giuseppe bianca monografia agraria del territorio - pro loco

GIUSEPPE BIANCA
MONOGRAFIA AGRARIA DEL TERRITORIO DI AVOLA
EDIZIONE DIGITALE PRO LOCO-AVOLA
e-book realizzato da ANGELO PALMERI 2014
La Pro Loco di Avola pubblica in edizione digitale
alcune significative opere della cultura regionale
e locale con lo scopo di agevolarne la diffusione
soprattutto fra i giovani sempre più fruitori delle
nuove tecnologie .La speranza è che le nuove
pubblicazioni contribuiscano alla definizione
dell’identità dei giovani avolesi che nella
conoscenza del passato troveranno la
spiegazione di tanti problemi attuali.
Gli e-book sono stati realizzati, in spirito di puro
volontariato ,dall’Insegnante in pensione Palmeri
Angelo.
Avola,Aprile 2014
il Presidente della Pro loco
Peppino Corsico
I. - TOPOGRAFIA
A. Topografia terraquea. - Avola, Comune di Sicilia,
giace in aperta pianura sotto il grado 37° 29' di
latitudine Nord, a 23 chilometri N. N. E. da
Siracusa e a 7 chilometri O. da Noto.
Il suo territorio amministrativo ha limiti molto
angusti con una superficie dí ettari 6000 a un
dipresso, che riduconsi a non più di 5000, se ne togli
le rocce nude ed i luoghi alpestri. La configurazione
di esso è quella d'un trapezio, o meglio d'un cono
smussato all'apice, la cui base, alquanto sinuosa e
quasi lunga 10 chilometri, poggia sul mare Jonio dal
lato dell'E.S.E., con le coste alquanto elevate nella
parte di mezzo e declinanti ai due estremi, mentre
l'apice vien chiuso da una linea convenzionale malamente determinata e appena lunga 4 chilometri. Dal
lato tramontana gli è limite naturale il fiume
Cassibili (il Caccipari degli antichi) che lo divide in
parte dal territorio di Siracusa; dal lato di
mezzogiorno lo confina per un buon tratto il fiume
Asinaro dalla foce all'insù, poscia una linea
rientrante di pura convenzione; e contermina tutto
all'intorno sino a più di metà del lato settentrionale
col vasto territorio di Noto, che comprende
diciannove ex -feudí ed ha l'enorme superficie di quasi
86,000 ettare, sproporzionatamente grande per la sua
popolazione quanto il nostro è sproporzionatamente
piccolo per la nostra. mentre le due anagrafi quasi
pareggiano(2.)
Il sito della città è presso l'angolo S. E. ove
coincidono i due lati meridionali e marittimo,
distando da quello quasi 3 chilometri, e appena un sol
chilometro dal mare.
Tutta la parte occidentale del territorio non è che
un'obliqua catena di colline, il cui nòcciolo è
costituito da una roccia calcaria, bianchiccia e
sonora, di tessitura granulare, di mezzana durezza,
disposta regolarmente a banchi orizzontali,
appartenente al periodo pliocenico e designata dai
geologi sotto nome di calcario ibleo. I terreni clismicimoderni, che rivestono in parte questa roccia
(giacché molta porzione resta affatto denudata dalle
acque piovane) riduconsi a poca terra vegetale mista
al detrito del calcario stesso che le sta sotto. La
pianura mediterranea, qua e là leggermente ondulata,
che dalla base di queste colline si distende sino al
mare, sotto al breve strato di terra vegetale
pertinente al periodo contemporaneo, e che varia di
composizione e di spessezza quasi ad ogni passo ed è ordinariamente non più profondo d'un piede
(condizione di grande importanza a non potervisi
mantenere l'umidità) presenta un sottosuolo di
formazione plistiocenica, il quale viene costituito
sino a grandi profondità e senz'alcun ordine reale di
successione da piccoli strati di ciottoli rotolati di
varia natura, da ghiaie e sabbie calcari, da argille, da
tufi calcari e frattura farinosa, in qualche luogo da
banchi di calcario grossiere, e più ordinariamente da
una breccia di pietre calcari di varia grossezza a
tessitura compatto - silicea collegate da un cemento
quasi tanto duro quanto le pietre stesse, con le quali
forma una massa solida e continua. Nella parte
superiore poi di questa pianura, che è immediata
all'ultima base delle colline, il solo tratto intermedio
presenta qua e là qualche deposito cretaceo, mentre
dal lato di tramontana è pietrosa in modo, che ha
fatto dare alla contrada il nome di Petrara, e quello
dalla parte di mezzogiorno diversifica alquanto nella
chimica composizione dei terreni, che son bianchicci
- magri e poco ritenitori dell'acqua pel calcario che li
domina, di pasta friabilissima e poco collegata.
Oltre dunque che in generale i nostri terreni han
poco spessore e poca umidità, vi si trovano sempre
sparutissimi in confronto del calcare gli elementi
liberi degli altri componenti minerali, e l'humus. E
poiché la fertilità del suolo si misura dalla sua
attitudine ad alimentare la pianta più preziosa per
l'uomo, il frumento, e questa pianta non prospera
ove non domini o per lo meno non sia molto manchevole la sostanza alluminosa, ed ove l'acqua non aiuti
di continuo l'assimilazione, risulta dalla fatta
esposizione esser poche in questo territorio le terre
ubertose, alquanto più le mediocri, povere di vigore e
sterilissime la maggior parte. Arrogi che l'affaticante
agricoltore, dandosi studio di sopperire per lavori e
per diligenza a questo naturale difetto, mischia a
quel poco di terra vegetale i frammenti delle inerti
materie che stacca col vomere dagli strati inferiori, e
deve poi aspettare che larghe letamazioni e la terra
frequentemente rivoltata rendano sciolte ed
assimilabili col concorso anche dell'aria quelle
sostanze minerali aggregate.
Ed intanto, perché la rarità rinforza il desiderio,
queste terre medesime (fatta astrazione degli alberi)
non possono ottenersi in affitto a minor tasso di L.
51 per ettara, riportando un valore doppio ed anche
triplo, se siano irrigabili. È difficilissimo poi dare
una cifra anche approssimativa del loro valore
d'acquisto, dipendendo esso dalla quantità e dallo stato
degli alberi, che valgono bene spesso più del fondo in
cui crescono.
Bisogna infatti osservare, che se l'industria
contadinesca non ha potuto vincere la natura col
rendere convenientemente adatti questi terreni alla
coltivazione delle biade, si è rivaluta a dismisura con
la piantagione di vegetabili perenni più utili, che in
ragione del loro più lento sviluppo in un dato tempo
richiedono meno alimenti delle specie annuali.
Principalmente vigne, olivi, mandorli, carrubi, e poi
molti alberi fruttiferi da giardino e di lusso, oltre
vari di minor conto, vestono densamente i versanti
delle colline e la parte mediterranea del territorio
dalla sommità delle stesse pendici sino quasi ad un
terzo di chilometro dal mare, ove le condizioni
climatologiche non permettono potervi allignare che il
fico e la vigna.
Le terre di quasi tutta questa estensione, per lo mezzo
dell'enfiteusi, trovansi distribuite, anzi a dir proprio
quasi sbocconcellate a quanti son capi di famiglia, e
la rendita di esse consistendo principalmente nel
frutto degli alberi e degli arbusti che non esigono
(tranne la vigna) molte spese di produzione, il più
povero contadino nella sua piccolissima porzione,
con l'aggiunta della mercede che ritrae dall'opera
prestata ad altri, trova di che sopperire ai bisogni
della sua famigliuola, e uno stato di modesta generale
comodità ne risulta, che mortifica la opinione di
quella classe di economisti, i quali negano la
divisione dei terreni e la piccola cultura potere esser
causa di augumento di sussistenze. Tutte queste
piccole divisioni, distinte in contrade, vengono
intersecate da opportune trazzere e da strette
viuzze, e son cinte e difese da muricciuoli di pietre a
secco, i quali tengon luogo di siepe, ed intanto per
quella energia dello spirito umano, che tanto men si
rallenta quanto è più stimolata dal bisogno e dagli
ostacoli, non è alcun minimo pezzetto di terra
capace di render frutto (anche sul versante più
ripido, nei burroni, nelle valli) che i nostri contadini
lascino incolto o non vi allevino un albero; e l'aspetto
del complesso presenta qualche cosa di straordinario,
anzi di unico. E pare di vedervi, come parve un
giorno a Licurgo nelle campagne dell'antica Sparta,
una sola famiglia di agricoltori, e la divisa eredità di
molti fratelli. Anche parecchi poderi di una
mediocre estensione, posseduti dai più facoltosi, sono
sempre divisi in chiudende e gremiti d'alberi, né
discordano dall'aspetto generale. Se trovansi
solamente eccettuati da questo sminuzzamento un ex
feudo nel confine settentrionale, e la parte superiore
delle colline, è stato perché il proprietario del primo
ha voluto mantenervi la grande coltura, e perché la
seconda non si presta pel clima alle piantagioni
arboree, e non offre perciò egual tornaconto alla
piccola cultura.
Tuttavia non lascia questo territorio d'esser sempre
insufficiente ai crescenti bisogni di una popolazione
quasi esclusivamente agricola e all'eccesso operosa.
Laonde insofferente delle barriere amministrative ad
essa opposte, e accumulati per entro all'agro proprio
tutti quei valori di cui era suscettibile, ha nobilitato
con la propria industria ed anche acquistato coi suoi
capitali buona parte dei contermini territori di
Siracusa e di Noto, che solleticavano con lo stato di
quasi abbandono la di lei attività. Le quali porzioni
per difetto di energiche misure governative non è
stato finor consentito di aggregarsi al nostro
primitivo tenimento, né può sperarsi che mai si
ottenga, finché a ciò si richieda il libero consenso dei
due comuni interessati, e non venga a mettervi mano
l'autorità di una legge ferma ed immutabile, che in
mezzo all'urto degli interessi tenga solamente ragione
dello svolgimento delle popolazioni e della industria
agraria. Peraltro indipendentemente dal non potersi
negare, che le terre occupate col mezzo più legittimo
che è quello della industria e del lavoro siano
giuridicamente divenute nostre, havvi una forte ragione
di equità perché Noto specialmente, il quale ha molto
soverchio, non avrebbe dovuto mostrarsi renitente. La
maggior parte di quelle terre non ha potuto ottenersi dai
nostri contadini che a titolo d'enfiteusi perpetua con un
canone gravissimo e senza il beneficio della ritenuta fondiaria, cosicché i proprietari che prima le possedevano,
or ne ritraggono un utile netto e sicuro che supera del
doppio ed anche del triplo la rendita primitiva, resa
peraltro incerta dalle vicende delle stagioni. Arrogi
che le terre stesse son quasi tutte in luoghi di malsanìa,
e la nostra classe agricola ha perduto a cagione di esse
quel vigore di salute e di robustezza, in cui tanto per lo
innanzi si distingueva, non morendo, ma uccidendosi,
per usare la giusta ed energica frase di Flourens. E già
le due recenti anagrafi hanno constatato che nessuno dei
nostri contadini raggiunge più i 60 anni di vita, e
pochissimi sono quelli che vanno oltre i 50. Or in vista
dei mentovati due sacrifici, equità vorrebbe che almeno
fossero sollevati dal peso che li grava di doversi recare
in altro comune per le tante bisogne e amministrative, e
giudiziali, e finanziarie, con perdita di tempo che per
essi è moneta e con spreco di denaro per alcuno che li
assista e li guidi, ciò che facilmente potrebbero
risparmiare nel paese nativo.
Pria di lasciare questo argomento devo fare avvisati i
miei lettori a non credere che un territorio, com'è il
nostro, così sbocconcellato e con tanto movimento e
complicazione d'industria, non abbia pure i suoi difetti e
non incontri in certo modo i suoi ostacoli. Dirò dei
principali 'che sono:
1.° Poca sicurezza dei prodotti per la mancata
custodia, non essendo possibile che i vari possessori
costantemente sopravvegliassero a tante piccole
porzioni di terreno, disseminate per lo più in
contrade diverse. Fu tempo che si cercò di rimediare
a questo inconveniente con lo stabilimento dei
guardiani rurali; ma tale espediente, messo alla
prova, non corrispose al fine. E il maggiore ostacolo
veniva appunto dalla parte di coloro che, giusta la
frase del signor Rabbeno in questo stesso Periodico,
dovrebbero essere la sentinella avanzata della
pubblica forza. Imperocché non vuolsi tacere, che
quanto il nostro contadino è affezionato al proprio
campicello, altrettanto non si fa scrupolo di poco
rispettare l'altrui; anzi il tirocinio dei figli suoi
comincia sempre dall'avvezzarli a decimare i prodotti
dei vicini pria del raccolto.
2.° Molte frazioni d'uno stesso agricoltore
intersecate a quelle di altri possidenti, e collocate a
varie distanze; il che complica l'amministrazione e la
maggior parte delle operazioni: le quali ognun vede
quanto resterebbero semplificate, e più ordinate e più
vantaggiose, se tutte quelle frazioni fossero riunite in un
solo spazio.
3.° Sminuzzamento eccessivo e quasi microscopico
per effetto delle successioni; giacché una piccola
quota posseduta dal padre, dividendosi dopo la di lui
morte tra i suoi figli che tutti vogliono la parte loro,
riesce così spezzata non potervi applicare alcuna
industria che dia frutto apprezzabile.
4.° Ineguale distribuzione del contributo fondiario; poiché
non tutti i fondi, ancorchè d’ugual natura, sono gravati di
canone in ugual proporzione ; e quindi non lasciano ad
alcuni possessori la stessa rendita netta che ad altri.
E la Commissione rettificatrice del catasto non
avendo potuto mettere a calcolo tali circostanze di
variazione, è avvenuto che, tassatisi i fondi simili in
ragione di perfetta uguaglianza, la contribuzione di
ciascuno, equivalendo a una rendita netta moltissimo
differente, non produce gravezza uguale e vien
pesando a più doppi sui piccoli risparmi dell'infima
classe, che possiede a più forte canone e a cui
peraltro neppure può giovare le più volte il beneficio
della ritenuta, essendo convenute le più recenti
enfiteusi col patto della franchigia.
5.° Complicazione d'interessi per le molte
succoncessioni
enfiteutiche
accumulate
l'una
sull'altra, e per tanti dritti di dominio diretto e di
dominio utile sovente addossati alla stessa porzione
di terreno: continua occasione di discordie e di liti.
E certamente non potea venire più opportuna per
questo Comune la nuova legge che ora vieta le
succoncessioni.
6.° Continue questioni per alterazioni di termini e per
restringimento ed impaccio di stradicciole comuni;
imperocché i contadini cercano sempre spostare i
limiti dei loro possessi per guadagnare una striscia di
terreno, oppure sgombrandoli dalle pietre, gettan
queste nelle vie comuni ed impediscono o rendono
malagevole l'altrui passaggio.
7.° La solidarietà a cui soggiacciono varie porzioni pel
pagamento del canone, cosicché ove tutti i
compossessori non si trovano in condizione di
sodisfarlo alla scadenza, l'enfiteuta solvibile è spesso
costretto a soffrir la pena dei morosi. Questo
inconveniente si è reso più grave dopo
l'introduzione del corso forzoso della carta moneta.
Per eludere questa legge e trarne profitto a suo pro, un
direttario è ricorso in danno degli enfiteuti al
seguente stratagemma. Egli alla scadenza del canone
passa a pignorare il frutto pendente delle vigne tutte
che si trovano nel fondo censito, e non consente a
riceversi le rate di ciascun compossessore e a
sciogliere dalla procedura coattiva le relative
porzioni che mediante il pagamento di moneta in
argento. Egli ha previsto che non tutti i
compossessori si trovino in istato di saldare il debito
loro, perché alcuni han bisogno di procurarsi il
denaro con la vendita del mosto. Quindi per un solo
che si trovi in quelle strette, tutti gli altri che posson
pagare e cui preme non indugiare la vendemmia
sono forzati a sottoporsi alle condizioni usurarie del
direttario, cambiando la carta con forte sconto e
pagando in argento le loro rate così del canone come
delle spese!!!
8.° Frequente mancanza di braccia per la
coltivazione ed elevazione sempre crescente, spesso
indiscreta delle mercedi: giacché i contadini
trovandosi buona parte dell'anno occupati nelle
terre proprie, ed essendo pure ricercati per la loro
pratica dagli agricoltori di Siracusa e di Noto,
sovente questa borghesia non trova braccia da impiegare alla coltivazione delle terre sue, ed è
costretta a differire i lavori con grave scapito delle
produzioni. E già nelle bisogne più pressanti si è
cominciato ad avere ricorso ai contadini meno
occupati di altre popolazioni vicine.
9.° Raccolta affrettata dei prodotti; poiché per
quanto il nostro contadino non si stanchi di
profondere sulla sua piccola coltura tutte le
attenzioni e tutti i lavori possibili, altrettanto è
impazientissimo di raccoglierne il frutto, e non
aspetta a darvi mano che la maturazione raggiunga il
suo stato perfetto. Il che sovente avviene con grave
scapito della produzione; ma egli non se ne cura, e trova
sempre pretesti per fare a quel modo. Ed intanto
essendo le piccole possessioni incastrate le une nelle
altre, appena il più impreveggente dà il segno,
diviene una insormontabile necessità che i vicini lo
imitino per non vedere esposti i prodotti loro alle
ruberie dei raspolatori, contro i quali non v'ha
precauzione e vigilanza che basti.
B. Topografia idraulica. – Si è detto più su essere
limitato il nostro territorio dal fiume Asinaro a
mezzogiorno e dal Cassibili a tramontana.
Aggiungiamo, che da questi due fiumi non si trae per
l'irrigazione tutto quel vantaggio che si potrebbe ove
le acque venissero inalzate e distribuite con
opportuni aquedotti e congegni. Principalmente il
Cassibili, che ha una portata di 12 zappe 3 d'acqua,
non serve attualmente che all'irrigazione di poche
ettare di terreno presso la foce, dopo aver messo in
moto quattro molini di grano. Queste acque senza
congegni di sollevamento, ove fossero incanalate
verso la base stessa delle colline, potrebbero
condursi, seguendo la naturale inclinazione del suolo,
ad innaffiare molta parte dell'Agro siracusano; e tal
disegno era stato vagheggiato dal cessato Governo,
ma le vicende politiche arrestarono ogni cosa. Ora
intendono risuscitarlo i comunisti di Siracusa.
Ciò non ostante, se questo territorio non ha copia
di acque, non ne è troppo povero. Oltre i mentovati
due fiumi, varie polle pur vi si trovano scaturienti
qua e là nella pianura, tutte un tempo destinate alla
coltivazione della canna da zucchero ed oggi ad
innaffiare orti e giardini. Le falde stesse delle colline
e i fianchi delle valli offrono in qualche sito più di
una scaturigine, fra le quali è degna di menzione
quella di Miranda (l'antico Erineo ricordato da
Tucidide) che scorre in una valle dal dorso d'una
collina, oggi ridotta a una larga fonte, ma che nei tempi
antichi havvi tradizione essere stata un grosso fiume,
che poscia il divelto d'una collina chiuse ed in parte
disperse. L'acqua di questa fonte, di proprietà
privata e della portata di 4 zappe, è la più copiosa di
tutte le altre. Essa, raccolta dapprima in apposite
conserve, serve a dar moto a 5 successivi mulini da
grano, poi si adopera per la irrigazione dei giardini,
locandosene l'uso a giornate per ogni settimana. E
poiché la coltivazione degli agrumi si ha qui in
pregio e vi prospera, e tutte le acque sopraindicate,
servendo anche agli ortaggi, non sono sufficienti allo
scopo, non si è lasciato di avere ricorso anche a quelle
dei pozzi, elevandole coi bindoli, di cui già si fa uso in
luoghi parecchi.
Non esistono laghi, né terreni paludosi e
acquitrinosi; né certamente possono meritare
quest'ultimo nome alcuni ristagni di pochissima
estensione in due o tre punti del litorale, prodotti
dall'ostacolo frapposto dalle arene alla corrente di
qualche rigagnolo delle acque piovane.
Alcuni torrentelli, formati dagli scoli delle colline,
vanno innocuamente a disperdere nel mare le loro
acque, ed è assai raro che straripino nei punti di
basso livello degli alvei, avendovi provveduto con
argini gli stessi riverani.
C. Topografia atmosferica. – Per la sua posizione in
aperta pianura e presso il mare vi è variabilissimo lo
stato atmosferico. L'inverno non vi è né molto
rigido né lungo, aprendovisi primavera con ogni
sorta di fiori in marzo e talvolta anche in febbraio. I
caldi dell'estate sono lunghissimi, da maggio ad
ottobre, e piuttosto assai sensibili che temperati. Se
non che sull'una e l'altra stagione molto influisce lo
stato anemometrico, essendo assai freddi i giorni
invernali, quando tirano i venti di N-0., di N., o di
N-E., e provandosi in estate un calore bruciante, se
soffia il vento di Ovest, che ritiensi come un turbine
africano, il quale viene a rompersi in Sicilia, ed è
fortuna che non succeda tutti gli anni. È notabile
l'arsura che allora ne succede in tutti i vegetali e
specialmente sulle uve, verificandosi ordinariamente
da giugno ad agosto. A mezzogiorno del 13 luglio
1864 la temperatura per esso salì a gradi + 46 del
termometro centigrado tenuto all'ombra, e dopo il
tramonto non era discesa più giù di + 45,50. Anche
il vento caliginoso di S-E fa vedersi non di rado in
autunno, umido e pesante, ad annoiare gli uomini,
fare ribollire i mosti e nuocere alla nascente
vegetazione erbacea. Il vento poi di N-0, quanto suol
essere mite e propizio al tempo della maturazione
delle
biade,
altrettanto
qualche
volta,
sull'avvicinarsi di primavera o in autunno, spira
talmente furioso e con forza così crescente e irresistibile da seminare la devastazione e lo squallore per
le campagne svettando ed atterrando alberi, opera di
lunghe fatiche, o spargendone a terra i frutti,
oggetto delle più care speranze dei poveri
agricoltori.Né meno pernicioso suole provarsi in
primavera quello di Est, designato dai nostri
agricoltori sotto la denominazione di livanti siccu
appunto perché tira sempre senza alcuno
accompagnamento di pioggia. Il soffio di esso attraversando il mare e deponendo sui vegetali l'esalazioni
saline di cui si carica, brucia non solo le biade e le
vigne vicine a fiorire, ma benanco le tenere vette dei
mandorli e degli olivi, compromettendone i frutti
attuali e le fruttificazioni avvenire.
La pioggia si verifica in inverno più facilmente sotto il
predominio dei venti di S., di S-E., e di N-E. Col
vento di libeccio non si hanno che qualche fuggitivo
acquazzone
o
leggerissime
interrotte
spruzzaglie.Dopo febbraio diviene assai rada, e se ne
ha quasi sempre penuria negli ultimi giorni di
primavera, circostanza che rende più intensa l'azione disseccativa del sole estivo. In estate e sino a
tardo autunno è cosa straordinaria che piova. Nembi
e tempeste non si hanno che di breve durata. È
fenomeno rarissimo che cada neve; e se qualche
volta se ne vedono sparsamente per l'aria discendere
dei fiocchi, questi, appena han toccato terra, si
liquefanno e spariscono. Anche molto rada vi è la
gragnuola.
La nebbia non vi ha dominio; essa fa vedersi
qualche rara volta nelle ore mattutine sul versante
delle colline ed anche sul piano, principalmente in
maggio, accompagnata dal vento di S-E., e da grosse
e rade gocce di pioggia (chiamate dal volgo zicchi di
maju) che macchiano le foglie di polvere rossastra; e
riesce allora di molto nocumento all'allegagione dei
mignoli dell'olivo e dei fiori della vite, i quali, per
l'umidità ch'essa vi lascia sopra e pei forti raggi
solari che bruscamente li colpiscono, cadono vizzi e
scottati senza punto attecchire.
Le brine avvengono qualche volta in febbraio e
nuocono alla fruttificazione del mandorlo: più di
frequente sullo scorcio di marzo ed ai primi giorni di
aprile, ed è allora la vigna che più ne soffre essendo sul
punto di germogliare.
L'aria, per l'immensa quantità degli alberi che ne
copre la superficie, generalmente vi è salubre, tranne
nelle vicinanze dei mentovati due fiumi. Nel
passaggio da una stagione all'altra si alternano
brusche e repentine le mutazioni termometriche, e la
salute degli abitanti ordinariamente ne soffre, e
qualche volta anche se ne risentono gli stessi vegetali.
note
1. Questa determinazione è stata rilevata dal Dizionario Corografico
del Regno di Sicilia compilato per cura del cav. Ferdinando de
Luca e di Raff. Mastriani, Milano 1852, voce Avola.
2. Secondo le Notizie economico-statistiche ricavate sui catasti
di Sicilia da Vincenzo Mortillaro (Palermo 1854), il territorio di
Avola sarebbe di ettari 6799,91 e quello di Noto di ettari 58487,43
3.La zappa d'acqua siciliana è una vena, che misura un diametro di O n,
1032 e che versa litri 1031,58 d'acqua al minuto primo
II.-POPOLAZIONE
Non può discorrersi della situazione agraria d'un
paese senza che si tenga conto della sua popolazione,
che è l'agente generale delle produzioni e delle
modificazioni e dei consumi loro. L'ultimo censimento
del 31 dicembre 1871, dava per Avola una
popolazione effettiva di 11912 distribuita in 2677
famiglie e distinta in 5725 maschi e 6187 femmine.
Questa popolazione quasi tutta, sebbene in modo
diverso e con differenti condizioni ed effetti, prende
parte all'agricoltura locale; e a tale riguardo può
considerarsi economicamente scompartita in più classi.
In prima linea metterò quelle famiglie, i cui
antenati avendo a tedio o a disonore la vita operosa
e godendo marcire in un'inerzia improduttiva
credettero trovare il loro tornaconto nel concedere
in enfiteusi ai laboriosi agricoltori i loro fondi
ereditari con gran peso di canone. Ma tali redditi,
per ordinario limitatissimi e di lor natura stazionari
ed incapaci di aumento, non sopperendo le più volte
ai crescenti bisogni delle famiglie, van tuttodì rappicciolendosi per continue alienazioni, e colui che li
possiede e che fondava in esse tutto il suo benessere,
termina quasi sempre col rendersi tributario della
classe industriosa, ch'egli follemente si figurava
d'essergli serva. Fortuna pel comune che questa classe
è di pochi!
Viene appresso la borghesia, ossiano quelli che
possiedono terre o in piena proprietà o a livello non
molto grave, perché costituito in tempi remoti,
amano amministrarle da loro medesimi con l'opera dei
braccialieri mercenari, dirigendone i lavori e
raccogliendone e conservandone i prodotti. Costoro,
in parte civili, in parte villici, costituiscono con varie
gradazioni le famiglie agiate, e sono posti quasi
segnacolo all'ambizione dell'infima classe, che tuttodì fa sforzi di pareggiarli con emulazione incredibile.
E questa infima classe è quella dei braccialieri
agricoltori, i quali avendo voluto pur essi partecipare
ai godimenti della proprietà e di un lavoro
indipendente,
non
l'hanno
potuto
che
sottomettendosi alle gravi ed usurarie condizioni
loro imposte dalla prima classe. E ciò non ostante
così ostinato è il loro travaglio, così profittevole il
buon uso che essi fanno del tempo, così grande
l'aiuto che sanno trarre dalla partecipazione che vi
fan prendere alla intera famiglia, che pur essi
corrono l'arringo con soddisfacente risultato, e con
le loro abitudini ad una vita frugale e con l'aggiunta
delle mercedi per l'opera che prestano altrui eglino
stessi e i loro figli', rendon sempre migliore il loro
stato e si avanzano. Se non che, queste ottime disposizioni economiche del nostro contadino sono
molto oscurate dalle sue qualità morali. Egli, oltre il
manomettere, come sopra si è detto, le produzioni
altrui, è diffidente, maliziosamente infingardo nel
prestare ad altri l'opera sua, e poco fedele
mantenitore dei patti e delle obbligazioni, finché la
forza legale non vel costringe.
Subordinate a queste tre classi e quasi come loro
appendici sono quelle degli artigianati, degli
esercenti professioni liberali, degli impiegati e del
clero stesso, giacché in qualunque di queste condizioni
alcuno si trovi, sempre fa sforzi di partecipare ai
piaceri della proprietà terriera, né giunge mai
comunemente a' costituirsi una mediocre agiatezza
di vivere e ad acquistarsi la simpatia delle famiglie
per le unioni coniugali, finché duri nel nudo esercizio
della professione o dell'impiego e non goda una
proprietà fondiaria: così precario ed insussistente qui
si ritiene ogni profitto che non venga dall'agricoltura.
Appena quindi dal numero dei possidenti terrieri
possono eccettuarsi i marinai, i facchini, i manovali .
. . che non son molti, e pochissimi contadini ed artigiani.
L'immediato
economico
effetto
di
questa
partecipazione di tutti al possesso delle terre, se non
è un godimento ed una soddisfazione, è una quiete
dolce e conveniente, è come dissi, una modesta
generale comodità di tutti i cittadini, ed è natural
conseguenza di questa generale comodità l'aumento
progressivo
della
popolazione,
cosicché
la
proporzione dei nati e dei morti di ciascun anno
rispetto alla popolazione dell'anno precedente va
sempre aumentando pei primi e decrescendo pei
secondi. E queste stesse proporzioni sarebbero
ancora maggiori senza quel soggiorno di molti nelle
terre malsane del territorio di Noto, che miete molte
vite precocemente, come più innanzi è stato
avvertito.
Altra natural conseguenza è l'energico sviluppo del
sentimento di famiglia. Per la piccolezza del
territorio il nostro contadino dorme di rado in
campagna, e si riduce dopo il lavoro ogni sera fra i
suoi a dividere colla moglie e coi figli il suo pasto
frugale. Ed anche se va a prestar l'opera nei vicini
territori di Noto e Siracusa, torna inmancabilmente
il sabato al focolare domestico. Non emigra mai a
cercar lavoro in paesi lontani, e peraltro non ne sente
mai il bisogno. I figli, appena raggiunta l'età maggiore,
cercano moglie, e la dote, che la donna più indispensabilmente dee loro recare, è una casetta o il
denaro per acquistarla, tanto è il prezzo che essi
mettono a questo indipendente e stabile ricovero
della nuova famigliuola.
Ed intanto questo sforzo di quasi tutto un popolo
rivolto ad un fine imprime alla proprietà fondiaria
un movimento così straordinario, che le terre balzano
dalle mani dell'uno in quelle dell'altro con tale
celerità da riuscire incredibile. E qualche vantaggio
ne ritraggono i possessori di canoni per la ripetuta
consecuzione di laudemii.
Alcuni preveggono che lo stato di modesta
comodità, risultante da questa posizione economica,
verrà fra non guari a decadere, visto che in alcune
famiglie si va insinuando il lusso, e che lo stesso
contadino non mostrasi stretto al risparmio come
per lo passato, e vuole vestire e cibarsi e fumare il
sigaro come i più agiati, e spende più che non può
nelle feste di famiglia per nascite e nozze. Quanto a
me sarei disposto a perdonare queste piccole
dissipazioni, se le condizioni economiche dei tempi
potessero favorirle; poiché l'uomo, portandosi al
travaglio per uno sforzo virtuoso, è trascinato da
una maniera quasi istintiva ad usare con
moderazione dei beni che gli acquista l'industria. Ed
esse peraltro non essendo generali, parrebbe al
postutto risultarne un momentaneo spostamento di
comodità, che vantaggerebbe i più economici a
scapito degli imprudenti, finché questi fattisi accorti
ripiglierebbero i loro vantaggi col tornare alle antiche
abitudini.
Non posso però non aggiungere, anche a costo di
passare per profeta di sciagure, che un male più
serio, una più forte perturbazione economica, la
quale assume di giorno in giorno sempre più grandi
proporzioni, viene già accelerando la rovina totale di
questa finora invidiabile mediocrità di fortune:
voglio dire delle molte imposte erariali, provinciali,
comunali, che in un paese agricolo, qualunque siano
le diverse categorie con cui vengono pagate, vanno
tutte a gravitare sulla ricchezza territoriale. E questa delle imposte è quistione veramente vitale e da
non tenersi a gabbo. Imperocché l'uomo non
travaglia che per soddisfare i suoi bisogni, ed è solo
per questo che mette attenzione ai più piccoli
guadagni. Ma quando la legge viene a spogliarlo di
ciò che è frutto dei più grandi sforzi ed è necessario
alla vita più frugale; quando non misura il di lui
obbligo di pagare i pubblici aggravi con le varie
epoche dell'anno in cui egli può raccogliere; quando
mantiene contro lui inalterata la tassa non ostante la
deficienza della produzione; quando il forza con
intrigati ed oscuri regolamenti a temer tutto dalla
sconfinata potenza burocratica: non è possibile che
egli non senta tutto il peso del suo lavoro; e un peso,
non unito alla speranza di migliorare la propria
condizione, diviene insopportabile e basta a
deprimere ed a ghiacciare qualunque entusiasmo al
lavoro. Forse finora si è potuto resistere con piccole
economie fatte all'aiuto di molte privazioni; ma si
potrà continuare a corrispondere più che l'industria
meglio operosa può annualmente produrre? Ecco
una cosa di cui mi permetto di dubitare. Nell'ultima
guerra punica, Cartagine seppe resistere all'esercito
assediatore finché le donne ebber monili per
cangiarli in armi, e capelli a farne corde per gli
arcieri; ma poi?. . . .
