Marzo 2014 - La medicina di genere: una rivoluzione silenziosa

FLAVIA FRANCONI
LA MEDICINA DI GENERE:
UNA RIVOLUZIONE SILENZIOSA
PAOLA CONTI
Premessa
Assessora alla Politica
della Persona, Regione
Basilicata; Dipartimento
di Scienze Biomediche
Università di Sassari
Esperta per Inail in salute
e sicurezza sul lavoro
in ottica di genere
ILARIA CAMPESI
Laboratorio Nazionale
di Medicina di Genere,
Osilo, Sassari
Una pietra miliare per il superamento del
pregiudizio di genere è la dichiarazione della
Convenzione di Seneca Falls (19-20 Giugno
del 1848) che chiede l’eguaglianza dei diritti e dei doveri fra uomo e donna (Franconi,
Cantelli Forti, 2013). Ma è necessario aspettare la Convenzione sull’eliminazione di ogni
discriminazione verso le donne (CEDAW) del
1979 perché gli Stati si impegnino a garantire
la parità dei diritti tra uomini e donne (Franconi, Cantelli Forti, 2013). Solo dopo questa
conferenza, intorno al 1990-1995, nasce negli
Stati Uniti la medicina di genere. Arrivano poi
le raccomandazioni da parte di molte organizzazioni internazionali come l’Unione Europea
(2000), il Parlamento Europeo, l’Organizzazione Mondiale della Sanità che, nel 2013,
dichiara la medicina di genere una priorità.
Purtroppo, il pregiudizio di genere, che ha pervaso la nostra società fin dai suoi albori, ha
portato ad una situazione che ancora oggi determina gap, generalmente, più svantaggiosi
per le donne; tuttavia in alcuni casi (emicrania,
osteoporosi, carcinoma mammario ecc.) lo
svantaggio è maschile (Franconi et al, 2010).
Il riconoscimento delle
differenze: “Le donne non
sono piccoli uomini”
Nonostante Ippocrate avesse già descritto la
diversa suscettibilità verso la gotta degli uomini e delle donne affermando che la donna
si ammala difficilmente di gotta prima delle
menopausa (da Enomoto, Endou, 2005), le
donne, storicamente, sono state considerate
“piccoli uomini” con la sola esclusione degli
organi deputati alla riproduzione tanto che
si è parlato di “Bikini Medicine”; così facendo,
si è creata una medicina androcentrica focalizzata soprattutto, se non esclusivamente,
sull’uomo giovane adulto caucasico (Marino
et al, 2011). Pertanto i golden standard per
i criteri di normalità e le terapie derivano da
dati ottenuti sull’uomo maschio caucasico,
per poi essere estrapolate alla donna senza
tener conto delle possibili differenze. Attualmente, questo stato di cose sta migliorando
anche se non troppo velocemente.
Non tutte le diseguaglianze
sono inique
La rivendicazione di uguaglianza si traduce
spesso, come scriveva Norberto Bobbio, “nella negazione di una specifica ineguaglianza”
fra individui. Il premio Nobel François Monod
si spinge oltre, sostenendo che, in biologia,
il concetto d’eguaglianza è stato “inventato
precisamente perché gli esseri umani non
sono identici”. D’altro canto, tutte le culture
assegnano alle donne e agli uomini specifiche
caratteristiche, responsabilità, doveri, diritti
2
e risorse economiche. Perciò, gli uomini e le
donne nella stessa comunità o famiglia spesso conducono vite differenti, sono esposti
a diversi rischi e hanno un accesso diverso
all’assistenza sanitaria (Clow et al, 2009).
Conseguentemente, un egualitarismo astratto, che non vede le differenze, si tradurrebbe
in ingiustizia, perciò è opportuno considerare
il divieto di discriminazione per assicurare il
pieno rispetto dei profili di uguaglianza che
accomunano gli individui mediante la considerazione delle differenze emergenti dalle
situazioni concrete (Dworking, 2010).
