Sidonie-Gabrielle Colette Claudine a scuola Claudine à l'école, 1900 Traduzione di Laura Marchiori Introduzione di Carlo Bo Copyright 1955, 1985, 1991 RCS Rizzoli Libri S.p.A., Milano Sidonie-Gabrielle Colette, scrittrice francese (Saint-Sauveuren-Puisaye, Yonne, 1873-Parigi 1954). Col suo primo marito, Henri Gauthier-Villars (Willy), pubblicò i romanzi ispirati a Claudine ("Claudine a scuola", 1900; "Claudine a Parigi", 1901; "Claudine sposata", 1902; "Claudine se ne va", 1903). Nel 1906, dopo aver divorziato, fu per un certo tempo attrice di teatro, senza per questo rinunziare alla sua attività di scrittrice. Fra i suoi romanzi ricordiamo: "Il rifugio sentimentale", 1907; "La vagabonda", 1910; "L'altra faccia del music-hall", 1913; "Chéri", 1920; "Il grano in erba", 1923; "La fine di Chéri", 1926; "Sido", 1929; "La gatta", 1933; "Mie esperienze", 1936; "Diario a ritroso", 1941; "Gigi", 1943; "Il fanale blu", 1949, ecc.. Parecchi dei suoi romanzi furono adattati per le scene e per lo schermo. Introduzione Claudine ha ottantacinque anni, qualcuno di più se ci si attiene alla data in cui è stata scritta, 1895, ma non li dimostra. Con lei è nata Colette, uno dei grandi scrittori della prima metà del Novecento francese. La cronaca ci ha anche fornito altri dati, primo fra tutti quello della casualità di questa nascita. Il primo marito della scrittrice, Willy (Henri Gauthier-Villars), era uno specialista in letteratura di pronto consumo fra lampi di buona scrittura e temi audaci, una specie di Dumas in ventiquattresimo che preferiva firmare i libri scritti da altri, tutt'al più correggendoli e aggiungendovi un po' di pimento. Anche nel caso di Claudine la regola è rispettata. Il primo libro della serie appare con solo il suo nome per rispettare la tradizione della bottega ma forse qualcosa di più: voleva dire, a chi avrebbe potuto capire la musica, chi lo aveva ispirato. Com'è stato in realtà. Willy, colpito dalla capacità tutta istintiva della moglie nel raccontare, nell'animare un piccolo teatro di memorie di scuola, l'aveva invitata a "mettere sulla carta" le sue piccole storie di provincia. Per la verità, Willy non rimase soddisfatto del risultato e per un lungo periodo di tempo preferì dimenticare il manoscritto della moglie fino a quando, o pentito del primo giudizio o spinto piuttosto dal bisogno, lo ritirò fuori e trovò un editore più compiacente dei primi che lo avevano esaminato e respinto. Il libro ebbe un enorme successo, si può dire senza esagerazioni che rappresentò un caso e ben presto venne trasferito nella macchina della propaganda, allora già perfettamente funzionante. Cento prodotti vennero venduti all'insegna di Claudine, ma soprattutto tutta un'epoca si vestì con gli abiti della turbolenta e irrispettosa studentessa di provincia. Questa è stata la moda, durata per molti anni, ma al di là delle coincidenze il caso esigeva qualcosa di più e va detto che gli osservatori più acuti del momento non tardarono a riconoscerne i meriti, anzi la novità letteraria. Si è discusso a lungo sulla natura della composizione del libro, più precisamente sulla parte che spettava alla donna e quella che spettava al marito. Il problema alla fine è stato risolto, il libro lo aveva scritto Colette, Willy si era limitato a fare qualche correzione e a inserire là dove lo aveva ritenuto opportuno qualche tratto più spinto. Sempre il sistema antico del condimento. Comunque, con Claudine à l'école era nata una vera e autentica scrittrice che per mezzo secolo avrebbe onorato la casa della sua letteratura. Per quanto confusi e non sempre ben riconoscibili, ci sono nel libro tutti i segni di quella che sarebbe diventata la sua arte di narratrice. Almeno in questo Willy non si era sbagliato, avendo riconosciuto subito il senso di quella novità, dovuta più all'istinto che non a una suggestione culturale. Colette ha infatti molto del suo personaggio, prima di tutto ha il senso e il gusto della natura, poi una forte carica sentimentale e per certi aspetti sessuale, soprattutto dimostra uno spirito vivo e pronto, insomma quell'istinto che l'avrebbe guidata attraverso la sua vita tempestosa. Ammettiamo per un momento che il suo primo scopo fosse quello di mettere in rilievo gli avvenimenti più piccanti della sua vita di studentessa e quindi di rispettare il clima di una certa letteratura minore che andava di moda alla fine del secolo, ma tutto questo non inficia la parte più vera del racconto. Basta fare una semplice prova: colpiscono oggi in modo distorto buona parte delle situazioni più audaci epperò ci consentono di riportarci a quel tipo di letteratura di divertimento e di distrazione, peraltro rispecchiante una società ben definita in modo da separare nettamente il giusto tono da quello di comodo o posticcio, la scrittura dalla ripetizione. Nasce con Claudine non soltanto una delle immagini più celebrate della donna che si vuole libera e indipendente e padrona dei propri istinti, nasce un tipo di donna che va ben al di là delle mode e delle voghe. Potremmo dire che una volta morta la Claudine del successo ne nasce una seconda, una terza, tutta una serie di Claudine che era poi sempre la stessa ma fatta più esperta e più sottilmente critica dei propri umori e delle proprie virtù. Che è poi quello che succede con la scrittrice: Colette parte con il vento dell'improvvisazione parlata ma poi accettando il suggerimento di Willy comincia a lavorare di forbici e di gomma da cancellare e alla fine le riesce di raggiungere il successo più alto nella resa dello stile, nell'ambito di una lunga meditazione che le consentirà di darci delle opere quasi perfette come Chéri, La naissance du jour, ecc.. Come si vede, si tratta di una felice congiunzione fra una natura forte, fra un temperamento e un'intelligenza ferma, senza pregiudizi né preconcetti. All'origine c'è - lo ripetiamola natura e l'amore della natura, nel senso che Colette impara subito e dai genitori e dalla vita di paese quelli che sarebbero stati i suoi punti di riferimento, le sue solide piccole verità. E' su questo capitale iniziale che innesta le sue prime esperienze, e poi la così diversa vita parigina ed è sempre a questo capitale che si rifarà nelle diverse occasioni dell'esistenza. Le rimarrà quel suo primo carattere di contadina ma suscettibile, anzi bisognoso di altre esperienze, quindi libero e disponibile. Per quanto la sua esistenza sia stata accidentata e a volte scandalosa, non c'è però mai stata nessuna forma di abiura o di rinuncia. Colette doveva sentire che niente l'avrebbe potuta corrompere nell'intimo e distoglierla da quella che era la sua vocazione. Lo stesso va detto per le influenze che ha subìto, a cominciare da quella del marito: un uomo più anziano di lei e non certo trattenuto da remore al momento di mettere la moglie in contatto con persone e ambienti così diversi e lontani dalle sue origini. Anzi, si ha l'impressione (e non appena l'impressione) che qualche volta sia stata usata da cavia e promossa al ruolo di donna in vena di perversioni. Tutta la prima parte della sua vita parigina va letta alla luce di questa società che ritroviamo sul fondo di molte ricapitolazioni romanzesche, anche famose e consacrate dal successo. Resterebbe da vedere quale di queste due componenti dell'animo di Colette sia stata vincitrice e preponderante: un calcolo piuttosto complicato. Epperò crediamo si possa sostenere che delle due, la componente più sicura è la prima, nel senso che è grazie al suo istinto di contadina che la realtà è rimasta integra, ferma e sciolta da ogni correzione abusiva. Da questo punto di vista non ci sono differenze fra vita e scrittura, fra la donna e la scrittrice. La sua natura era così forte che neppure le esperienze più suscettibili di devastazione morale l'hanno scalfita. Ma è giusto parlare di morale a proposito di Colette? Non lo è, così come quando si parla di natura in assoluto. L'assenza quasi totale di questo ordine interiore è stata compensata - almeno in parte - dalla carica sentimentale che proprio nelle Claudine ha avuto la sua prima codificazione. Per capire fino a che punto il sentimento fosse radicato nella natura del suo temperamento, bisognerebbe ripercorrere l'itinerario del suo primo matrimonio, tutto quanto Colette ha abbandonato nelle mani di Willy e quello che ne ha ricavato personalmente. E' su quel passivo che vanno inscritte le debolezze, le incertezze e gli squilibri degli anni in cui Colette diventa un personaggio, va sul palcoscenico, canta, apre negozi e infine non si sottrae a tutta una serie di esperienze che vanno sotto il segno del lesbismo. Anche lì, dove sembra più prepotente il gusto della deviazione, è ben visibile il bisogno del sentimento, l'altro volto dell'amore che non sta soltanto nel piacere. Colette avrebbe analizzato poi questi piaceri che a torto si chiamano fisici e avrebbe sapientemente discettato sul puro e sull'impuro, senza però tentare una discriminazione netta fra i due domini, ma anche in questi casi si ha la sensazione che l'area sentimentale non sia mai stata diminuita o sottovalutata. Anzi si potrebbe sostenere con qualche sicurezza che tutto il suo vissuto non abbia avuto altro significato che questo di salvare intatta la parte del cuore. Una volta pagato il debito al piacere, a tutti i piaceri (il suo appetito era vivo), non avrebbe dovuto far altro che segnare sul libro dei suoi conti personali la cifra, l'utile che nonostante tutto aveva saputo trarre dalle sue navigazioni. Senza questo non solo non ci sarebbero stati i libri del vissuto ma neppure quelli della memoria, e si pensi a tutta la stupenda antologia che si fa con le pagine che Colette ha scritto sulla madre e per la madre o quella altrettanto felice costruita con le pagine sugli animali. Non è un caso che dopo le Claudine, Colette entri direttamente in letteratura con i Dialogues de bêtes. Caso mai, si potrebbe osservare che tanta era la forza di questo bisogno sentimentale da farla cadere in qualche eccesso di tono, in qualche motivo troppo tenuto, se non addirittura estenuato. Tutti difetti, questi, dipendenti dall'abitudine all'improvvisazione e più ancora agli insegnamenti distorti di Willy. E' la parte di scorie che Colette dovrà ridurre al minimo e va detto che è riuscita assai bene nell'impresa se già ne Les vrilles de la vigne la sua autonomia sarà completa. D'altra parte se non ci fosse stata questa zona iniziale di cattivo gusto e di eccesso Colette non si sarebbe sentita spronata a ridurre, a potare, a giuocare di allusioni. La grazia della sua pagina è stata un frutto maturato lentamente e questo succede sempre con gli scrittori di istinto, i quali devono imparare tutti i sussidi della misura e della compostezza e Colette ci ha messo diversi anni prima di arrivare a quel suo felice dettato di composizione. Il tempo dell'apprentissage (tanto per riecheggiare il titolo di uno dei suoi libri più belli) per Colette è durato molto, potremmo dire quanto dura lo sforzo, l'impegno del prosatore intento a raffinare per sottrazione e riduzione. C'è una precisa corrispondenza fra il progressivo staccarsi dalla vita intensa e la conquista di un nuovo regime stilistico. Non per nulla ai primi anni del successo parigino faceva un tipo di letteratura di amplificazione, il cui nucleo è rappresentato dalla serie di Claudine: Colette aveva infatti bisogno di trovare un punto di soluzione e di innesto fra il suo capitale originario e il calendario delle sue esperienze. In fondo Claudine non è che l'esempio di un riadattamento o forse meglio di una ricerca di equilibrio fra ciò che aveva visto da ragazza e lo spettacolo che le offriva una città come Parigi. Di fronte alla provinciale che cerca di diventare parigina c'è la scrittrice che passa dal discorso parlato a quello scritto. Però non dimentichiamo mai che Colette si è fatta da sola, spesso contro le illusioni e le voci che le arrivavano un po' da tutte le parti, in principio per tramite di Willy e dei suoi amici. Ha fatto tutto da sé, almeno per quanto sappiamo della sua educazione letteraria e tenendo presente che non ha mai obbedito a schemi e progetti stabiliti a freddo. Così ci spieghiamo la sua originalità e il suo non dipendere da modelli di alta letteratura, quali erano in voga nella zona della letteratura pura. Il che torna a riproporci la stretta connessione fra letteratura e vita e a comprendere uno dei suoi bisogni più nascosti, quello di disinnescare la carica vitale di certe situazioni in modo da costituire accanto al dato della realtà una nuova valutazione delle cose. Nessuno potrebbe mettere in dubbio questa sua fedeltà naturale alle cose, anche nelle pagine apparentemente più fatue è sempre ben riconoscibile questo legame saldo e forte, per cui negli anni della dissipazione non smette di vincere la concretezza, la coscienza della sua verità naturale. E c'è anche un'altra spiegazione della lunga dimora della figura di Claudine, a meno che non la si voglia spiegare semplicemente con la chiave del successo e dello sfruttamento del successo: restando legata al tipo, a quel carattere, Colette si riservava l'uso di uno strumento più sicuro. Claudine era in qualche modo il porto sicuro per le sue navigazioni. Di qui la memoria costante e sempre più crescente negli anni della maturità della figura della madre e del padre, soprattutto della madre. La madre era per Colette un modello di vita e di saggezza, l'esempio più alto di quello spirito di naturalezza che in fondo ha continuato a voler rispettare e a imitare. Il lettore del primo volume della serie è al proposito informato sui meccanismi della sua psicologia, la differenza che passa fra Claudine e l'ambiente della scuola illuminando assai bene quelli che erano i suoi gusti e le sue tendenze. Insomma Claudine era un carattere e questo carattere se lo era portato a scuola dalla famiglia e da un modo di vita che rifiutava per istinto il giuoco delle convenienze e le trame dello spirito di opportunità e di egoismo. Se poi vogliamo confrontare su questo metro e la vita e l'opera intera di Colette, ci accorgeremo che da questo punto di vista non ci sono state speculazioni di alcun genere. Colette è rimasta fedele all'immagine della sua adolescenza, nel senso che non si è mai nascosta e ha sempre cercato di essere quello che sentiva di essere. A questa luce gli stessi errori, lo stesso spirito di ribellione alle norme della società francese degli inizi del secolo appaiono per ciò che volevano essere, delle correzioni, magari negative e violente ma sempre in nome della libertà e dell'indipendenza. Sarebbe curioso cercare di vedere chi sia stato più libero, lei o Gide? In Gide c'era sempre qualcosa di programmatico, la sua protesta e così il suo bisogno di liberazione obbedivano a un calcolo critico; a un risentimento, piuttosto. Gide ha avuto bisogno di giustificarsi nella protesta, lo stesso suo "immoralismo" era una dissacrazione ben calcolata di certi tabù. In Colette nessun calcolo, la vediamo andare allo sbaraglio epperò l'insegnamento sarebbe venuto dopo, per tutto ciò che aveva fatto nell'ambito dell'istinto. Colette fa in un giorno ciò che è costato a Gide anni di speculazione e di attenzione. Non basta, Gide obbedisce allo scrupolo, misurando ogni suo gesto, per arrivare alla confessione intera dovrà lasciare passare molti anni e Si le grain ne meurt raggiunge il pubblico a cose fatte, quando intanto i modelli di una certa morale erano stati superati. Colette in qualche modo si confessa nel momento stesso in cui fa certe scelte, si dirà che si metteva troppo in mostra e dava alla sua rivolta troppe luci e troppi suoni e forse è vero, comunque la spinta, il deterrente vanno ricercati nel suo carattere, in quel suo alternare la furia con il ragionamento. Ci si dirà: ma quale ragionamento, se non c'è mai nessun atto di meditazione, nessun segno di rimorso? Così com'era Claudine-Colette ignorava queste categorie perché era impossibile per lei un disegno calcolato. Per il fatto di essere ciò che sentiva di essere si escludeva da qualsiasi memoria di morale e infatti su di lei è passato invano tutto il tempo cristiano. Non aveva né senso né nozione del peccato e per lei la vita era una vite da vendemmiare, a meno che non si voglia dare alla parte del sentimento un colore di malinconia ma se si scopre questa vena malinconica bisogna riportarla a uno stato puramente fisico, all'idea di piacere. E' grazie a questa nozione di "piacere" che la possiamo distinguere dagli altri scrittori del suo tempo. Si pensi per esempio a Proust, il piacere dei suoi personaggi era subito cenere, lo era quando ancora era nascosto e segreto. Più che di piacere si trattava di passione, oltretutto avvelenata dalle circostanze e dagli elementi più velenosi del tessuto sociale. Di Gide abbiamo già detto, se passiamo ad altri ci ritroviamo sempre costretti a registrare delle contrazioni e delle contraddizioni: pensate a un Mauriac per il quale vale soltanto il criterio del peccato, della colpa e del rimorso. Naturalmente Colette non è stata né la prima né la sola a manifestare questo senso di gioia fisica ma senza dubbio è stata quella che lo ha provato e restituito nella maniera più libera, totalmente scevra da altri condizionamenti. Eccezion fatta per Claudel che ha legato la nozione di gioia a un'altra ragione, tutti gli scrittori contemporanei di Colette si sono dibattuti nel cerchio degli impedimenti e delle costrizioni. Nessuno ha cantato il piacere così come lei, senza dissimulazioni, senza patteggiamenti. Lo ha fatto perché la realtà che vedeva glielo consentiva, soprattutto perché trovava nel fisico tutti i motivi di soddisfazione e di giustificazione. Quanti altri non hanno provveduto a mascherare letterariamente il suo stesso criterio, pensiamo a un Montherlant e alla sua prudenza mascherata dalle luci del monumentalismo con tutte le dipendenze del caso, strappate alla storia. L'esaltazione che Montherlant faceva della virilità era ben diversa da quella tutta semplice che Colette faceva della femminilità. Ma Colette andava più in là, perché non ha mai fatto questione di femminismo o no. Dal momento che dominava il principio del piacere, non c'era più motivo perché esistessero discriminazioni né differenze. Il piacere dipende dal corpo e prima ancora dal bisogno naturale della soddisfazione. Ricordiamoci che per lei non esistevano né colpe né peccati, tutto consisteva nel raggiungimento della soddisfazione. Naturalmente cedeva quando vi era portata da esigenze di rappresentazione allo spettacolo, valga l'esempio di Claudine en ménage, ma anche queste passioni minori o di pura dipendenza non costituivano mai un ostacolo, erano dei pimenti, quei pimenti che la maliziosa Claudine del collegio conosceva già, senza che nessuno glieli avesse raccomandati. Tutto l'album dei suoi amori, dei suoi incontri, dei suoi matrimoni ha un asse unico: è la lunga storia di un cuore tentato dal piacere. Potrebbe darsi - lo ripetiamo - che vi fosse stata portata dalla convivenza con il marito Willy e quindi dalle delusioni sofferte, ciò non toglie che una volta affrancata e svincolata dai residui della morale borghese si sia pacificata senza scosse eccessive, senza lacerazioni. E torniamo così alla doppia registrazione fra vita e letteratura, meglio a una perfetta fusione fra il fare e il raccontare. Non sarebbe diventata così maestra nell'arte delle allusioni sottili se all'origine non ci fosse stata questa naturale combinazione. Per qualche aspetto Colette non è che questa leggerissima trama di fatti e di voci, non è che l'eco magica del vissuto, del vissuto per intero e sublimato. Colette non offende, le sue proteste sono sempre tenute sul filo di una confidenza, anche se a volte tradendo questo tipo di registrazione non riesce a sottrarsi del tutto a un minimo di compiacimento. Ma sono eccezioni, normalmente i suoi testi non presentano di queste sfasature, la sua pagina essendo generalmente trasparente. Anche quando la materia può ferire, c'è sempre una luce di innocenza che la riscatta e la depura. Siamo ben lontani da tutta quella produzione minore fra secolo e secolo che riecheggiava una società assai povera intellettualmente e che Colette - sempre sulla spinta di Willy - aveva frequentato. Là c'erano delle situazioni volute, qui ci sono dei fatti vissuti e senza dubbio scontati e pagati. Talché potremmo sostenere che Colette ha portato via da un grosso registro di "vita parigina" con il fatuo, l'equivoco e il morboso. Torniamo per concludere alla nascita di Colette o, se si preferisce, alla sua prima apparizione nelle vesti di Claudine. C'era tutto il necessario per limitare la questione a un caso, strettamente legato a una stagione e a un modo di vita. Colette ha fatto invece del suo personaggio un cavallo di Troia; ha introdotto per vie traverse la semplicità in un contesto devoto all'inganno e al giuoco delle illusioni. E' stato il tempo a sancire questa verità. Se nella serie delle Claudine ci fosse stato un fenomeno di obbedienza alla moda, oggi questi libri sarebbero illeggibili o avrebbero un ben limitato valore storico, nel caso già ipotizzato che qualcuno intendesse darci un panorama di quella misera letteratura di intrattenimento. C'era invece una ben diversa intelligenza della vita e, dentro, una capacità di decifrazione e di interpretazione dei sentimenti autentici. Da una parte la storia di una donna che si fa, dall'altra l'accumulazione di sensazioni e di sentimenti che avrebbero avuto una ben diversa durata. A noi oggi questi libri servono anche per capire il seguito della storia di Colette, sono un antefatto, qualche volta enfatico ma sempre sincero e contenente gran parte dei motivi che sarebbero stati recuperati e risolti in una prosa di grande qualità. C'è una corrispondenza fra la prima e l'ultima Colette, diciamo la Colette degli ultimi anni della sua vita, quando dal suo ritiro parigino le bastano poche parole per rendere inimitabili certe atmosfere. Alla fine le bastavano pochi suoni, poche luci per darci la sensazione che il non detto fosse in grado di sciogliere e compiere il detto. Anche qui non ci sono molti altri esempi di questa rara sapienza della restituzione artistica, davvero Colette era riuscita a portare oltre il margine della pagina tutto quanto rende sporca e inutile la vita. E' la Colette del tempo di guerra e delle persecuzioni razziali, quando scopre dentro di sé una facoltà di reazione agli eventi comuni. E' il tempo della sua musica più pura ma è anche il bilancio di una vita ben spesa nell'ascoltare i moti più segreti della nostra anima: tutta questa luce limpida era, dunque, il frutto di un'attenzione che da naturale e istintiva si era fatta più profonda e più critica. Non so quale impressione possa fare questa Colette ai lettori giovani, a chi non ha memoria della gioia e della festa che comunicavano i suoi libri in un tempo che sopportava ancora i legami e gli impedimenti di molte convenzioni. Non lo sappiamo e per noi la cosa resta difficile, tuttavia pensiamo che ci siano in questi quattro quadri della storia di Claudine un accento molto persuasivo di verità naturale e di spontaneità. Una volta liberato il testo da quanto vi è stato depositato di un costume di vita oggi del tutto desueto e spesso imperscrutabile, non c'è dubbio che il dato del risentimento diretto, quello del gusto del vivere e del piacere, una certa parte di ribellione potranno mettere sulla buona strada il lettore abituato a ben altri testi, sostenuti e fortificati da un secolo di sperimentazioni e di grandi scoperte letterarie. In tal senso l'unicità del discorso di Colette non potrà non risultare all'attenzione di lettori lontani e per forza di cose ignoranti della piccola storia di quel tempo. La grazia del segno, la leggerezza del raccontare, il geloso senso della natura costituiranno le altre tappe del cammino verso Colette. Ma non basta, in tutto questo c'è una riprova e cioè che uno scrittore, quando lo sia veramente, nasce a tutti i costi, per qualunque strada si sia incamminato. Ci sono delle nature che respingono per virtù naturale le leggi e le imposizioni del tempo e della moda. Caso curioso, questo, di una giovane donna che il marito intendeva sfruttare come fabbricatrice di testi pimentari, come "negro", e si è invece scoperta e rivelata come uno dei grandi scrittori del secolo. Un po' come dire che alla fine la natura, quando sia pazientemente ascoltata, la vince sui calcoli e sugli aggiustamenti stessi della critica. Carlo Bo. Mi chiamo Claudine, abito a Montigny; vi sono nata nel 1884; probabilmente non vi morirò. Il mio Manuale di geografia dei dipartimenti dice così: "Montigny-en-Fresnois, grazioso paese di 1950 abitanti, costruito ad anfiteatro sulla Thaize; vi si ammira una torre saracena ben conservata...". A me non dice niente questo genere di descrizioni! Anzitutto la Thaize non c'è; so benissimo che si ritiene che attraversi dei prati al di sotto del passaggio a livello, ma in nessuna stagione vi trovereste tanta acqua da lavare le zampe di un passero. Montigny costruita "ad anfiteatro"? No, io non la vedo così; secondo me, sono delle case che ruzzolano, dalla sommità della collina fin giù nella valle; è disposta a gradinate al di sotto di un grande castello, ricostruito sotto Luigi XV e ormai più in rovina della torre saracena, bassa, tutta rivestita di edera, che in cima si sbriciola un po' alla volta. E' un villaggio e non un paese: le vie, grazie al cielo, non sono selciate; gli acquazzoni vi scorrono come torrentelli, asciutti dopo due ore; è un villaggio, non troppo bello anzi, e che tuttavia io adoro. Il fascino, la delizia di questo paese formato di colline e di valli così strette che alcune sembrano veri burroni, sono i boschi, i boschi fitti e invadenti, che s'increspano e ondeggiano sin laggiù, sin dove arriva lo sguardo... Qua e là sono interrotti da prati verdi, anche da brevi spazi coltivati, non un gran che: i magnifici boschi divorano tutto. Cosicché questa bella regione è spaventosamente povera, con le sue poche fattorie sparse, non numerose, proprio quel tanto di tetti rossi che ci vuole per far spiccare il verde vellutato dei boschi. Cari boschi! Io li conosco tutti; li ho percorsi così spesso. Vi è il bosco ceduo, dagli arbusti che ti agguantano malvagiamente il viso mentre passi; e sono pieni di sole, di fragole, di mughetti, e anche di serpi. Vi ho provato certi spaventi da mozzare il fiato nel vedermi strisciare davanti ai piedi quegli orrendi piccoli corpi lisci e freddi; molte volte mi sono fermata ansante, sentendo sotto la mano, vicino alla malvarosa, una biscia quieta quieta, arrotolata proprio come una lumaca, con la testa sopra, gli occhietti dorati che mi guardavano; non era pericolosa, ma che spaventi! Pazienza, finisco sempre per ritornarci sola o con qualche compagna; meglio sola, perché queste signorinelle m'irritano; hanno paura di stracciarsi le vesti coi rovi, hanno paura delle bestiole, dei bruchi pelosi e dei ragni delle brughiere, così belli, tondi e rosei come perle; gridano, si stancano... insopportabili insomma. E poi ci sono i miei preferiti, i boschi di alberi che hanno sedici, vent'anni, e mi sanguina il cuore di vederne tagliare uno. Essi non sono pieni di macchie: degli alberi come colonne, sentieri stretti dove è quasi buio a mezzogiorno, dove la voce e i passi risuonano in modo inquietante. Dio, come mi piacciono! Mi ci sento tanto sola, con gli occhi smarriti lontano fra gli alberi, nella luce verde e misteriosa, deliziosamente tranquilla e un po' ansiosa al tempo stesso, a causa della solitudine e della vaga oscurità... Niente bestiole, in questi grandi boschi, né erba alta: un suolo battuto, via via secco, sonoro o molle a causa delle sorgenti; lo traversano conigli dal dorso bianco; timidi caprioli di cui si fa appena in tempo a intuire il passaggio, tanto corrono veloci; grandi fagiani pesanti, rossi dorati; dei cinghiali (io non ne ho visti); lupi, ne ho sentito uno, al principio dell'inverno, mentre raccoglievo faggine, quelle care piccole faggine oleose, che raschiano la gola e fanno tossire. Talvolta, in quei grandi boschi, ti sorprendono piogge temporalesche; ci si rannicchia sotto una quercia più fronzuta delle altre, e, senza dir nulla, si ascolta la pioggia che crepita lassù come su un tetto, stando ben riparati, per poi uscire da quelle profondità abbagliati e confusi, a disagio in piena luce. E le abetaie! Poco fitte, così come poco misteriose; a me piacciono per l'odore, per le eriche rosa e viola che crescono sotto, e perché cantano al vento. Prima di arrivarci, si attraversano dei fitti boschi di alberi di alto fusto, e a un tratto si ha la deliziosa sorpresa di sbucare sulla riva di uno stagno, uno stagno liscio e profondo, circondato dai boschi da ogni lato, così lontano da tutto! Gli abeti crescono in mezzo, in una specie di isola; bisogna passare coraggiosamente a cavallo di un tronco sradicato che unisce le due rive. Sotto gli abeti si accende il fuoco, persino d'estate, proprio perché è proibito; vi si cuoce qualsiasi cosa: una mela, una pera, una patata rubata in un campo, del pane nero in mancanza d'altro; sa di fumo amaro e di resina: è pessimo, è squisito. Ho vissuto in questi boschi dieci anni di vagabondaggi disperati, di conquiste e di scoperte; il giorno in cui dovrò lasciarli ne avrò un gran dispiacere. Quando, due mesi fa, ho compiuto quindici anni e mi sono allungata le sottane sino alle caviglie, hanno demolito la vecchia scuola, e cambiato la direttrice. I miei polpacci richiedevano le sottane lunghe, perché attiravano gli sguardi e mi davano ormai l'aria di una signorina; la vecchia scuola cadeva in rovina; in quanto alla direttrice, la povera buona signora X' (quarantenne, brutta, ignorante, paziente e che perdeva sempre la testa davanti agli ispettori delle scuole elementari), il dottor