NOTE
I
I nostri contadini fanno alla mattina un primo pasto
(colazione), un altro a mezzogiorno, consumando in
ambidue pane bianco di grano con cipolle ed olive salate
per companatico ordinario. Alla sera mangiano una
minestra di fave o fagiuoli, di broccoli e qualche volta
di pasta o di riso. In tempo delle mèsse aggiungono una
quarta refezione a metà del pomeriggio, denominata
merenda. Bevono ordinariamente litro 1,3 di vino al
giorno, e nel tempo della mèsse anche più di 2 litri. La
loro mercede giornaliera (compreso il vino che
ritengono indispensabile) si aggira in media a L. 1,50
tranne nel tempo della mèsse e del raccolto delle olive,
che suole elevarsi quasi al doppio. - La mercede dei
ragazzi sino a 14 o 16 anni oscilla tra i 60 e i 90
centesimi. - Anche le donne vengono impiegate nella
raccolta dei frutti (mandorle, carrube, olive), nella vendemmia, nella spollonatura e insolforazione dei vigneti,
nella estirpazione dei lini e in altri lavori agricoli, e la
loro mercede ordinaria non oltrepassa la mezza lira
III. - AMMENDAMENTI ED INGRASSI
I terreni di Avola, non essendo né troppo sciolti
né troppo compatti, non han bisogno di essere
agglutinati o divisi con l'aggiunzione di terre nuove;
non deve dunque far meraviglia che il processo degli
ammendamenti vi sia disconosciuto del tutto. Quello
che loro più manca è la spessezza dello strato
arabile; e con un sottosuolo breccioso che resiste a
qualunque più potente lavoro, ed impedisce le
pastinazioni, non è economicamente possibile riparare a questo naturale difetto, a cui si deve
principalmente la causa intestina del pronto
risecchimento. In quella vece non si trascura, come
più innanzi ho notato, di mantenerli sciolti e porosi
con lavori continui per mettere in libertà e rendere
assimilabili gli alimenti minerali che vi si trovano
chimicamente combinati, per facilitare l'espansione
del capelluto radicolare e per ottenere che il sole vi
agisca con minore energia, i gas aerei vi abbiano più
libero accesso e l'interna umidità sia più lenta ad
evaporarsi.
Il sovescio, che potrebbe apprestare con la sua lenta
decomposizione un ingrasso eroico e durevole a
vantaggio d'una vegetazione che immediatamente gli
succedesse, qui pure non è praticabile, perché il
clima non comporta coltivazioni estive, e dopo la
fioritura primaverile la superficie campestre
mantiensi aridissima sin oltre ottobre. Tutto al più non
si lascia di sotterrare nelle vigne le piante
spontanee che vi crescono per entro nell'intervallo
dell'una all'altra zappatura.
Comunque poi si ricanti dagli scrittori di cose
agrarie aver dimostrato l'esperienza che la vite ama
un suolo sassoso e leggiero, i nostri contadini non
possono tollerare nei loro vigneti un sol sassolino, e
mettono ogni cura ed ogni studio a tenerli sgombri.
Imperocché da una parte non sono i nostri terreni
così tenaci da rendere essenziale la presenza delle
pietre per tenerli meccanicamente divisi; dall'altra,
quantunque le pietre siano un ausiliario a difendere
le radici contro l'ardore del sole e a conservare l'umidità nei posti che ricoprono, e quantunque col
detrito
successivo,
risultante
dalla
lenta
decomposizione operata dai lavori e dall'azione
incessante delle meteore, siano un buono
ammendamento: non lasciano tuttavia di logorare ed
ottundere gli strumenti di lavoro, e non è raro il
caso che schizzate dall'urto della zappa vadano ad
accecare le gemme sorgenti, o a mozzare i germogli
ancor teneri, o ad ammaccare i grappoli.
Degl'ingrassi si conosce l'importanza e se ne tiene
gran conto; ma non avendosi grandi stalle, ogni
piccolo agricoltore non può far tesoro che delle
dejezioni dei pochi suoi animali da basto (muli ed
asini), alle quali si adopera di unire le spazzature
delle case e delle vie, e ogni altro avanzo di materie
vegetali ed animali in stato di decomposizione più o
meno avanzata. Bisogna però confessare, che di
queste medesime così scarse materie non si sa trarre
tutto quel beneficio che si potrebbe. E pur vero
ch'esse non bastano per impegnare al mantenimento
d'una concimaia secondo i sistemi della buona
agricoltura; ma occorrerebbe per lo meno non
farne disperdere in qualche modo tutti i principi
volatili che ne sono la parte più preziosa. Il contadino
che non ha spazio sufficiente nella sua abitazione, è
forzato nel giorno del riposo a trasportare nel suo
campicello la quantità accumulata durante il corso
della settimana, e ordinariamente la sparge e la
sotterra così fresca, e se non ne vede pronti gli
effetti, li ottiene più durevoli, ed evita la
volatizzazione dei gas. I borgesi però, che ne hanno
relativamente maggior copia e li vogliono pel pronto
effetto adoperare ben scomposto, non fanno altro
che ammucchiarlo sopra terra, senza darsi pensiero
di sovrapporvi uno strato terroso, o per lo meno di
tenerlo riparato dal vento, dalla pioggia e dal sole.
Si aggiunge a questa imperdonabile incuria, che il
trasporto nei campi suolsi praticare in agosto
(tempo di vacanze d'altri lavori) distribuendolo a
piccoli mucchi conici su tutta la superficie da
letamarsi, per indi spargerlo e sotterrarlo con la
prima aratura all'arrivo delle piogge autunnali. E
siccome queste piogge sono qui tarde a venire, ne
consegue che quei piccoli cumuli, investiti in tutta la
superficie dalla cocente sferza del sole, non solo sono
depredati dalla maggior parte dei loro principi
gassiformi che dovrebbero combinarsi alla terra e
fornire alimento alla vegetazione, ma la stessa
materia organica, ch'essi contengono, perde molto
della sua influenza a rendere assimilabili le sostanze
minerali del suolo, e riducesi in gran parte a piccoli
pattumi così secchi e solidamente agglutinati da non
potersi rammollire e disgregare che dopo lunga ed
eccessiva umidità.
Tutte le fanghiglie e le reliquie e le immondizie, che
la stroscia delle piogge trascina per le strade campestri,
sono usufruite dal solerte contadino, e lungo i muri
fiancheggianti di tratto in tratto è stabilita a riceverle
una fossa interna, ciò che in termine di agricoltura
appellasi lupa, e in vernacolo del paese morta.
Non son d'uso gl'ingrassi liquidi, il pozzonero e il
polverino. Qualche saggio fatto col guano non diè
buoni risultati, e lasciò la terra come la trovava. Dei
concimi chimici non si è tentata alcuna prova, si
perché il vantaggio sperabile non ne valerebbe la
spesa, e si perché più che i principi minerali pare
che manchi nei nostri terreni un'umidità sufficiente
a servir loro di veicolo. Difatti nell'anno 1875, che
per un fenomeno eccezionale si sono a tutto aprile
continuate le piogge, le nostre biade si sono presen-
tate con vegetazione talmente rigogliosa da
contrastare il primato a quelle di altre contrade
tenute in fama di sommamente ubertose.
Generalmente i terreni ingrassati si destinano nel
primo anno a coltivarvi le ferrane, nell'anno seguente il
grano.
Nelle coltivazioni irrigue, specialmente per le piante
ortensi, la letamazione si ritiene indispensabile,
giacché le nostre acque di sorgiva assai poco aerate
non hanno in sospensione tali principi fertilizzanti da
sopperire alle perdite che la terra subisce delle
materie alimentarie apprestate alle piante che alleva.
IV. - SISTEMI D'AMMINISTRAZIONE RURALE
Dopo le cose esposte è facile indovinare, che dove
la proprietà terriera è così scompartita e la più
parte nelle mani di contadini, e dove ciascun
cittadino, a qualunque classe appartenga, si mostra
così allettato dai piaceri innocenti della natura e
dalla vita tranquilla dei campi, il sistema
dell'amministrazione diretta deve essere, com'è in
fatto, il più prevalente. Il contadino agricoltore,
oltreché non ha in vista che quel solo oggetto delle
sue occupazioni e vi rimane più curante d'ogni
altro, gode pure dei vantaggi di poter condurre le
faccende con minore spesa e con maggior vigilanza
pel maggior lavoro che ottiene dai suoi propri
animali, per la parte che vi fa prendere alla intera
famiglia, e per quelle piccole attenzioni giornaliere,
non impedite né dalla pioggia né dal sole, che al fine
dell'anno fruttano sempre qualche profitto. Anche i
facoltosi e gli agiati, per la ragione di non essere i
loro poderi molto estesi (sebbene non così angusti
come i primi) né perciò bisognevoli di troppo
complicate e indifese sollecitudini, né così distanti
dall'abitato da potere sfuggire ad una assidua
sopraveglianza, trovano loro pro a dirigerne essi
stessi i lavori con mani mercenarie, e più al caso di
migliorare il fondo coi loro capitali, né la loro attività
riesce gran fatto minore di quella del contadino.
Non è pertanto che siano qui trasandate tutte le
forme degli affitti ed in modo più o meno regolare.
Ricorrono ordinariamente a tale sistema quei pochi, che
disavvezzi dall'educazione o distratti da altre
occupazioni si ritengono insufficienti a disimpegnare
tutte le cure di una data cultura. In questo caso il
contratto più consueto per le terre seminative è quel
del terratico, mediante il quale si loca altrui una
determinata misura di terre (esclusi gli alberi) per
una determinata misura di frumento o d'orzo, da
corrispondersi al tempo della trebbiatura da aia a
magazzino, e che ordinariamente si raggira da 1 a 3
salme per ogni salma di terra, o da 1 a 3 tumoli per
ogni
tumolo,
essendo
le
due
misure
proporzionalmente eguali'. Se la semente si appronta
dal locatore, gli viene restituita con un quarto di più
all'epoca stessa del pagamento. E questo contratto è
quasi sempre per un solo anno. Qualche volta si
danno in affitto per una annua somma in denaro e
terre ed alberi per tempo non minore di due o di
quattro anni, in modo che il fittaiuolo, il quale
prende a suo carico le vicende ed i rischi della
coltura, possa conseguire dalle terre una o due
produzioni col sistema alterno (grano e riposo) e
partecipare una o due volte ai frutti alternati degli
alberi.
Alcuni anche spaventati dalla difficoltà di salvare
dalle ruberie i frutti degli alberi, li vendono in massa
e dietro stima a intraprenditori contadini che hanno
più mezzi ed attitudini a ben custodirli, e che si
obbligano consegnare in causa di prezzo una
convenuta quantità in peso del frutto raccolto, se si
tratta di carrube, o una stabilita misura di
mandorle o d'olio, se si tratta di mandorle e olive2 .
Questi contratti offrono l'inconveniente, che l'intraprenditore per liberarsi dal peso di una lunga custodia
af-fretta per ordinario le raccolte, e per far presto
non cura con tutta diligenza la manipolazione, e il
proprietario di buona o di mala voglia è spesso
costretto, per evitare le insolvibilità, ad accettarsi
frutti non bene maturi e generi di qualità scadente.
Non è raro però il caso che anche l'assuntore si
trovi ingannato nei suoi calcoli, e non solo non ne
riporti guadagno, ma v'abbia molto a supplire del
suo.
I contratti fin qui esposti vengono più o meno
modificati da condizioni accessorie che non ne
cangiano però la natura; ed io non reputo essermi
debito il soffermarmi a descriverle particolarmente
per solo lusso di vana erudizione.
Non bisogna intanto molta sagacità per avvertire,
che la colonia parziaria, come la vorrebbero gli
economisti, con stabile dimora della famiglia del
colono nel podere e con l'incarico a lui affidato di
governare le varie colture e di sostenere le minute e
indifese diligenze richieste dagli albereti, non può
essere qui conosciuta; e chiunque bene si addentri
nei fatti esposti è necessitato ad ammettere che non
sarebbe sistema piegabile alle circostanze di queste
contrade. Vi si oppone, salvo pochissime eccezioni,
la troppa limitazione dei fondi e delle colture di cui
sono suscettibili, incapaci ciascuno per sé d'offrir
lavoro ad una famiglia qualunque per l'intero corso
dell'anno. Vi si oppone l'aridità del suolo che non si
presta a colture intensive. Vi si oppone più di tutto
l'abitudine ad un lavoro indipendente, la mancanza
dell'inflessibile necessità e il costume poco onesto dei
nostri contadini che non mancherebbero d'ingegni,
per decimare a danno del proprietario ogni
produzione e più d'ogni altro i frutti degli alberi. E
di quest'ultimo inconveniente si ha un parlante esempio
nelle forme incomplete che qui si praticano di tali
contratti. Poiché sovente nelle concessioni a
terratico, di cui sopra si è parlato, il possessore dà il
fondo o il fondo e la semente, attribuendo una rata
parte del prodotto al coltivatore che s'incarica di
tutti i lavori necessari. E allora generalmente si è
veduto che questo coltivatore, oltre di mancare della
dovuta attività perché conosce che l'industria gli
porta una sola porzione del guadagno e che l'indolenza non può costargli che una porzione della
perdita, obbedisce agli stimoli di rivalersi rubando con
destrezza, e costringe il possessore a raddoppiare, e
spesso invano, la vigilanza, da cui si lusingava essersi
liberato. Commettono lo stesso errore e soggiacciono
alle stesse delusioni quei possessori che appaltando
ad altri il raccolto delle olive e la manipolazione
dell'olio per due terzi del prodotto ottenibile
risultante dalla fabbrica (ritenendosi comunemente
che il valore d'un terzo resti assorbito dalle spese)
stabiliscono di contribuire ad una rata parte di tali
spese e dividere il guadagno in proporzione con gli
assuntori. In questo caso non havvi accorgimento
che basti a non esser frodato, poiché bisognerebbe
una guardia fedele e circospetta in tutte le varie
frazioni delle campagne ove sono gli olivi; una per
le vie donde il frutto si trasporta; una nelle varie
conserve ove si ammucchia; una nel trappeto ove si
molisce e si torchia. Bisognerebbe insomma che il
proprietario avesse cento occhi; ed egli che voleva
sollevarsi dai lunghi tedii di questa manipolazione,
non si può trovare adatto a sobbarcarsi a tante
brighe, e non è raro il caso che nella sua ingenuità vi
perda l'opera della sua incompleta assistenza e non
giunga neppure a rivalersi delle spese erogate. due
altri casi, cioè per la coltura del lino e per quella
delle vigne alquanto invecchiate. Nel primo caso il
possessore del fondo concede al coltivatore
(incaricato di tutti i lavori e di tutte le spese insin
che il lino si maciulli e si scotoli) la metà dei
prodotti, prelevando ordinariamente la quantità
della semente che avesse apprestato egli stesso o in
intero o in metà; nel secondo (che dicesi contratto a
rinnovare) mettonsi ugualmente a carico del colono
tutte le spese di coltivazione e i lavori che sono
sempre sopra-vegliati e diretti dal proprietario, e il
prodotto poi si divide tra l'uno e l'altro, dopo
prelevata a vantaggio dell'ultimo una determinata
quantità di mosto che si pattuisce in ragione della
feracità del vigneto. Anche in questi due contratti
può facilmente insinuarsi la frode dalla parte del
colono poco onesto, e sempre quella condizione di
doversi dividere il frutto dei miglioramenti, senza
che il danno delle deteriorazioni ricada sempre
ugualmente su tutti e due i contraenti, è motivo che
dimezza in entrambi l'interesse a produrre i primi,
e non sempre ritiene il colono dal cagionare le
seconde.
Note
La salma locale antica per gli aridi corrisponde a ettol. 3, 43, 86 e dividesi in sedici
tumoli, ciascuno corrispondente a litri 21, 49. Essa pei frumento, orzo ed altri cereali
si usa a misure rase, e pei legumi e pei frutti secchi come mandorle, noci, linseme a
misure colme, il che porta un po' più di 1,8 di aumento sulla misura rasa.
La salma locale agraria antica (esprimente una superficie che può essere seminata
da una salma di frumento) corrisponde ad ettare 2, are 79 e centiare 08, 53, e
dividesi pure in sedici tumoli, ciascuno dei quali corrisponde ad are 17 e centiare 44, 28.
Nell'una e l'altra di queste misure, il tumolo si divide in 4 monnelli, il monnello in 4
coppi.
2
Il cantàro locale esprime un peso di rotoli 100 e corrisponde a chilogr. 79, 34. Il
rotolo equivale perciò a centesimi 79, 34 di chilogramma. Alle volte il cantàro è
costituito da rotoli 110, e dicesi alla grossa. Le carrube van consegnate con l'uno o
con l'altro di questi due pesi secondo i patti.
L'antica misura locale dell'olio è il cafiso alla sottile di rotoli 13, ed once 26 1,4, e alla
grossa di rotoli 14, ed once 26 1,4. Otto di essi formano un cantàro di rotoli 111 nel
primo caso, e di rotoli 119 nel secondo. L'olio dato in prezzo delle olive vendute va
consegnato col cafiso alla grossa.
V. - STRUMENTI ED ATTREZZI RURALI IN
USO
a) Strumenti aratorii.
In questo territorio, con suolo così poco profondo
e così inadatto alla coltivazione dei cereali, e per
giunta ingombro d'alberi e di pietre, cercare
strumenti perfezionati, quali ce l'offre la nuova
meccanica agraria, sarebbe cercare acque nel
deserto. E peraltro come potrebbero maneggiarsi
agevolmente negli spazi angusti e circoscritti delle
nostre possessioni? Importa ciò non ostante ch'io
enumeri e descriva quelli qui in uso, se non altro
perché si conosca il tecnicismo dei nostri vocaboli
agrari.
Di strumenti aratori non si ha che il solo
ARATRO (Aratu). È l'antico perticale tutto di legno
(ordinariamente d'elce, di quercia o di frassino)
tuttora usato in vari punti della Sicilia, e composto
delle seguenti parti:
1° Il Ceppo (puntali) piegato ad angolo ottusissimo,
forato in centro per connettervi la bure, e che nella
parte superiore ha la stiva (manina) e nella inferiore
il dentale (massilz), a cui s'inguaina uno stretto
vomere (massa) a punta acciaiata lanceolato - acuta.
2° La bure (pertica) lunga quasi metri 4, dritta o
quasi dritta, più o meno pesante, la cui base
restremata (cuda -di - rinnina) vien fissata nel foro
centrale del ceppo per mezzo d'una zeppa di legno
(cugnu - di - casa).
3° Il nervo (tinìggia), bastone curvo, grosso un pollice,
ordinariamente
d'ulivastro,
che
connette
obliquamente il ceppo alla bure. Esso nella estremità
inferiore, per cui si tien fisso ad un foro del dentale,
è munito d'una testa; la superiore, sporgendo lunga
sopra la bure mediante un altro foro, viene infilzata
da un pezzo di legno in forma romboidale allungata
(cavadduzzu), e sopra questo da un collaretto di ferro
(vùccula - d' - aratu); indi si spacca in due e stringesi
al collaretto per mezzo d'una bietta di legno (cugnu
cavaleri) che s'introduce e si calca nella spaccatura. Si
dà al dentale maggiore o minore inclinazione secondo il bisogno, facendo variare l'entrata del nervo
e fissando il collaretto più o meno alto.
4.° Il giogo (juvu) in legno duro alquanto curvo,
lungo metri 1,56, munito lateralmente alle due
estremità da un grosso anello di ferro ingangherato,
e portante nel centro un archetto di legno flessibile in
forma semiellittica (maniùni), che ha i due capi
impastoiati da una funicella a vari giri (liazza), e sta
appeso al giogo dalla parte curva con altra legaccia
di funicella (cunzèri). La bure si connette al giogo
introducendosi la sua estremità in questo archetto, e
tenendovisi fissa per mezzo d'un piuolo (tacciùla). il
quale può collocarsi alto o basso come più si vuole in
uno dei tre fori seriali obliqui della bure per rendere
il tiro (la tira) più o meno lungo.
5.° La ralla (auggiàta). Bastone lungo metri 1,50,
nella cui estremità più grossa sta inguainato un ferro
a paletta (varivùscia) per sgombrare la terra umida che
si attacchi al vomere; e nell'altra è un pungolo per
stimolare i bovi, o vi è legata una corta fune di
canape per sferzare i cavalli e muli, secondo che
l'aratro sia tratto da quelli o da questi.
Alla imperfezione di questo strumento aggiungesi
il modo assai più imperfetto della trazione. Questa fassi
ordinariamente per mezzo di muli o cavalli, che non
portano il giogo appoggiato al collo come altrove,
ma nel modo seguente. Copre il dosso degli animali
un basto (siddùni) connesso con varie legacce di
spago a due arcioni di legno incavigliati al di fuori.
L'anteriore di questi arcioni ha il dorso prolungato
in una appendice cilindrica (pupidda) ed è sull'una e
l'altra di queste prominenze che il giogo si appoggia
al dinanzi, tenendovisi infilzato mediante gli anelli
delle due estremità. Tuttoché un tale basto si
rattacchi al petto degli animali per mezzo d'una larga cinghia imbottita (pitturàli), ognun vede che il
moto di trazione agendo sulle appendici del basto a
mo di leva, e la resistenza che oppone il petto
reagendo
in
senso
obliquo,
va
perduta
necessariamente molta forza, e un senso penoso di
pressione deve comunicarsi dalla parte posteriore del
basto sulla schiena dell'animale, che serve come di
punto d'appoggio all'azione della leva. Quando
l'aratro si fa tirare dai bovi, il giogo è dritto e più
lungo, e si attacca al collo degli animali per mezzo di
cinghie intessute di cordicella di camérope (pàiuh).
b) Strumenti per dissodare, coltivare e piantare.
1.° Zappa. Quasi esclusivamente addetta ai lavori
delle vigne, è in ferro a lama sottile, leggermente
concava, di forma conico - mozza, e con le
dimensioni di centimetri 22 circa nella base, 25 nei
lati, 7 ad 8 nell'apice acciaiato e tagliente. Nella base
si apre un occhio quadrato alquanto piegato in
avanti, che per metà rientra nel corpo della lama e
per metà ne sporge fuori con grosso bordo. Il manico vi
si fissa in modo che formi con la lama un angolo
molto acuto; la qual maniera obbligando l'operaio
ad abbassarsi molto, il dispone ad imprimere più
forza al lavoro per vincere la tenacità della terra.
Alcuni scrittori fanno malviso all'uso ordinario di
questo strumento per quella posizione del corpo
troppo inclinata che ritengono scemarne la potenza,
né sanno poi tollerare, per un senso d'umanità, che
ne restino quasi pigiate le viscere del basso ventre, e
ne sia continuamente ricondotto il sangue alla testa,
oltre di deformare la vita anchilosando le vertebre; e
perciò consiglierebbero, che l'iclinazione del manico
sulla lama non fosse mai portata al di sotto di 80
gradi, perché così tutta l'azione si sosterrebbe dal
tronco, ove i muscoli sono più forti e meno soggetti a
lussazione. I nostri contadini all'incontro son
persuasi, che nella posizione consigliata essi non
potrebbero reggere ad un lungo lavoro, perché
stando col corpo alquanto ritto, tutto lo sforzo
sarebbe portato dalle braccia e andrebbe a reagire
fortemente sui lombi, né potrebbero col solo aiuto
delle braccia profondare la zappa d'un solo
centimetro nella terra un po' tenace, mentre nella
posizione inclinata premono sullo strumento con
tutto il corpo, e tagliando la terra obliquamente a
varie riprese, la pastinano e la capovolgono come più
vogliono, e il corpo stesso soffre meno, perché il
manico dello strumento gli offre sempre un punto
d'appoggio. Ogni timore poi di lussazione e di
anchilosi svanisce da sé, vedendo i nostri contadini
tutti ritti della persona e niente deformati.
2.° Zappa da giardino (zappitedda) simile alla
precedente per la forma, ma di più piccole
dimensioni e infilzata al manico sotto un angolo
meno acuto. Serve a sarchiare le ortaglie, ed ogni
pianta erbacea non molto fitta.
3.° Paletta (rasùla). Asticciuola di ferro laminata in
punta a guisa di largo scalpello, che gli operai
tengono appesa tra l'anche con un cordone ricinto ai
fianchi, e che serve a nettare la zappa dalla terra
umida che vi si attacchi.
4.° Zappone (zappuni). È in ferro a grossa lama di
forma lineare, larga centimetri 7 lunga 23, con occhio
quadrato ad una delle due estremità, grossamente
bordato e un po' piegato all'innanzi, a cui connettesi
un grosso manico lungo quasi un metro e formante
con la lama un angolo quasi retto: l'altra estremità
acciaiata e tagliente. Adoprasi a vari usi agrari nei
terreni molto sodi, e principalmente per scavare le
formelle per le propaggini delle viti o per gli alberetti
da trapiantarsi.
5.° Piccone a punta da un lato e tagliente dall'altro gesi).
Qualche volta adoperato per vincere la resistenza
delle brecce nell'aprire le formelle anzidette.
6.° Sarchiatore (zappudda). È in ferro della forma dello
zappone, ma a lama più sottile e più stretta. Serve a
sarchiare i grani seminati alla volata.
7.° Trivella (virrina). Palo cilindrico di ferro di più
di due centimetri di diametro e lungo 70, con punta
inac-- ciaiata all'un dei capi e conficcato con l'altro
ad un grosso manico di pesante legno a gruccia
assottigliato nelle due corna, alla cui entratura fa
ritegno e limite un bottone o risalto. Questo
strumento si adopera per la piantagione dei tralci
delle viti o dei piccoli alberetti. L'operaio afferrandolo con le due mani per le due corna del
manico apre leggermente il buco da farsi, poi
sollevandolo in alto e impugnandolo con la sola
destra al di sotto del bottone, lo lancia sul foro
cominciato con tanta aggiustatezza e con tanta forza
(coadiuvata peraltro dal peso del manico) che
ordinariamente in due colpi ne fa penetrare in terra
tutto il ferro, a menoché non vi si opponga una
breccia resistente.
8.° Trivellina (virrinedda di impalari). Della stessa
forma, ma di proporzioni minori della precedente.
Serve a fare i buchi pei pali di canna adoperati nelle
vigne.
9.° Rincalzatore (cufiddaturi). È una semplice
asticciuola di legno inserviente a calcare la terra, che
si va introducendo a varie riprese nel foro aperto
dalla trivella dopo avervi introdotto il tralcio o
l'alberetto.
c) Strumenti da taglio.
1.° Falce (fàuci). A ferro piatto lineare, largo
centimetri 2, lungo nella sua curvatura 65, di forma
parabolica con l'apice insensibilmente svolto in
avanti, il taglio argutamente dentato, e la base
raccomandata ad un corto manico di legno, quanto
basta ad essere impugnato dalla mano. Serve a
mietere il grano.
BN. I mietitori, a non essere offesi dai denti della
falce, tengon protette dal digitale e dai cannelli le
dita della mano sinistra con cui impugnano il
manipolo. Il digitale (jitali) è un astuccio di cuoio che
veste il pollice, i cannelli (canneddi) sono boccioli di
canna lasciati interi per quanto bastino a inanellare
la falange inferiore delle altre dita, poi tagliati e
semicilindro nel dippiù, in modo che possan coprire
esternamente le due falangi superiori e lasciare libero
il movimento.
2.° Falcetto o falce fienaia (fauciggiuni). Simile alla
precedente, ma un terzo più corta. Usasi per mietere
il fieno, le ferrane ed altro.
3.° Ronca per cespugli (menzaluna). A ferro piatto, semicircolare, di non molta spessezza, attenuantesi dalla
base all'apice, e tagliente nella parte interna, largo
inferiormente 4 centimetri, lungo nella sua
curvatura quasi 70, con guaina ad angolo retto
nella base, a cui va inserito un lungo manico. Serve
a tagliare (arruncari) roveti ed altre piante spinose
che non permettono un vicino accesso con più corti
strumenti.
4.° Ronca per rimanda (runca). A ferro grossamente
piatto, più o men largo, dritto, poi curvato e
attenuato all'apice in guisa di rostro, con piccola
guaina alla base, in cui s'inserisce dal di fuori un
cono di legno alquanto funghetto, che sporgendo con
la sua punta dal lato interno, serve di graffio per
appendersi alla cintura dell'operaio che ne fa uso per
tagliare rametti verdi.
5.° Pennato (rinciggiu). A lama larga, sottile ed
affilatissima
curvata
in
avanti,
inserita
obliquamente sopra una corta impugnatura di
legno, e terminante in lunga coda, per cui mezzo
possa infilzarsi alla cintola del potatore. Serve alla
potatura delle vigne, a tagliare i pali di canna per le
stesse, e ad altri usi.
6.° Scure e accetta (cugnàta e cugnatedda). Se ne
adoprano di tutte le forme e grandezze per la
rimonda e la potagione degli alberi.
7.° Uncino (croccu). È un raffio di ferro, che attaccato
all'estremità d'una lunga canna o d'un'asticciuola di
legno serve a disbruscare le cime degli alberi, a cui
non può giungere la mano del rimondatore.
8.° Coltello da innesto (cuteddu pri’nzitari). A lama
larga, alquanto convessa nel taglio, con l'apice mozzo
a sbieco e un po' curvato all'indietro.
9.° Sega a mano (serra). L'ordinaria sega a lama
dentata all'insù, maneggiabile da un uomo solo.
Serve nella potazione a troncar qualche ramo.
\10.° Segone (sirruni). Lunga e grossa lama dentata
senza telaio, con due corti manichetti orizzontali di
legno ai due capi, rattenuti da una ripiegatura del
ferro stesso. Serve a mozzare i grossi tronchi caduti a
terra.
11.° Saracco (sirràculu). Sega libera all'un dei capi, con
la base fermata ad un corto manico di legno, e coi
denti allicciati all'ingiù, per impedire che brandisse e
s'incurvasse nell'adoprarla. Di questo strumento si fa
uso per mozzare
i soggetti da innestarsi.
d) Strumenti ed arnesi per trebbiare.
Pel frumento, l'orzo, l'avena, le fave, i ceci si ritiene
il vecchio uso di farli pestare da due o tre muli
menati in giro da un uomo che sta nel mezzo
dell'aia armato d'un scudiscio (sfurriàta) formato da
una semplice fune legata alla punta d'un corto
bastone. Le paglie si mandano al vento per mezzo di
forche di legno a tre rebbii (tradenti). Per separare i
grani dalle loppe, dai gusci e dai grossi fustelli si
adoperano i ventilabri (pali), il grande vaglio (criveddu)
fatto
di
grossi
minugi
radamente
incrocicchiati, e la granata (ariviggia) formata di
rami secchi e cedevoli di Asparagus albus attaccati a
un lungo manico di canna.
Pel canape e lino l'estrazione del seme è
semplicissima. Il primo se ne spoglia facilmente
scotendo le teste dei manipoli contro una pietra. Del
secondo se ne battono le teste dalle donne con mazze
di legno. L'uno e l'altro seme si netta spolverandolo
al vento col vaglio ventilatore (giuggèra), di forma
circolare a sponde divaricate intessute di cordoni di
sala (arcia), e col fondo cancellato da culmi di
Ampelodesmo (vusa) vicinissimi e paralleli, fra cui
passano facilmente le minute mondiglie.
e) Strumenti ed arnesi estrattivi
I frattoi d'olio si compongono:
1.° Dal frantoio (trappìtu) risultante dalle seguenti parti:
a) Màcina verticale (mola suprana, o curritùri) con
quasi centimetri 50 di spessezza e metri 1,30 di
diametro, formata di lava o di calcario grossiere
assai duro di cui abbonda il nostro litorale, e che
gira strisciando sopra la seguente:
b)
Màcina orizzontale (mola suttàna) della stessa
materia e delle stesse dimensioni della precedente, la
quale sta posata sopra un rialzo circolare di fabbrica
con fascia all'intorno di lastre coniche di pietra dura
(busùna), alquanto inclinate per non fare scappare le
olive;
c) Asse di legno (fùsu) collocato verticalmente nel
centro della macina orizzontale, e che col piede
restremato a cilindro fasciato di ferro posa sopra una
bronzina (òsciula), ov'è girevole, mentre col capo
pure restremato e cilindrico passa per la gola
d'un'assicella che lo ferma ad una trave collocata per
traverso;
Grossa maniglia di legno curvata a gomito
(minciarru), la quale passando con la sua parte dritta
pel foro centrale della macina verticale (già rivestito
d'un cilindro di legno, cui pur si dà nome di
(òsciula) si rattacca esternamente con una
chiavarda all'asse, mentre con l'altra estremità
curva serve a far girare la macina stessa mediante la
forza di un mulo o cavallo bendato.
d)
Pala di ferro per rivoltare la pasta delle olive sotto
il frantoio.