Le differenze biologiche
Le differenze biologiche sono numerose e rilevanti (Legato, 2009; Franconi, 2010; Franconi et al, 2011, 2011a; Franconi, Cantelli Forti,
2013), ed esse sono destinate ad aumentare
col proseguire degli studi. Qui, a titolo esemplificativo, ricordiamo che le donne sono più
basse e più magre rispetto all’uomo avendo più tessuto adiposo e una minore massa
muscolare e un minore contenuto di acqua
totale rispetto all’uomo (Marino et al, 2011),
senza dimenticare che la frequenza cardiaca
è maggiore nelle donne. Inoltre, le lipoproteine ad alta densità sono più alte nelle donne, mentre i globuli rossi sono più numerosi
negli uomini (Legato, 2009). Si ricorda che i
composti endogeni ed esogeni subiscono un
diverso metabolismo nel fegato delle donne
e degli uomini (Marino et al, 2011; Franconi et
al, 2011a). Numerose differenze sono state
riscontrate anche a livello renale (Franconi
et al, 2011; Mezzina, Gallieni, 2013) ed esse
possono riflettersi in una differente eliminazione dei farmaci. Infine, le donne vivono
più a lungo prevalendo fra gli anziani. La più
lunga aspettativa di vita delle donne sembra
dipendere sia da fattori biologici che sociali;
infatti, il fumo potrebbe essere responsabile
in gran parte del gender gap nella longevità
(McCartney et al, 2011).
In particolare, il confronto con gli altri paesi
europei, evidenzia che l’Italia è tra i paesi con
la più alta aspettativa di vita per ambedue i
generi, avendo però i peggiori risultati per
quanto riguarda l’aspettativa di vita in buona
salute (Organisation for Economic Co-operation and Development (OECD), 2012). Ciò non
dipende dalla spesa poiché la risorse investite
in Italia sono simili a quella degli altri paesi
con sistemi universalistici (OECD - 2012). Da
notare che la maggiore longevità della donna
si accompagna a una peggiore salute rispetto
all’uomo (paradosso donna).
Differenze di sesso-genere
ed età
Molte sono le differenze biologiche riscontrate nella vita prenatale e in età pediatrica (Del
Principe et al, 2013). Ad esempio, le bambine
alla nascita hanno più grasso sottocutaneo
rispetto ai bambini e pesano meno (Bukowski
et al, 2007). Le differenze che si riferiscono
alla composizione corporea tendono a diminuire a sei mesi d’età, per poi diventare ben
evidenti dopo la pubertà (Kirchengast, 2010).
Durante la vita adulta, esse tendono a essere
stabili, ma si riducono o aumentano in maniera significativa dopo gli ottanta anni (Franconi
et al, 2011) e ciò può influenzare i parametri
farmacocinetici in maniera sessualmente dimorfa ed età-dipendente.
Le differenze osservate nella vita prenatale
suggeriscono che i farmaci che attraversano
la placenta possono avere effetti diversi nel
feto femmina e nel feto maschio (Franconi,
Cantelli Forti, 2013; Rodriguez-Cuenca et al,
2007) e tali effetti possono essere precoci
e tardivi. Per esempio, la somministrazione
di glucocorticoidi alla madre poco prima del
parto induce nei bambini tra i 6 e gli 11 anni
un’alterata risposta allo stress psicosociale
e ciò è specialmente evidente nelle bambine
(Alexander et al, 2012).
Alcune differenze insorgono nell’adolescenza. Un esempio eclatante, per le conseguenze
che ha sulla sicurezza dei trattamenti farmacologici (vedi oltre), è l’allungamento, dopo
la pubertà, del tratto QT dell’elettrocardiogramma nella donna, ma non nell’uomo
(Franconi et al, 2011).
Infine, l’età influenza il metabolismo, la funzione renale ed epatica, il flusso d’organo,
sebbene non sia ben chiarito se ciò avvenga
in maniera sessualmente dimorfa. Certamente un dimorfismo sessuale sembra essere
presente a livello renale poiché la perdita di
funzionalità età-dipendente è più marcata
negli uomini rispetto alle donne (Franconi
et al, 2011). Evidentemente, le differenze di
sesso-genere interessano anche l’età
pediatrica e geriatrica e variano nel corso
della vita, perciò appare opportuno declinare
insieme età e genere.
Le differenze indotte
dall’ambiente
Il ruolo dei fattori biologici nel controllo della salute è ben noto, meno noto è il
ruolo dei fattori ambientali, eppure il 24%
di tutte le malattie è dovuto proprio a cattive esposizioni ambientali ed a fattori socio-economici tanto che è stata descritta
la cosiddetta status syndrome (Marmot,
2006). In particolare, al più basso stato
economico e sociale sono associati l’insorgenza di malattie cardiometaboliche,
essendo l’associazione particolarmente
importante per le donne (Fano et al, 2012).
