggerebbe i più economici a scapito degli imprudenti, finché questi fattisi accorti ripiglierebbero i loro vantaggi col tornare alle antiche abitudini. Non posso però non aggiungere, anche a costo di passare per profeta di sciagure, che un male più serio, una più forte perturbazione economica, la quale assume di giorno in giorno sempre più grandi proporzioni, viene già accelerando la rovina totale di questa finora invidiabile mediocrità di fortune: voglio dire delle molte imposte erariali, provinciali, comunali, che in un paese agricolo, qualunque siano le diverse categorie con cui vengono pagate, vanno tutte a gravitare sulla ricchezza territoriale. E questa delle imposte è quistione veramente vitale e da non tenersi a gabbo. Imperocché l'uomo non travaglia che per soddisfare i suoi bisogni, ed è solo per questo che mette attenzione ai più piccoli guadagni. Ma quando la legge viene a spogliarlo di ciò che è frutto dei più grandi sforzi ed è necessario alla vita più frugale; quando non misura il di lui obbligo di pagare i pubblici aggravi con le varie epoche dell'anno in cui egli può raccogliere; quando mantiene contro lui inalterata la tassa non ostante la deficienza della produzione; quando il forza con intrigati ed oscuri regolamenti a temer tutto dalla sconfinata potenza burocratica: non è possibile che egli non senta tutto il peso del suo lavoro; e un peso, non unito alla speranza di migliorare la propria condizione, diviene insopportabile e basta a deprimere ed a ghiacciare qualunque entusiasmo al lavoro. Forse finora si è potuto resistere con piccole economie fatte all'aiuto di molte privazioni; ma si potrà continuare a corrispondere più che l'industria meglio operosa può annualmente produrre? Ecco una cosa di cui mi permetto di dubitare. Nell'ultima guerra punica, Cartagine seppe resistere all'esercito assediatore finché le donne ebber monili per cangiarli in armi, e capelli a farne corde per gli arcieri; ma poi?. . . . NOTE I I nostri contadini fanno alla mattina un primo pasto (colazione), un altro a mezzogiorno, consumando in ambidue pane bianco di grano con cipolle ed olive salate per companatico ordinario. Alla sera mangiano una minestra di fave o fagiuoli, di broccoli e qualche volta di pasta o di riso. In tempo delle mèsse aggiungono una quarta refezione a metà del pomeriggio, denominata merenda. Bevono ordinariamente litro 1,3 di vino al giorno, e nel tempo della mèsse anche più di 2 litri. La loro mercede giornaliera (compreso il vino che ritengono indispensabile) si aggira in media a L. 1,50 tranne nel tempo della mèsse e del raccolto delle olive, che suole elevarsi quasi al doppio. - La mercede dei ragazzi sino a 14 o 16 anni oscilla tra i 60 e i 90 centesimi. - Anche le donne vengono impiegate nella raccolta dei frutti (mandorle, carrube, olive), nella vendemmia, nella spollonatura e insolforazione dei vigneti, nella estirpazione dei lini e in altri lavori agricoli, e la loro mercede ordinaria non oltrepassa la mezza lira III. - AMMENDAMENTI ED INGRASSI I terreni di Avola, non essendo né troppo sciolti né troppo compatti, non han bisogno di essere agglutinati o divisi con l'aggiunzione di terre nuove; non deve dunque far meraviglia che il processo degli ammendamenti vi sia disconosciuto del tutto. Quello che loro più manca è la spessezza dello strato arabile; e con un sottosuolo breccioso che resiste a qualunque più potente lavoro, ed impedisce le pastinazioni, non è economicamente possibile riparare a questo naturale difetto, a cui si deve principalmente la causa intestina del pronto risecchimento. In quella vece non si trascura, come più innanzi ho notato, di mantenerli sciolti e porosi con lavori continui per mettere in libertà e rendere assimilabili gli alimenti minerali che vi si trovano chimicamente combinati, per facilitare l'espansione del capelluto radicolare e per ottenere che il sole vi agisca con minore energia, i gas aerei vi abbiano più libero accesso e l'interna umidità sia più lenta ad evaporarsi. Il sovescio, che potrebbe apprestare con la sua lenta decomposizione un ingrasso eroico e durevole a vantaggio d'una vegetazione che immediatamente gli succedesse, qui pure non è praticabile, perché il clima non comporta coltivazioni estive, e dopo la fioritura primaverile la superficie campestre mantiensi aridissima sin oltre ottobre. Tutto al più non si lascia di sotterrare nelle vigne le piante spontanee che vi crescono per entro nell'intervallo dell'una all'altra zappatura. Comunque poi si ricanti dagli scrittori di cose agrarie aver dimostrato l'esperienza che la vite ama un suolo sassoso e leggiero, i nostri contadini non possono tollerare nei loro vigneti un sol sassolino, e mettono ogni cura ed ogni studio a tenerli sgombri. Imperocché da una parte non sono i nostri terreni così tenaci da rendere essenziale la presenza delle pietre per tenerli meccanicamente divisi; dall'altra, quantunque le pietre siano un ausiliario a difendere le radici contro l'ardore del sole e a conservare l'umidità nei posti che ricoprono, e quantunque col detrito successivo, risultante dalla lenta decomposizione operata dai lavori e dall'azione incessante delle meteore, siano un buono ammendamento: non lasciano tuttavia di logorare ed ottundere gli strumenti di lavoro, e non è raro il caso che schizzate dall'urto della zappa vadano ad accecare le gemme sorgenti, o a mozzare i germogli ancor teneri, o ad ammaccare i grappoli. Degl'ingrassi si conosce l'importanza e se ne tiene gran conto; ma non avendosi grandi stalle, ogni piccolo agricoltore non può far tesoro che delle dejezioni dei pochi suoi animali da basto (muli ed asini), alle quali si adopera di unire le spazzature delle case e delle vie, e ogni altro avanzo di materie vegetali ed animali in stato di decomposizione più o meno avanzata. Bisogna però confessare, che di queste medesime così scarse materie non si sa trarre tutto quel beneficio che si potrebbe. E pur vero ch'esse non bastano per impegnare al mantenimento d'una concimaia secondo i sistemi della buona agricoltura; ma occorrerebbe per lo meno non farne disperdere in qualche modo tutti i principi volatili che ne sono la parte più preziosa. Il contadino che non ha spazio sufficiente nella sua abitazione, è forzato nel giorno del riposo a trasportare nel suo campicello la quantità accumulata durante il corso della settimana, e ordinariamente la sparge e la sotterra così fresca, e se non ne vede pronti gli effetti, li ottiene più durevoli, ed evita la volatizzazione dei gas. I borgesi però, che ne hanno relativamente maggior copia e li vogliono pel pronto effetto adoperare ben scomposto, non fanno altro che ammucchiarlo sopra terra, senza darsi pensiero di sovrapporvi uno strato terroso, o per lo meno di tenerlo riparato dal vento, dalla pioggia e dal sole. Si aggiunge a questa imperdonabile incuria, che il trasporto nei campi suolsi praticare in agosto (tempo di vacanze d'altri lavori) distribuendolo a piccoli mucchi conici su tutta la superficie da letamarsi, per indi spargerlo e sotterrarlo con la prima aratura all'arrivo delle piogge autunnali. E siccome queste piogge sono qui tarde a venire, ne consegue che quei piccoli cumuli, investiti in tutta la superficie dalla cocente sferza del sole, non solo sono depredati dalla maggior parte dei loro principi gassiformi che dovrebbero combinarsi alla terra e fornire alimento alla vegetazione, ma la stessa materia organica, ch'essi contengono, perde molto della sua influenza a rendere assimilabili le sostanze minerali del suolo, e riducesi in gran parte a piccoli pattumi così secchi e solidamente agglutinati da non potersi rammollire e disgregare che dopo lunga ed eccessiva umidità. Tutte le fanghiglie e le reliquie e le immondizie, che la stroscia delle piogge trascina per le strade campestri, sono usufruite dal solerte contadino, e lungo i muri fiancheggianti di tratto in tratto è stabilita a riceverle una fossa interna, ciò che in termine di agricoltura appellasi lupa, e in vernacolo del paese morta. Non son d'uso gl'ingrassi liquidi, il pozzonero e il polverino. Qualche saggio fatto col guano non diè buoni risultati, e lasciò la terra come la trovava. Dei concimi chimici non si è tentata alcuna prova, si perché il vantaggio sperabile non ne valerebbe la spesa, e si perché più che i principi minerali pare che manchi nei nostri terreni un'umidità sufficiente a servir loro di veicolo. Difatti nell'anno 1875, che per un fenomeno eccezionale si sono a tutto aprile continuate le piogge, le nostre biade si sono presen- tate con vegetazione talmente rigogliosa da contrastare il primato a quelle di altre contrade tenute in fama di sommamente ubertose. Generalmente i terreni ingrassati si destinano nel primo anno a coltivarvi le ferrane, nell'anno seguente il grano. Nelle coltivazioni irrigue, specialmente per le piante ortensi, la letamazione si ritiene indispensabile, giacché le nostre acque di sorgiva assai poco aerate non hanno in sospensione tali principi fertilizzanti da sopperire alle perdite che la terra subisce delle materie alimentarie apprestate alle piante che alleva. IV. - SISTEMI D'AMMINISTRAZIONE RURALE Dopo le cose esposte è facile indovinare, che dove la proprietà terriera è così scompartita e la più parte nelle mani di contadini, e dove ciascun cittadino, a qualunque classe appartenga, si mostra così allettato dai piaceri innocenti della natura e dalla vita tranquilla dei campi, il sistema dell'amministrazione diretta deve essere, com'è in fatto, il più prevalente. Il contadino agricoltore, oltreché non ha in vista che quel solo oggetto delle sue occupazioni e vi rimane più curante d'ogni altro, gode pure dei vantaggi di poter condurre le faccende con minore spesa e con maggior vigilanza pel maggior lavoro che ottiene dai suoi propri animali, per la parte che vi fa prendere alla intera famiglia, e per quelle piccole attenzioni giornaliere, non impedite né dalla pioggia né dal sole, che al fine dell'anno fruttano sempre qualche profitto. Anche i facoltosi e gli agiati, per la ragione di non essere i loro poderi molto estesi (sebbene non così angusti come i primi) né perciò bisognevoli di troppo complicate e indifese sollecitudini, né così distanti dall'abitato da potere sfuggire ad una assidua sopraveglianza, trovano loro pro a dirigerne essi stessi i lavori con mani mercenarie, e più al caso di migliorare il fondo coi loro capitali, né la loro attività riesce gran fatto minore di quella del contadino. Non è pertanto che siano qui trasandate tutte le forme degli affitti ed in modo più o meno regolare. Ricorrono ordinariamente a tale sistema quei pochi, che disavvezzi dall'educazione o distratti da altre occupazioni si ritengono insufficienti a disimpegnare tutte le cure di una data cultura. In questo caso il contratto più consueto per le terre seminative è quel del terratico, mediante il quale si loca altrui una determinata misura di terre (esclusi gli alberi) per una determinata misura di frumento o d'orzo, da corrispondersi al tempo della trebbiatura da aia a magazzino, e che ordinariamente si raggira da 1 a 3 salme per ogni salma di terra, o da 1 a 3 tumoli per ogni tumolo, essendo le due misure proporzionalmente eguali'. Se la semente si appronta dal locatore, gli viene restituita con un quarto di più all'epoca stessa del pagamento. E questo contratto è quasi sempre per un solo anno. Qualche volta si danno in affitto per una annua somma in denaro e terre ed alberi per tempo non minore di due o di quattro anni, in modo che il fittaiuolo, il quale prende a suo carico le vicende ed i rischi della coltura, possa conseguire dalle terre una o due produzioni col sistema alterno (grano e riposo) e partecipare una o due volte ai frutti alternati degli alberi. Alcuni anche spaventati dalla difficoltà di salvare dalle ruberie i frutti degli alberi, li vendono in massa e dietro stima a intraprenditori contadini che hanno più mezzi ed attitudini a ben custodirli, e che si obbligano consegnare in causa di prezzo una convenuta quantità in peso del frutto raccolto, se si tratta di carrube, o una stabilita misura di mandorle o d'olio, se si tratta di mandorle e olive2 . Questi contratti offrono l'inconveniente, che l'intraprenditore per liberarsi dal peso di una lunga custodia af-fretta per ordinario le raccolte, e per far presto non cura con tutta diligenza la manipolazione, e il proprietario di buona o di mala voglia è spesso costretto, per evitare le insolvibilità, ad accettarsi frutti non bene maturi e generi di qualità scadente. Non è raro però il caso che anche l'assuntore si trovi ingannato nei suoi calcoli, e non solo non ne riporti guadagno, ma v'abbia molto a supplire del suo. I contratti fin qui esposti vengono più o meno modificati da condizioni accessorie che non ne cangiano però la natura; ed io non reputo essermi debito il soffermarmi a descriverle particolarmente per solo lusso di vana erudizione. Non bisogna intanto molta sagacità per avvertire, che la colonia parziaria, come la vorrebbero gli economisti, con stabile dimora della famiglia del colono nel podere e con l'incarico a lui affidato di governare le varie colture e di sostenere le minute e indifese diligenze richieste dagli albereti, non può essere qui conosciuta; e chiunque bene si addentri nei fatti esposti è necessitato ad ammettere che non sarebbe sistema piegabile alle circostanze di queste contrade. Vi si oppone, salvo pochissime eccezioni, la troppa limitazione dei fondi e delle colture di cui sono suscettibili, incapaci ciascuno per sé d'offrir lavoro ad una famiglia qualunque per l'intero corso dell'anno. Vi si oppone l'aridità del suolo che non si presta a colture intensive. Vi si oppone più di tutto l'abitudine ad un lavoro indipendente, la mancanza dell'inflessibile necessità e il costume poco onesto dei nostri contadini che non mancherebbero d'ingegni, per decimare a danno del proprietario ogni produzione e più d'ogni altro i frutti degli alberi. E di quest'ultimo inconveniente si ha un parlante esempio nelle forme incomplete che qui si praticano di tali contratti. Poiché sovente nelle concessioni a terratico, di cui sopra si è parlato, il possessore dà il fondo o il fondo e la semente, attribuendo una rata parte del prodotto al coltivatore che s'incarica di tutti i lavori necessari. E allora generalmente si è veduto che questo coltivatore, oltre di mancare della dovuta attività perché conosce che l'industria gli porta una sola porzione del guadagno e che l'indolenza non può costargli che una porzione della perdita, obbedisce agli stimoli di rivalersi rubando con destrezza, e costringe il possessore a raddoppiare, e spesso invano, la vigilanza, da cui si lusingava essersi liberato. Commettono lo stesso errore e soggiacciono alle stesse delusioni quei possessori che appaltando ad altri il raccolto delle olive e la manipolazione dell'olio per due terzi del prodotto ottenibile risultante dalla fabbrica (ritenendosi comunemente che il valore d'un terzo resti assorbito dalle spese) stabiliscono di contribuire ad una rata parte di tali spese e dividere il guadagno in proporzione con gli assuntori. In questo caso non havvi accorgimento che basti a non esser frodato, poiché bisognerebbe una guardia fedele e circospetta in tutte le varie frazioni delle campagne ove sono gli olivi; una per le vie donde il frutto si trasporta; una nelle varie conserve ove si ammucchia; una nel trappeto ove si molisce e si torchia. Bisognerebbe insomma che il proprietario avesse cento occhi; ed egli che voleva sollevarsi dai lunghi tedii di questa manipolazione, non si può trovare adatto a sobbarcarsi a tante brighe, e non è raro il caso che nella sua ingenuità vi perda l'opera della sua incompleta assistenza e non giunga neppure a rivalersi delle spese erogate. due altri casi, cioè per la coltura del lino e per quella delle vigne alquanto invecchiate. Nel primo caso il possessore del fondo concede al coltivatore (incaricato di tutti i lavori e di tutte le spese insin che il lino si maciulli e si scotoli) la metà dei prodotti, prelevando ordinariamente la quantità della semente che avesse apprestato egli stesso o in intero o in metà; nel secondo (che dicesi contratto a rinnovare) mettonsi ugualmente a carico del colono tutte le spese di coltivazione e i lavori che sono sempre sopra-vegliati e diretti dal proprietario, e il prodotto poi si divide tra l'uno e l'altro, dopo prelevata a vantaggio dell'ultimo una determinata quantità di mosto che si pattuisce in ragione della feracità del vigneto. Anche in questi due contratti può facilmente insinuarsi la frode dalla parte del colono poco onesto, e sempre quella condizione di doversi dividere il frutto dei miglioramenti, senza che il danno delle deteriorazioni ricada sempre ugualmente su tutti e due i contraenti, è motivo che dimezza in entrambi l'interesse a produrre i primi, e non sempre ritiene il colono dal cagionare le seconde. Note La salma locale antica per gli aridi corrisponde a ettol. 3, 43, 86 e dividesi in sedici tumoli, ciascuno corrispondente a litri 21, 49. Essa pei frumento, orzo ed altri cereali si usa a misure rase, e pei legumi e pei frutti secchi come mandorle, noci, linseme a misure colme, il che porta un po' più di 1,8 di aumento sulla misura rasa. La salma locale agraria antica (esprimente una superficie che può essere seminata da una salma di frumento) corrisponde ad ettare 2, are 79 e centiare 08, 53, e dividesi pure in sedici tumoli, ciascuno dei quali corrisponde ad are 17 e centiare 44, 28. Nell'una e l'altra di queste misure, il tumolo si divide in 4 monnelli, il monnello in 4 coppi. 2 Il cantàro locale esprime un peso di rotoli 100 e corrisponde a chilogr. 79, 34. Il rotolo equivale perciò a centesimi 79, 34 di chilogramma. Alle volte il cantàro è costituito da rotoli 110, e dicesi alla grossa. Le carrube van consegnate con l'uno o con l'altro di questi due pesi secondo i patti. L'antica misura locale dell'olio è il cafiso alla sottile di rotoli 13, ed once 26 1,4, e alla grossa di rotoli 14, ed once 26 1,4. Otto di essi formano un cantàro di rotoli 111 nel primo caso, e di rotoli 119 nel secondo. L'olio dato in prezzo delle olive vendute va consegnato col cafiso alla grossa. V. - STRUMENTI ED ATTREZZI RURALI IN USO a) Strumenti aratorii. In questo territorio, con suolo così poco profondo e così inadatto alla coltivazione dei cereali, e per giunta ingombro d'alberi e di pietre, cercare strumenti perfezionati, quali ce l'offre la nuova meccanica agraria, sarebbe cercare acque nel deserto. E peraltro come potrebbero maneggiarsi agevolmente negli spazi angusti e circoscritti delle nostre possessioni? Importa ciò non ostante ch'io enumeri e descriva quelli qui in uso, se non altro perché si conosca il tecnicismo dei nostri vocaboli agrari. Di strumenti aratori non si ha che il solo ARATRO (Aratu). È l'antico perticale tutto di legno (ordinariamente d'elce, di quercia o di frassino) tuttora usato in vari punti della Sicilia, e composto delle seguenti parti: 1° Il Ceppo (puntali) piegato ad angolo ottusissimo, forato in centro per connettervi la bure, e che nella parte superiore ha la stiva (manina) e nella inferiore il dentale (massilz), a cui s'inguaina uno stretto vomere (massa) a punta acciaiata lanceolato - acuta. 2° La bure (pertica) lunga quasi metri 4, dritta o quasi dritta, più o meno pesante, la cui base restremata (cuda -di - rinnina) vien fissata nel foro centrale del ceppo per mezzo d'una zeppa di legno (cugnu - di - casa). 3° Il nervo (tinìggia), bastone curvo, grosso un pollice, ordinariamente d'ulivastro, che connette obliquamente il ceppo alla bure. Esso nella estremità inferiore, per cui si tien fisso ad un foro del dentale, è munito d'una testa; la superiore, sporgendo lunga sopra la bure mediante un altro foro, viene infilzata da un pezzo di legno in forma romboidale allungata (cavadduzzu), e sopra questo da un collaretto di ferro (vùccula - d' - aratu); indi si spacca in due e stringesi al collaretto per mezzo d'una bietta di legno (cugnu cavaleri) che s'introduce e si calca nella spaccatura. Si dà al dentale maggiore o minore inclinazione secondo il bisogno, facendo variare l'entrata del nervo e fissando il collaretto più o meno alto. 4.° Il giogo (juvu) in legno duro alquanto curvo, lungo metri 1,56, munito lateralmente alle due estremità da un grosso anello di ferro ingangherato, e portante nel centro un archetto di legno flessibile in forma semiellittica (maniùni), che ha i due capi impastoiati da una funicella a vari giri (liazza), e sta appeso al giogo dalla parte curva con altra legaccia di funicella (cunzèri). La bure si connette al giogo introducendosi la sua estremità in questo archetto, e tenendovisi fissa per mezzo d'un piuolo (tacciùla). il quale può collocarsi alto o basso come più si vuole in uno dei tre fori seriali obliqui della bure per rendere il tiro (la tira) più o meno lungo. 5.° La ralla (auggiàta). Bastone lungo metri 1,50, nella cui estremità più grossa sta inguainato un ferro a paletta (varivùscia) per sgombrare la terra umida che si attacchi al vomere; e nell'altra è un pungolo per stimolare i bovi, o vi è legata una corta fune di canape per sferzare i cavalli e muli, secondo che l'aratro sia tratto da quelli o da questi. Alla imperfezione di questo strumento aggiungesi il modo assai più imperfetto della trazione. Questa fassi ordinariamente per mezzo di muli o cavalli, che non portano il giogo appoggiato al collo come altrove, ma nel modo seguente. Copre il dosso degli animali un basto (siddùni) connesso con varie legacce di spago a due arcioni di legno incavigliati al di fuori. L'anteriore di questi arcioni ha il dorso prolungato in una appendice cilindrica (pupidda) ed è sull'una e l'altra di queste prominenze che il giogo si appoggia al dinanzi, tenendovisi infilzato mediante gli anelli delle due estremità. Tuttoché un tale basto si rattacchi al petto degli animali per mezzo d'una larga cinghia imbottita (pitturàli), ognun vede che il moto di trazione agendo sulle appendici del basto a mo di leva, e la resistenza che oppone il petto reagendo in senso obliquo, va perduta necessariamente molta forza, e un senso penoso di pressione deve comunicarsi dalla parte posteriore del basto sulla schiena dell'animale, che serve come di punto d'appoggio all'azione della leva. Quando l'aratro si fa tirare dai bovi, il giogo è dritto e più lungo, e si attacca al collo degli animali per mezzo di cinghie intessute di cordicella di camérope (pàiuh). b) Strumenti per dissodare, coltivare e piantare. 1.° Zappa. Quasi esclusivamente addetta ai lavori delle vigne, è in ferro a lama sottile, leggermente concava, di forma conico - mozza, e con le dimensioni di centimetri 22 circa nella base, 25 nei lati, 7 ad 8 nell'apice acciaiato e tagliente. Nella base si apre un occhio quadrato alquanto piegato in avanti, che per metà rientra nel corpo della lama e per metà ne sporge fuori con grosso bordo. Il manico vi si fissa in modo che formi con la lama un angolo molto acuto; la qual maniera obbligando l'operaio ad abbassarsi molto, il dispone ad imprimere più forza al lavoro per vincere la tenacità della terra. Alcuni scrittori fanno malviso all'uso ordinario di questo strumento per quella posizione del corpo troppo inclinata che ritengono scemarne la potenza, né sanno poi tollerare, per un senso d'umanità, che ne restino quasi pigiate le viscere del basso ventre, e ne sia continuamente ricondotto il sangue alla testa, oltre di deformare la vita anchilosando le vertebre; e perciò consiglierebbero, che l'iclinazione del manico sulla lama non fosse mai portata al di sotto di 80 gradi, perché così tutta l'azione si sosterrebbe dal tronco, ove i muscoli sono più forti e meno soggetti a lussazione. I nostri contadini all'incontro son persuasi, che nella posizione consigliata essi non potrebbero reggere ad un lungo lavoro, perché stando col corpo alquanto ritto, tutto lo sforzo sarebbe portato dalle braccia e andrebbe a reagire fortemente sui lombi, né potrebbero col solo aiuto delle braccia profondare la zappa d'un solo centimetro nella terra un po' tenace, mentre nella posizione inclinata premono sullo strumento con tutto il corpo, e tagliando la terra obliquamente a varie riprese, la pastinano e la capovolgono come più vogliono, e il corpo stesso soffre meno, perché il manico dello strumento gli offre sempre un punto d'appoggio. Ogni timore poi di lussazione e di anchilosi svanisce da sé, vedendo i nostri contadini tutti ritti della persona e niente deformati. 2.° Zappa da giardino (zappitedda) simile alla precedente per la forma, ma di più piccole dimensioni e infilzata al manico sotto un angolo meno acuto. Serve a sarchiare le ortaglie, ed ogni pianta erbacea non molto fitta. 3.° Paletta (rasùla). Asticciuola di ferro laminata in punta a guisa di largo scalpello, che gli operai tengono appesa tra l'anche con un cordone ricinto ai fianchi, e che serve a nettare la zappa dalla terra umida che vi si attacchi. 4.° Zappone (zappuni). È in ferro a grossa lama di forma lineare, larga centimetri 7 lunga 23, con occhio quadrato ad una delle due estremità, grossamente bordato e un po' piegato all'innanzi, a cui connettesi un grosso manico lungo quasi un metro e formante con la lama un angolo quasi retto: l'altra estremità acciaiata e tagliente. Adoprasi a vari usi agrari nei terreni molto sodi, e principalmente per scavare le formelle per le propaggini delle viti o per gli alberetti da trapiantarsi. 5.° Piccone a punta da un lato e tagliente dall'altro gesi). Qualche volta adoperato per vincere la resistenza delle brecce nell'aprire le formelle anzidette. 6.° Sarchiatore (zappudda). È in ferro della forma dello zappone, ma a lama più sottile e più stretta. Serve a sarchiare i grani seminati alla volata. 7.° Trivella (virrina). Palo cilindrico di ferro di più di due centimetri di diametro e lungo 70, con punta inac-- ciaiata all'un dei capi e conficcato con l'altro ad un grosso manico di pesante legno a gruccia assottigliato nelle due corna, alla cui entratura fa ritegno e limite un bottone o risalto. Questo strumento si adopera per la piantagione dei tralci delle viti o dei piccoli alberetti. L'operaio afferrandolo con le due mani per le due corna del manico apre leggermente il buco da farsi, poi sollevandolo in alto e impugnandolo con la sola destra al di sotto del bottone, lo lancia sul foro cominciato con tanta aggiustatezza e con tanta forza (coadiuvata peraltro dal peso del manico) che ordinariamente in due colpi ne fa penetrare in terra tutto il ferro, a menoché non vi si opponga una breccia resistente. 8.