Dutertre, l'ispettore scolastico del mandamento, aveva bisogno del posto di lei per mettervi una sua protetta. In questo paese quello che vuole Dutertre, lo vuole il ministro. Povera vecchia scuola in rovina, malsana, ma così divertente! Ah, i begli edifici che stanno costruendo non ti faranno dimenticare. (1) Le camere del primo piano, quelle dei maestri, erano uggiose e scomode; il pianterreno era occupato dalle nostre due classi, quella delle grandi e quella delle piccole, due aule di una bruttezza e di una sporcizia incredibili, con certi banchi, come non ne ho mai più rivisti, ridotti a metà dall'uso, e sui quali, logicamente, avremmo dovuto diventar gobbe in capo a sei mesi. L'odore di queste aule, dopo le tre ore di studio del mattino e del pomeriggio, era, letteralmente, da far vomitare. Non ho mai avuto compagne della mia condizione, perché le rare famiglie borghesi di Montigny, di solito, mandano i figli in collegio nel capoluogo, di modo che la scuola non ha, come alunne, che figlie di bottegai, di agricoltori, di gendarmi e soprattutto di operai; tutte piuttosto sporche. Io mi ci trovo in questo strano ambiente, perché non voglio lasciare Montigny; se avessi una mamma, so benissimo che non mi ci lascerebbe ventiquattr'ore, ma papà non vede niente, lui, non si occupa di me, completamente occupato nei suoi lavori, e non pensa che potrei essere educata più decentemente in un collegio di monache o in un liceo qualsiasi. Non c'è pericolo che io gli apra gli occhi! Come compagne, dunque, ho avuto, ho ancora Claire (ne ometto il cognome), che ha fatto con me la prima comunione, una ragazzetta tranquilla, con dei begli occhi appassionati e una piccola anima romantica, che ha passato tutta la sua vita scolastica a innamorarsi ogni otto giorni (oh, platonicamente) di un nuovo ragazzo, e che, anche adesso, non chiede che d'incapricciarsi del primo imbecille, maestro o addetto alla manutenzione stradale, in vena di dichiarazioni "poetiche". Poi Anaïs, la lunga (che riuscirà senza dubbio a varcare le porte della scuola di Fontenayaux-Roses, grazie a una memoria prodigiosa che le fa le veci di una vera intelligenza), fredda, viziosa, e così imperturbabile che non arrossisce mai, quella fortunata creatura! Ha una vera arte della comicità, e spesso mi fa star male a forza di ridere. Ha i capelli né scuri né biondi, la pelle gialla, nessun colorito alle guance, gli occhietti neri, ed è lunga come una pertica. Insomma un tipo non comune; bugiarda, disonesta, adulatrice, traditrice, saprà cavarsela nella vita, Anaïs, la lunga. A tredici anni scriveva e dava appuntamenti a uno sbarbatello della sua età; venne risaputo e ne risultarono delle storie che agitarono tutti i ragazzini della scuola, tranne lei. E poi le Jaubert, due sorelle, due gemelle anzi, brave scolare; oh, brave scolare, lo credo bene, le scorticherei volentieri, tanto mi irritano con la loro serietà, la bella calligrafia ordinata, e la stupida somiglianza: facce molli e scure, gli occhi da pecora pieni di una dolcezza piagnucolosa. Studiano sempre, non fanno che prendere buoni voti, sono per bene e sornione, hanno il fiato che sa di colla forte, puh! E Marie Belhomme, sciocchina, ma così allegra! A quindici anni, col cervello e il giudizio di una bambina di otto un po' indietro per la sua età, abbonda di ingenuità enormi, che disarmano la nostra cattiveria, e le vogliamo molto bene; e io dico sempre molte cose terribili davanti a lei, perché se ne scandalizza sinceramente, dapprima, per riderne di tutto cuore subito dopo, levando al cielo le lunghe mani strette, "le sue mani da levatrice" dice Anaïs, la lunga. Bruna e scura di carnagione, con occhi neri, lunghi e umidi, Marie assomiglia, col naso privo di malizia, a una graziosa timida lepre. Quest'anno loro quattro e io formiamo la pleiade invidiata; ormai superiori alle "grandi", aspiriamo al diploma. Le altre, ai nostri occhi, sono la feccia, sono la vile plebaglia! Presenterò via via qualche altra compagna nel proseguimento di questo diario, poiché è proprio un diario, o quasi, quello che sto per incominciare... La signora X', che ha ricevuto l'annuncio del suo trasferimento, ne ha pianto, povera donna, tutta una giornata - e anche noi - il che mi ispira una profonda avversione contro quella che la sostituirà. Nello stesso momento in cui compaiono nel cortile di ricreazione gli operai che demoliscono la vecchia scuola, arriva la nuova direttrice, la signorina Sergent, accompagnata dalla madre, un donnone con la cuffia, che serve la figlia e l'ammira, e che mi sembra una contadina furba, che sa il fatto suo, ma in fondo non cattiva. In quanto alla signorina Sergent, mi sembra tutt'altro che buona, e me la vedo brutta con questa rossa, ben fatta, con la vita e i fianchi tondeggianti, ma di una bruttezza indiscutibile, col viso gonfio e sempre acceso, il naso un po' camuso, fra due occhietti neri, infossati e sospettosi. Occupa, nella vecchia scuola, una stanza che non è necessario demolire subito, e così pure la sua aiutante, la bella Aimée Lanthenay che mi piace tanto quanto mi dispiace la direttrice. Contro la signorina Sergent, l'intrusa, mantengo in questi giorni un atteggiamento selvatico e ribelle; essa ha già tentato di addomesticarmi, ma io ho resistito in un modo quasi insolente. Dopo qualche vivace scaramuccia, devo ben riconoscere in lei un'insegnante davvero impareggiabile, precisa, spesso brusca, dotata di una volontà che sarebbe mirabilmente lucida se talvolta non l'accecasse la collera. Con un maggior dominio su se stessa, questa donna sarebbe ammirevole; ma provate a resisterle: gli occhi mandano fiamme, i capelli rossi si bagnano di sudore... ieri l'altro l'ho vista uscire per non gettarmi contro un calamaio. Durante la ricreazione, siccome il freddo umido di questo brutto autunno non mi invita molto a giocare, chiacchiero con la signorina Aimée. La nostra intimità fa rapidi progressi. E' per indole una gatta carezzevole, delicata e freddolosa, incredibilmente leziosa; mi piace guardare il suo musetto roseo di biondina, gli occhi dorati dalle ciglia all'insù. Quei begli occhi che non domandano se non di sorridere! Fanno voltare i giovanotti, quando esce. Spesso, mentre chiacchieriamo sulla soglia della classe inferiore, la signorina Sergent passa frettolosa davanti a noi per ritornare in camera sua, senza dire nulla, fissando su noi quegli sguardi gelosi e indagatori. La mia nuova amica e io sentiamo, nel suo silenzio, che è furente di vedere che "ce l'intendiamo" così bene. Questa piccola Aimée - ha diciannove anni e mi arriva all'orecchio - chiacchiera da quella scolaretta che era ancora tre mesi fa, con un bisogno di tenerezza, di gesti di abbandono che mi commuove. Gesti di abbandono! Essa li frena per una paura istintiva della signorina Sergent, tenendo le manine fredde, strette sotto il bavero di pelliccia finta (quella poverina è senza soldi come migliaia di colleghe). Per farmela amica, divento buona buona, senza fatica, e la interrogo, già soddisfatta di poterla guardare. Lei parla, graziosa nonostante, o a causa, del musetto irregolare. Se gli zigomi sono un po' troppo sporgenti, se sotto il naso corto la bocca un po' gonfia fa un buffo angolino a sinistra quando ride, in compenso che meravigliosi occhi del colore dell'oro giallo, e che carnagione, una di quelle carnagioni delicate all'occhio, così resistenti che il freddo non le illividisce neppure! Parla, parla... e che suo padre è uno scalpellino, e che sua madre la picchiava spesso, e sua sorella e i suoi tre fratelli, e la dura scuola normale del capoluogo dove l'acqua gelava nelle brocche, dove cascava sempre dal sonno perché ci si alza alle cinque (fortunatamente l'insegnante d'inglese era molto gentile con lei) e le vacanze in famiglia, dove la obbligavano a riprendere le faccende domestiche, dicendole che avrebbe fatto meglio a preparare la zuppa che a fare la signorina, tutto ciò sfila nel suo chiacchierìo, tutta questa giovinezza di miseria, sopportata con impazienza, e che lei ricorda con terrore. Piccola signorina Lanthenay, il vostro corpo flessuoso cerca e richiede un benessere sconosciuto; se non foste maestra a Montigny, sareste forse... Non voglio dire che cosa. Ma come mi piace ascoltare e vedere voi, che avete quattro anni più di me e di cui mi sento, a ogni istante, la sorella maggiore! Un giorno la mia nuova confidente mi dice che sa abbastanza l'inglese, e ciò mi suggerisce un progetto semplicemente meraviglioso. Domando a papà (dato che fa le veci della mamma) se non sia disposto a farmi dare delle lezioni di grammatica inglese dalla signorina Aimée Lanthenay. Papà trova geniale quest'idea, come la maggior parte delle mie idee, e, "per concludere l'affare", come egli dice, mi accompagna dalla signorina Sergent. Essa ci riceve con una gentilezza impassibile, e, mentre papà le espone il suo progetto, sembra approvarlo; ma io sento una vaga inquietudine, pur non vedendone gli occhi mentre parla. (Mi sono subito accorta che i suoi occhi rivelano sempre il suo pensiero, senza che essa riesca a dissimularlo, e sono ansiosa nel constatare che li tiene ostinatamente abbassati.) Viene chiamata la signorina Lanthenay che scende frettolosa, arrossendo e ripetendo: "Sì, signore" e "Certamente, signore", senza sapere bene quello che dice, mentre io la guardo felicissima della mia astuzia, rallegrandomi al pensiero che d'ora in poi starò con lei più intimamente che non sulla soglia della classe delle piccine. Prezzo delle lezioni: quindici franchi al mese, due alla settimana: per questa povera piccola maestrina, che guadagna settantacinque franchi al mese e con questi deve pagarsi la pensione, è una manna insperata. Credo pure che le faccia piacere stare più spesso con me. Durante questa visita non scambio con lei che due o tre frasi. Primo giorno di lezione. L'aspetto dopo la scuola mentre lei riunisce i libri di inglese; e via, verso casa. Ho preparato un angolino comodo per noi due nella biblioteca di papà, una gran tavola, quaderni e penne, con una bella lampada che illumina soltanto la tavola. La signorina, molto imbarazzata (perché?), arrossisce, tossicchia. "Suvvia, Claudine, immagino che lei saprà l'alfabeto." "Certamente, signorina, so anche un po' di grammatica inglese, potrei benissimo fare questa traduzione... si sta bene qui, non è vero?" "Sì, benissimo." Abbassando un po' la voce per assumere il tono delle nostre chiacchierate, le domando: "La signorina Sergent non le ha più parlato di queste nostre lezioni?". "Oh, non me ne ha quasi parlato. Mi ha detto che era una fortuna per me, che con lei non avrei fatto fatica, se soltanto avesse voluto studiare un po', che lei impara con grande facilità quando vuole." "Soltanto questo? Non è molto. Immaginava che me lo avrebbe riferito." "Suvvia, Claudine, noi non stiamo studiando. In inglese c'è un solo articolo..." Eccetera, eccetera. Dopo dieci minuti di serio studio dell'inglese, interrogo ancora: "Non ha osservato che non aveva l'aria soddisfatta quando sono venuta con papà per chiedere di prendere lezioni da lei?". "No... sì... Forse, ma non abbiamo quasi parlato quella sera." "Si levi dunque la giacca, si scoppia sempre nello studio di papà. Ah, com'è sottile lei, si potrebbe spezzarla! I suoi occhi sono molto belli alla luce." Lo dico perché lo penso, e godo nel farle dei complimenti più di quanto godrei se ne facessero a me. Le domando: "Dorme sempre nella stessa camera con la signorina Sergent?". (Quella promiscuità mi sembra odiosa, ma come fare altrimenti? Tutte le altre camere sono già sgomberate, e cominciano a levare il tetto. Quella poveretta sospira:) "E' necessario, ma è molto noioso! La sera, alle nove, vado subito a letto, presto presto, e lei viene a coricarsi dopo, ma lo stesso è spiacevole, quando ci si trova a disagio insieme". "Oh, mi dispiace enormemente per lei! Come deve essere noioso, al mattino, vestirsi davanti a quella donna! Mi sarebbe odioso mostrarmi in camicia a gente che non mi va!" La signorina Lanthenay sobbalza, tirando fuori l'orologio: "Ma insomma, Claudine, non facciamo niente! Studiamo, dunque!". "Sì... Lei sa che devono venire altri maestri?" "Lo so: due. Arrivano domani." "Sarà divertente! Due innamorati per lei!" "Oh, ma stia zitta. Prima di tutto erano così cretini tutti quelli che ho visto che non mi tentavano molto; so già i nomi di questi qui, nomi ridicoli: Antonin Rabastens e Armand Duplessis." "Scommetto che questi imbecilli verranno molte volte al giorno nel nostro cortile, con la scusa che l'ingresso della scuola maschile è ingombro di macerie..." "Claudine, senta, è vergognoso, non abbiamo fatto niente, oggi." "Oh, è sempre così il primo giorno. Studieremo molto meglio venerdì prossimo, ci vuole bene un po' di tempo per ingranare." Nonostante questo valido ragionamento la signorina Lanthenay, impressionata dalla sua stessa pigrizia, mi fa studiare seriamente fino alla fine dell'ora; dopo di che la riaccompagno sino in fondo alla via. E' buio, gela, mi fa pena vedere quella piccola ombra sottile, che se ne va con questo freddo e questa oscurità per tornare dalla rossa dagli occhi gelosi. Questa settimana abbiamo vissuto momenti di vera gioia, perché ci hanno incaricato, noi grandi, di sgomberare la soffitta e portar giù i libri e i vecchi oggetti che la riempivano. Abbiamo dovuto fare in fretta; i muratori aspettavano per demolire il primo piano. Furono corse folli nelle soffitte e per le scale; col rischio di essere castigate, ci avventuravamo, Anaïs la lunga e io, fin sulla scala che conduce alle stanze dei maestri, con la speranza di intravedere finalmente i due nuovi insegnanti, che dal loro arrivo erano rimasti invisibili... Ieri, davanti a una stanza socchiusa, Anaïs mi spinge, io perdo l'equilibrio e apro la porta con la testa. Allora scoppiamo a ridere e restiamo piantate sulla soglia della camera, proprio una camera da maestro, vuota, per fortuna, del suo inquilino. Facciamo una rapida ispezione. Alle pareti e sul caminetto, grandi cromolitografie con cornici comuni: un'italiana con un'abbondante capigliatura, i denti abbaglianti, la bocca che è un terzo degli occhi; di riscontro, una bionda estatica che si stringe un cagnolino contro il corpetto dai nastri blu. Sopra il letto di Antonin Rabastens (ha fissato il biglietto sulla porta con quattro puntine), vi sono bandierine incrociate russe e francesi. Che cos'altro? Un tavolo con un catino, due sedie, delle farfalle infilate su tappi di sughero, romanze sparse sul caminetto, e nient'altro. Guardiamo tutto ciò senza dir nulla, e tutto a un tratto scappiamo correndo verso la soffitta, sopraffatte dalla terribile paura che quel tale Antonin (non è permesso di chiamarsi Antonin!) venga su per le scale; il nostro scalpiccìo, su quei gradini proibiti, è così rumoroso che si apre una porta a pianterreno, la porta della classe maschile, e si affaccia qualcuno, domandando con un buffo accento marsigliese: "Ma che cosa c'è, dunque? E' mezz'ora che sento dei cavalli per le scale!". Facciamo ancora in tempo a intravedere un ragazzone bruno dalle guance grosse... Lassù, al sicuro, la mia complice mi dice, sbuffando: "Eh, se sapesse che veniamo dalla sua stanza!". "Sì, non si consolerebbe di aver fatto cilecca." "Fatto cilecca!" continua Anaïs con una serietà glaciale. "Ha l'aria di un ragazzo robusto che non deve mai far cilecca." "Va' là, sporcacciona!" E continuiamo lo sgombero della soffitta; è un piacere rovistare in questo ammasso di libri e di giornali da portar via, che appartengono alla signorina Sergent. Naturalmente sfogliamo tutto il mucchio prima di portarli giù e posso constatare che vi è l'Afrodite di Pierre Louys X, con molti numeri del Journal Amusant. Ce la godiamo, Anaïs e io, messe di buonumore da un disegno di Gerbault, Rumori di corridoio: alcuni signori in marsina intenti a fare il solletico a certe graziose ballerine dell'Opéra, in maglia e sottanina corta, che gesticolano e strillano. Le altre scolare sono scese giù; è buio in soffitta, e indugiamo a guardare delle figure che ci fanno ridere, certune di Albert Guillaume, così spinte! A un tratto facciamo un balzo, perché qualcuno apre la porta, domandando con tono acido: "Eh, si può sapere chi fa questo chiasso infernale per le scale?". Noi ci alziamo, serie, con le braccia cariche di libri e diciamo con tono posato: "Buongiorno, signore", frenando una voglia matta di ridere. E' quello di poco fa, il grosso maestro dal volto gioviale. Allora, siccome siamo ragazze grandi che dimostrano comodamente sedici anni, egli si scusa e se ne va dicendo: "Scusino tanto, signorine". E dietro alle sue spalle noi balliamo silenziosamente, facendogli smorfie diaboliche. Scendiamo in ritardo; ci sgridano; la signorina Sergent mi domanda: "Ma che cosa mai facevate lassù?". "Signorina, stavamo ammucchiando dei libri per portarli giù." E poso davanti a lei, in modo visibile, la pila dei libri con l'audace Afrodite e i numeri del Journal Amusant, piegati sopra, con la figura in vista. Li nota subito; le guance rosse le diventano più rosse, ma riprendendosi presto, spiega: "Ah, sono i libri del direttore, questi che avete portato giù; tutto è così confuso in quella soffitta comune; glieli restituirò". E la ramanzina si ferma a questo punto; non vi è nessun castigo per noi due. Uscendo, do una gomitata ad Anaïs i cui occhietti sono semichiusi dalle risa: "Eh, ha buone spalle il direttore". "Te lo immagini, Claudine, quante porcherie deve collezionare quel povero innocentino! Quasi quasi crederà ancora che i bambini nascano sotto i cavoli." Perché il direttore è un vedovo triste, scialbo; ci si accorge appena che esiste, non lascia la sua aula se non per rinchiudersi in camera. Il venerdì seguente, durante la seconda lezione d'inglese, domando alla signorina Aimée Lanthenay: "I maestri le fanno già la corte?". "Oh, appunto, Claudine, sono venuti ieri a farci la "visita di convenienza". Quel buon diavolo che fa il bello è Antonin Rabastens." "Detto "la perla della Canebière"; (2) e l'altro com'è?" "Magro, bello, interessante di faccia, si chiama Armand Duplessis." "Sarebbe un peccato non soprannominarlo "Richelieu". (3)" Ride: "Un nome che avrà fortuna fra gli scolari, birbona di una Claudine. Ma che selvatico! Non dice che sì e no". La mia insegnante d'inglese mi sembra deliziosa questa sera, sotto la lampada della biblioteca; gli occhi felini sprizzano scintille d'oro, maliziosi, teneri, e io li ammiro, pur accorgendomi che non sono né buoni, né franchi, né sicuri. Ma brillano con tale splendore nel suo viso fresco; e sembra che stia tanto bene in questa stanza calda e silenziosa, che mi sento già pronta a volerle tanto e tanto bene con tutto il mio cuore irragionevole. Sì, so benissimo, da molto tempo, che ho un cuore irragionevole, ma il fatto di saperlo non mi frena affatto. "E lei, la rossa, non le dice niente in questi giorni?" "No, è persino abbastanza gentile, non credo che sia tanto seccata come lei suppone, nel vedere che andiamo d'accordo." "Macché! Non le vede gli occhi? Sono meno belli dei suoi, e più cattivi... Bella piccola signorina, com'è graziosa, lei!..." Arrossisce vivamente, e mi dice senz'esserne però affatto convinta: "Lei è un po' pazza, Claudine, comincio a crederlo, me lo hanno tanto ripetuto!". "Sì, so benissimo che le altre lo dicono, ma che cosa importa? Sono contenta di stare con lei; mi parli dei suoi innamorati." "Non ne ho. Lo sa? Credo che vedremo spesso i due nuovi maestri: Rabastens mi sembra molto "mondano", e trascina con sé il collega Duplessis. Sa che certamente farò venire qui, come convittrice, la mia sorellina?" "Sua sorella? Me ne infischio. Quanti anni ha?" "La sua età, qualche mese di meno, quindici anni in questi giorni." "E' carina?" "Non bella, vedrà: un po' timida e selvatica." "Basta parlare di sua sorella! Senta un po', ho visto Rabastens in soffitta, è venuto su apposta. Ha un forte accento marsigliese quel grassone di Antonin!..." "Sì, ma non è poi tanto brutto... Suvvia, Claudine, studiamo, dunque, non si vergogna? Legga qui e traduca." Ha un bell'indignarsi: lo studio non va avanti. L'abbraccio salutandola. L'indomani, durante la ricreazione, Anaïs stava ballando davanti a me, per instupidirmi, una danza forsennata, pur conservando la solita espressione chiusa e fredda, quand'ecco che Rabastens e Duplessis compaiono alla porta del cortile. Siccome ci siamo noi - Marie Belhomme, Anaïs la lunga e io salutano, e noi rispondiamo con fredda cortesia. Entrano nella grande aula dove le signorine stanno correggendo i quaderni, e noi li vediamo ridere e chiacchierare insieme. Allora scopro di avere la necessità urgente e improvvisa di prendere il cappuccio, che è rimasto sul mio banco, e mi precipito nell'aula, spingendo la porta, come se non avessi assolutamente pensato che ci potessero essere quei signori; poi mi fermo sulla soglia, fingendo di essere confusa. La signorina Sergent rallenta la mia corsa, dicendo: "Sia più calma, Claudine" in un tono da far gelare, e io mi ritiro con passi felpati; ma ho avuto il tempo di vedere che la signorina Aimée Lanthenay ride chiacchierando con Duplessis e fa delle smancerie per lui. Aspetta, bel tenebroso, domani o dopo, ci sarà una canzonetta su di te, o qualche facile freddura, o dei nomignoli, così imparerai a sedurre la signorina Aimée. Ma... ebbene, che c'è? Mi richiamano? Che fortuna! Rientro, con aria docile: "Claudine," spiega la signorina Sergent "venga qui a leggere questo pezzo a prima vista; il signor Rabastens conosce la musica, ma non quanto lei". Com'è gentile! Che voltafaccia! "Questo pezzo" è un'aria dello Chalet, tanto noiosa da far piangere. Non c'è nulla che mi soffochi la voce come cantare davanti a persone che non conosco; quindi leggo a puntino, ma con una voce ridicolmente tremolante che, grazie a Dio, si rafforza alla fine del pezzo. "Oh, signorina, mi permetta di farle i miei rallegramenti, lei è tanto brava!" Protesto tirandogli la lingua (in cuor mio), la lingua, direbbe lui. E me ne vado a raggiungere le oltre (è contagioso) che mi accolgono acidamente. "Cara mia!" dice Anaïs la lunga, con voce stridula. "Si può ben dire che ti sei comprata le loro grazie! Devi aver prodotto un effetto folgorante su quei signori, e li vedremo spesso da queste parti." Le Jaubert sogghignano sotto sotto, piene di invidia. "Ma lasciatemi in pace, non è proprio il caso di vantarsi perché ho letto un pezzo. Rabastens è un meridionale, più che meridionale, ed è una razza che odio; in quanto a Richelieu, se verrà spesso, so ben io chi lo attirerà." "Chi dunque?" "La signorina Aimée, to'! La mangia con gli occhi." "Dimmi un po'," sussurra Anaïs "di lui non sarai gelosa, allora lo sarai di lei..." (Che diavolo quell'Anaïs! Vede tutto, e quello che non vede, se lo inventa!) I due maestri rientrano nel cortile, Antonin Rabastens espansivo e cordiale, l'altro intimidito, quasi selvatico. E' tempo che se ne vadano, sta per suonare l'ora di riprendere le lezioni e i loro monelli fanno tanto chiasso, nel cortile vicino, come se li avessero tuffati tutti insieme in una caldaia di acqua bollente. Suonano per chiamarci, e io dico ad Anaïs: "Senti un po', è molto tempo che non è venuto l'ispettore scolastico del mandamento; mi stupirebbe molto se non lo vedessimo questa settimana". "E' arrivato ieri, verrà certamente a ficcare un po' il naso da queste parti." Dutertre, l'ispettore scolastico del mandamento, è inoltre medico dei bimbi dell'ospizio, che per lo più frequentano la scuola; questo duplice titolo lo autorizza a venire a visitarci, e Dio sa se ne approfitta! Certuni affermano che la signorina Sergent sia la sua amante, io non ne so nulla. Che egli le dava del denaro, questo sì, lo scommetterei: le campagne elettorali costano care, e Dutertre, quello squattrinato, si ostina con insuccesso persistente a voler sostituire quel vecchio cretino muto ma milionario che rappresenta alla Camera gli elettori della regione di Fresnois. Che questa rossa ardente sia innamorata di lui, ne sono sicura! Freme d'ira gelosa quando lo vede strofinarsi addosso a noi con troppa insistenza. Perché, lo ripeto, egli ci onora frequentemente delle sue visite, si siede sui banchi, si comporta male, si trattiene accanto alle più grandi, soprattutto a me, legge i nostri compiti, ci ficca i baffi nelle orecchie, ci accarezza il collo e dà del tu a tutte (ci ha viste tanto piccine), facendo splendere i denti di lupo e gli occhi neri. A noi sembra molto gentile; ma io so che è una tale canaglia, che davanti a lui non provo alcuna timidezza, cosa che scandalizza le compagne. E' il giorno della lezione di lavoro, si agucchia pigramente, chiacchierando con voce inafferrabile. Bene, ecco che cominciano a cadere i fiocchi di neve. Che fortuna! Faremo gli scivoloni, con molti capitomboli, e ci tireremo le palle di neve. La signorina Sergent ci guarda senza vederci, con la mente rivolta altrove. Toc! Toc! battono ai vetri. Attraverso le piume svolazzanti della neve, si scorge il dottor Dutertre che bussa seminascosto in una pelliccia e in un berretto di pelo; è un bel giovanotto sotto quelle pelli, con gli occhi lucenti e i denti sempre in vista. Il primo banco (io, Marie Belhomme e Anaïs la lunga) si agita; mi ravvio i capelli sulle tempie, Anaïs si morde le labbra per farle diventare rosse e Marie si stringe un po' più la cintura; le sorelle Jaubert congiungono le mani come due immagini della prima comunione: "Io sono il tempio dello Spirito Santo". La signorina Sergent ha fatto un salto così brusco che ha rovesciato la sedia e il panchetto per correre ad aprire la porta; alla vista di tanta emozione mi sbellico dalle risa, e Anaïs approfitta di questa agitazione per pizzicarmi, per farmi smorfie diaboliche, sgranocchiando carboncino e gomma (per quanto le si proibiscano questi strani cibi, tutto il giorno ha le tasche e la bocca piene del legno delle matite, di gomma nera e schifosa, di carboncino e di carta assorbente rosa. Il gesso, la grafite, tutta questa robaccia le gonfia lo stomaco in modo bizzarro; senza dubbio è questa razza di cibi che le fa venire quella cera del color del legno e dello stucco grigiastro. Io, almeno, non mangio che la carta da sigarette, e solo di una certa marca. Ma Anaïs la lunga rovina il comune che ci passa gli oggetti di cancelleria, chiedendo nuovi "rifornimenti" ogni settimana; così che, all'inizio dell'anno scolastico, il consiglio municipale ha fatto un reclamo). Dutertre scuote la pelliccia incipriata di neve (sembra il suo pelame); la signorina Sergent si illumina di una tale gioia nel vederlo che non pensa neppure ad accertarsi se la sorveglio; egli scherza con lei, il suo accento montanaro sonoro e svelto riscalda l'aula. Mi guardo le unghie e metto in evidenza i capelli, perché il visitatore guarda soprattutto dalla nostra parte. Sfido! Siamo ragazzone di quindici anni, e se il mio viso dimostra meno della mia età, il corpo è da diciottenne. E anche i miei capelli meritano di essere messi in mostra, perché formano una massa irrequieta di riccioli che cambiano di colore secondo il tempo, fra il castano scuro e l'oro cupo, e fanno un contrasto non sgradevole con i miei occhi brunocaffè; ricci come sono, mi scendono quasi sino alle reni; non ho mai portato le trecce, né ho raccolto i capelli in un nodo: questo mi fa venire l'emicrania, e le trecce non mi incorniciano bene il viso; quando giochiamo a rincorrerci, raccolgo la massa dei capelli, che farebbe di me una preda troppo facile, e li annodo a coda di cavallo. E poi, insomma, non è più bello così? La signorina Sergent interrompe finalmente il suo dialogo estatico con l'ispettore ed esclama: "Signorine, vi comportate molto male". Per confermare questa opinione, Anaïs ritiene utile di lasciarsi sfuggire il borbottìo delle risate trattenute, senza muovere un muscolo del volto, e la signorina rivolge a me uno sguardo di collera che promette un castigo. Finalmente il dottor Dutertre alza la voce, e sentiamo che ci domanda: "Studiate molto? State bene?". "Stanno benissimo," risponde la signorina Sergent "ma studiano pochino. Quelle ragazze grandi sono così pigre!" Appena abbiamo visto il bel dottore voltarsi verso di noi, ci siamo chinate sui quaderni, con aria diligente, assorta, come se dimenticassimo la sua presenza. "Ah, ah!" fa lui, avvicinandosi ai nostri banchi. "Non studiate molto? Che idee vi frullano in testa? La signorina Claudine non è più la prima in componimento?" I componimenti mi fanno orrore! Tutti argomenti stupidi e odiosi: "Immaginate i pensieri e le azioni di una giovinetta cieca" (perché non sordomuta per giunta?), o anche: "Scrivete, facendo il vostro ritratto fisico e morale, a un fratello che non vedete da dieci anni" (mi manca la corda del sentimento fraterno, sono figlia unica). Non si saprà mai quali sforzi debbo fare per trattenermi dallo scrivere frottole e consigli sovversivi! Macché, le mie compagne - eccetto Anaïs - se la cavano così male, tutte, che, mio malgrado, sono "la scolara esimia in componimento". Dutertre è arrivato al punto dove si augurava di giungere, e io alzo il capo, mentre la signorina Sergent gli risponde: "Claudine? Oh, sì! Ma non è merito suo, ha disposizione e non fa fatica". E' seduto sul banco, con una gamba penzoloni, e mi dà del tu per non perderne l'abitudine: "Dunque, sei pigra?". "Sfido, è il mio unico piacere a questo mondo." "Ma scherzi! Tu preferisci leggere, eh? Che cosa leggi? Tutto quello che ti capita? Tutta la biblioteca di tuo padre?" "Nossignore, non i libri che mi annoiano." "Ti fai una bella istruzione, scommetto! Dammi il tuo quaderno." Per leggere più comodamente, mi appoggia una mano sulla spalla e arrotola un ricciolo dei miei capelli. Anaïs la lunga diventa più gialla di quanto sarebbe logico; non le hanno chiesto il quaderno, a lei! Questa preferenza mi varrà qualche colpo di spillo