2.° Dal torchio in legno (consu) composto dalle
seguenti parti:
a) Panca inferiore (cianca suttàna). Grosso toppo quadrato di quercia o di pioppo, lungo metri 3,10,
grosso centimetri 45 a un dipresso, piantato a terra
orizzontalmente, ed avente due fori quadrati verso le
due estremità;
b) Due grosse viti di legno duro (di quercia, noce,
fraggiràcolo . . . ) inserite col loro piede nei due fori
e)
della panca anzidetta, e incavigliate a terra sotto di
essa e tenutevi fisse da due grosse chiavarde di ferro
(davi) che l'attraversano.
c) Panca mobile (cianca suprana) degli stessi legni e
della stessa forma della precedente, che attraversa le
due viti con fori paralleli a quelli di sotto;
d) Due grosse chiocciole a tre punte (scufini) di
legno duro e resistente, per ordinario di quercia, che
girano sulle spire delle due viti;
e) Scaletta di legno (scala) a tre grossi e larghi piuoli,
due piantati presso le due estremità dalla parte di
sotto, ed uno centrale scanalato dalla parte di sopra; la
quale appoggiando pei piuoli delle due estremità al
piano superiore di ciascuna chiocciola, col girare di
queste serve a sollevare la panca mobile che vi sta
appesa per mezzo d'un grosso canapo (palòma)
passante per la scanalatura del piuolo centrale, ed
avvinchiato coi due capi a due grossi chiodi
(minciozv), i quali sporgono ai due lati della panca
medesima;
J) Scodella (scutedda). Specie di piatta-forma
circolare o ellittica ad orli rialzati di legno o di
pietra, che serve a collocarvi le gabbie, e a farne
colar l'olio nel sottoposto tinello;
g) Copertoio (baiardu) quadrato o disco di legno, che
serve a coprire le gabbie e a ricevere la pressione
della panca mobile;
h) Manovella (stanga). Lunga asta di legno sodo, il cui
capo appoggiato or all'una or all'altra vite si rattacca
alternatamente per mezzo d'un anello di grosso
canapo (palò-ma) alle punte di ciascuna chiocciola, e
l'altro tirato orizzontalmente dalla forza di tre operai
stringe le chiocciole contro la panca mobile, ed
obbliga questa a premere sempre più le sottoposte
gabbie;
Gabbie (coffi) intrecciate di giunco, e 16 in
numero. k) Tini e tinelli di varie grandezze ed altri
piccoli attrezzi.
N.B. Il torchio sopra descritto serve pure senza
alcuna differenza per la pressione delle uve dopo
i)
essere state schiacciate coi piedi nel palmento, che
ordinariamente è in muratura.
J) Strumenti ed arnesi per trasporto.
1.° Carrette. Usansi quelle leggiere a due ruote
ordinariamente adoprate nei trasporti commerciali,
ed impiegarsi a trasportare fieno, derrate ed altri
ricolti dai soli campi, cui si può accedere per vie
carreggiabili.
2.° Còfani (cruveddi). Quelli che si usano per la
raccolta delle uve e di altri frutti, come per lo
trasporto delle uve stesse al palmento e per altri usi
agrari, sono della capacità di 15 litri a un dipresso,
di forma leggermente conica a fondo piatto, intessuti
di striscie di canna e di vimini d'agnocasto; quelli
per lo trasprto dell'uva sugli animali sono il doppio
più grandi e di forma quasi cilindrica a fondo piatto
(cruveddi di càrricu) ma intessuti allo stesso modo,
sebbene con striscie di canna e verghe più grosse.
Per raccogliere le olive si usano piccolissime.
3.° Còfani per concime (cruveddi sciunnati). Sono due
larghe ceste in forma cilindrica ed a fondo mobile
intessute di vimini, le quali si sospendono in
posizione verticale ai due fianchi d'un cavallo o di
un mulo. Il fondo, che è a strette sponde, vi si
incappella per di sotto standovi legato dalla parte
del basto per mezzo d'un'ansa e di una fune,
mentre da quella esteriore viene raccomandato con
altra ansa ad una funicella, che legata con cappio ad
un cavicchio di legno impiantato nell'orlo superiore,
e sciogliendosi a volontà, lascia cadere a terra
senz'altro incomodo il concime, di cui quelle son
colme. Questo arnese è quasi caduto d'uso,
sostituendoglisi i cofani di carico sopradescritti, oppur
le carrette.
4.° Cancelli (ianceddz). È un ordegno, che si compone
di due quadrati di règoli di legno incavigliati, tagliati
a sbieco nelle due estremità inferiori e ingangherati
l'un contro l'altro dalla parte più corta del taglio,
cosicché possono aprirsi a libro sotto un angolo
quasi retto, facendosi reciprocamente ostacolo i due
piani obliqui del taglio stesso. Quest'ordegno,
sospendendosi appaiato ai due fianchi d'un cavallo
o d'un mulo, serve a mettervi dentro covoni di fieno,
di grano o d'altro senz'altro bisogno che d'una
leggiera legatura con funicelle a cappio (savuletti)
attaccate all'ordegno stesso, e rende più pronti ed
agevoli i trasporti.
5.° Bisacce (visazzi). Sono come due grandi sacchi di
canevaccio riuniti lateralmente, che si mettono in
coppia attraverso il basto d'una cavalcatura per
trasportare grani, legumi, frutti secchi ed altro. In
centro dei due sacchi è una maglia di spago
(prisaggia), a cui sta attaccata una funicella a due
capi (saccòsima) che serve a legame le bocche.
Quando il trasporto si opera per mezzo di carrette, si
fa uso di semplici sacchi di grossa tela.
6.° Retone (rittíni). Grossa rete di funi di canape,
conformata a foggia d'un gran sacco, e di cui si fa
uso per trasportare la paglia.
7.° Cavagnuolo (vuzzeddu). Grossa rete di funicelle di camerope a guisa di canestro, che si mette alla bocca
degli animali, per impedire che mangino quando
trasportano i covoni del grano.
VI. - ROTAZIONE E LAVORI PREPARATORI
Ove le condizioni del suolo e del clima, come più innanzi abbiamo avvertito, sono così avverse al
prosperamento della vegetazione erbacea da escludere
qualunque vegetazione estiva e da rendere anche
incerto il successo di quelle invernali, non può mai
aspettarsi un buon sistema di avvicendamenti nella
condotta dei poderi che il solo stimolo del bisogno
induce a coltivare, e quasi sempre col dubbio che
l'impresa rimanga oziosa e tradisca gli sforzi.
Certamente non havvi alcuno dei nostri agricoltori il
quale ignori, se non in teoria almeno per esperienza
e per pratica, che le raccolte generalmente vengono
male sopra sé stesse, mentre un campo spossato e
divenuto sterile per una specie particolare può
tornar fecondo per una seconda e per una terza
specie che esiga diversi elementi di nutrizione, o si
avvalga dei medesimi principi della prima, ma in
proporzioni assai più tenui. Ciò non ostante qual
partito può egli trarre dall'acquistata conoscenza,
quando non è libero nella scelta e son poche le specie
che gli offrano speranza di mediocre riuscita?
Frumento, orzo, avena, fave, ceci, lino, ecco tutto il
repertorio delle specie economiche qui tollerate dal
clima. Ma queste medesime può il nostro coltivatore
adoprarle tutte utilmente e alternarle a suo modo?
Egli sa che i cereali, piante eminentemente spossanti,
riescono bene dopo una pianta leguminosa, a segno
d'indicare col nome di conca una cultura di
quest'ultima famiglia; ed avrebbe per questo a sua
disposizione la fava ed il cece. Ma la fava, per la
natura calcare dei nostri terreni, gli perisce in erba
precocemente sopraffatta dal parassitismo del
succiamele (Orobanche pruinosa La Peyr., in sic.
Lupa); ed il cece, esigendo una cultura primaverile,
non sempre riesce a compiere il ciclo vegetativo per
la normale deficienza di piogge tardive, oltre di essere
le più volte malmenato e intristito dalla rabbia. Nell'orzo
e nell'avena non si hanno che due graminacee come
il frumento, e quantunque si credano meno spossanti
e
qualche
volta
si
facciano
succedere
immediatamente al frumento, non pare che ciò si
faccia con buon consiglio, perché nutrendosi dei
medesimi elementi, sebbene in minor dose, non
fanno che esaurire il suolo dei pochi principi che il
frumento vi aveva risparmiati, e renderlo per
conseguenza maggiormente disadatto a tollerare il
ritorno del grano. E l'avena inoltre, se fatta in
grande proporzione, non troverebbe facile spaccio
nel nostro mercato. Resterebbe il lino; ma questa
specie ama un terreno alquanto pingue, che poi
abbandona fortemente spossato, sì per la natura
oleosa dei suoi semi, come perché non lascia nel suolo
alcun residuo, neppure le radici. E poi son tanti
gl'incomodi e così considerevoli le spese richieste
dalla manipolazione del suo prodotto, che
impoveriscono l'agricoltore, non che gli lascino
qualche lucro. E quando si può conoscere in
anticipazione, che una coltura non concorre allo scopo
economico che si ha in vista, o lasci tutto al più un
magro beneficio, cessa il coraggio di ripeterla.
Per tutte queste ragioni, ed anche per la maggior
convenienza della piccola coltura non può adottarsi
nelle rotazioni un sistema costante ed uguale da tutti,
ma bisogna lasciar seguire quella che ciascuno
reputa più adatta alle condizioni del suo terreno, più
opportuna all'andamento delle stagioni, più
favorevole al proprio interesse, quantunque poi le
più volte si trovi deluso nei suoi calcoli. E non è raro
che, malgrado delle frequenti disillusioni, faccia
seguire alla raccolta del cereale una coltura sarchiata
o di ceci, o d'orzo, o di fave, o di orzo e fave
avvicendati nelle linee; l'unica precauzione che può
adoperar per le fave è quella di servirsi della
varietà a semi neri che ci viene dalla vicina Malta e
che essendo a fioritura più precoce delle varietà
indigene, elude in qualche modo l'aggressione
dell'orobanche assai più tarda a svilupparsi. Non è
raro anche il caso che il coltivatore si determini a
coltivare dopo il pascolo il grano sarchiato, o a
mettere due colture sarchiate (cioè di legumi e poi di
grano) l'una dopo l'altra, non tanto perché se ne
prometta molto maggior beneficio, ma perché,
quando il campo suol essere invaso da molte erbacce,
fa calcolo che gli torni meno costosa la sarchiatura che
non il nettamento dalle cattive erbe da farsi a mano.
Tutte queste però non sono che eccezioni:
l'espediente generale a cui più d'ordinario fa
mestieri di sottoporsi, è di seguire il sistema di
rotazione
più
imperfetto,
avvicendando
la
coltivazione dei cereali al prato naturale temporaneo
o alla semplice pastura. E bisogna pur confessare
ch'è giocoforza attenersi a quest'unico metodo più
per ottenere un buon pascolo che per tornaconto
sperabile dalla riproduzione del cereale; giacché è
un fatto che la coltura dei cereali è la più
dispendiosa e qui dà poco reddito o non paga le
spese, mentre i pascoli si affittano a prezzi
vantaggiosi e non possono sempre ottenersi senza
una coltivazione intermedia che dia tempo al terreno di
rifornirsi di nuovi semi di piante avventizie. E il
terreno intanto rimasto per un solo anno a pastura
non ne riviene più adatto alla immediata
ricoltivazione dei cereali; poiché senza lavori che ne
smuovano e ne disuniscano le parti, e senza che il
libero accesso degli agenti atmosferici le penetri per
ogni verso, gli elementi rimasti in stato di
combinazione chimica non possono in sì breve
intervallo decomporsi e addivenire solubili ed idonei
alla nutrizione del vegetabile depauperante che vi si
torna a mettere. È però a considerarsi, per ridurre
la cosa al suo giusto valore, che nei lavori per le
anzidette coltivazioni, in cui molta è la spesa e poco
il profitto, si ha sempre la mira indiretta di favorire
il prosperamento degli alberi, dei quali non è campo
che si trovi sfornito, e che costituiscono la vera
ricchezza del paese, come fu esposto nei capitoli
precedenti.
Né dalle medesime sopraccennate circostanze e
climateriche e telluriche si presentano minori e più
superabili ostacoli alla esecuzione dei lavori
preparatori per le stesse coltivazioni autunnali
solamente possibili. Anche questi non possono esser
fatti nei tempi più opportuni e con tutti gli
accorgimenti suggeriti dall'arte agraria. Difatti, una
prima aratura anticipata, che squarciando gli strati
interni della terra vi facilitasse l'accesso alle rugiade
notturne ed ai principi fertilizzanti atmosferici per
tutto il corso dei lunghi mesi estivi, non può sempre
venire praticata, perché sino al 15 maggio si continua
l'uso affittato del pascolo, e nella seconda metà di quel
mese i calori sono ordinariamente così cresciuti e
noiosi, che gli animali attaccati all'aratro (per lo più
muli) non reggono al lavoro, oltreché il terreno per
la mancanza delle tarde piogge primaverili trovasi
così indurito da non potersene vincere laresistenza. È
quindi giocoforza ripetere i lavori a brevi intervalli
nell'autunno più o meno avanzato: lavori tanto
maggiormente affrettati quanto sono più tarde a
venire le prime piogge, e che all'infuori di dare al
suolo un imperfetto disgregamento, non lo
migliorano né lo arricchiscono di nuovi elementi.
Aggiungasi che questi medesimi lavori, così per la
pochissima spessezza dello strato arabile, come per
l'uso dell'aratro impiegato, ancorché anticipati in
tempo più utile, non potrebbero farsi alquanto
profondi senza portare alla superficie le materie
inerti del sottosuolo, le quali, come fu notato più
innanzi, non essendo ancora modificate dall'azione
delle meteore, accrescerebbero la sterilità invece di
ammendarla. Manca dunque quel gran beneficio di
poter evocare e sostituire alla già spossata una terra
meno esausta. Ricorrere in ogni caso alle
concimazioni non si può né si dee, ché le più volte
non ne varrebbe la spesa, né potrebbe anche
praticarsi con immediato profitto per le biade soggette
a versare.
Tali lavori si riducono, come d'uso comune, ad arare
il suolo compatto in una direzione (ciaccàri), riararlo
una seconda volta a traverso incrociando i primi
solchi (rifùnni- r i), e finalmente una terza in senso
opposto della seconda per seminare: interposto fra
l'una e l'altra un intervallo più o meno lungo.
Quando la prima siasi fatta in maggio, ed anche
quando i lavori affrettati d'autunno non siano riusciti
ad espellere nel loro germogliamento l'invasione
dell'erbe spontanee, suole interporsi un'altra aratura
tra la seconda e la terza, ciò che dicesi nel linguaggio
vernacolo ritrizari, voce corrotta da rinterzare.
Un aratro può arare in un giorno are 52 di
superficie, se tirato da muli, e sole are 43, se vi
siano aggiogati i buoi. I secondi però danno un lavoro
più perfetto.
VII. - CULTURE SPECIALI
a) Piante Erbacee.
1.° – CEREALI. Non abbiamo propriamente da
registrare sotto questa categoria, che il solo
frumento. Quanto all'orzo, sebbene il signor
Parmentier, tutte le volte che non gli si faccia subire
la fermentazione panacea, lo abbia giudicato più
nutritivo del frumento e lo abbia raccomandato per
la tavola del povero, non se ne fa qui alcun uso per
alimento dell'uomo; e credo perciò più a proposito
che se ne parli nella categoria dei foraggi.
Quantunque poi non serva dir tante volte la stessa
cosa, non posso astenermi dal ripetere che, se tutti
convengono la coltivazione dei cereali, e in
particolare del frumento, essere più onerosa che
produttiva, ognuno può considerare quanto debba
essere grave per queste contrade, ove il prodotto
non avanza le tre o le quattro sementi, e spesso le
pareggia o vi sottostà. Ma poiché essa forma la base
del nutrimento dell'uomo, e per le già contratte
abitudini non può essere sostituita da altri alimenti
neppure dal contadino, non deve far meraviglia che
il bisogno renda accettabile quel debole beneficio.
Intanto per le nozioni mandate innanzi credendomi
francato dal dimorarmi a descrivere per minuto
cosiffatta cultura, che non ha né può aver qui alcuna cosa di singolare, mi basti venirla trattando
per sommi capi e solo per far conoscere le pratiche
qui adottate e la locale tecnologia.
Del FRUMENTO (Triticum vulgare hibernum L.= SIC.
Frumentii) la varietà più comunemente coltivata è
quella a grano semitenero, volgarmente denominata
russìa o ruscìaperché si è conosciuto, prendendo a guida
l'esperienza, ch'essa prova meglio nei nostri terreni,
sebbene sia più d'ogn'altra soggetta alla golpe
(nìuru). Nei pochi campi di qualche pinguedine, e
dove si teme l'allettamento, si semina qualche varietà
a gran duro, come la Giustalisa, il Realforte, il così
detto Gigante . . . .: alle contrade più sterili è
riserbata la Maiorca, ch'è il Triticum siligineum spica
rufa mutica, varietà tenera essa pure del Triticum
vulgarel . Non di rado in qualche appezzamento, che
non si ebbe il tempo e l'opportunità di ben preparare
in autunno, si arrischia il grano marzuolo (Triticum
vulgare aestivum. L.= SIC. Timunìa); e dico
avvertitamente si arrischia; poiché spesso cessando
assai per tempo le acque primaverili, non arriva a
metter le spiche
La semente, salvo poche eccezioni, non si prepara
con alcun liscivio, ché sarebbe un impaccio alla
tenuità delle aziende; però si ha quasi sempre
l'accorgimento di non usar quella prodotta sul
luogo, ma di richiamarla ben condizionata d'altrove e
a preferenza dalle vicine montagne.
Anche qui, come dovunque, la quantità della
semente in rapporto alla estensione della superficie
non è precisa-bile in modo assoluto per la differenza
che sempre esiste tra una terra cattiva che ne
ricerca più ed una mediocre che n'esige meno.
Ordinariamente se ne mette una salma per ogni
salma di terreno, ciò che corrisponde ad ettolitri 1,
22, 21 per ogni ettare,
La seminagione ha luogo da novembre a dicembre
(pel grano marzuolo in febbraio) e si fa alla volata od
in linee (pel grano marzuolo sempre alla volata).
Nella semina alla volata (a ringu) dopo tracciate sul
campo con l'aratro delle aiuole (proci) più o men
larghe, il seminatore, portando sospesa ad armacollo
una cesta (coffa) intessuta di foglie di camerope e piena
di grano, procede a passi misurati lungo una sponda
dell'aiuola lanciando dinanzi a sé col pugno della
destra semiaperto la semente in semicerchio obliquo
ed in modo che la maggior parte vada a versarsi
sulla metà opposta dell'aiuola. Torna poi dall'altra
sponda e completa l'operazione per l'altra metà.
L'arte sta nel mantenere il passo sempre uguale e
continuo, prendendo a ciascuna posa del piede
sinistro un pugno di semi dalla cesta, e lanciandolo a
ciascuna posa del piede destro, e bisogna pur dire
che i nostri contadini sono in ciò assai sperimentati,
perché la distribuzione dei semi riesca regolarissima.
Non essendo in uso né l'erpice né il rullo, la semente
si sotterra con l'aratro che a quest'uso si adopera
più leggiero né offre pericolo di approfondarla
molto. Si supplisce poi al pareggiamento della terra
per mezzo d'un operaio (cunzaturi di terra) che
seguendo l'aratro con uno zappone ne va stritolando
le zolle (tifuna) rimaste alquanto grosse (cioè che
dicesi stimpuniarz), scava la terra sfuggita al vomere
accanto alle ceppaie degli alberi e lungo i muri di
cinta, e appiana in certo modo il dorso dei solchi
mantenutosi alquanto sporgente.— Nella seminagione
in linea si hanno due maniere, quella in riga continua
(a frìscina) e quella riga interrotta (a maccia). L'una
e l'altra si eseguiscono per mezzo d'un uomo adulto
od anche d'un garzone, che seguendo l'aratro va
gettando con la mano i grani nel solco; se non che
nella prima maniera i grani sono versati a striscia
continua, nella seconda interrottamente e a spizzico.
Attesa la poca larghezza del nostro vomere e perché
si lasci un conveniente spazio ai successivi lavori, i
solchi si alternano seminandone uno e lasciando
vuoto l'altro.
Si danno per ordinario due sarchiature, una volta
con gli strumenti ed a mano quando le pianticelle
abbiano messo quattro a cinque foglie, e la terra
non sia molto umida, un'altra solamente a mano. La
prima, nelle coltivazioni alla volata, si eseguisce col
sarchio (zappudda, donde l'operazione viene detta
zappuliari) che, sebbene non ismuova e non accosti
convenientemente la terra a rinforzare le pianticelle,
pure non lascia di romperne la crosta e di scavarla
negl'interstizi ed è l'unico mezzo di liberare il
terreno dalle piante infeste più grossolane,
specialmente dalle carduacee2, estirpandosi a mano le
altre più delicate, soprattutto le graminacee che si
trovino più vicine e anche intricate al vegetale
coltivato.
Questa
prima
sarchiatura
nelle
coltivazioni in linea si dà con la zappa, e se ne ottiene
per conseguenza un migliore rincalzamento e un
accestimento maggiore, ed anche qui l'erbacce più
vicine alle piante domestiche vengono svelte a
mano. La seconda sarchiatura tanto nell'una
quanto nell'altra coltivazione serve a rinettarle a
mano da tutte l'erbe avventizie che vi siano pullulate
o cresciute dopo la prima. Questo, dissi, è ciò che si
pratica d'ordinario ed in generale da chi servesi
dell'opera altrui e conta la spesa; ma in eccezione a
questa regola il contadino che ha in proprio il suo
campicello e nulla spende, profitta di tutti i momenti
disponibili per rifrugarlo in tutti i sensi e non
lasciarvi un sol filo d'erba che porti impaccio alla
produzione.
Si miete nella prima metà di giugno o in quel torno,
quando i nodi superiori del culmo tirano al bruno e
la base non offre alcuna traccia di verde, con la falce
superioremente descritta e che ottenne d'essere
premiata con medaglia d'argento nel Congresso
regionale agrario tenutosi lo scorso anno in Palermo.
La messe lasciata dal mietitore in manipoli Oèmmita)
tre
volte
annodati
alla
base
mediante
l'attorcigliamento di un fascetto di culmi (vàusu)
si riunisce in covoni (regni) che si legano con piccoli
fascetti di foglie di ampelodesmo annodati a due
per le punte (licímz). Venti covoni costituiscono un
mazzo, cinquanta mazzi un migliaio. I covoni si
trasportano
(si
carrìanu)
e
si
abbicano
(si'ntimùgnanu) all'aria aperta in vari locali a ciò
designati e custoditi da una guardia a spese comuni.
La trebbiatura (pisatìna) si esegue poco stante e
lungo il mese di luglio per mezzo di muli sopra aie
sterrate, come fu detto nell'articolo V. La paglia
estratta per mezzo del vento si fa cadere e si regola
in modo da formare in un margine dell'aia opposto
alla parte donde tira il vento un grosso banco in
sezione di cerchio più o meno incurvata (marivunz).
Il locale, donde si è levata la bica (timugna), dicesi
timugnali, e si netta da tutte le spiche che vi siano
rimaste.
2.° GRAMINACEE DA FORAGGIO E DA
PROFENDA.Orzo (Hordeum Vulgare. = Oriu). Si coltiva questa
sola specie, e viene esclusivamente addetta alla
nutrizione degli animali domestici, o in erba come
foraggio verde, o secca nella doppia condizione di
paglia e di semi. È meno esigente del frumento e si
mette anche nei terreni più infelici. Quando si
destina a foraggio verde, si semina alle prime acque
d'autunno dopo una semplice aratura preparatoria,
in modo che possa mietersi in gennaio; se mirasi ad
averne la produzione completa, la seminagione vien
fatta alquanto più tarda di quella del frumento, e
matura ciò non ostante e mietesi in precedenza. La
sua coltivazione non differisce da quella del
frumento e vi si adoprano gli stessi metodi e le stesse
cure. Il reddito che se ne ricava è alquanto maggiore
in quantità di quello del frumento, ma sempre
mediocre.
Oltre l'orzo e al medesimo doppio scopo di averne i
semi ed un foraggio verde per gli animali domestici,
si è introdotta da poco tempo e in estensione assai
limitata la coltivazione dell'avena (Avena sativa. =
SIC. Aìna) seminandola alla volata o precocemente
in autunno o tardi in gennaio, secondo che si destina
all'uno o all'altro dei due fini. È stata principalmente
accettata per la sua attitudine a prosperare nei siti
ombrosi e a mantenersi verde e tenera sino a tarda
primavera. Quando è mietuta per foraggio verde
assai per tempo, si ottiene dal guaìme una discreta
quantità di semi. Non esige cure particolari dopo la
semina. È più produttiva dell'orzo. Si miete e si
trebbia come il frumento. La paglia non è molto
appetita dagli animali, e se ne fa poco uso.
Fu tentata la coltivazione del Bromus Schraderi per
le qualità illusorie ad esso attribuite e cotanto
magnificate di provar bene nei luoghi secchi.
Seminato nei primi giorni di aprile e provvidamente
soccorso da una benefica pioggia tardiva germogliò
bene e crebbe rapidamente da far credere avverati i
suoi vanti; ma appena la terra si rasciugò e il sole di
maggio fe' sentire i suoi calori, la vegetazione
arrestossi di un tratto. Si volle sperimentare a seminarlo in autunno ed anche in linea per poterlo
meglio difendere dalla invasione dell'erbe spontanee;
ma le sue foglie seminali, in fili esilissimi da potere
appena essere distinti dall'occhio, furono così lente a
vegetare che restarono subitamente schiacciate dalla
foga irrompente delle altre graminacee indigene, e
autorizzarono a conchiudere non esser pianta né
adatta né utile pei nostri climi. Fu però notato che i
muli e gli asini, lasciati a pascolare ov'erasi fatto il
primo saggio, non erano tanto ghiotti di mangiarne i
culmi, quanto le radici, frugando col muso la terra
per trarnele e cibarsene.
3.° CIVAIE. - Fava (Faba vulgaris. DEC.). Fu detto
nell'articolo precedente quali sono gli ostacoli che
questa coltura incontra, e quale la varietà preferita
per iscongiurarli in certo modo, sebbene con esito
non sempre felice. Si semina a riga interrotta con lo
stesso metodo che si usa pel grano, mettendo a 20
centimetri di distanza un seme dall'altro e
alternando i solchi pieni coi solchi vuoti. I baccelli si
raccolgono e si vendono allo stato verde. Grande
utilità potrebbe ricavarsi dal soversciare le piante
ancor verdi dopo raccolti i frutti: ma ciò non si fa, e
neppure si lasciano nel suolo i fusti secchi, che in
gran parte vanno svelti ed asportati per
combustibile di forno. Alle volte dai contadini,
quando si accorgono che la fruttificazione prometta
poco per lo sviluppo precoce dell'Orobanche, non si
netta la coltura dalle ultime piante avventizie, e appena
racimolati i pochi legumi abboniti si miete il tutto
per fieno. Non di rado si associa a questa coltura
l'orzo affinché i lavori non restino affatto senza
compenso.
Cece. (Cicer arietinum. UN. = SIC. Ciciru). Si semina
in marzo ed anche sul finire di febbraio a spaglio od
in riga continua dopo preparato il terreno con le
solite arature. Sovente si mette nei terreni stessi
donde si è mietuta di recente la ferrana d'orzo o
d'avena, i quali si ha l'accorgimento di predisporre
con buone arature nettandoli da ogni avanzo di
radici che la precedente coltivazione vi abbia lasciato
e che riesce difficile di soversciare senza che
ripullulino. Si sarchia una sola volta per rinforzare
le pianticelle e per nettarle dal rosolaccio (Papaver
rhoeas. UN. = SIC. Paparina) che è la pianta
concomitante del cece, in qualunque terreno esso
cresca. Svellesi in maggio, e da prima si lascia a
seccare in manipoli a piena aria, poi si fascia in
covoni che lasciansi distesi sul terreno senza mai
abbicarsi, perché i semi fermentando alla minima
umidità si anneriscono e si guastano. Si trebbia coi
muli nell'aia come il frumento.
Fagiuolo (Phaseolus vulgaris. = SIC. Fasola). Non
avendosi in queste contrade quei terreni sciolti e
freschi in cui prospera questa pianta, se ne trova
limitata la coltivazione in pochi siti irrigabili e
specialmente negli orti presso la foce del Cassibili.
Non si coltivano le rampicanti, ma le sole varietà
nane. Si seminano a fossette in due riprese, l'una in
marzo e l'altra in corso dell'està. Si sarchiano appena han messo le prime due foglie e s'innaffiano
ogni otto giorni finché abbiano cominciato a mettere
i fiori. I legumi si raccolgono in giugno ed agosto
pria che siano del tutto seccati, e i semi sgusciati a
mano si rasciugano al sole. Alcuni legumi allo stato
tenerissimo (fàsuledda) si vendono in verde per
insalata.
Pisello (Pirum sativum. LIN. = SIC. Fasella). È coltivato
da qualche amatore per mangiarne i semi verdi in
famiglia o a minestra o per condimento: si vende di
rado nelle botteghe dei trecconi. È infestato più che le
fave dall'Orobanche pruinosa. LAPEYR.
4.° PIANTE INDUSTRIALI. — Lino (Linum
usitatissimum. LIN. = SIC. Linu). I terreni
sostanziosi che naturalmente potrebbero convenire a
questa specie di coltura, essendo assai pochi in
questo territorio e bisognando adattarveli col mezzo
dispendioso della concimazione, ed inoltre la
carenza della mano d'opera per la gramolatura e la
scotolatura
non
lasciando
che
pochissimo
tornaconto, ne è seguito ch'essa coltura trovasi
praticata in assai ristrette proporzioni e per semplice
economico uso di qualche particolare famiglia.
Oltreché, come parmi aver cennato più innanzi, la
sua proprietà dimagrante (conosciuta dalla remota
antichità) non più la rende adatta ad un paese ove si
ha poco da sacrificare ad una coltivazione che
danneggia più che non vantaggi. Noteremo ciò non
ostante il metodo con cui qui si esegue.
Il terreno preparasi al solito con le due arature,
l'una trasversale all'altra, come pei cereali. La
seminagione si fa su lo scorcio d'ottobre o al
cominciar di novembre (non essendo qui conosciuta
che la sola varietà autunnale o invernenga)
spargendo il seme ben fitto alla volata, salma una e
mezzo per ogni salma di terra, che corrisponde ad
ettol. 1, 83, 31 per ogni ettara. In tutto il ciclo della
vegetazione non richiede altri lavori che quello
d'essere nettato a mano dalle cattive erbe e
specialmente dalla Sinapis dissecta. LIN (SIC.
Finacciòlu di linu), ch'esercita su questa specie una
sorta di falso parassitismo. Ove l'invada la Cuscuta
epilinum. REICHC. (SIC. Suprasàtira) è vana
qualunque cura: da ciò il bisogno di vegliar
grandemente alla buona scelta della semente.