° Trivellina (virrinedda di impalari). Della stessa forma, ma di proporzioni minori della precedente. Serve a fare i buchi pei pali di canna adoperati nelle vigne. 9.° Rincalzatore (cufiddaturi). È una semplice asticciuola di legno inserviente a calcare la terra, che si va introducendo a varie riprese nel foro aperto dalla trivella dopo avervi introdotto il tralcio o l'alberetto. c) Strumenti da taglio. 1.° Falce (fàuci). A ferro piatto lineare, largo centimetri 2, lungo nella sua curvatura 65, di forma parabolica con l'apice insensibilmente svolto in avanti, il taglio argutamente dentato, e la base raccomandata ad un corto manico di legno, quanto basta ad essere impugnato dalla mano. Serve a mietere il grano. BN. I mietitori, a non essere offesi dai denti della falce, tengon protette dal digitale e dai cannelli le dita della mano sinistra con cui impugnano il manipolo. Il digitale (jitali) è un astuccio di cuoio che veste il pollice, i cannelli (canneddi) sono boccioli di canna lasciati interi per quanto bastino a inanellare la falange inferiore delle altre dita, poi tagliati e semicilindro nel dippiù, in modo che possan coprire esternamente le due falangi superiori e lasciare libero il movimento. 2.° Falcetto o falce fienaia (fauciggiuni). Simile alla precedente, ma un terzo più corta. Usasi per mietere il fieno, le ferrane ed altro. 3.° Ronca per cespugli (menzaluna). A ferro piatto, semicircolare, di non molta spessezza, attenuantesi dalla base all'apice, e tagliente nella parte interna, largo inferiormente 4 centimetri, lungo nella sua curvatura quasi 70, con guaina ad angolo retto nella base, a cui va inserito un lungo manico. Serve a tagliare (arruncari) roveti ed altre piante spinose che non permettono un vicino accesso con più corti strumenti. 4.° Ronca per rimanda (runca). A ferro grossamente piatto, più o men largo, dritto, poi curvato e attenuato all'apice in guisa di rostro, con piccola guaina alla base, in cui s'inserisce dal di fuori un cono di legno alquanto funghetto, che sporgendo con la sua punta dal lato interno, serve di graffio per appendersi alla cintura dell'operaio che ne fa uso per tagliare rametti verdi. 5.° Pennato (rinciggiu). A lama larga, sottile ed affilatissima curvata in avanti, inserita obliquamente sopra una corta impugnatura di legno, e terminante in lunga coda, per cui mezzo possa infilzarsi alla cintola del potatore. Serve alla potatura delle vigne, a tagliare i pali di canna per le stesse, e ad altri usi. 6.° Scure e accetta (cugnàta e cugnatedda). Se ne adoprano di tutte le forme e grandezze per la rimonda e la potagione degli alberi. 7.° Uncino (croccu). È un raffio di ferro, che attaccato all'estremità d'una lunga canna o d'un'asticciuola di legno serve a disbruscare le cime degli alberi, a cui non può giungere la mano del rimondatore. 8.° Coltello da innesto (cuteddu pri’nzitari). A lama larga, alquanto convessa nel taglio, con l'apice mozzo a sbieco e un po' curvato all'indietro. 9.° Sega a mano (serra). L'ordinaria sega a lama dentata all'insù, maneggiabile da un uomo solo. Serve nella potazione a troncar qualche ramo. \10.° Segone (sirruni). Lunga e grossa lama dentata senza telaio, con due corti manichetti orizzontali di legno ai due capi, rattenuti da una ripiegatura del ferro stesso. Serve a mozzare i grossi tronchi caduti a terra. 11.° Saracco (sirràculu). Sega libera all'un dei capi, con la base fermata ad un corto manico di legno, e coi denti allicciati all'ingiù, per impedire che brandisse e s'incurvasse nell'adoprarla. Di questo strumento si fa uso per mozzare i soggetti da innestarsi. d) Strumenti ed arnesi per trebbiare. Pel frumento, l'orzo, l'avena, le fave, i ceci si ritiene il vecchio uso di farli pestare da due o tre muli menati in giro da un uomo che sta nel mezzo dell'aia armato d'un scudiscio (sfurriàta) formato da una semplice fune legata alla punta d'un corto bastone. Le paglie si mandano al vento per mezzo di forche di legno a tre rebbii (tradenti). Per separare i grani dalle loppe, dai gusci e dai grossi fustelli si adoperano i ventilabri (pali), il grande vaglio (criveddu) fatto di grossi minugi radamente incrocicchiati, e la granata (ariviggia) formata di rami secchi e cedevoli di Asparagus albus attaccati a un lungo manico di canna. Pel canape e lino l'estrazione del seme è semplicissima. Il primo se ne spoglia facilmente scotendo le teste dei manipoli contro una pietra. Del secondo se ne battono le teste dalle donne con mazze di legno. L'uno e l'altro seme si netta spolverandolo al vento col vaglio ventilatore (giuggèra), di forma circolare a sponde divaricate intessute di cordoni di sala (arcia), e col fondo cancellato da culmi di Ampelodesmo (vusa) vicinissimi e paralleli, fra cui passano facilmente le minute mondiglie. e) Strumenti ed arnesi estrattivi I frattoi d'olio si compongono: 1.° Dal frantoio (trappìtu) risultante dalle seguenti parti: a) Màcina verticale (mola suprana, o curritùri) con quasi centimetri 50 di spessezza e metri 1,30 di diametro, formata di lava o di calcario grossiere assai duro di cui abbonda il nostro litorale, e che gira strisciando sopra la seguente: b) Màcina orizzontale (mola suttàna) della stessa materia e delle stesse dimensioni della precedente, la quale sta posata sopra un rialzo circolare di fabbrica con fascia all'intorno di lastre coniche di pietra dura (busùna), alquanto inclinate per non fare scappare le olive; c) Asse di legno (fùsu) collocato verticalmente nel centro della macina orizzontale, e che col piede restremato a cilindro fasciato di ferro posa sopra una bronzina (òsciula), ov'è girevole, mentre col capo pure restremato e cilindrico passa per la gola d'un'assicella che lo ferma ad una trave collocata per traverso; Grossa maniglia di legno curvata a gomito (minciarru), la quale passando con la sua parte dritta pel foro centrale della macina verticale (già rivestito d'un cilindro di legno, cui pur si dà nome di (òsciula) si rattacca esternamente con una chiavarda all'asse, mentre con l'altra estremità curva serve a far girare la macina stessa mediante la forza di un mulo o cavallo bendato. d) Pala di ferro per rivoltare la pasta delle olive sotto il frantoio. 2.° Dal torchio in legno (consu) composto dalle seguenti parti: a) Panca inferiore (cianca suttàna). Grosso toppo quadrato di quercia o di pioppo, lungo metri 3,10, grosso centimetri 45 a un dipresso, piantato a terra orizzontalmente, ed avente due fori quadrati verso le due estremità; b) Due grosse viti di legno duro (di quercia, noce, fraggiràcolo . . . ) inserite col loro piede nei due fori e) della panca anzidetta, e incavigliate a terra sotto di essa e tenutevi fisse da due grosse chiavarde di ferro (davi) che l'attraversano. c) Panca mobile (cianca suprana) degli stessi legni e della stessa forma della precedente, che attraversa le due viti con fori paralleli a quelli di sotto; d) Due grosse chiocciole a tre punte (scufini) di legno duro e resistente, per ordinario di quercia, che girano sulle spire delle due viti; e) Scaletta di legno (scala) a tre grossi e larghi piuoli, due piantati presso le due estremità dalla parte di sotto, ed uno centrale scanalato dalla parte di sopra; la quale appoggiando pei piuoli delle due estremità al piano superiore di ciascuna chiocciola, col girare di queste serve a sollevare la panca mobile che vi sta appesa per mezzo d'un grosso canapo (palòma) passante per la scanalatura del piuolo centrale, ed avvinchiato coi due capi a due grossi chiodi (minciozv), i quali sporgono ai due lati della panca medesima; J) Scodella (scutedda). Specie di piatta-forma circolare o ellittica ad orli rialzati di legno o di pietra, che serve a collocarvi le gabbie, e a farne colar l'olio nel sottoposto tinello; g) Copertoio (baiardu) quadrato o disco di legno, che serve a coprire le gabbie e a ricevere la pressione della panca mobile; h) Manovella (stanga). Lunga asta di legno sodo, il cui capo appoggiato or all'una or all'altra vite si rattacca alternatamente per mezzo d'un anello di grosso canapo (palò-ma) alle punte di ciascuna chiocciola, e l'altro tirato orizzontalmente dalla forza di tre operai stringe le chiocciole contro la panca mobile, ed obbliga questa a premere sempre più le sottoposte gabbie; Gabbie (coffi) intrecciate di giunco, e 16 in numero. k) Tini e tinelli di varie grandezze ed altri piccoli attrezzi. N.B. Il torchio sopra descritto serve pure senza alcuna differenza per la pressione delle uve dopo i) essere state schiacciate coi piedi nel palmento, che ordinariamente è in muratura. J) Strumenti ed arnesi per trasporto. 1.° Carrette. Usansi quelle leggiere a due ruote ordinariamente adoprate nei trasporti commerciali, ed impiegarsi a trasportare fieno, derrate ed altri ricolti dai soli campi, cui si può accedere per vie carreggiabili. 2.° Còfani (cruveddi). Quelli che si usano per la raccolta delle uve e di altri frutti, come per lo trasporto delle uve stesse al palmento e per altri usi agrari, sono della capacità di 15 litri a un dipresso, di forma leggermente conica a fondo piatto, intessuti di striscie di canna e di vimini d'agnocasto; quelli per lo trasprto dell'uva sugli animali sono il doppio più grandi e di forma quasi cilindrica a fondo piatto (cruveddi di càrricu) ma intessuti allo stesso modo, sebbene con striscie di canna e verghe più grosse. Per raccogliere le olive si usano piccolissime. 3.° Còfani per concime (cruveddi sciunnati). Sono due larghe ceste in forma cilindrica ed a fondo mobile intessute di vimini, le quali si sospendono in posizione verticale ai due fianchi d'un cavallo o di un mulo. Il fondo, che è a strette sponde, vi si incappella per di sotto standovi legato dalla parte del basto per mezzo d'un'ansa e di una fune, mentre da quella esteriore viene raccomandato con altra ansa ad una funicella, che legata con cappio ad un cavicchio di legno impiantato nell'orlo superiore, e sciogliendosi a volontà, lascia cadere a terra senz'altro incomodo il concime, di cui quelle son colme. Questo arnese è quasi caduto d'uso, sostituendoglisi i cofani di carico sopradescritti, oppur le carrette. 4.° Cancelli (ianceddz). È un ordegno, che si compone di due quadrati di règoli di legno incavigliati, tagliati a sbieco nelle due estremità inferiori e ingangherati l'un contro l'altro dalla parte più corta del taglio, cosicché possono aprirsi a libro sotto un angolo quasi retto, facendosi reciprocamente ostacolo i due piani obliqui del taglio stesso. Quest'ordegno, sospendendosi appaiato ai due fianchi d'un cavallo o d'un mulo, serve a mettervi dentro covoni di fieno, di grano o d'altro senz'altro bisogno che d'una leggiera legatura con funicelle a cappio (savuletti) attaccate all'ordegno stesso, e rende più pronti ed agevoli i trasporti. 5.° Bisacce (visazzi). Sono come due grandi sacchi di canevaccio riuniti lateralmente, che si mettono in coppia attraverso il basto d'una cavalcatura per trasportare grani, legumi, frutti secchi ed altro. In centro dei due sacchi è una maglia di spago (prisaggia), a cui sta attaccata una funicella a due capi (saccòsima) che serve a legame le bocche. Quando il trasporto si opera per mezzo di carrette, si fa uso di semplici sacchi di grossa tela. 6.° Retone (rittíni). Grossa rete di funi di canape, conformata a foggia d'un gran sacco, e di cui si fa uso per trasportare la paglia. 7.° Cavagnuolo (vuzzeddu). Grossa rete di funicelle di camerope a guisa di canestro, che si mette alla bocca degli animali, per impedire che mangino quando trasportano i covoni del grano. VI. - ROTAZIONE E LAVORI PREPARATORI Ove le condizioni del suolo e del clima, come più innanzi abbiamo avvertito, sono così avverse al prosperamento della vegetazione erbacea da escludere qualunque vegetazione estiva e da rendere anche incerto il successo di quelle invernali, non può mai aspettarsi un buon sistema di avvicendamenti nella condotta dei poderi che il solo stimolo del bisogno induce a coltivare, e quasi sempre col dubbio che l'impresa rimanga oziosa e tradisca gli sforzi. Certamente non havvi alcuno dei nostri agricoltori il quale ignori, se non in teoria almeno per esperienza e per pratica, che le raccolte generalmente vengono male sopra sé stesse, mentre un campo spossato e divenuto sterile per una specie particolare può tornar fecondo per una seconda e per una terza specie che esiga diversi elementi di nutrizione, o si avvalga dei medesimi principi della prima, ma in proporzioni assai più tenui. Ciò non ostante qual partito può egli trarre dall'acquistata conoscenza, quando non è libero nella scelta e son poche le specie che gli offrano speranza di mediocre riuscita? Frumento, orzo, avena, fave, ceci, lino, ecco tutto il repertorio delle specie economiche qui tollerate dal clima. Ma queste medesime può il nostro coltivatore adoprarle tutte utilmente e alternarle a suo modo? Egli sa che i cereali, piante eminentemente spossanti, riescono bene dopo una pianta leguminosa, a segno d'indicare col nome di conca una cultura di quest'ultima famiglia; ed avrebbe per questo a sua disposizione la fava ed il cece. Ma la fava, per la natura calcare dei nostri terreni, gli perisce in erba precocemente sopraffatta dal parassitismo del succiamele (Orobanche pruinosa La Peyr., in sic. Lupa); ed il cece, esigendo una cultura primaverile, non sempre riesce a compiere il ciclo vegetativo per la normale deficienza di piogge tardive, oltre di essere le più volte malmenato e intristito dalla rabbia. Nell'orzo e nell'avena non si hanno che due graminacee come il frumento, e quantunque si credano meno spossanti e qualche volta si facciano succedere immediatamente al frumento, non pare che ciò si faccia con buon consiglio, perché nutrendosi dei medesimi elementi, sebbene in minor dose, non fanno che esaurire il suolo dei pochi principi che il frumento vi aveva risparmiati, e renderlo per conseguenza maggiormente disadatto a tollerare il ritorno del grano. E l'avena inoltre, se fatta in grande proporzione, non troverebbe facile spaccio nel nostro mercato. Resterebbe il lino; ma questa specie ama un terreno alquanto pingue, che poi abbandona fortemente spossato, sì per la natura oleosa dei suoi semi, come perché non lascia nel suolo alcun residuo, neppure le radici. E poi son tanti gl'incomodi e così considerevoli le spese richieste dalla manipolazione del suo prodotto, che impoveriscono l'agricoltore, non che gli lascino qualche lucro. E quando si può conoscere in anticipazione, che una coltura non concorre allo scopo economico che si ha in vista, o lasci tutto al più un magro beneficio, cessa il coraggio di ripeterla. Per tutte queste ragioni, ed anche per la maggior convenienza della piccola coltura non può adottarsi nelle rotazioni un sistema costante ed uguale da tutti, ma bisogna lasciar seguire quella che ciascuno reputa più adatta alle condizioni del suo terreno, più opportuna all'andamento delle stagioni, più favorevole al proprio interesse, quantunque poi le più volte si trovi deluso nei suoi calcoli. E non è raro che, malgrado delle frequenti disillusioni, faccia seguire alla raccolta del cereale una coltura sarchiata o di ceci, o d'orzo, o di fave, o di orzo e fave avvicendati nelle linee; l'unica precauzione che può adoperar per le fave è quella di servirsi della varietà a semi neri che ci viene dalla vicina Malta e che essendo a fioritura più precoce delle varietà indigene, elude in qualche modo l'aggressione dell'orobanche assai più tarda a svilupparsi. Non è raro anche il caso che il coltivatore si determini a coltivare dopo il pascolo il grano sarchiato, o a mettere due colture sarchiate (cioè di legumi e poi di grano) l'una dopo l'altra, non tanto perché se ne prometta molto maggior beneficio, ma perché, quando il campo suol essere invaso da molte erbacce, fa calcolo che gli torni meno costosa la sarchiatura che non il nettamento dalle cattive erbe da farsi a mano. Tutte queste però non sono che eccezioni: l'espediente generale a cui più d'ordinario fa mestieri di sottoporsi, è di seguire il sistema di rotazione più imperfetto, avvicendando la coltivazione dei cereali al prato naturale temporaneo o alla semplice pastura. E bisogna pur confessare ch'è giocoforza attenersi a quest'unico metodo più per ottenere un buon pascolo che per tornaconto sperabile dalla riproduzione del cereale; giacché è un fatto che la coltura dei cereali è la più dispendiosa e qui dà poco reddito o non paga le spese, mentre i pascoli si affittano a prezzi vantaggiosi e non possono sempre ottenersi senza una coltivazione intermedia che dia tempo al terreno di rifornirsi di nuovi semi di piante avventizie. E il terreno intanto rimasto per un solo anno a pastura non ne riviene più adatto alla immediata ricoltivazione dei cereali; poiché senza lavori che ne smuovano e ne disuniscano le parti, e senza che il libero accesso degli agenti atmosferici le penetri per ogni verso, gli elementi rimasti in stato di combinazione chimica non possono in sì breve intervallo decomporsi e addivenire solubili ed idonei alla nutrizione del vegetabile depauperante che vi si torna a mettere. È però a considerarsi, per ridurre la cosa al suo giusto valore, che nei lavori per le anzidette coltivazioni, in cui molta è la spesa e poco il profitto, si ha sempre la mira indiretta di favorire il prosperamento degli alberi, dei quali non è campo che si trovi sfornito, e che costituiscono la vera ricchezza del paese, come fu esposto nei capitoli precedenti. Né dalle medesime sopraccennate circostanze e climateriche e telluriche si presentano minori e più superabili ostacoli alla esecuzione dei lavori preparatori per le stesse coltivazioni autunnali solamente possibili. Anche questi non possono esser fatti nei tempi più opportuni e con tutti gli accorgimenti suggeriti dall'arte agraria. Difatti, una prima aratura anticipata, che squarciando gli strati interni della terra vi facilitasse l'accesso alle rugiade notturne ed ai principi fertilizzanti atmosferici per tutto il corso dei lunghi mesi estivi, non può sempre venire praticata, perché sino al 15 maggio si continua l'uso affittato del pascolo, e nella seconda metà di quel mese i calori sono ordinariamente così cresciuti e noiosi, che gli animali attaccati all'aratro (per lo più muli) non reggono al lavoro, oltreché il terreno per la mancanza delle tarde piogge primaverili trovasi così indurito da non potersene vincere laresistenza. È quindi giocoforza ripetere i lavori a brevi intervalli nell'autunno più o meno avanzato: lavori tanto maggiormente affrettati quanto sono più tarde a venire le prime piogge, e che all'infuori di dare al suolo un imperfetto disgregamento, non lo migliorano né lo arricchiscono di nuovi elementi. Aggiungasi che questi medesimi lavori, così per la pochissima spessezza dello strato arabile, come per l'uso dell'aratro impiegato, ancorché anticipati in tempo più utile, non potrebbero farsi alquanto profondi senza portare alla superficie le materie inerti del sottosuolo, le quali, come fu notato più innanzi, non essendo ancora modificate dall'azione delle meteore, accrescerebbero la sterilità invece di ammendarla. Manca dunque quel gran beneficio di poter evocare e sostituire alla già spossata una terra meno esausta. Ricorrere in ogni caso alle concimazioni non si può né si dee, ché le più volte non ne varrebbe la spesa, né potrebbe anche praticarsi con immediato profitto per le biade soggette a versare. Tali lavori si riducono, come d'uso comune, ad arare il suolo compatto in una direzione (ciaccàri), riararlo una seconda volta a traverso incrociando i primi solchi (rifùnni- r i), e finalmente una terza in senso opposto della seconda per seminare: interposto fra l'una e l'altra un intervallo più o meno lungo. Quando la prima siasi fatta in maggio, ed anche quando i lavori affrettati d'autunno non siano riusciti ad espellere nel loro germogliamento l'invasione dell'erbe spontanee, suole interporsi un'altra aratura tra la seconda e la terza, ciò che dicesi nel linguaggio vernacolo ritrizari, voce corrotta da rinterzare. Un aratro può arare in un giorno are 52 di superficie, se tirato da muli, e sole are 43, se vi siano aggiogati i buoi. I secondi però danno un lavoro più perfetto. VII. - CULTURE SPECIALI a) Piante Erbacee. 1.° – CEREALI. Non abbiamo propriamente da registrare sotto questa categoria, che il solo frumento. Quanto all'orzo, sebbene il signor Parmentier, tutte le volte che non gli si faccia subire la fermentazione panacea, lo abbia giudicato più nutritivo del frumento e lo abbia raccomandato per la tavola del povero, non se ne fa qui alcun uso per alimento dell'uomo; e credo perciò più a proposito che se ne parli nella categoria dei foraggi. Quantunque poi non serva dir tante volte la stessa cosa, non posso astenermi dal ripetere che, se tutti convengono la coltivazione dei cereali, e in particolare del frumento, essere più onerosa che produttiva, ognuno può considerare quanto debba essere grave per queste contrade, ove il prodotto non avanza le tre o le quattro sementi, e spesso le pareggia o vi sottostà. Ma poiché essa forma la base del nutrimento dell'uomo, e per le già contratte abitudini non può essere sostituita da altri alimenti neppure dal contadino, non deve far meraviglia che il bisogno renda accettabile quel debole beneficio. Intanto per le nozioni mandate innanzi credendomi francato dal dimorarmi a descrivere per minuto cosiffatta cultura, che non ha né può aver qui alcuna cosa di singolare, mi basti venirla trattando per sommi capi e solo per far conoscere le pratiche qui adottate e la locale tecnologia. Del FRUMENTO (Triticum vulgare hibernum L.= SIC. Frumentii) la varietà più comunemente coltivata è quella a grano semitenero, volgarmente denominata russìa o ruscìaperché si è conosciuto, prendendo a guida l'esperienza, ch'essa prova meglio nei nostri terreni, sebbene sia più d'ogn'altra soggetta alla golpe (nìuru). Nei pochi campi di qualche pinguedine, e dove si teme l'allettamento, si semina qualche varietà a gran duro, come la Giustalisa, il Realforte, il così detto Gigante . . . .: alle contrade più sterili è riserbata la Maiorca, ch'è il Triticum siligineum spica rufa mutica, varietà tenera essa pure del Triticum vulgarel . Non di rado in qualche appezzamento, che non si ebbe il tempo e l'opportunità di ben preparare in autunno, si arrischia il grano marzuolo (Triticum vulgare aestivum. L.= SIC. Timunìa); e dico avvertitamente si arrischia; poiché spesso cessando assai per tempo le acque primaverili, non arriva a metter le spiche La semente, salvo poche eccezioni, non si prepara con alcun liscivio, ché sarebbe un impaccio alla tenuità delle aziende; però si ha quasi sempre l'accorgimento di non usar quella prodotta sul luogo, ma di richiamarla ben condizionata d'altrove e a preferenza dalle vicine montagne. Anche qui, come dovunque, la quantità della semente in rapporto alla estensione della superficie non è precisa-bile in modo assoluto per la differenza che sempre esiste tra una terra cattiva che ne ricerca più ed una mediocre che n'esige meno. Ordinariamente se ne mette una salma per ogni salma di terreno, ciò che corrisponde ad ettolitri 1, 22, 21 per ogni ettare, La seminagione ha luogo da novembre a dicembre (pel grano marzuolo in febbraio) e si fa alla volata od in linee (pel grano marzuolo sempre alla volata). Nella semina alla volata (a ringu) dopo tracciate sul campo con l'aratro delle aiuole (proci) più o men larghe, il seminatore, portando sospesa ad armacollo una cesta (coffa) intessuta di foglie di camerope e piena di grano, procede a passi misurati lungo una sponda dell'aiuola lanciando dinanzi a sé col pugno della destra semiaperto la semente in semicerchio obliquo ed in modo che la maggior parte vada a versarsi sulla metà opposta dell'aiuola. Torna poi dall'altra sponda e completa l'operazione per l'altra metà. L'arte sta nel mantenere il passo sempre uguale e continuo, prendendo a ciascuna posa del piede sinistro un pugno di semi dalla cesta, e lanciandolo a ciascuna posa del piede destro, e bisogna pur dire che i nostri contadini sono in ciò assai sperimentati, perché la distribuzione dei semi riesca regolarissima. Non essendo in uso né l'erpice né il rullo, la semente si sotterra con l'aratro che a quest'uso si adopera più leggiero né offre pericolo di approfondarla molto. Si supplisce poi al pareggiamento della terra per mezzo d'un operaio (cunzaturi di terra) che seguendo l'aratro con uno zappone ne va stritolando le zolle (tifuna) rimaste alquanto grosse (cioè che dicesi stimpuniarz), scava la terra sfuggita al vomere accanto alle ceppaie degli alberi e lungo i muri di cinta, e appiana in certo modo il dorso dei solchi mantenutosi alquanto sporgente.— Nella seminagione in linea si hanno due maniere, quella in riga continua (a frìscina) e quella riga interrotta (a maccia). L'una e l'altra si eseguiscono per mezzo d'un uomo adulto od anche d'un garzone, che seguendo l'aratro va gettando con la mano i grani nel solco; se non che nella prima maniera i grani sono versati a striscia continua, nella seconda interrottamente e a spizzico. Attesa la poca larghezza del nostro vomere e perché si lasci un conveniente spazio ai successivi lavori, i solchi si alternano seminandone uno e lasciando vuoto l'altro. Si danno per ordinario due sarchiature, una volta con gli strumenti ed a mano quando le pianticelle abbiano messo quattro a cinque foglie, e la terra non sia molto umida, un'altra solamente a mano. La prima, nelle coltivazioni alla volata, si eseguisce col sarchio (zappudda, donde l'operazione viene detta zappuliari) che, sebbene non ismuova e non accosti convenientemente la terra a rinforzare le pianticelle, pure non lascia di romperne la crosta e di scavarla negl'interstizi ed è l'unico mezzo di liberare il terreno dalle piante infeste più grossolane, specialmente dalle carduacee2, estirpandosi a mano le altre più delicate, soprattutto le graminacee che si trovino più vicine e anche intricate al vegetale coltivato. Questa prima sarchiatura nelle coltivazioni in linea si dà con la zappa, e se ne ottiene per conseguenza un migliore rincalzamento e un accestimento maggiore, ed anche qui l'erbacce più vicine alle piante domestiche vengono svelte a mano. La seconda sarchiatura tanto nell'una quanto nell'altra coltivazione serve a rinettarle a mano da tutte l'erbe avventizie che vi siano pullulate o cresciute dopo la prima. Questo, dissi, è ciò che si pratica d'ordinario ed in generale da chi servesi dell'opera altrui e conta la spesa; ma in eccezione a questa regola il contadino che ha in proprio il suo campicello e nulla spende, profitta di tutti i momenti disponibili per rifrugarlo in tutti i sensi e non lasciarvi un sol filo d'erba che porti impaccio alla produzione. Si miete nella prima metà di giugno o in quel torno, quando i nodi superiori del culmo tirano al bruno e la base non offre alcuna traccia di verde, con la falce superioremente descritta e che ottenne d'essere premiata con medaglia d'argento nel Congresso regionale agrario tenutosi lo scorso anno in Palermo. La messe lasciata dal mietitore in manipoli Oèmmita) tre volte annodati alla base mediante l'attorcigliamento di un fascetto di culmi (vàusu) si riunisce in covoni (regni) che si legano con piccoli fascetti di foglie di ampelodesmo annodati a due per le punte (licímz). Venti covoni costituiscono un mazzo, cinquanta mazzi un migliaio. I covoni si trasportano (si carrìanu) e si abbicano (si'ntimùgnanu) all'aria aperta in vari locali a ciò designati e custoditi da una guardia a spese comuni. La trebbiatura (pisatìna) si esegue poco stante e lungo il mese di luglio per mezzo di muli sopra aie sterrate, come fu detto nell'articolo V. La paglia estratta per mezzo del vento si fa cadere e si regola in modo da formare in un margine dell'aia opposto alla parte donde tira il vento un grosso banco in sezione di cerchio più o meno incurvata (marivunz). Il locale, donde si è levata la bica (timugna), dicesi timugnali, e si netta da tutte le spiche che vi siano rimaste. 