Le donne, soprattutto in età avanzata, hanno un più basso stato economico e sociale,
e ciò potrebbe comprometterne la salute.
Oramai è certo che il modo di lavorare dei
nostri geni è influenzato dallo stato econo-
mico, dal tipo di lavoro, dagli stili di vita ecc.
Infatti, i lavori manuali e il basso stato economico riducono la metilazione del DNA e
quindi variano il modo di operare dei geni
(McGuinness et al, 2012), anche il fumo di
sigaretta riduce la metilazione del DNA
e ciò avviene in maniera maggiore nelle
donne rispetto agli uomini (Campesi et al,
2013).
Le differenze biologiche, in effetti, possono essere modificate dal genere, perché
tra sesso e genere vi sono delle interazioni complesse tanto che talvolta non è
più possibile distinguere il ruolo dell’uno e
dell’altro suggerendo l’opportunità di associare i due concetti (Franconi et al, 2011;
Marino et al, 2011; Franconi et al, 2012; Regitz Zagrosek, 2012). In conclusione, l’epigenetica sembra chiarire i modi con cui la
società modifica il nostro corpo biologico
eliminando la dicotomia tra sesso e genere, facendo nello stesso tempo nascere
l’esigenza di nuovi paradigmi sperimentali.
Società e salute: care-giver
Molti sono gli aspetti sociali che potrebbero
essere citati (violenza di genere, povertà, disoccupazione, ecc.), ma oggi vogliamo soffermarci sul ruolo di cura che le donne svolgono.
Il ruolo di care-giver, infatti, caratterizza la
vita delle donne molto di più rispetto a quella
degli uomini. Per esempio, le donne italiane
si prendono molto cura degli altri (nella distribuzione del lavoro domestico non pagato
mediamente il rapporto donne/uomini è di 5 a
1) (ISTAT, 2007) quindi sono produttrici di benessere e salute per gli altri (Addabbo et al,
2010), ma non per se stesse. Infatti, il ruolo di
care-giver porta ad una perdita di benessere
per lo stress che determina (MacDonald et
al, 2005) fino a generare seri svantaggi per
la salute come depressione, malattie cardiovascolari ecc. (Ministero della Salute, 2008),
potendo anche modificare la risposta farmacologica (vedi la minor risposta anticorpale
alle vaccinazioni, Glaser et al, 2000). Il sistema dello stress, lavora in maniera sesso e genere specifica e quindi lo stesso stimolo può
indurre una risposta diversa nella donna e
nell’uomo (Bangasser, Valentino, 2012) (vedi
anche paragrafo successivo).
Stress, un campo d’elezione
nella prospettiva sesso-genere
Gli stressor ambientali e di contesto hanno
un ruolo fondamentale nella salute, ma non
è ancora completamente noto come questo
avviene. L’esposizione cronica e acuta a fattori di stress può produrre conseguenze sulla
salute a lungo termine (Ganzel et al, 2010;
McEwen, 1998). Gli stressor, infatti, possono
avere effetti a cascata su tutti i sistemi del
corpo, aumentando, ad esempio, la pressione
sanguigna, disregolando la risposta immunitaria ecc. Teoricamente, i fattori di stress
come ad esempio le situazioni pericolose,
l’instabilità sociale, il vivere in un “quartiere
pericoloso”, gli eventi dolorosi della vita ed
i problemi quotidiani possono essere correlati ad un elevato carico allostatico. I fattori
3
di stress cronico o acuto sono teoricamente
correlati alla scarsa salute, sia che si tratti di
rischi ambientali o di ambienti caratterizzati
da povertà (Stronegger et al, 2010). La letteratura che indaga le diseguaglianze di salute
pone l’accento sulle differenze di genere nel
processo di stress cronico: i fattori di rischio
e di protezione sono fortemente connotati
per sesso-genere, così come la percezione
di stress e le condizioni di recupero. Quindi, ci
possono essere differenze di genere nel carico allostatico e nei suoi biomarker e nell’associazione tra i vari fattori di stress, come ad
esempio, l’esposizione all’alluminio (Mair et
al, 2011).
Il sesso-genere
e sperimentazione
Storicamente, le donne e gli animali di sesso
femminile sono stati scarsamente arruolati
negli studi (Franconi et al, 2010), per non parlare degli studi sulle cellule che spesso sono
asessuate (Tabella 1), e quando lo erano, il
disegno sperimentale spesso non era adatto
a individuare le differenze di sesso-genere.