La raccolta fassi nello scorcio di aprile o nei primi
giorni di maggio, quando il grano è già formato nelle
càssule e i fusti divenuti giallicci cominciano a
inaridire: il che se nuoce alcun poco alla perfezione
dei semi, giova moltissimo alla bontà della materia
fibrosa. Esso svellesi a mano per opera di donne e si
lega in manipoli (manni), i quali sono così grandi
quanto possono abbracciarsi nella parte superiore al
di sotto delle pannocchie (punto ove si fa la legatura
con funicella di ampelodesmo) dall'indice e dal
pollice delle due mani riunite in cerchio. Venticinque
di questi manipoli costituiscono una rota. Per farli
asciugare si lasciano vari giorni sul campo rizzati
l'uno accanto all'altro in caselle circolari di mezza
rota ciascuna, o a dir meglio una di 12 ed una di
13.Quando sono bene rasciutti, si accatastano in
biche circolari a cono rovesciato od a cupola,
disponendoveli con arte orizzontalmente ed a raggio
in modo che le pannocchie siano situate nel centro e
le radici alla circonferenza, e facendo poi su la
massa una covertura di fascine e paglia: mezzo
immaginato ma non sempre efficace per guarentire i
semi dalle piogge, che sono peraltro un fenomeno
straordinario in estate. Dopo la messe dei cereali si
scatastano, e tenutili alquanto al sole, divenuto allora
più cocente, se ne battono le teste sopra un ceppo o
una pietra con mazze di legno (si mazzianu) per
farne uscire i semi, che poi si nettano col ventilabro
e spolverandoli al vento. E questo è pur lavoro delle
donne che, come quello dello svellimento, si paga a
rota. Indi si affastellano in covoni e si conservano o
dentro case, o sotto tettoie, o si lasciano, sebbene rare
volte e solo da chi non ha comodi, ad aria aperta.
Finalmente a mezzo agosto (termine fissato dai
regolamenti sanitari) si portano al maceratoio, ove
si tengono da sette ad otto giorni e finché il
parenchima si rompa con facilità e la materia
fibrosa se ne stacchi perfettamente: quale momento,
per incuria dei sopraveglianti, spesso si oltrepassa
con perdita di tutto. Terminata la macerazione, si
estraggono e, fattili ben rasciugare al sole
disponendoli ritti sul terreno con le basi slargate, si
trasportano per maciullarsi e scotolarsi.
La macerazione che prima eseguivasi nella foce del
Cassibili, ora per misure sanitarie è solo consentita
nelle bonache del fiume Atellaro, in territorio di
Noto a quasi dieci chilometri di distanza da questo
Comune, con l'ordinario metodo della immersione in
acqua stagnante; ed è questo un altro dispendio e un
altro impaccio che si trova aggiunto ai non pochi
ordinari di questa industria.
La gràmola o maciulla (mànganu), di cui qui si fa
uso, è uno strumento in legno duro che costa di due
parti, l'una inferiore (sultana) consistente in una
grossa asse della lunghezza a un dipresso di metri
1,30 e larga quasi centimetri 35, avente nel mezzo
uno spigolo longitudinale con due vallicelle laterali
sfondate; l'altra superiore (soprana) risultante da un
grosso
fusto
semicilindrico
della
lunghezza
approssimativa d'un metro, con la superficie interna
risaltata da due spigoli triangolari che con la
vallicella intermedia vanno a combaciare nelle
vallicelle e nello spigolo della inferiore. Questa
soprana è incavigliata per la base a cerniera verso il
terzo inferiore della sottana, e si apre e chiude sopra
di essa per mezzo d'un manubrio cilindrico (manuzza)
sporgente dall'orlo esterno della sua sommità.
Situato questo strumento in posizione leggermente
inclinata con la base a terra e la testa appoggiata ad
un masso, l'operaio divide il lino in piccoli manipoli e
tenendoli con la sinistra ora per un capo ora per
l'altro li fa passare ad uno ad uno ed a più riprese
tra gli spigoli, alzando ed abbassando con la destra il
pezzo soprano e battendo forte sopra di essi; e così
ne frantuma e ne scaccia in gran parte la materia
legnosa, I manipoli vanno legati insieme a dieci a
dieci e costituiscano una rècuma; poi si riuniscono in
fasci (fascia) di dieci rècume per ognuno.
Lo strumento per scotolare (spàtulu) risulta d'una
semplice assicella sottile di legno duro e ben levigato,
alquanto più alta d'un metro e dipresso a 20
centimetri di larghezza rettangolare e attenuata
all'apice, che si pianta verticalmente tenedola ferma
con l'appoggio di grosse pietre. Ridotto nuovamente
in piccioli manipoli il lino già maciullato, l'operaio
prendendoli l'un dopo l'altro con la sinistra ora per
una estremità ora per l'altra li posa sporgenti da un lato
sull'apice dell'assicella, mentre con una scotola di
legno (spàtula), di cui tiene armata la destra e che ha
la forma d'una grossa daga, vi batte sopra
lateralmente e così li viene spogliando da tutte le
lische. Il lino così trattato si pesa e si riduce in
fastelli, ciascuno di cinque rotoli (una Pisa) eguali a
chilogrammi 3, 96, 76. Le manipolazioni ulteriori
escono dal dominio dell'agricoltura e rientrano in
quello della tecnologia.
Canape. (Cannabis sativa. = SIC. Cànnavu). Si ha
difetto di questa coltivazione più che di quella del
lino, perché i terreni freschi e sostanziosi, quali ad
essa si convengono, sono in questo territorio
pochissimi, ed è giovato destinarli ad altre colture
più rimuneratrici e più tegnenti. Essa dunque appena
vien praticata in qualche ristrettissimo sito sulla riva
dell'Asinaro e in un mediocre appezzamento presso
la foce del Cassibili naturalmente fecondato dalle
escrescenze di quel fiume.
Il terreno si prepara con ripetute arature, finché si
renda soffice e sciolto e quasi polveroso. La semina si
eseguisce in marzo con lo stesso metodo e con la
stessa proporzione di semenza che fassi pel lino;
solamente, perché i semi aderiscano meglio alla terra
e questa resti meglio appianata, vi si fa passar sopra
un'asse pesante trascinata da due buoi aggiogati, che
fa l'ufficio di rullo. Non intervengono sino al raccolto
altri lavori, poiché la canapa con le sue larghe foglie
copre ed affoga tutte le erbe avventizie. La stessa
Phaelipanche ramosa. POMEL, pianta parassitica
solita ad invadere i canapai, non è qui di grande
nocumento.
Non si svelle, ma si miete con la stessa falce
adoperata pel frumento appena i semi delle piante
femmine si vedon giunti a maturità e la maggior parte
delle foglie è caduta.'
Ogni fastello che il mietitore può abbracciare con
una mano vien legato con alcune fila dello stesso
canape e costituisce una manna. Le manne si lasciano
stese sul terreno a filari continui, volgarmente
camèri, ove stanno per 2-3 giorni secondo il bisogno;
poi si rivoltano, e quando siano ben disseccate, si
trasportano all'aia (ariùni), e battendole forte sopra
un legno se ne fanno cadere i semi, che si nettano
spolverandoli al vento. Eseguito ciò, le manne si
riunisci:in° e si legano a 10 a 10 con cordicella di
ampelodesmo, e ciascuno di questi falcetti prende
nome di rècuma, voce probabilmente alterata da
decina o decuplo. Dieci rècume, ossia 100 manne
costituiscon una sàrcina. Si portano così disposti al
maceratoio, come fassi pel lino, ed ivi l'unione di due
sàrcine si designa con l'appellazione di màddia. La
macerazione ha luogo come pel lino. Estratte dal
maceratoio dopo una permanenza da 7 a 9 giorni, le
sàrcine si risciacquano e si slegano, e le manne si
pongono ritte appoggiate tra loro a guisa di
padiglione, perché ne sgoccioli la molta acqua; poi
distendonsi a terra per bene asciugarsi, e ottenuto il
perfetto riseccamento, si trasportano per le ulteriori
operazioni della maciullazione e della scotolatura.
La maciullazione si esegue del modo stesso e col
medesimo ordigno adoperati pel lino. Lo strumento
per la scotolatura è pure un'assicella verticale come
quella del lino; se non che questa è alquanto più
lunghetta ed ha una lamina di ferro in uno dei bordi
laterali, e le manne invece di battersi con la spatola,
si sbattono da prima contro le due facce della
spatola, poi si soffregano reiteratamente e con forza
su la lamina di ferro tenendosi afferrate dall'operaio
alle due estremità con l'una e l'altra mano. Spogliata
così dalle lische, la canapa si riduce in gruppi (mannii-
na) e si pesa e si lega in fastelli uguali, come abbiamo
detto pel lino.
Cotone. (Gossypium siamense. TEN. = SIC. Cuttuni).
Gl'incitamenti venuti dal Governo durante la crisi
dei cotoni americani, per la guerra di secessione che
colà si combatteva, fecero tentare anche qui la
coltivazione di questa specie, ch'era la più acclimata
da più anni in Sicilia; ma i risultati, com'era da
aspettarsi, riuscirono infelici, e non si andò più oltre.
Sèsamo. (Sesamum indicum. LIN.
=
SIC.
Giuggiulena). È coltivazione qui antica e fattasi pel
passato in maggiori proporzioni, ma oggi ridotta a
non potersene calcolare il prodotto annuo a più di
12 ettolitri, una metà del quale si esporta per
Catania e Messina, e l'altra si consuma localmente
per farsene cotto col miele il così detto torrone di
giurgiolena o cubàita, leggiera alterazione della parola
maltese combaitta. Vuole terra ricca e ben preparata,
che si dispone a' magolato con le aiuole alquanto
larghe ad orli rialzati e separate da canaletti
d'irrigazione. Si semina alla volata sul finir di aprile
un po' rado, perché cestisce molto: il seme si cuopre
con la zappa. S'inaffia per inondazione ogni otto
giorni, e si sarchia e si netta diligentemente da tutti i
vegetali avventizi. Quando la pianta appassisce e le
càssule sono ingiallite (ciò che succede sullo scorcio di
giugno o ai primi giorni di luglio) si miete, e i fusti
si pongono ritti e appoggiati tra loro a seccare al
sole. Scorgendosi poi che le càssule per l'arefazione
han già cominciato a schiudersi, si prende a manipoli
e se ne scuotono i semi sopra un lenzuolo. Indi si
rimette nella stessa posizione di prima, e si aspetta
che il sole continui a riseccarlo per rinnovare lo
scotimento ad altre due riprese. – Ove questa coltura
è stata una volta, non può più ripetersi per una lunga
serie d'anni, essendo estremamente depauperante: i
nostri agricoltori sogliono dire, ch'essa brucia il
terreno.
Riscolo o Soda. (Salsola soda. LIN. = SIC. Scerba). È
una coltura qui pochissimo praticata. Seminata per
ordinario in primavera vive stentatamente e poco
cestisce pei sopravegnenti calori. Non le si spendono
peraltro molte cure. Si brucia coi soliti processi
frammischiandovi qualche volta la salsola tragus
(scirbuni) che cresce spontanea nel littorale. Il suo
prodotto in cenere, che non giunge mai ad oltrepassare 80 quintali metrici, vien tutto consumato
localmente dalle particolari famiglie per la
fabbricazione del sapone.
5.° PIANTE A RADICE CARNOSA. - Non
contiamo in
questa classe che la patata, la carota e i ravanelli:
tutte colture assai grame e di poco tornaconto.
Patata o pomo di terra. (Solanum tuberosum. =
SIC. Patata) Se ne è introdotta la coltivazione da
pochi anni per semplice saggio, e i risultati finora
ottenuti non incoraggiano ad estenderla vieppiù:
ostacolo principale il non potersi conservare a lungo
la freschezza del terreno che le è tanto
indispensabile. Si piantano i tuberi nel mese di
febbraio con la zappa in fila a fossette
convenientemente spaziate, dopo preparato il
terreno con buone arature. Le pianticelle si
sarchiano e si nettano con cura. Quando la
primavera non scarseggia di piogge tardive, se ne
ottiene un prodotto non ispregevole; ma tali piogge si
fanno sempre desiderare. Il dissotterramento e la
raccolta dei tuberi si eseguisce con la zappa.
Carota. (Daucus carota. LIN. = SIC. Vastunaca). Non
è per uso di foraggio che qui si coltiva, ma come
pianta che molto piace mangiata cruda ai fanciulli e
alle donne; e quindi appena ottiene un cantuccio negli
orti, ove si trovi della terra alquanto profonda e non
molto compatta. Si semina ordinariamente in
autunno, e si svelle e si consuma da dicembre a
febbraio. Si ha la varietà gialla e la pavonazza, tutte
e due a radice lunga; quelle a radice rotonda non si
sono introdotte.
Rafano o ravanelli. (Raphanus sativus.
var. oblongus.
Raricia; var. rotundus. SIC. Rapa). Si coltivano di
ambedue le forme la sottovarietà bianca e la rosea, e
non havvi contadino che, al cadere delle prime
piogge, non ne semini in un angolo della propria
vigna in occasione che le dà la prima zappatura di
scalzo; e in quel terreno mobilizzato e sciolto dai
continui lavori acquistano una tenerezza e un grato
sapore che non altrove. Non mancano pure negli
orti, ove spesso pel terreno tenuto fresco dalle
irrigazioni si prolungano sino all'estate; ma allora le
radici divengono dure, spugnose e di un sapore assai
mordente. È generale l'uso di trapiantare isolatamente
in un canto discosto quegl'individui che si destinano
alla riproduzione del seme, e ciò per evitare
gl'ibridismi.
Recentemente un proprietario di questo comune,
che aveva dell'acqua disponibile, volle tentare un
saggio di coltivazione del Brassica napus pei tanti
elogi che aveva letto nei Giornali Agrari del buon
alimento che tale specie appresta al bestiame e
specialmente alle vacche. Ne richiamò i semi da
Firenze e ne ottenne piante rigogliose che fecero bei
cesti. Però non ci fu verso di farne mangiare alle
vacche, le quali appena fiutatili si allontanavano.
6.° PIANTE FORTI. - Non abbiamo da registrare
sotto questa categoria che l'aglio, la cipolla e il porro,
tutt'altre specie essendo qui sconosciute.
Aglio. (Allium sativum. LIN. = SIC. Aggia). Si coltiva la
sola varietà che ha gli spicchi non molto grossi e le
tuniche esterne del bulbo rossicce. Si pianta in
autunno alle prime piogge non solo dagli ortolani,
ma pure per uso domestico da chiunque è
possessore di un orticello o di un angolo di terra da
poterne disporre, mediante il metodo semplicissimo
di aprire con la zappa dei solchi in cui si van gettando
gli spicchi alla distanza di 10 a 15 centimetri l'uno
dall'altro, che si ricuoprono con la terra del solco
successivo. Le pianticelle si tengono sempre nettate
dall'erbe avventizie, sarchiandole più volte. Si
svellono i bulbi con lo zappone in maggio, dopo
averne ripiegati al suolo col piede i falsi fusti,
dacché col loro ingiallimento fanno mostra di
avvicinarsi alla maturazione. Poi si annodano in
treccie e si lasciano in luogo arieggiato per asciugarsi. Gli ortolani li vendono anche legati in
mazzetti. –Questa specie non si è veduta mai fiorire;
solamente entro a qualcuno dei falsi fusti si trova un
corto scapo sormontato da pochi bulbilli e che non
si prolunga mai in fuori.
Cipolla. (Allium coepa. LIN = SIC. Cipudda). Non si
ha che la varietà a bulbo schiacciato orbicolare di
color bianco con le tuniche esterne rossicce, né
questa stessa si coltiva in grande per deficienza di
terreni sabbiosi, grassi ed umidicci che le sono più
adatti. Si semina sul finire d'autunno a ridosso di
qualche muro, e si traspianta in gennaio; e in giugno
i bulbi han già acquistato una certa grossezza, e non
si aspetta a consumarli che essi abbiano raggiunto il
loro completo sviluppo. Le cipolle mature a bulbo
più o meno ingrossato, di cui i nostri contadini son
ghiotti e fan provvista generale e copiosa, e che
servono eziandio agli usi culinari per buona parte
dell'inverno,
ci
vengono
abbondantemente
somministrate dal territorio di Noto sul finir
dell'agosto. I nostri orti non ci dànno in inverno che
i rimessiticci dei vecchi bulbi.
Porro. (Allium porrum. LIN = SIC Porru). Ha
bisogno assoluto della irrigazione essendo coltura in
gran parte estiva. Gli orti ne abbondano, perché è
un agrume assai ricercato per condimento così nella
tavola del ricco come in quella del povero.
7.° FRUTTI DI TERRA. - Ecco tutto ciò che la
località mi offre da mettere in mostra in questo
articolo: angurie, melloni, citruoli, zucche, carciofi,
petronciane, peperoni, pomidoro, fragole.
Anguria. (Citrullus vulgaris. SCRAD. = SIC. Miluni
d'acqua). Se ne hanno molte varietà, tra le quali
quella più antica a scorza d'un verde cupo
leggermente costolata, polpa rossa e semi neri; poi
quella a scorza d'un verde allegro con fa-scie verticali
bianco-screziate e polpa rossa (miluni zaiariddaru);
quella a polpa bianca e semi neri con intacchi lineari bianchi (miluni d'acqua d'invernu); quello a
polpa rossa e semi minuti livido-giallastri (miluni
muscateddu) ecc. Si coltivano negli orti irrigui, e
ordinariamente anche a secco in quasi tutti i
novelleti, e in quest'ultima stazione riescono
veramente d'un sapore più squisito e sopperiscono al
tornaconto che il vigneto non può dare nei primi
due anni della sua infanzia. Peraltro la sua
coltivazione non esige molte cure. Si aprono negli
interfilari della vigna delle fossette in cui alla terra
si frammischia un po' di letame bene scomposto, e in
aprile si mettono a dimora in ciascuna fossetta tre
semi. Le piantoline che ne vengono, non han bisogno
di coltivazione speciale: i lavori periodici che si
dispensano al vigneto, giovano indirettamente anche
ad esse e fanno che la terra di continuo mobilizzata,
ritardando di molto la dispersione capillare dell'umidità
interna, mantenga la necessaria freschezza alle loro
radici che si prolungano molto giù. Quando la
primavera non corre del tutto asciutta, la buona
riuscita di questa specie non può mancare, e fa
piacere vederla sfidare il sole più ardente senza dar
segni di appassimento. I frutti si raccolgono da luglio
a settembre.
Mellone o popone. (Cucumis melo. LIN. = SIC. Miluni
di fedda). Si trovan coltivate tanto la varietà
primaticcia (reticulatus) a frutto costolato, rotondo o
bislungo, con scorza gialla rugoso-reticolata e polpa
gialla, quanto l'altra tardiva (maltenis SIG. Miluni
d'invernu) a frutto ovoide o bislungo con scorza
tenue unita e quasi liscia, gialla o verde-pallida, e
polpa bianca, flava, gialla o verdiccia: d'ambedue le
quali sono molte le sottovarietà. La coltivazione va
pure eseguita come la precedente per irrigazione ed
a secco nelle vigne novelle, sebbene in quest'ultima
stazione si trovi assai ristretta dacché l'esperienza
ebbe fatto sospettare che la sua vicinanza
indebolisce e riarde le viti. Nel metodo culturale non
in altro differisce dalla prenotata che nella pratica
di mozzare di quando in quando le cime delle nuove
ramificazioni, specialmente dove comincia a
mostrarsi un frutto. I frutti della prima varietà, che
si raccolgono dalle coltivazioni a secco, sono sempre
più gustosi di quelli ottenuti dalle irrigue: della
seconda varietà, qualunque sia il modo con cui si
coltivi, riescono per ordinario sciapiti quelli a scorza
gialla, saporosissimi all'incontro quelli a scorza verde
di talune sottovarietà. I frutti tutti di quest'ultima
divisione colti alquanto immaturi si conservano per
tutto l'inverno maturando lentamente e per gradi.
Cetriuolo. (Cucumis sativus. = SIC. Citrolu). Non è
men docile alla coltura che l'anguria e il mellone, ma gli
è indispensabile una irrigazione abbondante, senza la
quale dà frutti amarissimi. Non può quindi aver
posto che negli orti inaffiati, i quali ne hanno gran
pro' con lo spaccio dei frutti teneri che sono
avidamente cercati da tutte le classi. Si semina in
posto nel mese di aprile, e il raccolto dura da giugno
a settembre.
Si è pure introdotto da qualche anno il cocomero lungo
(Cucumis flexuosus. L.), ma riesce troppo insipido a
mangiarsi, e non ha potuto attecchire nell'uso.
Zucche (Cucurbita. = Cucina). Sono di quattro
specie le qui coltivate per uso economico. Vien prima
per estensione di consumo la Cucuzzella (Cucurbita
pepo, var.
oblonga. = SIC. Cucuzza lattara) che ha i frutti
bianchi, cilindraceo-bislunghi con angoli appena
prominenti, e che essendo più precoce, di polpa
tenera e pingue, è molto gradita universalmente. Si
ha pure la zucca lunga (Lagenaria vulgaris, var. clavata.
SERINGE = SIC. Cucina longa) a frutto bianco
terete-allungato, spesso claviforme, che si ritiene più
gentile della precedente, ma che perde presta-mente
la sua tenerezza divenendo nell'interno spugnosa.
Vien terza la zucca di Spagna (Cucurbita moschata, D
UCHESNE = Cucuzza spagnola) i cui frutti a scorza
legnosa di enorme grossezza si conservano dai
contadini sopra i tetti delle case per cuocerli a
minestra nel verno, accompagnata talora con le fave.
E finalmente la zucca di Val di Chiana (Cucurbita
maxima, DUCHESNE SIC. Cucuzza baffa) a grossi
frutti globoso-depressi, costolati, bianco-verdicci,
che serve agli stessi usi della precedente, ma è meno
ricercata. Tutte e quattro amano le irrigazioni o
almeno un terreno fresco e umidiccio, e non sono
molto schizzinose per la coltivazione. Le cime dei
rami della zucca lunga si mangiano cotti in insalata.
Carciofo e Cardo (Cynara scolymus, = SIC.
Cacòrciulu niuru; e Cynara Cardunculus, LIN. = SIC.
Cacòrciulu jancu). Queste due specie son qui destinate
ugualmente all'uso di mangiarne cotti o crudi nello
stato tenero i ricettacoli degli antodi e le basi delle
squamme. I gobbi, a cui altrove vien destinata quasi
esclusivamente la seconda specie, qui si ottengono
indistintamente dall'una e dall'altra e soltanto per
uso familiare di qualche dilettante, non portandosi
mai nel mercato. Del Cynara scolymus si hanno due
varietà, l'una ad antodi violetti e squamme
appressate, l'altra ad antodi d'un verde chiarissimo
e squamme alquanto patenti, ambedue inermi: le
testeferrate sono una rarità. Del Cynara cardunculus
esistono pure due varietà, una a foglie perfettamente
simili a quelle del Cynara scolymus ed antodi verdibianchicci inermi ed a squamme ricurve, che si
mantengono teneri per lungo tratto di tempo, l'altra
a foglie più minutamente sbrandellate ed antodi con
squamme più ricurvate e alquanto spinescenti, di
mediocre grossezza, ma numerosissimi, sino a 70 in
un solo fusto. Sono generalmente coltivate a secco;
quindi manchiamo di quella varietà primaticcia
promossa con buon esito in Palermo mercè l'aiuto
delle irrigazioni. Il metodo della coltivazione è
semplicissimo. Disposto il terreno in scacchiera, come
si pratica per le vigne, alla equidistanza d'un metro
un posto dall'altro, vi si piantano col piuolo in
ottobre o novembre i nuovi getti dei vecchi carciofi,
scegliendoli un po' grossetti e sotterrandoli non più
oltre del collo della radice, acciocché la terra troppo
umida non li faccia marcire. Quando mostrino
d'essere bene attecchiti, cominciarsi a rincalzare, e
si lavora e si tien pulito dalle cattive erbe il terreno
che si ha cura di concimare a più riprese. I lavori si
ripetono per tre volte. La carciofaia nel primo anno
non tutta tallisce; ma la sua piena fruttificazione è
riserbata al secondo anno. Terminata la raccolta, che
succede da aprile a maggio, si tagliano i fusti a fior
di terra con lo zappone, e le radici rimettono con
gagliardia al cadere delle prime piogge autunnali; ed
allora ricominciano i lavori. Dei molti getti che
provengono in ciascun posto non si lasciano che uno
o due i più robusti, svellendo gli altri. Scorsi a
questo modo 4 a 5 anni, la carcioffaia si spianta e
trasportasi in altro suolo.
Petronciana (Solanum esculentum var. aculeatum, DUN.
= SIC. Milinciana). Non si trova coltivata nei nostri
orti che la sola varietà a bacche obovato-bislunghe
violacee, e di questa stessa non si fa molto uso.
Peperone. (Capsicum annuum, LIN. = SIC. Pipi).
Estesissimo ne è il consumo, e non havvi orto
irriguo che non ne mantenga un'ampia coltivazione e
non ne somministri abbondantemente al mercato le
bacche verdi dallo scorcio di giugno a tutto
l'autunno. Alcune piante che sopravvivono ai freddi
invernali, forniscono i frutti primaticci dell'anno
seguente. Si esamina sopra letto caldo dal finir di
dicembre a febbraio, e si traspianta a dimora in aprile e
maggio, frequentemente irrigandolo. Del modo stesso
si coltiva il Capsicum grossum, var. obovatum, LIN.
(SIG. Pipunz) a bacca rossa e gialla; il Capsicum longum,
var. incrassatum, DEC. e il Capsicum pyramidale, var.
longicorne, MILL. (SIG. Pipi sbezzi), le cui bacche
molto piccanti si seccano e si riducono in polvere per
condimento di alcune vivande.
Pomodoro (Lycopersicum esculentum, DUN. = SIC.
Pumu d'amuri). Molto maggiore della precedente e
assai più produttiva è la coltivazione di questa
specie, i cui frutti non solo si mangian crudi o
arrostiti, ma servono di condimento a moltissime
vivande e si riducono anche in conserva. Si semina in
letto caldo come il peperone e si tra-spianta in
marzo ed aprile non solo negli orti irrigui, ma anche
in terreni a secco che mantengano una certa freschezza. Si sospende la irrigazione dal momento che
la pianta comincia a mettere i fiori. La fruttificazione
si prolunga quanto quella del peperone e nei siti a
solatìo e riparati dai venti boreali si continua anche
nell'inverno. Da più anni si è pure introdotta la
coltivazione del Lycopersicum cerasiforme, DUN. (SIC.
Pumu d'amuri cirasolu), che ha la proprietà di
conservare incorrotti per lungo tempo i suoi grappoli
di frutto, colti e sospesi in ciocche.
Fragole (Fragaria vesca, LIN. = SIC. Fràulz). Questa
specie essendo voracissima d'acqua e tenendo
occupato il posto ove trovasi per tutto l'anno, non
ha che un sito limitatissimo nei nostri orti, in cui si
ha interesse di variare i prodotti con coltura
intensiva su piccoli spazi, e non può farsi molto
sciupo delle acque. Peraltro questo frutto ci viene
fornito a sazietà dagli orti di Noto.
8.° VERDURE COMMESTIBILI. - Non ci rimangono
a comprendere in quest'ultima serie delle piante
erbacee coltivate, che le erbe destinate a cuocersi in
minestra: cavoli, spinace, bietola, senape; quelle che
adopransi come pospasto: finocchio, sèdano; le
acetarie: lattuca, indivia, nasturzio ortense, ruchetta;
e quelle finalmente che servono di condimento:
prezzemolo, menta, maggiorana, grogo. Diremo
brevemente di ciascuna.
Cavolo (Brassica oleracea. LIN. = SIC.Càulu). Tale
pianta, quantunque non si tenga più in quella grande
estimazione che ne facevano gli antichi, non lascia di
occupare un posto in tutti gli orti, e alcune specie
forniscono tuttora un alimento assai ricercato dai
contadini. Ci tocca dunque enumerare le specie che
qui si coltivano coi pregi e le imperfezioni relative e
con l'uso più o meno esteso che si fa di ciascuna. – Il
cavolo ordinario (Brassica oleracea caulo-rapa. GASP. =
SIC.Càulu trunzutu) riesce per lo più di poca tenerezza coi torselli assai piccoli e quasi sempre tigliosi. –
La varietà capitata LIN. (SIC. Càulu cappucciu) è
poco usata e appena si trova negli orti come semplice
curiosità. – Buono il cavol fiore tanto bianco quanto
pavonazzo (Brassica botrytis alba et violacea. GASP. =
SIC. Bròcculu a peri jancu e niuru), le cui cime
acquistano una gran dimensione e sono preferite
nella tavola degli agiati. – Mediocre finalmente la
varietà acephala. GASP. = (SIC. Bròcculi), di cui fassi
il maggior consumo, perché è ricercata avidamente
dalle famiglie dei contadini e costituisce quasi
esclusivamente la lord cena per tutto l'inverno.
Spinace (Spinacia oleracea, LIN. = SIC. Spinacia).
Sebbene non si trascuri negli orti irrigui, 'pure per
esser pianta autunnale che si mantiene sino alla
primavera, abbonda in tutti gli orti asciutti, e non
v'ha contadino che non ne semini nella sua vigna come
fa pei rafani. Peraltro è pianta generalmente appetita e
se ne ritrae un discreto profitto.
Erbucce o Biètola (Beta cycla. LIN. = SIC.Aìta). Si
coltiva la bianca e la rossa. Non ha un posto
designato né cure particolari negli orti irrigui, ma vi si
lascia crescere ove nasce spontanea tra le altre
colture: ivi peraltro riesce molto pingue ed acquosa
e non torna tanto piacevole al gusto. Più gradite
sono quelle che vengono da sé negli orti asciutti e
per le campagne, e gustosissima sopra tutte la specie
selvatica (Beta sulcata. GASP. = SIC. Aiticeddi sarvaggi), che pur si raccoglie e si vende.
Senape (Sinapis nigra. LIN. = SIC. Sinàpa). Questa
specie autunnale, per la sua proprietà di venir
sempre da sé dov'è stata seminata una volta, si trova
diffusa ed allevata in tutti gli orti suburbani e della
campagna; e purché la terra non sia affatto sterile e
vi si zappi all'intorno, non abbisogna di altre cure di
coltivazione. Spesso suole essere infestata dai bruchi
della Pieris Brassicae. Viene esclusivamente destinata a
servir di vivanda con le sue cime più o meno tallite,
cotte e preparate in vario modo; ma è molto inferiore per gusto alla Sinapis incana. LIN. (SIC. Làssani, o
amareddi) che cresce spontanea nelle campagne. Del
seme, toltane una piccola quantità che serve alle
farmacie, non si fa alcun uso né per estrarne olio, né
per confezionarne la mostarda così appetita dai
gastronomi; qualche volta però si suole raccogliere
e vendere a negozianti che ne fanno ricerca.
Finocchio (Foeniculum dulce. DEC. = SIC. Finocciu). È
pianta molto pregiata e oggetto di speculazione dei
nostri orticultori, essendo un gradito companatico
pei nostri contadini e venendo anche ricercata nella
tavola del ricco. Negli orti irrigui suole seminarsi a
dimora in agosto entro fossette, mettendo in
ciascuna un pizzico di grani. Le piantoline venute su
e cresciute col mezzo delle irrigazioni si diradano in
ottobre, lasciandone tre o quattro in ciascuna
fossetta. Ogni altro che vuol coltivarlo per proprio
uso, ne trapianta le piantoline che vengono svelte in
questo diradamento. Cominciano a vendersi e
mangiarsi sin da novembre; ma per ordinario
riescono a falso-bulbo conico, essucco, duro e a foglie
raccostate, mentre i migliori son quelli che hanno il
falso-bulbo protuberante e carnoso con le foglie
corte, ricciute e patenti, qualità che non può
ottenersi senza frequenti sarchiature e rinforzo di
concime, nel forte dello sviluppo. Quelli che si
coltivano negli orti di Cassibili giungono qualche
volta a rasentare cotali pregi, ma non arrivano mai
alla perfezione di quelli di Siracusa. Oltre la pianta si
vendono dai nostri orticultori anche i semi, che
servono ad aromatizzare diverse vivande.
Sèdano (Apium gravéolens. var. celeri = SiC. Accia). Le
circostanze, allegate più su per le fragole,
impediscono ugualmente che si assegni molto spazio
negli orti alla coltivazione di questa specie, la quale
nei limiti stessi in cui si è voluta conservare, riesce
dura, amara e poco gustosa.
Lattuca (Lattuca sativa. LIN. = SIC. Lattuca). Se ne
coltivano diverse varietà a semi neri o bianchi, e a
foglie verdi o rosso-sanguigne, piane o bollate o
crespe, aperte o incappucciate. E queste varietà si
moltiplicano tuttodì per gl'ibridismi. Nell'inverno e
nel principio della primavera si trova ognidove,
anche negli orti asciutti delle particolari famiglie; in
està non è trascurata negli orti irrigui, e si vende in
ogni tempo al mercato.
Indivia (Cichorium endivia. LIN.). Insieme alla lattuca
si coltivano pure per uso d'insalata due varietà di
questa specie, cioè la communis (SIC. Scalora) e la
crispa (SIC. Ni-via). Si è pure introdotta la varietà
latifolia (SIC. Scalora di Palermu) che si dà per
foraggio verde ai cavalli ed ai muli dei carrettieri.
Tutte e tre non esigono cure particolari.
Nasturzio ortense, o crescione alenese (Lepidium
sativum.