vibrato sotto sotto, subdole denunce alla signorina Sergent, e lo spionaggio delle mie chiacchierate con la signorina Lanthenay. Sta accanto alla porta della classe delle piccole, la graziosa Aimée, e mi sorride così teneramente, con gli occhi dorati, che quasi mi consolo di non avere potuto chiacchierare con lei, né oggi né ieri, se non davanti alle compagne. Dutertre posa il quaderno e mi carezza le spalle con aria distratta. Non pensa affatto a quello che sta facendo, evidentemente, e-vidente-men-te... "Quanti anni hai?" "Quindici." "Che ragazzina strana! Se non avessi quell'aria da pazzerella, potresti dimostrarne di più, lo sai? Ti presenterai per la licenza il prossimo ottobre?" "Sissignore, per far piacere a papà." "A tuo padre? Che cosa vuoi che gliene importi! Ma dunque a te non fa una grande impressione?" "Sì, mi diverte vedere tutta quella gente che ci interroga; e poi se in quel periodo vi sarà qualche concerto nel capoluogo, sarà piacevole." "Non andrai alla scuola normale?" Faccio un balzo: "Ah no, perbacco!". "Perché questo scatto, ragazzina esuberante?" "Non voglio andarci, come non ho voluto andare in collegio, perché vi si sta rinchiusi." "Oh, oh, ci tieni tanto alla libertà? Tuo marito non farà quello che vorrà, diamine! Fammi vedere quella faccia. Ti senti bene? Un po' d'anemia, forse?" Quel buon dottore mi volta verso la finestra, cingendomi la vita col braccio, e affonda i suoi occhi di lupo nei miei, che diventano candidi e privi di mistero. I miei occhi sono sempre cerchiati ed egli mi domanda se ho palpitazioni o l'affanno. "No, niente affatto." Abbasso le palpebre perché sento che arrossisco stupidamente. Mi guarda troppo, per giunta! E indovino che la signorina Sergent, dietro di noi, si irrita. "Dormi tutta la notte?" Sono furente perché arrossisco ancor più rispondendo: "Ma sì, dottore, tutta la notte". Non insiste e si alza, smettendo di stringermi la vita. "Via! In fondo sei robusta." Una carezzina sulla guancia, poi passa ad Anaïs la lunga, che si consuma di rabbia nel banco. "Fammi vedere il tuo quaderno." Mentre lo sfoglia, piuttosto in fretta, la signorina Sergent folgora a voce bassa la prima sezione (ragazzine dai dodici ai quattordici anni che cominciano già a stringersi la cintura e a tirarsi su i capelli, perché la prima sezione ha approfittato della disattenzione della direttrice per abbandonarsi a un baccano indiavolato; si sentono colpi di riga sulle mani, un chiocciolìo di monelle che si prendono a pizzicotti; certamente si faranno affibbiare una sospensione generale! Anaïs scoppia di gioia vedendo il quaderno in mani tanto auguste, ma Dutertre, indubbiamente, la trova poco degna di attenzione e passa avanti dopo qualche complimento e un pizzicotto sull'orecchia. Si sofferma qualche minuto accanto a Marie Belhomme, la cui freschezza bruna e morbida gli piace, ma subito, persa la testa per la timidezza, lei abbassa il capo come un ariete, risponde sì per no, e chiama Dutertre "signorina". In quanto alle due sorelle Jaubert, fa loro qualche elogio per la bella calligrafia. Era previsto. Finalmente se ne va. Buon viaggio! Ci restano una decina di minuti prima della fine della lezione; come impiegarli? Chiedo di uscire per raccogliere furtivamente un pugno della neve che continua a cadere, ne faccio una palla e l'addento: è buona e fredda, ha un po' il sapore della polvere, la prima neve. La nascondo in tasca e rientro. Mi fanno segno all'intorno, e io faccio passare in giro la palla di neve, che tutte addentano con aria rapita, eccetto le due impeccabili gemelle. Macché! Ecco che quella sciocca di Marie Belhomme lascia cadere l'ultimo pezzo, e la signorina Sergent lo vede. "Claudine, ancora una volta ha portato dentro della neve? Questo passa i limiti, proprio!" Fa certi occhiacci così furenti, che mi trattengo dal dire: "E' la prima volta dall'anno scorso", solo perché ho paura che la signorina Lanthenay soffra per le mie insolenze, e apro la Storia di Francia, senza rispondere. Stasera avrò la lezione d'inglese, e mi consolerà di questo silenzio. Alle quattro viene la signorina Aimée e filiamo via, contente. Come si sta bene con lei nella biblioteca calda! Accosto la mia sedia stretta stretta alla sua, e le poso la testa sulla spalla; lei mi cinge col braccio; io le stringo la vita che si piega. "Oh, cara signorina, è tanto tempo che non la vedo!" "Ma... non sono che tre giorni..." "Non importa... stia zitta e mi abbracci! Lei è cattiva, e il tempo le sembra breve lontano da me... L'annoiano molto queste lezioni, dunque?" "Oh, Claudine! Anzi, lei sa benissimo che io chiacchiero solo con lei e che non sto bene se non qui." Mi abbraccia e io faccio le fusa, e, tutto a un tratto, la stringo così bruscamente fra le braccia che lei manda un piccolo strillo. "Claudine, bisogna studiare." Eh, al diavolo la grammatica inglese! Mi piace molto di più appoggiare la testa sul suo petto; lei mi accarezza i capelli o il collo, e sento sotto l'orecchio il battito affannoso del suo cuore. Come sto bene con lei! Tuttavia bisogna prendere una penna e almeno fingere di studiare! Del resto a quale scopo? Chi potrebbe entrare? Papà? Proprio lui! Nella stanza più scomoda del primo piano, quella dove si gela d'inverno, dove ci si arrostisce d'estate, papà si chiude, selvatico, assorto, accecato e sordo ai rumori del mondo per... Ah, ecco... voi non avete letto, perché non sarà mai finita, la sua grande opera sulla Malacologia del Fresnois, e non saprete mai che, dalle complicate esperienze, dalle premure angosciose che lo hanno indotto a star chino ore e ore su innumerevoli chiocciole chiuse in certe piccole campane di vetro, in certe scatole di filo metallico, papà ha tratto questa certezza folgorante: un limax flavus divora in un giorno persino grammi ventiquattro di cibo, mentre l'helix ventricosa non ne consuma che grammi diciannove nel medesimo tempo! Come volete che la nascente speranza di simili constatazioni lasci a un appassionato malacologo il sentimento della paternità, dalle sette del mattino alle nove di sera? E' l'uomo più buono e più tenero, fra due pasti di lumache. D'altronde, quando ne ha tempo, mi guarda vivere con ammirazione, e si stupisce di vedere che esisto come "un vero essere". Ne ride con gli occhietti semichiusi, col nobile naso borbonico (dov'è andato a pescare quel naso regale?), la bella barba chiazzata di tre colori: rossastra, grigia e bianca... Non vi ho spesso visto brillare delle piccole bave di lumaca? Domando ad Aimée, con indifferenza, se ha rivisto i due compagni: Rabastens e Richelieu. Si anima, cosa che mi sorprende: "Ah, sicuro, non gliel'ho detto... lei sa che ora dormiamo all'asilo, perché demoliscono tutto; ebbene, ieri sera, lavoravo in camera, verso le dieci, e, chiudendo le imposte per andare a letto, ho visto una grande ombra che passeggiava sotto la mia finestra, con questo freddo; indovini chi era?". "Uno dei due, perbacco." "Sì, ma era Armand; se lo sarebbe aspettato da quello scontroso?" Rispondo di no, ma me lo sarei aspettato benissimo, invece, da quell'omone nero, dagli occhi seri e scuri, che mi sembra molto meno insignificante dell'allegro marsigliese. Tuttavia vedo che la testa da uccellino della signorina Aimée è già eccitata per questa meschina avventura e ne sono un po' triste. Le domando: "Come? Lo trova già degno di un così vivo interesse quel corvo solenne?". "Ma no, suvvia! Mi diverte soltanto." E' lo stesso: la lezione finisce senza ulteriori espansioni. Solamente, uscendo, nel corridoio buio, la bacio con tutta la forza sul collo delicato e bianco, sui capelli corti che hanno un buon profumo. E' piacevole abbracciarla come si abbraccia un animaletto caldo e grazioso, e lei mi restituisce teneramente il bacio. Ah, me la terrei sempre vicino, se potessi! Domani è domenica, niente scuola, che noia! Non mi diverto se non là. Questa domenica sono andata a passare il pomeriggio nella fattoria dove abita Claire, la dolce e buona compagna della prima comunione, che non viene più a scuola già da un anno. Scendiamo lungo il sentiero dei Matignons, che dà sulla strada della stazione, un sentiero che d'estate è fronzuto e scuro; grazie alla vegetazione in questi mesi invernali non ci sono più foglie, s'intende, ma si è ancora abbastanza nascosti in mezzo per potere spiare la gente che si siede sulle panchine della strada. Noi camminiamo sulla neve che scricchiola. Le piccole pozze gelate gemono musicalmente sotto il sole, con quel bel suono, che non è simile ad alcun altro, del ghiaccio che si fende. Claire mi confida in un sussurro i suoi amoretti iniziati coi giovanotti ai balli domenicali da Trouillard, certi rozzi e violenti giovani; e io guizzo ascoltandola. "Capisci, Claudine, c'era anche Montassuy, e ha ballato la polca con me, stringendomi forte. In quel momento Eugène, mio fratello, che ballava con Adèle Tricotot, pianta la ballerina e salta in aria per sbattere con la testa contro una delle lampade che pendono dal soffitto; il vetro oscilla e spegne la lampada. Mentre tutti guardano, e prorompono in esclamazioni di meraviglia, ecco che il grosso Féfed gira la chiavetta dell'altra lampada e tutto diventa buio buio, non c'era che una candela proprio in fondo al piccolo bar. Cara mia, finché la vecchia Trouillard non torna coi fiammiferi si sentono solo grida, risate, schiocchi di baci. Vicino a me, mio fratello stringeva Adèle Tricotot, e lei faceva certi sospiri, certi sospiri, dicendo: "Lasciami andare, Eugène," con voce soffocata, come se avesse avuto le sottane rialzate sopra la testa; e il grosso Féfed era caduto per terra con la propria dama; ridevano, ridevano tanto che non potevano più rialzarsi!" "E tu con Montassuy?" Claire arrossisce di un tardivo pudore. "Ah, appunto... Il primo momento era tanto sorpreso perché avevano spento le lampade che ha soltanto continuato a tenere la mano che mi stringeva; e poi, mi ha ripresa per la vita e mi ha detto sottovoce: "Non abbia paura". Io non ho detto niente e ho sentito che si chinava, che, a tastoni, mi baciava pian piano sulle guance, e anzi era tanto buio che si è sbagliato (quell'ipocrita!) e mi ha baciata sulla bocca; mi ha fatto tanto piacere, tanto bene e mi ha causato tanta emozione che sono stata lì lì per cadere, e lui mi ha sorretta stringendomi ancora di più. Oh, è tanto caro, lo amo." "E dopo, sgualdrina?" "Dopo, la vecchia Trouillard ha riacceso le lampade, con viso arcigno, e ha giurato che, se capiterà ancora una cosa simile, farà una denuncia e chiuderanno la sala da ballo." "Però era un po' troppo spinto!... Zitta, chi sta venendo?" Siamo sedute dietro la siepe di rovi, proprio vicino alla strada che passa due metri sotto di noi, e che ha una panca sulla riva del fosso, un meraviglioso nascondiglio per ascoltare senza essere viste. "Sono i maestri!" Sì, sono Rabastens e il cupo Armand Duplessis, che camminano chiacchierando, fortuna insperata! Il bell'Antonin vuole sedersi su questa panca, a causa del pallido solicello che la riscalda un pochino. Sentiremo la loro conversazione e non stiamo nella pelle dalla gioia, nel nostro posto d'osservazione, sopra le loro teste. "Ah!" sospira il meridionale con soddisfazione "Ci si scalda un po' qui. Non le pare?" Armand borbotta qualcosa di non chiaro. Il marsigliese ricomincia; parlerebbe da solo, ne sono sicura! "Io, veda un po', mi trovo bene in questo paese: le maestre sono molto gentili. La signorina Sergent, se è brutta! Ma la piccola signorina Aimée è così carina! Mi sento più in gamba quando lei mi guarda." Il falso Richelieu si è raddrizzato, gli si scioglie la lingua: "Sì, è seducente, e così graziosa! Sorride sempre e cinguetta come una capinera". Ma si frena subito dopo questa espansione e aggiunge con un altro tono: "E' una buona signorina, certo lei le farà girare la testa, don Giovanni!". Sono stata lì lì per scoppiare. Rabastens nelle vesti di don Giovanni! L'ho immaginato con un feltro piumato sulla testa tonda e le guance pienotte... Lassù, protese verso la strada, ridevamo con gli occhi, tutte e due, senza muoverci di un millimetro. "Ma, parola d'onore," riprende il rubacuori dell'insegnamento elementare "ci sono altre belle ragazze oltre a quella, si direbbe che lei non le ha viste! L'altro giorno a scuola, la signorina Claudine venne a cantare in modo delizioso (posso dire che me ne intendo un poco, eh?). E non è un tipo da passare inosservata, coi capelli sciolti sulle spalle e tutto intorno, e gli occhi scuri così maliziosi! Caro mio, credo che quella bambina ne sappia più delle cose che dovrebbe ignorare, che di geografia!" Ho avuto un piccolo sussulto di stupore, e ci siamo quasi fatte sorprendere, perché Claire si è lasciata scappare una risata come una fuga di gas, che avrebbe potuto essere sentita. Rabastens si agita sulla panchina, accanto a Duplessis assorto, e gli sussurra qualcosa all'orecchio, ridendo con aria lasciva. L'altro sorride; si alzano; se ne vanno. Noi due, in alto, siamo felici, e balliamo dalla gioia, tanto per scaldarci come per rallegrarci di questo delizioso spionaggio. Tornando a casa, rimugino già qualche civetteria per infiammare questo grasso Antonin ultra- combustibile, per far passare il tempo durante la ricreazione, quando piove. E io che lo credevo intento a progettare la seduzione della signorina Lanthenay! Sono molto felice che non cerchi di piacerle, perché quella piccola Aimée mi sembra così pronta ad amare, che persino un Rabastens avrebbe potuto riuscire, chi lo sa? E' vero che Richelieu è stato colpito da lei ancor più di quanto non pensassi. Già alle sette del mattino entro a scuola; tocca a me accendere il fuoco, ahimè! Bisognerà spaccare un po' di legna nella rimessa e rovinarsi le mani, e portare ceppi, e soffiare, e prendersi negli occhi il fumo bruciante... To', il primo edificio nuovo si eleva già alto, e su quello della scuola maschile, simmetrico, il tetto è quasi finito; la nostra povera vecchia scuola mezzo demolita sembra un'infima catapecchia accanto a questi due edifici che sono spuntati da terra così in fretta. Anaïs la lunga mi raggiunge e andiamo a spaccare legna. "Sai, Claudine, oggi arriva una seconda maestra, e saremo tutte costrette a sloggiare; ci faranno scuola all'asilo." "Magnifica idea! Ci prenderemo le pulci e i pidocchi: è così sporco là dentro." "Sì, ma siamo più vicine alla classe maschile, mia cara." (Che spudorata quella Anaïs! Infatti ha ragione.) "Questo è vero. Ebbene, focherello striminzito, ti decidi ad attaccare? Sono dieci minuti che mi spolmono. Ah, come deve prendere fuoco più facilmente Rabastens!" A poco a poco, il fuoco si decide ad attaccare, arrivano le scolare, la signorina Sergent è in ritardo (perché? E' la prima volta). Scende finalmente, ci risponde "Buon giorno" con aria preoccupata, poi siede in cattedra, dicendoci: "Al vostro posto", senza guardarci, e, evidentemente, senza pensare a noi. Copio i problemi domandandomi quali pensieri la tormentino, e mi accorgo con inquieta sorpresa che mi lancia di tratto in tratto certi rapidi sguardi, furenti e insieme vagamente soddisfatti. Che c'è dunque? Non sono affatto, affatto tranquilla. Cerchiamo di ricordare... Ricordo soltanto che, con una collera quasi dolorosa, appena dissimulata, ha visto la signorina Lanthenay e me che ce ne andavamo per la lezione d'inglese. Ahimè! Non ci lasceranno dunque tranquille, la mia piccola Aimée e me? Non facciamo niente di male, tuttavia! La nostra ultima lezione d'inglese è stata così dolce! Non abbiamo nemmeno aperto il dizionario, né la Scelta di frasi d'uso comune, né il quaderno... Penso e sono furente mentre copio i problemi con una calligrafia disordinata; Anaïs mi spia di soppiatto e indovina che c'è "qualcosa". Io guardo ancora quella terribile rossa dagli occhi gelosi, mentre raccolgo la penna che, per una felice sbadataggine, ho gettato per terra. Ma, ma ha pianto, non mi sbaglio! Allora perché quegli sguardi irosi e quasi soddisfatti? Non va per niente bene, bisogna assolutamente che oggi interroghi Aimée. Non penso più al problema da trascrivere: "...Un operaio pianta alcuni pali per fare una palizzata. Li conficca a una distanza tale l'uno dall'altro, che il secchio di catrame, in cui immerge l'estremità inferiore sino a un'altezza di cm 30, è vuoto in capo a ore 3. Dato che la quantità di catrame che resta attaccata ai pali è uguale a dieci centimetri cubi, che il secchio è un cilindro di m 0,15 di raggio alla base e di m 0,75 di altezza, pieno per 3/4, che l'operaio immerge 40 pali l'ora e si riposa 8 minuti circa nel medesimo tempo, qual è il numero dei pali e qual è la superficie della proprietà che ha la forma di un quadrato perfetto? Dite anche quale sarebbe il numero dei pali necessari, se si piantassero a una distanza maggiore di cm 10. Dite anche il costo di questa operazione nei due casi: se i pali costano fr. 3 al centinaio, e se l'operaio è pagato fr. 0,50 l'ora". Non bisognerebbe anche dire se l'operaio è uno sposo felice? Oh, qual è la fantasia malsana, il cervello depravato in cui germinano questi problemi ripugnanti coi quali ci torturano? Li aborrisco! E gli operai che si coalizzano per complicare la somma di lavoro di cui sono capaci, che si dividono in due squadre, delle quali una consuma un terzo in più delle forze dell'altra, mentre quell'altra, in compenso, lavora ore due di più! E il numero di aghi che una sarta adopera in venticinque anni quando si serve di aghi a franchi zero e cinquanta la cartina per undici anni, e di aghi a franchi zero e settantacinque durante il resto del tempo, ma quelli da franchi zero e settantacinque sono... eccetera. E le locomotive che complicano diabolicamente la velocità, le ore della partenza e lo stato di salute dei macchinisti! Odiose supposizioni, ipotesi inverosimili, che mi hanno reso refrattaria all'aritmetica per tutta la vita! "Anaïs, venga alla lavagna." Quella spilungona si alza e di nascosto mi fa una smorfia da gatta disturbata; non piace a nessuno "andare alla lavagna" sotto gli occhi neri e indagatori della signorina Sergent. "Faccia il problema." Anaïs lo fa e lo spiega. Ne approfitto per esaminare comodamente la maestra: i suoi sguardi scintillano, i capelli rossi le fiammeggiano... Se, almeno, avessi potuto vedere Aimée Lanthenay prima della lezione! Bene, il problema è finito. Anaïs respira e ritorna al suo posto. "Claudine, venga alla lavagna. Scriva le frazioni: 3525/5712 806/925 14/56 302/1052" (mio Dio! Salvami dalle frazioni divisibili per sette e per undici, come pure da quelle divisibili per cinque, per nove, e per quattro e per sei, e per millecentoventisette) "e trovi il loro massimo comun divisore". Ecco quello che temevo. Comincio malinconicamente; mi sfugge qualche sciocchezza perché non sto attenta a quel che faccio. Come corregge presto, con un gesto secco della mano o aggrottando le sopracciglia, le piccole inesattezze che mi permetto di fare! Finalmente me la cavo e ritorno al posto, riportandomi questo avvertimento: "Niente freddure qui, eh?", perché a questa sua osservazione: "Lei dimentica di abbassare gli zeri" ho risposto: "Bisogna sempre abbassare gli zeri, se lo meritano". Dopo di me, va alla lavagna Marie Belhomme, e secondo l'abitudine, fa spropositi inauditi l'uno sull'altro, con la più gran buona fede di questo mondo; volubile e sicura di sé quando annaspa, indecisa e rossa quando si ricorda della lezione precedente. Si apre la porta della classe inferiore, entra la signorina Lanthenay. Io la guardo avidamente: oh, quei poveri occhi dorati che hanno pianto e sono gonfi sotto, quei cari occhi, che mi lanciano uno sguardo smarrito e si volgono subito! Ne resto costernata; che cosa mai le ha fatto lei? Arrossisco di collera, in tal modo che Anaïs la lunga lo nota e sogghigna di nascosto. La dolente Aimée ha chiesto un libro alla signorina Sergent, che glielo ha dato con una premura accentuata e le cui guance sono diventate di un rosso più cupo. Che cosa vuol dire tutto ciò? Quando penso che la lezione d'inglese è solo domani, sono ancora più angosciata. Ma che farci? Non posso fare nulla. La signorina Lanthenay ritorna nella sua classe. "Signorine," annuncia la cattiva rossa "tirate fuori i libri e i quaderni, siamo costrette a rifugiarci provvisoriamente nell'asilo." Subito tutte le ragazzine si agitano come se avessero il fuoco alle gambe; ci spingiamo, ci pizzichiamo, muoviamo i banchi, cascano i libri, li ammucchiamo nei nostri grandi grembiuli. Anaïs, la lunga, reggendosi il bagaglio fra le braccia, mi osserva mentre prendo il mio carico, poi mi tira in fretta l'angolo del grembiule e tutto crolla. Lei continua ad avere la sua aria distratta e osserva attentamente tre muratori che si lanciano tegole nel cortile. Mi sgridano per la mia goffaggine, e due minuti dopo quella canaglia di Anaïs ricomincia lo stesso esperimento con Marie Belhomme. Lei prorompe in esclamazioni così rumorose che le vengono assegnate alcune pagine di storia antica da copiare. Finalmente la nostra compagnia, chiacchierando e trascinando i piedi, attraversa il cortile ed entra nell'asilo. Io arriccio il naso: è sporco, lo hanno pulito alla svelta per noi, puzza ancora di bambini trascurati. Purché questo "provvisorio" non duri troppo! Anaïs ha posato i libri e subito ha voluto accertarsi che le finestre diano sul giardino del maestro. Io, troppo preoccupata per le noie che prevedo, non ho avuto il tempo di contemplare i maestri. Ritorniamo nella vecchia aula facendo il rumore di una mandria di buoi scappati e trasportiamo i banchi così vecchi, così pesanti che urtiamo e inciampiamo un po' dappertutto, con la speranza che almeno uno si sconquassi completamente e cada a pezzi tarlati. Vana speranza! Arrivano interi; non è colpa nostra. Non abbiamo studiato molto, questa mattina. Tanto di guadagnato. Alle undici, quando usciamo, faccio la ronda per vedere la signorina Lanthenay, ma senza successo. La chiude a chiave, lei? Me ne vado a colazione, così piena di collera compressa che papà stesso se ne accorge e mi domanda se ho la febbre... Poi ritorno molto presto, a mezzogiorno e un quarto, e mi innervosisco, fra le poche scolare presenti, tutte ragazzine di campagna, che fanno colazione a scuola con uova sode, lardo, melassa spalmata sul pane, frutta. E aspetto inutilmente, e mi rodo! Entra Antonin Rabastens (un diversivo come un altro) e mi saluta con la grazia di un orso che balla. "Scusi tanto, signorina; e allora le signorine non sono ancora scese?" "Nossignore, le aspetto; Dio voglia che non tardino troppo, perché "la lontananza è il peggiore di tutti i mali"! Ho già commentato sette volte questo aforisma di La Fontaine, in vari componimenti che sono stati segnalati." Ho parlato con dolce gravità; il bel marsigliese ha ascoltato con un'espressione un po' inquieta nella sua buona faccia di luna piena. (Anche lui penserà che sono un po' pazza.) Cambia argomento: "Signorina, mi hanno detto che lei legge molto. Suo padre possiede una ricca biblioteca?". "Sì, signor maestro, duemilatrecentosette volumi, non uno di più." "Lei sa tante cose interessanti, senza dubbio, e ho capito subito l'altro giorno - quando ha cantato con tanta grazia - che lei è molto avanti per la sua età." (Dio, che idiota! Non se ne andrà una buona volta? Ah, dimenticavo che è un po' innamorato di me. Devo essere più gentile.) "Ma anche lei, signor maestro, ha una bella voce di baritono a quanto mi hanno detto. Qualche volta la sentiamo cantare in camera sua, quando i muratori non fanno baccano." Diventa rosso di gioia e protesta con modestia assai compiaciuta. Si schermisce: "Oh, signorina!... D'altronde potrà giudicare lei stessa fra poco, perché la signorina Sergent mi ha pregato di dare qualche lezione di solfeggio, il giovedì e la domenica, alle scolare grandi che fanno l'esame di licenza; e cominceremo la settimana prossima". Che fortuna! Se non fossi così preoccupata, sarei felice di comunicare questa notizia alle altre che non sanno ancora nulla. Figurarsi come si inonderà di acqua di Colonia, Anaïs, e si morderà le labbra giovedì prossimo, e si stringerà la cintura di cuoio, e canterà languidamente! "Come? Ma io non ne sapevo nulla! La signorina Sergent non ci ha detto niente." "Oh, forse non avrei dovuto dirlo? Sia tanto gentile da fingere d'ignorarlo!" Mi supplica muovendo il busto ad arte, e io scrollo il capo per scacciare dei riccioli che non mi disturbano affatto. Questa parvenza di segreto fra di noi lo rallegra, gli servirà come spunto per darmi occhiate d'intesa, di una intesa molto naturale. Se ne va, facendo il bello, con un saluto già più familiare: "Arrivederci, signorina Claudine". "Arrivederci, signor maestro." Mezzogiorno e mezzo: vengono le scolare; e Aimée non si vede ancora! Rifiuto di giocare con la scusa di un'emicrania, e mi scaldo. Oh, oh! Che cosa vedo? Ecco che sono scese Aimée e la sua temibile superiora: sono scese e attraversano il cortile, e la rossa ha preso a braccetto la signorina Lanthenay; avvenimento inaudito! La signorina Sergent parla, e molto piano, alla subordinata, che, ancora un po' confusa, alza gli occhi già rassicurati e belli verso l'altra, tanto più alta di lei. Lo spettacolo di questo idillio muta la mia inquietudine in dispiacere. Prima che siano vicino alla porta, mi precipito fuori in mezzo a un gruppo che gioca sfrenatamente "al lupo", gridando: "Gioco anch'io!" come griderei: "Al fuoco!". E, sino a quando suona l'ora di tornare in classe, mi sfiato e corro a più non posso, inseguita e inseguitrice, trattenendomi il più possibile dal pensare. Durante la partita, ho visto la testa di Rabastens: guarda al di sopra del muro e si diverte a vedere correre queste ragazze ormai grandi, che mostrano, alcune inconsciamente come Marie Belhomme, altre ben conscie, come Anaïs la lunga, certi polpacci belli o ridicoli. Il gentile Antonin mi rivolge un grazioso sorriso, straordinariamente grazioso; non ritengo di dover rispondervi a causa delle compagne, ma dimeno i fianchi e scuoto i riccioli. Devo ben far divertire questo giovane (d'altronde mi sembra un balordo nato, capace solo d'infilare una topica dopo l'altra). Anaïs, che l'ha visto anche lei, corre dandosi col ginocchio dei colpi alle sottane per mettere in mostra gambe che tuttavia non sono attraenti, e ride e manda strilli da uccello. Quella farebbe la civetta con un bue da tiro. Rientriamo in classe e, ancora ansanti, apriamo i quaderni. Ma dopo un quarto d'ora la vecchia Sergent viene ad avvertire la figlia, in un dialetto da selvaggi, che sono arrivate due convittrici. La classe è in ebollizione; due "novelline" da stuzzicare. E la signorina esce, pregando la signorina Lanthenay, con voce dolce, di sorvegliare la scolaresca. Viene Aimée, io cerco i suoi occhi per sorriderle con tutta la più ansiosa tenerezza, ma lei mi risponde con uno sguardo piuttosto malsicuro; e il cuore mi si affligge stupidamente, mentre mi chino sul lavoro a maglia... Non ho mai lasciato cadere tanti punti! Ne lascio cadere una tale quantità, che sono costretta a chiedere aiuto alla signorina Aimée. Mentre lei cerca di rimediare alla mia sbadataggine, le sussurro: "Buongiorno, cara, piccola graziosa signorina, ma che cosa c'è dunque, mio Dio? Mi rodo perché non le posso parlare". Lei volge intorno sguardi inquieti, e mi risponde molto piano: "Adesso non posso dirle nulla; domani durante la lezione". "Non riuscirò assolutamente ad aspettare sino a domani! Se facessi finta che domani papà ha da fare in biblioteca, e chiedessi di fare lezione questa sera?" "No... sì... lo chieda. Ma torni subito al posto, le grandi ci guardano." La ringrazio a voce alta e torno a sedere. Ha ragione: Anaïs la lunga ci spia, cercando d'indovinare che cosa succede da due o tre giorni. Finalmente ritorna la signorina Sergent, accompagnata da due giovinette insignificanti, il cui arrivo provoca un certo brusìo fra i banchi. Installa le nuove arrivate al loro posto. I minuti scorrono lenti. Quando finalmente suonano le quattro, vado subito dalla signorina Sergent e le chiedo tutto d'un fiato: "Signorina, vuol essere tanto gentile da permettere alla signorina Lanthenay di darmi la lezione questa sera invece di domani? Papà riceve nella biblioteca un tale, che viene per affari, e noi non potremo restarci". Uff! Ho pronunciato la frase senza respirare. La signorina aggrotta le sopracciglia, mi squadra per un attimo e decide: "Sì, vada ad avvertire la signorina Lanthenay". Corro da lei, si mette il cappello, il soprabito, e me la porto via, pestando i piedi per l'ansia di sapere. "Ah, come sono contenta di averla un po' con me! Mi dica, presto, che cosa c'è che non va?" Lei esita, tergiversa: "Non qui, aspetti, è difficile da raccontare per la strada; fra un minuto saremo a casa sua". Intanto le stringo il braccio sotto il mio, ma non ha il solito sorriso gentile. Quando abbiamo sbattuto dietro le spalle la porta della biblioteca, la prendo fra le braccia e la bacio; mi sembra che l'abbiano tenuta chiusa lontano da me per un mese, questa povera piccola Aimée dagli occhi cerchiati, dalle guance pallide! Ma dunque ha avuto un gran dispiacere? Tuttavia i suoi sguardi mi sembrano soprattutto imbarazzati ed è più agitata che triste. Eppoi, anche, contraccambia i miei baci in fretta; non mi piace che mi si baci distrattamente! "Suvvia, parli, racconti dal principio." "Ma non è una storia molto lunga; non c'è stato un gran che, tutto sommato. E' la signorina Sergent, sì, che vorrebbe... insomma preferisce... trova che queste lezioni d'inglese m'impediscono di correggere i quaderni, e che sono costretta ad andare a letto troppo tardi..." "Andiamo, su, non perda tempo e sia franca; non vuole più che lei venga?" Tremo per l'angoscia, stringo le mani fra le ginocchia per tenerle ferme. Aimée spiegazza la copertina della grammatica e la stacca, alzando su di me gli occhi che ridiventano sgomenti. "Sì, proprio