2.° GRAMINACEE DA FORAGGIO E DA PROFENDA.Orzo (Hordeum Vulgare. = Oriu). Si coltiva questa sola specie, e viene esclusivamente addetta alla nutrizione degli animali domestici, o in erba come foraggio verde, o secca nella doppia condizione di paglia e di semi. È meno esigente del frumento e si mette anche nei terreni più infelici. Quando si destina a foraggio verde, si semina alle prime acque d'autunno dopo una semplice aratura preparatoria, in modo che possa mietersi in gennaio; se mirasi ad averne la produzione completa, la seminagione vien fatta alquanto più tarda di quella del frumento, e matura ciò non ostante e mietesi in precedenza. La sua coltivazione non differisce da quella del frumento e vi si adoprano gli stessi metodi e le stesse cure. Il reddito che se ne ricava è alquanto maggiore in quantità di quello del frumento, ma sempre mediocre. Oltre l'orzo e al medesimo doppio scopo di averne i semi ed un foraggio verde per gli animali domestici, si è introdotta da poco tempo e in estensione assai limitata la coltivazione dell'avena (Avena sativa. = SIC. Aìna) seminandola alla volata o precocemente in autunno o tardi in gennaio, secondo che si destina all'uno o all'altro dei due fini. È stata principalmente accettata per la sua attitudine a prosperare nei siti ombrosi e a mantenersi verde e tenera sino a tarda primavera. Quando è mietuta per foraggio verde assai per tempo, si ottiene dal guaìme una discreta quantità di semi. Non esige cure particolari dopo la semina. È più produttiva dell'orzo. Si miete e si trebbia come il frumento. La paglia non è molto appetita dagli animali, e se ne fa poco uso. Fu tentata la coltivazione del Bromus Schraderi per le qualità illusorie ad esso attribuite e cotanto magnificate di provar bene nei luoghi secchi. Seminato nei primi giorni di aprile e provvidamente soccorso da una benefica pioggia tardiva germogliò bene e crebbe rapidamente da far credere avverati i suoi vanti; ma appena la terra si rasciugò e il sole di maggio fe' sentire i suoi calori, la vegetazione arrestossi di un tratto. Si volle sperimentare a seminarlo in autunno ed anche in linea per poterlo meglio difendere dalla invasione dell'erbe spontanee; ma le sue foglie seminali, in fili esilissimi da potere appena essere distinti dall'occhio, furono così lente a vegetare che restarono subitamente schiacciate dalla foga irrompente delle altre graminacee indigene, e autorizzarono a conchiudere non esser pianta né adatta né utile pei nostri climi. Fu però notato che i muli e gli asini, lasciati a pascolare ov'erasi fatto il primo saggio, non erano tanto ghiotti di mangiarne i culmi, quanto le radici, frugando col muso la terra per trarnele e cibarsene. 3.° CIVAIE. - Fava (Faba vulgaris. DEC.). Fu detto nell'articolo precedente quali sono gli ostacoli che questa coltura incontra, e quale la varietà preferita per iscongiurarli in certo modo, sebbene con esito non sempre felice. Si semina a riga interrotta con lo stesso metodo che si usa pel grano, mettendo a 20 centimetri di distanza un seme dall'altro e alternando i solchi pieni coi solchi vuoti. I baccelli si raccolgono e si vendono allo stato verde. Grande utilità potrebbe ricavarsi dal soversciare le piante ancor verdi dopo raccolti i frutti: ma ciò non si fa, e neppure si lasciano nel suolo i fusti secchi, che in gran parte vanno svelti ed asportati per combustibile di forno. Alle volte dai contadini, quando si accorgono che la fruttificazione prometta poco per lo sviluppo precoce dell'Orobanche, non si netta la coltura dalle ultime piante avventizie, e appena racimolati i pochi legumi abboniti si miete il tutto per fieno. Non di rado si associa a questa coltura l'orzo affinché i lavori non restino affatto senza compenso. Cece. (Cicer arietinum. UN. = SIC. Ciciru). Si semina in marzo ed anche sul finire di febbraio a spaglio od in riga continua dopo preparato il terreno con le solite arature. Sovente si mette nei terreni stessi donde si è mietuta di recente la ferrana d'orzo o d'avena, i quali si ha l'accorgimento di predisporre con buone arature nettandoli da ogni avanzo di radici che la precedente coltivazione vi abbia lasciato e che riesce difficile di soversciare senza che ripullulino. Si sarchia una sola volta per rinforzare le pianticelle e per nettarle dal rosolaccio (Papaver rhoeas. UN. = SIC. Paparina) che è la pianta concomitante del cece, in qualunque terreno esso cresca. Svellesi in maggio, e da prima si lascia a seccare in manipoli a piena aria, poi si fascia in covoni che lasciansi distesi sul terreno senza mai abbicarsi, perché i semi fermentando alla minima umidità si anneriscono e si guastano. Si trebbia coi muli nell'aia come il frumento. Fagiuolo (Phaseolus vulgaris. = SIC. Fasola). Non avendosi in queste contrade quei terreni sciolti e freschi in cui prospera questa pianta, se ne trova limitata la coltivazione in pochi siti irrigabili e specialmente negli orti presso la foce del Cassibili. Non si coltivano le rampicanti, ma le sole varietà nane. Si seminano a fossette in due riprese, l'una in marzo e l'altra in corso dell'està. Si sarchiano appena han messo le prime due foglie e s'innaffiano ogni otto giorni finché abbiano cominciato a mettere i fiori. I legumi si raccolgono in giugno ed agosto pria che siano del tutto seccati, e i semi sgusciati a mano si rasciugano al sole. Alcuni legumi allo stato tenerissimo (fàsuledda) si vendono in verde per insalata. Pisello (Pirum sativum. LIN. = SIC. Fasella). È coltivato da qualche amatore per mangiarne i semi verdi in famiglia o a minestra o per condimento: si vende di rado nelle botteghe dei trecconi. È infestato più che le fave dall'Orobanche pruinosa. LAPEYR. 4.° PIANTE INDUSTRIALI. — Lino (Linum usitatissimum. LIN. = SIC. Linu). I terreni sostanziosi che naturalmente potrebbero convenire a questa specie di coltura, essendo assai pochi in questo territorio e bisognando adattarveli col mezzo dispendioso della concimazione, ed inoltre la carenza della mano d'opera per la gramolatura e la scotolatura non lasciando che pochissimo tornaconto, ne è seguito ch'essa coltura trovasi praticata in assai ristrette proporzioni e per semplice economico uso di qualche particolare famiglia. Oltreché, come parmi aver cennato più innanzi, la sua proprietà dimagrante (conosciuta dalla remota antichità) non più la rende adatta ad un paese ove si ha poco da sacrificare ad una coltivazione che danneggia più che non vantaggi. Noteremo ciò non ostante il metodo con cui qui si esegue. Il terreno preparasi al solito con le due arature, l'una trasversale all'altra, come pei cereali. La seminagione si fa su lo scorcio d'ottobre o al cominciar di novembre (non essendo qui conosciuta che la sola varietà autunnale o invernenga) spargendo il seme ben fitto alla volata, salma una e mezzo per ogni salma di terra, che corrisponde ad ettol. 1, 83, 31 per ogni ettara. In tutto il ciclo della vegetazione non richiede altri lavori che quello d'essere nettato a mano dalle cattive erbe e specialmente dalla Sinapis dissecta. LIN (SIC. Finacciòlu di linu), ch'esercita su questa specie una sorta di falso parassitismo. Ove l'invada la Cuscuta epilinum. REICHC. (SIC. Suprasàtira) è vana qualunque cura: da ciò il bisogno di vegliar grandemente alla buona scelta della semente. La raccolta fassi nello scorcio di aprile o nei primi giorni di maggio, quando il grano è già formato nelle càssule e i fusti divenuti giallicci cominciano a inaridire: il che se nuoce alcun poco alla perfezione dei semi, giova moltissimo alla bontà della materia fibrosa. Esso svellesi a mano per opera di donne e si lega in manipoli (manni), i quali sono così grandi quanto possono abbracciarsi nella parte superiore al di sotto delle pannocchie (punto ove si fa la legatura con funicella di ampelodesmo) dall'indice e dal pollice delle due mani riunite in cerchio. Venticinque di questi manipoli costituiscono una rota. Per farli asciugare si lasciano vari giorni sul campo rizzati l'uno accanto all'altro in caselle circolari di mezza rota ciascuna, o a dir meglio una di 12 ed una di 13.Quando sono bene rasciutti, si accatastano in biche circolari a cono rovesciato od a cupola, disponendoveli con arte orizzontalmente ed a raggio in modo che le pannocchie siano situate nel centro e le radici alla circonferenza, e facendo poi su la massa una covertura di fascine e paglia: mezzo immaginato ma non sempre efficace per guarentire i semi dalle piogge, che sono peraltro un fenomeno straordinario in estate. Dopo la messe dei cereali si scatastano, e tenutili alquanto al sole, divenuto allora più cocente, se ne battono le teste sopra un ceppo o una pietra con mazze di legno (si mazzianu) per farne uscire i semi, che poi si nettano col ventilabro e spolverandoli al vento. E questo è pur lavoro delle donne che, come quello dello svellimento, si paga a rota. Indi si affastellano in covoni e si conservano o dentro case, o sotto tettoie, o si lasciano, sebbene rare volte e solo da chi non ha comodi, ad aria aperta. Finalmente a mezzo agosto (termine fissato dai regolamenti sanitari) si portano al maceratoio, ove si tengono da sette ad otto giorni e finché il parenchima si rompa con facilità e la materia fibrosa se ne stacchi perfettamente: quale momento, per incuria dei sopraveglianti, spesso si oltrepassa con perdita di tutto. Terminata la macerazione, si estraggono e, fattili ben rasciugare al sole disponendoli ritti sul terreno con le basi slargate, si trasportano per maciullarsi e scotolarsi. La macerazione che prima eseguivasi nella foce del Cassibili, ora per misure sanitarie è solo consentita nelle bonache del fiume Atellaro, in territorio di Noto a quasi dieci chilometri di distanza da questo Comune, con l'ordinario metodo della immersione in acqua stagnante; ed è questo un altro dispendio e un altro impaccio che si trova aggiunto ai non pochi ordinari di questa industria. La gràmola o maciulla (mànganu), di cui qui si fa uso, è uno strumento in legno duro che costa di due parti, l'una inferiore (sultana) consistente in una grossa asse della lunghezza a un dipresso di metri 1,30 e larga quasi centimetri 35, avente nel mezzo uno spigolo longitudinale con due vallicelle laterali sfondate; l'altra superiore (soprana) risultante da un grosso fusto semicilindrico della lunghezza approssimativa d'un metro, con la superficie interna risaltata da due spigoli triangolari che con la vallicella intermedia vanno a combaciare nelle vallicelle e nello spigolo della inferiore. Questa soprana è incavigliata per la base a cerniera verso il terzo inferiore della sottana, e si apre e chiude sopra di essa per mezzo d'un manubrio cilindrico (manuzza) sporgente dall'orlo esterno della sua sommità. Situato questo strumento in posizione leggermente inclinata con la base a terra e la testa appoggiata ad un masso, l'operaio divide il lino in piccoli manipoli e tenendoli con la sinistra ora per un capo ora per l'altro li fa passare ad uno ad uno ed a più riprese tra gli spigoli, alzando ed abbassando con la destra il pezzo soprano e battendo forte sopra di essi; e così ne frantuma e ne scaccia in gran parte la materia legnosa, I manipoli vanno legati insieme a dieci a dieci e costituiscano una rècuma; poi si riuniscono in fasci (fascia) di dieci rècume per ognuno. Lo strumento per scotolare (spàtulu) risulta d'una semplice assicella sottile di legno duro e ben levigato, alquanto più alta d'un metro e dipresso a 20 centimetri di larghezza rettangolare e attenuata all'apice, che si pianta verticalmente tenedola ferma con l'appoggio di grosse pietre. Ridotto nuovamente in piccioli manipoli il lino già maciullato, l'operaio prendendoli l'un dopo l'altro con la sinistra ora per una estremità ora per l'altra li posa sporgenti da un lato sull'apice dell'assicella, mentre con una scotola di legno (spàtula), di cui tiene armata la destra e che ha la forma d'una grossa daga, vi batte sopra lateralmente e così li viene spogliando da tutte le lische. Il lino così trattato si pesa e si riduce in fastelli, ciascuno di cinque rotoli (una Pisa) eguali a chilogrammi 3, 96, 76. Le manipolazioni ulteriori escono dal dominio dell'agricoltura e rientrano in quello della tecnologia. Canape. (Cannabis sativa. = SIC. Cànnavu). Si ha difetto di questa coltivazione più che di quella del lino, perché i terreni freschi e sostanziosi, quali ad essa si convengono, sono in questo territorio pochissimi, ed è giovato destinarli ad altre colture più rimuneratrici e più tegnenti. Essa dunque appena vien praticata in qualche ristrettissimo sito sulla riva dell'Asinaro e in un mediocre appezzamento presso la foce del Cassibili naturalmente fecondato dalle escrescenze di quel fiume. Il terreno si prepara con ripetute arature, finché si renda soffice e sciolto e quasi polveroso. La semina si eseguisce in marzo con lo stesso metodo e con la stessa proporzione di semenza che fassi pel lino; solamente, perché i semi aderiscano meglio alla terra e questa resti meglio appianata, vi si fa passar sopra un'asse pesante trascinata da due buoi aggiogati, che fa l'ufficio di rullo. Non intervengono sino al raccolto altri lavori, poiché la canapa con le sue larghe foglie copre ed affoga tutte le erbe avventizie. La stessa Phaelipanche ramosa. POMEL, pianta parassitica solita ad invadere i canapai, non è qui di grande nocumento. Non si svelle, ma si miete con la stessa falce adoperata pel frumento appena i semi delle piante femmine si vedon giunti a maturità e la maggior parte delle foglie è caduta.' Ogni fastello che il mietitore può abbracciare con una mano vien legato con alcune fila dello stesso canape e costituisce una manna. Le manne si lasciano stese sul terreno a filari continui, volgarmente camèri, ove stanno per 2-3 giorni secondo il bisogno; poi si rivoltano, e quando siano ben disseccate, si trasportano all'aia (ariùni), e battendole forte sopra un legno se ne fanno cadere i semi, che si nettano spolverandoli al vento. Eseguito ciò, le manne si riunisci:in° e si legano a 10 a 10 con cordicella di ampelodesmo, e ciascuno di questi falcetti prende nome di rècuma, voce probabilmente alterata da decina o decuplo. Dieci rècume, ossia 100 manne costituiscon una sàrcina. Si portano così disposti al maceratoio, come fassi pel lino, ed ivi l'unione di due sàrcine si designa con l'appellazione di màddia. La macerazione ha luogo come pel lino. Estratte dal maceratoio dopo una permanenza da 7 a 9 giorni, le sàrcine si risciacquano e si slegano, e le manne si pongono ritte appoggiate tra loro a guisa di padiglione, perché ne sgoccioli la molta acqua; poi distendonsi a terra per bene asciugarsi, e ottenuto il perfetto riseccamento, si trasportano per le ulteriori operazioni della maciullazione e della scotolatura. La maciullazione si esegue del modo stesso e col medesimo ordigno adoperati pel lino. Lo strumento per la scotolatura è pure un'assicella verticale come quella del lino; se non che questa è alquanto più lunghetta ed ha una lamina di ferro in uno dei bordi laterali, e le manne invece di battersi con la spatola, si sbattono da prima contro le due facce della spatola, poi si soffregano reiteratamente e con forza su la lamina di ferro tenendosi afferrate dall'operaio alle due estremità con l'una e l'altra mano. Spogliata così dalle lische, la canapa si riduce in gruppi (mannii- na) e si pesa e si lega in fastelli uguali, come abbiamo detto pel lino. Cotone. (Gossypium siamense. TEN. = SIC. Cuttuni). Gl'incitamenti venuti dal Governo durante la crisi dei cotoni americani, per la guerra di secessione che colà si combatteva, fecero tentare anche qui la coltivazione di questa specie, ch'era la più acclimata da più anni in Sicilia; ma i risultati, com'era da aspettarsi, riuscirono infelici, e non si andò più oltre. Sèsamo. (Sesamum indicum. LIN. = SIC. Giuggiulena). È coltivazione qui antica e fattasi pel passato in maggiori proporzioni, ma oggi ridotta a non potersene calcolare il prodotto annuo a più di 12 ettolitri, una metà del quale si esporta per Catania e Messina, e l'altra si consuma localmente per farsene cotto col miele il così detto torrone di giurgiolena o cubàita, leggiera alterazione della parola maltese combaitta. Vuole terra ricca e ben preparata, che si dispone a' magolato con le aiuole alquanto larghe ad orli rialzati e separate da canaletti d'irrigazione. Si semina alla volata sul finir di aprile un po' rado, perché cestisce molto: il seme si cuopre con la zappa. S'inaffia per inondazione ogni otto giorni, e si sarchia e si netta diligentemente da tutti i vegetali avventizi. Quando la pianta appassisce e le càssule sono ingiallite (ciò che succede sullo scorcio di giugno o ai primi giorni di luglio) si miete, e i fusti si pongono ritti e appoggiati tra loro a seccare al sole. Scorgendosi poi che le càssule per l'arefazione han già cominciato a schiudersi, si prende a manipoli e se ne scuotono i semi sopra un lenzuolo. Indi si rimette nella stessa posizione di prima, e si aspetta che il sole continui a riseccarlo per rinnovare lo scotimento ad altre due riprese. – Ove questa coltura è stata una volta, non può più ripetersi per una lunga serie d'anni, essendo estremamente depauperante: i nostri agricoltori sogliono dire, ch'essa brucia il terreno. Riscolo o Soda. (Salsola soda. LIN. = SIC. Scerba). È una coltura qui pochissimo praticata. Seminata per ordinario in primavera vive stentatamente e poco cestisce pei sopravegnenti calori. Non le si spendono peraltro molte cure. Si brucia coi soliti processi frammischiandovi qualche volta la salsola tragus (scirbuni) che cresce spontanea nel littorale. Il suo prodotto in cenere, che non giunge mai ad oltrepassare 80 quintali metrici, vien tutto consumato localmente dalle particolari famiglie per la fabbricazione del sapone. 5.° PIANTE A RADICE CARNOSA. - Non contiamo in questa classe che la patata, la carota e i ravanelli: tutte colture assai grame e di poco tornaconto. Patata o pomo di terra. (Solanum tuberosum. = SIC. Patata) Se ne è introdotta la coltivazione da pochi anni per semplice saggio, e i risultati finora ottenuti non incoraggiano ad estenderla vieppiù: ostacolo principale il non potersi conservare a lungo la freschezza del terreno che le è tanto indispensabile. Si piantano i tuberi nel mese di febbraio con la zappa in fila a fossette convenientemente spaziate, dopo preparato il terreno con buone arature. Le pianticelle si sarchiano e si nettano con cura. Quando la primavera non scarseggia di piogge tardive, se ne ottiene un prodotto non ispregevole; ma tali piogge si fanno sempre desiderare. Il dissotterramento e la raccolta dei tuberi si eseguisce con la zappa. Carota. (Daucus carota. LIN. = SIC. Vastunaca). Non è per uso di foraggio che qui si coltiva, ma come pianta che molto piace mangiata cruda ai fanciulli e alle donne; e quindi appena ottiene un cantuccio negli orti, ove si trovi della terra alquanto profonda e non molto compatta. Si semina ordinariamente in autunno, e si svelle e si consuma da dicembre a febbraio. Si ha la varietà gialla e la pavonazza, tutte e due a radice lunga; quelle a radice rotonda non si sono introdotte. Rafano o ravanelli. (Raphanus sativus. var. oblongus. Raricia; var. rotundus. SIC. Rapa). Si coltivano di ambedue le forme la sottovarietà bianca e la rosea, e non havvi contadino che, al cadere delle prime piogge, non ne semini in un angolo della propria vigna in occasione che le dà la prima zappatura di scalzo; e in quel terreno mobilizzato e sciolto dai continui lavori acquistano una tenerezza e un grato sapore che non altrove. Non mancano pure negli orti, ove spesso pel terreno tenuto fresco dalle irrigazioni si prolungano sino all'estate; ma allora le radici divengono dure, spugnose e di un sapore assai mordente. È generale l'uso di trapiantare isolatamente in un canto discosto quegl'individui che si destinano alla riproduzione del seme, e ciò per evitare gl'ibridismi. Recentemente un proprietario di questo comune, che aveva dell'acqua disponibile, volle tentare un saggio di coltivazione del Brassica napus pei tanti elogi che aveva letto nei Giornali Agrari del buon alimento che tale specie appresta al bestiame e specialmente alle vacche. Ne richiamò i semi da Firenze e ne ottenne piante rigogliose che fecero bei cesti. Però non ci fu verso di farne mangiare alle vacche, le quali appena fiutatili si allontanavano. 6.° PIANTE FORTI. - Non abbiamo da registrare sotto questa categoria che l'aglio, la cipolla e il porro, tutt'altre specie essendo qui sconosciute. Aglio. (Allium sativum. LIN. = SIC. Aggia). Si coltiva la sola varietà che ha gli spicchi non molto grossi e le tuniche esterne del bulbo rossicce. Si pianta in autunno alle prime piogge non solo dagli ortolani, ma pure per uso domestico da chiunque è possessore di un orticello o di un angolo di terra da poterne disporre, mediante il metodo semplicissimo di aprire con la zappa dei solchi in cui si van gettando gli spicchi alla distanza di 10 a 15 centimetri l'uno dall'altro, che si ricuoprono con la terra del solco successivo. Le pianticelle si tengono sempre nettate dall'erbe avventizie, sarchiandole più volte. Si svellono i bulbi con lo zappone in maggio, dopo averne ripiegati al suolo col piede i falsi fusti, dacché col loro ingiallimento fanno mostra di avvicinarsi alla maturazione. Poi si annodano in treccie e si lasciano in luogo arieggiato per asciugarsi. Gli ortolani li vendono anche legati in mazzetti. –Questa specie non si è veduta mai fiorire; solamente entro a qualcuno dei falsi fusti si trova un corto scapo sormontato da pochi bulbilli e che non si prolunga mai in fuori. Cipolla. (Allium coepa. LIN = SIC. Cipudda). Non si ha che la varietà a bulbo schiacciato orbicolare di color bianco con le tuniche esterne rossicce, né questa stessa si coltiva in grande per deficienza di terreni sabbiosi, grassi ed umidicci che le sono più adatti. Si semina sul finire d'autunno a ridosso di qualche muro, e si traspianta in gennaio; e in giugno i bulbi han già acquistato una certa grossezza, e non si aspetta a consumarli che essi abbiano raggiunto il loro completo sviluppo. Le cipolle mature a bulbo più o meno ingrossato, di cui i nostri contadini son ghiotti e fan provvista generale e copiosa, e che servono eziandio agli usi culinari per buona parte dell'inverno, ci vengono abbondantemente somministrate dal territorio di Noto sul finir dell'agosto. I nostri orti non ci dànno in inverno che i rimessiticci dei vecchi bulbi. Porro. (Allium porrum. LIN = SIC Porru). Ha bisogno assoluto della irrigazione essendo coltura in gran parte estiva. Gli orti ne abbondano, perché è un agrume assai ricercato per condimento così nella tavola del ricco come in quella del povero. 7.