parte 3 - Forumpalestina.org

Per diversi giorni gli israeliani hanno impedito ai mezzi di soccorso di raggiungere il luogo di questo massacro, e, quando la Mezzaluna Rossa è riuscita ad entrare, non l’ha fatto con i propri mezzi (ambulanze) ma con dei carretti trainati da asini, dopo quattro tentativi. Sono passati cinque anni da quel massacro, e ci chiediamo ancora se i responsabili di quella strage verranno mai processati... Dov’è finito il rapporto Goldstein? Lui è venuto qui e si è reso conto di quanto accaduto. L’ufficiale che ha fatto questo massacro è stato promosso, questa è umanità?” L’uomo ci mostra un cartello con i nomi e le foto delle vittime; 21 in tutto tra uomini, bambini e donne; solo di queste manca il ritratto. Ci allontaniamo da Zeitun visibilmente scossi dal racconto di Salah, immaginando quel campo di battaglia che avevamo appena lasciato e lo strazio ancora vivo di tanta gente che, come la famiglia Sammouni, chiede vanamente giustizia. Siamo diretti verso Gaza City e, nell’attesa di sapere se ci sarà l’incontro con Hamas, visitiamo il museo di Gaza dove pare si sia fermato anche Napoleone Bonaparte. (sopra: foto di gruppo della delegazione con Salah Sammouni e l’immagine dei familiari uccisi. A sinistra: Il museo ”Al‐Pasha” di Gaza) Ci vuole poco per rendersi conto che quanto visto a Gaza non è che la minima parte di quanto avremmo potuto ancora visitare. Intanto ci informano che anche oggi l’incontro è saltato, quindi non ci resta altro da fare che raggiungere Rafah. Giunti al valico, restiamo per ore nella sala d’attesa del boarding dalla parte palestinese, fino a quando ci viene comunicato ufficialmente che l’Egitto non aprirà i propri uffici e che non si sa quando ciò potrà accadere. Prendiamo coscienza del fatto di non poterci muovere liberamente, che viene a noi impedita la libertà di decidere se e come tornare a casa, come viene violata quotidianamente a tutti i residenti della Striscia e del resto della Palestina. Ci rendiamo conto di questo e d’altro ancora; che non ci viene detto quando potremo uscire ed intanto dobbiamo cercare un altro posto, un albergo più economico in cui dormire perché le risorse economiche iniziano a scarseggiare e non sappiamo con certezza fino a quando il nostro “soggiorno forzato” cesserà. Prima di rientrare a Gaza City, ci fermiamo lungo il confine Sud per far visita ad una famiglia di contadini che ha costruito nel suo giardino un piccolo monumento commemorativo per Vik. Lui andava spesso da loro per aiutarli e proteggerli dai soldati israeliani, facendo interposizione col proprio corpo mentre coltivavano i campi. (nella foto: la lapide in ricordo di Vik) All’orizzonte riusciamo a scorgere carri armati israeliani su collinette realizzate appositamente per avere la situazione sotto controllo. Tornati a Gaza City, ci sistemiamo all’Adam Hotel, a pochi passi dall’albergo che avevamo lasciato la mattina stessa, ma più economico. L’Adam è in fase di ristrutturazione, e suona strano se si pensa che Gaza praticamente non ha turismo; anche questo si può considerare un atto di resistenza. Da queste parti tutti quanti sono proiettati verso il futuro; nonostante l’assedio, tutti sperano che ci possa essere un'altra Gaza. (nella foto: carro armato israeliano lungo il confine a sud della Striscia) Verso sera, siamo invitati a cena dai responsabili della PNGO in un ristorante molto carino. La cena è squisita e Kahlil (grande amico di Vittorio) ci mostra una stanza del ristorante nella quale si trovano alcune foto che raffigurano la Gaza degli anni ’30; nei suoi occhi leggo una nostalgia ed una malinconia indescrivibile. Comincia da oggi un giro vorticoso di telefonate non solo per allertare ambasciata e unità di crisi, ma anche per risolvere la questione legata al volo di ritorno in Italia e del biglietto aereo, cercando di limitare il danno economico che rischia di essere ancor più oneroso. Torniamo in albergo e visibilmente stanchi andiamo a letto. 10° giorno, domenica 05.01.14: Un altro giorno d’attesa. La mattina passa senza alcuna novità dal valico. L’unica notizia positiva è che, con la mediazione della nostra Ambasciata, siamo riusciti a risolvere il problema dei biglietti per il ritorno con Alitalia. Ci viene chiesto di restare nei paraggi dell’albergo e tenerci pronti per un’eventuale partenza (sarà così per tutto il resto del soggiorno a Gaza), quindi decidiamo di fare due passi per andare a cambiare denaro e comprare qualcosa in un minimarket, dove per soli 20 shekel (all’incirca 4 euro) riusciamo a prendere l’impossibile. Nei market di Gaza si possono comprare sia prodotti locali che quelli importati da paesi occidentali, tipo pasta, biscotti e quant’altro. L’acqua in bottiglia viene venduta a prezzi relativamente alti, così che quello che dovrebbe rappresentare un bene comune, diventa una limitazione per la gente che vive a Gaza, in considerazione al malfunzionamento del sistema idrico, che ha imposto anche a noi l’utilizzo “non potabile” di acqua salmastra. (nella foto: murales dedicato a Vittorio Arrigoni sulla spiaggia) La cosa che più sconvolge sono i prezzi, esorbitanti persino per le nostre tasche, figuriamoci per loro (un pacco di pasta costa quasi 5 shekel, ossia 1,30 euro circa). Credo che la maggior parte