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n. 10 Aprile / Settembre 2014
Autoritratti di Boetti alla Galleria De Nieubourg
di Giulia De Giorgi
Nella primavera del 1968, a Milano, apre una delle mostre più dirompenti di quegli anni, la
personale di Alighiero Boetti Shaman Showman [fig. 1] alla Galleria De Nieubourg - poi
Toselli - dal 23 aprile al 12 maggio. Si tratta, per l’artista, della quarta esposizione
personale, la prima delle quali aveva già evidenziato la sua idea di ambiente allestito come
opera d’arte nella sua totalità e come palcoscenico sul quale lo spettatore finisce per
diventare attore: «vi erano degli oggetti volti a mettere la gente in una certa situazione
psicologica, come le Strutture di metallo […]: uno spazio in cui mettersi per fare
conferenze, per dare importanza al momento, per teatralizzare la situazione».1 Il medesimo
interesse per l’interazione tra opere, ambiente e osservatore si ripresenta alla De
Nieubourg, che l’artista trasforma da galleria tradizionale in uno spaccato di natura
artificiale. L’allestimento, una scenografia fluviale, è quantomeno rischioso, specialmente
per una galleria agli esordi: Shaman Showman è la terza mostra in assoluto alla De
Nieubourg, dopo Gio Ponti e Sonia Delaunay.
Boetti fa scaricare un camion di pietre di fiume all’interno della galleria. I visitatori si
trovano così a camminare sul letto di un corso d’acqua, a scovare le opere posizionate tra le
pietre, tentando di non inciampare su di esse. La scelta dirompente dell’artista induce ad
un’immediata associazione con i Tappeti natura di Piero Gilardi, serie realizzata a partire
dal 1965: i “tappeti” in poliuretano rappresentano sezioni di natura, con pietre, tronchi,
fiori. Se per Gilardi è questo un modo di riflettere sulla denaturalizzazione del mondo
operata dalla civiltà industriale, per Boetti si tratta di ricreare un ambiente naturale in un
ambiente artificiale. Shaman Showman è per Boetti il culmine della riflessione sull’opera
come finzione della natura, che caratterizza diversi autori dell’arte povera (il “mare” di
Pascali, la “margherita” di Kounellis, le “pietre” di Gilardi, il “prato” di Calzolari): «La
natura che essi ci restituiscono non si presenta più come rappresentazione e immagine
illusiva, ma come una cosa che si può manipolare e costruire da se stessi […]. Incontriamo
anzitutto una natura ricostruita nelle sue apparenze finite per mezzo di equivalenti plastici
[…]. In altri casi, queste strutture plastiche sono sostituite dal prelievo diretto di elementi
naturali».2
Alla De Nieubourg Boetti ripropone alcune opere già presentate in occasione della seconda
personale, alla Galleria Stein di Torino: Cubo, Panettone, Legnetti colorati. Altre sono del
tutto nuove: la composizione effimera Pack galleggiante, le Colonne di centrini da
pasticceria, e l’Autoritratto in negativo. Per questa esposizione Boetti prepara
appositamente due differenti “materiali”. Uno è il progetto dell’allestimento, realizzato a
collage su cartoncino, progetto che non verrà rispettato in fase di disposizione definitiva
delle opere. Questo collage non può essere assimilato a un progetto qualsiasi, costituisce
piuttosto un’opera in sé e rinvia all’usanza diffusa negli anni ’60 e ’70 di coinvolgere gli
artisti nella realizzazione dei materiali di corredo alla mostra, siano essi inviti, manifesti o
cataloghi. Il contributo degli artisti non si limita alla scelta e all’allestimento delle opere,
ma tende a considerare l’esposizione come progetto totale, ideato dall’artista di concerto
con il gallerista.
L’altro, il secondo materiale ideato in occasione della mostra, è anche il primo
“autoritratto” di Boetti di nostro interesse. La litografia di Shaman Showman [fig. 2] viene
realizzata in trentacinque copie, i manifesti appesi per le strade di Milano, un po’
pubblicità per la mostra, un po’ provocazione e opera “diffusa”. Boetti sostituisce il proprio
volto a quello dell’Adam Kadmon dello Zohar – testo fondamentale della tradizione
cabalistica – nell’immagine tratta dall’Histoire de la Magie di Eliphas Lévi (1860). La
figura è duplicata e invertita: ne risulta un corpo doppio unito al centro all’altezza del
ventre, con il capo contemporaneamente in alto e in basso, lo sguardo volto verso
l’osservatore e al tempo stesso indietro, in luce e in ombra, con segni dell’alfabeto ebraico e
cerchi a scandire i plessi energetici. Il titolo dell’opera, sfruttando assonanze e consonanze,
gioca sullo sdoppiamento attraverso il quale l’artista vuole vedersi rappresentato.