° FRUTTI DI TERRA. - Ecco tutto ciò che la località mi offre da mettere in mostra in questo articolo: angurie, melloni, citruoli, zucche, carciofi, petronciane, peperoni, pomidoro, fragole. Anguria. (Citrullus vulgaris. SCRAD. = SIC. Miluni d'acqua). Se ne hanno molte varietà, tra le quali quella più antica a scorza d'un verde cupo leggermente costolata, polpa rossa e semi neri; poi quella a scorza d'un verde allegro con fa-scie verticali bianco-screziate e polpa rossa (miluni zaiariddaru); quella a polpa bianca e semi neri con intacchi lineari bianchi (miluni d'acqua d'invernu); quello a polpa rossa e semi minuti livido-giallastri (miluni muscateddu) ecc. Si coltivano negli orti irrigui, e ordinariamente anche a secco in quasi tutti i novelleti, e in quest'ultima stazione riescono veramente d'un sapore più squisito e sopperiscono al tornaconto che il vigneto non può dare nei primi due anni della sua infanzia. Peraltro la sua coltivazione non esige molte cure. Si aprono negli interfilari della vigna delle fossette in cui alla terra si frammischia un po' di letame bene scomposto, e in aprile si mettono a dimora in ciascuna fossetta tre semi. Le piantoline che ne vengono, non han bisogno di coltivazione speciale: i lavori periodici che si dispensano al vigneto, giovano indirettamente anche ad esse e fanno che la terra di continuo mobilizzata, ritardando di molto la dispersione capillare dell'umidità interna, mantenga la necessaria freschezza alle loro radici che si prolungano molto giù. Quando la primavera non corre del tutto asciutta, la buona riuscita di questa specie non può mancare, e fa piacere vederla sfidare il sole più ardente senza dar segni di appassimento. I frutti si raccolgono da luglio a settembre. Mellone o popone. (Cucumis melo. LIN. = SIC. Miluni di fedda). Si trovan coltivate tanto la varietà primaticcia (reticulatus) a frutto costolato, rotondo o bislungo, con scorza gialla rugoso-reticolata e polpa gialla, quanto l'altra tardiva (maltenis SIG. Miluni d'invernu) a frutto ovoide o bislungo con scorza tenue unita e quasi liscia, gialla o verde-pallida, e polpa bianca, flava, gialla o verdiccia: d'ambedue le quali sono molte le sottovarietà. La coltivazione va pure eseguita come la precedente per irrigazione ed a secco nelle vigne novelle, sebbene in quest'ultima stazione si trovi assai ristretta dacché l'esperienza ebbe fatto sospettare che la sua vicinanza indebolisce e riarde le viti. Nel metodo culturale non in altro differisce dalla prenotata che nella pratica di mozzare di quando in quando le cime delle nuove ramificazioni, specialmente dove comincia a mostrarsi un frutto. I frutti della prima varietà, che si raccolgono dalle coltivazioni a secco, sono sempre più gustosi di quelli ottenuti dalle irrigue: della seconda varietà, qualunque sia il modo con cui si coltivi, riescono per ordinario sciapiti quelli a scorza gialla, saporosissimi all'incontro quelli a scorza verde di talune sottovarietà. I frutti tutti di quest'ultima divisione colti alquanto immaturi si conservano per tutto l'inverno maturando lentamente e per gradi. Cetriuolo. (Cucumis sativus. = SIC. Citrolu). Non è men docile alla coltura che l'anguria e il mellone, ma gli è indispensabile una irrigazione abbondante, senza la quale dà frutti amarissimi. Non può quindi aver posto che negli orti inaffiati, i quali ne hanno gran pro' con lo spaccio dei frutti teneri che sono avidamente cercati da tutte le classi. Si semina in posto nel mese di aprile, e il raccolto dura da giugno a settembre. Si è pure introdotto da qualche anno il cocomero lungo (Cucumis flexuosus. L.), ma riesce troppo insipido a mangiarsi, e non ha potuto attecchire nell'uso. Zucche (Cucurbita. = Cucina). Sono di quattro specie le qui coltivate per uso economico. Vien prima per estensione di consumo la Cucuzzella (Cucurbita pepo, var. oblonga. = SIC. Cucuzza lattara) che ha i frutti bianchi, cilindraceo-bislunghi con angoli appena prominenti, e che essendo più precoce, di polpa tenera e pingue, è molto gradita universalmente. Si ha pure la zucca lunga (Lagenaria vulgaris, var. clavata. SERINGE = SIC. Cucina longa) a frutto bianco terete-allungato, spesso claviforme, che si ritiene più gentile della precedente, ma che perde presta-mente la sua tenerezza divenendo nell'interno spugnosa. Vien terza la zucca di Spagna (Cucurbita moschata, D UCHESNE = Cucuzza spagnola) i cui frutti a scorza legnosa di enorme grossezza si conservano dai contadini sopra i tetti delle case per cuocerli a minestra nel verno, accompagnata talora con le fave. E finalmente la zucca di Val di Chiana (Cucurbita maxima, DUCHESNE SIC. Cucuzza baffa) a grossi frutti globoso-depressi, costolati, bianco-verdicci, che serve agli stessi usi della precedente, ma è meno ricercata. Tutte e quattro amano le irrigazioni o almeno un terreno fresco e umidiccio, e non sono molto schizzinose per la coltivazione. Le cime dei rami della zucca lunga si mangiano cotti in insalata. Carciofo e Cardo (Cynara scolymus, = SIC. Cacòrciulu niuru; e Cynara Cardunculus, LIN. = SIC. Cacòrciulu jancu). Queste due specie son qui destinate ugualmente all'uso di mangiarne cotti o crudi nello stato tenero i ricettacoli degli antodi e le basi delle squamme. I gobbi, a cui altrove vien destinata quasi esclusivamente la seconda specie, qui si ottengono indistintamente dall'una e dall'altra e soltanto per uso familiare di qualche dilettante, non portandosi mai nel mercato. Del Cynara scolymus si hanno due varietà, l'una ad antodi violetti e squamme appressate, l'altra ad antodi d'un verde chiarissimo e squamme alquanto patenti, ambedue inermi: le testeferrate sono una rarità. Del Cynara cardunculus esistono pure due varietà, una a foglie perfettamente simili a quelle del Cynara scolymus ed antodi verdibianchicci inermi ed a squamme ricurve, che si mantengono teneri per lungo tratto di tempo, l'altra a foglie più minutamente sbrandellate ed antodi con squamme più ricurvate e alquanto spinescenti, di mediocre grossezza, ma numerosissimi, sino a 70 in un solo fusto. Sono generalmente coltivate a secco; quindi manchiamo di quella varietà primaticcia promossa con buon esito in Palermo mercè l'aiuto delle irrigazioni. Il metodo della coltivazione è semplicissimo. Disposto il terreno in scacchiera, come si pratica per le vigne, alla equidistanza d'un metro un posto dall'altro, vi si piantano col piuolo in ottobre o novembre i nuovi getti dei vecchi carciofi, scegliendoli un po' grossetti e sotterrandoli non più oltre del collo della radice, acciocché la terra troppo umida non li faccia marcire. Quando mostrino d'essere bene attecchiti, cominciarsi a rincalzare, e si lavora e si tien pulito dalle cattive erbe il terreno che si ha cura di concimare a più riprese. I lavori si ripetono per tre volte. La carciofaia nel primo anno non tutta tallisce; ma la sua piena fruttificazione è riserbata al secondo anno. Terminata la raccolta, che succede da aprile a maggio, si tagliano i fusti a fior di terra con lo zappone, e le radici rimettono con gagliardia al cadere delle prime piogge autunnali; ed allora ricominciano i lavori. Dei molti getti che provengono in ciascun posto non si lasciano che uno o due i più robusti, svellendo gli altri. Scorsi a questo modo 4 a 5 anni, la carcioffaia si spianta e trasportasi in altro suolo. Petronciana (Solanum esculentum var. aculeatum, DUN. = SIC. Milinciana). Non si trova coltivata nei nostri orti che la sola varietà a bacche obovato-bislunghe violacee, e di questa stessa non si fa molto uso. Peperone. (Capsicum annuum, LIN. = SIC. Pipi). Estesissimo ne è il consumo, e non havvi orto irriguo che non ne mantenga un'ampia coltivazione e non ne somministri abbondantemente al mercato le bacche verdi dallo scorcio di giugno a tutto l'autunno. Alcune piante che sopravvivono ai freddi invernali, forniscono i frutti primaticci dell'anno seguente. Si esamina sopra letto caldo dal finir di dicembre a febbraio, e si traspianta a dimora in aprile e maggio, frequentemente irrigandolo. Del modo stesso si coltiva il Capsicum grossum, var. obovatum, LIN. (SIG. Pipunz) a bacca rossa e gialla; il Capsicum longum, var. incrassatum, DEC. e il Capsicum pyramidale, var. longicorne, MILL. (SIG. Pipi sbezzi), le cui bacche molto piccanti si seccano e si riducono in polvere per condimento di alcune vivande. Pomodoro (Lycopersicum esculentum, DUN. = SIC. Pumu d'amuri). Molto maggiore della precedente e assai più produttiva è la coltivazione di questa specie, i cui frutti non solo si mangian crudi o arrostiti, ma servono di condimento a moltissime vivande e si riducono anche in conserva. Si semina in letto caldo come il peperone e si tra-spianta in marzo ed aprile non solo negli orti irrigui, ma anche in terreni a secco che mantengano una certa freschezza. Si sospende la irrigazione dal momento che la pianta comincia a mettere i fiori. La fruttificazione si prolunga quanto quella del peperone e nei siti a solatìo e riparati dai venti boreali si continua anche nell'inverno. Da più anni si è pure introdotta la coltivazione del Lycopersicum cerasiforme, DUN. (SIC. Pumu d'amuri cirasolu), che ha la proprietà di conservare incorrotti per lungo tempo i suoi grappoli di frutto, colti e sospesi in ciocche. Fragole (Fragaria vesca, LIN. = SIC. Fràulz). Questa specie essendo voracissima d'acqua e tenendo occupato il posto ove trovasi per tutto l'anno, non ha che un sito limitatissimo nei nostri orti, in cui si ha interesse di variare i prodotti con coltura intensiva su piccoli spazi, e non può farsi molto sciupo delle acque. Peraltro questo frutto ci viene fornito a sazietà dagli orti di Noto. 8.° VERDURE COMMESTIBILI. - Non ci rimangono a comprendere in quest'ultima serie delle piante erbacee coltivate, che le erbe destinate a cuocersi in minestra: cavoli, spinace, bietola, senape; quelle che adopransi come pospasto: finocchio, sèdano; le acetarie: lattuca, indivia, nasturzio ortense, ruchetta; e quelle finalmente che servono di condimento: prezzemolo, menta, maggiorana, grogo. Diremo brevemente di ciascuna. Cavolo (Brassica oleracea. LIN. = SIC.Càulu). Tale pianta, quantunque non si tenga più in quella grande estimazione che ne facevano gli antichi, non lascia di occupare un posto in tutti gli orti, e alcune specie forniscono tuttora un alimento assai ricercato dai contadini. Ci tocca dunque enumerare le specie che qui si coltivano coi pregi e le imperfezioni relative e con l'uso più o meno esteso che si fa di ciascuna. – Il cavolo ordinario (Brassica oleracea caulo-rapa. GASP. = SIC.Càulu trunzutu) riesce per lo più di poca tenerezza coi torselli assai piccoli e quasi sempre tigliosi. – La varietà capitata LIN. (SIC. Càulu cappucciu) è poco usata e appena si trova negli orti come semplice curiosità. – Buono il cavol fiore tanto bianco quanto pavonazzo (Brassica botrytis alba et violacea. GASP. = SIC. Bròcculu a peri jancu e niuru), le cui cime acquistano una gran dimensione e sono preferite nella tavola degli agiati. – Mediocre finalmente la varietà acephala. GASP. = (SIC. Bròcculi), di cui fassi il maggior consumo, perché è ricercata avidamente dalle famiglie dei contadini e costituisce quasi esclusivamente la lord cena per tutto l'inverno. Spinace (Spinacia oleracea, LIN. = SIC. Spinacia). Sebbene non si trascuri negli orti irrigui, 'pure per esser pianta autunnale che si mantiene sino alla primavera, abbonda in tutti gli orti asciutti, e non v'ha contadino che non ne semini nella sua vigna come fa pei rafani. Peraltro è pianta generalmente appetita e se ne ritrae un discreto profitto. Erbucce o Biètola (Beta cycla. LIN. = SIC.Aìta). Si coltiva la bianca e la rossa. Non ha un posto designato né cure particolari negli orti irrigui, ma vi si lascia crescere ove nasce spontanea tra le altre colture: ivi peraltro riesce molto pingue ed acquosa e non torna tanto piacevole al gusto. Più gradite sono quelle che vengono da sé negli orti asciutti e per le campagne, e gustosissima sopra tutte la specie selvatica (Beta sulcata. GASP. = SIC. Aiticeddi sarvaggi), che pur si raccoglie e si vende. Senape (Sinapis nigra. LIN. = SIC. Sinàpa). Questa specie autunnale, per la sua proprietà di venir sempre da sé dov'è stata seminata una volta, si trova diffusa ed allevata in tutti gli orti suburbani e della campagna; e purché la terra non sia affatto sterile e vi si zappi all'intorno, non abbisogna di altre cure di coltivazione. Spesso suole essere infestata dai bruchi della Pieris Brassicae. Viene esclusivamente destinata a servir di vivanda con le sue cime più o meno tallite, cotte e preparate in vario modo; ma è molto inferiore per gusto alla Sinapis incana. LIN. (SIC. Làssani, o amareddi) che cresce spontanea nelle campagne. Del seme, toltane una piccola quantità che serve alle farmacie, non si fa alcun uso né per estrarne olio, né per confezionarne la mostarda così appetita dai gastronomi; qualche volta però si suole raccogliere e vendere a negozianti che ne fanno ricerca. Finocchio (Foeniculum dulce. DEC. = SIC. Finocciu). È pianta molto pregiata e oggetto di speculazione dei nostri orticultori, essendo un gradito companatico pei nostri contadini e venendo anche ricercata nella tavola del ricco. Negli orti irrigui suole seminarsi a dimora in agosto entro fossette, mettendo in ciascuna un pizzico di grani. Le piantoline venute su e cresciute col mezzo delle irrigazioni si diradano in ottobre, lasciandone tre o quattro in ciascuna fossetta. Ogni altro che vuol coltivarlo per proprio uso, ne trapianta le piantoline che vengono svelte in questo diradamento. Cominciano a vendersi e mangiarsi sin da novembre; ma per ordinario riescono a falso-bulbo conico, essucco, duro e a foglie raccostate, mentre i migliori son quelli che hanno il falso-bulbo protuberante e carnoso con le foglie corte, ricciute e patenti, qualità che non può ottenersi senza frequenti sarchiature e rinforzo di concime, nel forte dello sviluppo. Quelli che si coltivano negli orti di Cassibili giungono qualche volta a rasentare cotali pregi, ma non arrivano mai alla perfezione di quelli di Siracusa. Oltre la pianta si vendono dai nostri orticultori anche i semi, che servono ad aromatizzare diverse vivande. Sèdano (Apium gravéolens. var. celeri = SiC. Accia). Le circostanze, allegate più su per le fragole, impediscono ugualmente che si assegni molto spazio negli orti alla coltivazione di questa specie, la quale nei limiti stessi in cui si è voluta conservare, riesce dura, amara e poco gustosa. Lattuca (Lattuca sativa. LIN. = SIC. Lattuca). Se ne coltivano diverse varietà a semi neri o bianchi, e a foglie verdi o rosso-sanguigne, piane o bollate o crespe, aperte o incappucciate. E queste varietà si moltiplicano tuttodì per gl'ibridismi. Nell'inverno e nel principio della primavera si trova ognidove, anche negli orti asciutti delle particolari famiglie; in està non è trascurata negli orti irrigui, e si vende in ogni tempo al mercato. Indivia (Cichorium endivia. LIN.). Insieme alla lattuca si coltivano pure per uso d'insalata due varietà di questa specie, cioè la communis (SIC. Scalora) e la crispa (SIC. Ni-via). Si è pure introdotta la varietà latifolia (SIC. Scalora di Palermu) che si dà per foraggio verde ai cavalli ed ai muli dei carrettieri. Tutte e tre non esigono cure particolari. Nasturzio ortense, o crescione alenese (Lepidium sativum. = SIG. Nastruzzu) e ruchetta (Eruca sativa. LAMK. = SIC. Arùcula). Queste due specie ricercate da molti nelle mescolanze delle insalate non si trovano negli orti irrigui né conseguentemente al mercato, ma si coltivano nei verzieri dei particolari per uso di famiglia, essendo piante invernali Prezzemolo (Petroselinum sativum. HOFFM. = SIC. Pitrusinu). È pianta coltivata con amore in tutti gli orti, né si fa mancar mai nel mercato, entrando come condimento indispensabile in quasi tutte le vivande. Anche la famiglia del contadino che può avere un vaso da fiori sulla finestra, si pregia di allevarvela a preferenza d'ogni altra. Menta (Mentha viridis. = SIG. Amenta). Anche questa entra a condire alcune pietanze, specialmente le salse, ed è generalmente coltivata. Per averla in inverno, si trapiantano in sul finir dell'estate gli stoloni delle sue radici in siti riparati dai venti nordici e posti a solatìo, ed essa rimette subito la sua nuova vegetazione. Senza questo spediente le radici rimarrebbero inerti tutto l'inverno per ripullulare in primavera. Maggiorana (Majorana hortensis. MOENK. = SIC. Majurana). Questa specie, sebbene non d'uso generale come le due precedenti, serve nondimeno a condire qualche speciale vivanda o salsa, e si alleva da molte famiglie in un cantuccio di terra di cui possano disporre. Grogo (Carthamus tinctorius. = SIC. Usciaru). È da tempo molto antico che si adopera questa carduacea come un succedaneo dello zafferano per colorire e aromatizzare il brodo di carne coi pistilli del suo fiore posti a seccare e ridotti in polvere. Benché ora non se ne faccia gran conto, non è stato interamente escluso dagli orti. Nulla diremo dell'origano, del rosmarino, della salvia, della nepitella, della santoreggia e di altre piante aromatiche usate pure qualche volta per condimento, perché venendo spontanee nelle nostre campagne, non possono entrare nel còmpito che ci siamo assunto. b) Piante arbustive. Vite (Vitis vinifera. = SIC. Viti). La vite si alleva a bassa ceppaia, metodo che vuolsi venutoci dai Greci; e pel piantamento non si fa mai uso di barbatelle, ma di semplici sarmenti (maggiola) tratti da vigne non troppo giovani né molto vecchie, e che abbiano gl'internodii alquanto corti, senza portare alla base alcun avanzo di vecchio legno. Per istabilire un vigneto, si comincia dal preparare il terreno con ripetute arature; poi vi si tracciano le distanze in quadrato o a scacchiera, in cui devonsi piantare i sarmenti: operazione che chiamasi assistari e che si esegue dagli stessi contadini per mezzo d'una corda di camerope (sestu) intersecata ad uguali intervalli da segnacoli. Stabiliti sul terreno dei grandi quadrati paralleli che abbiano i lati quanto è lunga la detta corda, si comincia dal tener distesa la corda medesima sopra uno di questi lati, e accanto d'ogni segnacolo si pianta un pichetto di cannuccia. Fatta la stessa cosa nel lato opposto, si tende e si passa la corda a traverso in senso parallelo tra i pichetti dei due lati mettendo sempre nuovi pichetti negli spazi intermedi. Riempito così tutto un quadrato si procede agli altri, mantenendo sempre rette le linee. Le distanze sono per ordinario di metro 1,09 a m. 1,16 secondo che il terreno sia più o meno sterile, dandosi più spazio dove la vegetazione suole riuscire più vigorosa. Generalmente per massima dei nostri agricoltori desunta dalla pratica si richiedono tre monnelli di terra della locale abolita misura per collocarvi mille viti; e secondo questo calcolo la superficie d'un ettara, corrispondendo a tumoli 5, monnelli 2, coppi 3, quarti 2, e quartigli 3,65 della misura anzidetta, è capace di contenerne 7655 a un dipresso. La piantagione si fa, in gennaio nei luoghi asciutti ed in febbraio in quelli più umidi, con la trivella da me descritta più innanzi. Si comincia dal preparare i maglioli recidendone i rametti laterali e i viticci, e tagliandone la base rasente all'ultimo nodo, ciò che dicesi arrifriscari. Indi il piantatore con la trivella e col soccorso d'un po' d'acqua apre un foro nel posto segnato da ciascun pichetto, e dietro a lui un altro operaio v'introduce un sarmento, e riempiutolo di terra asciutta a varie riprese, ve la calca con l'asticciuola (cufiddaturi) da me parimenti indicato più su, in modo da formare e stringere al suolo il magliuolo. Fatta la piantagione s'intraprende a zappare regolarmente. Nel secondo anno si ripiantano nuovi magliuoli nei posti ove i primi non siano attecchiti (si fa lu riciàntitu). Le zappature per ordinario sono quattro. La prima si dà dopo la vendemmia e propriamente dopo che le prime acque han fatto germogliare i semi dell'erbe spontanee (doppu chi li terri su scumati): essa consiste nello scalzare ciascuna vite aprendovi intorno una conca quadrata a guisa di tramoggia con la terra disposta a schiena nei lati e sollevata in piramide ove s'incontrano gli angoli, e perché si esegue in linea retta dei filari dicesi a conca o a lu rittu (dritto). La seconda si somministra immediatamente dopo la potatura, tagliando la terra in senso obliquo dei filari senza rincalzare le viti, e si denomina a rùmpiri tonchi, o a lu sgherru tiratu; ed è da questa che comincia ordinariamente la coltura, quando si pianta a nuovo. La terza, che si appella a lu sgherru allitticatu, viene eseguita in aprile dopo che le gemme sono germogliate; con essa la terra si appiana pastinandola in direzione obliqua opposta alla precedente, e le viti si rincalzano. La quarta finalmente si appresta nella seconda metà di maggio o in giugno, e dicesi a travu o ad appènniri racìna, consistendo nell'accumulare la terra a schiena d'asino nell'intervallo dei filari, e nel fare uno sgombro accanto alle viti, perché le uve pendenti dal basso ceppo non tocchino il suolo. Oltre queste quattro zappature ordinarie qualche contadino ne interpone un'altra tra la seconda e la terza. Altri nell'intervallo tra la prima e la seconda scava con lo zappone la terra attorno al ceppo delle viti in fondo alla conca, ciò che dicesi fari suppuni. Fu parlato più innanzi dell'uso di seminarvi nel primo anno e qualche volta anche nel secondo le angurie. Sovente invece vi si mettono ceci a fossetta. Qualche contadino nel secondo anno sui cumuli piramidali delle conche (munzedda) della prima zappatura semina un po' d'orzo per foraggio verde, che già va mietuto pria che la vite rigermogli. Le viti novelle dopo il primo anno, e sino a che il ceppo non acquisti una certa consistenza e una certa altezza da potere reggersi da sé e tener sospesi i grappoli in modo che non tocchino la terra, hanno bisogno d'un tutore che le sostenga, e a tal uopo si fa uso di pali di canna che si tagliano alquanto lunghi per poter servire a quell'ufficio più d'un anno, recidendone la parte che si corrode rimanendo sotterra. Questa palatura si esegue mediante la trivellina precedentemente descritta, e non si tiene necessaria per ordinario al di là del quattordicesimo anno dell'età del vigneto. Dopo ciascuna vendemmia i pali si estraggono e si conservano. Oltre le operazioni finora cennate, la coltivazione della vigna richiede: 1° la spollonatura (rimunna), che consiste nello sbarazzare a mano le viti dai getti inutili e superflui (pirucci) conservando i soli rampolli da frutto per concentrare sopra di essi tutta la potenza della vegetazione: operazione che suole praticarsi dai ragazzi ed anche dalle donne in maggio quando l'uva è già allegata (liata); 2° la legatura dei tralci ai pali di sostegno, quando vi siano: ciò che fassi con fili di giunco, di lino o di ampelodesmo, e dicesi liàri; 3° l'attortigliamento delle sommità dei tralci o intorno al palo o sopra sé stessi (rivausari): operazione che surroga la cimatura ed è diretta a concentrare tutta la linfa alla maturazione del frutto e si eseguisce prima dell'ultima zappatura; 4° la solforazione (nzulfurari) lavoro quasi esclusivo delle donne, praticato ordinariamente non più di due volte, cioè la prima con più profitto sul primo germogliare delle viti, e la seconda quando i granelli dell'uva hanno acquistato la grossezza d'un pisello; 5° la vendemmia (vignigna), a cui collaborano anche le donne, e che va dagli ultimi giorni di agosto a non più oltre del 24 settembre secondo che la condizione delle diverse terre affretta o ritarda la maturazione; 6° la propaginazione (ca/ari prupàini) che si fa poco prima della potagione per rinnovare i ceppi distrutti o per sostituire una buona varietà ad un'altra che non dà frutto, o lo dà cattivo, e che suole segnarsi al tempo della vendemmia col mozzarne tutti i tralci; 7° finalmente il taglio o potagione (puta). Ritornando pertanto sulle enumerate operazioni è opportuno aggiungere alcuni dettagli. Conoscono i nostri agricoltori come sia un esporsi a vicende molto rischiose il limitare la scelta dei vitigni ad una sola varietà. Essi ne mettono parecchie, con una intelligenza ben calcolata prescegliendo quelle che abbiano un'epoca sincrona di maturazione. È anche d'uso mescolare alle uve bianche le nere, come quelle che forniscono la materia colorante, la quale essendo più suscettibile della effervescenza vinosa e più propria a ritardare la fermentazione spiritosa insensibile, produce con la prolungazione di questo movimento che il vino non si porti così presto alla fermentazione acida. In una cosa peccano però i nostri contadini nei piccioli vigneti di loro esclusiva proprietà, ed è nel preferire ch'essi fanno quei vitigni che rendono molto, curandosi poco della vecchia esperienza che quanto più la vigna fruttifica, l'uva più abbonda di sostanze acquose e il vino è meno buono. Sono vigne che dànno sino ad ettolitri nove di mosto per ogni migliaio, mentre le altre non ne rendono che da tre a quattro! Ma i contadini, che così sacrificano la qualità alla quantità, vendono ordinariamente il loro prodotto in mosto e si fanno poco scrupolo di rovinare il negoziante inesperto o poco diligente. Altro difetto d'una parte dei nostri contadini è quello d'essere troppo impazienti a raccogliere il frutto delle loro fatiche, senza spesso aspettare quanto convenga la perfetta maturità dell'uva. Ma quando il mosto non trova spaccio, com'essi si lusingavano, sono essi stessi che ne risentono il danno e ne pagano la pena meritamente. Il taglio o potagione (puta) si regola a questo modo. Dopo il piantamento i magliuoli si mozzano (si scamùzzanu) a due occhi sopra terra, e laddove germoglino tutti-due, nell'epoca della spollonatura uno dei germogli si toglie lasciando quel solo che non disti dalla terra più di quattro dita. Al secondo anno l'unico rampollo rimasto si scerba, cioè si taglia rasente al punto d'inserzione. Nel terzo anno si taglia a due gemme. Nel quarto la vite si spacca, cioè si lasciano due gemme in ciascuno dei due tralci, oltre quelle della corona. Nel quinto si taglia a due occhi sopra i due o tre sarmenti più vigorosi e che conservino tra loro le più simmetriche distanze per formare le teste o madri - branche (spaddi), radendo tutti gli altri. Negli anni di sèguito si taglia a due occhi il tralcio più basso di ciascuna testa, radendo l'altro; e quando il vigore della pianta lo consigli, si prepara un nuovo capo (spadda) conservando altro sarmento tra quelli da sopprimersi, il quale si taglia a cornetto (fauzza) con lasciarvi le due gemme superiori e accecare tutte le altre; però la vegetazione non è mai sì rigogliosa da permettere che queste branche madri si portino al di là di 4 a 5. Non vi si lasciano cursoncelli (auceddi) se non di rado e solamente in qualche vigneto privilegiato o in qualche vitigno che molto lussureggi in fronda a scapito del frutto: in tutt'altri casi il cursoncello uccide la vite. Lo spampanamento prima della vendemmia, salvo poche eccezioni in terreni bassi ed umidi, non è qui richiesto dal clima. Qui il calore del sole è troppo forte e troppo prolungato, perché non si ricorra a questo spediente per agevolare la elaborazione, la modificazione e la combinazione della linfa in principi zuccherati. La propaginazione si pratica coricando i ceppi in una fossa bislunga con fare sporgere un tralcio nel posto vuoto che si vuole riempire, e con ripiegarne un altro nel sito stesso che occupava la vite coricata: è ciò che i trattatisti sogliono propriamente distinguere col nome tecnico di provanatura. Talvolta i tralci di rimpiazzo son due, se si devono riempire due vuoti vicini, ed allora la fossa va fatta ad Y. Sovente si propagina il solo tralcio che rimane attaccato alla vite stessa per recidersi nell'anno seguente; e questa operazione, che è il più antico metodo di propaginazione praticato in molte contrade di Sicilia, qui dicesi tummareddu. Nella preveggenza di tutti questi casi, quando si attortigliano (si rivàusanu) le viti come sopra abbiamo detto, i tralci accanto i posti vuoti che si conoscono necessari per potere eseguire le propagini (prupàini) si lasciano senza avvoltolarsi, ciò che dicesi, non so perché, lassàrili a li menzijorna4. Il capogatto o margotto non si usa, e neppure l'innesto della vite. La vigna non si suole concimare, neppure con soversci, tranne un insignificante ammendamento ch'essa riceve per le piante spontanee che vi si sotterrano e per le proprie foglie, che restituiscono al suolo una parte tenuissima dei principi nutritivi perduti. I contadini più diligenti non lasciano di ravvivare i ceppi, raschiandone le screpolature delle vecchie cortecce, sicuro ritiro degl'insetti. I nemici più perniciosi, che ha qui la vigna (non compresa la crittogama a cui si ripara con l'insolforazione) sono: 1° i venti di terra che spesso soffiando forti al tempo della spollonatura ne abbattono i teneri germogli e compromettono la regolare potatura dell'anno avvenire, e quelli di mare che pregni di esalazioni saline disseccano del tutto la tenera vegetazione di quanti vigneti si trovano lunghesso il littorale; 2° le gelate degli ultimi giorni di marzo o dei primi d'aprile che ne bruciano le gemme appena germogliate; e 3° i forti calori di giugno e luglio che talvolta disseccano le uve in modo da distruggere in un'ora le liete speranze del vignaiuolo. Non si sono mai sperimentati gravi danni da parte degli insetti. Il vilucchio (convolvulus arvensis = SIC. Curriùla), che cresce ostinatamente in tutte le vigne e che spesso si avvolge negl'interstizi del grappolo, comunica al vino un sapore spiacevole, che si denota col nome di sapore d'erba. La vendemmia si esegue, come si è cennato, per mezzo di contadini e anche di donne, e l'uva si trasporta al palmento secondo fu avvertito nell'articolo V. I palmenti sono ordinariamente in muratura ed in forma quadrangolare. L'uva vi si pigia immediatamente da uno o due contadini coi piedi vestiti di grosse scarpe bullettate, e dopo essere la pasta compressa con pale di legno e ripestata per ben tre volte si spreme nel torchio con tutti i raspi. Il mosto del palmento scola in un fosso scavato al di sotto, e quello del torchio in un tino sottoposto, l'uno e l'altro scoverti. Per ben colorire il mosto, si pigia a parte una proporzionata quantità d'uva nera, e la pasta di essa, dopo averla spogliata dei graspi, si ammassa in un angolo del palmento, ove sta qualche tempo per colare e rasciugarsi. Terminata la vendemmia della giornata, si riprende la detta pasta e si frega reiteratamente coi piedi contro le lastre del palmento sino a ridurla ad una poltiglia, ciò che dicesi ripistu; indi si getta sopra il mosto del fosso, a cui si è riunito anche quello del torchio, oppure si lascia nel palmento stesso e vi si getta sopra una buona quantità di mosto attinto dal fosso. Cominciata la fermentazione, la detta pasta vien ricacciata alla superficie, ove sta di covertura un'intera notte. La dimane si estrae e si rimette nel palmento, o se fu lasciata ivi se ne fa scolare il mosto, e dopo che se ne sia bene scaricata, si finisce di spremere nel torchio. Immediatamente il mosto si trasporta con otri o con barili di legno (carratedda) e si chiude nelle botti che hanno l'ordinaria capacità d'ettol. 