della gente gazawa non possa permettersi di comprare prodotti occidentali, ma il dubbio che sorge spontaneo è: già, ma allora chi li compra? Probabilmente quello che rappresenta il restante 30% della popolazione. Ci troviamo in una zona piena di alberghi, dove gli “unici” ospiti sono uomini d’affari (prevalentemente legati ad Hamas) attivisti e cooperanti appartenenti alle varie Ong. Inoltre parte delle abitazioni sono occupate da impiegati che lavorano in pubblici uffici. Nel pomeriggio riceviamo in albergo la visita di Awni Matar, Presidente dell’Unione Disabili Palestinesi (WWW.GUDP.ORG): “Come associazione abbiamo fatto una serie d’incontri in tutta Europa, trovando dappertutto accoglienza ed ospitalità. Ci siamo accorti che c’è molta simpatia per i disabili palestinesi. I disabili palestinesi sono molto più svantaggiati rispetto a quelli che si trovano in Occidente. Noi ci troviamo a vivere una condizione di perenne difficoltà. Ci auguriamo che le associazioni che lavorano con i disabili possano darci una mano concreta, affinché a tutti i disabili possano essere attuati gli stessi diritti. Innanzitutto chiediamo alle istituzioni di poter essere trattati come esseri umani. Il nostro impegno è lavorare per il futuro per rendere la vita più facile alle future generazioni. In tutta la Palestina il popolo dei disabili conta il 7% della popolazione, per la maggior pare minori; la cause di disabilità dovute a conflitti armati ne fanno alzare notevolmente la percentuale. L’associazione si occupa di diverse attività ricreative, tra le quali ricamo per le donne, disegno sul vetro ed incisione sul legno. L’unico problema è che spesso manca la copertura economica, per cui i progetti che abbiamo in cantiere muoiono sul nascere. Abbiamo cinque sedi in tutta la Striscia di Gaza ed il personale è tutto volontario. La maggior parte dei ragazzi disabili riesce a laurearsi ed a fornire in qualche modo un contributo di crescita all’associazione. La nostra speranza è che riusciate a portare le nostre sofferenze anche in Italia, raccontando della nostra associazione.” L’incontro si chiude con l’invito da parte di Awni Matar a visitare la loro sede, qualora ce ne fosse la possibilità. Il presidente è accompagnato dalla sua segretaria, anch’essa invalida; un “peperino”, una di quelle donne tuttofare, che esprime sensazioni positive; dolce e cortese, accetta di fare una foto con me. Alla fine dell’incontro ci spostiamo presso i locali della Ong Pngo, per un altro importante appuntamento, questa volta con i rappresentanti dei Comitati Popolari dei Campi Profughi. (in alto a sinistra: l’incontro con Awni Matar. Sopra: Carmen con la segretaria del Gudp) “Siamo felici del fatto che voi siate qui perché vi siete interessati ad una delle cause più importanti, quella dei profughi palestinesi, che continua ininterrottamente dal ’48. Oggi i due terzi del popolo palestinese sono profughi che vivono fuori o all’interno della Palestina. Siamo stati cacciati dalle nostre case nella nostra terra; ora la nostra casa è diventata d’alluminio, ma il nostro è un atto di sfida contro chi ha permesso questo. A Gaza, il 70% della popolazione vive nei campi profughi e il tutto ricade sulle associazioni; il più alto numero di studenti universitari risiede nei campi profughi. Tutto quello che abbiamo passato e che continuiamo a subire, ci spinge ad investire il nostro tempo e le nostre energie sull’educazione e l’istruzione dei nostri figli, affinché venga restituita dignità alla nostra popolazione. Con la nostra perseveranza siamo riusciti ad arrivare all’ONU quale Stato membro osservatore, frutto della nostra resistenza, sacrificio e lotta, con la speranza che si riesca al più presto a capire che serve una soluzione definitiva.” Si prosegue con un’analisi riguardante le strategie adottate di recente dall’Unrwa, agenzia di soccorso, d'assistenza socio‐sanitaria e di aiuti di emergenza esclusivamente per i profughi palestinesi residenti nei campi di Gaza e Cisgiordania, Siria Libano e Giordania: “L’Unrwa continua con la sua politica di restrizioni sia in Cisgiordania che a Gaza, con gravi conseguenze per il popolo palestinese sia sociali che alimentari. Negli ultimi anni, continua gradualmente a diminuire i fondi pubblici a sostegno dei campi. Ci sono tre elementi che caratterizzano la condanna del popolo palestinese: Campi profughi, l’Unrwa e le risoluzioni della comunità internazionale. I paesi che la sostengono non sono paesi poveri; il costo dell’intervento militare in Libia basterebbe da solo per coprire i finanziamenti, ma si preferisce investire sulle guerre; tanto detto, è evidente che la crisi dell’Unrwa non è monetaria ma politica. Le N.U., dopo il ’48 e l’occupazione della Palestina da parte delle forze militari israeliane, fondarono il 09 dicembre ’49 l’Unrwa con l’intento di creare lavoro, cure ed assistenza socio‐