così, ma non l'ha detto come lo dice lei, Claudine: mi ascolti un momento." Io non ascolto affatto, mi sento struggere dal dolore; sono seduta su un panchettino per terra, e stringendola, col braccio intorno alla vita sottile, la supplico: "Cara, non se ne vada! Se sapesse, ne soffrirei troppo! Oh, trovi delle scuse, inventi qualche cosa, ritorni, non mi lasci! Lei mi riempie di gioia, soltanto standomi vicino! Dunque non le fa piacere? Sono dunque come una Anaïs o una Marie Belhomme qualsiasi per lei? Cara signorina, ritorni, ritorni ancora a darmi le lezioni d'inglese! Io le voglio tanto bene... non glielo dicevo, ma ora lo vede!... Ritorni, la prego. Non potrà mica picchiarla quella maledetta rossa!". Brucio dalla febbre, e mi irrito ancor più sentendo che Aimée non vibra insieme con me. Mi accarezza la testa posata sulle sue ginocchia, e non m'interrompe se non esclamando ogni tanto con voce tremolante: "Mia piccola Claudine!". Alla fine gli occhi le si bagnano di lacrime e si mette a piangere dicendo: "Le racconterò tutto, è troppo triste; lei mi fa troppa pena! Ecco: sabato scorso, mi sono accorta che lei mi faceva più gentilezze del solito, e io, credendo che si stesse abituando alla mia presenza e che ci lasciasse tranquille, ero contenta e allegrissima. E poi, verso la fine della serata, mentre correggevamo quaderni sulla stessa tavola, a un tratto, alzando il capo, vedo che piangeva, guardandomi con certi occhi così strani che ne sono rimasta turbata; lei si è subito allontanata dalla sedia ed è andata a dormire. L'indomani, dopo una giornata piena di premure per me, ecco che, la sera, mentre ero sola con lei, stavo per augurarle la buona notte, quando mi domanda: "Dunque vuole molto bene a Claudine? E senza dubbio lei glielo contraccambia?". E prima che avessi avuto il tempo di rispondere era caduta a sedere accanto a me singhiozzando. E poi mi ha preso le mani, e mi ha detto tante e tante cose delle quali ero sbalordita...". "Quali cose?" "Ebbene, mi diceva: "Piccola cara, non vede dunque che mi strazia il cuore con la sua indifferenza? Oh, tesoruccio mio, come mai non si è accorta del grande affetto che ho per lei? Piccola Aimée mia, sono gelosa della tenerezza che lei dimostra a questa Claudine scriteriata che certamente è un po' pazza... Se soltanto non mi odiasse, oh, se soltanto mi volesse un pochino di bene, io sarei per lei un'amica più tenera di quanto non possa immaginarlo...". E mi guardava sino in fondo all'anima con due occhi come carboni accesi." "Lei non le rispondeva nulla?" "Certamente! Non ne avevo il tempo! E anche diceva: "Crede che siano molto utili per lei e molto gentili per me queste lezioni d'inglese che dà a Claudine? So benissimo che non studiate molto l'inglese durante le lezioni, e ogni volta mi strazia l'anima quando vi vedo andare via! Non ci vada, non ci vada più! In capo a una settimana Claudine non ci penserà più, io le darò più affetto di quanto lei sia capace di provare!". Le assicuro, Claudine, che non sapevo più quello che mi facessi, lei mi magnetizzava con quegli occhi folli, e tutto a un tratto, la stanza mi gira intorno, e barcollo, e non vedo più niente per due o tre secondi, non di più; sentivo soltanto che lei ripeteva molto spaventata: "Dio mio... Povera piccola! La spavento, è pallida, piccola Aimée, mia cara!". E subito dopo mi ha aiutata a spogliarmi, con maniere affettuose, e ho dormito come se avessi camminato tutta la giornata... Povera Claudine mia, vede bene che non ci posso far nulla!" Sono sbalordita. Ha passioni piuttosto violente, quella rossa vulcanica! In fondo, non me ne meraviglio troppo; doveva finire così. Frattanto, resto lì, affranta; e dinanzi ad Aimée, piccola fragile creatura stregata da quella furia, non so che cosa dire. Lei si asciuga gli occhi. Mi sembra che il suo dispiacere cessi con le lacrime. La interrogo: "Ma lei, lei non le vuole bene?". Risponde senza guardarmi: "No, di certo; ma veramente sembra che la direttrice me ne voglia molto, e io non me lo aspettavo". La risposta mi agghiaccia, perché insomma io non sono ancora diventata una cretina, e capisco quello che mi si vuole dire. Le lascio cadere le mani, che stringevo, e mi alzo. C'è qualcosa che si è spezzato. Poiché non vuole confessarmi francamente che non è più con me contro l'altra, poiché nasconde il fondo del suo pensiero, credo che sia finita. Ho le mani gelate e le guance che mi bruciano. Dopo un silenzio spiacevole, ricomincio: "Cara signorina Aimée dai begli occhi, la supplico di ritornare ancora una volta per finire il mese; crede che lei lo permetta?". "Oh, sì, glielo chiederò." L'ha detto in fretta, con naturalezza, ormai sicura di ottenere dalla signorina Sergent tutto quel che vuole. Come si allontana presto da me e come ha vinto presto, quell'altra! Vigliacca d'una piccola Lanthenay! Le piace il benessere come a una gatta freddolosa, e capisce che l'amicizia della superiora le sarà più utile della mia! Ma io non voglio dirglielo, perché non ritornerebbe più per l'ultima lezione, e io conservo ancora una vaga speranza... E' passata l'ora; riaccompagno Aimée, e nel corridoio la bacio violentemente, con un fondo di disperazione. Appena sola, mi stupisco di non sentirmi tanto triste quanto avrei creduto. Mi aspettavo una grande e ridicola esplosione di dolore; no, è piuttosto un freddo che mi agghiaccia... A tavola interrompo il sogno di papà: "Sai, papà, le lezioni d'inglese?". "Sì, lo so, hai ragione di prenderle..." "Ascoltami dunque, non ne prenderò più." "Ah, ti stancano?" "Sì, mi irritano." "Hai ragione." E il pensiero gli vola daccapo alle lumache; le aveva forse abbandonate? Una notte agitata da stupidi sogni: la signorina Sergent nelle vesti di una Furia, con serpenti nei capelli rossi, voleva abbracciare Aimée Lanthenay che scappava gridando. Io cercavo di correre in suo aiuto, ma mi fermava Antonin Rabastens, con un vestito rosa pallido, e mi tratteneva per il braccio, dicendomi: "Senta, senta dunque: ecco una romanza che io canto, e ne sono veramente entusiasta". Allora cantava con voce di baritono: Miei cari amici, quando morirò/ piantate un salice al cimitero/ ...sull'aria di Ah, come si è orgogliosi d'essere francesi, quando si guarda la colonna! Una notte assurda e che non mi riposa davvero! Arrivo a scuola in ritardo e osservo la signorina Sergent con una sorpresa segreta al pensiero che l'audace rossa l'ha spuntata. Mi lancia certe occhiate maliziose, quasi di scherno; ma stanca, abbattuta, non ho il coraggio di risponderle. All'uscita dalla scuola, vedo la signorina Aimée che mette in fila le piccole (mi sembra un sogno la scena di ieri sera). La saluto, passando; anche lei ha l'aria stanca. Non c'è la signorina Sergent; mi fermo: "Sta bene, questa mattina?". "Ma sì, grazie. Ha gli occhi pesti, Claudine." "Può darsi. Che c'è di nuovo? La scena non si è ripetuta? E' sempre così gentile con lei?" Arrossisce e si confonde: "Sì, sì, non c'è nulla di nuovo ed è molto gentile. Io... io penso che lei non la conosca bene, non è affatto come lei crede...". Un po' disgustata, la lascio balbettare; quando ha bene aggrovigliato la frase, la interrompo: "Forse ha ragione lei. Verrà mercoledì per l'ultima volta?". "Oh, sì! Gliel'ho chiesto, è certo." Come cambiano presto le cose! Dopo la scena di ieri sera non parliamo già più nello stesso modo, e oggi non oserei più dimostrarle il dolore che ho lasciato trasparire ieri sera senza ritegno. Suvvia! Bisogna farla ridere un po': "E i suoi amori? Sta bene il bel Richelieu?". "Ma chi? Armand Duplessis? Ma sì, sta bene; qualche volta sta due ore all'ombra sotto la mia finestra; ma ieri sera gli ho fatto capire che me ne ero accorta, e se ne è andato presto, con quelle gambe a compasso. E quando il maestro Rabastens ha voluto accompagnarlo da noi ieri l'altro, ha rifiutato." "Lo sa? Armand è seriamente innamorato di lei, creda a me; per caso, domenica scorsa, per strada, ho sentito una conversazione fra i due maestri e... non le dico altro! Armand è proprio innamorato; solamente cerchi di addomesticarlo: è un uccello selvatico." Animatissima, vorrebbe dei particolari, ma io scappo. Cerchiamo di pensare alle lezioni di solfeggio del seducente Antonin Rabastens. Cominciano giovedì; mi metterò la sottana azzurra, con la camicetta a pieghe che mi disegna la vita, e il grembiulino, non il grande grembiule nero di tutti i giorni col busto attillato (che tuttavia mi sta bene), ma quello piccolo celeste, ricamato, quello che mi metto a casa la domenica. E nient'altro; non troppo sfoggio per questo signore: le mie buone piccole compagne se ne accorgerebbero. Aimée, Aimée! E' proprio un peccato che sia scappato così presto questo bell'uccellino che mi avrebbe consolato di tutte quelle oche! Ora capisco benissimo che l'ultima lezione non servirà a nulla. Con un carattere meschino come il suo, superficiale, egoista e che ama il piacere salvaguardando l'interesse, è inutile lottare contro la signorina Sergent. Spero soltanto che questa grande delusione non mi rattristi a lungo. Oggi, durante la ricreazione, gioco sfrenatamente per scuotermi e per scaldarmi. Anaïs e io, stringendo forte le "mani da levatrice" di Marie Belhomme, la facciamo correre così forte da mozzarle il fiato, finché non chiede pietà; poi, con la minaccia di rinchiuderla nei gabinetti, la condanno a recitare, a voce alta e intelligibile, il racconto di Teramene. (4) Lei recita gli alessandrini con la voce di una martire e poi scappa con le braccia levate. Le sorelle Jaubert mi sembrano impressionate. Va bene, se non apprezzano il genere classico, faremo loro sentire dei versi moderni alla prossima occasione! La prossima occasione non tarda molto; appena rientrate in classe, ci fanno fare esercizi di scrittura rotonda e bastarda, data l'imminenza degli esami. Perché, in generale, la nostra scrittura è orribile. "Claudine, lei detterà i modelli mentre io assegno i posti nella classe inferiore." Se ne va nella "seconda classe" che, sloggiata a sua volta, sarà sistemata non so dove. Questo ci promette una buona mezz'ora di solitudine. Io comincio: "Ragazze mie, oggi vi detterò un brano molto divertente". Coro: "Ah!". "Sì, certe canzoncine allegre, dai Palazzi nomadi." (5) "Già il solo titolo sembra molto bello" osserva con convinzione Marie Belhomme. "Hai ragione. Siete pronte? Suvvia: Sulla stessa curva lenta,/ implacabilmente lenta,/ s'estasia, vacilla e sprofonda/ il presente complesso delle curve lente./ Mi riposo. Anaïs la lunga non ride perché non capisce (neanch'io). E Marie Belhomme, sempre candida, esclama: "Ma sai benissimo che abbiamo già studiato geometria questa mattina! E poi sembra troppo difficile: non ho scritto nemmeno la metà di quello che hai detto". Le gemelle stralunano quattro occhi diffidenti. Io continuo impassibile: All'identico autunno le curve s'omologano,/ analogo il tuo dolore alle lunghe sere d'autunno,/ e stona la lenta curva delle cose ed i tuoi brevi salterelli./ Mi seguono a stento senza più cercare di capire, e provo una soddisfazione molto piacevole nel sentire Marie Belhomme che si lamenta ancora e m'interrompe: "Aspetta, ma aspetta, detti troppo in fretta... La lenta curva di che cosa?". Io ripeto: ""La lenta curva delle cose ed i tuoi brevi salterelli"... Ora ricopiate prima in scrittura rotonda e poi bastarda". Sono la mia gioia queste lezioni supplementari di calligrafia, che hanno lo scopo di prepararci per gli esami della fine di luglio. Io detto cose stravaganti, e provo un gran piacere sentendo queste figlie di bottegai, calzolai e gendarmi che recitano e scrivono docilmente bizzarrie della école Romane, (6) o ninne nanne mormorate da Francis Jammes, (7) tutto ciò spigolato a uso di queste care piccole compagne, nelle riviste e nei libercoli che riceve papà (e ne riceve!). Dalla Revue des Deux Mondes al Mercure de France, tutti i giornali si accumulano in casa nostra. Papà mi affida l'incarico di tagliarne le pagine, io mi concedo quello di leggerli. Bisogna bene che qualcuno li legga! Papà vi getta uno sguardo superficiale e distratto dato che il Mercure de France tratta molto raramente di malacologia. Io mi ci istruisco, senza capire sempre, e avverto papà quando stanno per scadere gli abbonamenti. "Rinnovali, papà, per conservarti la stima del postino." Anaïs la lunga, che è digiuna di lettere - non è colpa sua mormora scetticamente: "Queste cose che ci detti durante le lezioni di calligrafia, sono sicura che te le inventi apposta". "E' impossibile dire una cosa simile! Sono versi dedicati al nostro alleato, lo zar Nicola, ecco!" Essa non può canzonarmi e conserva un'espressione incredula. Ritorna la signorina Sergent, che dà un'occhiata alle nostre calligrafie. Esclama: "Claudine, non si vergogna di dettare assurdità simili? Farebbe meglio a imparare a memoria i teoremi di matematica, sarebbe meglio per tutti". Ma mi sgrida senza convinzione, perché in fondo non le dispiacciono queste mistificazioni. Tuttavia io l'ascolto senza ridere, e mi torna il rancore, sentendomi vicina colei che ha ottenuto con la forza la tenerezza di quella piccola Aimée così poco fedele... Mio Dio! Sono le tre e mezzo, e fra una mezz'ora verrà da noi per l'ultima volta. La signorina Sergent si alza e dice: "Chiudete i quaderni. Voi grandi che prendete il diploma, restate: devo parlarvi". Le altre se ne vanno, si imbacuccano lentamente in sciarpe e cappucci, seccate di non restare a sentire il discorso, evidentemente di formidabile interesse, che sta per esserci rivolto. La rossa direttrice c'interpella, e mio malgrado ne ammiro, come sempre, la chiarezza della voce, la decisione e l'esattezza delle frasi. "Signorine, credo che non vi facciate illusioni sulla vostra nullità in fatto di musica, tutte, tranne la signorina Claudine che suona il piano e legge correntemente, a prima vista; io vi farei ben dare lezioni da lei, ma siete troppo indisciplinate per obbedire a una vostra compagna. Da domani in poi, verrete la domenica e il giovedì alle nove per esercitarvi nel solfeggio e nella lettura sotto la direzione del signor Rabastens, il maestro, perché io, e così pure la signorina Lanthenay, non siamo in grado di darvi delle lezioni. Il signor Rabastens sarà aiutato dalla signorina Claudine. Cercate di non comportarvi troppo male. E domani siate qui alle nove." Io aggiungo a voce bassa un: "Rompete le file!" che le sue temibili orecchie afferrano. Aggrotta le ciglia, ma poi sorride, suo malgrado. Il breve discorso è stato pronunciato con un tono così perentorio, che quasi s'impone un saluto militare; se n'è accorta. Ma si direbbe davvero che non riesco più a farla arrabbiare; è scoraggiante; bisogna proprio che sia sicura del proprio trionfo per mostrarsi così buona! Se ne va, e tutte esplodono facendo un gran chiasso. Marie Belhomme non ci si raccapezza: "Però, veramente, farci dare delle lezioni da un giovanotto, è un po' forte! Tuttavia sarà divertente, non ti pare, Claudine?". "Sì. Bisogna bene distrarsi un poco." "Non ti intimidirà darci delle lezioni di canto col maestro?" "Non immagini quanto mi sia indifferente." Non presto molta attenzione e aspetto, agitata in cuor mio, perché la signorina Aimée Lanthenay non viene subito. Anaïs la lunga sogghigna felice, e stringe le spalle, come se scoppiasse dalle risa, e punzecchia Marie Belhomme, che geme incapace di difendersi: "Eh, farai la conquista del bell'Antonin Rabastens: non resisterà a lungo alle tue mani sottili e lunghe, alle tue mani da levatrice, alla tua vita esile, ai tuoi occhi espressivi; eh, cara mia, ecco una storia che finirà con un matrimonio!". Si eccita e balla davanti a Marie che, spinta da lei in un angolo, nasconde le disgraziate mani, gridando che è una sconvenienza. Aimée non viene ancora! Innervosita, non riesco a stare ferma e vado a gironzolare sino alla porta della scala che conduce nelle camere "provvisorie" (sempre!) delle maestre. Ah, ho fatto bene a venire a vedere! Su, nel pianerottolo, la signorina Lanthenay è bell'e pronta per uscire. La signorina Sergent la tiene per la vita e le parla sottovoce, con l'aria d'insistere teneramente; poi abbraccia a lungo la piccola velata, che la lascia fare e si presta gentilmente, e si attarda persino e si volta scendendo le scale. Io scappo senza che se ne accorgano, ma ancora una volta provo un gran dispiacere. Cattiva, cattiva piccina, che si è presto staccata da me per dare le sue tenerezze e gli occhi dorati a colei che era la nostra nemica!... Non so più che cosa pensare... Mi raggiunge nell'aula dove sono rimasta impietrita, assorta nelle mie fantasticherie. "Viene, Claudine?" "Sì, signorina, sono pronta." Per la strada non oso più interrogarla; che cosa mi risponderebbe? Preferisco aspettare di essere a casa, e, fuori, parlarle indifferentemente del freddo, prevedere che nevicherà ancora, che le lezioni di canto della domenica e del giovedì ci divertiranno... ma parlo senza convinzione e capisce bene anche lei che tutto questo chiacchierìo non conta. A casa, sotto la lampada, apro i quaderni e la guardo: è più bella dell'altra sera, un po' più pallida, con gli occhi cerchiati che sembrano più grandi: "Si direbbe che è stanca, eh?". E' imbarazzata per tutte le mie domande, perché dunque? Ecco che ridiventa rosea, che si guarda intorno. Scommetto che si sente vagamente colpevole verso di me. Continuiamo: "Mi dica, le dimostra sempre tanta amicizia quell'orribile rossa? Sono ricominciate le furie e le carezze dell'altra sera?". "Ma no... è molto buona con me... L'assicuro che ha tante premure per me." "Non l'ha più "magnetizzata"?" "Oh, no, non si tratta di questo... Credo di aver esagerato un po', l'altra sera, perché ero irritata." Ahi, eccola che sta per confondersi! Tanto peggio, voglio sapere. Mi avvicino a lei e le prendo le mani, le sue mani piccine piccine. "Oh, cara, mi racconti che altro c'è! Non vuol dunque dire più nulla alla sua povera Claudine che ha avuto tanto dispiacere ieri l'altro?" Ma si direbbe che si è ripresa, bruscamente decisa a tacere; prende a poco a poco una cert'aria calma, falsamente naturale, e mi guarda con quegli occhi di gatta, bugiardi e chiari. "No, Claudine, andiamo; ma se le assicuro che mi lascia assolutamente tranquilla, e che anzi si mostra molto buona. Noi la credevamo più cattiva di quanto non sia, lo sa?" Che cosa significa questa voce fredda, e questi occhi chiusi, pur spalancati come sono? E' la voce che ha a scuola, questa; e non la voglio! Mi rimangio la voglia di piangere per non sembrare ridicola. Allora, come, è finita fra noi due? E se la importuno con domande, ci lasceremo nemiche?... Prendo la grammatica inglese, non c'è nient'altro da fare; lei con un gesto frettoloso apre il mio quaderno. E' la prima volta e la sola, che ho fatto con lei una lezione seria; col cuore gonfio e pronto a scoppiare, ho tradotto delle pagine intere di: "Voi avevate delle penne, ma egli non aveva un cavallo." "Noi avremmo le mele di vostro cugino, se egli avesse molti temperini." "Avete inchiostro nel vostro calamaio? No, ma ho una tavola nella mia stanza da letto" eccetera. Verso la fine della lezione, questa strana Aimée mi domanda a bruciapelo: "Mia piccola Claudine, non è in collera con me?". Non mento del tutto rispondendo: "No, non sono in collera con lei". E' quasi vero, non sono in collera con lei, provo soltanto un po' di dispiacere e di stanchezza. La riaccompagno e la bacio, ma lei mi tende la guancia voltando il capo così bruscamente che le mie labbra quasi le toccano l'orecchio. Piccola senza cuore! La osservo mentre se ne va sotto il fanale, con un vago desiderio di correrle dietro; ma a quale scopo? Ho dormito piuttosto male: lo dimostrano i miei occhi cerchiati sino a metà delle guance; per fortuna mi dona abbastanza, me ne accorgo allo specchio, spazzolandomi vigorosamente i riccioli (tutti dorati questa mattina) prima di andare alla lezione di canto. Arrivo con una mezz'ora di anticipo, e non posso fare a meno di ridere trovando due mie compagne su quattro, già installate a scuola! Ci facciamo una reciproca ispezione, e Anaïs fa un fischio di ammirazione per il mio vestito azzurro e il mio grazioso grembiule. Per l'occasione lei ha tirato fuori il grembiule del giovedì e della domenica, rosso, ricamato in bianco (la fa sembrare ancora più pallida); pettinata col ciuffo con cura meticolosa, il nodo molto avanti quasi sulla fronte, si è stretta da scoppiare con una cintura nuova. Osserva ad alta voce, con animo compassionevole, che ho brutta cera; ma io rispondo che l'aria stanca mi dona. Accorre Marie Belhomme, scervellata e svaporata, come al solito. Anche lei ha fatto dei preparativi, sebbene in lutto; il suo colletto di crespo arricciato le dà un'aria da pierrot nero, trasognato; con i lunghi occhi vellutati, l'aria ingenua e sperduta, è graziosissima. Le due Jaubert arrivano insieme come sempre, punto civette, o per lo meno non quanto noi, pronte a comportarsi irreprensibilmente, a non alzare gli occhi, e a dir male di ciascuna di noi, dopo la lezione. Ci scaldiamo, strette intorno alla stufa, canzonando in anticipo il bell'Antonin. Attenzione, eccolo... Si avvicina un rumore di voci e di risa, la signorina Sergent apre la porta, precedendo l'irresistibile maestro. Bellissimo il Rabastens! Ha un berretto di pelo, un vestito blu scuro sotto il soprabito, e si toglie berretto e cappotto, entrando, dopo aver detto con profondo rispetto: "Signorine". Ha ornato la giacca con un crisantemo rosso ruggine di ottimo gusto e la cravatta fa colpo: verde-grigia con tanti anelli intrecciati sparsi. Una cravatta annodata con cura allo specchio! Subito ci disponiamo in fila seriamente, e le mani tirano di nascosto i corpetti per nascondere qualsiasi velleità di pieghe sgraziate. Marie Belhomme si diverte già in modo tanto evidente che scoppia a ridere, e si ferma spaventata di se stessa. La signorina Sergent aggrotta le terribili ciglia e si irrita. Mi ha guardata entrando: scommetto che la sua piccola le racconta già tutto! Mi ripeto con ostinazione che Aimée non merita tanto dispiacere, ma non me ne persuado. "Signorine", dice Rabastens con l'erre moscia "chi di voi vorrebbe darmi il libro?" Anaïs la lunga porge subito il proprio Marmontel per mettersi in vista e riceve un "grazie" di una gentilezza esagerata. Quel grassone deve farsi i complimenti davanti all'armadio a specchio. E' vero che non ha un armadio a specchio. "Signorina Claudine," mi dice con un'occhiata assassina (assassina per lui, s'intende) "sono felice e onoratissimo di diventare suo collega: perché lei dava lezione di canto a queste signorine, non è vero?" "Sì, ma non obbediscono affatto a una compagna" taglia netto la signorina Sergent, impazientita da queste chiacchiere. "Aiutata da lei, signor maestro, otterrà migliori risultati, oppure saranno bocciate all'esame, poiché non sanno niente di musica." Benone, imparerà a lasciarsi scappare frasi inutili, quel signore! Le mie compagne ascoltano, con uno stupore non dissimulato; finora non era mai stata usata tanta galanteria con loro; sono stupefatte, soprattutto dei complimenti che mi prodiga l'adulatore Antonin. La signorina Sergent prende il Marmontel e indica a Rabastens il punto che le scolare sono incapaci di superare, alcune per mancanza di attenzione, altre per incapacità (eccetto Anaïs, cui la memoria permette di ritenere tutti gli esercizi di solfeggio, senza "batterli" e senza scomporli). Siccome è vero che queste scioccherelle "non sanno nulla di musica", e siccome ci mettono una specie di punto d'onore a disobbedirmi, si farebbero sicuramente affibbiare degli zeri al prossimo esame. Questa prospettiva fa infuriare la signorina Sergent, che è stonata e che non può fare la maestra di canto, e così pure la signorina Aimée Lanthenay, non completamente guarita da una laringite di vecchia data. "Le faccia prima cantare separatamente," dico al meridionale (felicissimo di pavoneggiarsi in mezzo a noi) "sbagliano tutte il tempo, ma non fanno gli stessi sbagli, e sino ad ora non sono riuscita a correggerle." "Vediamo, signorina...?" "Marie Belhomme." "Signorina Marie Belhomme, mi solfeggi questo esercizio." E' una breve polca in sol, assolutamente sprovvista di difficoltà, ma la povera Marie, assolutamente negata per la musica, non ha mai potuto solfeggiarla senza sbagli. Sotto questo attacco diretto, ha avuto un sussulto, si è fatta rossa e straluna gli occhi. "Io segno una battuta a vuoto, e lei comincerà sul primo tempo; re si si, la sol fa fa... Non è molto difficile, non è vero?" "Sissignore" risponde Marie che perde la testa per eccesso di timidezza. "Bene, io comincio... Uno, due, uno..." "Re si si, la sol fa fa" strilla Marie con una voce da gallina rauca. Non si è lasciata scappare l'occasione di cominciare al secondo tempo! Io la fermo: "No, senti un po': uno, due re si si... capisci?". Il maestro segna una battuta a vuoto. Ricomincia. "Uno, due, uno..." "Re si si..." ricomincia lei con calore, facendo lo stesso sbaglio! E pensare che da tre mesi canta la polca fuori tempo! Rabastens s'intromette, paziente e discreto: "Permetta, signorina Belhomme, faccia il piacere di battere il tempo insieme con me". Le ha preso il polso e le guida la mano. "Così capirà meglio: uno, due, uno... Ebbene, canti dunque!" Questa volta non ha neppure cominciato! Paonazza a causa di questo gesto inatteso, ha perso completamente la testa. Io mi diverto un mondo. Ma il bel baritono, assai lusingato dal turbamento di quella povera scioccherella, si farebbe uno scrupolo di insistere. Anaïs, la lunga, ha le gote gonfie dalle risate represse. "Signorina Anaïs, la prego di cantare questo esercizio per mostrare alla signorina Belhomme come deve essere interpretato." Non si fa pregare, questa! Gorgheggia il suo pezzetto "con sentimento" alzando la voce negli acuti e non troppo a tempo. Macché! Lo sa a memoria, e la sua maniera un po' ridicola di solfeggiare come se cantasse una romanza piace al meridionale, che si congratula con lei. Anaïs cerca di arrossire, non ci riesce, e si limita, in mancanza di meglio, ad abbassare gli occhi, a mordersi le labbra e a chinare il capo. Dico a Rabastens: "Signor maestro, vuole far ripetere qualche esercizio a due voci? Per quanto abbia fatto, non li sanno". Questa mattina sono seria, prima perché non ho una gran voglia di ridere, poi perché, se facessi troppo chiasso durante questa prima lezione, la signorina Sergent sopprimerebbe le altre. E poi penso ad Aimée. Non viene dunque giù questa mattina? Solo otto giorni fa, non avrebbe osato starsene a letto sino a così tarda ora! Pensando a tutto ciò, distribuisco le due parti: la prima ad Anaïs, col peso di Marie Belhomme, l'altra alle convittrici. In quanto a me, verrò in aiuto di quella che sarà più debole. Rabastens sostiene la seconda. Ed eseguiamo il pezzetto a due voci, io a fianco del bell'Antonin che, con voce di baritono, lancia certi "Ah! Ah!" pieni di espressione chinandosi dalla mia parte. Dobbiamo formare un gruppetto straordinariamente ridicolo. Questo marsigliese non dirozzabile è così preoccupato delle grazie che sta sfoggiando, che fa sbagli su sbagli, senza che nessuno, d'altronde, se ne accorga. L'elegante crisantemo che porta all'occhiello della giacchetta si stacca e cade; finito il pezzo, lo raccoglie e lo getta sulla tavola, dicendo, come se pretendesse dei complimenti per sé: "Be', mi sembra che non sia andata troppo male". La signorina Sergent smorza la sua infatuazione, rispondendo: "Sì, ma le lasci cantare da sole, senza di lei, senza Claudine, e vedrà". (Scommetterei, dalla sua faccia avvilita, che aveva dimenticato perché si trova qui. Dev'essere davvero molto diligente, come insegnante, questo Rabastens. Tanto meglio! Quando la direttrice non assisterà alle lezioni, ci si potrà permettere qualunque cosa con lui.) "Sì, certamente, ma se queste signorine vorranno fare un piccolo sforzo, vedrà che arriveranno presto a saperne abbastanza per rispondere agli esami. Pretendono così poco di musica, lei lo sa bene, non è vero?" Guarda, guarda, si ribella adesso? Sarebbe impossibile far capire meglio alla rossa che non è capace di fare una scala. Lei capisce la malignità, e i suoi occhi scuri si voltano. Antonin risale un po' nella mia stima, ma ha irritato la signorina Sergent che gli dice seccamente: "Avrebbe la gentilezza di far studiare ancora un po' queste ragazze? Mi piacerebbe che cantassero separatamente per acquistare un po' di disinvoltura e di sicurezza". Tocca alle gemelle, che hanno voci inconsistenti, incerte, con uno scarso senso del ritmo, ma quelle due sgobbone se la caveranno sempre, studiano in modo così esemplare! Non posso soffrire queste Jaubert, buone e modeste. E immagino come studiano a casa, ripetendo sessanta volte ogni esercizio, prima di venire alle lezioni del giovedì, irreprensibili e sornione. Per finire Rabastens si "procura il piacere", dice, di ascoltarmi, e mi prega di leggere certe musiche molto noiose, romanze nefaste o arie con gorgheggi esagerati i cui vocalizzi antiquati gli sembrano il non plus ultra dell'arte. Per amor proprio, siccome è presente la signorina Sergent, e anche Anaïs, canto meglio che posso. E l'ineffabile Antonin va in estasi; s'ingarbuglia in complimenti tortuosi, in frasi piene di trabocchetti, dai quali mi guarderei dall'aiutarlo a districarsi, ben felice di ascoltarlo, invece, con occhi attenti e fissi nei suoi. Non so come sarebbe arrivato alla fine di una frase zeppa di proposizioni incidentali, se la signorina Sergent non si fosse avvicinata: "Ha dato a queste signorine qualche pezzo da studiare per questa settimana?". No, non ha dato niente. Non riesce a ficcarsi in testa che non l'hanno chiamato qui per cantare a due voci con me! Ma che ne è della piccola Aimée? Bisogna che lo sappia. Dunque rovescio abilmente un calamaio sul banco, avendo cura di macchiarmi abbondantemente le