8,50, e delle quali si lascia aperto il cocchiume per più giorni. Quando la fermentazione si mostri sufficientemente rallentata, si soprappone al detto cocchiume una foglia di limone o di arancio con sopra una tegola. L'orifizio si chiude ermeticamente con tappo di sughero allorché si osserva la fermentazione cessata interamente. Si travasa (si tramata) in febbraio o marzo. Si fanno anche dei vini bianchi, ma in quantità poco significante, perché difficili a ben riuscire. Tranne la mancanza del ripistu, l'accorgimento di togliere dalla pasta i graspi, e un doppio travasamento, si mantiene anche per questi lo stesso processo di confezione ch'abbiamo esposto praticarsi pei neri. Certamente molte cose i lettori troveranno a riprendere nel metodo così semplice qui adottato per la confezione del vino. Ma vuolsi considerare che nei paesi caldi si conta molto su la natura del clima e si perde facilmente di vista la superiorità che potrebbero e dovrebbero avere i locali prodotti; oltreché la proprietà divisa e ridotta in esigue proporzioni non ha qui disponibili i mezzi di conseguire quei benefizi che provengono dall'applicazione di grandi e complicati apparati e d'una intelligenza non comune. I nostri vini peraltro si dissomigliano poco da quelli di Siracusa che fabbricati con gli stessi metodi godono d'un'antica rinomanza in commercio; e se questo genere non fosse nei tempi attuali così generalmente avvilito in tutta Sicilia, la vigna avrebbe anche qui da poter compensare largamente gli sforzi di chi si consacra alla coltura di essa. Quanto questi tempi sono diversi da quelli ricordati da Diodoro, quando un'anfora di vino siciliano si cambiava con uno schiavo! Queste considerazioni, se da una parte scusano la impotenza o se ancor vuolsi, la indifferenza dei nostri agricoltori a far meglio in questo ramo di industria agraria, dall'altra sono un tema d'indulgenza e di perdono, perché non si disapprovi il loro sistema di coprire di alberi fruttiferi ogni loro vigneto. I grandi vegetabili, è vero, assorbono tutti i raggi solari con la loro chioma e tutti gli alimenti e i succhi della terra con la loro estesa radicazione, e nuociono così doppiamente alla vite. Ma se questa ne soffre ed invecchia presto, l'albereto che rimane e che la rimpiazza è assai più promettente giunto com'esso è allora a somministrare i primi frutti e a sempre portarsi innanzi senza quasi bisogno di speciale coltura ulteriore, bastandogli i lavori e le bonificazioni che si apprestano al terreno per ritrarne l'utile d'altri prodotti erbacei, come diremo nella sezione seguente. E non è dicerto per la vigna in sé stessa, come già abbiamo fatto intravedere negli articoli preliminari, che qui s'intraprende la sua coltura, ma come il mezzo più facile, più spedito, più economico di avere un buon albereto. Peraltro, anche senza gli alberi, la vite investendo con le sue radici il tenue strato di terra vegetale dei nostri terreni, n'esaurisce prestamente tutti gli elementi nutritivi che le si affanno e non può durar molto a lungo: difficoltà che non incontrano gli alberi, i quali son meno esigenti, come ne fanno prova i mandorli che vi durano una vita centenaria e gli ulivi che vi stanno da secoli. Nei siti marittimi, donde si è tolta la vigna per vecchiezza e che non ammettono coltivazione arborea, non si rimette il vigneto che dopo un periodo bastantemente lungo, per dar tempo alla terra di rifornirsi degli elementi esausti. E ciò basti intorno alla coltivazione dell'arbusto vinifero. Sommacco (Rhus coriaria. = SIC. Summaccu). Il saggio che qui si è fatto da poco tempo della coltura di questo arbusto sopra un'estensione soleggiata di pochi ettari alle falde delle colline è stato sufficiente per mostrare che le condizioni dei nostri terreni e del nostro clima nol rifiutano. Ma il saggio è rimasto lì: vien guardato con indifferenza e nessuno s'invoglia ad estenderlo, forse a motivo della natura di questo vegetale che non ammette la consociazione degli alberi a cui sempre si ha la mira dai nostri agricoltori. Poco infatti ad essi importa che l'albero nuocesse alla vigna: il surrogato che sopravvive è per loro più remunerante. Qui all'incontro sarebbe il sommacco che, con la sua fitta ed estesa radicazione nei nostri terreni poco profondi, ucciderebbe l'albero, e ciò gli turba i sonni. Anche sotto il passato governo gli sforzi di uno degli Intendenti di Noto, per promuovere la detta coltura nel circondario, non approdarono, e qualche esperimento che se ne intraprese restò abbandonato. Canna comune (Arundo donai. LIN. = SIC. Canna). È una pianta che serve a moltissimi usi ed è avidamente ricercata sopra tutto pei pali delle vigne e pei tetti delle case. Cresce vigorosa nelle ripe arenose dell'Asinaro che non potrebbero addirsi ad altra coltura e riesce supremamente economica. Difatti il terreno occupato da essa nelle possessioni dei nostri sulle due rive non eccede per approssimazione ettari 10, e si calcola che dà ciascuno anno 300,000 canne, le quali vendendosi sopra luogo al prezzo medio di lire 20, 40 per ogni mille offrono la bella cifra di lire 6120 e quindi l'annuo reddito di lire 612 per ettara. Alla buona qualità di questa graminacea pare che molto influisca la natura calcare dei nostri terreni non isprovveduti di silice, poiché i culmi di essa vengono qui alti, discretamente grossi, duri e resistenti, mentre nei terreni di Siracusa, che sono molto umosi, riescono corti e flosci. - Per la sola coltura si prepara il terreno con un buon divelto; poi si scavano dei solchi profondi a distanza di 50 centimetri l'uno dall'altro, ed ivi si sotterrano gli uovoli convenientemente spaziati. Essendo il canneto ancor giovine si zappa di frequente e si rincalza, levando i polloni troppo minuti. Si continua a governare finché sia cresciuto, e poi si abbandona a sé stesso. Per la natura mobile del terreno quei primitivi lavori stessi sono facilissimi e costano poco. Le canne si raccolgono in gennaio e non abbisognano di altra spesa che di un semplice operaio per tagliarle con l'accetta alla base. Si fasciano a 50 a 50, e le più grosse (cirivuna) a 25: venti fasci costituiscono un migliaio. Quando il canneto comincia a deteriorare pel molto intralciarsi delle radici, si rinnova estirpando gli uovoli, rivoltando la terra e ripiantando come la prima volta nel sito medesimo. Questa coltivazione offre pure il vantaggio di presentare un valido ostacolo alla forza irrompente delle piene e d'impedire la corrosione dei terreni ripali. Canna da zucchero (Saccharum officinarum, commune). R. ET S. = SIC. (Cannamedda). È una pianta di vecchia conoscenza e di antichissima naturalizzazione in queste contrade, ove sin oltre alla metà dello scorso secolo forniva alimento ad un grande laboratorio di zuccheri mantenuto a spese del duca di Terranuova e di cui tuttora sopravvivono i ruderi. Dopo che la concorrenza degli zuccheri americani ed un concorso di varie altre circostanze economiche fecero cessare quell'industria, si è continuato da pochi amatori a mantener viva tale coltivazione in ristrettissima superficie per fabbricarne un eccellente rhum, molto superiore a quelli del commercio, ma che non offre vantaggio economico né può vincere la concorrenza a causa delle forti spese di produzione. E giova aggiungere, che quella coltivata ab antiquo qui e in altri luoghi di Sicilia è la canna crèola a brevi internodii e culmo sottile appena del diametro d'un pollice, proveniente dalle Indie Orientali, assai diversa dalla varietà più diffusa in America e nell'Arcipelago Colombiano, ch'è il Saccharum officinarum otahitense R. t S., o Canna d'Otaiti, dovuta ai viaggi di Cook, di Bligt e di Bouganville, la quale alzandosi consuetamente da 3 a 4 metri con proporzionata grossezza ha pure il vantaggio di poco o nulla degenerare dopo una prolungata coltura e di potersi rinnovare con intervallo di 5 a 6 anni, mentre la Crèola non solo non si allunga più di un metro ed ha bisogno di essere rinnovata ogni due anni, ma trovasi oggi così degenerata che i pochi che ancor la coltivano per diletto, per cure e per istudio messivi sopra, non han potuto ricondurne lo sviluppo alle dimensioni che aveva un secolo addietro: essa poi non si è veduta mai fiorire. Il metodo di coltivazione, qual ci venne tramandato dai nostri antenati e qual essi certamente dovettero averlo ricevuto dai primi introduttori, come pure il processo di fabbricazione del rhurn furono studiati sopra luogo dal professore cav. Giuseppe Inzenga e da lui fatti conoscere al pubblico sin dal 1847 nel Calendario dell'Agricoltore pag. 59 e seguenti5 con quella scrupolosa esattezza ch'egli suol mettere nella osservazione e nella esposizione dei fatti. E poiché nel presente scritto non posso dispensarmi dall'informare i miei lettori su quella doppia operazione, sarebbe un tempo gettato via se mi sforzassi a dir la cosa con altri termini e con altri modi. Mi varrò dunque in gran parte delle stesse di lui parole, sopprimendo soltanto qualche sua digressione e aggiungendo taluni dettagli ch'egli credette notare con espressioni generiche. La canna da zucchero si propaga per mezzo di talli scapezzati dalla estremità dei vecchi fusti e che conservino tre o quattro nodi con le gemme corrispondenti. Questi talli detti volgarmente punti e destinati a servir di piantoni (ciantimi) si raccolgono e si preparano contemporaneamente al raccolto delle canne in dicembre, poiché quei 3o 4 articoli apicilari essendo sforniti di materia zuccherina vengono recisi e rigettati dal rimanente dei fusti. Essi stretti fra loro in piccoli fasci si aggregano verticalmente in un sito qualunque dell'orto a pien'aria, ove restano incolumi per tutto l'inverno senz'altra precauzione che di coprirne la superficie esterna con uno strato di foglie secche della pianta medesima. Il terreno, ove la piantagione deve eseguirsi vuol essere a solatìo, perfettamente orizzontale, sciolto e ben concimato e a preferenza con letame di cavallo. Comincia a prepararsi in gennaio con 4 a 5 arature che lo rimuovano e lo pastinano profondamente in tutti i versi. Poi si dispone in aiuole quadrilunghe (Vedi fig. 9a – C)6 vicine e simmetriche, quante sono ne- ' cessarie per la estensione che vuol darsi alla coltivazione; e in ciascuna di queste si aprono da uno dei lati più lunghi tre larghi solchi o avvallamenti tortuosi, quasi a somiglianza d'un punto interrogativo con ciglioni alti presso a 35 centimetri; disposizione adoprata per ottenere che l'acqua d'irrigazione, di cui la pianta è voracissima, possa circolarvi più lentamente e stagnarvi, e quindi produrre una maggiore infiltrazione. Ogni parte intanto di queste aiuole è designata con nomi speciali, di cui non ben si comprende il preciso significato. Una specie di gomito che sporge presso l'apertura a destra di ciascuno degli avvallamenti ed è destinato a riparare e fare andare più lenta la corrente dell'acqua, prende la denominazione di vracalettu (a). Dei quattro ciglioni che separano i tre avvallamenti, il primo a cominciare da mano sinistra chiamasi furra (D), il secondo scala di furra (E). il terzo furra di 'mmenzu (F), il quarto mussùra (G). Finalmente un arginello che serve di controspalla al canale d'irrigazione (A) di fronte alle aperture degli avvallamenti, riceve l'appellazione di testa di furra (B). Disposto a questo modo il terreno, si fa la piantagione in febbraio, che in questo clima è quasi principio di primavera. Allora i talli conservati, mozzatane gran parte del falso fusto e ridotti a quasi 25 centimetri, si piantano in gruppi seriali di tre a tre, alternatamente ed a 30 centimetri di distanza un gruppo dall'altro, nei fianchi opposti dei ciglioni che contornano gli avvallamenti: questa disposizione alternata è fatta nello scopo di poter trarre dal vuoto della parte opposta la terra necessaria per rinfórzare le pianticelle. Eseguita la piantagione s'innaffia per inondazione una volta la settimana, e nei forti calori più spesso secondo il bisogno. Nel corso della vegetazione non occorrono altre colture che zapparsi e rinforzarsi 4 a 5 volte come più torni necessario, tenendola sempre netta dalle cattive erbe che venissero ad infestarla. Nel mese di dicembre si fa il raccolto delle canne di primo anno, mozzandole a fior di terra (sciancànnuli); il che si ottiene senza uso di ferri, ma col solo piegar la canna afferrata con una mano a metà della sua lunghezza. Il terreno, ove restano le radici delle canne mozzate, copresi con lo strame secco delle stesse piante, al quale si soprappongono delle pietre perché non sia disviato dai venti e dalle piogge invernali e vi resti di permanente covertura. Dopo la metà di marzo, o secondo la formola dei nostri contadini, nel giorno di S. Gregorio che corrisponde al 22 di quel mese si tolgono le pietre e si dà fuoco allo strame sul posto medesimo. In sèguito della quale operazione le radici, destandosi ad un tratto dal torpore in cui giacquero durante il verno, mettono fuori i nuovi germogli che devono servire al ricolto del secondo anno. In questo secondo ricolto, cadente nel dicembre successivo, si svellono le radici, avendo mostrato una costante esperienza che dopo quel biennale periodo non possono più servire ad una successiva produzione, né il terreno stesso vi sarebbe più adatto. Ed è tempo allora di preparare i nuovi talli, e trovare un'altra terra propria a riceverli. Le colture del secondo anno sono come nel primo. Ecco ora il processo che si è adottato per la fabbricazione del Rhum. Raccolte, come si è, detto, le canne in dicembre e toltene l'estremità, ch'abbiamo già avvertito non essere zuccherose e che peraltro servono alle nuove piantagioni, il rimanente si spoglia delle sue foglie e riducesi in piccoli frantumi (caddozza) che riuniti in massa si sottomettono alla triturazione del frantoio. Il frantoio è quello stesso a macina verticale che serve alla triturazione delle olive, se non che in un punto del bacino vi si trova aperto un conduttore, il quale ricevendo il liquido che per mezzo della macinazione si sprigiona dalle canne, lo conduce e lo riunisce per mezzo d'un foro in un recipiente preparato in una cavità, al di sotto del bacino stesso. Il foro suddetto si apre e si tura a volontà nel corso della macinazione, secondo che vuol mantenersi alla canna il liquido o se ne vuol separare. Le canne triturate e ridotte in pasta si mettono nelle gabbie comuni (coffi) e se ne estrae il succo con la pressione del torchio. Questo succo si unisce all'altro ottenuto nella macinazione, e si versa in una caldaia allungandolo con un ottavo d'acqua, e mettesi a bollire sino a che l'acqua aggiunta si evapori. Tolto dal fuoco e fatto raffreddare si passa in una botte col cocchiume aperto, e ad agevolare la fermentazione vi si aggiunge una proporzionata quantità di vino feccioso o di deposito di vino nuovo che si ottiene travasando. Il succo fermentato si lascia riposare per 40 giorni nella medesima botte che si mantiene sempre aperta. Dopo fermentato e vinificato si lambicca due volte e così trasformasi nella più bella qualità di Rhum, che si vende a lire 10 la bottiglia della capacità d'un litro. Gli si dà un grato colore paglino col legno di sandalo ed in mancanza con la radice del melagrano. I culmi delle canne da zucchero vendonsi pure ai cittadini di questa e dei Comuni vicini, essendo succhiate per mera gozzoviglia specialmente dai fanciulli. Fico d'India (Opuntia ficus - indica. MILL. = Ficurinnia, o Ficupala. Ed Opuntia Amyclaea. TEN. = SIC. Ficurinnia spinusa). Non vi sono terreni specialmente destinati a questa coltura, ma le due specie trovansi dappertutto per la campagna addossate ai muri delle chiudende, e la seconda non lascia di far siepe impenetrabile a parecchi vigneti garentendoli con le sue valide spine da ogni incursione di uomini e di animali. Il loro frutto è così abbondante che si vende a buon mercato e somministra per buona partedell'estate un cibo prediletto ai poveri ed ai ricchi. Della prima specie si hanno comunissime le varietà a frutto giallo e sanguigno, e più scarsa e meno apprezzata anche quella ordinaria a frutto bianco. Si hanno pure, introdotte di fresco, quella a frutto bianco listato di giallo di sapor mediocre, la genovese a frutto bianco, buona ed assai fruttifera, e la mandarina anche a frutto bianco, ch'è gustosissima, ma produce poco. Quelle a frutto inerme ed a frutto senza semi o a meglio dire coi semi abortiti si son trovate di non valere, perchè la prima ha i frutti niente gustosi, e la seconda non li porta a maturità. Della seconda specie si ha, oltre la comune a frutto giallo, un'altra varietà a frutto bianco che vince in sapore zuccherino la stessa mandarina, ma è troppo avara di frutto in queste contrade, mentre dicono che sull'Etna, donde l'abbiamo ricevuta, fruttifica benissimo. Per tutte non si ha cura che di piantarne gli articoli, poi sono abbandonate a sé stesse. Però gli eccessivi calori estivi ne guastano molto il frutto. I buoi e le capre son ghiotti degli articoli di questa pianta e spesso ne guastano la coltivazione. c) Piante Arboree. Marco Porcio Catone, che nell'ordine del valore e della produzione metteva l'uliveto in quarto luogo, dopo la vite, il giardino irriguo ed anche il saliceto, e appena assegnava l'ottavo posto al frutteto, preferendogli il prato, il campo frumentario e, quel che sembra più strano, la selva cedua, non so dire se a ciò si consigliasse per circostanze locali di clima, di bisogni e di commercio, oppure per imperfetto avviamento che avesse preso in quei tempi l'agricoltura. Ai dì nostri, se in generale una qualunque regione priva di alberi, come si esprime un giudizioso scrittore, affligge dovunque gli sguardi, le cose dette innanzi rendono manifesto, e tutti i geoponici hanno a questo una voce, che nei paesi meridionali, ove il provento delle coltivazioni erbacee rimane costantemente al di sotto della mano d'opera e del valore delle sementi, l'arte agraria deve cercare il suo principale tornaconto nelle piante legnose, e sopratutto negli alberi fruttiferi. Questi infatti, non che essere i soli che possano temperare i lunghi e forti alidori estivi, offrendo contro di essi un'ombra refrigerante e portando la fecondità ed il riso ad una campagna deserta, valgono a rendere produttivi anche i terreni sterili e abbandonati, e si legano più intimamente ai godimenti ed ai bisogni di tutte le ore, ed han d'uopo di minori attenzioni di coltura, e recan pure il grande vantaggio d'essere aperto a taluni dei loro frutti un mercato estesissimo, con domande sempre crescenti in ragione dei limitati climi che hanno avuto dalla natura lo speciale privilegio di favorirne la produzione. Uno dei dogmi della religione dei Maghi, ch'era la religione della Persia in quel tempo, insegnava che l'azione più grata alla Divinità era di fare un figlio, di coltivare un campo, di piantare un albero. Qual miglior mezzo, esclama un sapiente scrittore, potevano adoperare i legislatori della Persia per incoraggiare l'agricoltura, che chiamare in soccorso la morale, i dogmi e la religione? Tali verità, come notammo sin da principio, sono state estesamente avvertite dai nostri agricoltori e con grande amore apprezzate, ed è con la loro pratica applicazione che si è potuto trasmutare in vago e continuato giardino un suolo arido ed infecondo che pareva nulla promettere. Diremo intanto delle specie di alberi utili, cui si è posta maggior cura, e perché il quadro, che ci siamo proposti di pennelleggiare, non presenti delle lacune, non ometteremo d'indicare la maggior parte di quelli di minore importanza, che non l'arte speculatrice, ma la natura stessa semina e lascia crescere spontaneamente per conto suo ove la coltura non ha potuto farsi strada. Protestiamo però che, così per gli uni come per gli altri, i limiti che ci abbiamo prescritti non ci consentono di tracciare che delle linee grosse, e dar piuttosto delle viste sommarie, che delle piene ed esatte esposizioni. OLEACEE - L'Olivo (Olea Europoea LIN. = SIC. Auliva) è degno d'essere menzionato pel primo. Quest'albero prezioso, che la dotta Grecia meritamente fe' sacro alla Dea del sapere e che vive una vita quasi immortale, è forse la specie più antica che siasi coltivata in queste contrade, trovandosene sparsi per ogni dove, in consociazione del carrubbo e del mandorlo, degl'individui secolari a tronchi enormi di molte braccia di circonferenza. Se non che quei cotali, che non son pochi, riescono quasi incalcolabili in confronto del numero stragrande che vi ha accumulato e che va sempre moltiplicandovi l'industria contemporanea, da non lasciare alcun sito ove se ne trovi difetto. I nostri terreni gli convengono quasi tutti, e nei pietrosi, che non abbiano un sottosuolo di dura breccia, si mantiene più florido e più produttivo. La propagazione non si fa né per talee né per uovoli (non comportando cotali mezzi l'aridità estiva del suolo) ma esclusivamente con ulivastri selvaggi, che abbiano per lo meno un metro e mezzo di altezza e 3-4 millimetri di diametro alla base, e che vanno a cercarsi nati spontaneamente tra le siepi e le boscaglie. La difficoltà poi di far prosperare queste giovani pianticelle in un campo aperto, soggetto alla incursione e al devasta-mento degli animali d'ogni specie, suggerì l'idea di allevarli con sicura riuscita 130 in mezzo ai vigneti. Quindi nel novembre dell'anno stesso, in cui si pianta una vigna, vi vengono distribuiti (a regolari intervalli di 4 a 5 metri in quadrato, od in linee parallele, e spesso alternati col mandorlo) quei piccoli ulivastri, che si piantano con la trivella accanto alle viti. Non bisogna per essi alcuna speciale coltura, bastando loro quella che dàssi al vigneto. Nei primi due anni si lasciano convenientemente attecchire senza 131 menomamente disturbarli; nei seguenti, quando la vegetazione ha cominciato a prendere un certo rigoglio, si ha cura di nettarne il pedale dai rametti laterali, in modo che cresca nudo e quanto più dritto è possibile sino all'altezza di quasi due metri, lasciando che si ramifichi al di là di questo termine. Quando il tronco principale od anche i due o tre rami hanno acquistato un diametro di 2 a 3 centimetri (ciò che si avvera più o men tardi secondo la feracità del terreno) s'innestano a scudo con quella varietà d'olivo che si ritiene più produttiva. Tale innesto vien praticato dal 1.° aprile al 15 maggio tagliando il soggetto all'altezza d'un metro e mezzo sino a due, e talvolta scendendo sino a centimetri 75, quando l'ingrossamento del tronco per anormale vegetazione siasi arrestato a quel punto. Le più volte per maggior sicurezza si fa l'innesto ad occhio dormente, ma sempre alla stessa epoca, tagliando poi il soggetto nella primavera seguente, e sovente nell'anno stesso alle prime piogge d'autunno, quante volte la gemma si scorga attecchita. Mediante l'incalmatura l'albero in breve tempo è bello e cresciuto, poiché l'innesto svolgesi più rigoglioso che non suole il soggetto. Però un'accorta potatura è sempre necessaria per mantenere la ra mificazione slargata e ben disposta. Così quando il vigneto ha finito di produrre, il giovine uliveto trovasi in condizione di poter vegetare senza disturbo abbandonato a sé stesso. A questo modo il proprietario nulla risente di spese e di sacrifizio pei primi anni che l'uliveto è infruttifero; e dopo che il vigneto è distrutto, le biade raccolte tra gli olivi compensano ampiamente il travaglio e l'ingrasso che fosse ancor necessario per educarli. Delle tante varietà che si coltivano di quest'albero in Sicilia non sono qui conosciute che le cinque seguenti: 1. Quella che i nostri contadini appellano col vario nome vezzeggiativo di Auliva pizzutedda o Aulivedda pizzuta, e che è la dominante e la più produttiva. È albero di prima grandezza a chioma densa e piramidata, foglie lunghe lineari aguzze. Allega il frutto a grappoli: la drupa è ovale, di mediocre grossezza, più o meno appuntata con stilo persistente, verde - giallastra, di rado variante nella perfetta maturità. Quella che in Palermo dicesi Auliva ugghiara, ed è qui denominata Zaituni (voce forse saracinesca). È la varietà più diffusa e starei per dire quasi unica dell'agro siracusano; qui però è poco comune e quasi bandita dalle coltivazioni recenti. L'albero a chioma attondata acquista dimensioni gigantesche così in altezza come in larghezza, e si distingue particolarmente dal mantenere la ramificazione slanciata e nuda senza succhioni. Ha foglie piccole, lanceolate, ordinariamente ricurve all'apice, d'un verde cupo e men lucido nella pagina superiore: drupe grosse, solitarie, ovali, appuntato - turbinate a base piana, di color verde, poi nere, molto polpose. È buona a salare, e a peso uguale di frutti dà più olio della precedente, sebbene verdiccio; però le sta molto 132 133 al di sotto per la quantità relativa dei frutti stessi e per l'essere più schiva a produrli. I suoi frutti soffrono molto degli ultimi calori estivi e, cadendo la più parte incotti dal sole, son buoni a mangiarsi, ma riescono gravi allo stomaco. Aulivedda janca o Auliva janculidda. È a chioma sparsa, non molto densa: foglie lanceolate, lasse: drupe subsolitarie, ellittiche o quasi obova-te (con apice alquanto prominente ottuso) verdi - bianchicce, poi nerissime, a sarcocarpo molle. Giungono a maturità prima delle altre. Non è fra noi questa varietà molto diffusa, benché molto abbondi nel vicino agro di Noto. Dà buon olio e copioso; ma l'albero non viene molto grande, ed è molto offeso dai venti freddi. Le drupe messe in salamoia senz'alcuna preparazione indolciscono e son buone a mangiarsi dopo pochi giorni. Le più mature, punzecchiate e messe a soppressa con sale per iscaricarsi del molto umore, si lasciano alquanto rasciugare al sole, e così confezionate sono un cibo graditissimo per la tavola. 