educativa; sarebbe stato meglio se fossimo dipesi direttamente dall’Alto Commissariato delle N.U., poiché lavora per far rientrare i profughi nelle loro case (vedi Afghanistan, Kosovo, etc.). Noi resteremo fermi sulla posizione riguardante il diritto al ritorno, secondo la risoluzione ONU n°194; ormai sono tante le risoluzioni non attuate da Israele, mentre i cosiddetti Stati democratici fanno finta di niente. Noi siamo sulla soluzione dei due Stati per due popoli, ma secondo i nostri princìpi, attuando ad esempio la risoluzione n°194, che prevede oltre al ritorno dei profughi nella loro terra, il diritto al risarcimento del danno avuto. Un ringraziamento particolare va all’Italia, che ha sostenuto il voto all’ONU per l’ingresso del popolo palestinese; dopo 65 anni siamo l’unico popolo al quale è stato negato il diritto al ritorno. Grazie ai nostri sforzi e le nostre lotte, siamo riusciti ad avere il sostegno di altri popoli. La presenza di solidarietà mondiale ci rafforza nella nostra richiesta ma non bisogna dimenticare che la nostra è una causa politica, prima ancora che umanitaria. Continueremo nella nostra lotta e la vostra presenza qui ci rafforza in questo. Il discorso prosegue citando alcuni cenni storici riferiti alla nascita dei Comitati: “Nella Striscia di Gaza ci sono otto campi profughi ufficialmente riconosciuti dalle N.U. (Shati, Bureayj, Campo di Dayr al‐Bala, Jabalia, Khan Yunis, Maghazi, Nusayrat, Campo di Rafah), la prima idea di formare dei Comitati è arrivata nel 1995; c’era già l’ANP ed avevamo la sensazione che nelle trattative con Israele la questione del diritto al ritorno restasse marginale; il timore dell’esclusione ci ha indotto a fare congressi in giro e di lì a poco è nato il Comitato Popolare. All’inizio si facevano piccoli congressi per discutere del problema e del futuro. Del C.P. facevano parte esponenti dell’OLP con Hamas ed i Jiaddisti. Senza finanziamento alcuno siamo riusciti a svolgere un ottimo lavoro. Si fece un incontro con Arafat che decise di inglobarci nell’organizzazione dell’OLP.” (nella foto: uno scorcio di Gaza City) La frenetica attività che il Comitato svolge all’interno dei campi, rappresenta per noi la condizione ottimale per capire e conoscere la quotidianità della gente che ci vive dentro: “Nei campi profughi, ogni 15 maggio commemoriamo la Nakba; insieme ai francesi abbiamo fatto un gemellaggio con otto città; loro vengono a trovarci in Palestina, dopodiché ospitano parecchi bambini palestinesi per permettere loro di allentare le tensioni conseguenti alla guerra. Dopo che Hamas ha vinto le elezioni, i suoi rappresentanti sono usciti dal Comitato. Noi teniamo molto alla nostra impostazione democratica, al diritto di esercitare la democrazia dal basso. Siamo volontari e non percepiamo alcun compenso economico. A causa dell’alluvione dei giorni scorsi, si sono contati danni per 65 milioni di dollari. L’Unrwa ha contribuito con una cifra che non arrivava al milione! Malgrado il maltempo e le abbondanti piogge, siamo riusciti ad assicurare a gran parte delle persone beni di prima necessità, coperte e quant’altro necessario; molte famiglie benestanti palestinesi che risiedono all’estero hanno partecipato donando 50 dollari a testa per il progetto umanitario Una coperta per Gaza! La regione della Palestina più colpita è stata quella di Gaza; in certe zone, il livello dell’acqua è arrivato anche a 4‐5 metri. Tutta la società gazawa si è messa insieme per dare una mano. Il Governo ha dato piccole quantità di denaro solo a chi è stato gravemente danneggiato. Oltre tutto, ad aggravare maggiormente la situazione c’è stata, a causa dell’embargo, la mancanza di corrente e di gasolio per le pompe di drenaggio, di conseguenza solo per quattro ore al giorno si è potuto attivare i soccorsi; è stata una grossa dimostrazione di solidarietà popolare. Altro settore gravemente danneggiato è quello delle fabbriche; allevamenti con i macchinari sono tuttora fermi. L’acqua piovana si è mescolata a quella di scarico. Se dovesse esserci un’altra ondata di pioggia, non saremmo in grado di fronteggiarla. L’alluvione a Gaza ha causato due morti e tantissimi feriti.” L’incontro si rileva tra i più interessanti, tanto che chiederemo loro di continuare a discutere in albergo, al termine della passeggiata attraverso il centro di Gaza City, nel quartiere Al Maghazi. La visita diventa ben presto un’impresa; è buio pesto, si gira con lampadine tascabili alla mano; si intravedono fasci di luce qua e là, intervallati da alcuni falò che hanno il duplice scopo di scaldare la gente e far luce. Il gruppo nell’oscurità si divide in due; ci ritroviamo su un viale abbastanza frequentato, protetti dalla scorta di volontari della rete Pngo e di Hamas, che a fatica riescono a tenere a bada il nugolo di bambini che ci circondano; vogliono fare foto, ci chiedono ripetutamente come ci chiamiamo e da dove veniamo: “I love Italy”, “welcome to Gaza”, e finisce lì... tra sorrisi di approvazione e felicità per aver interrotto una volta tanto la monotonia della loro vita. (sopra e a sinistra: a Gaza luce e calore sono improvvisate con dei falò per gran parte della popolazione) Tornati in albergo, come già preannunciato, continua l’incontro con i rappresentanti del Comitato Popolare dei Campi Profughi; abbiamo modo di approfondire la conoscenza del sistema organizzativo all’interno dei campi, dalla sanità all’istruzione : “Oggi la situazione è molto dura: c’è l’assedio, i valichi sono chiusi... non c’è più lavoro dalla parte israeliana e la situazione è gravissima. Nonostante tutto, abbiamo chiesto a chi un lavoro ce l’ha il ricavato pari ad una giornata di lavoro quale