= SIG. Nastruzzu) e ruchetta (Eruca sativa. LAMK. =
SIC. Arùcula). Queste due specie ricercate da molti
nelle mescolanze delle insalate non si trovano negli orti
irrigui né conseguentemente al mercato, ma si
coltivano nei verzieri dei particolari per uso di
famiglia, essendo piante invernali
Prezzemolo (Petroselinum sativum. HOFFM. = SIC.
Pitrusinu). È pianta coltivata con amore in tutti gli
orti, né si fa mancar mai nel mercato, entrando come
condimento indispensabile in quasi tutte le vivande. Anche la
famiglia del contadino che può avere un vaso da
fiori sulla finestra, si pregia di allevarvela a preferenza
d'ogni altra.
Menta (Mentha viridis. = SIG. Amenta). Anche
questa entra a condire alcune pietanze, specialmente le
salse, ed è generalmente coltivata. Per averla in
inverno, si trapiantano in sul finir dell'estate gli
stoloni delle sue radici in siti riparati dai venti
nordici e posti a solatìo, ed essa rimette subito la sua
nuova vegetazione. Senza questo spediente le radici
rimarrebbero inerti tutto l'inverno per ripullulare in
primavera.
Maggiorana (Majorana hortensis. MOENK. = SIC.
Majurana). Questa specie, sebbene non d'uso
generale come le due precedenti, serve nondimeno a
condire qualche speciale vivanda o salsa, e si alleva
da molte famiglie in un cantuccio di terra di cui
possano disporre.
Grogo (Carthamus tinctorius. = SIC. Usciaru). È da
tempo molto antico che si adopera questa carduacea
come un succedaneo dello zafferano per colorire e
aromatizzare il brodo di carne coi pistilli del suo
fiore posti a seccare e ridotti in polvere. Benché ora
non se ne faccia gran conto, non è stato interamente
escluso dagli orti.
Nulla diremo dell'origano, del rosmarino, della salvia,
della nepitella, della santoreggia e di altre piante
aromatiche usate pure qualche volta per condimento,
perché venendo spontanee nelle nostre campagne,
non possono entrare nel còmpito che ci siamo assunto.
b) Piante arbustive.
Vite (Vitis vinifera. = SIC. Viti). La vite si alleva a bassa
ceppaia, metodo che vuolsi venutoci dai Greci; e pel
piantamento non si fa mai uso di barbatelle, ma di
semplici sarmenti (maggiola) tratti da vigne non
troppo giovani né molto vecchie, e che abbiano
gl'internodii alquanto corti, senza portare alla base
alcun avanzo di vecchio legno.
Per istabilire un vigneto, si comincia dal preparare
il terreno con ripetute arature; poi vi si tracciano le
distanze in quadrato o a scacchiera, in cui devonsi
piantare i sarmenti: operazione che chiamasi
assistari e che si esegue dagli stessi contadini per
mezzo d'una corda di camerope (sestu) intersecata
ad uguali intervalli da segnacoli. Stabiliti sul terreno
dei grandi quadrati paralleli che abbiano i lati
quanto è lunga la detta corda, si comincia dal tener
distesa la corda medesima sopra uno di questi lati, e
accanto d'ogni segnacolo si pianta un pichetto di
cannuccia. Fatta la stessa cosa nel lato opposto, si
tende e si passa la corda a traverso in senso parallelo
tra i pichetti dei due lati mettendo sempre nuovi
pichetti negli spazi intermedi. Riempito così tutto un
quadrato si procede agli altri, mantenendo sempre
rette le linee. Le distanze sono per ordinario di
metro 1,09 a m. 1,16 secondo che il terreno sia più o
meno sterile, dandosi più spazio dove la vegetazione
suole riuscire più vigorosa. Generalmente per massima
dei nostri agricoltori desunta dalla pratica si richiedono tre monnelli di terra della locale abolita misura
per collocarvi mille viti; e secondo questo calcolo la
superficie d'un ettara, corrispondendo a tumoli 5,
monnelli 2, coppi 3, quarti 2, e quartigli 3,65 della
misura anzidetta, è capace di contenerne 7655 a un
dipresso.
La piantagione si fa, in gennaio nei luoghi asciutti
ed in febbraio in quelli più umidi, con la trivella da me
descritta più innanzi. Si comincia dal preparare i
maglioli recidendone i rametti laterali e i viticci, e
tagliandone la base rasente all'ultimo nodo, ciò che
dicesi arrifriscari. Indi il piantatore con la trivella
e col soccorso d'un po' d'acqua apre un foro nel posto
segnato da ciascun pichetto, e dietro a lui un altro
operaio v'introduce un sarmento, e riempiutolo di
terra asciutta a varie riprese, ve la calca con
l'asticciuola (cufiddaturi) da me parimenti indicato
più su, in modo da formare e stringere al suolo il
magliuolo. Fatta la piantagione s'intraprende a
zappare regolarmente. Nel secondo anno si
ripiantano nuovi magliuoli nei posti ove i primi non
siano attecchiti (si fa lu riciàntitu).
Le zappature per ordinario sono quattro. La
prima si dà dopo la vendemmia e propriamente dopo
che le prime acque han fatto germogliare i semi
dell'erbe spontanee (doppu chi li terri su
scumati): essa consiste nello scalzare ciascuna vite
aprendovi intorno una conca quadrata a guisa di
tramoggia con la terra disposta a schiena nei lati e
sollevata in piramide ove s'incontrano gli angoli, e
perché si esegue in linea retta dei filari dicesi a conca
o a lu rittu (dritto). La seconda si somministra
immediatamente dopo la potatura, tagliando la terra
in senso obliquo dei filari senza rincalzare le viti, e si
denomina a rùmpiri tonchi, o a lu sgherru
tiratu; ed è da questa che comincia ordinariamente
la coltura, quando si pianta a nuovo. La terza, che si
appella a lu sgherru allitticatu, viene eseguita in
aprile dopo che le gemme sono germogliate; con essa
la terra si appiana pastinandola in direzione
obliqua opposta alla precedente, e le viti si
rincalzano. La quarta finalmente si appresta nella
seconda metà di maggio o in giugno, e dicesi a travu
o ad appènniri racìna, consistendo nell'accumulare
la terra a schiena d'asino nell'intervallo dei filari, e nel
fare uno sgombro accanto alle viti, perché le uve
pendenti dal basso ceppo non tocchino il suolo. Oltre
queste quattro zappature ordinarie qualche
contadino ne interpone un'altra tra la seconda e la
terza. Altri nell'intervallo tra la prima e la seconda
scava con lo zappone la terra attorno al ceppo delle
viti in fondo alla conca, ciò che dicesi fari suppuni.
Fu parlato più innanzi dell'uso di seminarvi nel
primo anno e qualche volta anche nel secondo le
angurie. Sovente invece vi si mettono ceci a fossetta.
Qualche contadino nel secondo anno sui cumuli
piramidali delle conche (munzedda) della prima
zappatura semina un po' d'orzo per foraggio verde,
che già va mietuto pria che la vite rigermogli.
Le viti novelle dopo il primo anno, e sino a che il
ceppo non acquisti una certa consistenza e una certa
altezza da potere reggersi da sé e tener sospesi i
grappoli in modo che non tocchino la terra, hanno
bisogno d'un tutore che le sostenga, e a tal uopo si fa
uso di pali di canna che si tagliano alquanto lunghi
per poter servire a quell'ufficio più d'un anno,
recidendone la parte che si corrode rimanendo
sotterra. Questa palatura si esegue mediante la
trivellina precedentemente descritta, e non si tiene
necessaria per ordinario al di là del quattordicesimo
anno dell'età del vigneto. Dopo ciascuna
vendemmia i pali si estraggono e si conservano.
Oltre le operazioni finora cennate, la coltivazione
della vigna richiede: 1° la spollonatura (rimunna),
che consiste nello sbarazzare a mano le viti dai getti
inutili e superflui (pirucci) conservando i soli
rampolli da frutto per concentrare sopra di essi tutta
la potenza della vegetazione: operazione che suole
praticarsi dai ragazzi ed anche dalle
donne in maggio quando l'uva è già allegata (liata);
2° la legatura dei tralci ai pali di sostegno, quando vi
siano: ciò che fassi con fili di giunco, di lino o di
ampelodesmo, e dicesi liàri; 3° l'attortigliamento delle
sommità dei tralci o intorno al palo o sopra sé stessi
(rivausari): operazione che surroga la cimatura ed è
diretta a concentrare tutta la linfa alla maturazione
del frutto e si eseguisce prima dell'ultima zappatura;
4° la solforazione (nzulfurari) lavoro quasi esclusivo
delle donne, praticato ordinariamente non più di due
volte, cioè la prima con più profitto sul primo
germogliare delle viti, e la seconda quando i granelli
dell'uva hanno acquistato la grossezza d'un pisello;
5° la vendemmia (vignigna), a cui collaborano anche
le donne, e che va dagli ultimi giorni di agosto a non
più oltre del 24 settembre secondo che la condizione
delle diverse terre affretta o ritarda la maturazione;
6° la propaginazione (ca/ari prupàini) che si fa poco
prima della potagione per rinnovare i ceppi distrutti
o per sostituire una buona varietà ad un'altra che
non dà frutto, o lo dà cattivo, e che suole segnarsi al
tempo della vendemmia col mozzarne tutti i tralci; 7°
finalmente il taglio o potagione (puta).
Ritornando pertanto sulle enumerate operazioni è
opportuno aggiungere alcuni dettagli.
Conoscono i nostri agricoltori come sia un esporsi a
vicende molto rischiose il limitare la scelta dei
vitigni ad una sola varietà. Essi ne mettono
parecchie, con una intelligenza ben calcolata
prescegliendo quelle che abbiano un'epoca sincrona
di maturazione. È anche d'uso mescolare alle uve
bianche le nere, come quelle che forniscono la materia
colorante, la quale essendo più suscettibile della
effervescenza vinosa e più propria a ritardare la
fermentazione spiritosa insensibile, produce con la
prolungazione di questo movimento che il vino non si
porti così presto alla fermentazione acida. In una
cosa peccano però i nostri contadini nei piccioli
vigneti di loro esclusiva proprietà, ed è nel preferire
ch'essi fanno quei vitigni che rendono molto,
curandosi poco della vecchia esperienza che quanto
più la vigna fruttifica, l'uva più abbonda di sostanze
acquose e il vino è meno buono. Sono vigne che dànno sino ad ettolitri nove di mosto per ogni migliaio,
mentre le altre non ne rendono che da tre a
quattro! Ma i contadini, che così sacrificano la
qualità alla quantità, vendono ordinariamente il loro
prodotto in mosto e si fanno poco scrupolo di
rovinare il negoziante inesperto o poco diligente.
Altro difetto d'una parte dei nostri contadini è
quello d'essere troppo impazienti a raccogliere il
frutto delle loro fatiche, senza spesso aspettare
quanto convenga la perfetta maturità dell'uva. Ma
quando il mosto non trova spaccio, com'essi si
lusingavano, sono essi stessi che ne risentono il danno e
ne pagano la pena meritamente.
Il taglio o potagione (puta) si regola a questo modo.
Dopo il piantamento i magliuoli si mozzano (si
scamùzzanu) a due occhi sopra terra, e laddove
germoglino tutti-due, nell'epoca della spollonatura
uno dei germogli si toglie lasciando quel solo che
non disti dalla terra più di quattro dita. Al secondo
anno l'unico rampollo rimasto si scerba, cioè si taglia
rasente al punto d'inserzione. Nel terzo anno si taglia
a due gemme. Nel quarto la vite si spacca, cioè si
lasciano due gemme in ciascuno dei due tralci, oltre
quelle della corona. Nel quinto si taglia a due occhi
sopra i due o tre sarmenti più vigorosi e che
conservino tra loro le più simmetriche distanze per
formare le teste o madri - branche (spaddi), radendo
tutti gli altri. Negli anni di sèguito si taglia a due occhi
il tralcio più basso di ciascuna testa, radendo l'altro; e
quando il vigore della pianta lo consigli, si prepara
un nuovo capo (spadda) conservando altro sarmento
tra quelli da sopprimersi, il quale si taglia a cornetto
(fauzza) con lasciarvi le due gemme superiori e
accecare tutte le altre; però la vegetazione non è mai
sì rigogliosa da permettere che queste branche madri si portino al di là di 4 a 5. Non vi si lasciano
cursoncelli (auceddi) se non di rado e solamente in
qualche vigneto privilegiato o in qualche vitigno che
molto lussureggi in fronda a scapito del frutto: in
tutt'altri casi il cursoncello uccide la vite.
Lo spampanamento prima della vendemmia, salvo
poche eccezioni in terreni bassi ed umidi, non è qui
richiesto dal clima. Qui il calore del sole è troppo
forte e troppo prolungato, perché non si ricorra a
questo spediente per agevolare la elaborazione, la
modificazione e la combinazione della linfa in principi
zuccherati.
La propaginazione si pratica coricando i ceppi in
una fossa bislunga con fare sporgere un tralcio nel
posto vuoto che si vuole riempire, e con ripiegarne un
altro nel sito stesso che occupava la vite coricata: è
ciò che i trattatisti sogliono propriamente
distinguere col nome tecnico di provanatura.
Talvolta i tralci di rimpiazzo son due, se si devono
riempire due vuoti vicini, ed allora la fossa va fatta
ad Y. Sovente si propagina il solo tralcio che rimane
attaccato alla vite stessa per recidersi nell'anno
seguente; e questa operazione, che è il più antico
metodo di propaginazione praticato in molte contrade
di Sicilia, qui dicesi tummareddu. Nella preveggenza di
tutti questi casi, quando si attortigliano (si rivàusanu)
le viti come sopra abbiamo detto, i tralci accanto i
posti vuoti che si conoscono necessari per potere
eseguire le propagini (prupàini) si lasciano senza
avvoltolarsi, ciò che dicesi, non so perché, lassàrili
a li menzijorna4. Il capogatto o margotto non si
usa, e neppure l'innesto della vite.
La vigna non si suole concimare, neppure con
soversci, tranne un insignificante ammendamento
ch'essa riceve per le piante spontanee che vi si
sotterrano e per le proprie foglie, che restituiscono
al suolo una parte tenuissima dei principi nutritivi
perduti. I contadini più diligenti non lasciano di
ravvivare i ceppi, raschiandone le screpolature delle
vecchie cortecce, sicuro ritiro degl'insetti.
I nemici più perniciosi, che ha qui la vigna (non
compresa la crittogama a cui si ripara con
l'insolforazione) sono: 1° i venti di terra che spesso
soffiando forti al tempo della spollonatura ne
abbattono i teneri germogli e compromettono la
regolare potatura dell'anno avvenire, e quelli di
mare che pregni di esalazioni saline disseccano del
tutto la tenera vegetazione di quanti vigneti si trovano
lunghesso il littorale; 2° le gelate degli ultimi giorni
di marzo o dei primi d'aprile che ne bruciano le
gemme appena germogliate; e 3° i forti calori di
giugno e luglio che talvolta disseccano le uve in modo
da distruggere in un'ora le liete speranze del
vignaiuolo. Non si sono mai sperimentati gravi danni
da parte degli insetti. Il vilucchio (convolvulus
arvensis = SIC. Curriùla), che cresce ostinatamente
in tutte le vigne e che spesso si avvolge negl'interstizi
del grappolo, comunica al vino un sapore spiacevole,
che si denota col nome di sapore d'erba.
La vendemmia si esegue, come si è cennato, per
mezzo di contadini e anche di donne, e l'uva si
trasporta al palmento secondo fu avvertito
nell'articolo V. I palmenti sono ordinariamente in
muratura ed in forma quadrangolare. L'uva vi si
pigia immediatamente da uno o due contadini coi piedi
vestiti di grosse scarpe bullettate, e dopo essere la
pasta compressa con pale di legno e ripestata per ben
tre volte si spreme nel torchio con tutti i raspi. Il
mosto del palmento scola in un fosso scavato al di
sotto, e quello del torchio in un tino sottoposto, l'uno
e l'altro scoverti. Per ben colorire il mosto, si pigia
a parte una proporzionata quantità d'uva nera, e la
pasta di essa, dopo averla spogliata dei graspi, si
ammassa in un angolo del palmento, ove sta qualche
tempo per colare e rasciugarsi. Terminata la
vendemmia della giornata, si riprende la detta pasta
e si frega reiteratamente coi piedi contro le lastre del
palmento sino a ridurla ad una poltiglia, ciò che
dicesi ripistu; indi si getta sopra il mosto del fosso, a
cui si è riunito anche quello del torchio, oppure si
lascia nel palmento stesso e vi si getta sopra una
buona quantità di mosto attinto dal fosso.
Cominciata la fermentazione, la detta pasta vien
ricacciata alla superficie, ove sta di covertura
un'intera notte. La dimane si estrae e si rimette nel
palmento, o se fu lasciata ivi se ne fa scolare il
mosto, e dopo che se ne sia bene scaricata, si finisce
di spremere nel torchio. Immediatamente il mosto si
trasporta con otri o con barili di legno
(carratedda) e si chiude nelle botti che hanno
l'ordinaria capacità d'ettol. 8,50, e delle quali si lascia
aperto il cocchiume per più giorni. Quando la fermentazione si mostri sufficientemente rallentata, si
soprappone al detto cocchiume una foglia di limone
o di arancio con sopra una tegola. L'orifizio si
chiude ermeticamente con tappo di sughero allorché
si osserva la fermentazione cessata interamente. Si
travasa (si tramata) in febbraio o marzo.
Si fanno anche dei vini bianchi, ma in quantità poco significante, perché difficili a ben riuscire. Tranne la
mancanza del ripistu, l'accorgimento di togliere dalla
pasta i graspi, e un doppio travasamento, si
mantiene anche per questi lo stesso processo di
confezione ch'abbiamo esposto praticarsi pei neri.
Certamente molte cose i lettori troveranno a
riprendere nel metodo così semplice qui adottato per
la confezione del vino. Ma vuolsi considerare che nei
paesi caldi si conta molto su la natura del clima e si
perde facilmente di vista la superiorità che
potrebbero e dovrebbero avere i locali prodotti;
oltreché la proprietà divisa e ridotta in esigue
proporzioni non ha qui disponibili i mezzi di conseguire quei benefizi che provengono dall'applicazione
di grandi e complicati apparati e d'una intelligenza
non comune. I nostri vini peraltro si dissomigliano
poco da quelli di Siracusa che fabbricati con gli
stessi metodi godono d'un'antica rinomanza in
commercio; e se questo genere non fosse nei tempi
attuali così generalmente avvilito in tutta Sicilia, la
vigna avrebbe anche qui da poter compensare
largamente gli sforzi di chi si consacra alla coltura
di essa. Quanto questi tempi sono diversi da quelli
ricordati da Diodoro, quando un'anfora di vino
siciliano si cambiava con uno schiavo!
Queste considerazioni, se da una parte scusano la
impotenza o se ancor vuolsi, la indifferenza dei
nostri agricoltori a far meglio in questo ramo di
industria agraria, dall'altra sono un tema
d'indulgenza e di perdono, perché non si disapprovi
il loro sistema di coprire di alberi fruttiferi ogni loro
vigneto. I grandi vegetabili, è vero, assorbono tutti i
raggi solari con la loro chioma e tutti gli alimenti e i
succhi della terra con la loro estesa radicazione, e
nuociono così doppiamente alla vite. Ma se questa
ne soffre ed invecchia presto, l'albereto che rimane e
che la
rimpiazza è assai più promettente giunto com'esso è
allora a somministrare i primi frutti e a sempre
portarsi innanzi senza quasi bisogno di speciale
coltura ulteriore, bastandogli i lavori e le
bonificazioni che si apprestano al terreno per
ritrarne l'utile d'altri prodotti erbacei, come
diremo nella sezione seguente. E non è dicerto per la
vigna in sé stessa, come già abbiamo fatto
intravedere negli articoli preliminari, che qui
s'intraprende la sua coltura, ma come il mezzo più
facile, più spedito, più economico di avere un buon
albereto. Peraltro, anche senza gli alberi, la vite
investendo con le sue radici il tenue strato di terra
vegetale dei nostri terreni, n'esaurisce prestamente
tutti gli elementi nutritivi che le si affanno e non
può durar molto a lungo: difficoltà che non
incontrano gli alberi, i quali son meno esigenti,
come ne fanno prova i mandorli che vi durano una
vita centenaria e gli ulivi che vi stanno da secoli.
Nei siti marittimi, donde si è tolta la vigna per
vecchiezza e che non ammettono coltivazione
arborea, non si rimette il vigneto che dopo un
periodo bastantemente lungo, per dar tempo alla
terra di rifornirsi degli elementi esausti.
E ciò basti intorno alla coltivazione dell'arbusto
vinifero.
Sommacco (Rhus coriaria. = SIC. Summaccu). Il
saggio che qui si è fatto da poco tempo della coltura
di questo arbusto sopra un'estensione soleggiata di
pochi ettari alle falde delle colline è stato sufficiente
per mostrare che le condizioni dei nostri terreni e del
nostro clima nol rifiutano. Ma il saggio è rimasto lì:
vien guardato con indifferenza e nessuno s'invoglia
ad estenderlo, forse a motivo della natura di questo
vegetale che non ammette la consociazione degli alberi
a cui sempre si ha la mira dai nostri agricoltori.
Poco infatti ad essi importa che l'albero nuocesse alla
vigna: il surrogato che sopravvive è per loro più
remunerante. Qui all'incontro sarebbe il sommacco
che, con la sua fitta ed estesa radicazione nei nostri
terreni poco profondi, ucciderebbe l'albero, e ciò gli
turba i sonni. Anche sotto il passato governo gli
sforzi di uno degli Intendenti di Noto, per
promuovere la detta coltura nel circondario, non
approdarono, e qualche esperimento che se ne
intraprese restò abbandonato.
Canna comune (Arundo donai. LIN. = SIC. Canna). È
una pianta che serve a moltissimi usi ed è avidamente
ricercata sopra tutto pei pali delle vigne e pei tetti
delle case. Cresce vigorosa nelle ripe arenose
dell'Asinaro che non potrebbero addirsi ad altra
coltura e riesce supremamente economica. Difatti il
terreno occupato da essa nelle possessioni dei nostri
sulle due rive non eccede per approssimazione ettari
10, e si calcola che dà ciascuno anno 300,000 canne,
le quali vendendosi sopra luogo al prezzo medio di
lire 20, 40 per ogni mille offrono la bella cifra di lire
6120 e quindi l'annuo reddito di lire 612 per ettara.
Alla buona qualità di questa graminacea pare che
molto influisca la natura calcare dei nostri terreni
non isprovveduti di silice, poiché i culmi di essa
vengono qui alti, discretamente grossi, duri e
resistenti, mentre nei terreni di Siracusa, che sono
molto umosi, riescono corti e flosci. - Per la sola
coltura si prepara il terreno con un buon divelto;
poi si scavano dei solchi profondi a distanza di 50
centimetri l'uno dall'altro, ed ivi si sotterrano gli
uovoli convenientemente spaziati. Essendo il canneto
ancor giovine si zappa di frequente e si rincalza,
levando i polloni troppo minuti. Si continua a
governare finché sia cresciuto, e poi si abbandona a
sé stesso. Per la natura mobile del terreno quei
primitivi lavori stessi sono facilissimi e costano poco.
Le canne si raccolgono in gennaio e non abbisognano
di altra spesa che di un semplice operaio per tagliarle
con l'accetta alla base. Si fasciano a 50 a 50, e le più
grosse (cirivuna) a 25: venti fasci costituiscono un
migliaio. Quando il canneto comincia a deteriorare
pel molto intralciarsi delle radici, si rinnova
estirpando gli uovoli, rivoltando la terra e
ripiantando come la prima volta nel sito medesimo.
Questa coltivazione offre pure il vantaggio di
presentare un valido ostacolo alla forza irrompente
delle piene e d'impedire la corrosione dei terreni
ripali.
Canna da zucchero (Saccharum officinarum, commune).
R. ET S. = SIC. (Cannamedda). È una pianta di
vecchia
conoscenza
e
di
antichissima
naturalizzazione in queste contrade, ove sin oltre alla
metà dello scorso secolo forniva alimento ad un
grande laboratorio di zuccheri mantenuto a spese
del duca di Terranuova e di cui tuttora sopravvivono
i ruderi. Dopo che la concorrenza degli zuccheri
americani ed un concorso di varie altre circostanze
economiche fecero cessare quell'industria, si è
continuato da pochi amatori a mantener viva tale
coltivazione in ristrettissima superficie per fabbricarne
un eccellente rhum, molto superiore a quelli del
commercio, ma che non offre vantaggio economico né
può vincere la concorrenza a causa delle forti spese
di produzione. E giova aggiungere, che quella
coltivata ab antiquo qui e in altri luoghi di Sicilia è la
canna crèola a brevi internodii e culmo sottile appena
del diametro d'un pollice, proveniente dalle Indie
Orientali, assai diversa dalla varietà più diffusa in
America e nell'Arcipelago Colombiano, ch'è il
Saccharum officinarum otahitense R. t S., o Canna
d'Otaiti, dovuta ai viaggi di Cook, di Bligt e di
Bouganville, la quale alzandosi consuetamente da 3 a
4 metri con proporzionata grossezza ha pure il
vantaggio di poco o nulla degenerare dopo una
prolungata coltura e di potersi rinnovare con
intervallo di 5 a 6 anni, mentre la Crèola non solo
non si allunga più di un metro ed ha bisogno di
essere rinnovata ogni due anni, ma trovasi oggi così
degenerata che i pochi che ancor la coltivano per diletto, per cure e per istudio messivi sopra, non han
potuto ricondurne lo sviluppo alle dimensioni che
aveva un secolo addietro: essa poi non si è veduta mai
fiorire.
Il metodo di coltivazione, qual ci venne tramandato
dai nostri antenati e qual essi certamente dovettero
averlo ricevuto dai primi introduttori, come pure il
processo di fabbricazione del rhurn furono studiati
sopra luogo dal professore cav. Giuseppe Inzenga e
da lui fatti conoscere al pubblico sin dal 1847 nel
Calendario dell'Agricoltore pag. 59 e seguenti5 con
quella scrupolosa esattezza ch'egli suol mettere nella
osservazione e nella esposizione dei fatti. E poiché
nel presente scritto non posso dispensarmi dall'informare i miei lettori su quella doppia operazione,
sarebbe un tempo gettato via se mi sforzassi a dir la
cosa con altri termini e con altri modi. Mi varrò
dunque in gran parte delle stesse di lui parole,
sopprimendo soltanto qualche sua digressione e
aggiungendo taluni dettagli ch'egli credette notare
con espressioni generiche.
La canna da zucchero si propaga per mezzo di talli
scapezzati dalla estremità dei vecchi fusti e che
conservino tre o quattro nodi con le gemme
corrispondenti. Questi talli detti volgarmente punti e
destinati a servir di piantoni (ciantimi) si raccolgono e
si preparano contemporaneamente al raccolto delle
canne in dicembre, poiché quei 3o 4 articoli apicilari
essendo sforniti di materia zuccherina vengono recisi e
rigettati dal rimanente dei fusti. Essi stretti fra loro
in piccoli fasci si aggregano verticalmente in un sito
qualunque dell'orto a pien'aria, ove restano incolumi per tutto l'inverno senz'altra precauzione
che di coprirne la superficie esterna con uno strato
di foglie secche della pianta medesima. Il terreno,
ove la piantagione deve eseguirsi vuol essere a
solatìo, perfettamente orizzontale, sciolto e ben
concimato e a preferenza con letame di cavallo.
Comincia a prepararsi in gennaio con 4 a 5 arature
che lo rimuovano e lo pastinano profondamente in
tutti i versi. Poi si dispone in aiuole quadrilunghe
(Vedi fig. 9a – C)6 vicine e simmetriche, quante sono ne-
'
cessarie per la estensione che vuol darsi alla
coltivazione; e in ciascuna di queste si aprono da
uno dei lati più lunghi tre larghi solchi o
avvallamenti tortuosi, quasi a somiglianza d'un
punto interrogativo con ciglioni alti presso a 35
centimetri; disposizione adoprata per ottenere che l'acqua d'irrigazione, di cui la pianta è voracissima,
possa circolarvi più lentamente e stagnarvi, e quindi
produrre una maggiore infiltrazione. Ogni parte
intanto di queste aiuole è designata con nomi speciali,
di cui non ben si comprende il preciso significato.
Una specie di gomito che sporge presso l'apertura a
destra di ciascuno degli avvallamenti ed è destinato
a riparare e fare andare più lenta la corrente
dell'acqua, prende la denominazione di vracalettu
(a). Dei quattro ciglioni che separano i tre
avvallamenti, il primo a cominciare da mano sinistra
chiamasi furra (D), il secondo scala di furra (E). il
terzo furra di 'mmenzu (F), il quarto mussùra (G).
Finalmente un arginello che serve di controspalla al
canale d'irrigazione (A) di fronte alle aperture degli
avvallamenti, riceve l'appellazione di testa di furra (B).
Disposto a questo modo il terreno, si fa la
piantagione in febbraio, che in questo clima è quasi
principio di primavera. Allora i talli conservati,
mozzatane gran parte del falso fusto e ridotti a quasi
25 centimetri, si piantano in gruppi seriali di tre a
tre, alternatamente ed a 30 centimetri di distanza un
gruppo dall'altro, nei fianchi opposti dei ciglioni che
contornano gli avvallamenti: questa disposizione
alternata è fatta nello scopo di poter trarre dal vuoto
della parte opposta la terra necessaria per rinfórzare
le pianticelle.
Eseguita la piantagione s'innaffia per inondazione
una volta la settimana, e nei forti calori più spesso
secondo il bisogno. Nel corso della vegetazione non
occorrono altre colture che zapparsi e rinforzarsi 4
a 5 volte come più torni necessario, tenendola
sempre netta dalle cattive erbe che venissero ad
infestarla.
Nel mese di dicembre si fa il raccolto delle canne di
primo anno, mozzandole a fior di terra
(sciancànnuli); il che si ottiene senza uso di ferri,
ma col solo piegar la canna afferrata con una mano a
metà della sua lunghezza.
Il terreno, ove restano le radici delle canne
mozzate, copresi con lo strame secco delle stesse piante,
al quale si soprappongono delle pietre perché non
sia disviato dai venti e dalle piogge invernali e vi
resti di permanente covertura. Dopo la metà di
marzo, o secondo la formola dei nostri contadini, nel
giorno di S. Gregorio che corrisponde al 22 di quel
mese si tolgono le pietre e si dà fuoco allo strame
sul posto medesimo. In sèguito della quale
operazione le radici, destandosi ad un tratto dal
torpore in cui giacquero durante il verno, mettono
fuori i nuovi germogli che devono servire al ricolto
del secondo anno. In questo secondo ricolto, cadente
nel dicembre successivo, si svellono le radici, avendo
mostrato una costante esperienza che dopo quel
biennale periodo non possono più servire ad una
successiva produzione, né il terreno stesso vi
sarebbe più adatto. Ed è tempo allora di preparare i
nuovi talli, e trovare un'altra terra propria a riceverli. Le colture del secondo anno sono come nel primo.
Ecco ora il processo che si è adottato per la
fabbricazione del Rhum.
Raccolte, come si è, detto, le canne in dicembre e
toltene l'estremità, ch'abbiamo già avvertito non
essere zuccherose e che peraltro servono alle nuove
piantagioni, il rimanente si spoglia delle sue foglie e
riducesi in piccoli frantumi (caddozza) che riuniti in
massa si sottomettono alla triturazione del frantoio.
Il frantoio è quello stesso a macina verticale che
serve alla triturazione delle olive, se non che in un
punto del bacino vi si trova aperto un conduttore, il
quale ricevendo il liquido che per mezzo della
macinazione si sprigiona dalle canne, lo conduce e
lo riunisce per mezzo d'un foro in un recipiente
preparato in una cavità, al di sotto del bacino
stesso. Il foro suddetto si apre e si tura a volontà
nel corso della macinazione, secondo che vuol
mantenersi alla canna il liquido o se ne vuol
separare. Le canne triturate e ridotte in pasta si
mettono nelle gabbie comuni (coffi) e se ne estrae il
succo con la pressione del torchio. Questo succo si
unisce all'altro ottenuto nella macinazione, e si
versa in una caldaia allungandolo con un ottavo
d'acqua, e mettesi a bollire sino a che l'acqua
aggiunta si evapori. Tolto dal fuoco e fatto
raffreddare si passa in una botte col cocchiume
aperto, e ad agevolare la fermentazione vi si
aggiunge una proporzionata quantità di vino
feccioso o di deposito di vino nuovo che si ottiene
travasando. Il succo fermentato si lascia riposare
per 40 giorni nella medesima botte che si mantiene
sempre aperta. Dopo fermentato e vinificato si
lambicca due volte e così trasformasi nella più bella
qualità di Rhum, che si vende a lire 10 la bottiglia
della capacità d'un litro. Gli si dà un grato colore
paglino col legno di sandalo ed in mancanza con la
radice del melagrano. I culmi delle canne da
zucchero vendonsi pure ai cittadini di questa e dei
Comuni vicini, essendo succhiate per mera gozzoviglia
specialmente dai fanciulli.