dita. Prorompo in un'esclamazione desolata, con tutte le dita aperte come un ragno. La signorina Sergent coglie l'occasione per osservare che ne faccio sempre una, e mi manda a lavare le mani alla pompa. Quando sono fuori, mi asciugo le mani con la spugna della lavagna per levare più inchiostro che posso, e ficco il naso e guardo in tutti gli angoli. In casa niente. Esco di nuovo e vado sino al muretto che ci separa dal giardino del maestro. Niente anche lì. Ma, ma, stanno chiacchierando là dentro! Chi? Mi chino al disopra del muretto per guardare giù, nel giardino che è due metri più in basso, e là, sotto dei noccioli senza foglie, al solicello pallido che si sente appena, vedo il cupo Richelieu che chiacchiera con la signorina Aimée Lanthenay. Tre o quattro giorni fa sarei rimasta di stucco, davanti a questo spettacolo, ma la grande delusione di questa settimana mi ha un po' corazzata. Quel selvatico Duplessis! Ha trovato l'uso della lingua, adesso, e non abbassa più gli occhi. Si è proprio gettato allo sbaraglio? "Mi dica, signorina, lei non se lo immaginava? Oh, mi dica di sì!" Aimée, col suo bel color rosa, freme di gioia, e i suoi occhi sono più dorati che mai, gli occhi che spiano e ascoltano attentamente tutto intorno, mentre lui parla. Ride con grazia facendo segno che non se l'aspettava proprio, quella bugiarda! "Ma sì, lei lo sospettava, quando passavo intere serate sotto le sue finestre. Ma io l'amo con tutte le mie forze, non per passare il tempo durante una stagione e poi andarmene per le vacanze. Vuole ascoltarmi seriamente, come io le parlo ora?" "E' proprio una cosa così seria?" "Sì, gliel'assicuro. Mi dà il permesso di venire questa sera a parlarle davanti alla signorina Sergent?" Oh, perbacco! Sento che si apre la porta dell'aula; vengono a vedere che cosa mi è successo. In due salti sono lontana dal muro e quasi vicino alla pompa; mi getto in ginocchio per terra, e quando la direttrice, accompagnata da Rabastens che se ne va, mi è vicina, vede che sto fregando energicamente con la sabbia le macchie di inchiostro delle mani "dato che non se ne vanno con l'acqua". Attacca benissimo. "Ma lasci stare," dice la signorina Sergent "le toglierà a casa con la pietra pomice." Il bell'Antonin mi rivolge un "arrivederci" allegro e malinconico insieme. Mi sono rialzata e gli faccio il più ondeggiante cenno del capo, che mi fa scivolare mollemente i riccioli lungo le guance. Dietro alle sue spalle, rido: gran balordo, crede di essere arrivato! Rientro in classe per prendere il cappuccio, e ritorno a casa pensando alla conversazione sorpresa dietro il muretto. Peccato che non abbia potuto sentire la fine di quel dialogo d'amore! Aimée avrà acconsentito, senza farsi pregare, a ricevere questo infiammabile ma onesto Richelieu, e lui è capace di chiedere la sua mano. Ma che cos'ha dunque nella pelle quella donnina che non è neppure una bellezza regolare? Fresca, sì, con un paio d'occhi meravigliosi; ma insomma non mancano begli occhi in visi più belli, e questa tutti gli uomini la guardano! I muratori, quando passa lei, smettono di impastare la calcina strizzando l'occhio e schioccando la lingua. (Ieri ne ho sentito uno che diceva al suo compagno, additandola: "Davvero, non so che cosa darei per essere una pulce nel suo letto!".) I giovanotti per la strada fanno i bellimbusti per lei, e gli assidui frequentatori del caffè della "Perla", quelli che prendono il vermut tutte le sere, chiacchierano fra loro con interesse "di una ragazza" che insegna nelle scuole, che fa allegare i denti come una torta di frutta non abbastanza zuccherata". Muratori, piccoli possidenti, la direttrice, il maestro, tutti dunque? A me interessa un po' meno da quando ho scoperto che è tanto traditrice, e mi sento completamente vuota, vuota della mia tenerezza, vuota del mio gran dispiacere della prima sera. Stanno demolendo, finiscono di demolire la vecchia scuola; povera vecchia scuola! Buttano giù il pianterreno, e assistiamo con curiosità alla scoperta di muri doppi, di muri che credevamo pieni e spessi e che sono vuoti come armadi, con una specie di corridoio buio, dove non si trova che polvere e uno schifoso odore vecchio e ripugnante. Mi diverto a spaventare Marie Belhomme raccontandole che questi nascondigli misteriosi sono stati sistemati un tempo per murarvi le donne che tradivano il marito, e che ho visto ossa bianche sparse fra i calcinacci; spalanca gli occhi smarriti, domanda: "E' vero?" e si avvicina in fretta "per vedere le ossa". Ritorna subito a me. "Non ho visto niente, è una nuova frottola che mi racconti!" "Che io possa perdere subito la lingua se questi nascondigli nei muri non sono stati scavati con un intento criminoso! E poi, prima di tutto, sai, è proprio il caso che mi accusi di menzogna, tu, che nascondi un crisantemo nel Marmontel, quel crisantemo che il signor Antonin Rabastens portava all'occhiello!" L'ho detto a voce molto alta, perché ho visto la signorina Sergent entrare nel cortile, precedendo Dutertre. Oh, lo si vede spesso quello là, siamo giusti! E ha proprio un bello spirito di sacrificio questo dottore, che abbandona ogni momento la clientela per venire a constatare lo stato soddisfacente della nostra scuola che, in questo momento, se ne va a pezzi: la prima classe all'asilo, la seconda, laggiù al municipio. Indubbiamente teme che la nostra istruzione abbia a soffrire di questi spostamenti successivi, quel degno ispettore scolastico del mandamento! Hanno sentito, lui e lei, quello che dicevo (perbacco, l'ho fatto apposta!), e Dutertre coglie l'occasione per avvicinarsi. Marie vorrebbe sprofondarsi sottoterra, e geme coprendosi il volto con le mani. Si avvicina ridendo, bonario, e batte sulla spalla di quella scioccherella che ha un sussulto e si confonde: "Piccina, che cosa ti dice questa indiavolata Claudine? Serbi i fiori che porta il nostro bel maestro? Mi dica un po', signorina Sergent, le sue scolare hanno il cuore molto sveglio, lo sa? Marie, vuoi che informi tua madre per farle capire che sua figlia non è più una ragazzina?". Povera Marie Belhomme! Incapace di rispondere una parola, guarda Dutertre, guarda me, guarda la direttrice con occhi di cerbiatta sgomenta, e sta per piangere... La signorina Sergent, che non è veramente entusiasta dell'occasione trovata dall'ispettore per chiacchierare con noi, lo contempla con occhi gelosi e pieni di ammirazione; non osa trascinarlo via (lo conosco abbastanza per credere che rifiuterebbe con disinvoltura). Io gongolo della confusione di Marie, del malcontento impaziente della signorina Sergent (e la sua piccola Aimée non le basta dunque più?) e anche di vedere il piacere che prova il nostro buon dottore nel restarci accanto. Bisogna proprio che i miei occhi dicano il mio stato d'ira e di contentezza, perché egli ne ride mostrando i denti aguzzi: "Claudine, che hai da essere così fremente? Ti agita la cattiveria?". Annuisco con un cenno del capo, scuotendo i riccioli senza parlare, una irriverenza che fa aggrottare le folte sopracciglia della signorina Sergent. Non me ne importa. Non può aver tutto, quella maledetta rossa: il suo ispettore e la sua piccola aiutante, no, no... Più disinvolto che mai, Dutertre mi si avvicina e col braccio mi cinge le spalle. Anaïs la lunga ci guarda, curiosa, socchiudendo gli occhi. "Stai bene?" "Sì, dottore, la ringrazio moltissimo." "Parla seriamente." (Già, è proprio serio, lui!) "Perché hai sempre gli occhi cerchiati?" "Perché Iddio me li ha fatti così." "Non dovresti leggere tanto. Leggi a letto, scommetto." "Un po', non molto. Non bisogna, forse?" "Uhm, sì, puoi ben leggere. Che cosa leggi? Vediamo, dimmelo." Si eccita e mi ha stretto le spalle con un gesto brusco. Ma io non sono sciocca come l'altro giorno, e non arrossisco, non ancora. La direttrice ha deciso di andare a sgridare le piccole che giocano con la pompa e si inondano. Come deve fremere in cuor suo! Ballo dalla gioia. "Ieri ho finito Afrodite; questa sera comincerò La donna e il burattino." (8) "Sì? Sai scegliere bene, tu! Pierre Louys? Diavolo! Non c'è da stupirsi che tu... Vorrei ben sapere che cosa ci capisci? Tutto?" (Non sono vile, credo, ma non mi piacerebbe continuare questa conversazione sola con lui in un bosco o su un sofà, gli occhi gli brillano tanto! E poi se crede che io gli faccia qualche confidenza lubrica...) "No, non capisco tutto, purtroppo, ma tuttavia abbastanza. E la settimana scorsa ho anche letto Susanna di Léon Daudet. Sto finendo l'Anno di Clarissa, un libro di PaulAdam che mi entusiasma!" "Sì, e dopo dormi?... Ma ti stancherai con questo regime di vita; riguardati, sarebbe un peccato se ti rovinassi, lo sai." Che cosa crede, dunque? Mi guarda così da vicino, con una voglia così evidente di accarezzarmi, di abbracciarmi, che ecco sono invasa da uno sgradevole ardente rossore, e perdo la disinvoltura. Forse anche lui teme di perdere il sangue freddo, perché allenta la stretta, respirando profondamente, e mi lascia dopo avermi fatto una carezza sui capelli, dalla testa sino all'estremità dei riccioli, come sulla schiena dei gatti. La signorina Sergent si riavvicina, le sue mani fremono di gelosia, e si allontanano tutti e due; vedo che parlano con molta vivacità, lei con aria di supplica ansiosa; lui alza leggermente le spalle e ride. S'incrociano con la signorina Aimée, e Dutertre si ferma, sedotto dai suoi occhi carezzevoli, scherza familiarmente con lei, tutta rosea, un po' imbarazzata, contenta; e la signorina Sergent non dimostra di essere gelosa questa volta, anzi... A me batte un po' il cuore ogni volta che si avvicina questa piccola. Ah, questa storia è finita male! Mi sprofondo così intensamente nei miei pensieri da non accorgermi Che Anaïs la lunga sta facendo una danza selvaggia intorno a me: "Vuoi lasciarmi in pace, orribile mostro! Oggi non ho voglia di giocare". "Sì, lo so, è perché ti frulla nel cervello l'ispettore... Ah, sfido, non sai più a quale badare: Rabastens, Dutertre, chi altro? Hai fatto la scelta? E la signorina Lanthenay?" Gira vertiginosamente con occhi diabolici nel volto immobile, furente, in fondo. Per poter stare tranquilla, mi getto su lei e le pesto le braccia a forza di pugni; essa grida subito, vigliaccamente, e scappa, io la inseguo e la blocco nell'angolo della pompa dove le verso un po' di acqua sulla testa, non molta, il fondo della ciotola comune. Perde la testa del tutto. "Lo sai, è stupido, sono cose che non si fanno, proprio adesso che sono raffreddata, ho la tosse!" "La tosse! Il dottor Dutertre ti darà un consulto gratuito, e anche qualcosa insieme." L'arrivo dell'innamorato Duplessis interrompe il litigio; da due giorni è trasfigurato, questo Armand, e i suoi occhi raggianti dicono abbastanza chiaramente che Aimée gli ha concesso la mano, insieme col cuore e la fede, tutto nello stesso sacco. Ma vede la dolce fidanzata che chiacchiera e ride, fra Dutertre e la direttrice, molestata dall'ispettore, incoraggiata dalla signorina Sergent, e gli occhi gli si rabbuiano. Ah, ah, non è geloso, no, lo sarò io, allora! Sono sicura che tornerebbe indietro se non lo chiamasse proprio la rossa. Egli accorre a grandi passi e fa un profondo inchino a Dutertre che gli stringe la mano familiarmente, con un gesto di congratulazione. Il pallido Armand arrossisce, si illumina e guarda la fidanzatina con tenero orgoglio. Povero Richelieu, mi fa pena! Non so perché, ma immagino che questa Aimée, che recita a mezzo la parte dell'incosciente e si impegna tanto in fretta, non lo renderà molto felice. Anaïs la lunga non perde un gesto del gruppo, e dimentica di insolentirmi. "Dimmi un po'," mi mormora a voce bassissima "che cosa fanno insieme a questo modo? Che cosa c'è?" Io sbotto: "C'è che il signor Armand, il compasso, Richelieu, sì, ha chiesto la mano della signorina Lanthenay, che gliel'ha concessa, che sono fidanzati e che Dutertre si congratula con loro! Ecco che cosa c'è!". "Ah... E' proprio vero, allora! Come, le ha chiesto la mano per sposarla?" Non posso fare a meno di ridere; si è lasciata scappare questa espressione così naturalmente, con una ingenuità insolita in lei! Ma io non la lascio a lungo nello stupore: "Corri, corri, va' a prendere qualsiasi cosa nell'aula, senti quello che dicono; di me diffiderebbero subito!". Si slancia; passando accanto al gruppo, perde abilmente uno zoccolo (d'inverno portiamo tutte gli zoccoli) e tende l'orecchio, indugiando a rimetterselo. Poi sparisce e ritorna portando ben esposti i mezzi guanti, che s'infila ritornando vicino a me. "Che cos'hai sentito?" "Il dottor Dutertre diceva a Duplessis: "Non le faccio auguri di felicità, signor maestro, sono inutili quando si sposa una ragazza simile". E la signorina Aimée Lanthenay abbassava gli occhi, così. Ma davvero, non avrei mai creduto che fosse cosa fatta, così certa!" Mi stupisco anch'io, ma per un'altra ragione. Come, Aimée si sposa e ciò non fa nessun effetto alla signorina Sergent? Certamente c'è sotto qualcosa che ignoro. Perché ha fatto tanti sforzi per conquistarla, e perché quelle scene di lacrime ad Aimée, se ora la dà, senza rimpianti, a un Armand Duplessis che conosce appena? Che il diavolo se le porti! Bisognerà che mi affanni a scoprire la ragione segreta di questa storia. Insomma, non c'è dubbio: è gelosa solo delle donne. Per sveltirmi le idee combino il gioco della "gru" con molte compagne e le piccoline della seconda sezione, che sono abbastanza grandi per essere ammesse a giocare con noi. Traccio due righe distanti tre metri, mi metto in mezzo per fare la gru, e comincio il gioco disseminato di strilli acuti e di qualche caduta da me provocata. Suona la campana; rientriamo in classe per la noiosissima lezione di lavoro. Prendo il ricamo con disgusto. Dopo dieci minuti la signorina Sergent se ne va, con la scusa di andare a distribuire oggetti di cancelleria alla classe inferiore, che, sloggiata di nuovo, è sistemata provvisoriamente (s'intende!) in un'aula vuota dell'asilo, proprio vicino a noi. Scommetto che, in fatto di rifornimenti, la rossa si occuperà soprattutto della sua piccola Aimée. Dopo aver fatto una ventina di punti nel ricamo, sono colta da un improvviso accesso di stupidità, che m'impedisce di sapere se devo cambiare la tinta per riempire una foglia di quercia, oppure continuare ad adoperare la stessa lana con la quale ho finito una foglia di salice. Ed esco, col lavoro in mano, per chiedere consiglio all'onnisciente direttrice. Attraverso il corridoio, entro nella classe delle piccole: le cinquanta monelle, rinchiuse là dentro, strillano, si tirano i capelli, ridono, ballano, disegnano fantocci alla lavagna, e non v'è traccia né della signorina Sergent né della signorina Lanthenay. Diventa un fatto curioso! Esco di nuovo, spingo la porta della scala: nessuno nella scala! Se salissi? Sì, ma che cosa risponderò, se mi ci troveranno? Via, dirò che vengo a cercare la signorina Sergent, perché ho sentito che la chiamava quella vecchia contadina di sua madre. Zitti! Salgo pian piano con le sole calze, lasciando giù gli zoccoli. Nessuno in cima alla scala. Ma ecco la porta di una camera appena socchiusa, e io non penso più a nient'altro se non a guardare attraverso l'apertura. La signorina Sergent, seduta nella sua gran poltrona, mi volta le spalle, per fortuna, e tiene sulle ginocchia l'aiutante, come se fosse una bimba; Aimée sospira dolcemente e abbraccia con ardore la rossa che la stringe. Meno male, non si potrà dire che questa direttrice tratta male le dipendenti! Non vedo i loro volti perché la poltrona ha un grande schienale piuttosto alto, ma non ho bisogno di vederli. Il cuore mi batte nelle orecchie, e a un tratto salto nella scala coi calzini che non fanno rumore. Tre secondi dopo ho ripreso il mio posto accanto ad Anaïs la lunga, che si diverte con la lettura e le figure del Supplemento. Perché non si accorgano del mio turbamento, chiedo di vederlo anch'io, come se mi interessasse! Vi è un racconto di Catulle Mendès, (9) che mi piacerebbe, tenero com'è; ma non ho la mente attenta a ciò che leggo, ancora turbata da quello che ho spiato lassù. Non chiedevo tanto, e non credevo di certo che le loro espansioni fossero così vivaci. Anaïs mi fa vedere un disegno di Gil Baër che rappresenta un giovanottino senza baffi, che sembra una donna travestita, e, eccitata dalla lettura del Taccuino di Lyonnette e dagli scherzi di Armand Sylvestre, mi dice con uno sguardo turbato: "Ho un cugino che gli somiglia, si chiama Raoul, è in collegio e lo vedrò ogni estate durante le vacanze". Questa rivelazione mi spiega il suo nuovo atteggiamento di relativa serietà: in questo momento scrive molto di rado ai ragazzi. Le sorelle Jaubert affettano di scandalizzarsi per questo giornale sconcio, Marie Belhomme rovescia il calamaio per venire a vedere; dopo aver guardato le figure e letto un poco, scappa, con le lunghe mani levate, gridando: "E' vergognoso! Non voglio leggere il resto prima della ricreazione!". E' appena seduta e sta asciugando l'inchiostro rovesciato, quando rientra la signorina Sergent, seria, ma con gli occhi rapiti; io guardo questa rossa come se non fossi sicura che è la stessa che lassù stava abbracciando Aimée. "Marie, farà un compito sulla sbadataggine, e me lo porterà questa sera alle cinque. Signorine, domani arriva una nuova maestra, la signorina Griset; voi non avrete a che fare con lei: essa si occuperà soltanto della classe delle piccole." Sono stata lì lì per domandare: "E la signorina Aimée, se ne va dunque?". Ma la risposta viene da sola. "La signorina Lanthenay non ha modo di esplicare tutta la sua intelligenza nella classe inferiore; d'ora in poi vi darà qui qualche lezione di storia, di lavoro e di disegno, sotto la mia sorveglianza." La guardo sorridendo, e scrollo il capo come per congratularmi con lei di questa combinazione veramente riuscita. Lei aggrotta le ciglia, subito adirata: "Claudine, che cosa ha fatto del suo ricamo? Tutto qui? Oh, non si è certo stancata!". Assumo l'aria più sciocca per rispondere: "Ma, signorina, sono andata poco fa nella classe inferiore per domandarle se bisognava prendere il verde numero due per la foglia di quercia, e non c'era nessuno; l'ho chiamata nella scala, e non c'era nessuno neppure lì". Parlo lentamente, ad alta voce, perché tutte alzino la faccia china sul lavoro a maglia o sul cucito; mi ascoltano avide; le più grandi si domandano che cosa poteva fare la direttrice lontano, lasciando così le scolare in abbandono. La signorina Sergent diventa di un color cremisi che volge al nero, e risponde vivacemente: "Ero andata a vedere dove sarebbe possibile alloggiare la nuova aiutante; l'edificio scolastico è quasi finito, lo stanno asciugando con grandi fiammate, e senza dubbio potremo installarci presto". Faccio un gesto di protesta e di scusa che significa: "Oh, non devo sapere dov'era lei: non poteva essere se non dove la chiamava il dovere". Ma provo una contentezza frenetica pensando che potrei risponderle: "No, zelante educatrice, lei si occupa il meno possibile della nuova maestra, è l'altra, la signorina Lanthenay che le interessa e lei era nella sua camera con Aimée, intenta ad abbracciarla appassionatamente". Mentre medito questi pensieri di ribellione, la rossa si è riavuta: molto calma, ora, parla con voce chiara... "Prendete i quaderni. Come intestazione: "Tema". Spiegate e commentate questo pensiero: "Il tempo non rispetta quello che si è fatto senza di lui". Avete un'ora e mezzo." Oh, disperazione e strazio! Quali altre sciocchezze bisognerà tirar fuori! Mi è indifferente che il tempo rispetti o no quello che si fa senza invitarlo! Sempre temi come questo, o più brutti! Sì, più brutti, perché siamo quasi alla vigilia di Capodanno, e non sfuggiremo all'inevitabile pezzetto di stile sulle strenne, usanza venerabile, gioia dei bimbi, commozione dei genitori, confetti, giocattoli (joujou al plurale prende una x come bijou, caillou, chou, genou, hibou e pou), senza dimenticare la nota commovente sui poverelli che non ricevono strenne e che bisogna soccorrere in questo giorno di festa, perché abbiano la loro parte di gioia! Che orrore, che orrore! Mentre fremo di rabbia, le altre stanno già facendo la brutta copia; Anaïs la lunga aspetta che cominci io per copiare il suo esordio dal mio; le due Jaubert ruminano e riflettono seriamente, e Marie Belhomme ha già riempito una pagina di sciocchezze, di frasi contraddittorie e di riflessioni che non hanno a che fare con l'argomento. Dopo aver sbadigliato un quarto d'ora, mi decido e scrivo subito sul "quaderno-diario" senza far la brutta copia, cosa che eccita l'indignazione delle altre. Alle quattro, uscendo, mi accorgo senza dispiacere che tocca a me e ad Anaïs di scopare. Di solito questo servizio mi disgusta, ma oggi non me ne importa, anzi mi fa piacere. Andando a prendere l'innaffiatoio, incontro finalmente la signorina Aimée che ha gli zigomi rossi e gli occhi scintillanti. "Buongiorno, signorina. A quando le nozze?" "Come? Ma... queste ragazzine sanno sempre tutto! Non è ancora decisa... la data per lo meno. Sarà per le vacanze, senza dubbio... A lei non sembra brutto, dica, il signor Duplessis?" "Brutto, Richelieu? No di certo! E' molto più bello dell'altro, molto più! Lei lo ama?" "Ma, sfido, poiché lo accetto come marito!" "Proprio una buona ragione! Non mi dia risposte simili, crede di parlare con Marie Belhomme? Lei non lo ama molto, lo trova simpatico e ha voglia di sposarsi, per provare, e per vanità, per far dispetto alle sue compagne della scuola normale che resteranno zitelle, ecco tutto! Non gli giochi brutti tiri, ecco tutto quello che posso augurargli, perché merita indubbiamente di essere amato più di quanto lei non lo ami." To', subito dopo, volto le spalle e corro a prendere l'acqua per innaffiare. E' rimasta di pietra, confusa. Finalmente se ne va a sorvegliare mentre spazzano la classe inferiore, o a raccontare quello che ho detto alla sua cara signorina Sergent. Vada pure! Non voglio più occuparmi di queste due matte, delle quali una non lo è. Ed eccitatissima, innaffio, innaffio troppo, innaffio i piedi Di Anaïs, le carte geografiche, poi scopo con tutta la forza delle braccia. Mi riposa stancarmi in questo modo. Lezione di canto. Entrata di Antonin Rabastens, con una cravatta azzurra. "Te', bell'astro", come dicevano le provenzali a Roumestan. (10) Guarda un po', c'è anche la signorina Aimée Lanthenay, seguita da una personcina minuta, ancora più piccola di lei, dal portamento straordinariamente agile, e che dimostra tredici anni, col viso un po' schiacciato, gli occhi verdi, la carnagione fresca, i capelli morbidi come la seta e scuri. Questa ragazzina si è fermata, come una vera selvaggia, sulla soglia. La signorina Aimée si volta verso di lei, ridendo: "Andiamo, vieni, non avere paura; Luce, mi senti?". Ma è sua sorella! Avevo completamente dimenticato questo particolare. Mi aveva parlato di questa sorella che probabilmente sarebbe venuta, ai tempi in cui eravamo amiche... Mi sembra così buffo che accompagni questa sorellina, che pizzico Anaïs, la quale chioccia, faccio il solletico a Marie Belhomme, che miagola, e abbozzo un passo di danza in due tempi dietro alla signorina Sergent. Rabastens trova deliziose queste follie; la sorellina Luce mi guarda con gli occhi obliqui. La signorina Aimée si mette a ridere (ride di tutto, ora, è così felice!) e mi dice: "La prego, Claudine, non le faccia perdere la testa tanto per incominciare; è abbastanza timida per natura". "Signorina, veglierò su di lei come sulla mia stessa virtù. Quanti anni ha?" "Quindici anni compiuti il mese scorso." "Quindici? Ebbene, ora non ho più fiducia di nessuno! Gliene davo tredici a essere generosi." La piccola, diventata di brace, si guarda i piedi, che d'altronde sono graziosi. Si stringe alla sorella e le tiene forte il braccio per rassicurarsi. Aspetta, le farò coraggio io! "Vieni, piccina, vieni qui con me. Non avere paura. Questo signore, che sfoggia in nostro onore le cravatte più estasianti, è il nostro buon maestro di canto. Non lo vedrai che il giovedì e la domenica, purtroppo. Quelle ragazzone là sono delle compagne! Le conoscerai presto. Io sono la scolara irreprensibile, la rara avis, non mi si sgrida mai (vero, signorina?), e sono sempre buona come oggi. Sarò per te una seconda madre!" La signorina Sergent si diverte senza voler averne l'aria. Rabastens ammira, e gli occhi della novellina esprimono dubbi sul mio stato mentale. Ma io la lascio, ho scherzato abbastanza con questa Luce; lei resta accanto alla sorella che la chiama "bestiolina". Non m'interessa più. Domando senza far complimenti: "Dove la metterete a dormire, questa bambina, dato che nulla è ancora a posto?". "Con me" risponde Aimée. Io stringo le labbra, guardo la direttrice bene in faccia e dico chiaramente: "E' una bella scocciatura, questa!". Rabastens soffoca una risata con la mano (sa forse qualcosa?) ed esprime questa opinione: che si potrebbe forse cominciare a cantare. Sì, si potrebbe; e persino si canta. La novellina non vuol saperne e resta ostinatamente muta. "Lei non conosce bene la musica, signorina Lanthenay junior?" domanda il delizioso Antonin con certi sorrisi da piazzista di vini. "Sissignore, un pochino" risponde la piccola Luce con una vocina melodiosa che deve essere dolce all'orecchio quando non la strozza la paura. "Ebbene, allora?" Ebbene, allora, niente. Lascia dunque stare tranquilla questa bambina, cascamorto della Canebière! Nello stesso istante Rabastens mi sussurra: "E altrimenti (11) credo che, se le signorine sono stanche, le lezioni di canto non c'entrano affatto!". Io volgo gli occhi intorno, assai sorpresa della sua audacia nel parlarmi a bassa voce; ma ha ragione, le mie compagne si occupano della nuova arrivata, la vezzeggiano e le parlano con dolcezza; lei risponde con garbo, pienamente rassicurata nel vedersi bene accolta; in quanto alla gatta Lanthenay e al suo tiranno amato, rincantucciate nel vano della finestra che dà sul giardino ci dimenticano completamente; la signorina Sergent cinge col braccio la vita di Aimée; parlano a bassa voce, o non parlano affatto, il che fa lo stesso. Antonin, che ha seguito il mio sguardo, non si trattiene dal dire: "Stanno proprio bene insieme!". "Eh, sì, piuttosto. E' commovente questa amicizia, non è vero, signor maestro?" Quel grosso babbeo non sa nascondere i suoi sentimenti ed esclama a bassa voce: "Commovente? Dica che è imbarazzante per gli altri! Domenica sera, sono andato a restituire delle musiche, le signorine erano qui nell'aula, senza luce. Entro - questa classe è un luogo pubblico, non è vero? - e, alla luce del crepuscolo, intravedo la signorina Sergent con la signorina Aimée, una accanto all’altra, che si abbracciavano strette strette. Crede forse che si siano disturbate? No, la signorina Sergent si è voltata languidamente, domandando: "Chi è?". Io non sono molto timido; tuttavia; ebbene sono rimasto istupidito davanti a loro". (Continua pure a chiacchierare, non mi dici nulla di nuovo, o candido maestro! Ma dimenticavo la cosa più importante.) "E il suo collega, signor maestro, lo immagino molto felice da quando si è fidanzato con la signorina Lanthenay?" "Sì, povero giovane, ma mi sembra che non sia proprio il caso di essere così felice." "Oh, perché mai?" "Eh, la direttrice fa tutto quello che vuole della signorina Aimée; non è molto piacevole per un futuro marito. Mi seccherebbe che mia moglie fosse dominata a quel modo da un'altra persona." Sono del suo parere. Ma le altre hanno finito di intervistare la nuova arrivata, è prudente tacere. Cantiamo... No, è inutile: ecco Armand che osa entrare, disturbando il tenero sussurrìo delle due donne. Si ferma in estasi davanti ad Aimée che civetta con lui, e manovra con le palpebre dalla ciglia ondulate, mentre la signorina Sergent lo contempla con gli occhi inteneriti di una suocera che ha collocato la figlia. Ricominciano le conversazioni delle nostre compagne finché suona l'ora. Ha ragione Rabastens; che ridicole, scusate, che ridicole lezioni di canto. Questa mattina, sulla soglia della scuola, trovo una ragazza pallida - capelli slavati, occhi grigi, carnagione priva di freschezza che si stringe uno scialle di lana sulle spalle strette con l'aria straziante di un gatto magro che ha freddo e paura. Anaïs me la indica con un gesto del mento, facendo un smorfia di scontento. Io scrollo il capo impietosita, e le dico a bassa voce: "Ecco una poveretta che sarà infelice qui, si vede subito; le altre due stanno troppo bene insieme per non farla soffrire". Le scolare arrivano a poco a poco. Prima di entrare, osservo che stanno terminando i due edifici scolastici con una rapidità prodigiosa; pare che Dutertre abbia promesso un forte premio all'imprenditore se tutto sarà pronto per una data che ha fissato. Deve combinarne dei pasticci, quel tipo là! NOTE: (1) Il nuovo "centro scolastico" sta sorgendo da sette o otto mesi in un giardino attiguo, comperato apposta, ma noi sinora non ci interessiamo molto di quei grossi cubi bianchi che crescono a poco a poco; nonostante la rapidità (insolita in questo paese di pigri) con la quale fanno i lavori, le scuole non saranno finite, credo, prima dell'Esposizione. E allora, purtroppo!, munita della licenza, avrò lasciato la scuola. [N.d.A.] (2) Arteria principale di Marsiglia. [N.d.T.] (3) Il cardinale di Richelieu si chiamava Armand Duplessis. [N.d.T.] (4) Un brano della Freda di Recine (1639-1699). [N.d.T.] (5) Raccolta di versi di Gustave Kahn (1859-1939), poeta simbolista assertore del verso libero. [N.d.T.] (6) Corrente letteraria francese, il cui programma fu divulgato con un manifesto dal poeta Jean Moréas (1856-1910), che in un linguaggio arcaicizzante e insieme modernissimo espresse un sentimento della vita fra classico e decadente. [N.d.T.] (7) F. Jammes (1868-1938), poeta. [N.d.T.] (8) Opere