Conseguentemente, i dati ottenuti nell’uomo
sono stati applicati alla donna e ciò ha prodotto una minore appropriatezza nel genere
femminile (Franconi et al, 2010) caratterizzata anche da una maggior incidenza e gravità
delle reazioni avverse (ADR) (Franconi et al,
2010, Franconi et al, 2012).
Qui dobbiamo chiarire che la medicina di sesso-genere non si limita alle donne, ma crea
nuovi prototipi di salute anche per l’uomo,
incorporando gli aspetti biologici con quelli
sociali, dando valore alle differenze e alle so-
75%
CELLULE XX
TABELLA 1
PERCENTUALE DEGLI STUDI
CHE INDICANO
IL SESSO DELLE CELLULE.
Dati da Shah et al, 2014.
4
CELLULE XY
Chi decide di adottare un approccio di genere
nella ricerca deve, quindi, affrontare numerosi problemi concettuali. L’uso dei costrutti di
sesso e genere, infatti, è spesso poco chiaro
data la loro complessità perciò bisogna adottare strategie di problem-solving basate sulla
capacità di adattamento, sul pragmatismo,
sull’assunzione del paradigma della complessità, sulla definizione operativa dei concetti
e dei fattori e dei parametri a essi attribuiti
(Alex et al, 2012). L’utilizzo di tipo dualistico
o semplificato di sesso e genere aumenta il
rischio di effetti di confondimento. Perciò è
necessario chiarire l’uso dei termini “sesso”
e “genere” e sviluppare modi più efficaci per
concettualizzare l’interazione tra di essi, in
relazione, sia agli esiti di salute in generale
che alle diverse malattie (Christianson et al,
2012).
La sfida attuale è, quindi, incentrata sul superamento di una mera visione dicotomica dei
concetti di “sesso” e “genere”, sul come sesso e genere interagiscano con la salute, con
particolare attenzione alle costruzioni sociali
e le relazioni di genere, le condizioni di vita,
le esperienze corporee, lo stress e i marker
biologici.
È opportuno evidenziare che i risultati della ricerca oltre che dipendere dal genere dell’osservato dipendono anche dal genere dell’osservatore, perché ognuno di noi pensa ed
agisce in conseguenza del suo essere donna
o uomo. Il proprio genere e sesso influenza la
scelta dei temi della ricerca, l’interpretazione
dei risultati, il farmaco da prescrivere (Zuk
2002; Lawton et al, 1997; Robinson, Wise,
2003) ecc.
20%
5%
femmine non hanno considerato le varie fasi
della vita della femmina, la correttezza dei
fattori di normalizzazione in entrambi i generi. Recentemente, abbiamo evidenziato che le
house-keeping proteins, un fattore di normalizzazione usato negli esperimenti di biologia
molecolare, risultano, almeno nel ratto, essere dipendenti dal genere in maniera organo
specifica (Campesi et al, 2013a). Infine sono
poche le ricerche che hanno approfondito il
ruolo del genere sulle differenze biologiche e
viceversa; evidentemente, come suggerisce
anche il Parlamento Europeo, è il momento
che la medicina sesso-genere diventi interdisciplinare e intersettoriale.
NON
SPECIFICATO
miglianze fra donna e uomo in tutte le fasce
di età. In realtà, nello studio delle differenze
tra maschi e femmine s’incontrano molte
difficoltà culturali e metodologiche. Ciò nonostante, le ricerche sulle differenze biologiche
si sono sviluppate in maniera notevole tanto
che oramai sappiamo che il cuore, il rene, il
polmone ecc. devono essere declinati sia al
femminile che al maschile (Franconi, Cantelli
Forti, 2013). Purtroppo molte delle ricerche
effettuate che hanno arruolato maschi e
Consumo dei farmaci
e reazioni avverse
Le donne sono le più grandi consumatrici di
farmaci, ma la popolazione femminile è la
meno studiata rispetto a quella maschile
(Franconi et al, 2010), essendo lo svantaggio delle donne particolarmente presente
nell’ambito delle sperimentazioni di farmaci
per patologie non specificamente e tradizionalmente femminili come le malattie cardiovascolari che però sono il primo killer delle
donne. A differenza di quanto avveniva in passato recente, oggi si osserva che una buona
percentuale di donne è arruolata negli studi
di fase 3, mentre sono poco arruolate negli
studi di fase 1 e 2 (Franconi et al, 2010). Lo
scarso arruolamento delle donne negli studi
clinici d’intervento potrebbe essere una delle cause che determinano la maggiore frequenza e gravità delle reazioni avverse nelle
donne rispetto agli uomini (Franconi et al,
2010). Nella tabella 2 riportiamo i dati della
rete nazionale di farmacovigilanza relativi alle
segnalazioni spontanee che evidenzia la maggior frequenza di reazioni avverse nelle donne
in ogni fascia di età già a partire dal secondo
anno di vita.