Esponendo se stesso, il proprio volto, Boetti sembra voler indicare nel proprio essere
artista un’ambiguità tra il ruolo del sacerdote e quello dell’uomo di spettacolo: «Sciamano
perché sei sempre uno stregone quando lavori con la mano e con la testa […] showman
perché ogni tanto ti tocca fare anche questo».3 Questo pensiero esprime la difficoltà, per
Boetti - ma immaginiamo anche per altri artisti del periodo - di essere originale e riservato
creatore di oggetti poetici e, al tempo stesso, animale sociale disinvolto agli eventi pubblici.
Lo sciamano rappresenta il momento introverso e complesso della creazione artistica, lo
showman quello estroverso e facile della condivisione con il pubblico: «Nel 1968 erano
accaduti alcuni fatti…si pensava di portare gli spettacoli negli stadi! Bonito Oliva voleva
fare azioni alla televisione, era un’idea veramente pazzesca. Tutto questo ci trascinava ed
erano i veri momenti falsi, della facilità, in cui ci lasciavamo andare ai primi impulsi».4
Riscontriamo questa componente della messa in scena pubblica dell’arte, frequente alla
fine degli anni ’60, oltre che nella personale di Boetti alla De Nieubourg, anche nel romano
Teatro delle Mostre (maggio 1968) e nell’esposizione di Amalfi (ottobe 1968), dove la
presenza invasiva della televisione «raggelava la spontaneità degli avvenimenti».5 Alla De
Nieubourg la messa in scena è nella mostra stessa, nell’allestimento scenografico, ma è
anche, ad un livello più sottile, nella rappresentazione pubblica della componente
“sciamanica”. Mentre, da un lato, con questa operazione l’arte sembra diventare
spettacolo, dall’altro l’opera di Boetti, proprio a partire da questa mostra, sembra infatti
poter essere assimilata all’arte “sciamanica” di Joseph Beuys, alla sua ricerca dell’armonia
con la natura e dell’energia creatrice volta a modificare il mondo: «certamente gli artisti
sono tra le rare persone che sanno trasformare certi stati di disagio, di tristezza o
semplicemente di imbarazzo nell’essere al mondo, in cose belle. Possiamo cioè arrivare a
considerare l’artista come fattore alchemico di trasformazione».6
L’elemento “magico” è presente anche nel secondo autoritratto di Boetti ideato per la
personale milanese. L’Autoritratto in negativo è uno degli esemplari (in numero di tre o di
sette), 7 ora dispersi, che ritraggono il volto di Boetti scavato nella pietra: sasso tra i sassi,
esso fatica a distinguersi. La «sindone d’artista»8 non è una maschera che, mostrando un
nuovo volto, copre quello sottostante, ma il negativo di essa, impressione dell’artista nella
materia. La pietra scavata è il segno dell’umanità nella natura, è l’intervento dell’artista
sulla realtà.
Una fotografia dell’Autoritratto in negativo [fig. 3] compare sul catalogo della grande
mostra di Berna Live in your head. When attitudes become form (1969),9 in occasione
della quale Boetti espone non l’Autoritratto in negativo, ma un’altra opera, anch’essa
significativa per il tema dell’identità. Io che prendo il sole a Torino il 19 gennaio 1969,
oltre ad essere un ritratto dell’artista – seppur sui generis – presenta nuovamente il tema
della materia segnata, dal momento che Boetti lascia l’impronta della propria mano sui
blocchetti di cemento che utilizza per comporre il corpo disteso. La riflessione di Boetti sul
proprio corpo e sulla propria presenza di artista in carne ed ossa si avvicina a quella di
Bruce Nauman, il quale giungerà a livelli estremi nell’utilizzo della propria persona come
mezzo comunicativo ed estetico. Non a caso, a Berna, Harald Szeemann sceglie di esporre
Boetti nella medesima stanza di Nauman, presente con il suo Self portrait as a fountain
(1966). La fotografia sul catalogo della mostra di Berna è emblematica per la presenza
contemporanea dell’artista e del suo calco, a costituire una coppia inscindibile di opposti
complementari: la pietra scavata non può esistere senza il suo modello, così come il volto
necessita del proprio riflesso per riconoscersi. La vita e la morte, il movimento e la fissità, il
pieno e il vuoto ci guardano dalla fotografia, dove il bianco e il nero uniformano le due
espressioni della stessa identità.