sacrificio, ma poi è venuta fuori l’emergenza del campo profughi siriano di Yarmouk... prossimamente ripeteremo un’ennesima raccolta fondi per i campi di Gaza. Per quanto riguarda i minori, la percentuale di orfani nei campi è in aumento; se un bambino resta orfano di un solo genitore, gli viene incontro il Ministero degli Affari Sociali ed il fondo dei Martiri e dei Prigionieri palestinesi. Vi sono alcune ONG che si prendono cura dei minori: nel caso in cui un minore perdesse entrambi i genitori, la podestà viene affidata ad un parente, mentre il minore resta nella propria casa. Oltretutto, noi cerchiamo di dare a questi ragazzi una borsa di studio per dare loro la possibilità di studiare. Quando furono costruiti i campi, fu creata per ciascuno un'unità sanitaria, al fine di garantire ai bambini le prime cure e vaccini. I vaccini riconosciuti sono obbligatori sin dalla nascita, tanto che oggi ogni bambino ha una cartella personale. Il sistema scolastico prevede il nido e la scuola dell’infanzia, dopodiché c’è la scuola dell’obbligo che dura 15 anni. Restano altri tre anni per terminare il liceo; molti giovani fuggono durante questa fase, poiché comunque si vedono garantito un certo grado d’istruzione. Le tasse scolastiche non superano i 20 dollari all’anno; solo Gaza City ha più di venti istituti superiori (Università). C’è un grave problema di occupazione, poiché il lavoro scarseggia e i laureati sono tanti. Le ultime statistiche contano più di 20.000 laureati, la maggior parte di loro lavora purtroppo in altri settori, dove non è richiesto un titolo di studio, e questa situazione li costringe spesso ad emigrare. L’istruzione a Gaza si è basata su tre diversi programmi d’insegnamento nel corso della sua storia: fino al ’67 il programma veniva imposto dal Cairo; dal ’67 al ’93 da Israele; dal ’93 in poi si è finalmente potuta insegnar loro la storia della Palestina e delle sue città.” L’animata discussione verte ben presto sullo svantaggio economico dei profughi rispetto agli altri residenti nella Striscia di Gaza. “Ho fatto una ricerca sul rapporto tra i profughi palestinesi ed il popolo palestinese che risiede nelle proprie case: La questione palestinese nasce nel ’48; chi scappava cercava di restare quanto più vicino possibile alla propria casa, in maniera tale che, qualora la situazione migliorasse, potesse ritornarvi; in pratica alla fine son rimasti lì, così sono nati i primi campi profughi. Va considerato che Israele nel ’48 ha usurpato il 78% del territorio palestinese. Gli otto campi esistenti sono stati realizzati su terreni che avevano dei proprietari; furono realizzati dall’esercito egiziano, che confiscò quei terreni, creando astio fra legittimi proprietari con chi, a seguito della Nakba, fu costretto a scappare. La maggior parte degli abitanti della zona erano beduini (nomadi), con costumi e modi di fare diversi; quando sono arrivati i profughi, si è completamente stravolta la loro esistenza. Fino al ’67 c’è sempre stato tra le due parti un rapporto simile a quello del padrone col proprio schiavo. A partire da questa data, ed in conseguenza del fatto che si aveva un nemico comune da combattere, il rapporto è diventato paritario. E’ poi nata l’OLP ed in tanti, da ambo le parti, sono andati a combattere. Il ruolo essenziale cui ha dovuto far fronte l’OLP è quello di unire il tessuto sociale per il conseguimento di un obiettivo comune. In precedenza il cittadino aveva terre e capitali, il profugo nulla; dal ’67 in poi il profugo aveva il fucile in mano e questo gli dava potere. Col passare del tempo, anche i rapporti sociali cominciarono ad appianarsi, fino a sposarsi gli uni con gli altri. C’era anche una differenza dialettale, tutt’oggi ancora presente ma non in maniera accentuata. Oggi in superficie non si vedono differenze, ma dentro le mura domestiche sì; escono fuori nel momento del voto, nella stessa famiglia ci sono preferenze per l’uno o per l’altro a seconda del ceppo etnico.” Fine dell’incontro, stanchi ma soddisfatti di come è andata la giornata; affamati ma al tempo stesso assonnati, ci concediamo qualche “felafel” da un venditore nei paraggi, prima di andare a letto; domani è un altro giorno... 11° giorno, lunedì 06.01.14: Sveglia alle 6:45 perché forse alle 8:00 ci sarà la possibilità di ripartire; falso allarme, anche per oggi mattinata in albergo. Nella hall c’è chi legge e chi consulta i social network per cercare di carpire qualche notizia proveniente dall’Italia, ma c’è anche chi fa ginnastica e chi preferisce leggere un libro e gustare un buona bevanda sul terrazzino, sotto il primo pallido sole di Gaza. Nel frattempo, assistiamo all’orizzonte all’attacco di un peschereccio da parte di una nave israeliana; il peschereccio, reo forse di essersi allontanato troppo dalla costa (saranno state all’incirca 2 miglia marine) è preso di mira dai militari israeliani che gli sparano addosso colpi d’arma da fuoco, costringendolo a tornare a riva: scene di ordinaria e folle quotidianità! Il ragazzo delle reception mi dice di essere contento della nostra presenza a Gaza, ma che, dato i problemi che stiamo vivendo, sa che non torneremo più. Cerco di rassicurarlo, ma leggo nei suoi occhi la paura che il mondo si dimentichi di loro e che lasci Gaza nel suo