Fico d'India (Opuntia ficus - indica. MILL. =
Ficurinnia, o Ficupala. Ed Opuntia Amyclaea. TEN. =
SIC. Ficurinnia spinusa). Non vi sono terreni
specialmente destinati a questa coltura, ma le due
specie trovansi dappertutto per la campagna
addossate ai muri delle chiudende, e la seconda non
lascia di far siepe impenetrabile a parecchi vigneti garentendoli con le sue valide spine da ogni incursione
di uomini e di animali. Il loro frutto è così abbondante
che si vende a buon mercato e somministra per
buona partedell'estate un cibo prediletto ai poveri
ed ai ricchi. Della prima specie si hanno
comunissime le varietà a frutto giallo e sanguigno, e
più scarsa e meno apprezzata anche quella ordinaria
a frutto bianco. Si hanno pure, introdotte di fresco,
quella a frutto bianco listato di giallo di sapor
mediocre, la genovese a frutto bianco, buona ed assai
fruttifera, e la mandarina anche a frutto bianco, ch'è
gustosissima, ma produce poco. Quelle a frutto
inerme ed a frutto senza semi o a meglio dire coi
semi abortiti si son trovate di non valere, perchè la
prima ha i frutti niente gustosi, e la seconda non li
porta a maturità. Della seconda specie si ha, oltre la
comune a frutto giallo, un'altra varietà a frutto
bianco che vince in sapore zuccherino la stessa
mandarina, ma è troppo avara di frutto in queste
contrade, mentre dicono che sull'Etna, donde
l'abbiamo ricevuta, fruttifica benissimo. Per tutte
non si ha cura che di piantarne gli articoli, poi sono
abbandonate a sé stesse. Però gli eccessivi calori
estivi ne guastano molto il frutto. I buoi e le capre
son ghiotti degli articoli di questa pianta e spesso ne
guastano la coltivazione.
c) Piante Arboree.
Marco Porcio Catone, che nell'ordine del valore e della
produzione metteva l'uliveto in quarto luogo, dopo
la vite, il giardino irriguo ed anche il saliceto, e
appena assegnava l'ottavo posto al frutteto,
preferendogli il prato, il campo frumentario e, quel
che sembra più strano, la selva cedua, non so dire se
a ciò si consigliasse per circostanze locali di clima, di
bisogni e di commercio, oppure per imperfetto
avviamento che avesse preso in quei tempi l'agricoltura. Ai dì nostri, se in generale una qualunque
regione priva di alberi, come si esprime un giudizioso
scrittore, affligge dovunque gli sguardi, le cose dette
innanzi rendono manifesto, e tutti i geoponici
hanno a questo una voce, che nei paesi meridionali,
ove il provento delle coltivazioni erbacee rimane
costantemente al di sotto della mano d'opera e del
valore delle sementi, l'arte agraria deve cercare il
suo principale tornaconto nelle piante legnose, e
sopratutto negli alberi fruttiferi. Questi infatti, non
che essere i soli che possano temperare i lunghi e
forti alidori estivi, offrendo contro di essi un'ombra
refrigerante e portando la fecondità ed il riso ad
una campagna deserta, valgono a rendere produttivi
anche i terreni sterili e abbandonati, e si legano più
intimamente ai godimenti ed ai bisogni di tutte le
ore, ed han d'uopo di minori attenzioni di coltura, e
recan pure il grande vantaggio d'essere aperto a
taluni dei loro frutti un mercato estesissimo, con
domande sempre crescenti in ragione dei limitati
climi che hanno avuto dalla natura lo speciale privilegio di favorirne la produzione. Uno dei dogmi
della religione dei Maghi, ch'era la religione della
Persia in quel tempo, insegnava che l'azione più
grata alla Divinità era di fare un figlio, di coltivare
un campo, di piantare un albero. Qual miglior
mezzo, esclama un sapiente scrittore, potevano
adoperare i legislatori della Persia per incoraggiare
l'agricoltura, che chiamare in soccorso la morale, i
dogmi e la religione?
Tali verità, come notammo sin da principio, sono state
estesamente avvertite dai nostri agricoltori e con
grande amore apprezzate, ed è con la loro pratica
applicazione che si è potuto trasmutare in vago e
continuato giardino un suolo arido ed infecondo che
pareva nulla promettere. Diremo intanto delle specie
di alberi utili, cui si è posta maggior cura, e perché il
quadro, che ci siamo proposti di pennelleggiare, non
presenti delle lacune, non ometteremo d'indicare la
maggior parte di quelli di minore importanza, che
non l'arte speculatrice, ma la natura stessa semina e
lascia crescere spontaneamente per conto suo ove la
coltura non ha potuto farsi strada. Protestiamo
però che, così per gli uni come per gli altri, i limiti
che ci abbiamo prescritti non ci consentono di
tracciare che delle linee grosse, e dar piuttosto delle
viste sommarie, che delle piene ed esatte esposizioni.
OLEACEE - L'Olivo (Olea Europoea LIN. = SIC.
Auliva) è degno d'essere menzionato pel primo.
Quest'albero prezioso, che la dotta Grecia
meritamente fe' sacro alla Dea del sapere e che vive
una vita quasi immortale, è forse la specie più
antica che siasi coltivata in queste contrade,
trovandosene sparsi per ogni dove, in consociazione
del carrubbo e del mandorlo, degl'individui secolari
a tronchi enormi di molte braccia di circonferenza.
Se non che quei cotali, che non son pochi, riescono
quasi incalcolabili in confronto del numero
stragrande che vi ha accumulato e che va sempre
moltiplicandovi l'industria contemporanea, da non
lasciare alcun sito ove se ne trovi difetto. I nostri
terreni gli convengono quasi tutti, e nei pietrosi, che
non abbiano un sottosuolo di dura breccia, si
mantiene più florido e più produttivo. La
propagazione non si fa né per talee né per uovoli
(non comportando cotali mezzi l'aridità estiva del
suolo) ma esclusivamente con ulivastri selvaggi, che
abbiano per lo meno un metro e mezzo di altezza e
3-4 millimetri di diametro alla base, e che vanno a
cercarsi nati spontaneamente tra le siepi e le boscaglie.
La difficoltà poi di far prosperare queste giovani
pianticelle in un campo aperto, soggetto alla
incursione e al devasta-mento degli animali d'ogni
specie, suggerì l'idea di allevarli con sicura riuscita
130
in mezzo ai vigneti. Quindi
nel novembre dell'anno stesso, in cui si pianta una
vigna, vi vengono distribuiti (a regolari intervalli di
4 a 5 metri in quadrato, od in linee parallele, e
spesso alternati col mandorlo) quei piccoli ulivastri,
che si piantano con la trivella accanto alle viti. Non
bisogna per essi alcuna speciale coltura, bastando
loro quella che dàssi al vigneto. Nei primi due anni si
lasciano
convenientemente
attecchire
senza
131
menomamente disturbarli; nei seguenti, quando la
vegetazione ha cominciato a prendere un certo
rigoglio, si ha cura di nettarne il pedale dai rametti
laterali, in modo che cresca nudo e quanto più dritto
è possibile sino all'altezza di quasi due metri,
lasciando che si ramifichi al di là di questo termine.
Quando il tronco principale od anche i due o tre
rami hanno acquistato un diametro di 2 a 3
centimetri (ciò che si avvera più o men tardi
secondo la feracità del terreno) s'innestano a scudo
con quella varietà d'olivo che si ritiene più
produttiva. Tale innesto vien praticato dal 1.°
aprile al 15 maggio tagliando il soggetto all'altezza
d'un metro e mezzo sino a due, e talvolta scendendo
sino a centimetri 75, quando l'ingrossamento del
tronco per anormale vegetazione siasi arrestato a
quel punto. Le più volte per maggior sicurezza si fa
l'innesto ad occhio dormente, ma sempre alla stessa
epoca, tagliando poi il soggetto nella primavera
seguente, e sovente nell'anno stesso alle prime
piogge d'autunno, quante volte la gemma si scorga
attecchita. Mediante l'incalmatura l'albero in breve
tempo è bello e cresciuto, poiché l'innesto svolgesi
più rigoglioso che non suole il soggetto. Però un'accorta
potatura è sempre necessaria per mantenere la ra
mificazione slargata e ben disposta. Così quando il
vigneto ha finito di produrre, il giovine uliveto
trovasi in condizione di poter vegetare senza
disturbo abbandonato a sé stesso. A questo modo il
proprietario nulla risente di spese e di sacrifizio pei
primi anni che l'uliveto è infruttifero; e dopo che il
vigneto è distrutto, le biade raccolte tra gli olivi
compensano ampiamente il travaglio e l'ingrasso che
fosse ancor necessario per educarli.
Delle tante varietà che si coltivano di quest'albero
in Sicilia non sono qui conosciute che le cinque
seguenti:
1. Quella che i nostri contadini appellano col vario
nome vezzeggiativo di Auliva pizzutedda o
Aulivedda pizzuta, e che è la dominante e la più
produttiva. È albero di prima grandezza a chioma
densa e piramidata, foglie lunghe lineari aguzze.
Allega il frutto a grappoli: la drupa è ovale, di
mediocre grossezza, più o meno appuntata con stilo
persistente, verde - giallastra, di rado variante nella
perfetta maturità.
Quella che in Palermo dicesi Auliva ugghiara, ed è
qui denominata Zaituni (voce forse saracinesca). È
la varietà più diffusa e starei per dire quasi unica
dell'agro siracusano; qui però è poco comune e quasi
bandita dalle coltivazioni recenti. L'albero a chioma
attondata acquista dimensioni gigantesche così in
altezza come in larghezza, e si distingue
particolarmente dal mantenere la ramificazione
slanciata e nuda senza succhioni. Ha foglie piccole,
lanceolate, ordinariamente ricurve all'apice, d'un
verde cupo e men lucido nella pagina superiore:
drupe grosse, solitarie, ovali, appuntato - turbinate a
base piana, di color verde, poi nere, molto polpose.
È buona a salare, e a peso uguale di frutti dà più olio
della precedente, sebbene verdiccio; però le sta molto
132
133
al di sotto per la quantità relativa dei frutti stessi e
per l'essere più schiva a produrli. I suoi frutti
soffrono molto degli ultimi calori estivi e, cadendo la
più parte incotti dal sole, son buoni a mangiarsi, ma
riescono gravi allo stomaco.
Aulivedda janca o Auliva janculidda. È a chioma
sparsa, non molto densa: foglie lanceolate, lasse:
drupe subsolitarie, ellittiche o quasi obova-te (con apice
alquanto prominente ottuso) verdi - bianchicce, poi
nerissime, a sarcocarpo molle. Giungono a maturità
prima delle altre. Non è fra noi questa varietà molto
diffusa, benché molto abbondi nel vicino agro di
Noto. Dà buon olio e copioso; ma l'albero non viene
molto grande, ed è molto offeso dai venti freddi. Le
drupe messe in salamoia senz'alcuna preparazione
indolciscono e son buone a mangiarsi dopo pochi
giorni. Le più mature, punzecchiate e messe a soppressa con sale per iscaricarsi del molto umore, si
lasciano alquanto rasciugare al sole, e così
confezionate sono un cibo graditissimo per la tavola.
3.
Auliva raitana. È a chioma attondata: foglie lanceolate lasse: fioritura primaticcia: drupe grosse,
tondeggianti all'apice e di forma quasi obovata.
Fruttifica poco, e ordinariamente, accanto ai rari
frutti perfetti, porta grappoli di frutti abortiti
piselliformi senza nòcciolo. Sarebbe buona per
indolcire; ma si ha poco in pregio per la scarsa
fruttificazione, ed è quasi eliminata e divenuta una
rarità.
4.
Auliva majurana. È albero di prima grandezza, a
chioma tondeggiante, densa: foglie lineari lanceolate, dritte, verdi - cupe nella pagina
superiore, assai incane nella inferiore: drupe
subracemose, grossette, ovato -ottuse, verdi biancheggianti, poi rossastre, finalmente nere. È
rarissima, ma per la mediocre grossezza delle drupe e
per l'abbondante fruttificazione merita venir propagata. Generalmente la varietà seconda è più oleosa,
ma dà olio verdiccio; la prima, la terza e la quinta
danno olio più puro e di color paglino - dorato.
Non si sono però istituiti esatti paragoni tra il peso e
quantità dei frutti di ciascuna con la quantità
relativa dell'olio che ne risulta. Tali confronti, in cui
taluni sogliono cercare un argomento di calcolo, sono
poco concludenti; poiché si sa che la quantità
dell'olio non tanto dipende dalla varietà delle olive,
quanto dalla diversa condizione dei terreni in cui
l'albero vegeta, dalla stagione più o meno piovosa
durante la produzione, dalla fruttificazione più o
meno abbondante...: tutti elementi che non sono
paragonabili con esatta reciprocità. E nella stessa
varietà l'albero carico dà costantemente meno olio di
quello che allegò poche frutta; quello che cresce in
luoghi umidicci o che ebbe il beneficio di piogge
estive, meno di quello crescente in luoghi ed in
tempi asciutti.
Non si dà qui all'olivo una coltura e concimazione
speciale, ma si lascia profittare delle colture e delle
concimazioni che si apprestano di quando in quando
al terreno, in cui vive, per allevarvi delle piante
erbacee, come cereali, fave ecc. Qualche contadino
scava una conca intorno al pedale, che riempie di
concio di stalla e poi zappa e sotterra alle prime
piogge: metodo che sarebbe più razionale, se tale
scavo fosse praticato più a distanza dal tronco che
ordinariamente non fassi.
Non si trascura la potagione; anzi essa da alquanti
anni a questa parte è divenuta piú razionale,
procurando di tener l'albero in modo che vi circoli
liberamente per entro l'aria e la luce. Ciò non fassi a
periodi determinati, ma a misura che lo esiga il
bisogno e la vegetazione più o meno rigogliosa, e
sopra tutto dopo che l'olivo ha dato pieno raccolto.
Più di frequente si ripulisce e rimonda dei seccumi e
dei succhioni. Se gli alberi sono radi, si svettano e si
potano bassi; ove sono affollati, è necessità potar
alto. In generale, gli alberi acquistano una grande
altezza, né si vedono piantagioni basse, come quelle
provenienti dalla propagazione per uovoli o per
talee. Il legno e le frasche, che sono sempre
ricercatissimi (vendendosi ordinariamente il primo a
L. 1,50 per ogni 95 chilogrammi, e le seconde a cent.
30 il fastello) fanno della potatura dell'olivo più un
lucro che una spesa.Quante volte in alcun sito gli olivi
si trovino di soverchio affollati da rubarsi
reciprocamente l'aria e la luce, e sia necessità
diradarli, l'albero che si svelle non va perduto, ma si
trapianta in altro sito, qualunque siano le dimensioni
del tronco a cui trovisi pervenuto. Preparata a tal
uopo, parecchio tempo avanti, una profonda e
spaziosa formella nel nuovo posto che gli si destina,
si abbatte in novembre dopo le prime acque l'albero
designato, scavando e tagliando rasente intorno alla
ceppaia ogni ramificazione radicolare che la tien
fissa al terreno. Abbattuto che sia, si spoglia di tutti i
rami, e lo stesso tronco principale si capitozza alla
lunghezza presso a poco di metri due. Questo
moncone si trasporta e s'infossa nella formella già
preparata, riversando e chiuggando intorno alla
ceppaia la terra estratta senza del tutto riempire il
vuoto per dare accesso all'aria, e lasciandovi una
conca ove possano raccogliersi le acque pluviali;
salvo a colmarlo, e a farvi il rincalzo quando il tempo
delle piogge sia cessato. Quel mozzo tronco pullula in
primavera; ma obbligato ad emettere radici del tutto
nuove e a trarre il nutrimento da questo stentata: però
col tempo supera gli ostacoli e torna ad esser albero.
Quando la terra è soccorsa dalle piogge con una
certa regolarità, gli anni di produzione si alternano.
Ma le piogge in questi luoghi fanno più spesso
desiderarsi, ed allora non è raro vedere interporsi
più anni tra l'una produzione e l'altra, o non avere
alternatamente che una magra fruttificazione.
Le più perniciose influenze meteoriche, che qui
incontri l'olivo, si riducono al vento marino di Est
(Livanti siccu) che ne brucia le cime e compromette
la fioritura, e alle nebbie caldo - umide di maggio
che ne fan cadere scottati e avvizziti i mignoli. Tra
gl'insetti nemici vanno notati la Psylla (Cuttuneddu) i
cui guasti vengono rafforzati dalle nebbie sopradette, e
la Mosca dell'olivo, le cui rovine sogliono in parte
prevenirsi con un raccolto affrettato e prematuro.
La Rogna non è frequente, ma ne sono invariabilmente assaliti gli alberi crescenti intorno all'abitato e
non aventi innanzi a sé il riparo di altri alberi. Per
quanto siasi cercato di rinnovarli col taglio, non si è
riuscito a ringiovanirli. La causa di questo fatto è
tuttora un mistero.
Fassi il raccolto ordinariamente da ottobre a dicembre,
cominciandosi dacché le olive cominciano a mutarsi
da verdi in giallognole. L'altezza, a cui si eleva
l'albero in queste contrade, non consente altro metodo
che quello dell'abbacchiamento, e le olive si raccolgono
a terra principalmente dalle donne, per cui
quell'epoca è una vera festa e una fonte di guadagno.
Le olive raccolte si ammassano ordinariamente a
scoperto negli angoli interni delle case, tenendovele
non più oltre d’una settimana prima di portarle al
frantoio metodo che contribuisce a dar olio di
miglior qualità e di nessun cattivo odore. Per le
grosse quantità, attesa la insufficienza dei frantoi e
strettoi in uso o la difficoltà d'aver locali così
spaziosi da tenervele stratificate e rivoltarle, si
conservano entro camini ossia vasche cubiche a
fabbrica più o meno spaziose, volgarmente Camii,
aperte al di sopra e con canale di scolo al di sotto; ed ivi
si ammassano
si calcano coi piedi, trattenendovele per più d'un mese,
e qualche volta sino alla fine dell'intero raccolto,
quand'esso non vada molto a lungo. Tali conserve
hanno da un lato nella parte mediana uno sportello
chiuso da imposta, donde poi le olive vengono
estratte per la triturazione, ridotte ad una massa
assai fermentata. Fortunatamente sono pochissimi i
costretti a ricorrere a questo mezzo.
e
Il frantoio ed il torchio per macinare le olive e
premerne la pasta, son quelli superiormente descritti
nella Sezione E dell'articolo V. La macinazione si
esegue dapprima senza molto triturare le olive
(primi pasti). Dopo una prima pressione tornano a
macinarsi più minutamente una seconda volta
(secunni pasti) e a ripremersi con più forza:
sempre a freddo. Un uso antico, che ancor si
conserva per le picciole quantità e che può dirsi
veramente primitivo, si astiene di far uso del torchio.
Per esso la triturazione delle olive vien fatta in unica
volta, e la pasta si spreme in una specie di madia
(mastredda) entro un sacco di traliccio da una donna
che salitavi sopra a piedi scalzi lo preme in tutti i
e
sensi
con
tutto
il
peso
della
persona,
frammischiandovi a tre riprese dell'acqua bollente
perché l'olio meglio si strizzi. L'olio e le acque
(criscenti) cadono commisti in un sottoposto barile,
donde il primo, che già sopranuota, viene raccolto di
tratto in tratto da un'altra donna (sirventi) con le
palme giunte.
Non si fanno dell'olio qualità separate, riunendosi
quello quello estratto dalla prima torchiatura con
quello venuto dalla seconda. Ov'è l'uso, non comune
di macinare a tre passate, l'olio della terza spremitura
(ogghiu di nòzzulu) si conserva separatamente ed è di
pessima qualità.
Non si fa uso di filtri, ma si chiarifica facilmente da
sé, e ottenuto il naturale sedimento si travasa.
Solamente per quello della terza spremitura, ov'essa
abbia luogo, si procura la chiarificazione tenendo per
alcun tempo collocati i recipienti in mezzo alle sanze
(nòzzulu).
Si conserva ordinariamente in grandi vasi di creta
di forma obovata ed a larga bocca, denominate
giarre. In quest'ultimi tempi si son pure introdotte e si
van sempre generalizzando le vasche di latta di forma
cilindrica e di doppia e tripla capacità delle giarre.
Il raccolto delle olive e la manipolazione dell'olio, pel
contemporaneo ed affrettato concorso dei molti
proprietari, importa una spesa che assorbe poco
meno della metà del valore prodotto, molto più in
quegli anni, in cui le olive rendono poco olio.
Certamente i nostri ordigni e metodi di estrazione
sono ancor primitivi e imperfetti, né la proprietà
divisa ci consente di affrontare la spesa e l'uso dei
meccanismi e dei processi perfezionati introdotti
con buon esito altrove. Ciò non ostante gli oli
d'Avola, ove fatti con qualche cura, son lucidi, d'un
bel giallo dorato, di buon sapore, e tra i migliori
della provincia, e credo che non meritino d'essere
paragonati agli oli turchi, come portò giudizio il
signor Raffaele De Cesare per quelli esposti da
Siracusa alla mostra universale di Vienna. Essi
vengono
cercati
con
preferenza
da
Messina,
Catania, Siracusa e parecchi altri Comuni di questa
provincia pel commercio interno, e da Malta per lo
straniero.
Di questa medesima famiglia delle oleacee abbiamo
spontaneo in fondo alla Cava - Grande il Frassino
(Fraxinus rostrata. GUSS. = SIC. Fràscianu) che altra
volta forniva legno da lavoro ai nostri carpentieri:
industria poscia abbandonata per la difficoltà del
trasporto da quella profonda valle. Oggi non impiegasi
al più che a trarne i ceppi e le buri pei nostri aratri.
AMIGDALACEE. - Il Mandorlo (Amygdalus
communis.
= SIC. Mènnula) fa degna compagnia all'olivo, col quale
è frammischiato per ogni dove con eccesso di
proporzione. Non ha esso la longevità e la importanza
economica di quello, ma non per tanto, poiché l'uomo è
sempre egoista e pensa a godere senza volgere lo
sguardo alle generazioni che gli vengono dietro, è
tenuto a ragione in maggior pregio, ed ha ottenuto la
preferenza nelle coltivazioni recenti per la sua facilità a
crescere ed a fruttificare rapidamente nei terreni stessi
in cui l'olivo verrebbe stentato e sterile, e pel lucroso
spaccio dei suoi prodotti che costano poca spesa, e il cui
prezzo non è incerto né viene tardo ed a spiccioli come
quello d'altre derrate, ma s'intasca tutto insieme appena
fatto il raccolto.
La propagazione si fa per semi che si sotterrano a dimora in novembre nei vigneti novelli, come si pratica
per l'olivo, ma a distanze meno grandi, preferendo
sempre le mandorle amare che dànno soggetti di legno
più forte e più resistente. Il germogliamento non si fa
aspettare più oltre di un mese, e le pianticelle vengon su
con vigore, giovandosi pur esse dei lavori apprestati alla
vite, né esigono altre cure nella loro infanzia che quella
di farne crescere il pedale diritto e sgombro delle
ramificazioni laterali sino ad altezza orgiale, cioè di 4
cubiti. Al quarto o quinto anno son già cresciute ed
hanno il tronco ingrossato a segno da poter ricevere
l'innesto nell'ultima estremità mantenuta liscia. E questo
vi si pratica da marzo a maggio, e più efficacemente a
scudetto, poiché l'innesto a marza ha dato risultati poco
felici; anzi a maggior sicurezza la gemma dello scudetto
si lascia dormente, tagliando il soggetto nella primavera
successiva, quando si è certi della riuscita. L'innesto
svolgesi rapidamente e non lascia andare più di due anni
a dar frutto. Allora non bisognano altre cure che quella
di rimuovere i succhioni e dare con opportuni tagli una
regolare direzione ai giovani rami, evitando
ulteriormente di toccarli con ferro, tranne di
disbruscarli da qualche seccume. La vigna intanto per
tale consociazione depauperante va gradatamente
deperendo, e dopo la vita di un ventennio lascia in
sostituzione un albereto vigoroso che non sente più oltre
il bisogno di quella compagnia protettrice. Ed ora che il
mandorlo è lasciato a sé stesso, ha raggiunto tale
un'altezza da non poter essere sciupato dal dente degli
animali, né esige una coltura propria, poiché il terreno,
che lo sopporta, non lascia di addirsi, a coltivazioni
erbacee, e le colture e le concimazioni che a queste si
dànno giovano anche ad esso. Dura la sua vita intorno
ad un secolo.
La malattia che più lo contrista è l'orichicco, specialmente quando si approssima alla vecchiaia. Il vento
marino di Est (livanti siccu) ne brucia le tenere vette,
come all'olivo; i geli di febbraio ne avversano spesso
l'allegamento; le nebbie umide di maggio ne scottano
alle volte i teneri frutti.
Il raccolto si fa in agosto appena il mesocarpo ha cominciato a staccarsi dall'endocarpo (a ciaccari). I frutti
si fan cadere abbacchiandoli: metodo di cui non può
farsi a meno per l'altezza dell'albero e la divergenza
dei rami, e che peraltro nella perfetta maturità non
produce molto guasto, non facendosi uso per bacchio
che d'una canna, e cadendo il frutto al minimo urto.
Aspettare che le mandorle cadano da sé, sarebbe un
lasciarle esposte molto a lungo alle ruberie. Le
mandorle si raccolgono, terra dalle donne insieme coi
malli che se ne fossero distaccati. Ufficio delle donne
è pure lo spogliarle dei malli (spicciari), ciò che si
esegue o con le semplici mani se son troppo mature,
o percuotendole leggermente a sbieco con un
ciottolo. Smallate si rasciugano al sole per due o tre
giorni, e i malli si bruciano in una fornacella a fin di
ottenerne il carbonato impuro di potassa molto
ricercato
nel
commercio
interno
per
la
fabbricazione dei saponi molli, e venduto
ordinariamente a prezzi così vantaggiosi da
compensare con usura la piccola spesa del raccolto.
Si distinguono di questo frutto due varietà
principali, quella a endocarpo duro quasi osseo, e
quella a endocarpo fragile, ciascuna delle quali non
solo si suddivide e suddistingue pel seme dolce o
amaro, ma anche per la forma ora bislunga, ora
subovata, ora subglobosa; e queste forme stesse sono
alla volta loro così variate da costituire delle
differenze molto caratteristiche per una metodica
classazione. Nella mia Monografia del Mandorlo' scritta
in occasione dell'Esposizione Agraria di Siracusa io
ne descrissi sino a 752: numero che adesso per
osservazioni posteriori potrei portare al di là di 1000
senza timore che nulla più resti ad aumentarlo.
Obbedendo però alle esigenze del commercio, la
propagazione si restringe a parecchie varietà a
frutto bislungo con endocarpo sottile e semi rossicci:
ciò che alle mandorle d'Avola ha fatto acquistare nel
mercato
il
privilegio
della
precedenza,
e
conseguentemente il vantaggio del maggior prezzo.
Dopo che le mandorle sono acquistate dai primi
negozianti, non possono esser poste nel gran
commercio senza essere spogliate del guscio
(scacciati). E questo è pure lavoro delle nostre donne,
che procura loro una non breve occupazione e un
guadagno non tenue.
Finalmente così sgusciate prendon nome d'Intrita,
e chiuse entro sacchi di canevaccio fan capo al
porto di Messina, donde poi si spediscono in fusti a
Genova, Livorno, Marsiglia, per essere di là
riesportate nel nord d'Europa. Le mandorle, che
da noi si mettono così in commercio, son tutte a
endocarpo duro, e quasi tutte a seme dolce. Delle
amare non si hanno che pochissime quantità. Di
quelle a endocarpo fragile se ne coltivan poche, e si
consumano localmente in famiglia.
Nessuna parte delle mandorle va perduta. I semi, che
si frantumano nello schiacciamento, si vendono ai
dolcieri per farne il torrone ed altre chicche. I gusci
stessi van venduti per combustibile dei forni e delle
fornaci, e compensano le spese dello schiacciamento.
E il detto fin qui parmi che basti intorno a
quest'albero. Rimando alla citata Monografia chi
fosse vago di più minuti ed estesi dettagli.
Albicocco. — (Armeniaca vulgaris. DEC. = SIC.
Cricopu). Quest'albero prosperava bene altra volta
nelle nostre campagne e, di varietà più o meno
buone, cresceva per ogni dove, anche in luoghi poco
custoditi. Da parecchi anni è quasi scomparso, e
qualcuno che mantenga una vita poco stabile in
qualche giardino o vigneto si ammira come una
rarità. Qualunque sforzo siasi fatto a rimetterlo è
riuscito a vuoto: la troppa arsura estiva, l'orichicco,
i venti freddi.... lo fan subito seccare. Viene da seme, e
s'innesta a marza sul mandorlo o a marza ed a occhio
sopra sé stesso. Il suo legno è assai stimato dagli
stipettai, potendo surrogare l'acero.
Pesco. – (Persica vulgaris. = Persicu) e Pesco alberges (Persica levis. DEC. = SIC. Sbergiu). Si allevano
per semplice diletto, venuti da seme o innestati sul
mandorlo, nei giardini e nelle vigne; ma hanno vita
brevissima nuocendo loro con più intensità le cause
stesse che avversano l'albicocco.
Susino – (Prunus insiticia, et P. Domestica. LIN. = SIC.
Prunu tunnu e longu). Se ne coltivano molte varietà,
innestate a marza sul mandorlo, nei giardini e nelle
vigne; ma per mero uso delle famiglie. Anche questi
arboscelli hanno breve durata per causa dell'orichicco,
e spesso si seccano insieme col soggetto, mantenendosi
alquanto più a lungo quelli a frutto tardivo.
LEGUMINOSE. — In questa famiglia avremmo da
mensionare il Carrubbo, che con l'olivo e col mandorlo
costituisce la triade degli alberi preziosamente utili di
queste contrade. Ma poiché esso è poco o nulla
conosciuto in molti luoghi d'Italia ed è perciò
meritevole d'una più lunga illustrazione che non ci è
consentita dalla economia del presente lavoro, mi
riservo di darne una diffusa e speciale monografia alla
fine di questo scritto.
POMACEE. — Pero(Pyrus Communis. LIN. = SIC.
Piru). Non sono scarsi gli alberi di questa specie nelle
nostre campagne, tutti a frutti precoci, venuti da
barbatelle e innestati sopra sé stessi o sul Pyrus
pyrainus. RAF. (SIC. Pirainu) che vegeta spontaneo; ma
la sua fioritura da più anni, attaccata costantemente da
picciole larve, non allega alcun frutto o ne dà pochi e
verminosi. Non essendo un albero da cui si attenda
molto profitto, non gli si dà cura,e va diradandosi di
giorno in giorno.
Pomo. – (Pyrus malus. = SIC. Pumu). Se ne allevano
pochi individui in qualche vigneto per mezzo di
barbatelle; ma i loro frutti estivi sono poco apprezzati,
e i contadini stessi che sanno tirar profitto dalle minime
cose, non ne vanno lieti, essendo forzati a venderli alle
donne ed ai fanciulli a prezzi insignificanti.
Cotogno. – (Cydonia vulgaris. PERS. = SIC. Cutugnu).
Scarso pure è il numero di questi arboscelli e confinato
nelle terre umidicce; ma il frutto almeno è cercato, per
farne quelle confetture che appellansi marmellate, e non
è per conseguenza privo totalmente di lucro. Si propaga
per rimessiticci.
Nèspolo. – (Mèspilus germanica. = Nèspula). Si
trova di rado in qualche giardino per semplice
particolare diletto, innestato sul pero o sullo spino
bianco (Crataegus monogyna. LTN. = SIC. Spinapulici)
che cresce spontaneo.
Nèspolo del Giappone. – (Eriobotrya laponica. DEC. =
SIC. Nèspula di Giappuni). Si è moltiplicato a dismisura
nei nostri giardini, ove raggiunge le dimensioni degli
alberi di prima grandezza, e per le sue foglie coriacee
resiste bene ai nostri inverni; ma spesso alcune larve
lignivore ne tarlano il tronco e ne procurano la morte.
Si propaga per seme, e sovente si migliora con l'innesto
ad occhio. Cresce con grande celerità. I suoi frutti sono
ricercati da tutti i Comuni di questa provincia, e si
vendono cari per la loro precocità, e retribuiscono più
che ogni altro le poche cure che esso esige.
Azeruolo rosso. – (Crataegus Azalorus, eruthrocarpa. W.