L’Autoritratto in negativo viene nuovamente esposto - probabilmente un differente
esemplare - alla mostra sull’arte povera che si tiene agli Arsenali di Amalfi nell’ottobre del
1968. Boetti presenta un assembramento di oggetti disparati, in mezzo ai quali compaiono
anche opere vere e proprie. Uno degli oggetti esposti è un rotolo di cartone con la scritta
“shaman showman”, corrispondente al titolo dell’opera-assembramento di Boetti, nonché
al titolo della personale alle De Nieubourg e all’opera-manifesto creata per quell’occasione.
Si può così ipotizzare un legame tra le due mostre, che non si ferma solamente al titolo, ma
che ha a che fare con la riappropriazione, da parte di Boetti, di sé come artista e come
uomo. Si potrebbe, a questo punto, intravedere nella personale del ’68 un punto di snodo
fondamentale nel passaggio dagli inizi dell’attività creativa di Boetti, nel ’66-’67 – quando
l’attenzione era concentrata sui materiali, sulle forme, sul design e sull’ambientazione di
questi elementi – alla “nausea” del ’68, che emerge in modo dirompente ad Amalfi, dove
l’assembramento caotico fa mostra di sé e si satura la ricerca attorno alla novità materica.10
Il passaggio avverrebbe a livello della percezione di sè dell’artista, il quale riconquista la
dimensione interiore della riflessione e sposta l’interesse della creazione artistica su di sé.
Il tema della soggettività e della ricerca sull’identità, presente nell’arte povera, si esplica
attraverso ritratti e autoritratti solo in pochi autori, come Michelangelo Pistoletto e Giulio
Paolini. In Delphi (1965) quest’ultimo si inserisce prepotentemente nell’immagine,
allontanando la tradizionale separazione tra osservatore e artista in quanto creatore
dell’opera, mentre in Giovane che guarda Lorenzo Lotto (1967), Paolini gioca sulla
molteplicità delle identità: l’artista stesso, l’autore dell’originario dipinto, lo spettatore.
Pistoletto, con i suoi Quadri specchianti, interviene, oltre che sull’autorappresentazione,
sul tema del doppio, presenza costante anche nell’opera di Boetti a partire proprio dai due
ritratti della mostra milanese: «L’uomo ha sempre tentato lo sdoppiamento di se stesso per
cercare di conoscersi. […] La mente ha costruito la rappresentazione sulla base del proprio
riflesso. […] E guardando all’arte ho sentito la forte oscillazione a cui essa mi costringeva
tra una parte mentale e astratta e una parte concreta e fisica».11 Pistoletto risolve
l’alternativa tra le due parti, rappresentate rispettivamente dalla pittura e dallo specchio,
attraverso la sovrapposizione e l’identificazione. Le due parti, diventate una in Pistoletto,
rimangono separate in Boetti, per il valore intrinseco di reciproca imprescindibilità:
doppio è sinonimo di opposti, di coppie antitetiche complementari e in dialogo tra loro. E’
questo per Boetti il modo di esprimere la necessità della molteplicità e della non fusione
delle differenti prospettive, per consentire un processo dialettico che altrimenti si
arresterebbe nel momento dell’unificazione: «uno per sentirsi ha bisogno del negativo. […]
ho sempre il problema di non rispecchiarmi, di non fermarmi per vedere, forse per andare
avanti, sempre».12 La dinamicità, il cambiamento sono resi possibili dalla presenza di
tensione e contraddizione tra le diverse parti, capaci così di creazione. Mantenere la dualità
significa non pervenire mai a definizioni assolute e far così vivere lo spiazzamento, per
l’artista e per gli osservatori, lontano dall’immobilità di certi prodotti artistici.
Il fulcro della dialettica è il termine di mezzo, essendo Boetti interessato non «agli opposti
ma a ciò che li unisce e li divide».13 È il tempo che intercorre tra l’accensione di due
pannelli in un’opera come Ping Pong (1967), presentata alla prima personale, alla Galleria
Christian Stein. È la lettera “e” inserita, a partire dal 1972, nella propria firma, tra il nome e
il cognome, a formare due identità distinte e inseparabili: Alighiero e Boetti. È
l’espressione delle infinite possibilità che si presentano quando l’artista affida ad altre
persone la realizzazione di progetti (come gli arazzi o i lavori a biro) di cui controlla l’idea
iniziale e l’immagine finale.