Per quanto riguarda le classi sistemico organica, ad eccezione delle reazioni avverse a carico del sistema renale ed urinario che sono
più frequenti negli uomini, una maggiore numerosità è riportata nelle donne in relazione
alle altre classi sistemico organica (Franconi
et al, 2012). Il maggiore numero di reazioni
avverse nelle donne può essere determinato
da vari fattori come le differenze biologiche
che influenzano i parametri farmacocinetici
che risentono delle variazioni ormonali (ciclo
mestruale, gravidanza, menopausa) che caratterizzano la vita della donna ivi compreso
l’uso di estrogeni e progestinici (Franconi et al,
2010) ed i target farmacologici che qui sono
omessi insieme a quelli farmacocinetici perché trattati in numerosissime review (Franconi et al, 2007; Franconi et al, 2011, Franconi et
al, 2011a, Franconi, Campesi, 2014).
TABELLA 2
DISTRIBUZIONE
SEGNALAZIONE PER SESSO
ED ETÀ (ANNO 2011)
Modificata da Franconi et al,
2012.
Inoltre, le donne sembrano essere più vulnerabili verso alcune reazioni avverse come la
sindrome del QT lungo perché la ripolarizzazione cardiaca, dopo la pubertà, è più lunga
nelle donne rispetto agli uomini (Franconi
et al, 2010). Numerosi farmaci (antiaritmici,
anti-istamici, antipsicotici, anti-infettivi ecc)
(Franconi et al, 2010) possono provocare
questa aritmia.
Le donne inoltre sono più vulnerabili verso
l’osteoporosi e fratture da farmaci (corticosteroidi, inibitori dell’aromatasi, inibitori
della pompa protonica, eparina ecc) proprio per la loro specifica vulnerabilità verso questa patologia (Mazziotti et al, 2010).
Infine, essendo il rischio di sviluppare reazione avverse associato alla depressione (Franconi et al, 2010) e visto che questa patologia
è prevalente nelle donne, è evidente che la
depressione rappresenta un rischio maggiore di ADR per le donne rispetto ai maschi
(Franconi et al, 2010).
Aderenza alle cure
Nonostante le differenze riscontrate nei parametri farmacocinetici, la dose raccomandata
è ancora calcolata per un uomo adulto di 70
Kg il che può produrre livelli plasmatici più
alti nelle donne. A questo proposito, l’anno
scorso la Food and Drug Administration ha
evidenziato che lo zolpidem, un ipnotico sul
mercato da più di 20 anni, deve essere somministrato con un dosaggio inferiore nelle
donne rispetto all’uomo (Kuehn, 2013).
Un elemento importante nella risposta alla
terapia è l’aderenza. Sebbene siano ancora
relativamente pochi gli studi che indagano
questo aspetto dal punto di vista del sesso- genere, emerge che essa possa essere
sessualmente dimorfa. Infatti, l’aderenza
alla terapia dopo infarto del miocardio,
in corso di ipertensione arteriosa e di scompenso, è maggiore negli uomini rispetto alle
donne (Journath et al, 2010; Kirchmayer
et al, 2012). Secondo Mazzaglia e collaboratori (2009), ciò potrebbe dipendere
dal fatto che le donne prevalgono fra gli
anziani e gli anziani possono avere disturbi cognitivi che possono ridurre l’aderenza
(Journath et al, 2010).
Il maggior numero di reazioni avverse nelle
donne può anche dipendere dal fatto che le
donne consumano più farmaci e prevalgono
tra gli anziani, essendo anche più soggette
alla politerapia. Fra l’altro, l’invecchiamento
produce una serie di cambiamenti corporei
che portano ad una maggiore diminuzione del
profilo di tollerabilità nelle donne rispetto ai
maschi. Infine, i disturbi cognitivi aumentano il
rischio di errori da parte del paziente (Franconi et al, 2010) specialmente se femmina e se
fa politerapia (Fiss et al, 2013).