= SIC. 'Nzalora russa) e Azeruolo giallo – (Crataegus
aroma. BOSC. = SIG. 'Nzalora giarna). Della prima
specie se ne trovano per la campagna parecchi alberi,
venuti da seme o innestati sul congenere indigeno
Crataegus monogyna, ma a frutti piccoli. La seconda è
soltanto coltivata raramente in qualche giardino.
Non si fa gran caso dell'una e dell'altra menoché dai
fanciulli.
AURANZIACEE. - Ovunque si è potuto trar
profitto d'un filo di acqua, ed anche negli orti a
secco, non si è lasciato di propagare le più
pregievoli varietà di queste piante gentili che ci
sono tanto invidiate dagli abitanti delle regioni
nordiche. Ma sebbene quasi tutte venute da seme o
innestate su l'arancio forte, non hanno potuto sottrarsi alla dominante malattia della gomma, ed or si
trovano alquanto decimate. Quello che più ha
sofferto da questo male è stato il limone, e quello
specialmente del gruppo limetta: quasi nulla o poco
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l'arancio. L'innaffiamento si fa per infiltrazione, e si
seguono pel di più i metodi di coltivazione usati
comunemente. Dei prodotti, oltre quelli che si
consumano localmente e che si esportano nei vicini
comuni della provincia, molta ricerca venne fatta in
questi ultimi anni pel commercio straniero, perché
trovati più propri a conservarsi ed a reggere nei
trasporti.
IUGLANDEE. - Il noce (fuglans regia. LIN. =
Nuci). Non pochi alberi se ne avevano in passato
nei luoghi umidi: oggi è quasi scomparso da
quest'agro come da quel di Noto per la frequente
ricerca che hanno fatto del suo legno gli stipettai.
Esso peraltro occupa molto con la sua larga e folta
chioma, e non può aversi premura di riprodurlo
ov'è scarso il terreno per culture più utili. Si propaga
per semi.
GRANATEE. - Melogranato (Punica granatum. LIN. =
SIC. Ranatu). È molto coltivato così nei giardini
come nei terreni freschi lungo l'Asinaro, e in
ambedue le varietà dulcis et acida (SIC. Ranatu duci, e
ranatu aìfi). Il suo frutto è mol to ricercato dalla bassa
gente e rende buon profitto all'agricoltore. Se ne fa
maggiore ricerca e maggior consumo negli anni di
raccolto delle olive, giacché ogni raccoglitrice (e
queste sono migliaia) si fa provvista ogni mattino di
un soldo di melagrane pria d'avviarsi al lavoro. Si
propaga per rimessiticci e per talee. S'innesta sopra
sé stesso ad occhio ed a marza.
MOREE. - Gelso bianco e nero (Morus alba, et nigra.
LINC. = SIC. Cèusu jancu e nìuru). Ambidue sono
lentissimi a crescere, e appena se ne trovano rari
individui nei giardini irrigui e negli orti secchi, ed è
pel solo frutto che si mantengono.
Fico. (Ficus carica LIN. = Ficu). Quest'albero
abbonda in tutti i terreni longo il littorale, ove il
clima fa contrasto ad ogni altra coltivazione
arborea; ma tranne la varietà dottata, ogni altra
lascia cadere i frutti immaturi e scottati dal sole,
salvo i pochi, accessibili alla mano dell'uomo, che il
contadino riesce a far maturare schiudendone
l'orifizio con un punteruolo e introducendovi una
goccia d'olio perché non si richiuda: pratica
tramandataci dagli antichi Egizi e che assegue il suo
fine meglio della caprificazione di cui qui non fasci
uso. È quindi una coltivazione di poco o nessun
tornaconto per noi. Propagasi per rimessiticci e per
talee.
TEREBINTACEE. - Pistacchio (Pistacia vera. LIN. =
SIC. Pastuca). Un dilettante si provò ad innestarla sul
Terebinto (Pistacia terebinthus. = SIC. Scornabeccu)
che cresce spontaneo nelle nostre colline, e n'ebbe
buon esito; ma le piante rimasero nane e poco
sviluppate, e l'esempio non èstato seguito. Il Lentisco
(Pistacia lentiscus. = SIC. Listincu), che pur trovasi
rado in qualche siepe, non è adoperato ad altro utile
che a farne legna da bruciare insieme col terebinto. Gli
stipettai cercano qualche volta i grossi tronchi di
quest'ultimo, che hanno il legno centrale elegantemente marmorizzato.
ALBERI BOSCHIVI. - Quantunque ogni parte del
territorio sia stata occupata con alberi fruttiferi,
tuttavia qualche sito assolutamente negato alla
coltura ne offre parecchi altri spontanei o quasi
spontanei, che sebbene non producano frutti
esculenti, non sono del tutto inutili all'industre
colono. E a completare la recensione delle piante
arboree faremo, come sopra avvertimmo, concisa
menzione anche di questi, secondo le naturali
famiglie alle quali appartengono.
LAURINEE. - Alloro (Laurus = Addàuru).
Se ne hanno parecchi alberi negli orti, facendosi uso
delle foglie per aromatizzare vivande e frutti secchi
che si conservano.
RAMNEE. - Alaterno (Rhamnus alaternus.
LIN. = SIC. Alberu di Giuda: nome improprio che
spetta piuttosto al Cercis). Abbonda nelle colline. In
qualche giardino si è introdotto il Giuggiolo
(Zizyphus vulgaris. W. = Curnèbbia) indigeno
della Siria, ma ovvio nel mezzogiorno di Sicilia, i cui
frutti si mangiano dai fanciulli.
ULMACEE. - Olmo fungoso (Ulmus suberosa,
arborea. W. = SIC. Urmu). Vedesi rado, e il suo
legno è molto ricercato dai carradori. I contadini
adoprano la corteccia pesta a farne cataplasmi
nell'enfiagioni della pelle degli animali.
SALICINEE. - Salcio gentile (Salix fragilis.
LIN. = SIC. Sàlacu) e la Sàlica (Salix
pedicellata. DESF. = SIC. Sàlacu niuru):
entrambi crescono nelle ripe fluviali, e sono adoprati
pel legno.
Il Pioppo. — (Populus nigra. =
Àrbanu) trovasi
frequente nelle ripe dei fiumi e in altri luoghi umidi, e
fornisce col suo tronco le panche degli strettoi, ed
assi e travicelli per molti usi campestri. E il Gàttice
(Populus alba. LIN. = SIC. Arbanu jancu)
radissimo in qualche valle, è impiegato agli stessi usi del
precedente.
CUPULIFERE. - La quercia (Quercus pubescens.
W. = Cersa) rarissima; più comune l'Elce (Quercus
ilex.=SIC. Ilici) che cresce nelle valli: impiegato il
legno d'entrambi alla costruzione di vari attrezzi
campestri, e talora a farne carbone.
Il Carpino nero. – (osttya catpinifolia. SCOP.)
Se ne trovano due soli individui separati da lunga
distanza in due valli, e sembrano fuor di patria.
CELTIDEE. - Il Fraggiracolo (Celtis australis.
UN. = SIC. Favaraggiu). Il suo legno è molto
stimato dai carpentieri, e delle sue verghe pieghevoli si
giova pure l'agricoltore per vari attrezzi. I frutti fanno
la delizia dei fanciulli. Cresce ostinatamente ovunque
cada un seme.
ABIETINEE. - Il Pino di Aleppo (Pinus
halepensis. MILL. — SIG. Mpignolu sarvaggiu).
Trovasi tra le rupi in un sito della Cava Grande.
CUPRESSINEE. - Il Cipresso (Cuprèssus
sempervirens. UN. = SIC. Nuci - persu e Nuci cattiva). Pochi individui restano di quest'albero. Se
ne avevano dei secolari e giganteschi, degni di
mostrarsi come meraviglie della vegetazione pel
tronco dritto di molte braccia di circonferenza; ma
per l'insistente ricerca degli stipettai da una parte, e
per la sordida avarizia dei proprietari dall'altra
vennero tutti abbattuti e fu un peccato!
PLATANEE. - Il Platano d'Oriente (Platanus
orientalis
= Ciuppu o Ddurbu). Cresce lungo le rive del
Cassibili,e il suo legno suole surrogarsi a quello del
Faggio per la costruzione di seggiole: serve pure a farne
varie parti del nostro aratro.
- PALME. - (Phoenix dactylifera. UN. = SIC. Parma).
Vive bene in queste regioni, e se ne hanno individui a
caùdice altissimo ed a spàdici feminei pesanti molti
chilogrammi, ma coi datteri abortiti per difetto di
fecondazione, ché non si è tentata artificialmente
secondo l'uso degli Arabi.
Palma di S. Pietro Martire (Chamaerops humilis. UN. =
SIC. Giummara). Questa pianta oltre di fornirci le
scope e le corde, ha oggi acquistato maggiore
importanza per la fabbricazione del crino vegetale di
già introdotta nella Casa Penale di Noto: 8 industria
nuova da quasi disgradarne quell'altra qui praticata
ab antico sull'Ampelodesmos tenax. LINK. (SIC.
Liama, Disa), che dà occupazione lunga e guadagno
alle nostre donne per la fornitura del sartiame (sartiami) alle vicine Tonnare. Di questa palma è anche
148
uso mangiare nella notte di Natale la tenera polpa del
caùdice (rafaggiuni), e gli spàdici non ancora sviluppati
(safaggioli).
Altri arbusti, e frutici, e suffrutici di minor conto
offrono pure le nostre terre, ed è prezzo dell'opera
chiudere questo articolo con l'indicazione degli usi
principali che se ne fanno.
La Ginestra spinosa (Calycotome infesta. GUSS. = SIC.
Alastra), la Spina Christi (Lycium europoeum. UN. =
SIN. Spina Santa), il Rovo (Rubus dalmaticus. DEC. =
SIC. Ruvettu), e la Rosa di macchia (Rosa sempervirens.
LIN.) servono a garantire d'una siepe spinosa le mura
di cinta dei vigneti, e spesso in loro vece si fa anche
uso dei fusti corimbosi dello scardiccione
(Kentrophyllum lanatum. DEC. = SIC. Saittuni), dei rami
dell'asparago pètreo (Asparagus acutifolius. =
Spàraciu niuru), e della pimpinella spinosa (Poterium
spinosum. LIN. = SIC. Aròciuli). Coi rami secchi e
cedevoli dell'asparago bianco (Asparagus albus.Sparaciu
jancu) si fanno come fu detto nell'articolo V. le
granate (ariviggz) per vigilare il frumento nell'aia.
Dalla mazza di S. Giuseppe (Nerium oleander. UN. =
SIC. Lànnaru) si traggono pali per le vigne ed anche
piccoli cerchi per tinelli e secchie. Le verghe
pieghevoli del pepe dei monaci (Vitex Agnus castus.
UN. = SIN. Làcanu), artisticamente intrecciate con
strisce di canna, adopransi generalmente a costruire
panieri e corbelli pei vari usi agrari. Con le radici
peste della ditti-nella (Daphne Gnidium. LIN. = SIC.
Varracheddu) miste a quelle della tàssia (Thapsia
garganica. LIN. = SIN. Tassu) avvelenansi talvolta le
acque dei fiumi presso la foce, e se ne ottiene una
pesca abbondante. Dalle radici della regoli-zia
(Liquiritia MOENCH. = SIC. Niculizia) si tirava
altra volta per uso medicinale l'estratto condensato
conosciuto in commercio sotto nome di pasta di
regolizia, e sullo scorcio del 1851 se ne era qui
stabilita una fabbrica che dava ottimi lucri; ma quel
farmaco essendo caduto in desuetudine e il
commercio non facendone più ricerca, convenne
sopprimerla verso la metà di gennaio 1852 dopo la
breve durata di poco più di tre mesi. Il rosmarino
(Rosma-rinus officinalis. = Rosamarina),
la
salvia
(Salvia
triloba. LIN. FIL. = SIC. Sarvia), i fiori del sambuco
maggiore(Sambucus nigra. UN. = Sàucu), e l'absinthium
arborescens. MOENCH. (SIC. Erva janca) servono ad
usi medicinali e aromatizzanti. Della mortella (Myrtus
communis. SIC. Murtidda) si mangiano le bacche
mature. Del ricino (Ricinus communis. = SIC.
Pintaràttula) che cresce abbondante lungo le rive dei
fiumi, vengono spesso cercati e raccolti i semi per
uso medicinale. Il cappero (Capparis rupestris.
SMITH. = SIC. Ciàppara) non cresce in tale
abbondanza da poter trarre alcun partito dai suoi fiori
in boccia per confezionarli in aceto ad uso culinare. I
fusti secchi dell'arresta - bue (Ononis ramosissima. DESF. =
SIC. Pulicara), del Tamerisco d'Africa (tamarix africana.
DESF. = SIC. Auruca) della Flomide (Phlomix fruticosa.
LIN. = SIC. Sarviuni), del teucrio fruticoso (Teocrium
fruticans. = SIC. Cacauceddu), della santoreggia (Thymus
capitatus. HOFFM. et LINK. = SIC. Sataredda), della scopa
florida (Erica peduncularis. PRESL.Pinnintuli), del titimalo
arboreo (Euphorbia dendroides.
f LIN. = SIC. Maccarruni), del fagiudo della Madonna
(Anagyris oetida. LIN. = SIC. Nnaccaredda), dell'erba
cornetta (Coronilla Emerus. LIN. = SIC. Giarsiminu
giarnu), dei cisti (Cistus creticus, salvífolius, et
Monspeliensis. LIN. SIC. Ruseddi), della Lavatera olbia.
LIN., ed anche di parecchie delle specie precedenti,
sono spesso raccolti in massa per combustibile non
solo dai fornaciai, ma anche da vecchi contadini, che
divenuti impotenti ad un lavoro più grave, sí
occupano a legnare. Sopratutto poi è ricercata e
raccolta per bruciarla nei forni la barbosa (Passerina
hirsuta. LIN. = SIC. Sulfalora) per la proprietà che essa
possiede di accendersi nello stato verde. Il pomo di
Sodoma (Solanum sodomeum. LIN. = SIC. Pumu spinusu)
forma di tratto in tratto l'ornamento delle siepi, senza
che alcuno ardisca toccarlo.
i Sotto il nome di Maiorca alcuno ha creduto ed anche scritto che sia designato tra noi il Secale cereale.
È stato questo un errore: il Secale non si è mai coltivato in questa provincia, e credo che non si conosca
affatto in Sicilia.
Quali sono principalmente lo spino bianco (Cnicus syriacus. W. =
Spina
janca),
lo scardiccione (Kentrophyllum lanatum. DEC. = SIC. Saittuni), la carlina (Carlina lavata. TEN.
Mazzacugiutta), le scarline (Galactites tomentosa. Duc.), l'erba dolce (Centaurea melitensii. LIN, = Sic. Vava
di cuniggiu), il cardo santo selvatico (Carduncellus tingitanus. Guss. Cardu binirittu), la Centaurea nicaensis.
(Sic. Buttuna d'ora) ecc. E similmente lo scolimo (Scolymus grandiflorus. DF.SF. = Sic. Scòddiu), la spraggine selvaggia (Pallenis spinosa. H. CAss.. Occi
di trama), la lappola (Orlava platycatpos, KOCH. SIC. Rizzareddt) ecc. ecc.
Quest'uso seguito in Siracusa e forse da per tutto in Sicilia di raccogliere simultaneamente le piante
maschie e le femmine è riprovato dall'arte ben intesa, perché i maschi, quando han cessato di fiorire,
dànno una filaccia assai più bella che non la grossolana fornita dalle femmine. Ma è d'uopo considerare
che i nostri canapi son tutti destinati a farne cordaggi e canevacci, in gran parte per usi agrari ove si cerca
più la resistenza che la finezza. E ciò sia tema di scusa se non si segue il processo molto impacciante e
dispendioso di svellere ad uno ad uno gl'individui maschi senza far danno ai femminei.
4
Sarebbe mai questa frase vernacola un'alterazione di lasciarli a menzione, quasiché quei sarmenti
fossero un ricordo della propaginazione da farsi in quel sito? Mi confondo a trovare una spiegazione più
plausibile.
Questo articolo fu poi riprodotto dallo stesso autore nei suoi Annali di Agricoltura per la Sicilia, Nuova
Serie, vol. II, pag. 156 e seg., e inserito per ben due volte nella Gazzetta delle Campagne di Firenze, Anno 8,
pagina 133 e seg., ed anno 12, pagina 13 e seg. Anche un brano ne venne pubblicato nell'Economista di
Roma a pag. 114. La Direzione di quest'ultimo giornale, mostrandosi compresa di meraviglia che tale
coltura un tempo qui prosperante per l'estrazione dello zucchero trovisi oggi quasi abbandonata, usciva a
domandare: perché non potrebbe esser promossa e resa altra volta fiorente? Questa idea di riprendere in Sicilia
cotale industria, assai prima dei pomposi progetti del reduce dall'America signor Valtellina, e prima
ancora che fosse venuto a propugnarla personalmente nel 1854 il signor Second tornato anch'egli
dall'America, era stata vagheggiata in diversi scritti dei nostri come il primo dei progetti di
miglioramento agrario, ed aveva esercitato le occupazioni dei nostri Consigli provinciali. Quello di Noto,
che vi prendeva maggior interesse per la vicinanza delle antiche memorie, aveva proposto un premio di
ducati 6000 (L. 25,500) a chi avesse stabilito una fabbrica in grande di zucchero estratto dalle canne indigene
siciliane: qual premio dovea pagarsi in quarta parte dalla provincia in cui si fosse stabilita la fattoria,
ripartendosi la rimanente somma in parti uguali su le altre provincie siciliane. E già per incarico
superiore si era data notizia di ciò a tutti i Consigli generali delle altre provincie, e quelli di Palermo, di
Catania e di Trapani avevano emesso il loro voto adesivo nella sessione del 1842. Intanto il Ministro
dell'Interno avendo incaricato il R. Istituto d'Incoraggiamento a formulare un programma analogo alle
vedute del Consiglio proponente, la Classe Rurale, cui ne venne commesso il lavoro, volle prima
assicurarsi della convenienza dell'impresa e si diresse alle Società Economiche, invitandole con
foglio del 15 maggio 1843 a raccoglier notizie dai luoghi, ove dopo il generale abbandono la
canna da zucchero si fosse continuata a coltivare per particolare speculazione od anche per
semplice diletto. Le chieste nozioni riuscirono tali da non indurre fiducia che potesse tornar
utile la ripristinazione di quella coltura. Anch'io ne fui richiesto in quella occasione, e più
tardi nel 1850 dall'Intendente di Noto, a cui aveva fatta illusione un'opera voluminosa
pubblicata in senso favorevole dal signor Gaspero Vaccaro nel 1826; ma le mie risposte non
potevano non confermare sempre più l'infruttuosità e i pericoli dell'impresa. E poiché la
questione sempre rinasceva, io per allontanare una volta dalla Sicilia o almeno da questa mia
patria quell'incessante rimprovero d'inerzia, di cui molti non lasciavano di gravarla con le
loro corrive utopie, estesi e posi in miglior ordine i miei pensamenti su la materia e li feci di
pubblica ragione in una lunga Memoria che venne inserita nel vol. III, (1853)
dell'Empedocle, Giornale di Agricoltura e d'Economia Politica di Palermo pag. 113-156. Io
rimando a quello scritto quanti sono ancor sedotti da quella speciosa idea: dirne più oltre in
questo luogo non mi viene consentito dalla economia del presente discorso.
Spiegazione della Figura 9.., la quale dimostra il modo come si dispone il terreno per la
coltivazione della canna da zucchero.
A. Canali d'irrigazioni. – B. Furra di testa. – e Aiuole. – D. Furra. – L. Scala di Furra. – t.
Scala di 'mmenzu. – G. Mussùra. – a. Vracalettu. – ....Gruppi della piantagione.
7
Monografia del Mandorlo comune, sua storia e sua coltivazione in Sicilia, per Giuseppe Bianca.
Palermo, Stamperia di Giovanni Lorsnaider, 1872.
Vedi nel Giornale L'Agricoltura Italiana, anno II, pag. 8, la breve esposizione che fece di tale
industria il sig. Corrado Avolio.
VIII. - PRATI
Anche dove la condizione dei luoghi non si presta alla
pastorizia, com'è il caso del nostro territorio,
l'agricoltore non può fare a meno di animali da soma
che l'aiutino e gli forniscano comodo coi loro servigi
nelle varie operazioni campestri e sopra tutto nei
trasporti. Ma perché essi sopportino lo stato di schiavitù
a cui sono ridotti e secondino volentieri con le loro
forze la vita attiva di lui, non solo fa d'uopo trattarli
con dolcezza, ma porger loro una nutrizione sana,
sempre sufficiente e ben regolata. Si sa che fan meglio
per essi i foraggi secchi, e poiché la sola paglia dei
cereali non è sempre gradita, è necessario avvicendarla
di tratto in tratto col fieno che offre un alimento più
sostanzioso e più propizio. La mancanza inoltre di larghe pasture non può escludere del tutto dai lavori
agrari il bue, sia che esso mantengasi in poco numero
localmente, sia che facciasi pascolare altrove e venga
richiamato sul luogo al tempo delle arature. E intanto
il bue, per quanto appetisca meglio il foraggio verde,
bisogna nutrirlo di secco nella ricorrenza dei lavori,
poiché dopo il mese di maggio non rimane nelle nostre
campagne un sol filo d'erba verde, e inoltre non
potrebbe pasturare mentre sta sotto il giogo. È
indispensabile dunque anche per esso in tal caso una
larga somministrazione di paglia e di fieno che gli ristori
le forze a continuare i lavori. E l'uguale regime
alimentario gli è pure necessario nei giorni piovosi, e
quando i pascoli stessi per lunga siccità facciano difetto.
Conosciuta dunque la necessità di aversi del fieno, e
non potendo questo ottenersi da prati artificiali di
piante estive che sono qui impossibili, sarebbe
imperdonabile trascuraggine il non cercare di trarlo dai
prati naturali annui, i quali essendo alimentati da scarse
piogge invernali, hanno sopra i prati artificiali il
vantaggio di non potere comunicare alle piante
spontanee che li compongono, parti acquose e sostanza
verde in molta abbondanza, cosicché vi si trovino in
maggiore misura le parti gommose e zuccherine.
Si ha quindi ciascun anno da ogni proprietario la cura
di consacrare a ciò una parte della sua possessione,
quella cioè che meglio prometta una buona riuscita per
la maggior fertilità del terreno e in vista dello spontaneo
germogliamento di numerose piante pratensi, capaci di
venire ben nutrite e di tallir molto. In questo
veramente non havvi intervento dell'arte, non scelta di
specie, né si esercita sul terreno alcun lavoro di
preparazione, ma da quella riunione di erbe indigene, di
cui la natura stessa semina i grani, è dimostrato dalla
esperienza che ne risulta il fieno più fino, più appetitoso,
più profittevole, ed un nutrimento che seconda meglio le
funzioni digestive, cosicché uno scrittore, che non più
ricordo, non si peritò di chiamarlo la teriaca degli
animali con felicissima espressione. Naturalmente infatti
le migliori leguminose son quelle che d'ordinario vi
abbondano, delle quali chi volesse conoscere come sia
ricca la nostra flora prativa, può farsene certo
dall'elenco seguente che diamo in ordine alfabetico
Biserrula pelecinus. L.
Coronilla scorpioides. Koch.
Hippocrepis unisiliquosa. L.
Krokeria oligoceratos. Moench.
Lathyrus annuus. L.
–
Aphaca. L.
−
Cicera. L.
−
Gorgoni. P arl.
−
Pseudo-aphaca.Boiss.
−
Sphoericus. Retz.
− Tenuifolius. Desf.
Lotus ornithopoioides. L.
Medicago ciliaris. Willd.
Circinata. L.
−
Elegans. Iacqu.
−
Gerardi. Dec.
−
Histrix. Ten.
−
Lappacea. Lam.
−
Lupulina. L. Maculata. L.
−
Murex. W.
−
Muricata. W.
−
Muricoleptis. Tin.
−
Olivaeformis. Guss.
Orbicularis. All.
Scutellata. All.
Trifolium Scabrum. L.
–
Spumosum. L.
−
Squarrosum. L.
−
Stellatum. L.
−
Suaveolens. W.
−
Subterraneum. L.
–
Medicago Sphoerocarpa. Bertol.
−
Terebellum. W.
−
Tornata. W.
−
Tribuloides. Lam.
−
Truncatulata. Gaertn.
Tuberculata. W.
− Turbinata. W.
− Melilotus infesta. Guss.
–
Italica. Desr. Parviflora.
Desf.
– Sulcata. Desf.
Ochrus
Pers.
Scorpiurus subvillosa. L.
Tetragonobus puOureus.Moench.
Trifolium angustifoliutn. L.
Campestre. L.
Cherleri. L.
Flavescens. Tin.
Fragerum. L.
Glomeratum. L.
Incarnatum. L.
−
Intermedium. Guss.
Lappaceum. L.
−
Nigrescens. Viv.
Répens. L.
− Resupinatum. L.
Vicia Dasycarpa. Ten.
– Gracilis. Loisel.
− Hirta. Balb.
− Hibrida. L.
− Leucantha. Biv.
− Monantha. Desf.
−
−
−
−
−
−
Suffocatum. L.
- Peregrina. L.
–
Tomentosum. L.
- Sativa. L.
Vicia Bierbesteini. Guss.
- Spuria. Raf.
–
Bythinica. L.
Vulneraria heterophilla.Moench.
–
Cordata. Wulfen. – Tetraphilla. Guss.
–
Cotali specie, che sono sempre le dominanti, oltre di fornire
agli animali il più gustoso degli alimenti, offrono pure il
vantaggio di lasciare sul campo una benefica calorìa, come quelle
che per la loro costituzione fisiologica assorbono poco dalla terra
e molto dall'atmosfera. Né valgono ad impedirne il doppio effetto
le poche graminacee che vi si trovano frammischiate e che
d'ordinario riduconsi alle seguenti:
Anthosanthum odoratum. L.
Lagurus ovatus. L.
Avena barbata. Brot.
Lolium multiflorum. Gand.
– Sterilis L.
–
Perenne. L.
Brachypodium dirtachyum.R.et S.
Phalaris minor, Retz.
– SilvaticumR. et S.
–
P a r a d o x a . L .
Brida maxima. L.
Serrafalcus macrostachys. Parl.
Cynosurus echinatus. L.
– Mollis. Parl.
Gastridium lendigerum. Gaud. - Lanceolatus. Parl.
Hordeum murinum. L.
Scoparius. Parl.
Koeleria phleoides. Pers.
Triticum villosum. P. de B.
Uniscansi alle sopradette queste pochissime cicoracee:
Cichorium intybus. L.
Hedypnois eretica. W.
–
Mauritanica. W.
–
Tubaeformis.Ten.
–
Picridium vulgare. Desf.
Picris echioides. L.
Sonchus oleraceus. L.
A s p e r .
L .
Metabasis aethnensis. Dec.
– Tenerrimus. L.
– Cretensis. Dec. Urospermum picroides. Desf.
Ed avrassi tutta la serie delle piante sociali più comuni
che costituiscono la trama dei nostri prati.
Certamente non può dirsi che non facciano irruzione
tra queste anche delle erbacce inutili e non adatte al
dente e al gusto degli animali: è un inconveniente che
neppure può essere evitato con la più diligente solerzia
nelle stesse coltivazioni meglio governate, poiché la
natura, più potente dell'uomo, semina da indifferente
per conservare le sue molteplici specie e non per
provedere ai soli bisogni di lui. Ufficio del coltivatore è
sempre quello di adoperarsi a rimuovere quanto non fa
pel suo scopo, e che impaccia l'opera sua e ruba il
nutrimento a ciò che ritiene come sua propria creazione.
E questa sopraveglianza non è neppure trascurata sui
nostri prati, giacché si ha cura sin da principio di
nettarli dalle piante spinose non ancora tallite, come il
cardo scolimo (Myscolus megacephalus. CASS. = SIC.
Scòddiu), l'erba dolce (Centaurea melitensis. = Vava
di cuniggiu), la Spràggine selvatica (Pallenis spinosa
DEC. = SIC. Occi di crastu), le scartine (Galactites
tomentosa. DEC. = SIC. Spina janca), lo scardiccione,
e si conserva al bisogno.
(Kentrophyllum lanatum. DEC. = SIC. Il fieno si computa
detto
dei
cereali.
Saittuni)...e il contadino scarta e lascia in piedicostituiscono un ma
al tempo della falciatura, o miete e getta via,migliaio.
quelle che s'incontrano a fusto duro, come il capo bianco
maggiore (Daucus maximus. DESF. = SIC. Vastunacazza
sarvaggia), il fior d'oro (Pinardia coronaria. DEC. = SIC.
Maia), il cavolaccio (Rumex pulcher. LIN. = SIC.
Lapazza), la buglossa a foglia di piantaggine (Echium
plantagineum. L. = SIG. Lingua di voi), il guaraguasco (Verbascum sinuatum. L. =Cèrivi - cèrivi), il rindòmolo (Ammi majus. L. = SIC. Sponsa), ecc., ecc. È poi un
gran favore compartito ai nostri prati dal non
eccesso di umidità il trovarsi quasi esenti da piante
nocive, e singolarmente dalle tante specie del genere
ranunculus così comuni nei siti umidi. Appena
talvolta occorre qualche pianta di fico d'inferno e di
peglio (Euphorbia helioscopia - Eup. peplis = SIG.
Maccarruneddu), e queste, più che le precedenti,
vengono anch'esse lasciate da parte nella falciatura.
Un solo inconveniente potrebbe notarsi, che i
vegetabili diversi, onde risulta questo amalgama dei
nostri prati, non potendo fiorire e raggiungere la
perfetta maturità in uno stesso tempo, non può
cogliersi per la loro falciatura quell'istante preciso, in
cui i succhi nutritivi accumulati nelle foglie e nei
fusti stiano per essere sacrificati allo svolgimento
del grano. Ma in questo clima tale inconveniente è in
parte eluso dai precoci calori estivi, che non mettono
molto intervallo tra la fioritura delle diverse specie, e
in parte si evita col falciare appena fiorite le più dominanti, e al momento ch'esse montano in grano. Con
simili accorgimenti la falciatura viene eseguita più o
meno tardi nel corso di aprile. L'erbe falciate si
lasciano spiegate sul terreno a striscie parallele
(camèri). Dopo che il sole ne ha prosciugato la faccia
superiore, si rivoltano dall'altra col semplice mezzo
d'una canna che si sottopone di tratto in tratto al
lato superiore della striscia e sollevandola la rovescia
senza punto scomporla. Ottenuto il riseccamento anche
da questa parte, il fieno si avvoltola in rotoli, e si
fascia in covoni: operazione che si ha l'accorgimento
di eseguire nelle ore mattutine, perché l'erbe pel
fresco della notte essendo allora più cedevoli si evita
di frantumarne e sciuparne la maggior parte sotto la
pressione della legatura. Poscia senz'altro si trasporta
nel fienile e si conserva al bisogno. Il fieno si computa
a mazzi, come abbiamo detto dei cereali. Venti
covoni (regni) costituiscono un mazzo: cinquanta
mazzi un migliaio.
162
IX. - QUADRUPEDI ED UCCELLI DOMESTICI
Gli animali domestici a dritto ed a ragione sono da riguardarsi come il cardine e, il sostegno d'una
agricoltura bene intesa, e noi nel capitolo precedente ne
abbiamo
confessato
per
quest'agro
l'assoluta
indispensabilità, se non di tutti, per lo meno di alcuni.
Or ci è debito far conoscere con più dettaglio quali
specie vi trovino posto utile e adatto, e quali vi si sono
voluti introdurre e mantenere in contrarietà manifesta
delle locali condizioni.
PACHIDERMI. - Asini (Equus asinus, L. =
Sceccu). –Il contadino bracciante, che deve sudare sul
lavoro da mane a sera, giustamente rifugge dal recarvisi
e ritornare a piedi per non sciupare in precedenza le
forze sue e non estenuarle d'avanzo quand'esse sono
fiaccate. Egli a tale scopo sta contento d'avere un'asina;
e poiché quasi tutti hanno figli, e questi sin dall'età
puerile cominciano il tirocinio dell'arte paterna, anche
per essi sentesi il bisogno d'essere provveduti d'una
simile cavalcatura, cosicché in ogni famiglia di
braccianti è difficile che non si allevino sino a due o tre
asine. Il numero quindi di questi animali da basto
supera quello d'ogni altra specie. Di essi vien preferito il
sesso femminile perché più paziente e più docile: del
maschile, irrequieto e caparbio, sono rari gli esempi.