Ciò che unisce due unità nate da uno sdoppiamento è proprio la loro non omogeneità, che
emerge netta in Gemelli [fig. 4], altro “autoritratto” di Boetti del 1968. Gemelli è anche la
prima opera postale di Boetti, che fa realizzare, da un fotomontaggio di due
rappresentazioni di se stesso, cinquanta cartoline che spedisce poi ad amici e conoscenti
con brevi frasi sul retro. Il coinvolgimento di altre persone rivela la componente ludica
dell’operazione, nell’informare, tramite un mezzo usuale di comunicazione, del proprio
“sdoppiamento” e nell’invitare gli amici a stare al gioco. Anche quest’opera lavora sui temi
dell’identità e della compresenza di più personalità, sull’impossibilità di una definizione
univoca quand’anche si tratti di uno stesso individuo.14 Qui lo spiazzamento è conferito
dallo scarto tra il titolo e l’apparente somiglianza delle due figure, da un lato, e la non
sovrapponibilità tra il primo e il secondo gemello, dall’altro. Ancora una volta
l’introversione dello shaman e l’estroversione dello showman.
Come i due gemelli, per il fatto stesso di essere due entità differenti, non sono la stessa
persona, «così Alighiero non è Boetti».15 È la necessaria alternativa tra i due corpi a
mantenere in vita l’unità costituita dal binomio dei due opposti in perenne dinamica:
«Sarebbe bello se ci fossero due mondi l’uno tutto cosciente, l’altro tutto inconscio, che si
tenessero per mano senza confondersi mai».16 La certezza del rispecchiamento e dello
scambio permette che le due entità si riconoscano l’una nell’altra, mentre la fissità del
singolo sarebbe come la morte. E’ forse proprio per questo, e non per esibizione di sé, che
Boetti si fa ritrarre a fianco del proprio volto scavato nella pietra.
Altre operazioni del periodo insistono sul tema dello sdoppiamento, a cominciare da
Boetti,
17
inserita tra le opere presenti alla seconda personale alla Galleria Stein (febbraio
1968). L’artista realizza due cartoni ondulati con le scritte in stampatello “boetti” e “itteob”,
il suo inverso. Oltre a costituire una delle prime manifestazioni dell’interesse nei confronti
del proprio nome e della arbitraria disposizione delle lettere, Boetti è un altro autoritratto,
se consideriamo il nome come espressione convenzionale della persona.
L’idea di dualità, esistente all’interno di uno stesso soggetto, si era già vista in San
Bernardino (1967) [fig. 5], fotografia in cui Boetti si fa ritrarre con le braccia sollevate, una
mano aperta, l’altra chiusa in un pugno. Lo scrittore e poeta Giovan Battista Salerno
fornisce questa descrizione dell’opera: «La mano destra ha le dita aperte come i raggi di un
sole. E’ la mano che dà e che si dà quando si dà la mano. La sinistra è chiusa in un pugno,
ha il buio dentro, è la mano che contiene e che trattiene. La testa è il passaggio necessario
tra questo dare e avere, non rifiuta ciò che riceve e non lo conserva».18 Ritroviamo qui la
moltiplicazione tramite divisione in due del soggetto e la compresenza di sé e altro da sé
presenti in Gemelli e in Oggi è venerdì ventisette marzo millenovecentosettanta. In questa
performance, filmata da Gerry Schum, Boetti scrive contemporaneamente con la destra e
con la sinistra, compilando la medesima frase due volte, a specchio: l’artista dà modo alla
propria parte “incontrollabile” di compiere la medesima operazione della parte
“controllata”, così che una non continui a prevalere sull’altra per convenzione.
DIDASCALIE IMMAGINI
1. Immagine della mostra Shaman Showman, Galleria De Nieubourg, Milano, 1968.
2. Alighiero Boetti, Shaman Showman, 1968.
3. Alighiero Boetti, Autoritratto in negativo, 1968.
4. Alighiero Boetti, Gemelli, 1968.
5. Alighiero Boetti, San Bernardino, 1967.
Mirella Bandini, 1972, arte povera a Torino, Allemandi, Torino, 2002, p. 32.