isolamento, abbandonata al proprio destino. (sopra: attività ricreative in terrazza. A sinistra: una vedetta militare israeliana apre il fuoco contro un peschereccio palestinese ) All’ora di pranzo abbiamo una gradita sorpresa: è venuto a farci visita Michele Giorgio, giornalista inviato a Gerusalemme per Il Manifesto. Con lui cerchiamo di analizzare la terribile situazione in cui vivono i palestinesi; lui stesso, nonostante fosse un giornalista, ha ricevuto qualche giorno prima il diniego ad entrare nella Striscia dal valico di Erez. L’incontro diventa occasione per assaporare squisiti dolcetti palestinesi, gentilmente offerti dalla Pngo. La bella chiacchierata con Michele ci serve a capire quali siano le conseguenze per la popolazione palestinese dovute all’embargo: “Esistono studi appositi in cui si calcola quanto e cosa bisogna far passare per garantire la sopravvivenza: oltre, subentra il blocco. Per stabilizzare la situazione, ci sarebbe bisogno di investimenti pari a miliardi di dollari. Nei recenti allagamenti, i disastri sono la conseguenza di mancati lavori al sistema fognario da parte dell’amministrazione di Gaza.” (nella foto: Maurizio Musolino e Bassam Saleh con Michele Giorgio) “Per quanto riguarda invece il tema legato al diritto al ritorno, la posizione di Israele si può spiegare con il timore che la popolazione palestinese superi quella israeliana.” Dopo la breve ma più che gradita visita di Michele Giorgio, ci rechiamo a piedi in visita all’Associazione invalidi palestinesi. Abbiamo modo di comprendere le enormi difficoltà cui devono far fronte gli invalidi in un luogo oltraggiato dalla guerra, ed i pochi mezzi a disposizione per allietare la vita dei numerosi giovani invalidi che fanno attività nel centro. Ci mostrano i prodotti del loro lavoro volontario e ci fanno dono di un prezioso ricamo che raffigura la “moneta” palestinese, simbolo di quell’agognata autodeterminazione che tutto il popolo palestinese sogna di raggiungere il prima possibile. Quella dell’Associazione invalidi è stata per tutti noi una lieta conoscenza, tanto che si è deciso di donare loro la somma di 500 euro quale simbolo di partecipazione collettiva e sostegno alla loro causa; si tratta di una cifra sicuramente esigua, se rapportata al reale bisogno, ma per noi simbolica. Dal Centro invalidi, prendiamo alcuni minibus che ci portano nel campo profughi di Khan Younis, a sud della Striscia, per visitare il Centro per la Pace, Arte e Cultura. Il clima sul nostro bus è gioioso e festante, sarà l’aria e la gente così spontanea e gioviale che ci contagia; tra un coro e l’altro da scolaresca in gita, arriviamo in questo Centro Culturale, dove si offre a noi uno spettacolo da mille e una notte. Una donna, vestita con abiti tradizionali bellissimi, ci riceve con quella che viene definita la “danza di benvenuto”, e devo dire che di questo si è trattato. Canti e danze accompagnate dalla degustazione di thè, caffè e pasticcini; l’ospitalità di questo popolo ci lascia sempre più stupefatti. (in alto a sinistra: la moneta palestinese su ricamo. Sopra: foto di gruppo sul minibus. A sinistra: danza di benvenuto al Centro Culturale) Il gruppo musicale che ci ha deliziato con la sua musica ha composto un inno alla pace, tradotto in cinque lingue; ci è stata chiesta la traduzione anche dall’arabo all’italiano per aggiungere anche la nostra lingua. Quello palestinese è sembrato fino ad ora un popolo per niente sconfitto, che ha voglia di riprendere a vivere in totale libertà, partendo dal riaffermare le proprie origini socioculturali, spesso defraudate dalla propaganda sionista. Lasciamo Khan Younis portandoci dentro l’entusiasmo trasmesso da quella gente; per la cena siamo invitati dai responsabili dell’ospedale “Al Awda” in un ristorante molto carino e, proprio durante la cena, ci giunge notizia che neanche per domani riusciremo ad uscire da Gaza. Nonostante il conforto delle notizie trapelate all’interno della Striscia, che prevedevano la riapertura del valico per tre giorni, il valico egiziano resta chiuso per la concomitanza di una festività religiosa, usciremo mercoledì 8 gennaio... Inshallah!!! (nella foto in alto: musicisti si esibiscono nell’Inno alla Pace nel Centro Culturale) 12° giorno, martedì 07.01.14: Come spesso è accaduto in questi giorni, il nostro risveglio è provocato dal rumore degli spari provenienti dalle navi israeliane al largo (e neanche tanto) dal Porto di Gaza. Hanno deciso che oggi i pescatori palestinesi non possono uscire in mare; tutte le barche sono nel porto, tranne una che in maniera piuttosto evidente viene inseguita dalle navi israeliane; si odono colpi di mitraglia. Durante la mattinata ci sono in programma due incontri simultanei, tutti al femminile, quindi ci si deve forzatamente dividere in due gruppi: il primo incontrerà un’associazione di donne che gestisce un asilo nido, una sala per donne sole, vedove o divorziate ed una sala dove i ragazzi dagli 11 ai 16 anni imparano lavori manuali: è un modo per toglierli dalla strada. Una delle rappresentanti di questa associazione ribadisce le difficoltà che hanno le donne nel poter occuparsi non solo di politica, ma anche di attività socio culturali. La particolarità islamista che contraddistingue il credo politico del Governo di Hamas, pur sempre legittimamente votato nel 2006, reprime la diffusione di pratiche come questa. (sopra: pescatori a lavoro. A destra: un’imbarcazione crivellata da colpi d’arma da fuoco) Noi decidiamo di partecipare al secondo incontro, svoltosi in albergo con la Dott.ssa Mariam Abu‐