3. Auliva raitana. È a chioma attondata: foglie lanceolate lasse: fioritura primaticcia: drupe grosse, tondeggianti all'apice e di forma quasi obovata. Fruttifica poco, e ordinariamente, accanto ai rari frutti perfetti, porta grappoli di frutti abortiti piselliformi senza nòcciolo. Sarebbe buona per indolcire; ma si ha poco in pregio per la scarsa fruttificazione, ed è quasi eliminata e divenuta una rarità. 4. Auliva majurana. È albero di prima grandezza, a chioma tondeggiante, densa: foglie lineari lanceolate, dritte, verdi - cupe nella pagina superiore, assai incane nella inferiore: drupe subracemose, grossette, ovato -ottuse, verdi biancheggianti, poi rossastre, finalmente nere. È rarissima, ma per la mediocre grossezza delle drupe e per l'abbondante fruttificazione merita venir propagata. Generalmente la varietà seconda è più oleosa, ma dà olio verdiccio; la prima, la terza e la quinta danno olio più puro e di color paglino - dorato. Non si sono però istituiti esatti paragoni tra il peso e quantità dei frutti di ciascuna con la quantità relativa dell'olio che ne risulta. Tali confronti, in cui taluni sogliono cercare un argomento di calcolo, sono poco concludenti; poiché si sa che la quantità dell'olio non tanto dipende dalla varietà delle olive, quanto dalla diversa condizione dei terreni in cui l'albero vegeta, dalla stagione più o meno piovosa durante la produzione, dalla fruttificazione più o meno abbondante...: tutti elementi che non sono paragonabili con esatta reciprocità. E nella stessa varietà l'albero carico dà costantemente meno olio di quello che allegò poche frutta; quello che cresce in luoghi umidicci o che ebbe il beneficio di piogge estive, meno di quello crescente in luoghi ed in tempi asciutti. Non si dà qui all'olivo una coltura e concimazione speciale, ma si lascia profittare delle colture e delle concimazioni che si apprestano di quando in quando al terreno, in cui vive, per allevarvi delle piante erbacee, come cereali, fave ecc. Qualche contadino scava una conca intorno al pedale, che riempie di concio di stalla e poi zappa e sotterra alle prime piogge: metodo che sarebbe più razionale, se tale scavo fosse praticato più a distanza dal tronco che ordinariamente non fassi. Non si trascura la potagione; anzi essa da alquanti anni a questa parte è divenuta piú razionale, procurando di tener l'albero in modo che vi circoli liberamente per entro l'aria e la luce. Ciò non fassi a periodi determinati, ma a misura che lo esiga il bisogno e la vegetazione più o meno rigogliosa, e sopra tutto dopo che l'olivo ha dato pieno raccolto. Più di frequente si ripulisce e rimonda dei seccumi e dei succhioni. Se gli alberi sono radi, si svettano e si potano bassi; ove sono affollati, è necessità potar alto. In generale, gli alberi acquistano una grande altezza, né si vedono piantagioni basse, come quelle provenienti dalla propagazione per uovoli o per talee. Il legno e le frasche, che sono sempre ricercatissimi (vendendosi ordinariamente il primo a L. 1,50 per ogni 95 chilogrammi, e le seconde a cent. 30 il fastello) fanno della potatura dell'olivo più un lucro che una spesa.Quante volte in alcun sito gli olivi si trovino di soverchio affollati da rubarsi reciprocamente l'aria e la luce, e sia necessità diradarli, l'albero che si svelle non va perduto, ma si trapianta in altro sito, qualunque siano le dimensioni del tronco a cui trovisi pervenuto. Preparata a tal uopo, parecchio tempo avanti, una profonda e spaziosa formella nel nuovo posto che gli si destina, si abbatte in novembre dopo le prime acque l'albero designato, scavando e tagliando rasente intorno alla ceppaia ogni ramificazione radicolare che la tien fissa al terreno. Abbattuto che sia, si spoglia di tutti i rami, e lo stesso tronco principale si capitozza alla lunghezza presso a poco di metri due. Questo moncone si trasporta e s'infossa nella formella già preparata, riversando e chiuggando intorno alla ceppaia la terra estratta senza del tutto riempire il vuoto per dare accesso all'aria, e lasciandovi una conca ove possano raccogliersi le acque pluviali; salvo a colmarlo, e a farvi il rincalzo quando il tempo delle piogge sia cessato. Quel mozzo tronco pullula in primavera; ma obbligato ad emettere radici del tutto nuove e a trarre il nutrimento da questo stentata: però col tempo supera gli ostacoli e torna ad esser albero. Quando la terra è soccorsa dalle piogge con una certa regolarità, gli anni di produzione si alternano. Ma le piogge in questi luoghi fanno più spesso desiderarsi, ed allora non è raro vedere interporsi più anni tra l'una produzione e l'altra, o non avere alternatamente che una magra fruttificazione. Le più perniciose influenze meteoriche, che qui incontri l'olivo, si riducono al vento marino di Est (Livanti siccu) che ne brucia le cime e compromette la fioritura, e alle nebbie caldo - umide di maggio che ne fan cadere scottati e avvizziti i mignoli. Tra gl'insetti nemici vanno notati la Psylla (Cuttuneddu) i cui guasti vengono rafforzati dalle nebbie sopradette, e la Mosca dell'olivo, le cui rovine sogliono in parte prevenirsi con un raccolto affrettato e prematuro. La Rogna non è frequente, ma ne sono invariabilmente assaliti gli alberi crescenti intorno all'abitato e non aventi innanzi a sé il riparo di altri alberi. Per quanto siasi cercato di rinnovarli col taglio, non si è riuscito a ringiovanirli. La causa di questo fatto è tuttora un mistero. Fassi il raccolto ordinariamente da ottobre a dicembre, cominciandosi dacché le olive cominciano a mutarsi da verdi in giallognole. L'altezza, a cui si eleva l'albero in queste contrade, non consente altro metodo che quello dell'abbacchiamento, e le olive si raccolgono a terra principalmente dalle donne, per cui quell'epoca è una vera festa e una fonte di guadagno. Le olive raccolte si ammassano ordinariamente a scoperto negli angoli interni delle case, tenendovele non più oltre d’una settimana prima di portarle al frantoio metodo che contribuisce a dar olio di miglior qualità e di nessun cattivo odore. Per le grosse quantità, attesa la insufficienza dei frantoi e strettoi in uso o la difficoltà d'aver locali così spaziosi da tenervele stratificate e rivoltarle, si conservano entro camini ossia vasche cubiche a fabbrica più o meno spaziose, volgarmente Camii, aperte al di sopra e con canale di scolo al di sotto; ed ivi si ammassano si calcano coi piedi, trattenendovele per più d'un mese, e qualche volta sino alla fine dell'intero raccolto, quand'esso non vada molto a lungo. Tali conserve hanno da un lato nella parte mediana uno sportello chiuso da imposta, donde poi le olive vengono estratte per la triturazione, ridotte ad una massa assai fermentata. Fortunatamente sono pochissimi i costretti a ricorrere a questo mezzo. e Il frantoio ed il torchio per macinare le olive e premerne la pasta, son quelli superiormente descritti nella Sezione E dell'articolo V. La macinazione si esegue dapprima senza molto triturare le olive (primi pasti). Dopo una prima pressione tornano a macinarsi più minutamente una seconda volta (secunni pasti) e a ripremersi con più forza: sempre a freddo. Un uso antico, che ancor si conserva per le picciole quantità e che può dirsi veramente primitivo, si astiene di far uso del torchio. Per esso la triturazione delle olive vien fatta in unica volta, e la pasta si spreme in una specie di madia (mastredda) entro un sacco di traliccio da una donna che salitavi sopra a piedi scalzi lo preme in tutti i e sensi con tutto il peso della persona, frammischiandovi a tre riprese dell'acqua bollente perché l'olio meglio si strizzi. L'olio e le acque (criscenti) cadono commisti in un sottoposto barile, donde il primo, che già sopranuota, viene raccolto di tratto in tratto da un'altra donna (sirventi) con le palme giunte. Non si fanno dell'olio qualità separate, riunendosi quello quello estratto dalla prima torchiatura con quello venuto dalla seconda. Ov'è l'uso, non comune di macinare a tre passate, l'olio della terza spremitura (ogghiu di nòzzulu) si conserva separatamente ed è di pessima qualità. Non si fa uso di filtri, ma si chiarifica facilmente da sé, e ottenuto il naturale sedimento si travasa. Solamente per quello della terza spremitura, ov'essa abbia luogo, si procura la chiarificazione tenendo per alcun tempo collocati i recipienti in mezzo alle sanze (nòzzulu). Si conserva ordinariamente in grandi vasi di creta di forma obovata ed a larga bocca, denominate giarre. In quest'ultimi tempi si son pure introdotte e si van sempre generalizzando le vasche di latta di forma cilindrica e di doppia e tripla capacità delle giarre. Il raccolto delle olive e la manipolazione dell'olio, pel contemporaneo ed affrettato concorso dei molti proprietari, importa una spesa che assorbe poco meno della metà del valore prodotto, molto più in quegli anni, in cui le olive rendono poco olio. Certamente i nostri ordigni e metodi di estrazione sono ancor primitivi e imperfetti, né la proprietà divisa ci consente di affrontare la spesa e l'uso dei meccanismi e dei processi perfezionati introdotti con buon esito altrove. Ciò non ostante gli oli d'Avola, ove fatti con qualche cura, son lucidi, d'un bel giallo dorato, di buon sapore, e tra i migliori della provincia, e credo che non meritino d'essere paragonati agli oli turchi, come portò giudizio il signor Raffaele De Cesare per quelli esposti da Siracusa alla mostra universale di Vienna. Essi vengono cercati con preferenza da Messina, Catania, Siracusa e parecchi altri Comuni di questa provincia pel commercio interno, e da Malta per lo straniero. Di questa medesima famiglia delle oleacee abbiamo spontaneo in fondo alla Cava - Grande il Frassino (Fraxinus rostrata. GUSS. = SIC. Fràscianu) che altra volta forniva legno da lavoro ai nostri carpentieri: industria poscia abbandonata per la difficoltà del trasporto da quella profonda valle. Oggi non impiegasi al più che a trarne i ceppi e le buri pei nostri aratri. AMIGDALACEE. - Il Mandorlo (Amygdalus communis. = SIC. Mènnula) fa degna compagnia all'olivo, col quale è frammischiato per ogni dove con eccesso di proporzione. Non ha esso la longevità e la importanza economica di quello, ma non per tanto, poiché l'uomo è sempre egoista e pensa a godere senza volgere lo sguardo alle generazioni che gli vengono dietro, è tenuto a ragione in maggior pregio, ed ha ottenuto la preferenza nelle coltivazioni recenti per la sua facilità a crescere ed a fruttificare rapidamente nei terreni stessi in cui l'olivo verrebbe stentato e sterile, e pel lucroso spaccio dei suoi prodotti che costano poca spesa, e il cui prezzo non è incerto né viene tardo ed a spiccioli come quello d'altre derrate, ma s'intasca tutto insieme appena fatto il raccolto. La propagazione si fa per semi che si sotterrano a dimora in novembre nei vigneti novelli, come si pratica per l'olivo, ma a distanze meno grandi, preferendo sempre le mandorle amare che dànno soggetti di legno più forte e più resistente. Il germogliamento non si fa aspettare più oltre di un mese, e le pianticelle vengon su con vigore, giovandosi pur esse dei lavori apprestati alla vite, né esigono altre cure nella loro infanzia che quella di farne crescere il pedale diritto e sgombro delle ramificazioni laterali sino ad altezza orgiale, cioè di 4 cubiti. Al quarto o quinto anno son già cresciute ed hanno il tronco ingrossato a segno da poter ricevere l'innesto nell'ultima estremità mantenuta liscia. E questo vi si pratica da marzo a maggio, e più efficacemente a scudetto, poiché l'innesto a marza ha dato risultati poco felici; anzi a maggior sicurezza la gemma dello scudetto si lascia dormente, tagliando il soggetto nella primavera successiva, quando si è certi della riuscita. L'innesto svolgesi rapidamente e non lascia andare più di due anni a dar frutto. Allora non bisognano altre cure che quella di rimuovere i succhioni e dare con opportuni tagli una regolare direzione ai giovani rami, evitando ulteriormente di toccarli con ferro, tranne di disbruscarli da qualche seccume. La vigna intanto per tale consociazione depauperante va gradatamente deperendo, e dopo la vita di un ventennio lascia in sostituzione un albereto vigoroso che non sente più oltre il bisogno di quella compagnia protettrice. Ed ora che il mandorlo è lasciato a sé stesso, ha raggiunto tale un'altezza da non poter essere sciupato dal dente degli animali, né esige una coltura propria, poiché il terreno, che lo sopporta, non lascia di addirsi, a coltivazioni erbacee, e le colture e le concimazioni che a queste si dànno giovano anche ad esso. Dura la sua vita intorno ad un secolo. La malattia che più lo contrista è l'orichicco, specialmente quando si approssima alla vecchiaia. Il vento marino di Est (livanti siccu) ne brucia le tenere vette, come all'olivo; i geli di febbraio ne avversano spesso l'allegamento; le nebbie umide di maggio ne scottano alle volte i teneri frutti. Il raccolto si fa in agosto appena il mesocarpo ha cominciato a staccarsi dall'endocarpo (a ciaccari). I frutti si fan cadere abbacchiandoli: metodo di cui non può farsi a meno per l'altezza dell'albero e la divergenza dei rami, e che peraltro nella perfetta maturità non produce molto guasto, non facendosi uso per bacchio che d'una canna, e cadendo il frutto al minimo urto. Aspettare che le mandorle cadano da sé, sarebbe un lasciarle esposte molto a lungo alle ruberie. Le mandorle si raccolgono, terra dalle donne insieme coi malli che se ne fossero distaccati. Ufficio delle donne è pure lo spogliarle dei malli (spicciari), ciò che si esegue o con le semplici mani se son troppo mature, o percuotendole leggermente a sbieco con un ciottolo. Smallate si rasciugano al sole per due o tre giorni, e i malli si bruciano in una fornacella a fin di ottenerne il carbonato impuro di potassa molto ricercato nel commercio interno per la fabbricazione dei saponi molli, e venduto ordinariamente a prezzi così vantaggiosi da compensare con usura la piccola spesa del raccolto. Si distinguono di questo frutto due varietà principali, quella a endocarpo duro quasi osseo, e quella a endocarpo fragile, ciascuna delle quali non solo si suddivide e suddistingue pel seme dolce o amaro, ma anche per la forma ora bislunga, ora subovata, ora subglobosa; e queste forme stesse sono alla volta loro così variate da costituire delle differenze molto caratteristiche per una metodica classazione. Nella mia Monografia del Mandorlo' scritta in occasione dell'Esposizione Agraria di Siracusa io ne descrissi sino a 752: numero che adesso per osservazioni posteriori potrei portare al di là di 1000 senza timore che nulla più resti ad aumentarlo. Obbedendo però alle esigenze del commercio, la propagazione si restringe a parecchie varietà a frutto bislungo con endocarpo sottile e semi rossicci: ciò che alle mandorle d'Avola ha fatto acquistare nel mercato il privilegio della precedenza, e conseguentemente il vantaggio del maggior prezzo. Dopo che le mandorle sono acquistate dai primi negozianti, non possono esser poste nel gran commercio senza essere spogliate del guscio (scacciati). E questo è pure lavoro delle nostre donne, che procura loro una non breve occupazione e un guadagno non tenue. Finalmente così sgusciate prendon nome d'Intrita, e chiuse entro sacchi di canevaccio fan capo al porto di Messina, donde poi si spediscono in fusti a Genova, Livorno, Marsiglia, per essere di là riesportate nel nord d'Europa. Le mandorle, che da noi si mettono così in commercio, son tutte a endocarpo duro, e quasi tutte a seme dolce. Delle amare non si hanno che pochissime quantità. Di quelle a endocarpo fragile se ne coltivan poche, e si consumano localmente in famiglia. Nessuna parte delle mandorle va perduta. I semi, che si frantumano nello schiacciamento, si vendono ai dolcieri per farne il torrone ed altre chicche. I gusci stessi van venduti per combustibile dei forni e delle fornaci, e compensano le spese dello schiacciamento. E il detto fin qui parmi che basti intorno a quest'albero. Rimando alla citata Monografia chi fosse vago di più minuti ed estesi dettagli. Albicocco. — (Armeniaca vulgaris. DEC. = SIC. Cricopu). Quest'albero prosperava bene altra volta nelle nostre campagne e, di varietà più o meno buone, cresceva per ogni dove, anche in luoghi poco custoditi. Da parecchi anni è quasi scomparso, e qualcuno che mantenga una vita poco stabile in qualche giardino o vigneto si ammira come una rarità. Qualunque sforzo siasi fatto a rimetterlo è riuscito a vuoto: la troppa arsura estiva, l'orichicco, i venti freddi.... lo fan subito seccare. Viene da seme, e s'innesta a marza sul mandorlo o a marza ed a occhio sopra sé stesso. Il suo legno è assai stimato dagli stipettai, potendo surrogare l'acero. Pesco. – (Persica vulgaris. = Persicu) e Pesco alberges (Persica levis. DEC. = SIC. Sbergiu). Si allevano per semplice diletto, venuti da seme o innestati sul mandorlo, nei giardini e nelle vigne; ma hanno vita brevissima nuocendo loro con più intensità le cause stesse che avversano l'albicocco. Susino – (Prunus insiticia, et P. Domestica. LIN. = SIC. Prunu tunnu e longu). Se ne coltivano molte varietà, innestate a marza sul mandorlo, nei giardini e nelle vigne; ma per mero uso delle famiglie. Anche questi arboscelli hanno breve durata per causa dell'orichicco, e spesso si seccano insieme col soggetto, mantenendosi alquanto più a lungo quelli a frutto tardivo. LEGUMINOSE. — In questa famiglia avremmo da mensionare il Carrubbo, che con l'olivo e col mandorlo costituisce la triade degli alberi preziosamente utili di queste contrade. Ma poiché esso è poco o nulla conosciuto in molti luoghi d'Italia ed è perciò meritevole d'una più lunga illustrazione che non ci è consentita dalla economia del presente lavoro, mi riservo di darne una diffusa e speciale monografia alla fine di questo scritto. POMACEE. — Pero(Pyrus Communis. LIN. = SIC. Piru). Non sono scarsi gli alberi di questa specie nelle nostre campagne, tutti a frutti precoci, venuti da barbatelle e innestati sopra sé stessi o sul Pyrus pyrainus. RAF. (SIC. Pirainu) che vegeta spontaneo; ma la sua fioritura da più anni, attaccata costantemente da picciole larve, non allega alcun frutto o ne dà pochi e verminosi. Non essendo un albero da cui si attenda molto profitto, non gli si dà cura,e va diradandosi di giorno in giorno. Pomo. – (Pyrus malus. = SIC. Pumu). Se ne allevano pochi individui in qualche vigneto per mezzo di barbatelle; ma i loro frutti estivi sono poco apprezzati, e i contadini stessi che sanno tirar profitto dalle minime cose, non ne vanno lieti, essendo forzati a venderli alle donne ed ai fanciulli a prezzi insignificanti. Cotogno. – (Cydonia vulgaris. PERS. = SIC. Cutugnu). Scarso pure è il numero di questi arboscelli e confinato nelle terre umidicce; ma il frutto almeno è cercato, per farne quelle confetture che appellansi marmellate, e non è per conseguenza privo totalmente di lucro. Si propaga per rimessiticci. Nèspolo. – (Mèspilus germanica. = Nèspula). Si trova di rado in qualche giardino per semplice particolare diletto, innestato sul pero o sullo spino bianco (Crataegus monogyna. LTN. = SIC. Spinapulici) che cresce spontaneo. Nèspolo del Giappone. – (Eriobotrya laponica. DEC. = SIC. Nèspula di Giappuni). Si è moltiplicato a dismisura nei nostri giardini, ove raggiunge le dimensioni degli alberi di prima grandezza, e per le sue foglie coriacee resiste bene ai nostri inverni; ma spesso alcune larve lignivore ne tarlano il tronco e ne procurano la morte. Si propaga per seme, e sovente si migliora con l'innesto ad occhio. Cresce con grande celerità. I suoi frutti sono ricercati da tutti i Comuni di questa provincia, e si vendono cari per la loro precocità, e retribuiscono più che ogni altro le poche cure che esso esige. Azeruolo rosso. – (Crataegus Azalorus, eruthrocarpa. W. = SIC. 'Nzalora russa) e Azeruolo giallo – (Crataegus aroma. BOSC. = SIG. 'Nzalora giarna). Della prima specie se ne trovano per la campagna parecchi alberi, venuti da seme o innestati sul congenere indigeno Crataegus monogyna, ma a frutti piccoli. La seconda è soltanto coltivata raramente in qualche giardino. Non si fa gran caso dell'una e dell'altra menoché dai fanciulli. AURANZIACEE. - Ovunque si è potuto trar profitto d'un filo di acqua, ed anche negli orti a secco, non si è lasciato di propagare le più pregievoli varietà di queste piante gentili che ci sono tanto invidiate dagli abitanti delle regioni nordiche. Ma sebbene quasi tutte venute da seme o innestate su l'arancio forte, non hanno potuto sottrarsi alla dominante malattia della gomma, ed or si trovano alquanto decimate. Quello che più ha sofferto da questo male è stato il limone, e quello specialmente del gruppo limetta: quasi nulla o poco 144 l'arancio. L'innaffiamento si fa per infiltrazione, e si seguono pel di più i metodi di coltivazione usati comunemente. Dei prodotti, oltre quelli che si consumano localmente e che si esportano nei vicini comuni della provincia, molta ricerca venne fatta in questi ultimi anni pel commercio straniero, perché trovati più propri a conservarsi ed a reggere nei trasporti. IUGLANDEE. - Il noce (fuglans regia. LIN. = Nuci). Non pochi alberi se ne avevano in passato nei luoghi umidi: oggi è quasi scomparso da quest'agro come da quel di Noto per la frequente ricerca che hanno fatto del suo legno gli stipettai. Esso peraltro occupa molto con la sua larga e folta chioma, e non può aversi premura di riprodurlo ov'è scarso il terreno per culture più utili. Si propaga per semi. GRANATEE. - Melogranato (Punica granatum. LIN. = SIC. Ranatu). È molto coltivato così nei giardini come nei terreni freschi lungo l'Asinaro, e in ambedue le varietà dulcis et acida (SIC. Ranatu duci, e ranatu aìfi). Il suo frutto è mol to ricercato dalla bassa gente e rende buon profitto all'agricoltore. Se ne fa maggiore ricerca e maggior consumo negli anni di raccolto delle olive, giacché ogni raccoglitrice (e queste sono migliaia) si fa provvista ogni mattino di un soldo di melagrane pria d'avviarsi al lavoro. Si propaga per rimessiticci e per talee. S'innesta sopra sé stesso ad occhio ed a marza. MOREE. - Gelso bianco e nero (Morus alba, et nigra. LINC. = SIC. Cèusu jancu e nìuru). Ambidue sono lentissimi a crescere, e appena se ne trovano rari individui nei giardini irrigui e negli orti secchi, ed è pel solo frutto che si mantengono. Fico. (Ficus carica LIN. = Ficu). Quest'albero abbonda in tutti i terreni longo il littorale, ove il clima fa contrasto ad ogni altra coltivazione arborea; ma tranne la varietà dottata, ogni altra lascia cadere i frutti immaturi e scottati dal sole, salvo i pochi, accessibili alla mano dell'uomo, che il contadino riesce a far maturare schiudendone l'orifizio con un punteruolo e introducendovi una goccia d'olio perché non si richiuda: pratica tramandataci dagli antichi Egizi e che assegue il suo fine meglio della caprificazione di cui qui non fasci uso. È quindi una coltivazione di poco o nessun tornaconto per noi. Propagasi per rimessiticci e per talee. TEREBINTACEE. - Pistacchio (Pistacia vera. LIN. = SIC. Pastuca). Un dilettante si provò ad innestarla sul Terebinto (Pistacia terebinthus. = SIC. Scornabeccu) che cresce spontaneo nelle nostre colline, e n'ebbe buon esito; ma le piante rimasero nane e poco sviluppate, e l'esempio non èstato seguito. Il Lentisco (Pistacia lentiscus. = SIC. Listincu), che pur trovasi rado in qualche siepe, non è adoperato ad altro utile che a farne legna da bruciare insieme col terebinto. Gli stipettai cercano qualche volta i grossi tronchi di quest'ultimo, che hanno il legno centrale elegantemente marmorizzato. ALBERI BOSCHIVI. - Quantunque ogni parte del territorio sia stata occupata con alberi fruttiferi, tuttavia qualche sito assolutamente negato alla coltura ne offre parecchi altri spontanei o quasi spontanei, che sebbene non producano frutti esculenti, non sono del tutto inutili all'industre colono. E a completare la recensione delle piante arboree faremo, come sopra avvertimmo, concisa menzione anche di questi, secondo le naturali famiglie alle quali appartengono. LAURINEE. - Alloro (Laurus = Addàuru). Se ne hanno parecchi alberi negli orti, facendosi uso delle foglie per aromatizzare vivande e frutti secchi che si conservano. RAMNEE. - Alaterno (Rhamnus alaternus. LIN. = SIC. Alberu di Giuda: nome improprio che spetta piuttosto al Cercis). Abbonda nelle colline. In qualche giardino si è introdotto il Giuggiolo (Zizyphus vulgaris. W. = Curnèbbia) indigeno della Siria, ma ovvio nel mezzogiorno di Sicilia, i cui frutti si mangiano dai fanciulli. ULMACEE. - Olmo fungoso (Ulmus suberosa, arborea. W. = SIC. Urmu). Vedesi rado, e il suo legno è molto ricercato dai carradori. I contadini adoprano la corteccia pesta a farne cataplasmi nell'enfiagioni della pelle degli animali. SALICINEE. - Salcio gentile (Salix fragilis. LIN. = SIC. Sàlacu) e la Sàlica (Salix pedicellata. DESF. = SIC. Sàlacu niuru): entrambi crescono nelle ripe fluviali, e sono adoprati pel legno. Il Pioppo. — (Populus nigra. = Àrbanu) trovasi frequente nelle ripe dei fiumi e in altri luoghi umidi, e fornisce col suo tronco le panche degli strettoi, ed assi e travicelli per molti usi campestri. E il Gàttice (Populus alba. LIN. = SIC. Arbanu jancu) radissimo in qualche valle, è impiegato agli stessi usi del precedente. CUPULIFERE. - La quercia (Quercus pubescens. W. = Cersa) rarissima; più comune l'Elce (Quercus ilex.