Non sí fa per altro molto caso della perfezione delle
forme, bastando che siano forti e reggano a portar
qualche soma e sopratutto ogni giorno il padrone
lentamente all'andare e di tutta fretta al ritorno,
ché non è a dire com'esso si affretti a ritirarsi sul
tramonto in famiglia e fare il suo pasto serale, quanto
si mostra maliziosamente pigro nel recarsi il mattino
all'opera. La sua refezione serale deve essere così
immediata al suo smontar da cavallo, che l'uffizio di
levare all'asina il basto e di legarla alla mangiatoia è
lasciato alla moglie o ad alcuna delle figlie.
È poco oneroso al contadino il mantenimento di
questi animali, poiché indipendentemente dall'essere
i medesimi frugali e poco schizzinosi di lor natura,
contentandosi anche di rosumi delle profende altrui,
nel giorno si lasciano a pascolare, e il proprietario,
che fa eseguire il lavoro, è tenuto a somministrare
una chiudenda a tale uso o pagare un ragazzo che li
guidi a pascolare per le vie; ed è poi raro che sul
posto del lavoro o nei dintorni il bracciante non
trovi da raccattare una qualche bracciata di
gramigna e di altre erbe pel pasto della notte a
risparmio dei foraggi secchi, di cui ciascuno non lascia
di avere una discreta provvisione. Per quanto però
questo animale sia ben trattato dal suo padrone
finché gli presti servizio e mantenga le forze, per
altrettanto è fatto segno ad ogni sorta di tribolazioni
quando vien meno per istanchezza, o per l'età. Dato
il caso che allora cada sotto il peso e non possa o
stenti a rialzarsi, comincia a caricarlo delle più
villane ingiurie, chiamandolo vile, poltrone,
assassino..., e quello lascia dire e forse prova per un
momento il piacere di far soffrire un po' di disgusto
a chi tanti ne ha dato a sé. Ma dopo le parole
seguono i calci e le bastonate da far venire i brividi
ad un pietoso adepto delle Società Zoofile che si
trovasse presente; e non è raro il caso che lo lasci morto
sul terreno ed egli, pentito ed umiliato, se ne torni a
casa col basto e le bisacce sulle spalle a riceversi
gl'improperi e le invettive della moglie desolata.
Vuolsi anche notare, che ogni nostro contadino
avendo in proprietà ordinariamente una sola stanza,
e questa non ampia e per lo più con l'altezza
tramezzata da un picciolo solaio di canne destinato a
conservarvi i foraggi secchi, non è spazio in essa che
resti vuoto, e l'uno o i due tre letti della famiglia, il
focolare, la mangiatoia per gli animali, un posto
indispensabile per le galline, un cantuccio ove
riporre qualche arnese e le legna, la occupano e
riempiono in guisa che ogni cosa vi sta a contatto e
quasi arruffata. E a questo proposito non so tenermi
di narrare un aneddoto avvenuto nel mio vicinato.
Una volta nelle feste del carnevale la moglie di un
contadino aveva posto a friggere nella padella un
rocchio di salsiccia. Tornato dalla campagna il marito, la di lui asina fu legata alla greppia, che era
immediata al focolare; e quella bestia, probabilmente
attirata dall'odore della frittura, stese il muso ed
afferrò la salsiccia prima che la donna se ne
accorgesse. Ma indipendentemente da simili
accidenti, ognuno può comprendere quanto l'igiene
sia compromessa da quell'ambiente così stretto e
stagnante, cui concorrono a viziare la respirazione e
le esalazioni dei corpi viventi, il gas acido carbonico e il fortissimo odore erbaceo che si svolge
continuamente dai foraggi secchi, e sopratutto i
vapori ammoniacali delle deiezioni degli animali che
si ammucchiano e si conservano là dentro sino al
giorno festivo, di cui al contadino è solo concesso di
profittare per farne il trasporto nel proprio
campicello.
Muli. – (Mulus). – Secondo per numero, ma primo per
importanza è ritenuto tra noi il mulo, questo animale
ibrido, le cui reni, dopo quelle del camello, sono le
meglio suscettibili di portare i più pesanti carichi. Ad
esso aspira coi suoi desideri ogni contadino che a
forza di privazioni e di risparmi cerca levarsi
alquanto al disopra dei suoi compagni; e sebbene
acquistatolo gli torni quasi sempre a discapito per
l'oneroso mantenimento, egli ne va rimpettito e
superbo, e giustifica il motto di chi scrisse, che l'uomo a cavallo è l'uomo re. Contrariamente a quanto
notammo per l'asino, si dà pel mulo la preferenza al
sesso maschile, e sono i proprietari più agiati che soli
fanno uso delle femmine; e per gli uni e per le altre
va sempre cercata rigorosamente, con una ossatura
fortemente costituita, la esterna perfezione delle
forme. Adopransi indistintamente per l'aratro, pei
trasporti a basto e pel tiro delle carrette, che son qui
numerose e servono promiscuamente ai bisogni
dell'agricoltura e all'esigenze del commercio interno.
Si ha molta attenzione, e sovente anche troppa, a
mantenere in essi la freschezza, strigliandoli e
bruscandoli esattamente dopo il travaglio, e facendo
lor trovare tutta pronta una razione di buon foraggio
o di orzo e di crusca. E il mulo sì fattamente sta in
cima delle affezioni del nostro contadino e vanno
tant'oltre le attenzioni di costui pel medesimo, che in
caso di ristrettezze domestiche egli può soffrire
rassegnato che la famiglia rimanga a digiuno, ma non
tollera che manchi il necessario a quest'utile compagno dei suoi travagli. Se ne asilano con ferro i
piedi, come pur fassi col cavallo e con l'asino.
Cavallo. – (Equus caballus. L. = SIC. Cavaddu). – Quest'altro animale, come agente dell'agricoltura,
essendo meno utile del mulo e dell'asino, dei quali
vive meno ed è più vorace e soggetto a maggiori
malattie, non è tenuto in alcun conto nelle nostre
campagne. Quindi dei pochi all'infuori che stanno
attaccati alle carrozze, è raro trovarne trovarne
alcuno d'ambo i sessi addetto ad usi agricoli o al tiro
di qualche carro. Gli stessi proprietari più agiati
amano meglio cavalcare una buona mula, che un
cavallo od una giumenta così difficili a ben riuscire e
a conservare inalterate le loro forme.
Porci. – (Sus scropha. L.) – Questo animale immondo,
oggetto di speculazione nei boschi, ma non
meritevole di starsi in mezzo a coltivazioni gentili, e
che tutto scava e capovolge col grugno, trova anche qui
qualche singolare speculatore che a quando a quando
se ne diletta. Vedi barbaro gusto! Anche
temporaneamente i macellai sogliono mantenerne
qualche branco per le vie nell'avvicinarsi del
Carnovale. Però sì gli uni come gli altri vi duran poco
per la scarsezza d'acqua e di fanghiglie, in cui
amano vivere imbrodolati.
RUMINANTI A CORNA CAVE. - Buoi. (Bos taurus.
L. = SIC. Voi.) – Il bue, ritenuto dovunque a buona
ragione il migliore amico della casa campestre, è
fatto dalle condizioni del nostro territorio un
impaccio, un malefizio, un pericolo. I pochi che
vogliono mantenervelo in numero limitato nelle
angustie delle loro proprietà o di quelle di cui han
comprato il pascolo, circuite tutte all'intorno dalle
proprietà altrui, per quante adoprino precauzione e
vigilanza non possono impedire che non irrompano
a danneggiare le coltivazioni dei vicini, giacché
l'animale a pastura vagante ha bisogno di spaziare, e
la vista d'una vegetazione migliore, che gli fa gola, lo
stimola a rompere gli ostacoli. Quindi continue
occasioni di dissapori e querele. Son poi di quelli che
ostinati a mantenere cotali animali in un lembo di
terreno proprio, e ritrosi ad affrontare la spesa del
pascolo in terreni altrui, vanno spiando l'occasione di
condurli clandestinamente di notte tempo a scorpare
nelle biade e nei prati alieni: donde sovente, per
mancanza di prove giudiziarie, i risentimenti covati a
lungo, e poi sfogati sugli animali innocenti,
massacrandoli di nascosto nel chiuso delle mandre. I
soli proprietari delle terre delle colline sono quelli
che possono impunemente occuparsi di questo
genere di pastorizia, perché ivi le tenute sono più
spaziose, ed è minore e può meglio prevenirsi il
pericolo di recar danno alle proprietà altrui. E miglior consiglio è quello di altri che, avendo pascoli
disponibili nei territori vicini, non li mantengono in
queste nostre campagne che un tempo brevissimo,
riconducendole alternatamente ove le erbe abbiano
ripreso. Ad ogni modo son cacciati da queste colture
all'avvicinarsi di agosto, poiché le carrubbe, a
misura che maturano, cominciano a cadere e i buoi
ne son ghiotti. – Il piede del bue qui non si calza con
ferro.
Pecore. – (Ovis aries. LIN. = SIC. Pècura).
Principalmente parecchi proprietari delle terre
collinose son quelli che trovano interesse ad allevare
delle pecore in numero comportabile con l'estensione
delle terre loro; e queste greggie, quantunque si
portino di quando in quando a pascolare nelle terre
del piano sui pascoli propri o acquistati a prezzo,
danneggiano molto le mura di cinta delle chiudende,
ma sono quasi inoffensive alle proprietà dei vicini,
perché
il
loro
padrone
non
lascia
di
raccomandarne la buona custodia. Il simile può dirsi
di altre piccole greggie mantenute da padroni onesti
alternatamente in queste campagne e nei territori
vicini. Ma taluni pastori amano pur mantenere un
piccolo gregge per conto proprio, e non avendo
alcuna possessione ed essendo assai limitati
nell'acquistare i pascoli a prezzo, e guidandolo qua e là
per le vie o in qualche ritaglio di terreno incolto,
hanno tutto l'interesse di farlo divagare in ogni
istante nelle proprietà altrui, e son causa di
doglianze e di risentimenti continui. I pastori stessi
non lasciano in queste loro escursioni di metter
mano ai frutti degli alberi, spesso decimandoli
impunemente. Ad ovviare a questi malanni si era
ricorso altra volta alla istituzione delle guardie
rurali; ma il rimedio fu trovato insufficiente e
peggiore del male: i vecchi abusi non cessavano e ne
sorgevano dei novelli che obbligarono alla pronta
soppressione.
Oggi per la forza stessa della progrediente civiltà, per
la sorveglianza che si è fatta esercitare nelle nostre
campagne dai reali carabinieri e da parecchi militari
delle compagnie d'armi nelle epoche dei ricolti, e per
maggior prezzo che costano le sussistenze, questi
piccoli speculatori sono stati costretti a vedersi
assottigliare e sparire di giorno in giorno i tenuissimi
loro capitali, e il loro numero si è scemato di molto.
Arrogi i provvedimenti introdotti coi regolamenti
municipali di polizia rurale, i quali obbligano a
sgombrare dalla pianura marittima e a trasportare
nelle montagne ogni gregge all'avvicinarsi della
maturazione delle olive: tutti impacci e pastoie che
asseguono indirettamente il loro ultimo fine con
l'aumentare i dispendi e le noie e attenuare i profitti.
Capre. – (Capra hircus. = SIC. Crapa). Questi
animali non si mantengono che in numero
estremamente esiguo, e sono allevati da quei
medesimi che li guidano sotto il pretesto di fornire il
latte pei bisogni della città. Per la loro nutrizione si
segue lo stesso metodo accennato più innanzi di farli
pascolare per le vie; ma i danni alle coltivazioni sono
maggiori e più inevitabili, poiché la capra pel suo
carattere vagabondo ed indocile facilmente si sbranca
attaccandosi principalmente alle vigne ed agli alberi
cui fa gran torto brucandone le foglie, spezzandone
le cime dei rami, rodendone la corteccia. Giovano
anche per queste i provvedimenti presi per le pecore,
e si fanno voti che presto o tardi scompariscano da
questo territorio per essere opportunamente
confinate nei luoghi aspri ed incapaci di rispondere
ad ogni sforzo d'umana industria. È là soltanto che
possono vagare liberamente ed essere una ricchezza
sempre presente: in mezzo alle nostre piantagioni
non possono riuscire che in sommo grado noce-voli.
ROSICANTI. - Conigli (Lepus cuniculus = SIC.
Cuniggiu). Si tengono in qualche podere entro adatte
fosse (cuniggeri), ma l'umidità che spesso vi penetra,
scorcerta la loro riproduzione. Qualche famiglia di
contadini suole allevarli nella propria casa
d'abitazione a pavimento non lastricato, e certamente
con miglior successo per la riproduzione, ma con
molto danno per l'igiene.
Porcellini d'India. – (Cavia cobaia. LIN. = SIC.
Purcidduzi d'Innia). Si vedono qualche volta insieme
coi conigli nelle case dei contadini; ma la loro carne
non è molto apprezzata.
UCCELLI DI BASSA CORTE. - Questi animali, che
sogliono essere nelle altre campagne l'ornamento
dei poderi, formano piuttosto appo noi il passatempo
delle donne cittadine, poiché in questo territorio per
lo sminuzzamento delle proprietà sono pochissime le
fattorie che ammettano la presenza d'una massaia, la
quale si occupi della menageria, e che con nome
vernacolo appellasi Rubittera.
Galli e Galline. – (Phasianus gallus. L.). In città non
havvi contadina che non allevi le due o tre galline, e
di rado qualche gallo, pel beneficio che ne ritrae di
venderne l'uova: son piccole economie che in corso
dell'anno fruttano sempre qualche cosa. Esse non
sono tenute entro stie, ma si lasciano vagare pei
cortili comuni, e si ha la massima vigilanza che non
scorrazzino di molto. Più numerose son quelle che si
mantengono dalle famiglie agiate per proprio uso
entro luoghi chiusi con adatti pollai. Metterne ciascun
anno le uova alla covata è uso generale, e la più
parte delle contadine ne è premurosa per aggiungere
quesealtra alle sue economie vendendone i galletti
avidamente ricercati per cibo, e le pollastre per
rinnovare le galline vecchie.
Tacchini. – (Meleagris gallopavo. LIN. = SIC. Nniani).
Se ne trovano nei pollai delle persone agiate ma in
poco numero, ché non tutti hanno la pazienza di
170
spendere per essi le cure minuziose che esige la loro
infanzia. I maschi son cercati per Natale e nelle feste
di famiglia.
Anitre. – (Anas boscas. = Pàpara). Questo volatile non è del tutto escluso, ma se ne allevano ben pochi,
mettendone a covare le uova per ordinario sotto le
galline.
Oche. – (Anas anser. = SIC. Oca). Se costituiscono
un importante reddito in molte provincie d'Europa
per le uova, la calugine, il grasso abbondante e di
buon gusto, ed il fegato, non si hanno qui in alcun
pregio, e la loro carne viene rifiutata come dura, sia
per effetto del clima, sia per ignoranza del saperle
ingrassare. Piuttosto si tien conto della loro voracità,
e qualche famiglia, determinatasi ad allevarle in
piccol numero, non mette in mezzo molto tempo a
disfarsene. Certamente nei soli paesi, ove tengonsi a
pascere per la campagna, il loro allevamento può
non essere molto grave; e questa pratica neppur
sarebbe adottabile tra noi, poiché si sa che l'oca è un
grande devastatore delle vigne, dei giardini, dei
campi coltivati, e dei giovani alberi.
Colombi. – (Columba domestica. LIN. = SIC. Palumba).
Allevansi da moltissime famiglie pel loro incessante
moltiplicarsi, offrendo ciascun mese una gustosa
vivanda con la loro figliuolanza.
Non possiamo chiudere questo articolo senza far
menzione dei cani. Oltre il solito cane da pastore
(Canis domesticus) ch'è sempre compagno delle
nostre piccole greggie; oltre i cani segugi (Canis
sagax), i bracchi (Canis avicularius) e i levrieri
(Canis graius) che tanto piacciono ai nostri giovani
cacciatori; oltre i mastini (Canis laniarius) di cui si
giovano i beccai; ed oltre varie specie non molto
comuni, non havvi bracciante che non allevi il suo
cane bassotto (Canis vertagus), alla cui custodia lascia
in campagna il suo piccolo bagaglio, mentr'egli
attende al lavoro, né avviene mai ch'esso abbandoni
la consegna. La sera poi, quando i contadini si
ritirano a casa, tutti questi cani fanno per l'abitato
un abbaiare così importuno ed assordante da
disgradarne le stesse vie di Costantinopoli.
X ed ultimo. - INSETTI UTILI (apicultura
Due sono, come già si conosce, i preziosi insetti che,
promettitori di grandi vantaggi, offrono alla casa
rurale un doppio genere di speculazione: il baco da seta
e l'ape. La coltivazione del primo non ha potuto
finora attecchire in alcun paese di questa provincia;
ma non dobbiamo por termine a questo scritto
senza dare alcune nozioni per quella del secondo ch'è
nostra.
Quantunque la vecchia opinione, che Avola tragga
la sua origine da una delle antiche Ible, non sia
suffragata
da
incontrastabili
argomenti,
e
quantunque non possa dirsi che le nostre colline
siano una continuazione della catena dei colli iblei, è
però fuori dubbio non correre diversità nella
costituzione geognostica dei due sistemi di eminenze,
ed essere una stessa la loro flora'. Quindi anche
questa è stata in ogni tempo regione adatta alla
educazione delle api: anche qui è stato coltivato ab
antico un tal ramo d'industria; e la tanta celebrità
storica e poetica del miele ibleo non è vanto che solo
appartenga ai luoghi ove sorgeva la vetusta Mègara.
E noi ci crediamo obbligati dallo scopo del presente
scritto a dare una notizia particolareggiata delle
pratiche dei nostri apicultori.
L'arnia (fustu, vasceddu) qui in uso è costruita coi
fusti della ferula (Ferula communis. = SIG. Ferra), ed -
ha la fioriturta, e là si affretta a trasportare e
distribuire i suoi alveari, levandoli dai quartieri
d'inverno. Le api intanto, se favorite da un tempo
dolce e non disturbate da brusche variazioni
termometriche, attendono così alacremente alla
costruzione dei favi e alle covate da richiamare sollecitamente l'opera dell'apicultore per la sciamatura
artificiale (partitura). Essa è la sola a cui tra noi si
dia mano: gli sciami naturali non avvengono che per
incuria o disaccortezza di chi governa questo ramo
d'industria, e i nostri sono troppo previdenti per
non vegliare a prevenire ogni diserzione. Com'essi si
accorgono che la popolazione d'una arnia è divenuta
esuberante, affrettansi a togliere tutti i favi con
covate che vi si trovino al di là del suo. Questi si
depongono verticalmente in un'arnia vuota,
fissandoveli con l'appoggio di stecchine di canna
appuntate che si attaccano alle pareti laterali, e in
questa nuova abitazione, che tiensi verticale innanzi
all'apertura dell'arnia madre, si trasporta col cavo
nella mano la popolazione esuberante di essa,
chiudendone l'apertura col di lei coperchio. Ciò
fatto l'arnia madre, chiusa con altro coperchio, si
colloca in diverso e lontano sito, e nel posto lasciato
vuoto si sostituisce l'arnia figlia, la cui colonia
ingannata dal trovare nella nuova abitazione i propri
favi, e il posto e il coperchietto che ben riconosce,
senza difficoltà vi si adagia. Scorgendo però
mancarle la regina, si affretta a crearsela col noto
processo delle celle reali.
L'apicultore ricorre allo stesso artifizio di cangiar di
posto le arnie quando si avvede che la popolazione è
debole in alcune e robusta in altre. Trasportando le
une al sito delle altre, ottiene agevolmente che le due
popolazioni si equilibrino.
Avviene in qualche arnia, che la colonia si trovi in istato di sollevazione e in disaccordo con la regina:
mentre questa lavora ed ovifica, le operaie allungano
le celle reali e dan vita ad altre regine. I nostri
pratici danno il titolo di pazze (foddi) a tali arnie, e
riescono a ristabilire l'ordine togliendone tutti i favi, e
sostituendovene due o tre alieni perfettamente vuoti
di miele e senza covate. Allora la colonia vedendosi
spogliata del suo e in più ampia dimora, rinsavisce,
si riconcilia con la regina, e compie tranquillamente
e con ordine i suoi lavori.
Havvi pure le arnie anormali (sarvaggi, òd'ani) con la
regina infeconda per vecchiezza o con operaie
figliatrici che fan covate gibbose e gettano le ova
irregolarmente nelle celle dei favi. Bisogna che
anche queste siano messe a nuovo, e l'àpicultore,
appena se ne avvede, non omette di togliere la regina
infeconda e di condurre quella colonia in un'arnia
figlia, come si pratica per gli sciami.
Scorsi 13 giorni da queste preliminari operazioni, le
arnie figlie si troveranno provvedute della loro
regina e d'una famiglia più numerosa. L'apicultore,
176
tornando a visitarle, ne cava i favi che v'ebbe
lasciato la prima volta, e scegliendone tre migliori e
rimosso il coperchio posteriore, va a collocarli
verticalmente con l'appoggio di stecchette di canna
dietro a due colonnini di culmo di ampelodesmo
(vusa) che stanno fortemente impiantati a 20
centimetri dal fondo, in modo però che resti tra
l'uno e l'altro favo un intervallo di 2 centimetri, e
che l'ultimo ne disti 4 dal fondo. In questa occasione
provvede pure alla sciamatura di altre arnie che non
ne presentarono la convenienza nel primo esame.
Dopo altri giorni 13 si fa un'ultima rivista per
regolare le arnie figlie di seconda mano, e si stabilisce
in tutte l'assegno definitivo del suo. Sotto questa voce
suo, che abbiamo ripetuto più volte senza darne
spiegazione, va inteso il fondo di riserva, il ripostiglio
inalienabile del miele che deve servire al nutrimento
delle api per quel tempo che nulla trovino a
bottinare. Esso si compone dei tre favi che van posti
in fondo dietro i colonnini, e di altri due o tre che si
mettono nella parte anteriore dell'arnia, anche
appoggiate ad un fusto verticale di ampelodesmo.
Gli alveari non si rimuovono dalla prima stazione
finché duri la fioritura primaverile e quella alquanto
tardiva della Sideritis romana (SIC. Mascaredda): dopo il
15 giugno si concentrano in quei soli luoghi, ove la
fioritura estiva del timo (Tbymus capitatus. HOFF. et
LINK. = SIC. Sataredda) si mostri più rigogliosa e più
abbondante.
È negli ultimi giorni di luglio che si esegue il
raccolto, il quale è prudenza che si compia con la
massima parsimonia, lasciando sempre intatti i 5 o 6
favi che costituiscono il suo, e solo asportandone i
soverchi che siano ben colmi di miele. Fatto ciò si
richiudono le arnie, otturandone con diligenza ogni
fessura. Ed è in questa occasione ch'egli può contare
finalmente il suo arniario, ed assicurarsi dell'effettivo
numero degli alveari ch'egli possiede.
Ma non per questo però egli deve addormentarsi;
ché in agosto gli conviene lottare col più terribile
nemico che dia la caccia alle api, qual è il calabrone
(Vespa Crabro. = SIC. Lapùni). Senza appigliarsi
al meschino e insufficiente mezzo degli Attrappa calabroni, egli non trova allora spediente migliore a
scongiurare il pericolo per gli arniari invasi, che
trasportarli nelle colline, ove quel pernicioso insetto
non nidifica né dimora, ed ivi lasciarli sino al cominciar dí novembre. Poscia riportati nella pianura
marittima vi si lasciano a svernare in siti asciutti a
solatio e riparati dai venti freddi, con covertura di
paglia e di fogliesecche, senz'altra ulteriore attenzione
che di visitarli dopo la caduta di forti acquazzoni per
conoscere se vi sia penetrato dell'umido e
provvedere senza indugio a tramutarli in luogo
asciutto.
Avviene però qualche volta, che una mite
temperatura solleciti l'infaticabile insetto a far largo
bottino nella fioritura autunnale del Carrubbo e della
Nepitella ed in quella invernale del Mandorlo, che qui
succede dalla seconda metà di gennaio alla prima di
febbraio. E l'apicultore, che non perde mai di vista
l'oggetto dei suoi pensieri, recandosi in un giorno
sereno e dí bel sole a visitare il suo apiario, è lieto
di trovarvi una nuova e non sperata esuberanza di
favi e dí miele. Ma qui le vicende meteoriche avversano di frequente la fioritura del carrubbo, la
nepitella per le scarse piogge e spesso arefatta dai
brucianti alidori estivi, e la fioritura del mandorlo
non sempre sí concilia con giorni caldi e sereni che
permettano la libera escursione alle api: ecco le
cause principali per cui non è frequente un tal
beneficio di raccolta tardiva; essa però, comunque
eventuale, non può né deve trascurarsi negli apprezzamenti di questa industria.
Ed ora potrà forse domandarsi, qual reddito essa
lasci a chi se ne occupa. E noi, prevenendo quel
desiderio, e senza intricarci in un labirinto di cifre,
facciamo semplicemente osservare, che sole 100
arnie, con cui s'iniziò la speculazione, fruttano
all'anno in media chilogrammi 70 di miele
(valutabile ín media L. 70), chilog. 8 di cera (del
prezzo medio di L. 36), e 30 sciami artificiali od
arnie figlie, che, dedotte le spese di costruzione in L.
3 per ciascuna, dànno il capitale fisso di L. 150, il
quale basta ad estinguere in meno di sei anni la
spesa primitiva delle arnie madri, che non lasciano di
esser fruttifere fin oltre a un decennio. Calcolando su
178
questi dati così semplici, e senza tener conto dei
maggiori profitti di un'azienda in grande, può
ciascuno convincersi da sé stesso, quanto questa
industria sia largamente rimuneratrice più che ogni
altra qualsiasi. Poco in essa è il lavoro, che si presta
dall'esercente spesso per diletto e quasi per giuoco:
più che lavoro manuale esige intelligenza e solerzia, e
le compensa con usura; e se non pertanto sono pochi
coloro che vi si addicono, non è per esuberanti
fatiche ch'essa richieda o per poco lucro che
prometta, ma perché non tutti sanno adattarsi alle
cure amorose e vigilanti che le sono indispensabili.
Il miele si estrae dai favi lasciandolo lentamente
scolare, poi sottoponendo i favi stessi al pressoio. La
cera si prepara coi metodi conosciuti dovunque.
I corrivi delle idee di progresso, i quali credono
facilmente attuabile in ogni luogo ciò che ha fatto
buone pruove in alcuni, ci faranno torto senza
dubbio, che questa industria si prosiegua a
governare tra noi con le regole empiriche di una
pratica tradizionale piuttosto che coi nuovi metodi
dell'arnia a favo mobile e dello smelatore meccanico,
che la scienza ha suggeriti. Chi mi apprestò le
informazioni, sulle quali ho dettato il superiore
riassunto, è il concittadino sac. D. Paolo Rametta
che, nato in famiglia di apicultori e cresciuto in
mezzo alle api, ha avuto occasione d'invogliarsene e
di studiarne i costumi, e ammesso perciò a far parte
dell'Associazione d'incoraggiamento per l'apicoltura in
Italia, si è trovato in relazione coi più fervidi
promotori dei succennati nuovi metodi. Or a costui
medesimo avendo io chiesto schiarimenti sulla tenacità dei nostri a starsi ancora sugli usi antichi, ecco le
ragioni che da lui me ne furono addotte.
L'arnia a favo mobile non è stata qui sconosciuta e
inusata del tutto. Egli aveva profittato della
Esposizione agraria di Siracusa nel 1871 per
farne costruire una sul modello ivi esposto da Duca di
Brolo, e vi aveva collocato tantosto la nuova colonia
secondo
le
ricevute
istruzioni.
Questa
momentaneamente vi si adagiò; ma quantunque
fosse stata governata con gli studi e le attenzioni
maggiori, fu vista dopo 18 mesi infelicemente perire.
Quest'esito sconfortante dissuase dal tentare una
seconda pruova, la quale si era già conosciuto che,
quantunque fosse riuscita bene, avrebbe trovato uno
scoglio nelle circostanze locali. Imperocché è
meritevole di osservazione che qui non si hanno né
possono aversi coltivazioni estive, le quali forniscano
con la loro fioritura largo pascolo alle api mantenute
sempre allo stesso posto, ed è solo nelle piante
spontanee che deve andarsi a cercare l'occasione di
ben nutrirle. Or l'arnia nostra costruita di ferula,
oltre le proprietà igieniche più su ricordate, oltre il
tenue costo e l'estrema facilità a costruirla, oltre
l'attitudine delle pareti a potervisi facilmente
impiantare le stecchette a sostegno dei primi favi
(tutte circostanze che nella mostra universale di Vienna la facevano giudicar più vicina alla razionale fra
le tante ivi esposte), offre pure l'inestimabile pregio
della leggerezza che ne rende agevole il trasporto a
basto di mulo per vie non carreggiabili e spesso
scoscese sino ai luoghi meglio adatti secondo la
stagione e la ricchezza del pascolo. Il peso maggiore
delle arnie a favo mobile renderebbe questo
trasporto più difficile, più lungo, più grave, più costoso, e può ben prevedersi che non avverrebbe mai
senza guasti. Sia dunque che il ricordato unico
tentativo dell'arnia a favo mobile non abbia qui
ottenuto buon esito per inesperienza della mano
esecutrice, sia perché le api non abbian trovato nella
nuova dimora quella dolce temperatura a cui si
erano abituate nelle arnie di ferula (ché anche in
Melilli fu assicurato al Brocchi aver poco prosperato ed essersi poco mantenute in vita in arnie
volute farsi con asse), la notata circostanza della
difficoltà del trasporto mi sembra l'ostacolo più
serio e di maggior gravità per la introduzione fra noi
del nuovo sistema.
Né ci portò minor delusione l'esperimento che qui
pure volle tentarsi dello smelatore meccanico. Il
nostro miele si è trovato molto denso per cedere
all'azione di questo strumento, e per isforzo che si
facesse, è rimasto tenacemente attaccato agli alveoli
dei favi; né poteva essere altrimenti quando nella
estrazione per mezzo del torchio bisogna una forte
pressione a farnelo uscire. Forse tale ostacolo
verrebbe scemato prendendo il miele appena deposto
nei favi, perché allora è più liquido (tènniru), e in
tal caso conveniamo che l'uso dei telaini sarebbe
indispensabile a facilitare l'operazione; ma ciò, oltre
di pregiudicare alla qualità zuccherina di quel
prodotto, che i nostri non senza ragione hanno in
pregio, riuscirebbe qui di gravissimo incomodo per la
necessità di dover esplorare continuamente i molti
apiari, spesso collocati in siti lontani e l'uno dall'altro distanti. In teoria può tutto sembrar facile;
ma la cosa non va sempre liscia quando si viene
all'atto, sotto l'influenza di circostanze diverse:
Ed ora che la materia trovasi svolta in tutte le sue
parti, metto fine alla lunga esposizione, nella quale
ho la coscienza d'aver detto francamente la verità,
rendendomi sempre conto d'ogni capo da chiarire,
senza esagerare la bontà delle cose e senza tacerne o
dissimularne i vizi.
i Perché si possa aggiustar fede alle nostre asserzioni, ci
giova mettere qui in nota un elenco delle Labiate del
nostro territorio, che sono le specie da cui l'ape ritrae il
più gradito nutrimento. A chi lo confronti per detta sola
famiglia con quello che dava il Brocchi delle piante dei
Colli Iblei, non che trovarci pari nelle più essenziali,
converrà tenerci conto d'un sopravanzo nel numero: là
24, qui 42! Preferiamo al solito l'ordine alfabetico.
Ajuga chia. Schreb. Prasium majus. L.
Iva. Schreb.
Prunella laciniata. L.
Orientalis. L.
— Vulgaris. L.
Ballata foetida. Lam. Rosmarinus officinalis. L.
Saxatilis.Guss.
Salvia clandestina. L. '
Clinopodium volgare. L. — Sclarea. L.
Lamium amplexicaule. L. — Triloba. Lin. fil.
Pubescens.Sibth. — V i r i d i s . L .
Lycopus europoeus. L. Satureia graeca. L.
Marrubium apulum. Ten.Scutellaria Gussonii. Ten.
Volgare. L.
— Peregrina. L.
Melissa. Altissima. Desf. Sideritis romana. L.
Mentha apatica. L. Stachys dasianthes. Raf.
Macrostachya.Ten. — H i r t a . L .
Pulegium. L.
Teuerium Favescens. Schreb.
Sylvestris. L.
— F l a v u m . L .
Micromeria juliana. Benth. — Fruticans. L.
Molucella Spinosa. L.
— Polium. W.
—
—
—
—
—
—
—
—
Origanom macrostachyum. Hoff. et Link. — Scordioides.
Schreb.
Viride. Hoff. et Link. Thymus capitatus. Hoff. et
Link.
Phlomis fruticosa. L. — Nepeta. Smith.
—