Daqa, una ex combattente appartenente al Fronte, che oggi è direttrice dell’Associazione PDWSA (Palestinian Development Women Studies Associations). La dottoressa racconta la sua testimonianza di vita e di militanza. “Fin da piccola amavo il mio paese e mi chiedevo perché gli uomini potessero essere attivi in politica e le donne invece no. Volevo dimostrare che le donne potessero essere capaci di fare meglio degli uomini. All’inizio, sapevo che il Sionismo era una cosa brutta, ma in realtà non avevo idea di cosa significasse. Siccome ero brava a scuola, gli insegnanti mi facevano sempre parlare; per gli altri alunni ero diventata un punto di riferimento. Scrissi anche al Presidente, affinché acconsentisse anche alle donne di lottare per la liberazione della Palestina; lui mi rispose dicendo che presto avrebbe organizzato un campo di addestramento militare per sole donne. Poco dopo iniziò la guerra del ’67; ricordo era il secondo giorno di esami, mi trovavo a Khan Younis. L’insegnante chiuse la porta della scuola per impedire ai bambini di uscire, visto che l’aviazione israeliana stava bombardando. Io non sapevo neanche cosa fosse un bombardamento; noi bambini ci siamo appostati sotto un albero, pensando in questo modo di ripararci dalle bombe. Un soldato ci ha portati in una casa, era la prima volta che vivevo in prima persona le aggressioni israeliane. Sentivamo parlare in ebraico... non capivamo cosa stesse accadendo. Con presa di coraggio, uscimmo dalla casa dicendo ai soldati di essere dei civili, senza acqua, né cibo da mangiare; per tutta risposta ci ordinarono di tornare dentro. Siamo restati in quella casa per sette giorni; all’uscita, capimmo di cosa erano capaci i soldati israeliani; non c’era niente, solo morte e distruzione... ero talmente spaventata da convincermi che gli aerei mi inseguissero per ammazzarmi. Trovammo ristoro in una fattoria, dove riuscimmo a mangiare un po’ di frutta; ero preoccupata per la mia famiglia. Di lì a poco, mi proposero di entrare a far parte della resistenza; all’inizio fui indecisa e preoccupata, ma accettai: iniziai così con l’organizzare manifestazioni, di sovente venivo arrestata, poi mio padre pagava la cauzione ed uscivo. Mio padre ci parlava sempre della terra che gli israeliani ci avevano rubato nel ’48 ed io volevo andare a vederla. Facevo parte del gruppo “Brigate Guevara”, ero l’unica ragazza del gruppo; molti dei miei compagni erano in carcere, io ci ero già stata per sei mesi.” (nella foto sopra: un momento dell’incontro con Mariam Abu‐Daqa. A destra: foto di gruppo con alcune Compagne della delegazione e Silvia, attivista della rete ISM) Mariam racconta così il suo arresto: “Un giorno, mentre dormivo con mia madre, i soldati circondarono la nostra casa; mia madre era al corrente della mia appartenenza al gruppo Brigate Guevara, mio padre invece non sapeva nulla. Mia madre, prima che i militari mi arrestassero, mi disse che non dovevo fare la spia, poiché mi avrebbero ammazzata lo stesso, e lei, in tal caso, mi avrebbe disconosciuta; avevo solo 17 anni. Fui interrogata, cercai di dare risposte intelligenti. Mi colpirono ripetutamente sbattendomi la testa sul muro e continuarono a pestarmi; in quei momenti ricordai le parole di mia madre. Sono rimasta in carcere per due anni, poi mi hanno mandato al confine con la Giordania e, siccome non avevo passaporto, Israele non mi faceva tornare, mentre la Giordania non mi faceva entrare. Dopo 11 giorni di attesa in quella terra di nessuno, i Compagni del Fronte mi fecero entrare in Giordania. Qui era tutto nuovo; dapprima cominciai a lavorare con gruppi della resistenza, ma volevo rientrare a Gaza, la mia terra. Mi sono poi laureata in Bulgaria, dopo trent’anni sono tornata a Gaza. Adesso ho fondato un’associazione per le donne, per far si che possano diventare vere leader e dare un contributo sostanziale alla causa palestinese, al pari degli uomini. Stiamo lavorando su un progetto; raccogliere testimonianze di donne che sono state in prigione e scrivere le loro storie. Facciamo film e numerosi seminari per consentire alle donne delle nuove generazioni di conoscere ciò che è accaduto; attraverso il nostro sito internet, cerchiamo di aiutare le studentesse nello studio, perché se in una famiglia ci sono i soldi per far studiare un solo figlio, si sceglie sempre l’uomo. Noi ci battiamo per l’unità dei diritti, dei privilegi. Abbiamo allacciato rapporti con l’ospedale Al Awda per aiutare donne povere appena uscite dal carcere.” Alla fine della sua storia, non sappiamo se siamo più colpiti dal personaggio Mariam Abu‐Aqda o da quanto ci ha appena raccontato; quel che è certo è che siamo consapevoli del fatto di trovarci davanti ad una donna che col suo coraggio, la sua forza e la determinazione nel perseguire il desiderio di libertà, ha fatto la storia del proprio paese e di questo ne siamo fieri. Nel primo pomeriggio i due gruppi si ricompongono in albergo e i volontari della Pngo ci portano il