Le differenze potrebbero anche dipendere
dai diversi comportamenti che le donne
e gli uomini hanno verso la salute e i farmaci. Per esempio, le donne valutano in
maniera più negativa i farmaci rispetto agli
uomini (Pound et al, 2005; Horne, 2004).
Ciò potrebbe dipendere dal fatto che gli
eventi avversi sono più frequenti e severi
nelle donne (Franconi et al, 2011) che negli
uomini; l’esperienza di un effetto avverso,
infatti, si associa con la sospensione della
terapia (Sabaté, 2003; Pound et al, 2005).
FASCIA DI ETÀ
Uomini
Donne
Totale
MENO DI 1 MESE
9
4
13
DA 1 MESE A MENO DI 2 ANNI
654
570
1.224
DA 2 A 11 ANNI
621
1.793
2.414
DA 12 A 17 ANNI
194
562
756
DA 18 A 64 ANNI
3.752
5.459
9.211
DA 65 ANNI
3.646
4.206
7.852
8.876
12.594
21.470
TOTALE
5
Tuttavia altri dati suggeriscono che le donne e gli uomini anziani e ipertesi non differiscono per quanto riguarda l’aderenza (Holt
et al, 2013).
Anche in un campo del tutto diverso come
la terapia dell’HIV si evidenziano delle differenze anche se con meno chiarezza. Infatti,
alcuni studi dove la percentuale di donne
arruolate era molto bassa non evidenziano differenze (Carrieri et al, 2003; Golin
et al, 2002), mentre altri con un numero
maggiore di donne rivelano che le donne
sono meno aderenti degli uomini (Arnsten,
2002; Delgado et al, 2003). L’aderenza nei
pazienti con HIV dipende anche dal tipo di
tossicodipendenza eventualmente associata con la malattia infettiva essendo l’aderenza particolarmente bassa nelle donne
alcoliste e in quelle che fanno uso di oppiodi, mentre negli uomini, la bassa aderenza
si associa all’uso di crack o di cocaina ed
alla non partecipazione ai gruppi di supporto (Berg, 2004).
Infine, ricordiamo che le cause che portano ad una bassa aderenza possono essere diverse nei due generi. Ad esempio, gli
uomini dimenticano più facilmente di assumere il farmaco e sbagliano maggiormente il dosaggio, mentre nelle donne, la
scarsa aderenza dipende principalmente
dall’insorgenza di eventi avversi (Thunander Sundbom, Bingefors, 2012) e dal loro
ruolo di care-giver che le porta a trascurare la propria salute (Rolnick et al, 2013).
Tali differenze sono presenti anche dopo il
controllo di numerose variabili come l’età
(Thunander Sundbom, Bingefors, 2012).
Inoltre, negli uomini una bassa aderenza è
associata con una ridotta funzione sessuale e con la massa corporea, mentre, nelle
donne, la bassa aderenza si associa a difficoltà di comunicazione con il care-provider
e alla depressione (Holt et al, 2013).
Pensieri di Cicogne
6
Questi dati suggeriscono fortemente
che l’aderenza alla terapia possa essere
influenzata dal genere, pertanto appare
opportuno avviare studi specifici in maniera da poter programmare counseling
genere specifici.
Conclusioni
Appare evidente che in tutto il processo di
drug discovery e development è tempo di studiare i farmaci nei due generi. Inoltre è chiaro
che gli studi di genere richiedono nuovi paradigmi sperimentali che, insieme alle differenze biologiche, considerino l’impatto dei fattori
sociali sulla risposta farmacologica, le varie
fasi della vita della donna e l’uso di ormoni
esogeni.
Studi così fatti potrebbero ridurre “the time
for translation of research results into daily
clinical practice” e aumentare il profilo di
tollerabilità dei trattamenti farmacologici.
In futuro, sarà opportuno valutare come il genere dello sperimentatore o del clinico impatta sui risultati sperimentali. Un recentissimo
articolo apparso su Nature Methods evidenzia
come lo sperimentatore di sesso maschile,
ma non quello di sesso femminile, inducendo un’analgesia da stress, inibisce la risposta
dolorosa nei topi e nei ratti maschi e femmine (Sorge, 2014), indicando chiaramente che
il sesso dello sperimentatore impatta sui
risultati degli esperimenti.
SONO PIÙ BELLI
I MASCHI
SONO PIÙ BELLE
LE FEMMINE
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