entrambe di Pierre Louys. [N.d.T.] (9) Catulle Mendès (18421909), poeta, romanziere, drammaturgo e critico. [N.d.T.] (10) Numa Roumestan: personaggio del romanzo omonimo dello scrittore Alphonse Daudet (1840-1897). [N.d.T.] (11) I marsigliesi hanno sovente questo intercalare. [N.d.T.] Lezione di disegno, sotto la direzione della signorina Aimée Lanthenay. "Riproduzione lineare di un oggetto comune." Questa volta dobbiamo disegnare una caraffa sfaccettata, posata sulla cattedra della signorina. Sempre allegre queste lezioni di disegno, perché ci offrono mille scuse per alzarci: si trovano "impossibilità", si fanno macchie d'inchiostro di China dovunque non se ne sente il bisogno. Subito cominciano le proteste. Io apro il fuoco: "Signorina Aimée, non ^posso disegnare la caraffa dal posto dove sono, me la nasconde il tubo della stufa!". La signorina Aimée, occupatissima a fare il pizzicorino sulla nuca rossa della direttrice, che sta scrivendo una lettera, si volta verso di me: "Chini la testa in avanti: credo che la vedrà". "Signorina," continua Anaïs "non posso assolutamente vedere il modello, perché ho davanti la testa di Claudine!" "Ah, come siete noiose; voltate un po' il banco, allora; vedrete tutte e due." Ora Marie Belhomme. Geme: "Signorina, non ho più carboncino, e poi il foglio che lei mi ha dato ha un difetto nel mezzo, e allora non posso disegnare la caraffa". "Oh," strilla la signorina Sergent, irritata "la volete finire tutte di annoiarci? Ecco un foglio, ecco il carboncino, e ora che io non senta più nessuno, altrimenti vi faccio disegnare tutto un servizio da tavola!" Silenzio spaventato. Si sentirebbe volare una mosca... per cinque minuti. Al sesto minuto ricomincia un leggero brusìo, casca uno zoccolo, Marie Belhomme tossisce, io mi alzo per andare a misurare, con le braccia tese, l'altezza e la larghezza della caraffa. Anaïs la lunga fa lo stesso, dopo di me, e approfitta di dover chiudere un occhio per storcere il volto in orribili smorfie, che fanno ridere Marie. Alla fine faccio uno schizzo a carboncino della caraffa e mi alzo per andare a prendere l'inchiostro di China nell'armadietto a muro dietro alla cattedra delle due maestre. Esse ci hanno dimenticate, parlano a bassa voce, ridono e ogni tanto la signorina Aimée indietreggia con una smorfietta di paura che le dona molto. Davvero fanno così pochi complimenti davanti a noi, ora, che non vale la pena di averne soggezione. Aspettate, bimbe mie! Richiamo l'attenzione con un "psst" che fa alzare tutti i volti e, indicando alla scolaresca la tenera coppia Sergent-Lanthenay, stendo al di sopra delle loro teste, per di dietro, le mani benedicenti. Marie Belhomme scoppia dalla gioia, le Jaubert chinano il viso con aria di rimprovero, e senza essere stata vista dalle interessate, mi slancio di nuovo verso l'armadietto e prendo la bottiglia d'inchiostro di China. Passando, guardo il disegno di Anaïs: la sua caraffa le assomiglia, troppo alta, col collo troppo lungo e sottile. Voglio avvertirla, ma lei non sente, occupatissima, quella canaglia, a preparare sulle ginocchia il "gugnigugna" per mandarlo alla nuova arrivata in una scatola di pennini! (Il "gugnigugna" è carboncino pestato nell'inchiostro di China, in modo da formare una pasta quasi secca che macchia terribilmente le dita delle persone ignare e i vestiti e i quaderni.) Quella povera piccola Luce si annerirà le mani, sporcherà il disegno aprendo la scatola, e si prenderà una sgridata. Per vendicarla, prendo bruscamente il disegno di Anaïs, disegno a inchiostro una cintura con un fermaglio che stringe la vita della caraffa, e vi scrivo sotto: "Ritratto di Anaïs, la lunga". Lei alza la testa nel momento in cui finisco di scrivere, e spinge il suo "gugnigugna" in scatola a Luce, con un gentile sorriso. La piccola arrossisce e ringrazia. Anaïs si china di nuovo sul disegno e lancia un "oh!" echeggiante di indignazione che richiama alla realtà le nostre maestre che stavano tubando: "Ma dunque, Anaïs, mi sembra che stia diventando pazza!". "Signorina, guardi che cosa mi ha fatto Claudine sul disegno!" Gonfia di collera, lo mette sulla cattedra; la signorina Sergent vi posa uno sguardo severo e, bruscamente, scoppia a ridere. Disperazione e ira di Anaïs che piangerebbe dalla rabbia se non stentasse tanto a piangere. Riprendendo il tono serio, la direttrice sentenzia: "Non è questo genere di scherzi che l'aiuterà a fare gli esami in modo soddisfacente, Claudine; ma lei ha fatto un giudizio critico abbastanza giusto del disegno di Anaïs, che era veramente troppo sottile e troppo lungo". La spilungona ritorna al posto, delusa, esulcerata. Io le dico: "Imparerai a dare il "gugnigugna" a quella piccina che non ti ha fatto nulla!". "Ah, ah, vorresti dunque rifarti sulla piccola del poco successo che hai avuto con la sorella maggiore: la difendi con tanto zelo!" Pac! Per questo è un terribile schiaffo che le risuona sulla guancia. Gliel'ho appioppato a tutta forza, con questo avvertimento per giunta: "Occupati dei fatti tuoi". La scolaresca, in subbuglio, fa un mormorìo simile al ronzìo delle api in un alveare; la signorina Sergent scende dalla cattedra per una così grave questione. Era tanto tempo che non picchiavo una compagna, e cominciavano a credere che avessi messo giudizio. (Un tempo avevo la brutta abitudine di liquidare da sola le mie liti, con scapaccioni e pugni, e non ritenevo utile di fare la spia come le altre.) La mia ultima battaglia risale ormai a più di un anno fa. Anaïs piange sul banco. "Signorina Claudine," dice severamente la direttrice "la invito a dominarsi. Se picchierà ancora le sue compagne, sarò costretta a non ammetterla più a scuola." E' capitata male, io sono ormai lanciata; le sorrido con tanta insolenza che lei s'infuria subito: "Claudine, abbassi gli occhi!". Io non li abbasso. "Claudine, vada fuori!" "Con piacere, signorina!" Esco, ma, fuori, mi accorgo che sono a testa nuda. Rientro subito per prendere il cappello. La scolaresca è costernata e muta. Osservo che Aimée, accorsa presso la signorina Sergent, le parla rapidamente sottovoce. Non sono ancora sulla soglia che la direttrice mi richiama: "Claudine, venga qui; sieda al suo banco. Non voglio scacciarla, dato che lascia la scuola dopo gli esami... E poi, insomma, lei non è una scolara mediocre, benché sia spesso una cattiva scolara, e non vorrei separarmi da lei se non in caso estremo. Rimetta il cappello a posto". Quanto dev'esserle costato! E' ancora tanto agitata che i battiti del cuore le fanno tremare i fogli del quaderno che tiene in mano. Io dico: "Grazie, signorina" con molta serietà. E, dopo essermi seduta di nuovo al mio posto, accanto ad Anaïs la lunga, silenziosa e un po' spaventata dalla scena che ha provocato, penso con stupore alle ragioni che hanno potuto decidere questa rossa astiosa a richiamarmi indietro. Ha forse avuto paura dell'effetto che avrebbe prodotto nel capoluogo? Ha pensato che avrei chiacchierato a più non posso, che avrei raccontato tutto quello che so (per lo meno), tutto il disordine di questa scuola, e che l'ispettore palpa le ragazze grandi, e le visite prolungate alle maestre, il frequente abbandono delle aule da parte di queste due signorine, occupatissime a scambiarsi tenerezze a porte chiuse, le letture piuttosto licenziose della signorina Sergent (il Journal Amusant, certi libri sconci di Zola e peggio), il bel maestro galante che canta con voce di baritono e amoreggia con le signorine che si preparano alla licenza: un'infinità di cose sospette e ignorate dai genitori, perché le grandi che si divertono a scuola non le racconteranno mai, e le piccole non capiscono bene? Ha avuto paura di un mezzo scandalo che danneggerebbe enormemente la sua reputazione e l'avvenire della bella scuola che stanno costruendo con grande spesa? Credo che sia così. E poi, ora che si è smorzata la mia eccitazione, come pure la sua, preferisco restare in questo buco dove mi diverto più che in qualsiasi altro posto. Rinsavita, guardo la guancia chiazzata di Anaïs, e le mormoro allegramente: "Ebbene, cara mia, ti tiene caldo?". Lei ha avuto tanta paura della mia espulsione, di cui avrei potuto accusarla di essere la causa, che non mi serba rancore: "Sicuro che mi tiene caldo! Ma lo sai che hai la mano pesante! Sei pazza, ad arrabbiarti a questo modo?". "Andiamo, via, non ne parliamo più. Mi sembra di avere avuto un movimento nervoso un po' violento al braccio destro." Ha cancellato alla meno peggio la cintura dalla caraffa; io ho finito la mia, e la signorina Aimée, con mani febbrili, corregge i nostri disegni. Oggi trovo il cortile vuoto, o quasi vuoto. Per le scale dell'asilo, chiacchierano assai, si sentono voci chiamarsi e gridare: "Ma sta' un po' attenta!... E' pesante, accidenti!". Mi slancio: "Che cosa fate?". "Lo vedi bene," spiega Anaïs "aiutiamo le signorine a fare il trasloco da qui al nuovo edificio." "Presto, datemi qualche cosa da portare!" "Ce n'è lassù, vacci." Salgo nella stanza della direttrice, la stanza dove ho spiato dalla porta... finalmente! Quella contadina di sua madre, con la cuffia di traverso, mi affida una grande cesta che contiene tutto il servizio da toletta della figlia da portare con l'aiuto di Marie Belhomme. Si cura molto, la rossa! Una toletta fornita in ogni particolare: vasetti piccoli e grandi di cristallo sfaccettato, nettaunghie, vaporizzatori, spazzole, pinze e piumini, un immenso catino e un bidet: non è proprio il servizio da toletta di una maestrina di campagna. Per accertarsene non c'è che da guardare la toletta della signorina Aimée, anche quella della pallida e silenziosa Griset, che trasportiamo dopo: un catino, una brocca di dimensioni ridotte, uno specchietto rotondo, uno spazzolino da denti, un po' di sapone, ed ecco tutto. Però questa piccola Aimée è molto civetta, soprattutto da qualche settimana, piena di fronzoli e profumata. Come fa? Cinque minuti dopo, mi accorgo che il fondo della sua brocca è polveroso. Va bene, si capisce. Il nuovo edificio, che comprende tre aule, un dormitorio al primo piano, e alcune camerette per le maestre, è ancora troppo fresco di pittura per il mio gusto, e puzza di stucco in modo sgradevole. Fra questi due, stanno costruendo il corpo principale, che comprenderà il municipio al pianterreno, gli appartamenti privati del primo piano e unirà le due ali già terminate. Scendendo, mi viene l'idea meravigliosa di arrampicarmi sulle armature, dato che i muratori sono ancora a colazione. Ed eccomi subito in cima a una scala, poi sto gironzolando sulle armature dove mi diverto molto. Ahimè, ecco che tornano gli operai! Mi nascondo dietro un pezzo di muro, in attesa di poter scendere; loro sono già sulla scala. Via, non mi denunceranno, se mi scorgono. Sono Houette il rosso e Houette il nero, li conosco bene di vista. Con la pipa accesa, chiacchierano: "Certamente non sarà lei che mi farà innamorare". "Ma chi?" "La nuova maestrina che è arrivata ieri." "Ah, sfido, non ha l'aria felice, non come le altre due." "Delle altre due, non parlarmene, ne sono stufo, non è più come la pensavo io, sembrano marito e moglie. Tutti i giorni le vedo da qui, tutti i giorni è la stessa cosa: si leccano, chiudono la finestra e non si vede più niente. Non parlarmene più! Però la piccola è molto attraente, graziosa; ma basta! E l'altro maestro che la sposa! Eccone uno che ha proprio la benda sugli occhi per fare una cosa simile!" Mi diverto follemente, ma siccome suonano la campana, ho solo il tempo di scendere nell'interno (ci sono scale un po' dappertutto), e arrivo in classe imbiancata di calcina e di stucco, felice di cavarmela con una secca domanda: "Da dove salta fuori? Se si sporca tanto, non le permetteremo più di aiutare nei traslochi". Io sono gongolante perché ho sentito i muratori che parlavano di loro con tanto buon senso. Lettura ad alta voce. Brani di antologia. Al diavolo! Per distrarmi, spiego sulle ginocchia un numero dell'écho de Paris, portato nell'eventualità di una lezione noiosa, e sto assaporando la forma elegante del Cattivo desiderio di Lucien Muhlfeld, (12) quando la signorina Sergent si rivolge a me: "Claudine, continui!". Io non so affatto a che punto siamo, ma mi alzo bruscamente, decisa a "fare un malanno" piuttosto che lasciarmi portar via il giornale. Nel momento in cui penso di rovesciare un calamaio, di stracciare la pagina del mio libro, di gridare: "Viva l'anarchia!", bussano alla porta... La signorina Lanthenay si alza, apre, si fa in disparte e appare Dutertre. Ha dunque seppellito tutti i propri malati, questo medico che ha tante ore di libertà? La signorina Sergent gli corre incontro, egli le stringe la mano, guardando la piccola Aimée che, col volto di brace, ride imbarazzata. Perché dunque? Non è così timida! Tutta questa gente mi stanca, costringendomi di continuo a domandarmi che cosa possono mai pensare o fare... Dutertre mi ha ben vista, perché sono in piedi; ma si accontenta di sorridermi da lontano, e resta accanto alle signorine; chiacchierano tutti e tre a mezza voce; io mi sono seduta molto composta, guardo. All'improvviso la signorina Sergent - che non la smette di contemplare amorosamente il suo bell'ispettore - alza la voce e dice: "Potrà accertarsene ora, signore; io continuerò a fare lezione a queste bambine, e la signorina Lanthenay l'accompagnerà. Lei verificherà la crepa di cui le parlavo; solca il muro nuovo a sinistra del letto, dall'alto in basso. E' abbastanza preoccupante in una casa nuova, e io non dormo tranquilla". La signorina Aimée non risponde nulla, abbozza un gesto di obiezione, poi si ricrede e se ne va, precedendo Dutertre che porge la mano alla direttrice e la stringe calorosamente come per ringraziare. Non rimpiango certo di essere tornata a scuola; per quanto abituata ai loro modi singolari, e a questi costumi insoliti, resto sbalordita e mi domando che cosa speri, mandando questo donnaiolo e questa ragazza a constatare insieme nella propria camera l'esistenza di una fessura, che, lo giurerei, non c'è. "E' una bella storia questa della crepa" insinuo questa riflessione sottovoce all'orecchio di Anaïs la lunga, che si tiene i fianchi dal gran ridere e mangia gomma freneticamente per dimostrare la sua gioia di queste avventure equivoche. Trascinata dall'esempio, mi levo dalla tasca un pacchetto di carta da sigaretta (non mangio che la marca "Nil") e mastico con voluttà. "Cara mia," dice Anaïs "ho trovato una cosa straordinaria da mangiare." "Che cosa: giornali vecchi?" "No, la mina delle matite rosse da una parte e azzurre dall'altra, lo sai benissimo: la parte azzurra è un pochino migliore. Ne ho già rubate cinque dall'armadietto dei rifornimenti. E' delizioso!" "Fammi vedere perché possa provare... No, non è un gran che. Preferisco la mia carta "Nil"." "Sei una sciocca, non sai quello che è buono!" Mentre chiacchieriamo a bassa voce, la signorina Sergent, assorta, fa leggere la piccola Luce senza ascoltarla. Un'idea! Che cosa potrei inventare perché mettano accanto a me questa ragazzina? Proverei a farle dire quello che sa di sua sorella Aimée, forse parlerebbe... Tanto più che mi segue, quando attraverso l'aula, con occhi stupiti e curiosi, un po' sorridenti: occhi verdi, di un verde strano che si scurisce all'ombra, e orlati di lunghe ciglia nere. Quanto tempo stanno laggiù! Non viene, dunque, a farci dire la lezione di geografia, quella piccola spudorata? "Dimmi un po', Anaïs, sono le due." "Ebbene, non lagnarti! Non sarebbe brutto se si potesse far a meno di dire la lezione, oggi. La tua carta della Francia è pronta, mia cara?" "Non completamente... i canali non sono finiti. Sai? Non bisognerebbe che l'ispettore venisse, oggi: troverebbe veramente molto disordine. Guarda se la signorina Sergent si occupa di noi, col viso schiacciato contro i vetri!" Improvvisamente Anaïs la lunga si sbellica dalle risa. "Ma che diavolo possono fare? Immagino che il dottor Dutertre stia misurando la larghezza della fessura." "Credi che sia larga la fessura?" domanda ingenuamente Marie Belhomme che rifinisce il disegno delle catene di montagne, fregando sulla carta una matita da disegno temperata irregolarmente. Tanto candore mi strappa uno scoppio di risa. Non ho sghignazzato troppo forte? No, Anaïs la lunga mi rassicura. "Puoi stare tranquilla, via; la signorina è tanto assorta che potremmo ballare in classe senza farci castigare." "Ballare? Vuoi scommettere che lo faccio?" dico alzandomi piano piano. "Oh, scommetto due biglie che non riesci a ballare senza buscarti il castigo di copiare un verbo!" Mi levo gli zoccoli, delicatamente, e mi metto in mezzo all'aula, fra le due file di banchi. Tutte alzano il capo; evidentemente l'impresa annunciata eccita un vivo interesse. Coraggio! Getto indietro i capelli che mi danno fastidio, tiro su la sottana con due dita, e comincio una "polca frenetica" che, per quanto silenziosa, provoca ugualmente l'ammirazione generale; Marie Belhomme gongola e non riesce a trattenere un allegro strillo. Che Iddio la stramaledica! La signorina Sergent ha un sussulto e si volta, ma io mi sono già gettata sul mio banco a corpo morto, e sento che la direttrice annuncia a quella sciocca, con voce distante e annoiata: "Marie Belhomme, lei copierà il verbo "ridere" in scrittura rotonda media. E' veramente spiacevole che delle ragazzone di quindici anni non sappiano comportarsi bene se non quando sono tenute d'occhio". La povera Marie ha una gran voglia di piangere. Però non è permesso di essere così sciocche! E io pretendo immediatamente le due biglie da Anaïs la lunga, che me le porge piuttosto a malincuore. Che cosa faranno quei due osservatori di fessure? La signorina Sergent continua a guardare dalla finestra. Suonano le due e mezzo, non può durare a lungo. Bisogna che almeno lei sappia che noi abbiamo notato l'assenza indebita della sua piccola favorita. Tossisco, inutilmente; tossisco di nuovo e domando in tono serio, il tono delle Jaubert: "Signorina, abbiamo delle carte da mostrare alla signorina Lanthenay; c'è lezione di geografia, oggi?". La rossa si volta di scatto e getta uno sguardo all'orologio. Poi aggrotta le ciglia, contrariata e impaziente: "La signorina Aimée tornerà subito; sapete bene che l'ho mandata nella nuova scuola; intanto ripassate la lezione: non la saprete mai abbastanza". Buona questa! Può darsi che non si faccia lezione oggi! Grande gioia e mormorìo di attività, appena sappiamo che non c'è nulla da fare. E incomincia la commedia del "ripasso delle lezioni" in ogni banco una scolara prende il libro, la vicina chiude il proprio e deve dire la lezione o rispondere alle domande che le fa la compagna. Su dodici scolare non ci sono che le gemelle Jaubert che ripassino veramente. Le altre si rivolgono domande di fantasia, mantenendo un contegno studioso, mentre la bocca sembra recitare a bassa voce. Anaïs la lunga ha aperto l'atlante e mi interroga: "Che cos'è una cateratta?". Io rispondo come se recitassi: "Macché! Non mi annoierai con questi canali; guarda un po' il viso lungo della signorina; è più buffo". "Che ne pensa del contegno della signorina Aimée Lanthenay?" "Penso che se la stia spassando con l'ispettore, verificatore di fessure." "Che cos'è una "fessura"?" "E' una crepa che abitualmente dovrebbe trovarsi in un muro, ma che talora si trova altrove, e persino nei luoghi più al riparo dal sole." "Che cos'è una "fidanzata"?" "E' un'ipocrita sgualdrinella che fa brutti tiri a un maestrucolo innamorato di lei." "Che cosa fareste nei panni del suddetto maestro?" "Tirerei un calcio nella parte posteriore dell'ispettore e darei un paio di ceffoni alla piccina che lo accompagna a verificare le fessure." "Che cosa succederebbe dopo?" "Succederebbero un altro maestro e un'altra maestra." Anaïs la lunga alza ogni tanto l'atlante per scoppiare a ridere dietro a questo. Ma ne ho abbastanza. Voglio andare fuori, per fare in modo di vederli tornare. Adoperiamo il solito mezzo. "Signorina?" Nessuna risposta. "Signorina, per piacere, mi permette di uscire?" "Sì, vada e non stia troppo tempo fuori." Ha detto queste parole senza espressione, senza pensarci; evidentemente ha tutto il cuore laggiù, nella camera dove il muro potrebbe fendersi. Esco bruscamente, corro dalla parte dei gabinetti "provvisori" (anche quelli!), e resto vicino alla porta, che ha un'apertura a forma di rombo, pronta a rifugiarmi nello schifoso casotto se sopraggiungesse qualcuno. Nel momento in cui sto per rientrare desolata nell'aula - perché il tempo ammissibile è trascorso, ahimè! - vedo Dutertre che esce (solo soletto) dalla nuova scuola, infilandosi i guanti con aria soddisfatta. Non viene qui, e se ne va direttamente in paese. Aimée non è con lui, ma non me ne importa, ho visto abbastanza. Mi volto per ritornare in classe, ma indietreggio spaventata: a venti passi da me - dietro un muretto nuovo alto sei piedi che ripara la piccola "edicola" dei maschi (simile alla nostra e provvisoria anche quella) - appare la testa di Armand. Il povero Duplessis, pallido e sconvolto, guarda in direzione della nuova scuola; lo vedo per cinque secondi, e poi sparisce, infilando a gambe levate il sentiero che mena ai boschi. Non rido più. Che cosa succederà? Rientriamo presto, senza gironzolare più! La classe è sempre in fermento: Marie Belhomme ha tracciato sul banco un quadrato intersecato da due diagonali e da due rette che s'incrociano al centro del quadrato, la "caillotte", e gioca seriamente a questo gioco delizioso con la nuova arrivata, la piccola Lanthenay - povera piccola Luce! - che deve trovare assurda questa scuola. E la signorina Sergent continua a guardare fuori dalla finestra. Anaïs, intenta a colorire con una matita "Conté" i ritratti dei grandi uomini più orrendi della Storia di Francia, mi accoglie con un: "Che cosa hai visto?". "Cara mia, non scherzare più! Armand Duplessis li spiava al di sopra del muro dei gabinetti; Dutertre è tornato in paese, e Richelieu se n'è andato correndo come un pazzo!" "Via, scommetto che mi stai raccontando delle frottole!" "No, ti dico, non è il momento, l'ho visto, parola d'onore! Ho il batticuore!" La speranza di un possibile dramma ci fa stare zitte un momento. Anaïs domanda: "Lo racconterai alle altre?". "No, parola d'onore, quelle stupide lo andrebbero a riferire. Solo a Marie Belhomme, to'." Racconto tutto a Marie, i cui occhi si spalancano ancor più, e che predice: "Tutto ciò finirà male!". Si apre la porta, noi ci voltiamo con perfetto sincronismo: è la signorina Aimée, col colorito acceso, un po' ansante. La signorina Sergent le corre incontro e trattiene appena in tempo il gesto di abbracciarla che aveva abbozzato. Rinasce, la direttrice, trascina quella piccola svergognata accanto alla finestra e la interroga avidamente. (E la nostra lezione di geografia?) Il figliol prodigo, senza eccessiva emozione, proferisce brevi frasi che sembra non soddisfino la curiosità della degna superiora. A una domanda più ansiosa, risponde: "No", scrollando il capo, con un sospiro malizioso; la rossa, allora, tira un sospiro di sollievo. Noi tre, nel primo banco, osserviamo nella tensione dell'attesa. Ho un certo timore per quella piccina immorale, e l'avvertirò che diffidi di Armand, ma forse l'altra, la sua despota, sosterrebbe subito che sono andata a denunciare la sua condotta a Richelieu con lettere anonime. Mi astengo dal farlo. Mi irritano con quel loro parlottare. Finiamola. Lancio un richiamo a mezza voce per attirare l'attenzione delle mie compagne, e cominciamo il sussurrìo. Dapprima non è che un ronzìo continuo di api; si gonfia, cresce, e finisce per penetrare nelle orecchie delle nostre folli maestre, che si scambiano uno sguardo inquieto; ma la signorina Sergent, coraggiosa, prende l'offensiva. "Silenzio! Se sento borbottare, privo tutta la classe della ricreazione sino alle sei. Credete che possiamo farvi lezione regolarmente finché la nuova scuola non è finita? Siete abbastanza grandi per sapere che dovete studiare da sole, quando una di noi non può farvi lezione. Datemi un atlante. Le scolare che non sapranno la lezione senza sbagli faranno compiti in più per otto giorni!" Ha temperamento, però, questa donna brutta, ardente e gelosa, e tutte ammutoliscono appena lei alza la voce. La lezione viene detta senza indugio, e nessuno ha voglia di scherzare, perché si sente soffiare un vento minaccioso di sospensioni e di castighi. Nel frattempo penso che non mi darò pace, se non assisterò all'incontro di Armand e di Aimée; preferisco farmi scacciare (per quello che mi costa) e vedere quello che succederà. Alle quattro e cinque, quando risuona alle nostre orecchie il quotidiano richiamo: "Chiudete i quaderni e mettetevi in fila", io me ne vado molto a malincuore. Suvvia, non è ancora per oggi la deprecata tragedia! Domani arriverò a scuola presto per non perdere nulla di quello che succederà. L'indomani mattina, arrivata molto prima dell'ora prescritta, per ammazzare il tempo, inizio una conversazione qualsiasi con la timida e triste signorina Griset, sempre pallida e timorosa. "Le piace stare qui, signorina?" Si guarda intorno prima di rispondere: "Oh, non molto, non conosco nessuno, mi annoio un pochino". "Ma la sua collega è gentile con lei e così pure la signorina Sergent?" "Non... non lo so; no, veramente, non so se sono gentili; non si occupano mai di me." "Questo poi!..." "Sì... a tavola mi rivolgono qualche parola; ma, appena corretti i quaderni, se ne vanno e io resto sola soletta con la madre della signorina Sergent, che sparecchia e si rinchiude in cucina." "E dove vanno tutte e due?" "Caspita, in camera loro." Ha voluto dire nella "loro camera" o nelle "loro camere"? Che disgraziata! Se li merita i suoi settantacinque franchi al mese! "Vuole che le presti qualche libro, signorina, se si annoia la sera?" (Che gioia! Diventa quasi rosea!) "Oh, volentieri... Oh, lei è molto gentile; crede che la direttrice non andrà in collera?" "La signorina Sergent? Se lei crede che se ne accorga, ha ancora illusioni sull'interesse che le dimostra quella rossa!" Sorride, quasi fiduciosa, e mi domanda se le posso prestare il Romanzo di un giovane povero, che ha tanta voglia di leggere! Certamente, lo avrà domani, il suo romantico Feuillet; mi fa pena, questa derelitta. La eleverei al rango di alleata, ma come contare su questa povera ragazza clorotica e troppo paurosa? A passi silenziosi si avanza la sorella della favorita, la piccola Luce Lanthenay, contenta e anche spaventata di chiacchierare con me. "Buongiorno, scimmietta; dimmi: "Buongiorno, Altezza", dillo subito. Hai dormito bene?" Le accarezzo bruscamente i capelli, cosa che pare non le dispiaccia, e ride con quegli occhi verdi, del tutto simili agli occhi di Fanchette, la mia bella gattina. "Sì, Altezza, ho dormito bene." "Dove dormi?" "Lassù." "Con tua sorella Aimée, s'intende?" "No, lei ha un letto nella stanza della signorina Sergent." "Un letto? L'hai visto?" "No... sì... è un divano; pare che si apra a forma di letto; me lo ha detto lei." "Te lo ha detto? Scema, citrulla, bastarda, feccia schifosa, rifiuto della società!" Fugge spaventata, perché scandisco gli insulti con i colpi della mia cinghia dei libri (oh, non colpi molto forti!), e, quando sparisce nella scala, le lancio questo supremo insulto: "Brutta razza di femmina, meriti di assomigliare a tua sorella!". Un divano che si apre! Piuttosto aprirei questo muro! Non vedono nulla quegli esseri là, parola d'onore! Tuttavia ha l'aria abbastanza viziosa, quella lì, con gli occhi tirati verso le tempie... Anaïs la lunga giunge mentre sbuffo ancora, e mi domanda che cosa ho. "Niente, ho soltanto picchiato la piccola Luce per scaltrirla un po'." "Non c'è nulla di nuovo?" "Niente, non è ancora sceso nessuno. Vuoi giocare a palline?" "A che gioco? Non ho nove palline." "Ma io ho quelle che ti ho vinto. Vieni: faremo una partita." E' una partita molto animata; le palline ricevono certi colpi da farle a pezzi. Mentre prendo a lungo la mira per un colpo difficile: "Attenzione!" fa Anaïs. "Guarda!" Entra nel cortile Rabastens: è così presto che possiamo esserne stupiti. D'altronde, il più bello degli Antonin è già azzimato e lustro - troppo lustro. Il viso gli si illumina nel vedermi, e viene dritto verso di noi. "Signorine!... Che colorito luminoso le dà l'animazione del gioco, signorina Claudine!" Com'è ridicolo questo grassone! Tuttavia, per dar fastidio ad Anaïs la lunga, lo guardo con compiacenza e dimeno i fianchi battendo le ciglia. "Signor maestro, chi l'attira così presto qui? Le signorine sono ancora in camera loro." "Appunto, non so bene che cosa vengo a dire, se non che il fidanzato della signorina Aimée non ha pranzato con noi ieri sera; qualcuno che l'ha incontrato assicura che aveva l'aria sofferente; comunque non è ancora tornato; credo che stia passando un brutto guaio, e vorrei avvertire la signorina Lanthenay dello stato cagionevole del suo fidanzato." "Lo stato cagionevole del suo fidanzato...", si esprime con eleganza, questo marsigliese! Dovrebbe sistemarsi come "annunciatore di morti e di gravi incidenti". Suvvia, la crisi si avvicina; ma io, che ieri pensavo di mettere in guardia la colpevole Aimée, ora non voglio più che lui vada ad avvertirla. Peggio per lei! Mi sento cattiva e avida di emozioni, questa mattina, e faccio in modo di trattenere Antonin accanto a me. E' molto semplice: basta sgranare gli occhi ingenuamente e chinare il capo perché i capelli mi cadano liberi lungo il volto. Morde subito all'amo. "Signor maestro, mi dica un po' se è vero che lei fa bellissimi versi? L'ho sentito dire in paese." E' una bugia, s'intende. Ma inventerei qualunque cosa per impedirgli di andare su dalle maestre. Arrossisce e balbetta, turbato dalla gioia e dalla sorpresa: "Chi ha potuto dirle?... Ma no, ma io non merito di certo. E' strano, non credevo di averne parlato a nessuno!". "Vede, la fama