pranzo, costituito da squisiti rustici preparati dalla mamma di Ismail, uno dei nostri “angeli custodi”. Per la verità, Ismail voleva portarci tutti a casa sua, ma gli abbiamo fatto notare che forse non sarebbe stato il caso, considerato il numero, così ha deciso in qualche modo di farci dono della cucina di sua madre... che popolo meraviglioso!!! Nel pomeriggio in pullman per la visita ai campi della Central Strip. Anche qui stesso copione; giunti nel campo di Nusayrat è quasi buio e la delegazione è scortata da un nugolo di bambini e curiosi che, a vederli in quell’enorme stradone, formano un corteo chiassoso che si ingrossa sempre più. In questo campo vivono 80.000 persone, di cui 5.000 sono nomadi, il resto profughi; ha una superficie di 5 Kmq, ci sono due scuole, un presidio medico, un deposito di aiuti di proprietà dell’ONU, un centro di assistenza sanitaria, un centro sportivo ed uno femminile. (in alto a sinistra: alcuni edifici del Campo profughi di Nusayrat. Sopra: il cimitero di Nusayrat) La moschea, un tempo, era il Centro di comando delle forze militari britanniche (carcere inglese). Costruito nel ’48, fu preso in gestione dall’Unrwua. Causa la crescita demografica, il campo cresce in altezza; solo il 9% degli abitanti riceve aiuti umanitari dall’Unrwa, il resto si sostiene svolgendo attività lavorative. In tutta la striscia di Gaza, l’Onu aiuta circa l’80% della popolazione, ma si tratta di esigue somme. Delle unità abitative del campo, solo l’8% degli abitanti è proprietario legittimo della propria casa; la gente resta ad abitare finchè non decide di andare via. Negli anni ’70, c’è stato l’allargamento di alcune strade del campo, voluto da Sharon per permettere il passaggio dei carri armati; i palestinesi che si son visti distruggere la casa sono stati costretti ad andare altrove. Proseguendo la passeggiata, visitiamo anche il campo di Al Bureiji: questo campo ha una popolazione di 45.000 abitanti, suddivisi tra: palestinesi che sono stati costretti ad andare via da altri campi, che sono andati via dalle città e beduini del deserto che hanno imparato a convivere. (sopra: uno dei numerosi murales che si possono notare visitando i Campi. A destra: la folla di bambini circonda la delegazione. Sotto: nella sede del Comitato dei Campi Profughi) Le strade di questo campo, completamente messe a nuovo, sono state rifatte dall’ANP con la collaborazione di una ONG danese. Anche in questo campo, come già accaduto in altri campi, la visita è caratterizzata da una moltitudine di bambini che ci hanno tenuto compagnia per tutto il giro; abbiamo potuto saggiare la cordialità e la simpatia di un popolo che, nonostante la drammatica situazione in cui si trova, ha saputo trasmettere amore e voglia di libertà. Il tour termina con la visita di un parco di nuova realizzazione, costato 100.000 euro attraverso finanziamenti tedeschi. Per la realizzazione di questo parco è stata ammodernata una zona in cui era ubicata una vecchia stazione ferroviaria. L’ultimo atto del nostro soggiorno a Gaza è stata la breve visita all’interno della sede del “Comitato dei campi Profughi”; è il momento dei ringraziamenti, sia da una parte che dall’altra. Come già ribadito, l’incontro con gli esponenti di questo Comitato si è rilevato tra i più preziosi, poiché non solo abbiamo avuto modo di prendere atto in prima persona della dura realtà di questi luoghi, ma soprattutto per quanto da loro raccontato. Prima di rientrare in albergo, così come già successo durante altri incontri, veniamo riempiti di gadgets da portare con noi in Italia. A sera andiamo all’ormai “solito posto” per mangiare degli ottimi felafel; la Security, che in tutti questi giorni ci ha scortato con tanta pazienza, si è ormai congedata dal gruppo, segno che domani si parte per davvero. Giriamo ancora per poche ore in una Gaza completamente buia, senza scorta... ora il nostro “angelo” si chiama Fadi Deeb, un ragazzone in sedia a rotelle, che ha partecipato alle paraolimpiadi di Londra con la sua squadra di basket. (nella foto: ultima sera a Gaza con Fadi) QUARTA PARTE – RITORNO A ROMA: 13° giorno, 08.01.14: Sveglia all’alba, niente caffè né colazione, arriviamo al valico intorno alle 8:00 del mattino. Nel pullman assieme a noi ci sono degli internazionali che si apprestano ad rientrare a casa: ci sono spagnoli, tedeschi, americani, oltre che alcuni italiani. Siamo al valico palestinese di Rafah in attesa del visto d’uscita; l’attesa è di circa 2 ore, ma il vero strazio deve ancora cominciare: infatti prima di passare dalla parte egiziana, ci fanno sostare per ben 6 ore in una zona cuscinetto di circa 50 metri, che separa i due valichi. Durante l’attesa, osserviamo i movimenti di ingresso ed uscita dal valico; ad un certo punto entrano alcuni tir provenienti dall’Egitto che trasportano cemento; riesco a contarne cinque. (sopra e a destra: il Boarding di Gaza) Si fanno largo in uno spazio adibito a deposito attrezzi ubicato in prossimità del valico e, all’ingresso del primo tir, si odono dall’altra parte del muro di divisione urla e battiti di mano. E’ evidente la presenza di operai che finalmente possono riprendere a lavorare dopo più di un mese d’attesa dalla precedente apertura del valico. Per il resto, notiamo alcune ambulanze che