Filiberto Menna, “Una mise en scène per la natura”, Cartabianca, n. 1, marzo 1968, pp. 3-4.
3 Maurizio Fagiolo, “In quell’artista c’è uno sciamano”, Il messaggero, 23 marzo 1977, p. 3.
4 Mirella Bandini, 1972, arte povera a Torino, cit., p. 30.
5 Piero Gilardi, “L’esperienza di Amalfi”, in Germano Celant (a cura di), Arte povera più azioni povere
(catalogo della mostra, Amalfi, Antichi Arsenali della Repubblica, 4 ottobre - 6 ottobre 1968), Rumma,
Salerno, 1969, p. 80.
6 Sandro Lombardi (a cura di), Alighiero e Boetti: dall’oggi al domani, L’obliquo, Brescia, 1988, p. 14.
7 Per Tommaso Trini sono sette: «Sette pietre ricostituite, recanti il calco in negativo della faccia di Boetti,
furono allora collocate in altrettante località diverse e lontane tra loro, su un monte, in un fiume, in un parco,
ecc.» (Tommaso Trini, “Abeeghiiiiloortt”, Data, n. 4, maggio 1972, p. 56); per Anne-Marie Sauzeau invece
sono tre:«Boetti lo realizzò (in tre esemplari se non sbaglio) […]. La memoria mi dice che a mostra finita
Alighiero realizzò il suo progetto di offrire allo stesso Po quel volto che la corrente, la sabbia e il tempo,
1
2
scorrendovi sopra, avrebbero modificato e riassorbito» (Anne-Marie Sauzeau Boetti, Alighiero e Boetti.
“Shaman-showman”, Allemandi, Torino, 2001, pp. 51-52).
8 Tommaso Trini, “Le pietre di Boetti”, Domus, n. 464, luglio 1968, p. 47.
9 Harald Szeemann (a cura di), Live in your head. When attitudes become form, works-concepts-processessituations-information (catalogo della mostra, Bern, Kunsthalle, 22 marzo - 27 aprile 1969), Kunsthalle,
Bern, 1969.
10 «Erano momenti di grande eccitazione, anche a livello di materiali: una scoperta. […] Purtroppo certi
momenti dell’Arte Povera erano proprio da “droghiere” […]. Poi vi è stata un’esasperazione nel 1968, che io
ho vissuto fino alla nausea, e poi basta…chiuso!» (Mirella Bandini, 1972, arte povera a Torino, cit., p. 29).
11 Michelangelo Pistoletto, “L’arte e il suo dop(pi)o”, Bit, n. 6, dicembre 1967, p. 9.
12 Achille Bonito Oliva, Dialoghi d’artista: incontri con l’arte contemporanea 1970-1984, Electa, Milano,
1984, p. 234.
13 Jean-Christophe Ammann, “Dare tempo al tempo”, in Jean-Christophe Ammann, Maria Teresa Roberto,
Anne-Marie Sauzeau (a cura di), Alighiero Boetti. 1965-1994 (catalogo della mostra, Torino, Galleria Civica
d’Arte Moderna e Contemporanea, 10 maggio – 1 settembre 1996), Milano, Mazzotta, 1996, p. 17.
14 «Di fronte a queste coppie di concetti apparentemente antitetici io penso che ogni cosa contenga il suo
contrario, per cui l’atteggiamento preferibile dovrebbe essere quello di azzerare le cose, […] si può ordinare e
disordinare una coppia o una classe di concetti, senza privilegiare mai uno dei due termini contrapposti, ma
al contrario cercando sempre l’uno nell’altro» (Sandro Lombardi, Dall’oggi al domani, cit., pp. 14-17).
15 Anne-Marie Sauzeau, Alighiero e Boetti. “Shaman-showman”, cit., p. 58.
16 Alighiero Boetti, Giovanni Battista Salerno, Franz Kaiser (a cura di), Alighiero e Boetti. Insicuro
Noncurante (catalogo della mostra, Villeurbanne, Le Nouveau Musée, 7 febbraio – 20 aprile 1986), Le
Nouveau Musée, Lyon 1986, p. n.n.
17 L’opera è visibile nel filmato di Ugo Nespolo sull’esposizione: boettiinbiancoenero (7.33 m, Italia, 1968,
b/n, sonoro).
18 Alighiero Boetti, Giovanni Battista Salerno e Franz Kaiser (a cura di), Alighiero e Boetti. Insicuro
Noncurante, cit., p. n.n.