tradisce la sua modestia!" (parlerò come lui da qui a poco). "Sarebbe indiscreto chiederle..." "La prego, signorina... lei mi vede confuso... Non potrei farle leggere che poveri versi appassionati... ma casti!" (balbetta). "Naturalmente non avrei mai... osato permettermi..." "Signor maestro, la campana non sta suonando l'inizio delle lezioni, dalla loro parte?" Se ne vada, se ne vada dunque! Fra poco scende Aimée, lui l'avverte, lei starà in guardia e non vedremo nulla! "Sì... Ma non è l'ora, sono quei diavoli di monelli che si attaccano alla corda, non si può lasciarli un secondo. E il mio collega non è ancora arrivato. Ah, è faticoso badare a tutto da solo!" Che ingenuo, però! Questo modo di "badare a tutto" che consiste nel venire a fare la corte alle ragazze grandi, non deve spossarlo eccessivamente. "Vede, signorina, devo andare a castigarli severamente. Ma la signorina Lanthenay..." "Oh, potrà sempre avvertirla alle undici, se il suo collega sarà ancora assente, cosa che mi stupirebbe. Forse tornerà da un momento all'altro." Va' a castigare, va' dunque a castigare, gran babbeo. Hai salutato abbastanza, hai sorriso abbastanza; fila via, sparisci! Finalmente! Anaïs la lunga, un po' seccata del disinteresse del maestro per lei, mi rivela che lui è innamorato di me. Io scrollo le spalle: "Finiamo la nostra partita, dunque, sarà meglio piuttosto che dire sciocchezze". La partita finisce mentre giungono le altre, e le maestre scendono all'ultimo momento. Non si allontanano di un passo! Quel piccolo mostro di Aimée prodiga alla rossa certi scherzi da ragazzina. Entriamo in classe, e la signorina Sergent ci affida alla favorita che ci domanda le soluzioni dei problemi del giorno prima. "Anaïs, alla lavagna. Legga l'enunciato." E' un problema abbastanza complicato, ma Anaïs la lunga, che ha il talento dell'aritmetica, se la sbriga fra operai che piantano pali, lancette d'orologio e divisioni proporzionali con notevole disinvoltura. Ahi, tocca a me. "Claudine, alla lavagna. Estragga la radice quadrata di duemilionisessantatremilaseicentov Nutro un orrore insormontabile per queste cosucce che bisogna estrarre. E poi, siccome non c'è la signorina Sergent, mi decido bruscamente a fare uno scherzo all'ex amica. L'hai voluto, traditrice! Inalberiamo il vessillo della ribellione! Davanti alla lavagna, faccio segno di no, pian piano, scrollando il capo. "Come no?" "No, non voglio estrarre radici, oggi. Non mi va." "Claudine, sta diventando pazza?" "Non lo so, signorina. Ma sento che mi ammalerei se estraessi questa radice o qualsiasi altra del genere." "Vuole un castigo, Claudine?" "Accetto qualunque cosa, ma niente radici. Non è per disobbedienza; perché non posso estrarre le radici. Mi dispiace molto, le assicuro." La scolaresca pesta i piedi dalla gioia; la signorina Aimée s'impazientisce e s'infuria. "Insomma, vuole obbedirmi? Farò un rapporto alla signorina Sergent, e vedremo." "Le ripeto che ne sono dolentissima." In cuor mio le grido: "Canaglietta, non ho da aver riguardi per te, e anzi ti procurerò tutte le noie possibili". Scende i due gradini della cattedra e si dirige verso di me, con la vaga speranza d'intimidirmi. Io faccio molta fatica a trattenere le risa, e continuo ad avere un'aria rispettosamente desolata. Questa piccina! Mi arriva al mento, parola d'onore! La scolaresca si diverte follemente; Anaïs mastica una matita, legno e mina, a grandi bocconi. "Signorina Claudine, vuole obbedire, sì o no?" Con una soavità pungente, ricomincio. E' vicinissima a me e io abbasso un po' il tono: "Ancora una volta, signorina, mi faccia quello che vuole, mi dia frazioni da ridurre allo stesso denominatore, triangoli uguali da costruire... fessure da verificare... tutto, sì, tutto: ma non questo, oh, no, niente radici quadrate!". Le compagne, tranne Anaïs, non hanno compreso, perché ho proferito l'insulto rapidamente e senza sottolinearlo; si divertono soltanto per la mia ribellione; ma la signorina Lanthenay ne ha ricevuto una scossa. Rossa di fuoco, ha perso la testa, grida: "E' troppo grossa! Vado a chiamare la signorina Sergent... Ah, è troppo grossa!". Si slancia verso la porta. Le corro dietro e la raggiungo nel corridoio, mentre le scolare ridono a crepapelle, urlano per la gioia e salgono in piedi sui banchi. Trattengo Aimée per il braccio, mentre essa tenta, con tutte le sue deboli forze, di svincolarmisi dalle mani, senza dire nulla, senza guardarmi, a denti stretti. "Mi ascolti dunque quando le parlo! Fra noi non siamo più al punto di fare questi scherzetti; le giuro che se lei mi denuncia alla signorina Sergent, io corro a raccontare al suo fidanzato la storia della fessura. Andrà ancora dalla direttrice, adesso?" Si è fermata di colpo, sempre senza dire nulla, con gli occhi ostinatamente abbassati, le labbra strette. "Andiamo, parli! Ritorna in classe con me? Se non vi torna subito, non ci torno neanch'io; vado ad avvertire il suo Richelieu. Si sbrighi a scegliere." Lei schiude finalmente le labbra per mormorare senza guardarmi: "Non dirò nulla. Mi lasci, non dirò nulla". "Sul serio? Lei sa che se lo racconta alla rossa, non sarà capace di tenerlo nascosto più di cinque minuti e io lo saprò subito. Sul serio? Lo... promette?" "Non dirò niente, mi lasci. Tornerò subito in classe." Smetto di stringerle il braccio e rientriamo senza dire nulla. Il cicaleccio, simile al ronzare delle api in un alveare, cessa bruscamente. La mia vittima, in cattedra, ci ordina in poche parole di copiare in bella i problemi. Anaïs mi domanda sottovoce: "E' andata su a riferire?". "No, le ho fatto qualche semplice scusa. Mi capisci, non volevo spingere oltre uno scherzo simile." La signorina Sergent non ritorna. La sua piccola aiutante serba sino alla fine della lezione il volto impenetrabile e gli occhi severi. Alle dieci e mezzo, pensiamo già all'imminenza dell'uscita; io prendo un po' di brace nella stufa per ficcarmela negli zoccoli, un ottimo mezzo per scaldarli, formalmente proibito, s'intende; ma la signorina Lanthenay pensa proprio alla brace e agli zoccoli! Rimugina sordamente la collera, e i suoi occhi dorati sono due freddi topazi. Non me ne importa. E anzi ne sono felice. Che cos'è? Drizziamo le orecchie: delle grida, una voce d'uomo che insolentisce, mescolata a un'altra voce che cerca di sopraffarla... muratori che si picchiano? Non lo credo, subodoro qualcos'altro. La piccola Aimée è in piedi, pallidissima, sente anch'essa che si avvicina qualcos'altro. Improvvisamente si precipita in classe la signorina Sergent, il colore acceso delle guance le è sparito: "Signorine, uscite immediatamente, non è suonata l'ora, ma non importa... Uscite, uscite, non mettetevi in fila, avete capito, andatevene!". "Che cosa c'è?" grida la signorina Lanthenay. "Niente, niente... Ma le faccia dunque uscire e non si muova di qui, piuttosto bisogna chiudere a chiave la porta... Non ve ne siete ancora andate, impiastri!" Non è più il caso di avere riguardi, decisamente! Piuttosto che lasciare la scuola in un momento simile, mi farei scorticare! Esco fra lo scompiglio delle compagne sbalordite. Fuori, si sente chiaramente la voce che urla... Mio Dio! E' Armand, più livido di un annegato, con gli occhi cerchiati e smarriti, verde di muschio, con qualche fuscello nei capelli - certo ha dormito nel bosco... Folle di rabbia, dopo questa notte trascorsa a rimuginare il proprio dolore, vuole scagliarsi nell'aula, urlando con i pugni tesi: Rabastens lo trattiene con tutta la forza delle braccia e volge intorno degli sguardi smarriti. Che affare, che affare! Marie Belhomme scappa, atterrita; la seconda sezione le va dietro; Luce sparisce, e ho il tempo di sorprendere il suo sorrisetto cattivo; le Jaubert sono corse alla porta del cortile senza voltare il capo. Non vedo Anaïs, ma giurerei che, nascosta in un angolo, non perde nulla dello spettacolo! La prima parola che sento distintamente è: "Donnacce!". Armand ha trascinato il collega ansimante fin nella classe, dove le nostre maestre si stringono, mute, l'una all'altra. Ora grida: "Sgualdrine! non voglio andarmene senza dirvi quello che siete, anche a costo di perdere il posto! Pezzo di... ti fai carezzare per denaro da quel porco dell'ispettore! Sei peggio di una ragazza di strada; ma questa qui vale ancora meno di te, questa maledetta rossa che ti fa diventare simile a lei. Due donnacce, due donnacce, siete due donnacce, e questa casa è...". Non ho sentito che cosa. Rabastens, che deve avere muscoli doppi come Tartarin, riesce a trascinare via quel disgraziato che si soffoca a furia d'insulti. La signorina Griset, che perde la testa, ricaccia in classe le scolarette che ne escono, e io scappo, col cuore un po' agitato. Ma sono contenta che Duplessis sia scoppiato senza attendere oltre, perché Aimée non potrà accusarmi di averlo avvertito. Tornando nel pomeriggio troviamo la signorina Griset, unica e sola, che ripete la stessa frase a ogni nuova arrivata: "La signorina Sergent è malata, e la signorina Lanthenay va a casa sua: non dovrete tornare se non fra una settimana". Va bene, ce ne andiamo; ma, è proprio vero: questa scuola non è come tutte le altre! Nella settimana di vacanze impreviste che questa chiassata ci procurò, presi il morbillo, il che mi costrinse a stare tre settimane a letto, poi a quindici giorni di convalescenza; e mi tennero in quarantena altri quindici giorni con la scusa delle "misure preventive". Senza libri e senza Fanchette, che ne sarebbe stato di me? Questo non è gentile per papà, e tuttavia mi ha curata come una lumaca rara; convinto che bisogna dare a una piccina malata tutto quello che chiede, mi portava i marrons glacés per farmi calare la temperatura! Fanchette si è leccata dalle orecchie alla coda, durante una settimana, sul mio letto, giocando coi miei piedi attraverso la coperta e annidata nella cavità della mia spalla appena ero sfebbrata. Torno a scuola, un po' dimagrita e pallida, molto curiosa di ritrovare quello straordinario "corpo degli insegnanti". Ne ho avuto così scarse notizie durante la malattia! Nessuno veniva a trovarmi, né Anaïs né Marie Belhomme, a causa del possibile contagio. Suonano le sette e mezzo quando entro nel cortile della ricreazione, in questa fine di febbraio mite come una primavera. Accorrono, mi fanno festa; le due Jaubert, prima di avvicinarsi, mi domandano premurosamente se sono ben guarita. Sono un po' stordita da questo chiasso. Finalmente mi lasciano respirare e domando subito ad Anaïs le ultime notizie. "Ecco; prima di tutto Armand Duplessis se n'è andato." "Scacciato o trasferito, quel povero Richelieu?" "Soltanto trasferito. Dutertre si è adoperato per trovargli un altro posto." "Dutertre?" "Caspita, sì; se Richelieu avesse chiacchierato, avrebbe impedito all'ispettore di essere eletto deputato. Dutertre ha detto seriamente in paese che quel disgraziato giovanotto aveva avuto un accesso molto pericoloso di febbre con delirio, e che avevano chiamato in tempo lui, il medico scolastico." "Ah, lo hanno chiamato in tempo? La provvidenza aveva messo il rimedio accanto al male... E la signorina Aimée è stata trasferita anche lei?" "Ma no! Oh, non c'è pericolo! In capo a otto giorni non appariva più traccia di quello che era accaduto; rideva con la signorina Sergent come prima." E' troppo! Che strana creaturina, che non ha né cuore né cervello, che vive senza ricordi, senza rimorsi, e che ricomincerà a sedurre un maestro, a folleggiare con l'ispettore mandamentale, finché ci sarà una nuova rottura, e che vivrà contenta con questa donna gelosa e violenta che si guasta il cervello in simili avventure. Sento appena Anaïs mentre m'informa che Rabastens è ancora qui e che domanda spesso mie notizie. Lo avevo dimenticato quel povero grosso Antonin! Suonano, ma ora andiamo nella nuova scuola, e l'edificio centrale che unisce le due ali sarà presto terminato. La signorina Sergent si installa in cattedra, tutta lustra. Addio vecchi banchi traballanti, tagliuzzati, scomodi! Ci sediamo davanti alle belle scrivanie inclinate, nei banchi con schienali, con scrittoio ribaltabile, e siamo soltanto in due in ogni banco; invece di Anaïs la lunga, ora ho per vicina... la piccola Luce Lanthenay. Per fortuna, i banchi sono molto vicini, e Anaïs sta accanto a me su un sedile parallelo al mio, cosicché potremo chiacchierare insieme comodamente come prima; le hanno messo accanto Marie Belhomme; ché la signorina Sergent ha collocato apposta due "svelte" (Anaïs e me) vicino a due "tarde" (Luce e Marie), per fare in modo che le scuotiamo un po'. Certo che le sveglieremo! Io per lo meno, perché sento bollire in me uno spirito d'indisciplina compresso durante la malattia. Passo in rassegna i posti nuovi, metto in ordine libri e quaderni, mentre Luce si siede e mi guarda di traverso timidamente. Ma io non mi degno ancora di parlarle, scambio soltanto qualche considerazione sulla vecchia scuola con Anaïs che mangiucchia avidamente non so che cosa: germogli verdi, mi sembra. "Che cosa stai mangiando? Vecchie mele selvatiche?" "Germogli di tiglio, cara mia. Non c'è niente di meglio, è il momento buono, verso il mese di marzo." "Me ne dài un po'?... Veramente è buonissimo, assomiglia alla gomma degli alberi da frutto. Ne prenderò dai tigli del cortile. E che altra novità stai mangiando?" "Oh, niente di speciale. Non posso più mangiare neppure le matite "Conté": quelle di quest'anno sono sabbiose, cattive, roba di scarto. In compenso la carta assorbente è squisita. C'è anche una cosa buona da masticare, ma non da mandar giù: i campioni di tela da fazzoletti che mandano il Bon Marché e il Louvre." "Uh, non mi attira... Senti, piccola Luce, vuoi provarti a essere buona e ubbidiente vicino a me? Altrimenti, bada, ti prometto scapaccioni e pizzicotti!" "Sì, signorina" risponde la piccola, non troppo rassicurata, con le ciglia abbassate sulle guance. "Puoi darmi del tu. Guardami, mi fai vedere gli occhi? Va bene. E poi sai che sono pazza, te lo avranno detto di sicuro; ebbene, quando mi si contraddice, divento furiosa e mordo e graffio, soprattutto dopo la malattia. Dammi la mano: to', ecco come faccio." Le affondo le unghie nella mano, lei non grida e stringe le labbra. "Non hai gridato, va bene. Ti interrogherò durante la ricreazione." Nella classe inferiore, la cui porta resta aperta, ho visto entrare la signorina Aimée, fresca, riccia e rosea, con gli occhi più vellutati e dorati che mai, con la solita aria maliziosa e carezzevole. Sgualdrinella! Fa un sorriso radioso alla signorina Sergent, che si distrae un minuto a contemplarla, ed esce dall'estasi per dirci bruscamente: "I quaderni! Compito di storia: "La guerra del '70". Claudine," aggiunge, in tono più dolce "può svolgere questo tema pur non avendo seguito le lezioni degli ultimi due mesi?". "Proverò, signorina; farò il compito con meno ampiezza, ecco tutto." Infatti mi sbrigo a fare un compitino brevissimo, e quando sono arrivata quasi alla fine, mi attardo e mi applico a tirare in lungo le ultime quindici righe per poter spiare e guardarmi attorno comodamente. La direttrice, sempre la stessa, serba la solita espressione di ardore concentrato e fierezza gelosa. La sua Aimée, che sta dettando svogliatamente problemi nell'altra classe, gironzola e si avvicina parlando. Non aveva, però, questo atteggiamento sicuro e civettuolo di gatta viziata, l'inverno scorso! Ora è la bestiola adorata, vezzeggiata, e che diventa tirannica, poiché sorprendo certi sguardi della signorina Sergent che la supplicano di trovare una scusa per venirle vicino, ai quali quella scervellata risponde con cenni del capo capricciosi e sguardi divertiti che dicono di no. La rossa, che decisamente è diventata la sua schiava, non resiste più e va a trovarla, domandando a voce molto alta: "Signorina Lanthenay, non ha qui il registro delle presenze?". Ecco: se n'è andata; ciarlano a bassa voce. Approfitto di questa solitudine per intervistare duramente la piccola Luce. "Ah, ah! Lascia un po' stare codesto quaderno e rispondimi. C'è un dormitorio lassù?" "Certamente, ora vi dormiamo le convittrici e io." "Va bene, sei una scema." "Perché?" "Non ti riguarda. Continuate ad avere lezione di canto il giovedì e la domenica?" "Oh, abbiamo provato a farne una senza di lei... senza di te, voglio dire, ma non andava: il maestro Rabas-tens non sa insegnare." "Bene. E' venuto quel palpeggiatore mentre ero malata?" "Chi?" "Dutertre." "Non ricordo più... Sì, è venuto una volta, ma non nelle aule, e non si è trattenuto che pochi minuti a chiacchierare in cortile con mia sorella e la signorina Sergent." "E' gentile con te la rossa?" Gli occhi obliqui le si rabbuiano. "No... mi dice che non sono intelligente, che sono pigra... che dunque mia sorella si è presa tutta l'intelligenza della famiglia, come ne ha preso la bellezza... D'altronde è sempre stata la stessa storia dovunque mi trovassi con Aimée; non badavano che a lei, e in quanto a me, mi tenevano a distanza..." Luce sta quasi per piangere, furente contro questa sorella più "gentile", come dicono qui, che la fa relegare in un cantuccio e la mette in ombra. Del resto non la credo migliore di Aimée; soltanto più timorosa e più scontrosa, perché abituata a starsene sola e taciturna. "Povera ragazzina, hai lasciato qualche amica, là dov'eri?" "No, non avevo amiche: erano troppo violente e mi canzonavano." "Troppo violente? Allora ti dispiace, quando ti picchio, quando ti maltratto?" Ride, senza alzare gli occhi: "No, perché vedo bene che lei... che tu non lo fai per cattiveria, per brutalità... insomma che è qualcosa come una burletta, e non sul serio; è come quando mi dài della "scema", so che lo fai per scherzo. Anzi, mi piace molto provare un po' di paura, quando non c'è davvero pericolo". Ecco, tutt'e due uguali queste piccole Lanthenay, vili, perverse per istinto, egoiste e così sprovviste di ogni senso morale che è divertente osservarle. Non importa. Questa odia sua sorella, e credo che potrò strapparle un'infinità di rivelazioni su Aimée, occupandomi di lei, rimpinzandola di confetti, e picchiandola. "Hai finito il compito?" "Sì, ho finito... ma non sapevo nulla, certamente mi prenderò un brutto voto." "Dammi il quaderno." Leggo il suo compito, molto sciatto, e le detto alcune cose dimenticate; le correggo un po' le frasi; essa è piena di gioia e di stupore, e mi guarda sornionamente con certi sguardi stupiti e rapiti. "Ecco, vedi, così è meglio... Dimmi un po', i convittori hanno il dormitorio in faccia al vostro?" Gli occhi le si illuminano di malizia: "Sì, e la sera vanno a letto apposta quando ci andiamo noi, e tu sai che non ci sono persiane alle finestre; allora i ragazzi cercano di vederci quando siamo in camicia; noi solleviamo gli angoli delle tende per guardarli, e la signorina Griset ha un bel sorvegliarci finché la luce è spenta, troviamo sempre il mezzo di alzare completamente una tenda, all'improvviso, e così i ragazzi tornano a spiare tutte le sere". "Be', è allegra su da voi l'ora in cui vi spogliate!" "Lo credo bene!" Si anima e prende confidenza. La signorina Sergent e la signorina Lanthenay sono ancora insieme nella classe inferiore. Aimée fa vedere una lettera alla rossa, e ridono a crepapelle, ma sommessamente. "Sai dove sia andato a covare il suo dolore l'ex Armand di tua sorella, piccola Luce?" "Non lo so. Aimée non mi parla quasi mai delle cose che la riguardano." "Ne dubitavo. Anche lei ha la camera su?" "Sì, la stanza più comoda e più graziosa di quelle delle maestre, molto più bella e più calda di quella della signorina Griset. La direttrice vi ha fatto mettere le tende con fiori rosa e il linoleum per terra, cara mia, e una pelle di capra, e hanno ridipinto il letto di bianco. Aimée ha persino voluto farmi credere di aver comperato quelle belle cose coi suoi risparmi. Le ho risposto: "Domanderò alla mamma se è vero". Allora mi ha detto: "Se ne parli alla mamma, ti farò rispedire a casa con la scusa che non studi". Allora, capirai, non ho potuto far altro che tacere." "Zitta, ritorna la signorina." Infatti si avvicina a noi la signorina Sergent, che cambia l'espressione tenera e sorridente con quella di maestra: "Avete finito, signorine? Vi detterò un problema di geometria". Si levano proteste lamentose, imploranti ancora cinque minuti di grazia. Ma la signorina Sergent non si commuove per questa supplica, che si rinnova tre volte al giorno, e comincia tranquillamente a dettare il problema. Al diavolo i triangoli uguali! Ho cura di portarle spesso confetti per sedurre completamente la piccola Luce. Li prende senza quasi dire grazie, si riempie le manine e li nasconde in un vecchio astuccio da rosario di madreperla. Per dieci soldi di pasticche di menta inglese, troppo piccanti, venderebbe la sorella maggiore e anche un fratello per giunta. Apre la bocca, aspira l'aria per sentire il freddo della menta e dice: "Mi gela la lingua, mi gela la lingua" con uno sguardo di estasi. Anaïs mendica sfacciatamente qualche pasticca, se ne gonfia le guance, e ne richiede precipitosamente, con una irresistibile smorfia di finta ripugnanza: "Presto, presto, dammene altre, per togliermi il gusto di queste: erano ammuffite!". Mentre giochiamo alla "gru", Rabas-tens entra in cortile, come per caso, portando non so quali quaderni - scusa. Finge una piacevole sorpresa nel rivedermi, e approfitta dell'occasione per mettermi sotto gli occhi una romanza della quale legge le parole appassionate con voce svenevole. Povero sciocco Antonin, non puoi più servirmi a nulla ora, e non mi sei mai servito molto. Al massimo servirai ancora a divertirmi per qualche tempo, e soprattutto a eccitare la gelosia delle mie compagne. Se te ne andassi... "Signor maestro, lei troverà le signorine nella classe in fondo; mi sembra di averle viste scendere, non è vero, Anaïs?" Crede che lo mandi via a causa degli sguardi maliziosi delle mie compagne, mi lancia un'occhiata eloquente e si allontana. Io alzo le spalle alle esclamazioni d'intesa di Anaïs la lunga e di Marie Belhomme, e riprendiamo un'emozionante partita di tournecouteau, nel corso della quale la principiante Luce fa sbagli su sbagli. E' giovane, non sa come si fa. Suona la campana che annuncia l'inizio della scuola. Lezione di lavoro, prova d'esame; cioè ci fanno eseguire in un'ora i campioni dei punti richiesti all'esame. Ci distribuiscono certi quadratini di tela, e la signorina Sergent scrive alla lavagna, con la sua calligrafia chiara, piena di tratti molto grossi: "Occhiello - Dieci centimetri di sopraggitto. Iniziale "G" col punto di cifra. Dieci centimetri di orlo a punto avanti". Io borbotto di fronte a questa lista, perché in quanto all'occhiello, al sopraggitto, riesco ancora a cavarmela, ma l'orlo a punto avanti e l'iniziale col punto per cifrare la biancheria non so "farli a dovere", come osserva a malincuore la signorina Aimée. Per fortuna ricorro a un espediente ingegnoso e semplice: do qualche pasticca alla piccola Luce che sa cucire divinamente, e lei mi esegue una "G" meravigliosa. "Bisogna aiutarsi l'un l'altro" (abbiamo appunto commentato, non più tardi di ieri, questo caritatevole aforisma). Marie Belhomme esegue una "G" che sembra una scimmia accoccolata, e, da quella pazzerella che è, scoppia dalle risa davanti alla propria opera. Le convittrici, a testa china e coi gomiti stretti, cuciono chiacchierando pianissimo, e di quando in quando scambiano con Luce degli sguardi d'intesa in direzione della scuola maschile. Ho il sospetto che, la sera, spiino spettacoli divertenti dall'alto del loro bianco e pacifico dormitorio. La signorina Lanthenay e la signorina Sergent si sono scambiate la cattedra; qui Aimée sorveglia la lezione di cucito, mentre la direttrice fa leggere le scolare della classe inferiore. La favorita è intenta a scrivere, in bel carattere rotondo, il titolo di un registro delle presenze, quando la sua rossa la interpella da lontano: "Signorina Lanthenay!". "Che cosa vuoi?" grida Aimée sbadatamente. Silenzio pieno di stupore. Ci guardiamo tutte: Anaïs la lunga comincia a stringersi nelle spalle per ridere meglio; le due Jaubert chinano il capo sul cucito; le convittrici si danno gomitate, sornionamente; Marie Belhomme scoppia in una risata compressa che suona come uno starnuto; e io, davanti al viso costernato di Aimée, esclamo ad alta voce: "Ah, questa è buona!". La piccola Luce ride appena; si vede che le è già capitato di sentire che si danno del tu; ma osserva la sorella con occhi beffardi. La signorina Aimée si volta furente verso di me: "Può capitare a tutti di sbagliare, signorina Claudine! E faccio le mie scuse alla signorina Sergent per la disattenzione". Ma questa, rimessa dal colpo, capisce bene che non accettiamo questa spiegazione e alza le spalle in segno di scoraggiamento davanti a questa topica irrimediabile. Si conclude allegramente la noiosa lezione di cucito. Avevo bisogno di questo scherzoso incidente. Dopo l'uscita, alle quattro, invece di andarmene, dimentico astutamente un quaderno e torno indietro, perché so che all'ora della pulizia le convittrici portano su l'acqua a turno in dormitorio; io non l'ho ancora visto, voglio visitarlo, e Luce mi ha detto: "Oggi, sono di "turno per l'acqua"". A passi furtivi, portando una brocca piena, nel caso di un brutto incontro, salgo fin lassù. Il dormitorio ha le pareti e il soffitto bianchi, ed è ammobiliato con otto letti bianchi; Luce mi indica il proprio; me ne infischio del suo letto! Corro subito alle finestre che, infatti, permettono di vedere il dormitorio dei ragazzi. Due o tre grandi, dai quattordici ai quindici anni, vi gironzolano e guardano dalla nostra parte; appena ci scorgono, ridono, fanno gesti e indicano i letti. Branco di mascalzoni! Sono proprio seducenti! Luce, impaurita o che fa finta di esserlo, chiude precipitosamente la finestra, ma io sono convinta che la sera, all'ora di coricarsi, ostenti meno quelle arie da santerellina. Il nono letto, all'estremità del dormitorio, è collocato sotto una specie di baldacchino che lo avviluppa con tende bianche. "Questo" mi spiega Luce "è il letto della sorvegliante. Le maestre di turno si danno il cambio per passare la notte nel dormitorio." "Ah, dunque, ora tocca a tua sorella Aimée, ora alla signorina Griset?" "Sfido... dovrebbe essere così; ma sinora è sempre la signorina Griset... Non so perché." "Ah, non sai perché? Ipocrita!" Le do un colpo sulla spalla; essa si lamenta senza convinzione. Povera signorina Griset! Luce continua a informarmi: "Non puoi immaginarti, Claudine, come ci si diverte la sera, quando si va a letto. Ridiamo, corriamo in camicia, facciamo la lotta a colpi di cuscino. Certune si nascondono dietro alle tende per spogliarsi, perché dicono che si vergognano; la maggiore, Rose Raguenot, è così sporca che ha la biancheria grigia dopo tre giorni che la indossa. Ieri, mi hanno nascosto la camicia da notte, e ho corso il rischio di rimanere completamente nuda nel gabinetto. Per fortuna è venuta la signorina Griset! E poi prendiamo in giro una tanto grassa che è costretta a cospargersi di amido un po' dappertutto per non tagliarsi. E la Poisson (me la dimenticavo) che si mette un berretto da notte che la fa sembrare una vecchia, e non vuole spogliarsi se non dopo di noi nel gabinetto. Ah, ridiamo molto, ti assicuro!". Il gabinetto è sommariamente arredato con una grande tavola rivestita di zinco sulla quale sono allineati otto catini, otto saponi, otto paia di asciugamani, otto spugne, tutti uguali, la biancheria segnata con inchiostro indelebile. E' molto ben tenuto. Le domando: "Fate il bagno?". "Sì, e anche questa è una cosa molto buffa, ti assicuro! Nella nuova lavanderia fanno scaldare tanta acqua da riempire un tino da vendemmia, grande come una camera. Ci spogliamo tutte e ci ficchiamo dentro per insaponarci." "Completamente nude?" "Sfido, come faremmo altrimenti per insaponarci? Naturalmente Rose Raguenot non voleva, perché è troppo magra. Se la vedessi" aggiunge Luce, abbassando la voce "non ha quasi carne sulle ossa, ed è completamente piatta sul petto come un maschio. La Jousse, invece, è come una balia: sono grosse così! E quella che mette un berretto da notte da vecchia, sai, la Poisson, è pelosa dappertutto come un orso, e ha le cosce azzurre." "Come, azzurre?" "Sì, azzurre come quando gela e si ha la pelle azzurra dal freddo." "Dev'essere seducente." "No di certo, se fossi un maschio non mi ecciterebbe molto fare il bagno con lei!" "Ma forse a lei farebbe più effetto fare il bagno con un ragazzo." Scoppiamo a ridere; ma io faccio un salto sentendo il passo e la voce della signorina Sergent nel corridoio. Per non farmi sorprendere, mi nascondo sotto il baldacchino riservato soltanto alla signorina Griset; poi, passato il pericolo; scappo e sgattaiolo giù, dicendo sottovoce: "Arrivederci". Questa mattina, come si sta bene in questo caro paese! Come si scalda allegramente la mia bella Montigny in questa primavera precoce e calda! Domenica e giovedì sono già corsa lungo il delizioso bosco, tutto pieno di violette, con la compagna della prima comunione, la mia dolce Claire, che mi raccontava le sue passioncelle... il suo "moroso" le dà gli appuntamenti all'angolo dell'abetaia, la sera, da quando il tempo è mite. Chi sa se non finirà col fare sciocchezze! Ma non è questo che la tenta: purché le si dicano paroline scelte, che lei non capisce molto bene, purché la bacino, purché le si gettino alle ginocchia, che tutto si svolga "come nei libri", insomma, le basta assolutamente. Nell'aula trovo la piccola Luce accasciata su un banco che singhiozza tanto forte da strozzarsi. Le sollevo il capo a forza e vedo gli occhi grossi come uova, tanto se li è stropicciati. "Oh, davvero! Non sei bella così! Che cosa c'è, piccina? Perché piagnucoli?" "Mi... ha... Mi... ha picchiata!" "Tua sorella, scommetto?" "Sììì!" "Che cosa le avevi fatto?" Si calma un po' e racconta: "Ecco, non