lasciano la Striscia dopo una lunga attesa (immaginando il travaglio dei pazienti trasportati), mentre sono tante le famiglie che in pullman lasciano Gaza. Nel frattempo non abbiamo notizie sul come e quando inizieremo a muoverci ed iniziamo a spazientirci. Chiediamo come mai ci tengono fermi, mentre le operazioni di ingresso ed uscita per gli altri funzionano; pare manchino i documenti d’uscita che i palestinesi devono trasportare da un ufficio all’altro. Ovviamente si tratta di una scusa, dato che abbiamo visto l'impiegato palestinese portare i documenti dall’altra parte subito dopo l’inizio della nostra sosta, le 10:00 all’incirca. Prosegue l’ostruzionismo da parte delle forze egiziane e questo non promette nulla di buono per noi. Il timore è che si possa fare troppo tardi e, dato che dalle 16 scatta il coprifuoco in tutto il Sinai, ricacciarci indietro. Alle 14:00 finalmente ci lasciano entrare. Il passaggio dalla parte palestinese, pulita ed ordinata, a quella egiziana è veramente uno shock: il nostro pullman viene preso d’assalto da facchini, o presunti tali, che con insistenza ci vogliono portare le borse, un paio delle quali vengono fatte sparire; le guardie ci trattano con maniere e toni molto rudi. Attendiamo il ritiro dei passaporti e, giusto per confermare la loro ostilità, pretendono il pagamento del visto d’ingresso in dollari, che noi non avevamo, visto che li avevamo cambiati in pound egiziani, l'unica moneta che le stesse persone avevano accettato all'andata: “Welcome to Egypt“. Fino ad El Arish procediamo con grande lentezza: come all’andata, la strada è piena d’ostacoli. Alcuni vengono spostati man mano che passiamo noi. Vi sono numerosi dossi, recinzioni con filo spinato e cambi corsia, messi soprattutto per rallentare i veicoli ed evitare attentati. El Arish nord si presenta ai nostri occhi come un “campo di battaglia”; edifici distrutti e crivellati da colpi d’arma da fuoco, serrande scardinate ed ovunque detriti e calcinacci. Primo check point, ci tengono fermi un bel po’. (sopra: uno dei numerosi Ceck‐point militari: A destra: un villaggio nel deserto del Sinai) Sta per scattare il coprifuoco e non vogliono farci attraversare la città senza scorta. Quando finalmente arriva, riprendiamo il cammino: passiamo dalle vie del centro a sirene spiegate (dalla serie, se qualcuno non ci aveva notati, ora certamente sì...). Vediamo una città viva, in cui, nonostante sia buio, c’è traffico, la gente è per strada ed i negozi sono aperti, altro che coprifuoco! Superata El Arish, fortunatamente il viaggio diventa più spedito: veniamo rallentati dal duplice controllo dei passaporti solo quando attraversiamo il Canale di Suez in battello. Controllo prima di imbarcarci e dopo, come se attraversando potesse capitare chissà cosa; che strani questi giovani militari egiziani, armati fino ai denti, in mimetica e con ciabatte infradito! Manca poco, siamo al Cairo; ci si risveglia sotto lo Scout, il nostro albergo; verrebbe da dire, il “cerchio si chiude” ma, come direbbe il saggio Enzo, non lasciamoci prendere da facili entusiasmi! 14 giorno, 09.01.14: E invece l'indomani tutto avviene secondo una "normalità" e una rapidità a cui non eravamo più abituati, dal viaggio verso l'aeroporto al volo per l'Italia; arrivati a Roma, ci separiamo da molti dei nostri compagni di viaggio e ci rendiamo conto che, stupidamente, non eravamo pronti per questo distacco, perché, senza rendercene conto, li consideravano la nostra famiglia, parte integrante della nostra vita quotidiana. (nella foto: Blanca, Domi e Maurizio in compagnia del fidato autista) Per fortuna, non abbiamo molto tempo per esternare questo sentimentalismo, perché veniamo subito "sequestrati" dai compagni rimasti a Roma, che avevano seguito tutte le nostre vicende con trepidazione e avevano organizzato un bel brindisi in aeroporto! Bene, ora non resta che tornare alla nostra vita "normale": io in mia assenza ho perso il lavoro a mia insaputa (anche questo mi ricorda qualcuno...) però stranamente non m'importa, anzi sono quasi sollevata al pensiero di non dovermi immergere subito nella giungla metropolitana! Vado al sindacato per definire la mia situazione e, lungo il tragitto, assisto nell'ordine alle seguenti scene: signora che aggredisce un'altra sul trenino Roma‐Lido perché quest'ultima l'aveva involontariamente urtata a causa del sovraffollamento della carrozza; gente in metro che fa discorsi del tipo "io non sono il tipo di genitore che difende i figli, però... " oppure " io non sono razzista, però..."; automobilisti inferociti sulla Tuscolana che urlano contro il malcapitato di turno tutte le parolacce che non hanno il coraggio di dire al loro capo; ragazzini che condividono lo stesso tavolo del Mc Donald, ognuno intento a fare chissà cosa col proprio cellulare. Di fronte a tutto ciò mi sento come un pesce in un acquario, a cui, credo, tutte le voci e le immagini sembrano strane, ovattate; capisco che Gaza e la sua gente ti entrano dentro, che non potrai cacciarli mai più, neanche se lo volessi, e mi rendo conto che è stato ingenuo pensare di andare a Gaza a fare qualcosa per i palestinesi, perché quello che loro fanno per te è infinitamente più grande. (nella foto: Aeroporto Internazionale del Cairo… si torna a Roma!!!)