=SIC. Ilici) che cresce nelle valli: impiegato il legno d'entrambi alla costruzione di vari attrezzi campestri, e talora a farne carbone. Il Carpino nero. – (osttya catpinifolia. SCOP.) Se ne trovano due soli individui separati da lunga distanza in due valli, e sembrano fuor di patria. CELTIDEE. - Il Fraggiracolo (Celtis australis. UN. = SIC. Favaraggiu). Il suo legno è molto stimato dai carpentieri, e delle sue verghe pieghevoli si giova pure l'agricoltore per vari attrezzi. I frutti fanno la delizia dei fanciulli. Cresce ostinatamente ovunque cada un seme. ABIETINEE. - Il Pino di Aleppo (Pinus halepensis. MILL. — SIG. Mpignolu sarvaggiu). Trovasi tra le rupi in un sito della Cava Grande. CUPRESSINEE. - Il Cipresso (Cuprèssus sempervirens. UN. = SIC. Nuci - persu e Nuci cattiva). Pochi individui restano di quest'albero. Se ne avevano dei secolari e giganteschi, degni di mostrarsi come meraviglie della vegetazione pel tronco dritto di molte braccia di circonferenza; ma per l'insistente ricerca degli stipettai da una parte, e per la sordida avarizia dei proprietari dall'altra vennero tutti abbattuti e fu un peccato! PLATANEE. - Il Platano d'Oriente (Platanus orientalis = Ciuppu o Ddurbu). Cresce lungo le rive del Cassibili,e il suo legno suole surrogarsi a quello del Faggio per la costruzione di seggiole: serve pure a farne varie parti del nostro aratro. - PALME. - (Phoenix dactylifera. UN. = SIC. Parma). Vive bene in queste regioni, e se ne hanno individui a caùdice altissimo ed a spàdici feminei pesanti molti chilogrammi, ma coi datteri abortiti per difetto di fecondazione, ché non si è tentata artificialmente secondo l'uso degli Arabi. Palma di S. Pietro Martire (Chamaerops humilis. UN. = SIC. Giummara). Questa pianta oltre di fornirci le scope e le corde, ha oggi acquistato maggiore importanza per la fabbricazione del crino vegetale di già introdotta nella Casa Penale di Noto: 8 industria nuova da quasi disgradarne quell'altra qui praticata ab antico sull'Ampelodesmos tenax. LINK. (SIC. Liama, Disa), che dà occupazione lunga e guadagno alle nostre donne per la fornitura del sartiame (sartiami) alle vicine Tonnare. Di questa palma è anche 148 uso mangiare nella notte di Natale la tenera polpa del caùdice (rafaggiuni), e gli spàdici non ancora sviluppati (safaggioli). Altri arbusti, e frutici, e suffrutici di minor conto offrono pure le nostre terre, ed è prezzo dell'opera chiudere questo articolo con l'indicazione degli usi principali che se ne fanno. La Ginestra spinosa (Calycotome infesta. GUSS. = SIC. Alastra), la Spina Christi (Lycium europoeum. UN. = SIN. Spina Santa), il Rovo (Rubus dalmaticus. DEC. = SIC. Ruvettu), e la Rosa di macchia (Rosa sempervirens. LIN.) servono a garantire d'una siepe spinosa le mura di cinta dei vigneti, e spesso in loro vece si fa anche uso dei fusti corimbosi dello scardiccione (Kentrophyllum lanatum. DEC. = SIC. Saittuni), dei rami dell'asparago pètreo (Asparagus acutifolius. = Spàraciu niuru), e della pimpinella spinosa (Poterium spinosum. LIN. = SIC. Aròciuli). Coi rami secchi e cedevoli dell'asparago bianco (Asparagus albus.Sparaciu jancu) si fanno come fu detto nell'articolo V. le granate (ariviggz) per vigilare il frumento nell'aia. Dalla mazza di S. Giuseppe (Nerium oleander. UN. = SIC. Lànnaru) si traggono pali per le vigne ed anche piccoli cerchi per tinelli e secchie. Le verghe pieghevoli del pepe dei monaci (Vitex Agnus castus. UN. = SIN. Làcanu), artisticamente intrecciate con strisce di canna, adopransi generalmente a costruire panieri e corbelli pei vari usi agrari. Con le radici peste della ditti-nella (Daphne Gnidium. LIN. = SIC. Varracheddu) miste a quelle della tàssia (Thapsia garganica. LIN. = SIN. Tassu) avvelenansi talvolta le acque dei fiumi presso la foce, e se ne ottiene una pesca abbondante. Dalle radici della regoli-zia (Liquiritia MOENCH. = SIC. Niculizia) si tirava altra volta per uso medicinale l'estratto condensato conosciuto in commercio sotto nome di pasta di regolizia, e sullo scorcio del 1851 se ne era qui stabilita una fabbrica che dava ottimi lucri; ma quel farmaco essendo caduto in desuetudine e il commercio non facendone più ricerca, convenne sopprimerla verso la metà di gennaio 1852 dopo la breve durata di poco più di tre mesi. Il rosmarino (Rosma-rinus officinalis. = Rosamarina), la salvia (Salvia triloba. LIN. FIL. = SIC. Sarvia), i fiori del sambuco maggiore(Sambucus nigra. UN. = Sàucu), e l'absinthium arborescens. MOENCH. (SIC. Erva janca) servono ad usi medicinali e aromatizzanti. Della mortella (Myrtus communis. SIC. Murtidda) si mangiano le bacche mature. Del ricino (Ricinus communis. = SIC. Pintaràttula) che cresce abbondante lungo le rive dei fiumi, vengono spesso cercati e raccolti i semi per uso medicinale. Il cappero (Capparis rupestris. SMITH. = SIC. Ciàppara) non cresce in tale abbondanza da poter trarre alcun partito dai suoi fiori in boccia per confezionarli in aceto ad uso culinare. I fusti secchi dell'arresta - bue (Ononis ramosissima. DESF. = SIC. Pulicara), del Tamerisco d'Africa (tamarix africana. DESF. = SIC. Auruca) della Flomide (Phlomix fruticosa. LIN. = SIC. Sarviuni), del teucrio fruticoso (Teocrium fruticans. = SIC. Cacauceddu), della santoreggia (Thymus capitatus. HOFFM. et LINK. = SIC. Sataredda), della scopa florida (Erica peduncularis. PRESL.Pinnintuli), del titimalo arboreo (Euphorbia dendroides. f LIN. = SIC. Maccarruni), del fagiudo della Madonna (Anagyris oetida. LIN. = SIC. Nnaccaredda), dell'erba cornetta (Coronilla Emerus. LIN. = SIC. Giarsiminu giarnu), dei cisti (Cistus creticus, salvífolius, et Monspeliensis. LIN. SIC. Ruseddi), della Lavatera olbia. LIN., ed anche di parecchie delle specie precedenti, sono spesso raccolti in massa per combustibile non solo dai fornaciai, ma anche da vecchi contadini, che divenuti impotenti ad un lavoro più grave, sí occupano a legnare. Sopratutto poi è ricercata e raccolta per bruciarla nei forni la barbosa (Passerina hirsuta. LIN. = SIC. Sulfalora) per la proprietà che essa possiede di accendersi nello stato verde. Il pomo di Sodoma (Solanum sodomeum. LIN. = SIC. Pumu spinusu) forma di tratto in tratto l'ornamento delle siepi, senza che alcuno ardisca toccarlo. i Sotto il nome di Maiorca alcuno ha creduto ed anche scritto che sia designato tra noi il Secale cereale. È stato questo un errore: il Secale non si è mai coltivato in questa provincia, e credo che non si conosca affatto in Sicilia. Quali sono principalmente lo spino bianco (Cnicus syriacus. W. = Spina janca), lo scardiccione (Kentrophyllum lanatum. DEC. = SIC. Saittuni), la carlina (Carlina lavata. TEN. Mazzacugiutta), le scarline (Galactites tomentosa. Duc.), l'erba dolce (Centaurea melitensii. LIN, = Sic. Vava di cuniggiu), il cardo santo selvatico (Carduncellus tingitanus. Guss. Cardu binirittu), la Centaurea nicaensis. (Sic. Buttuna d'ora) ecc. E similmente lo scolimo (Scolymus grandiflorus. DF.SF. = Sic. Scòddiu), la spraggine selvaggia (Pallenis spinosa. H. CAss.. Occi di trama), la lappola (Orlava platycatpos, KOCH. SIC. Rizzareddt) ecc. ecc. Quest'uso seguito in Siracusa e forse da per tutto in Sicilia di raccogliere simultaneamente le piante maschie e le femmine è riprovato dall'arte ben intesa, perché i maschi, quando han cessato di fiorire, dànno una filaccia assai più bella che non la grossolana fornita dalle femmine. Ma è d'uopo considerare che i nostri canapi son tutti destinati a farne cordaggi e canevacci, in gran parte per usi agrari ove si cerca più la resistenza che la finezza. E ciò sia tema di scusa se non si segue il processo molto impacciante e dispendioso di svellere ad uno ad uno gl'individui maschi senza far danno ai femminei. 4 Sarebbe mai questa frase vernacola un'alterazione di lasciarli a menzione, quasiché quei sarmenti fossero un ricordo della propaginazione da farsi in quel sito? Mi confondo a trovare una spiegazione più plausibile. Questo articolo fu poi riprodotto dallo stesso autore nei suoi Annali di Agricoltura per la Sicilia, Nuova Serie, vol. II, pag. 156 e seg., e inserito per ben due volte nella Gazzetta delle Campagne di Firenze, Anno 8, pagina 133 e seg., ed anno 12, pagina 13 e seg. Anche un brano ne venne pubblicato nell'Economista di Roma a pag. 114. La Direzione di quest'ultimo giornale, mostrandosi compresa di meraviglia che tale coltura un tempo qui prosperante per l'estrazione dello zucchero trovisi oggi quasi abbandonata, usciva a domandare: perché non potrebbe esser promossa e resa altra volta fiorente? Questa idea di riprendere in Sicilia cotale industria, assai prima dei pomposi progetti del reduce dall'America signor Valtellina, e prima ancora che fosse venuto a propugnarla personalmente nel 1854 il signor Second tornato anch'egli dall'America, era stata vagheggiata in diversi scritti dei nostri come il primo dei progetti di miglioramento agrario, ed aveva esercitato le occupazioni dei nostri Consigli provinciali. Quello di Noto, che vi prendeva maggior interesse per la vicinanza delle antiche memorie, aveva proposto un premio di ducati 6000 (L. 25,500) a chi avesse stabilito una fabbrica in grande di zucchero estratto dalle canne indigene siciliane: qual premio dovea pagarsi in quarta parte dalla provincia in cui si fosse stabilita la fattoria, ripartendosi la rimanente somma in parti uguali su le altre provincie siciliane. E già per incarico superiore si era data notizia di ciò a tutti i Consigli generali delle altre provincie, e quelli di Palermo, di Catania e di Trapani avevano emesso il loro voto adesivo nella sessione del 1842. Intanto il Ministro dell'Interno avendo incaricato il R. Istituto d'Incoraggiamento a formulare un programma analogo alle vedute del Consiglio proponente, la Classe Rurale, cui ne venne commesso il lavoro, volle prima assicurarsi della convenienza dell'impresa e si diresse alle Società Economiche, invitandole con foglio del 15 maggio 1843 a raccoglier notizie dai luoghi, ove dopo il generale abbandono la canna da zucchero si fosse continuata a coltivare per particolare speculazione od anche per semplice diletto. Le chieste nozioni riuscirono tali da non indurre fiducia che potesse tornar utile la ripristinazione di quella coltura. Anch'io ne fui richiesto in quella occasione, e più tardi nel 1850 dall'Intendente di Noto, a cui aveva fatta illusione un'opera voluminosa pubblicata in senso favorevole dal signor Gaspero Vaccaro nel 1826; ma le mie risposte non potevano non confermare sempre più l'infruttuosità e i pericoli dell'impresa. E poiché la questione sempre rinasceva, io per allontanare una volta dalla Sicilia o almeno da questa mia patria quell'incessante rimprovero d'inerzia, di cui molti non lasciavano di gravarla con le loro corrive utopie, estesi e posi in miglior ordine i miei pensamenti su la materia e li feci di pubblica ragione in una lunga Memoria che venne inserita nel vol. III, (1853) dell'Empedocle, Giornale di Agricoltura e d'Economia Politica di Palermo pag. 113-156. Io rimando a quello scritto quanti sono ancor sedotti da quella speciosa idea: dirne più oltre in questo luogo non mi viene consentito dalla economia del presente discorso. Spiegazione della Figura 9.., la quale dimostra il modo come si dispone il terreno per la coltivazione della canna da zucchero. A. Canali d'irrigazioni. – B. Furra di testa. – e Aiuole. – D. Furra. – L. Scala di Furra. – t. Scala di 'mmenzu. – G. Mussùra. – a. Vracalettu. – ....Gruppi della piantagione. 7 Monografia del Mandorlo comune, sua storia e sua coltivazione in Sicilia, per Giuseppe Bianca. Palermo, Stamperia di Giovanni Lorsnaider, 1872. Vedi nel Giornale L'Agricoltura Italiana, anno II, pag. 8, la breve esposizione che fece di tale industria il sig. Corrado Avolio. VIII. - PRATI Anche dove la condizione dei luoghi non si presta alla pastorizia, com'è il caso del nostro territorio, l'agricoltore non può fare a meno di animali da soma che l'aiutino e gli forniscano comodo coi loro servigi nelle varie operazioni campestri e sopra tutto nei trasporti. Ma perché essi sopportino lo stato di schiavitù a cui sono ridotti e secondino volentieri con le loro forze la vita attiva di lui, non solo fa d'uopo trattarli con dolcezza, ma porger loro una nutrizione sana, sempre sufficiente e ben regolata. Si sa che fan meglio per essi i foraggi secchi, e poiché la sola paglia dei cereali non è sempre gradita, è necessario avvicendarla di tratto in tratto col fieno che offre un alimento più sostanzioso e più propizio. La mancanza inoltre di larghe pasture non può escludere del tutto dai lavori agrari il bue, sia che esso mantengasi in poco numero localmente, sia che facciasi pascolare altrove e venga richiamato sul luogo al tempo delle arature. E intanto il bue, per quanto appetisca meglio il foraggio verde, bisogna nutrirlo di secco nella ricorrenza dei lavori, poiché dopo il mese di maggio non rimane nelle nostre campagne un sol filo d'erba verde, e inoltre non potrebbe pasturare mentre sta sotto il giogo. È indispensabile dunque anche per esso in tal caso una larga somministrazione di paglia e di fieno che gli ristori le forze a continuare i lavori. E l'uguale regime alimentario gli è pure necessario nei giorni piovosi, e quando i pascoli stessi per lunga siccità facciano difetto. Conosciuta dunque la necessità di aversi del fieno, e non potendo questo ottenersi da prati artificiali di piante estive che sono qui impossibili, sarebbe imperdonabile trascuraggine il non cercare di trarlo dai prati naturali annui, i quali essendo alimentati da scarse piogge invernali, hanno sopra i prati artificiali il vantaggio di non potere comunicare alle piante spontanee che li compongono, parti acquose e sostanza verde in molta abbondanza, cosicché vi si trovino in maggiore misura le parti gommose e zuccherine. Si ha quindi ciascun anno da ogni proprietario la cura di consacrare a ciò una parte della sua possessione, quella cioè che meglio prometta una buona riuscita per la maggior fertilità del terreno e in vista dello spontaneo germogliamento di numerose piante pratensi, capaci di venire ben nutrite e di tallir molto. In questo veramente non havvi intervento dell'arte, non scelta di specie, né si esercita sul terreno alcun lavoro di preparazione, ma da quella riunione di erbe indigene, di cui la natura stessa semina i grani, è dimostrato dalla esperienza che ne risulta il fieno più fino, più appetitoso, più profittevole, ed un nutrimento che seconda meglio le funzioni digestive, cosicché uno scrittore, che non più ricordo, non si peritò di chiamarlo la teriaca degli animali con felicissima espressione. Naturalmente infatti le migliori leguminose son quelle che d'ordinario vi abbondano, delle quali chi volesse conoscere come sia ricca la nostra flora prativa, può farsene certo dall'elenco seguente che diamo in ordine alfabetico Biserrula pelecinus. L. Coronilla scorpioides. Koch. Hippocrepis unisiliquosa. L. Krokeria oligoceratos. Moench. Lathyrus annuus. L. – Aphaca. L. − Cicera. L. − Gorgoni. P arl. − Pseudo-aphaca.Boiss. − Sphoericus. Retz. − Tenuifolius. Desf. Lotus ornithopoioides. L. Medicago ciliaris. Willd. Circinata. L. − Elegans. Iacqu. − Gerardi. Dec. − Histrix. Ten. − Lappacea. Lam. − Lupulina. L. Maculata. L. − Murex. W. − Muricata. W. − Muricoleptis. Tin. − Olivaeformis. Guss. Orbicularis. All. Scutellata. All. Trifolium Scabrum. L. – Spumosum. L. − Squarrosum. L. − Stellatum. L. − Suaveolens. W. − Subterraneum. L. – Medicago Sphoerocarpa. Bertol. − Terebellum. W. − Tornata. W. − Tribuloides. Lam. − Truncatulata. Gaertn. Tuberculata. W. − Turbinata. W. − Melilotus infesta. Guss. – Italica. Desr. Parviflora. Desf. – Sulcata. Desf. Ochrus Pers. Scorpiurus subvillosa. L. Tetragonobus puOureus.Moench. Trifolium angustifoliutn. L. Campestre. L. Cherleri. L. Flavescens. Tin. Fragerum. L. Glomeratum. L. Incarnatum. L. − Intermedium. Guss. Lappaceum. L. − Nigrescens. Viv. Répens. L. − Resupinatum. L. Vicia Dasycarpa. Ten. – Gracilis. Loisel. − Hirta. Balb. − Hibrida. L. − Leucantha. Biv. − Monantha. Desf. − − − − − − Suffocatum. L. - Peregrina. L. – Tomentosum. L. - Sativa. L. Vicia Bierbesteini. Guss. - Spuria. Raf. – Bythinica. L. Vulneraria heterophilla.Moench. – Cordata. Wulfen. – Tetraphilla. Guss. – Cotali specie, che sono sempre le dominanti, oltre di fornire agli animali il più gustoso degli alimenti, offrono pure il vantaggio di lasciare sul campo una benefica calorìa, come quelle che per la loro costituzione fisiologica assorbono poco dalla terra e molto dall'atmosfera. Né valgono ad impedirne il doppio effetto le poche graminacee che vi si trovano frammischiate e che d'ordinario riduconsi alle seguenti: Anthosanthum odoratum. L. Lagurus ovatus. L. Avena barbata. Brot. Lolium multiflorum. Gand. – Sterilis L. – Perenne. L. Brachypodium dirtachyum.R.et S. Phalaris minor, Retz. – SilvaticumR. et S. – P a r a d o x a . L . Brida maxima. L. Serrafalcus macrostachys. Parl. Cynosurus echinatus. L. – Mollis. Parl. Gastridium lendigerum. Gaud. - Lanceolatus. Parl. Hordeum murinum. L. Scoparius. Parl. Koeleria phleoides. Pers. Triticum villosum. P. de B. Uniscansi alle sopradette queste pochissime cicoracee: Cichorium intybus. L. Hedypnois eretica. W. – Mauritanica. W. – Tubaeformis.Ten. – Picridium vulgare. Desf. Picris echioides. L. Sonchus oleraceus. L. A s p e r . L . Metabasis aethnensis. Dec. – Tenerrimus. L. – Cretensis. Dec. Urospermum picroides. Desf. Ed avrassi tutta la serie delle piante sociali più comuni che costituiscono la trama dei nostri prati. Certamente non può dirsi che non facciano irruzione tra queste anche delle erbacce inutili e non adatte al dente e al gusto degli animali: è un inconveniente che neppure può essere evitato con la più diligente solerzia nelle stesse coltivazioni meglio governate, poiché la natura, più potente dell'uomo, semina da indifferente per conservare le sue molteplici specie e non per provedere ai soli bisogni di lui. Ufficio del coltivatore è sempre quello di adoperarsi a rimuovere quanto non fa pel suo scopo, e che impaccia l'opera sua e ruba il nutrimento a ciò che ritiene come sua propria creazione. E questa sopraveglianza non è neppure trascurata sui nostri prati, giacché si ha cura sin da principio di nettarli dalle piante spinose non ancora tallite, come il cardo scolimo (Myscolus megacephalus. CASS. = SIC. Scòddiu), l'erba dolce (Centaurea melitensis. = Vava di cuniggiu), la Spràggine selvatica (Pallenis spinosa DEC. = SIC. Occi di crastu), le scartine (Galactites tomentosa. DEC. = SIC. Spina janca), lo scardiccione, e si conserva al bisogno. (Kentrophyllum lanatum. DEC. = SIC. Il fieno si computa detto dei cereali. Saittuni)...e il contadino scarta e lascia in piedicostituiscono un ma al tempo della falciatura, o miete e getta via,migliaio. quelle che s'incontrano a fusto duro, come il capo bianco maggiore (Daucus maximus. DESF. = SIC. Vastunacazza sarvaggia), il fior d'oro (Pinardia coronaria. DEC. = SIC. Maia), il cavolaccio (Rumex pulcher. LIN. = SIC. Lapazza), la buglossa a foglia di piantaggine (Echium plantagineum. L. = SIG. Lingua di voi), il guaraguasco (Verbascum sinuatum. L. =Cèrivi - cèrivi), il rindòmolo (Ammi majus. L. = SIC. Sponsa), ecc., ecc. È poi un gran favore compartito ai nostri prati dal non eccesso di umidità il trovarsi quasi esenti da piante nocive, e singolarmente dalle tante specie del genere ranunculus così comuni nei siti umidi. Appena talvolta occorre qualche pianta di fico d'inferno e di peglio (Euphorbia helioscopia - Eup. peplis = SIG. Maccarruneddu), e queste, più che le precedenti, vengono anch'esse lasciate da parte nella falciatura. Un solo inconveniente potrebbe notarsi, che i vegetabili diversi, onde risulta questo amalgama dei nostri prati, non potendo fiorire e raggiungere la perfetta maturità in uno stesso tempo, non può cogliersi per la loro falciatura quell'istante preciso, in cui i succhi nutritivi accumulati nelle foglie e nei fusti stiano per essere sacrificati allo svolgimento del grano. Ma in questo clima tale inconveniente è in parte eluso dai precoci calori estivi, che non mettono molto intervallo tra la fioritura delle diverse specie, e in parte si evita col falciare appena fiorite le più dominanti, e al momento ch'esse montano in grano. Con simili accorgimenti la falciatura viene eseguita più o meno tardi nel corso di aprile. L'erbe falciate si lasciano spiegate sul terreno a striscie parallele (camèri). Dopo che il sole ne ha prosciugato la faccia superiore, si rivoltano dall'altra col semplice mezzo d'una canna che si sottopone di tratto in tratto al lato superiore della striscia e sollevandola la rovescia senza punto scomporla. Ottenuto il riseccamento anche da questa parte, il fieno si avvoltola in rotoli, e si fascia in covoni: operazione che si ha l'accorgimento di eseguire nelle ore mattutine, perché l'erbe pel fresco della notte essendo allora più cedevoli si evita di frantumarne e sciuparne la maggior parte sotto la pressione della legatura. Poscia senz'altro si trasporta nel fienile e si conserva al bisogno. Il fieno si computa a mazzi, come abbiamo detto dei cereali. Venti covoni (regni) costituiscono un mazzo: cinquanta mazzi un migliaio. 162 IX. - QUADRUPEDI ED UCCELLI DOMESTICI Gli animali domestici a dritto ed a ragione sono da riguardarsi come il cardine e, il sostegno d'una agricoltura bene intesa, e noi nel capitolo precedente ne abbiamo confessato per quest'agro l'assoluta indispensabilità, se non di tutti, per lo meno di alcuni. Or ci è debito far conoscere con più dettaglio quali specie vi trovino posto utile e adatto, e quali vi si sono voluti introdurre e mantenere in contrarietà manifesta delle locali condizioni. PACHIDERMI. - Asini (Equus asinus, L. = Sceccu). –Il contadino bracciante, che deve sudare sul lavoro da mane a sera, giustamente rifugge dal recarvisi e ritornare a piedi per non sciupare in precedenza le forze sue e non estenuarle d'avanzo quand'esse sono fiaccate. Egli a tale scopo sta contento d'avere un'asina; e poiché quasi tutti hanno figli, e questi sin dall'età puerile cominciano il tirocinio dell'arte paterna, anche per essi sentesi il bisogno d'essere provveduti d'una simile cavalcatura, cosicché in ogni famiglia di braccianti è difficile che non si allevino sino a due o tre asine. Il numero quindi di questi animali da basto supera quello d'ogni altra specie. Di essi vien preferito il sesso femminile perché più paziente e più docile: del maschile, irrequieto e caparbio, sono rari gli esempi. Non sí fa per altro molto caso della perfezione delle forme, bastando che siano forti e reggano a portar qualche soma e sopratutto ogni giorno il padrone lentamente all'andare e di tutta fretta al ritorno, ché non è a dire com'esso si affretti a ritirarsi sul tramonto in famiglia e fare il suo pasto serale, quanto si mostra maliziosamente pigro nel recarsi il mattino all'opera. La sua refezione serale deve essere così immediata al suo smontar da cavallo, che l'uffizio di levare all'asina il basto e di legarla alla mangiatoia è lasciato alla moglie o ad alcuna delle figlie. È poco oneroso al contadino il mantenimento di questi animali, poiché indipendentemente dall'essere i medesimi frugali e poco schizzinosi di lor natura, contentandosi anche di rosumi delle profende altrui, nel giorno si lasciano a pascolare, e il proprietario, che fa eseguire il lavoro, è tenuto a somministrare una chiudenda a tale uso o pagare un ragazzo che li guidi a pascolare per le vie; ed è poi raro che sul posto del lavoro o nei dintorni il bracciante non trovi da raccattare una qualche bracciata di gramigna e di altre erbe pel pasto della notte a risparmio dei foraggi secchi, di cui ciascuno non lascia di avere una discreta provvisione. Per quanto però questo animale sia ben trattato dal suo padrone finché gli presti servizio e mantenga le forze, per altrettanto è fatto segno ad ogni sorta di tribolazioni quando vien meno per istanchezza, o per l'età. Dato il caso che allora cada sotto il peso e non possa o stenti a rialzarsi, comincia a caricarlo delle più villane ingiurie, chiamandolo vile, poltrone, assassino..., e quello lascia dire e forse prova per un momento il piacere di far soffrire un po' di disgusto a chi tanti ne ha dato a sé. Ma dopo le parole seguono i calci e le bastonate da far venire i brividi ad un pietoso adepto delle Società Zoofile che si trovasse presente; e non è raro il caso che lo lasci morto sul terreno ed egli, pentito ed umiliato, se ne torni a casa col basto e le bisacce sulle spalle a riceversi gl'improperi e le invettive della moglie desolata. Vuolsi anche notare, che ogni nostro contadino avendo in proprietà ordinariamente una sola stanza, e questa non ampia e per lo più con l'altezza tramezzata da un picciolo solaio di canne destinato a conservarvi i foraggi secchi, non è spazio in essa che resti vuoto, e l'uno o i due tre letti della famiglia, il focolare, la mangiatoia per gli animali, un posto indispensabile per le galline, un cantuccio ove riporre qualche arnese e le legna, la occupano e riempiono in guisa che ogni cosa vi sta a contatto e quasi arruffata. E a questo proposito non so tenermi di narrare un aneddoto avvenuto nel mio vicinato. Una volta nelle feste del carnevale la moglie di un contadino aveva posto a friggere nella padella un rocchio di salsiccia. Tornato dalla campagna il marito, la di lui asina fu legata alla greppia, che era immediata al focolare; e quella bestia, probabilmente attirata dall'odore della frittura, stese il muso ed afferrò la salsiccia prima che la donna se ne accorgesse. Ma indipendentemente da simili accidenti, ognuno può comprendere quanto l'igiene sia compromessa da quell'ambiente così stretto e stagnante, cui concorrono a viziare la respirazione e le esalazioni dei corpi viventi, il gas acido carbonico e il fortissimo odore erbaceo che si svolge continuamente dai foraggi secchi, e sopratutto i vapori ammoniacali delle deiezioni degli animali che si ammucchiano e si conservano là dentro sino al giorno festivo, di cui al contadino è solo concesso di profittare per farne il trasporto nel proprio campicello. Muli. – (Mulus). – Secondo per numero, ma primo per importanza è ritenuto tra noi il mulo, questo animale ibrido, le cui reni, dopo quelle del camello, sono le meglio suscettibili di portare i più pesanti carichi. Ad esso aspira coi suoi desideri ogni contadino che a forza di privazioni e di risparmi cerca levarsi alquanto al disopra dei suoi compagni; e sebbene acquistatolo gli torni quasi sempre a discapito per l'oneroso mantenimento, egli ne va rimpettito e superbo, e giustifica il motto di chi scrisse, che l'uomo a cavallo è l'uomo re. Contrariamente a quanto notammo per l'asino, si dà pel mulo la preferenza al sesso maschile, e sono i proprietari più agiati che soli fanno uso delle femmine; e per gli uni e per le altre va sempre cercata rigorosamente, con una ossatura fortemente costituita, la esterna perfezione delle forme. Adopransi indistintamente per l'aratro, pei trasporti a basto e pel tiro delle carrette, che son qui numerose e servono promiscuamente ai bisogni dell'agricoltura e all'esigenze del commercio interno. Si ha molta attenzione, e sovente anche troppa, a mantenere in essi la freschezza, strigliandoli e bruscandoli esattamente dopo il travaglio, e facendo lor trovare tutta pronta una razione di buon foraggio o di orzo e di crusca. E il mulo sì fattamente sta in cima delle affezioni del nostro contadino e vanno tant'oltre le attenzioni di costui pel medesimo, che in caso di ristrettezze domestiche egli può soffrire rassegnato che la famiglia rimanga a digiuno, ma non tollera che manchi il necessario a quest'utile compagno dei suoi travagli. Se ne asilano con ferro i piedi, come pur fassi col cavallo e con l'asino. Cavallo. – (Equus caballus. L. = SIC. Cavaddu). – Quest'altro animale, come agente dell'agricoltura, essendo meno utile del mulo e dell'asino, dei quali vive meno ed è più vorace e soggetto a maggiori malattie, non è tenuto in alcun conto nelle nostre campagne. Quindi dei pochi all'infuori che stanno attaccati alle carrozze, è raro trovarne trovarne alcuno d'ambo i sessi addetto ad usi agricoli o al tiro di qualche carro. Gli stessi proprietari più agiati amano meglio cavalcare una buona mula, che un cavallo od una giumenta così difficili a ben riuscire e a conservare inalterate le loro forme. Porci. – (Sus scropha. L.) – Questo animale immondo, oggetto di speculazione nei boschi, ma non meritevole di starsi in mezzo a coltivazioni gentili, e che tutto scava e capovolge col grugno, trova anche qui qualche singolare speculatore che a quando a quando se ne diletta. Vedi barbaro gusto! Anche temporaneamente i macellai sogliono mantenerne qualche branco per le vie nell'avvicinarsi del Carnovale. Però sì gli uni come gli altri vi duran poco per la scarsezza d'acqua e di fanghiglie, in cui amano vivere imbrodolati. RUMINANTI A CORNA CAVE. - Buoi. (Bos taurus. L. = SIC. Voi.) – Il bue, ritenuto dovunque a buona ragione il migliore amico della casa campestre, è fatto dalle condizioni del nostro territorio un impaccio, un malefizio, un pericolo. I pochi che vogliono mantenervelo in numero limitato nelle angustie delle loro proprietà o di quelle di cui han comprato il pascolo, circuite tutte all'intorno dalle proprietà altrui, per quante adoprino precauzione e vigilanza non possono impedire che non irrompano a danneggiare le coltivazioni dei vicini, giacché l'animale a pastura vagante ha bisogno di spaziare, e la vista d'una vegetazione migliore, che gli fa gola, lo stimola a rompere gli ostacoli. Quindi continue occasioni di dissapori e querele. Son poi di quelli che ostinati a mantenere cotali animali in un lembo di terreno proprio, e ritrosi ad affrontare la spesa del pascolo in terreni altrui, vanno spiando l'occasione di condurli clandestinamente di notte tempo a scorpare nelle biade e nei prati alieni: donde sovente, per mancanza di prove giudiziarie, i risentimenti covati a lungo, e poi sfogati sugli animali innocenti, massacrandoli di nascosto nel chiuso delle mandre. I soli proprietari delle terre delle colline sono quelli che possono impunemente occuparsi di questo genere di pastorizia, perché ivi le tenute sono più spaziose, ed è minore e può meglio prevenirsi il pericolo di recar danno alle proprietà altrui. E miglior consiglio è quello di altri che, avendo pascoli disponibili nei territori vicini, non li mantengono in queste nostre campagne che un tempo brevissimo, riconducendole alternatamente ove le erbe abbiano ripreso. Ad ogni modo son cacciati da queste colture all'avvicinarsi di agosto, poiché le carrubbe, a misura che maturano, cominciano a cadere e i buoi ne son ghiotti. – Il piede del bue qui non si calza con ferro. Pecore. – (Ovis aries. LIN. = SIC. Pècura). Principalmente parecchi proprietari delle terre collinose son quelli che trovano interesse ad allevare delle pecore in numero comportabile con l'estensione delle terre loro; e queste greggie, quantunque si portino di quando in quando a pascolare nelle terre del piano sui pascoli propri o acquistati a prezzo, danneggiano molto le mura di cinta delle chiudende, ma sono quasi inoffensive alle proprietà dei vicini, perché il loro padrone non lascia di raccomandarne la buona custodia. Il simile può dirsi di altre piccole greggie mantenute da padroni onesti alternatamente in queste campagne e nei territori vicini. Ma taluni pastori amano pur mantenere un piccolo gregge per conto proprio, e non avendo alcuna possessione ed essendo assai limitati nell'acquistare i pascoli a prezzo, e guidandolo qua e là per le vie o in qualche ritaglio di terreno incolto, hanno tutto l'interesse di farlo divagare in ogni istante nelle proprietà altrui, e son causa di doglianze e di risentimenti continui. I pastori stessi non lasciano in queste loro escursioni di metter mano ai frutti degli alberi, spesso decimandoli impunemente. Ad ovviare a questi malanni si era ricorso altra volta alla istituzione delle guardie rurali; ma il rimedio fu trovato insufficiente e peggiore del male: i vecchi abusi non cessavano e ne sorgevano dei novelli che obbligarono alla pronta soppressione. Oggi per la forza stessa della progrediente civiltà, per la sorveglianza che si è fatta esercitare nelle nostre campagne dai reali carabinieri e da parecchi militari delle compagnie d'armi nelle epoche dei ricolti, e per maggior prezzo che costano le sussistenze, questi piccoli speculatori sono stati costretti a vedersi assottigliare e sparire di giorno in giorno i tenuissimi loro capitali, e il loro numero si è scemato di molto. Arrogi i provvedimenti introdotti coi regolamenti municipali di polizia rurale, i quali obbligano a sgombrare dalla pianura marittima e a trasportare nelle montagne ogni gregge all'avvicinarsi della maturazione delle olive: tutti impacci e pastoie che asseguono indirettamente il loro ultimo fine con l'aumentare i dispendi e le noie e attenuare i profitti. Capre. – (Capra hircus. = SIC. Crapa). Questi animali non si mantengono che in numero estremamente esiguo, e sono allevati da quei medesimi che li guidano sotto il pretesto di fornire il latte pei bisogni della città. Per la loro nutrizione si segue lo stesso metodo accennato più innanzi di farli pascolare per le vie; ma i danni alle coltivazioni sono maggiori e più inevitabili, poiché la capra pel suo carattere vagabondo ed indocile facilmente si sbranca attaccandosi principalmente alle vigne ed agli alberi cui fa gran torto brucandone le foglie, spezzandone le cime dei rami, rodendone la corteccia. Giovano anche per queste i provvedimenti presi per le pecore, e si fanno voti che presto o tardi scompariscano da questo territorio per essere opportunamente confinate nei luoghi aspri ed incapaci di rispondere ad ogni sforzo d'umana industria. È là soltanto che possono vagare liberamente ed essere una ricchezza sempre presente: in mezzo alle nostre piantagioni non possono riuscire che in sommo grado noce-voli. ROSICANTI. - Conigli (Lepus cuniculus = SIC. Cuniggiu). Si tengono in qualche podere entro adatte fosse (cuniggeri), ma l'umidità che spesso vi penetra, scorcerta la loro riproduzione. Qualche famiglia di contadini suole allevarli nella propria casa d'abitazione a pavimento non lastricato, e certamente con miglior successo per la riproduzione, ma con molto danno per l'igiene. Porcellini d'India. – (Cavia cobaia. LIN. = SIC. Purcidduzi d'Innia). Si vedono qualche volta insieme coi conigli nelle case dei contadini; ma la loro carne non è molto apprezzata. UCCELLI DI BASSA CORTE. - Questi animali, che sogliono essere nelle altre campagne l'ornamento dei poderi, formano piuttosto appo noi il passatempo delle donne cittadine, poiché in questo territorio per lo sminuzzamento delle proprietà sono pochissime le fattorie che ammettano la presenza d'una massaia, la quale si occupi della menageria, e che con nome vernacolo appellasi Rubittera. Galli e Galline. – (Phasianus gallus. L.). In città non havvi contadina che non allevi le due o tre galline, e di rado qualche gallo, pel beneficio che ne ritrae di venderne l'uova: son piccole economie che in corso dell'anno fruttano sempre qualche cosa. Esse non sono tenute entro stie, ma si lasciano vagare pei cortili comuni, e si ha la massima vigilanza che non scorrazzino di molto. Più numerose son quelle che si mantengono dalle famiglie agiate per proprio uso entro luoghi chiusi con adatti pollai. Metterne ciascun anno le uova alla covata è uso generale, e la più parte delle contadine ne è premurosa per aggiungere quesealtra alle sue economie vendendone i galletti avidamente ricercati per cibo, e le pollastre per rinnovare le galline vecchie. Tacchini. – (Meleagris gallopavo. LIN. = SIC. Nniani). Se ne trovano nei pollai delle persone agiate ma in poco numero, ché non tutti hanno la pazienza di 170 spendere per essi le cure minuziose che esige la loro infanzia. I maschi son cercati per Natale e nelle feste di famiglia. Anitre. – (Anas boscas. = Pàpara). Questo volatile non è del tutto escluso, ma se ne allevano ben pochi, mettendone a covare le uova per ordinario sotto le galline. Oche. – (Anas anser. = SIC. Oca). Se costituiscono un importante reddito in molte provincie d'Europa per le uova, la calugine, il grasso abbondante e di buon gusto, ed il fegato, non si hanno qui in alcun pregio, e la loro carne viene rifiutata come dura, sia per effetto del clima, sia per ignoranza del saperle ingrassare. Piuttosto si tien conto della loro voracità, e qualche famiglia, determinatasi ad allevarle in piccol numero, non mette in mezzo molto tempo a disfarsene. Certamente nei soli paesi, ove tengonsi a pascere per la campagna, il loro allevamento può non essere molto grave; e questa pratica neppur sarebbe adottabile tra noi, poiché si sa che l'oca è un grande devastatore delle vigne, dei giardini, dei campi coltivati, e dei giovani alberi. Colombi. – (Columba domestica. LIN. = SIC. Palumba). Allevansi da moltissime famiglie pel loro incessante moltiplicarsi, offrendo ciascun mese una gustosa vivanda con la loro figliuolanza. Non possiamo chiudere questo articolo senza far menzione dei cani. Oltre il solito cane da pastore (Canis domesticus) ch'è sempre compagno delle nostre piccole greggie; oltre i cani segugi (Canis sagax), i bracchi (Canis avicularius) e i levrieri (Canis graius) che tanto piacciono ai nostri giovani cacciatori; oltre i mastini (Canis laniarius) di cui si giovano i beccai; ed oltre varie specie non molto comuni, non havvi bracciante che non allevi il suo cane bassotto (Canis vertagus), alla cui custodia lascia in campagna il suo piccolo bagaglio, mentr'egli attende al lavoro, né avviene mai ch'esso abbandoni la consegna. La sera poi, quando i contadini si ritirano a casa, tutti questi cani fanno per l'abitato un abbaiare così importuno ed assordante da disgradarne le stesse vie di Costantinopoli. X ed ultimo. - INSETTI UTILI (apicultura Due sono, come già si conosce, i preziosi insetti che, promettitori di grandi vantaggi, offrono alla casa rurale un doppio genere di speculazione: il baco da seta e l'ape. La coltivazione del primo non ha potuto finora attecchire in alcun paese di questa provincia; ma non dobbiamo por termine a questo scritto senza dare alcune nozioni per quella del secondo ch'è nostra. Quantunque la vecchia opinione, che Avola tragga la sua origine da una delle antiche Ible, non sia suffragata da incontrastabili argomenti, e quantunque non possa dirsi che le nostre colline siano una continuazione della catena dei colli iblei, è però fuori dubbio non correre diversità nella costituzione geognostica dei due sistemi di eminenze, ed essere una stessa la loro flora'. Quindi anche questa è stata in ogni tempo regione adatta alla educazione delle api: anche qui è stato coltivato ab antico un tal ramo d'industria; e la tanta celebrità storica e poetica del miele ibleo non è vanto che solo appartenga ai luoghi ove sorgeva la vetusta Mègara. E noi ci crediamo obbligati dallo scopo del presente scritto a dare una notizia particolareggiata delle pratiche dei nostri apicultori. L'arnia (fustu, vasceddu) qui in uso è costruita coi fusti della ferula (Ferula communis. = SIG. Ferra), ed - ha la fioriturta, e là si affretta a trasportare e distribuire i suoi alveari, levandoli dai quartieri d'inverno. Le api intanto, se favorite da un tempo dolce e non disturbate da brusche variazioni termometriche, attendono così alacremente alla costruzione dei favi e alle covate da richiamare sollecitamente l'opera dell'apicultore per la sciamatura artificiale (partitura). Essa è la sola a cui tra noi si dia mano: gli sciami naturali non avvengono che per incuria o disaccortezza di chi governa questo ramo d'industria, e i nostri sono troppo previdenti per non vegliare a prevenire ogni diserzione. Com'essi si accorgono che la popolazione d'una arnia è divenuta esuberante, affrettansi a togliere tutti i favi con covate che vi si trovino al di là del suo. Questi si depongono verticalmente in un'arnia vuota, fissandoveli con l'appoggio di stecchine di canna appuntate che si attaccano alle pareti laterali, e in questa nuova abitazione, che tiensi verticale innanzi all'apertura dell'arnia madre, si trasporta col cavo nella mano la popolazione esuberante di essa, chiudendone l'apertura col di lei coperchio. Ciò fatto l'arnia madre, chiusa con altro coperchio, si colloca in diverso e lontano sito, e nel posto lasciato vuoto si sostituisce l'arnia figlia, la cui colonia ingannata dal trovare nella nuova abitazione i propri favi, e il posto e il coperchietto che ben riconosce, senza difficoltà vi si adagia. Scorgendo però mancarle la regina, si affretta a crearsela col noto processo delle celle reali. L'apicultore ricorre allo stesso artifizio di cangiar di posto le arnie quando si avvede che la popolazione è debole in alcune e robusta in altre. Trasportando le une al sito delle altre, ottiene agevolmente che le due popolazioni si equilibrino. Avviene in qualche arnia, che la colonia si trovi in istato di sollevazione e in disaccordo con la regina: mentre questa lavora ed ovifica, le operaie allungano le celle reali e dan vita ad altre regine. I nostri pratici danno il titolo di pazze (foddi) a tali arnie, e riescono a ristabilire l'ordine togliendone tutti i favi, e sostituendovene due o tre alieni perfettamente vuoti di miele e senza covate. Allora la colonia vedendosi spogliata del suo e in più ampia dimora, rinsavisce, si riconcilia con la regina, e compie tranquillamente e con ordine i suoi lavori. Havvi pure le arnie anormali (sarvaggi, òd'ani) con la regina infeconda per vecchiezza o con operaie figliatrici che fan covate gibbose e gettano le ova irregolarmente nelle celle dei favi. Bisogna che anche queste siano messe a nuovo, e l'àpicultore, appena se ne avvede, non omette di togliere la regina infeconda e di condurre quella colonia in un'arnia figlia, come si pratica per gli sciami. Scorsi 13 giorni da queste preliminari operazioni, le arnie figlie si troveranno provvedute della loro regina e d'una famiglia più numerosa. L'apicultore, 176 tornando a visitarle, ne cava i favi che v'ebbe lasciato la prima volta, e scegliendone tre migliori e rimosso il coperchio posteriore, va a collocarli verticalmente con l'appoggio di stecchette di canna dietro a due colonnini di culmo di ampelodesmo (vusa) che stanno fortemente impiantati a 20 centimetri dal fondo, in modo però che resti tra l'uno e l'altro favo un intervallo di 2 centimetri, e che l'ultimo ne disti 4 dal fondo. In questa occasione provvede pure alla sciamatura di altre arnie che non ne presentarono la convenienza nel primo esame. Dopo altri giorni 13 si fa un'ultima rivista per regolare le arnie figlie di seconda mano, e si stabilisce in tutte l'assegno definitivo del suo. Sotto questa voce suo, che abbiamo ripetuto più volte senza darne spiegazione, va inteso il fondo di riserva, il ripostiglio inalienabile del miele che deve servire al nutrimento delle api per quel tempo che nulla trovino a bottinare. Esso si compone dei tre favi che van posti in fondo dietro i colonnini, e di altri due o tre che si mettono nella parte anteriore dell'arnia, anche appoggiate ad un fusto verticale di ampelodesmo. Gli alveari non si rimuovono dalla prima stazione finché duri la fioritura primaverile e quella alquanto tardiva della Sideritis romana (SIC. Mascaredda): dopo il 15 giugno si concentrano in quei soli luoghi, ove la fioritura estiva del timo (Tbymus capitatus. HOFF. et LINK. = SIC. Sataredda) si mostri più rigogliosa e più abbondante. È negli ultimi giorni di luglio che si esegue il raccolto, il quale è prudenza che si compia con la massima parsimonia, lasciando sempre intatti i 5 o 6 favi che costituiscono il suo, e solo asportandone i soverchi che siano ben colmi di miele. Fatto ciò si richiudono le arnie, otturandone con diligenza ogni fessura. Ed è in questa occasione ch'egli può contare finalmente il suo arniario, ed assicurarsi dell'effettivo numero degli alveari ch'egli possiede. Ma non per questo però egli deve addormentarsi; ché in agosto gli conviene lottare col più terribile nemico che dia la caccia alle api, qual è il calabrone (Vespa Crabro. = SIC. Lapùni). Senza appigliarsi al meschino e insufficiente mezzo degli Attrappa calabroni, egli non trova allora spediente migliore a scongiurare il pericolo per gli arniari invasi, che trasportarli nelle colline, ove quel pernicioso insetto non nidifica né dimora, ed ivi lasciarli sino al cominciar dí novembre. Poscia riportati nella pianura marittima vi si lasciano a svernare in siti asciutti a solatio e riparati dai venti freddi, con covertura di paglia e di fogliesecche, senz'altra ulteriore attenzione che di visitarli dopo la caduta di forti acquazzoni per conoscere se vi sia penetrato dell'umido e provvedere senza indugio a tramutarli in luogo asciutto. Avviene però qualche volta, che una mite temperatura solleciti l'infaticabile insetto a far largo bottino nella fioritura autunnale del Carrubbo e della Nepitella ed in quella invernale del Mandorlo, che qui succede dalla seconda metà di gennaio alla prima di febbraio. E l'apicultore, che non perde mai di vista l'oggetto dei suoi pensieri, recandosi in un giorno sereno e dí bel sole a visitare il suo apiario, è lieto di trovarvi una nuova e non sperata esuberanza di favi e dí miele. Ma qui le vicende meteoriche avversano di frequente la fioritura del carrubbo, la nepitella per le scarse piogge e spesso arefatta dai brucianti alidori estivi, e la fioritura del mandorlo non sempre sí concilia con giorni caldi e sereni che permettano la libera escursione alle api: ecco le cause principali per cui non è frequente un tal beneficio di raccolta tardiva; essa però, comunque eventuale, non può né deve trascurarsi negli apprezzamenti di questa industria. Ed ora potrà forse domandarsi, qual reddito essa lasci a chi se ne occupa. E noi, prevenendo quel desiderio, e senza intricarci in un labirinto di cifre, facciamo semplicemente osservare, che sole 100 arnie, con cui s'iniziò la speculazione, fruttano all'anno in media chilogrammi 70 di miele (valutabile ín media L. 70), chilog. 8 di cera (del prezzo medio di L. 36), e 30 sciami artificiali od arnie figlie, che, dedotte le spese di costruzione in L. 3 per ciascuna, dànno il capitale fisso di L. 150, il quale basta ad estinguere in meno di sei anni la spesa primitiva delle arnie madri, che non lasciano di esser fruttifere fin oltre a un decennio. Calcolando su 178 questi dati così semplici, e senza tener conto dei maggiori profitti di un'azienda in grande, può ciascuno convincersi da sé stesso, quanto questa industria sia largamente rimuneratrice più che ogni altra qualsiasi. Poco in essa è il lavoro, che si presta dall'esercente spesso per diletto e quasi per giuoco: più che lavoro manuale esige intelligenza e solerzia, e le compensa con usura; e se non pertanto sono pochi coloro che vi si addicono, non è per esuberanti fatiche ch'essa richieda o per poco lucro che prometta, ma perché non tutti sanno adattarsi alle cure amorose e vigilanti che le sono indispensabili. Il miele si estrae dai favi lasciandolo lentamente scolare, poi sottoponendo i favi stessi al pressoio. La cera si prepara coi metodi conosciuti dovunque. I corrivi delle idee di progresso, i quali credono facilmente attuabile in ogni luogo ciò che ha fatto buone pruove in alcuni, ci faranno torto senza dubbio, che questa industria si prosiegua a governare tra noi con le regole empiriche di una pratica tradizionale piuttosto che coi nuovi metodi dell'arnia a favo mobile e dello smelatore meccanico, che la scienza ha suggeriti. Chi mi apprestò le informazioni, sulle quali ho dettato il superiore riassunto, è il concittadino sac. D. Paolo Rametta che, nato in famiglia di apicultori e cresciuto in mezzo alle api, ha avuto occasione d'invogliarsene e di studiarne i costumi, e ammesso perciò a far parte dell'Associazione d'incoraggiamento per l'apicoltura in Italia, si è trovato in relazione coi più fervidi promotori dei succennati nuovi metodi. Or a costui medesimo avendo io chiesto schiarimenti sulla tenacità dei nostri a starsi ancora sugli usi antichi, ecco le ragioni che da lui me ne furono addotte. L'arnia a favo mobile non è stata qui sconosciuta e inusata del tutto. Egli aveva profittato della Esposizione agraria di Siracusa nel 1871 per farne costruire una sul modello ivi esposto da Duca di Brolo, e vi aveva collocato tantosto la nuova colonia secondo le ricevute istruzioni. Questa momentaneamente vi si adagiò; ma quantunque fosse stata governata con gli studi e le attenzioni maggiori, fu vista dopo 18 mesi infelicemente perire. Quest'esito sconfortante dissuase dal tentare una seconda pruova, la quale si era già conosciuto che, quantunque fosse riuscita bene, avrebbe trovato uno scoglio nelle circostanze locali. Imperocché è meritevole di osservazione che qui non si hanno né possono aversi coltivazioni estive, le quali forniscano con la loro fioritura largo pascolo alle api mantenute sempre allo stesso posto, ed è solo nelle piante spontanee che deve andarsi a cercare l'occasione di ben nutrirle. Or l'arnia nostra costruita di ferula, oltre le proprietà igieniche più su ricordate, oltre il tenue costo e l'estrema facilità a costruirla, oltre l'attitudine delle pareti a potervisi facilmente impiantare le stecchette a sostegno dei primi favi (tutte circostanze che nella mostra universale di Vienna la facevano giudicar più vicina alla razionale fra le tante ivi esposte), offre pure l'inestimabile pregio della leggerezza che ne rende agevole il trasporto a basto di mulo per vie non carreggiabili e spesso scoscese sino ai luoghi meglio adatti secondo la stagione e la ricchezza del pascolo. Il peso maggiore delle arnie a favo mobile renderebbe questo trasporto più difficile, più lungo, più grave, più costoso, e può ben prevedersi che non avverrebbe mai senza guasti. Sia dunque che il ricordato unico tentativo dell'arnia a favo mobile non abbia qui ottenuto buon esito per inesperienza della mano esecutrice, sia perché le api non abbian trovato nella nuova dimora quella dolce temperatura a cui si erano abituate nelle arnie di ferula (ché anche in Melilli fu assicurato al Brocchi aver poco prosperato ed essersi poco mantenute in vita in arnie volute farsi con asse), la notata circostanza della difficoltà del trasporto mi sembra l'ostacolo più serio e di maggior gravità per la introduzione fra noi del nuovo sistema. Né ci portò minor delusione l'esperimento che qui pure volle tentarsi dello smelatore meccanico. Il nostro miele si è trovato molto denso per cedere all'azione di questo strumento, e per isforzo che si facesse, è rimasto tenacemente attaccato agli alveoli dei favi; né poteva essere altrimenti quando nella estrazione per mezzo del torchio bisogna una forte pressione a farnelo uscire. Forse tale ostacolo verrebbe scemato prendendo il miele appena deposto nei favi, perché allora è più liquido (tènniru), e in tal caso conveniamo che l'uso dei telaini sarebbe indispensabile a facilitare l'operazione; ma ciò, oltre di pregiudicare alla qualità zuccherina di quel prodotto, che i nostri non senza ragione hanno in pregio, riuscirebbe qui di gravissimo incomodo per la necessità di dover esplorare continuamente i molti apiari, spesso collocati in siti lontani e l'uno dall'altro distanti. In teoria può tutto sembrar facile; ma la cosa non va sempre liscia quando si viene all'atto, sotto l'influenza di circostanze diverse: Ed ora che la materia trovasi svolta in tutte le sue parti, metto fine alla lunga esposizione, nella quale ho la coscienza d'aver detto francamente la verità, rendendomi sempre conto d'ogni capo da chiarire, senza esagerare la bontà delle cose e senza tacerne o dissimularne i vizi. i Perché si possa aggiustar fede alle nostre asserzioni, ci giova mettere qui in nota un elenco delle Labiate del nostro territorio, che sono le specie da cui l'ape ritrae il più gradito nutrimento. A chi lo confronti per detta sola famiglia con quello che dava il Brocchi delle piante dei Colli Iblei, non che trovarci pari nelle più essenziali, converrà tenerci conto d'un sopravanzo nel numero: là 24, qui 42! Preferiamo al solito l'ordine alfabetico. Ajuga chia. Schreb. Prasium majus. L. Iva. Schreb. Prunella laciniata. L. Orientalis. L. — Vulgaris. L. Ballata foetida. Lam. Rosmarinus officinalis. L. Saxatilis.Guss. Salvia clandestina. L. ' Clinopodium volgare. L. — Sclarea. L. Lamium amplexicaule. L. — Triloba. Lin. fil. Pubescens.Sibth. — V i r i d i s . L . Lycopus europoeus. L. Satureia graeca. L. Marrubium apulum. Ten.Scutellaria Gussonii. Ten. Volgare. L. — Peregrina. L. Melissa. Altissima. Desf. Sideritis romana. L. Mentha apatica. L. Stachys dasianthes. Raf. Macrostachya.Ten. — H i r t a . L . Pulegium. L. Teuerium Favescens. Schreb. Sylvestris. L. — F l a v u m . L . Micromeria juliana. Benth. — Fruticans. L. Molucella Spinosa. L. — Polium. W. — — — — — — — — Origanom macrostachyum. Hoff. et Link. — Scordioides. Schreb. Viride. Hoff. et Link. Thymus capitatus. Hoff. et Link. Phlomis fruticosa. L. — Nepeta. Smith. —
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