avevo capito i problemi, e quindi non li avevo risolti; questo l'ha fatta andare in bestia; allora mi ha detto che sono una cretina, che non val la pena che la nostra famiglia paghi la mia pensione, che le do fastidio, e roba simile... Allora le ho risposto: "Mi annoi, alla fine"; allora mi ha picchiata, mi ha schiaffeggiata, è una peste, la odio...". Un nuovo diluvio di lacrime. "Povera Luce, sei un'oca; non dovevi lasciarti picchiare, dovevi rinfacciarle il suo ex Armand..." Gli occhi subitamente spaventati della piccola mi fanno voltare; vedo la signorina Sergent che ci ascolta sulla soglia. Patatrac! Che cosa dirà? "Mi rallegro, signorina Claudine, lei dà bei consigli davvero a questa bambina." "E lei, begli esempi!" Luce è terrorizzata dalla mia risposta. Ma io me ne infischio, gli occhi di brace della direttrice scintillano di collera e d'emozione! Ma questa volta, troppo astuta per eccitarsi, scrolla il capo e dice semplicemente: "E' una fortuna che si avvicini il mese di luglio, signorina Claudine; lei capisce, non è vero, che mi è sempre più impossibile di tenerla qui?". "Mi pare di sì. Ma, lei lo sa, è per mancanza di comprensione: i nostri rapporti sono stati male impostati." "Vada a fare ricreazione, Luce" dice senza rispondermi. La piccola non se lo fa ripetere due volte, se ne va correndo e soffiandosi il naso. La signorina Sergent continua: "E' proprio colpa sua, gliel'assicuro. Lei si è dimostrata piena di malevolenza verso di me, al mio arrivo, e ha respinto i miei approcci, perché gliene avevo fatti, benché non toccasse a me. Tuttavia lei mi era sembrata intelligente e abbastanza bella per interessare me, che non ho né una sorella, né una figlia". (Il diavolo mi porti se avrei mai pensato... Non avrebbe potuto dichiararmi più esplicitamente che sarei stata "la sua piccola Aimée", se avessi voluto. Ebbene, no! Non mi attira, neppure retrospettivamente. Tuttavia, adesso sarei io la persona della quale la signorina Lanthenay dovrebbe essere gelosa... Che commedia!) "E' vero, signorina. Ma, fatalmente, sarebbe finita male lo stesso, a causa della signorina Aimée Lanthenay; lei ha messo tanto impegno a conquistare... la sua amicizia e a distruggere quella che poteva nutrire per me!" Volge gli occhi: "Non ho cercato, come lei sostiene, di distruggere... La signorina Aimée avrebbe potuto continuare le lezioni d'inglese senza che io glielo impedissi...". "Ma non lo dica! Io non sono ancora diventata scema, e qui siamo noi due sole! Per molto tempo ne sono stata furente, persino desolata, perché sono gelosa quasi quanto lei... Perché me l'ha presa? Ne ho avuto tanto dispiacere: sì, ecco, ne goda, ho avuto un gran dispiacere! Ma ho visto che non mi voleva bene. E a chi ne vuole? Ho anche visto che francamente non valeva molto; mi è bastato. Ho pensato che avrei fatto abbastanza sciocchezze, senza commettere quella di volerla spuntare su di lei. Ecco. Ora tutto quel che desidero è che non diventi un po' troppo la reginetta di questa scuola, e che non tormenti esageratamente questa piccina, sua sorella, che, in fondo, non vale né più né meno di lei, gliel'assicuro... Io non racconto nulla a casa mia di quello che mi capita di vedere qui; non ritornerò più dopo le vacanze, e mi presenterò agli esami, perché papà crede di tenerci, e Anaïs sarebbe troppo felice se non passassi agli esami... Può lasciarmi in pace sino a quel giorno, io non le do molto fastidio adesso..." Potrei parlare a lungo, credo, lei non mi ascolta più. Non le contenderò la sua piccina: è tutto quello che ha sentito; guarda entro se stessa, segue un'idea, e si risveglia per dirmi, ridiventando improvvisamente la direttrice, alla fine di questa chiacchierata fatta in una condizione di parità: "Vada presto in cortile, Claudine, sono le otto passate, deve mettersi in fila". "Di che cosa hai parlato così a lungo là dentro con la signorina?" mi domanda Anaïs la lunga. "Sei dunque in buoni rapporti con lei, ora?" "Due amicone, cara mia!" In classe, la piccola Luce si stringe a me, mi lancia occhiate affettuose e mi prende le mani, ma le sue carezze mi irritano; mi piace soltanto picchiarla, tormentarla, e proteggerla quando le altre la seccano. La signorina Aimée entra come un fulmine nell'aula gridando con voce soffocata: "L'ispettore, l'ispettore!". Si leva un mormorìo. Qui tutto serve di pretesto per far confusione: con la scusa di disporre i libri in modo irreprensibile, abbiamo aperto tutte le scrivanie e chiacchieriamo svelte, dietro i coperchi. Anaïs la lunga fa saltare in aria i quaderni di Marie Belhomme, del tutto scombussolata, e s'infila prudentemente in tasca un Gil Blas illustré, che aveva nascosto fra due fogli della Storia di Francia. Io nascondo certe storie di bestie meravigliosamente narrate da Rudyard Kipling (ecco uno che conosceva gli animali!), anche se non sono letture molto riprovevoli. Si sente un brusìo; ci alziamo, raccogliamo le carte, tiriamo fuori i confetti nascosti nei banchi, perché questo papà Blanchot, l'ispettore, ha gli occhi loschi, ma che spiano dappertutto. La signorina Lanthenay, nella sua aula, strapazza le ragazzine, mette in ordine la cattedra, urla e gira intorno; ed ecco che dalla terza classe esce la povera Griset, sgomenta, chiedendo aiuto e protezione: "Signorina Sergent, il signor ispettore mi chiederà i quaderni delle piccole: sono molto sporchi, le più piccine fanno solo le aste...". La cattiva Aimée le ride in faccia; la direttrice risponde alzando le spalle: "Gli farà vedere quello che le chiederà, ma se crede che si occupi dei quaderni delle sue ragazzine!". E la triste fanciulla, sgomenta, rientra nella propria classe, dove le sue bestiole fanno un chiasso indiavolato, perché lei non ha un briciolo di autorità. Siamo pronte, o poco ci manca. La signorina Sergent esclama: "Presto, prendete l'antologia! Anaïs, sputi immediatamente la mina che ha in bocca! Parola d'onore, la scaccio e davanti al signor Blanchot, se mangia ancora di queste porcherie! Claudine, non potrebbe smetterla un minuto di pizzicare Luce Lanthenay? Marie Belhomme, smetta di tenere quei tre scialli sul capo e intorno al collo; e smetta di avere quell'espressione sciocca. Siete peggio delle piccole della terza classe (13) e non valete neppure la corda che ci vorrebbe per impiccarvi. Bisogna pure che sfoghi la sua eccitazione. Le visite dell'ispettore la infastidiscono sempre perché Blanchot è in buoni rapporti col deputato che odia a morte il suo eventuale sostituto, Dutertre, il quale protegge la signorina Sergent. (Mio Dio, com'è complicata la vita!) Finalmente tutto è quasi in ordine; Anaïs la lunga si alza, imbarazzante per l'altezza, con la bocca ancora sporca della matita grigia che stava masticando, e incomincia Il vestito del piagnucoloso Manuel (14) Nell'angusta soffitta ove poca è la luce/ il marito e la moglie stavano litigando/ ... Era tempo! Una grande ombra passa sui vetri del corridoio, tutta la classe freme e si alza - per rispetto - nel momento in cui la porta si apre davanti a papà Blanchot. Ha un viso solenne fra due grandi basette pepe e sale, e uno spaventoso accento della Franca Contea. Pontifica, mastica le parole con lo stesso piacere con cui Anaïs mastica la gomma da cancellare; è sempre vestito con una correttezza rigida e antiquata, quel vecchio barbogio! Ne abbiamo per un'ora. Ci farà domande cretine e ci dimostrerà che dovremmo tutte "abbracciare la carriera dell'insegnamento". Preferirei persino questo, piuttosto che abbracciare lui. "Signorine!... Figlie mie, sedetevi." Le "sue figlie" si siedono, modeste e quiete. Io me ne andrei volentieri. La signorina Sergent si è affrettata ad andargli incontro con aria rispettosa e malevolente, mentre la sua aiutante, la virtuosa Lanthenay, si è rinchiusa nella propria aula. L'ispettore Blanchot posa in un angolo il bastone con la gruccia d'argento, e comincia col far rizzare i capelli alla direttrice (ben fatto!) trascinandola vicino alla finestra, per parlare di programmi, di diplomi, zelo, assiduità, eccetera! Essa lo ascolta, risponde: "Sì, signor ispettore". I suoi occhi si allontanano da lui e si socchiudono: certamente ha voglia di picchiarlo. L'altro ha finito di seccarla, ora tocca a noi. "Che cosa leggeva questa giovinetta, quando sono entrato?" La giovinetta, Anaïs, nasconde la carta assorbente rosa che stava masticando e interrompe la storia, evidentemente oscena, che sussurrava all'orecchio di Marie Belhomme, la quale, scandalizzata, paonazza, ma attenta, straluna gli occhi da uccello con un imbarazzo pudico. Quella sudiciona di Anaïs! Che cosa mai potranno essere quelle storie? "Vediamo, figlia mia, mi dica, a proposito, quello che leggeva." "Il vestito, signor ispettore." "Favorisca ricominciare." Essa ricomincia con smancerie di finta timidezza, mentre Blanchot ci scruta con gli occhi di un verde sporco. Egli biasima ogni civetteria, e aggrotta le ciglia quando vede un nastro di velluto nero sul collo bianco, o dei ricciolini che svolazzano sulla fronte e sulle tempie. Se la prende con me, a ogni visita, per i miei capelli sempre sciolti e ricci, e anche per i grandi colletti bianchi, pieghettati, che porto sugli abiti scuri. Sono tuttavia di una semplicità che mi piace, ma abbastanza attraente perché lui giudichi terribilmente riprovevole il mio modo di vestire. Anaïs la lunga ha finito Il vestito e lui gliene fa fare l'analisi logica (ohibò!) di cinque o sei versi. Poi le domanda: "Figlia mia, perché si è legata quel nastro di velluto nero accanto (sic) al collo?". (Eccoci! Che cosa dicevo? Anaïs, confusa, risponde stupidamente che "le tiene caldo". Citrulla senza coraggio!) "Perché le tiene caldo, dice? Ma non crede che una sciarpa compirebbe meglio codesto ufficio?" (Una sciarpa! Perché non un passamontagna, vecchio scocciatore? Non posso trattenermi dal ridere, cosa che attira la sua attenzione su di me.) "E lei, figlia mia, perché è così spettinata e coi capelli sciolti, invece di tenerli annodati sul capo, e puntati con forcine?" "Signor ispettore, mi fa venire l'emicrania." "Ma potrebbe almeno portare le trecce, mi pare?" "Sì, potrei, ma papà non vuole." Mi annoia, vi assicuro! Dopo aver fatto un leggero schiocco con le labbra in segno di disapprovazione, va a sedersi e tormenta Marie con la guerra di Secessione; una delle Jaubert, con le coste della Spagna; e l'altra, coi triangoli rettangoli. Poi mi chiama alla lavagna e mi ordina di tracciare un cerchio. Obbedisco. E' un cerchio... con un po' di buona volontà. "Vi iscriva un rosone a cinque foglie. Supponga che sia rischiarato da sinistra, e indichi con un forte tratteggio le ombre che le foglie ricevono." Questo non mi dispiace. Se avesse voluto farmi scrivere delle cifre, non me la sarei cavata; ma di rosoni e ombre me ne intendo. Me la cavo abbastanza bene, con gran dispetto delle Jaubert che, chete chete, speravano di sentirmi sgridare. "Va... bene. Sì, va abbastanza bene. Quest'anno lei fa l'esame di licenza?" "Sì, signor ispettore, in luglio." "Dopo non vuole andare alla scuola normale?" "No, signor ispettore, starò a casa." "Ah? Credo infatti che lei non abbia affatto la vocazione dell'insegnamento. E' peccato." Me lo dice con lo stesso tono col quale direbbe: "Credo che lei sia una infanticida". Pover'uomo, lasciamogli le sue illusioni! Ma avrei voluto soltanto che avesse potuto assistere alla scena di Armand Duplessis, o anche all'abbandono in cui ci lasciano per ore e ore, quando le nostre due maestre sono lassù a sbaciucchiarsi... "Mi faccia vedere la seconda classe, la prego, signorina." La signorina Sergent lo accompagna in seconda, dove resta con lui per proteggere la sua piccola favorita dalla severità dell'ispettore. Approfittando dell'assenza, schizzo alla lavagna una caricatura di papà Blanchot e delle sue grandi basette, che rallegra le ragazzine; vi aggiungo un paio di orecchie d'asino, poi lo cancello subito e riprendo il posto, dove la piccola Luce infila il suo braccio nel mio, affettuosamente, e tenta di baciarmi. La allontano con uno scappellotto, e lei dichiara che sono "molto cattiva". "Molto cattiva? Ti insegnerò a prenderti simili confidenze con me! Cerca di imbrigliare i tuoi sentimenti e dimmi se è sempre la signorina Griset che passa la notte nel dormitorio." "No, Aimée vi ha dormito due volte due giorni di fila." "Fa quattro volte. Sei una stupida; neanche una stupida, una idiota! Le convittrici stanno più tranquille quando tua sorella dorme sotto il baldacchino?" "Niente affatto. E anzi, una notte, una scolara si è sentita male, ci siamo alzate, abbiamo aperto una finestra, ho persino chiamato mia sorella perché mi desse i fiammiferi, che non riuscivamo a trovare. Lei non si è mossa, non ha fiatato, come se non ci fosse stato nessuno nel letto. Bisogna proprio che abbia il sonno ben duro, eh?" "Il sonno duro, il sonno duro! Che oca! Mio Dio, perché hai permesso che ci siano su questa terra esseri così sprovvisti d'intelligenza? Mi fa piangere lacrime di sangue!" "Ma che cos'altro ho fatto di male?" "Niente, oh, niente, eccoti soltanto qualche botta sulle spalle per educarti il cuore e la mente, e per insegnarti a non credere agli alibi della virtuosa Aimée." Luce si rotola sul banco con un dolore simulato, felice di venir strapazzata e percossa. Ma mi viene in mente una cosa: "Anaïs, che cosa stavi dunque raccontando a Marie Belhomme per farla arrossire in tal modo che il rosso della Bastiglia è pallido in confronto?". "Che Bastiglia?" "Non importa. Dimmelo subito." "Avvicinati un po'." Ha la faccia viziosa e fremente: devono essere gran brutte cose. "Ebbene, ecco. Non lo sai? Per la cena di Natale, l'anno scorso, il sindaco aveva a casa sua l'amante, la bella Julotte, e poi il suo segretario aveva accompagnato una parigina; alla frutta le hanno fatte spogliare tutte e due, senza camicia, e loro hanno fatto lo stesso, e si sono messi a ballare così una quadriglia, cara mia!" "Non c'è male! Chi te l'ha detto?" "L'ha raccontato papà alla mamma; io ero a letto, però lasciano sempre aperta la porta della camera, perché faccio finta di avere paura e allora sento tutto." "Non ti annoi. Ne racconta spesso tuo padre di storie di questo genere?" "No, non sempre così belle; ma qualche volta mi sbellico dalle risa nel letto." Mi racconta anche altri pettegolezzi piuttosto sporchi di tutto il mandamento; suo padre, impiegato al municipio, conosce a fondo la cronaca scandalosa del paese. Io l'ascolto e il tempo passa. Torna la signorina Sergent; abbiamo appena il tempo di riaprire i libri a caso; ma lei viene dritta verso di me, senza guardare quello che facciamo: "Claudine, potrebbe fare cantare le compagne davanti all'ispettore Blanchot? Ora sanno quel bel coro a due voci: In questo dolce asilo". "Va bene; però l'ispettore è così disgustato di vedermi coi capelli sciolti che non mi ascolterà!" "Non dica sciocchezze, non è il momento; le disponga subito. L'ispettore Blanchot sembra poco soddisfatto della seconda classe; conto sulla musica per fargli passare il malumore." Non stento a credere che deve essere molto poco soddisfatto della seconda classe: la signorina Lanthenay se ne occupa tutte le volte che non ha nient'altro da fare: carica le bambine di compiti scritti per poter chiacchierare tranquillamente con la cara direttrice, mentre quelle scribacchiano. Io sono disposta a fare cantare le scolare. Per quello che mi costa! La signorina Sergent riaccompagna in classe l'odioso Blanchot; io dispongo a semicerchio le mie compagne e la prima sezione della seconda; affido le prime ad Anaïs, le seconde a Marie Belhomme (che disgraziate le seconde!). E io canterò insieme le due parti, cioè cambierò subito quando sentirò indebolirsi uno dei lati. Avanti! Una battuta a vuoto: uno, due, tre. In questo dolce asilo/ i savi son coronati./ Venite!/ Ai piaceri tranquilli/ questi bei luoghi son destinati/ ... Che fortuna! Questo rinsecchito ex studente della scuola normale segna col capo il ritmo della musica di Rameau (d'altronde sbagliando), e sembra rapito. E' la solita storia del compositore Orfeo che addomestica le fiere. "E' ben cantato. Di chi è? Di Gounod, credo?" (Perché pronuncia Gounode?) "Sì, signor ispettore." (Non contraddiciamolo.) "Mi sembrava che andasse bene. E' un bellissimo coro." (Bellissimo coro sarai tu!) Sentendo questa inaspettata attribuzione di un'aria di Rameau all'autore del Faust, la signorina Sergent si morde le labbra per non ridere. In quanto a Blanchot, rasserenato, si lascia sfuggire qualche parola gentile, e se ne va, dopo averci dettato - la freccia del parto! - il seguente schema di componimento: "Spiegate e commentate questo pensiero di Franklin: "L'ozio è come la ruggine, consuma più del lavoro"". Coraggio! Alla chiave lustra, dai contorni arrotondati, che la mano leviga e gira tante volte al giorno, nella serratura, contrapponiamo la chiave corrosa dalla ruggine rossastra. Il bravo operaio che lavora allegramente, alzato sin dall'alba, i cui forti muscoli eccetera... facciamone un parallelo con l'ozioso che, languidamente sdraiato sui divani orientali, vede sfilare sulla tavola sontuosa eccetera... i cibi rari... eccetera... che tentano invano di risvegliargli l'appetito... eccetera. Oh, oh, è presto fatto! Come se non fosse bello oziare in una poltrona! Come se gli operai che lavorano tutta la vita non morissero giovani e sfiniti! Macché, non bisogna dirlo. Nel "programma degli esami" le cose non vanno come nella vita. La piccola Luce è povera d'idee e geme sommessamente perché gliene fornisca. La lascio generosamente leggere quello che ho scritto, non mi ruberà un gran che. Finalmente le quattro. Ce ne andiamo. Le convittrici salgono a prendere la merenda preparata dalla madre della signorina Sergent; io me ne vado con Anaïs e Marie Belhomme, dopo essermi guardata nei vetri per vedere se non mi sono messa il cappello di traverso. Per strada diciamo male di Blanchot. Mi annoia quel vecchio, che ci vorrebbe sempre vestite di tela di sacco e coi capelli tirati! "Credo che comunque non sarebbe molto soddisfatto della seconda classe," osserva Marie Belhomme "e se tu non l'avessi conquistato con la musica!" "Sfido," fa Anaïs "la signorina Lanthenay prende un po' sottogamba la sua classe." "Hai certe espressioni! Non può far tutto, andiamo! La signorina Sergent l'ha legata alla sua persona, la veste lei al mattino." "Questa è una frottola!" esclamano insieme Anaïs e Marie. "Niente affatto! Se mai andrete nel dormitorio e nella camera delle maestre (è facilissimo, non c'è che da portarvi l'acqua con le convittrici), passate la mano sul fondo del catino della signorina Aimée e non temete di bagnarvi, non c'è che polvere." "No, è troppo grossa però" dichiara Marie Belhomme. Anaïs la lunga non aggiunge nulla e se ne va pensierosa; senza dubbio racconterà questi piacevoli particolari al giovanotto col quale civetta questa settimana. So pochissimo delle sue scappatelle: rimane impenetrabile e beffarda quando le tasto il polso su questo argomento. Mi annoio a scuola, brutto segno, e sintomo completamente nuovo. Tuttavia non sono innamorata di nessuno (anzi è forse per questo). Faccio i compiti quasi diligentemente, tanta è la mia apatia, e vedo tranquillamente le nostre maestre che si carezzano, si sbaciucchiano, litigano per il piacere di amarsi ancora di più, dopo. Ora hanno gesti e parole così liberi l'una con l'altra che Rabastens, nonostante la sua faccia tosta, se ne spaventa e balbetta a più non posso. Allora gli occhi di Aimée sprizzano scintille dalla gioia, come quelli di una gatta maliziosa, e la signorina Sergent ride vedendola ridere. Sono sorprendenti, parola d'onore! Non ci si può immaginare come sia diventata esigente la piccola! L'altra muta espressione a un suo cenno, a un aggrottarsi delle sue ciglia vellutate. Attenta dinanzi a questa tenera intimità, la piccola Luce spia, intuisce, impara. Impara anche troppo, perché coglie tutte le occasioni di stare sola con me, mi si strofina addosso, mi vezzeggia, quasi chiude gli occhi verdi e schiude la boccuccia fresca; no, non mi tenta. Perché non si rivolge ad Anaïs la lunga, che s'interessa anche lei dei giochi delle due colombelle che ci fanno da maestre a tempo perso, e che se ne stupisce molto, perché ha certi lati d'ingenuità abbastanza curiosi! Questa mattina l'ho picchiata sodo, la piccola Luce, perché voleva abbracciarmi nella rimessa dove si mettono gli innaffiatoi: non ha gridato e si è messa a piangere, finché l'ho consolata accarezzandole i capelli. Le ho detto: "Cretina, avrai bene il tempo di effondere il tuo eccesso di tenerezza più tardi, quando entrerai alla scuola normale!". "Sì, ma non ci verrai anche tu!" "No, certamente! Ma tu non ci sarai neppure da un paio di giorni che due del terzo anno avranno già litigato per colpa tua, schifosa bestiolina!" Si lascia insolentire con voluttà e mi lancia occhiate riconoscenti. Forse è perché mi hanno cambiato la vecchia scuola che mi annoio in questa? Non ho più quegli "angolini" dove ci si nascondeva fra la polvere, né i corridoi di quel vecchio edificio complicato, nel quale non si sapeva mai se ci si trovava dalla parte dei maestri o nella nostra, e dove si sbucava tanto facilmente nella camera di un maestro che non era quasi necessario scusarsi rientrando in classe. E' forse perché invecchio? Risento forse i sedici anni che compio? Ecco davvero una cosa stupida. E' forse la primavera? E' anche troppo bella, è persino sconveniente! Il giovedì e la domenica me ne vado sola soletta a trovare la mia compagna della prima comunione, la piccola Claire, seriamente imbarcata in una stupida avventura col segretario comunale che non vuole sposarla. Perbacco, ne sarebbe gravemente impedito; sembra che abbia subito un'operazione, mentre era ancora in collegio, in seguito a una strana malattia, una di quelle di cui non si nomina mai la "posizione"; e affermano che, pur desiderando ancora le donne, non può "soddisfare molto i loro desideri". Non capisco molto bene, capisco anzi piuttosto male, ma mi affanno a riferire a Claire ciò che ho appreso confusamente. Essa alza al cielo gli occhi scialbi, scrolla il capo, e risponde con moine estatiche: "Ah, che cosa importa, che cosa importa? E' così bello, ha un paio di baffi così sottili, e poi, le cose che dice mi rendono tanto felice! E poi mi bacia sul collo, mi parla della poesia, dei tramonti, che cos'altro vuoi che chieda?". Infatti, poiché le basta... Quando sono stufa delle sue divagazioni, le dico, perché mi lasci sola, che torno da papà, e non ci torno. Resto nei boschi, cerco un cantuccio più delizioso degli altri, e mi ci sdraio. Intere legioni di bestiole corrono per terra, sotto il mio naso (anzi talvolta si comportano molto male, ma sono così piccine!) e si sentono un'infinità di profumi; c'è l'odore delle piante fresche che si scaldano... O miei cari boschi! A scuola, dove arrivo in ritardo (stento ad addormentarmi, le idee mi ballano davanti appena ho spento la lampada), trovo in cattedra la signorina Sergent, dignitosa e corrucciata; e tutte le ragazzine assumono i visi di circostanza, sostenuti e cerimoniosi. Che cos'è? Ah, Anaïs la lunga, accasciata sul banco, fa tali sforzi per singhiozzare che le orecchie le sono diventate viola. Ci sarà da divertirsi! Sgattaiolo accanto alla piccola Luce che mi bisbiglia all'orecchio: "Cara mia, hanno trovato nel banco di un ragazzo tutte le lettere di Anaïs; il maestro le ha portate qui perché le legga la direttrice". Essa, infatti, le legge, ma sommessamente, solo per sé. Che disgrazia, mio Dio, che disgrazia! Darei volentieri tre anni della vita di Rabas-tens (Antonin), per sfogliare quella corrispondenza. Oh, chi ispirerà alla rossa di leggercene ad alta voce due o tre brani ben scelti! Ohimè, la signorina Sergent ha finito... Senza dire nulla ad Anaïs sempre accasciata sul banco, s'alza solennemente, si dirige, a passi misurati, verso la stufa, accanto a me; l'apre, vi depone i fogli scandalosi, piegati in quattro, accende un fiammifero e vi dà fuoco, poi richiude lo sportello. Drizzandosi, dice alla colpevole: "I miei rallegramenti, Anaïs, lei la sa più lunga di tanti adulti. Io la tengo sino all'esame, perché è iscritta, ma dichiarerò ai suoi genitori che declino ogni responsabilità a suo riguardo. Copiate i problemi, signorine, e non occupatevi più di costei che non se lo merita". Incapace di sopportare il tormento di sentire bruciare la letteratura di Anaïs, ho preso, mentre la direttrice si esprimeva solennemente, la riga piatta che mi serve per il disegno: l'ho infilata sotto il banco e, a rischio di farmi sorprendere, me ne sono servita per spingere la piccola maniglia che smuove la valvola del tiraggio. Non hanno visto nulla; forse la fiamma, così soffocata, non brucerà tutto; lo saprò dopo la scuola. Ascolto; la stufa smette di crepitare in capo a qualche secondo. Non suoneranno presto le undici? Come penso poco a quello che copio, alle "2 pezze di tela che, dopo il bucato, si restringono di 1/19 in lunghezza e di 1/22 in larghezza"! Potrebbero restringersi ancora molto di più senza interessarmi. La signorina Sergent ci lascia e va nella classe di Aimée, senza dubbio per raccontarle la bella storia e riderne con lei. Appena è sparita, Anaïs alza il capo, noi la osserviamo avidamente, ha le guance chiazzate, gli occhi gonfi a forza di fregarli, e guarda ostinatamente il proprio quaderno. Marie Belhomme si china verso di lei e le dice, con una tumultuosa simpatia: "Bene, cara mia, credo che ti picchieranno, a casa. Dicevi tante cose nelle tue lettere?". Essa non alza gli occhi e risponde ad alta voce perché sentiamo tutte: "Non me ne importa, le lettere non le ho scritte io". Le ragazzine si scambiano occhiate piene d'indignazione: "Puoi ben crederlo, cara mia! Cara mia, che bugiarda!". Finalmente suona l'ora. Mai è stata così lenta a venire l'ora dell'uscita! Mi attardo a mettere in ordine il banco per rimanere ultima. Fuori, dopo aver camminato per una cinquantina di metri, faccio finta di aver dimenticato l'atlante e lascio Anaïs per volare a scuola: "Mi aspetti, vuoi?". Mi precipito silenziosamente nella classe vuota e apro la stufa; vi trovo una manciata di carte mezzo bruciate che tolgo con circospezione materna. Che fortuna! La parte superiore e quella inferiore sono andate perdute, ma lo strato di mezzo è quasi intatto; è proprio la calligrafia di Anaïs. mi porto via il pacco nella cartella per leggere le lettere a casa comodamente, e raggiungo Anaïs, calma, che gironzola in attesa; riprendiamo la strada insieme; essa mi sbircia di sotto in su. A un tratto si ferma di colpo e sospira per l'angoscia... Vedo i suoi sguardi fissi sulle mie mani, ansiosamente, e mi accorgo che sono annerite dalla carta bruciata che ho toccato. Non le dirò certo una bugia. Prendo l'offensiva: "Ebbene, che c'è?". "Ci sei andata, eh, a frugare nella stufa?" "Certo che ci sono andata! Non c'è pericolo che lasci perdere un'occasione simile di leggere le tue lettere!" "Sono bruciate?" "Fortunatamente no; to', guarda qui dentro." Le faccio vedere le lettere, tenendole strette. Mi saetta addosso sguardi veramente omicidi, ma non osa avventarsi sulla mia cartella, sapendo bene che la picchierei! La consolerò un poco; mi fa quasi pena. "Senti, leggerò quanto non è bruciato, perché mi fa troppo voglia; e poi ti riporterò tutto questa sera. Non sono poi tanto cattiva?" E' molto diffidente. "Parola d'onore, te le consegnerò durante la ricreazione prima di rientrare in classe." Se ne va sconvolta, inquieta, più gialla e più lunga del solito. A casa, spulcio finalmente queste lettere. Una grande delusione! Non sono quello che credevo. Un miscuglio di sentimentalismi sciocchi e d'informazioni pratiche: "Penso sempre a te quando c'è il chiaro di luna... Bada di riportare giovedì al campo di Vrimes il sacco di grano che avevi preso l'ultima volta; se la mamma mi vedesse il vestito macchiato di verde, farebbe un gran chiasso!". E poi qualche allusione poco chiara, che deve rammentare al giovane Gangneau certi episodi lascivi... Insomma, sì, una delusione. Le restituirò le sue lettere, molto meno divertenti di lei che è fantasiosa, fredda e buffa. Gliele ho restituite, non credeva ai propri occhi. Tutta pervasa dalla gioia di rivederle, non le importa affatto che io le abbia lette; è corsa a gettarle nei gabinetti, e ora ha ripreso la sua espressione chiusa e impenetrabile, molto umiliata. Felice carattere! Ahimè, mi sono buscata un raffreddore! Me ne sto nella biblioteca di papà, a leggere la stravagante Storia di Francia del Michelet, scritta in versi alessandrini (forse esagero un po'?). Non mi annoio affatto, bene installata in questa grande poltrona, circondata di libri, con la mia bella Fanchette, questa gatta più intelligente di tutte le gatte, che mi ama con tanto disinteresse nonostante i dispetti che le faccio, i morsi che le do sulle orecchie rosee e il complicato addestramento che la costringo a subire. Mi ama al punto di capire quello che dico, e di venirmi a carezzare la bocca quando sente il suono della mia voce. Ama anche i libri come un vecchio sapiente, questa Fanchette, e mi tormenta tutte le sere dopo pranzo perché io tolga dallo scaffale due o tre grossi Larousse di papà: il vuoto che lasciano forma una specie di cameretta quadrata dove Fanchette s'installa per lavarsi; richiudo il vetro su lei, e il ronfare della prigioniera vibra incessante come un rullo di tamburo velato. Di tratto in tratto la guardo, allora mi fa segno con le sopracciglia, che alza come un essere umano. Bella Fanchette, come sei interessante e comprensiva (molto più di Luce Lanthenay, quella gatta inferiore!). Tu mi diverti, da quando sei venuta al mondo; non avevi che un solo occhio aperto, e già cercavi di avanzare a passi bellicosi nella tua cesta, ancora incapace di reggerti, sui tuoi quattro stecchi; poi, tu vivi allegramente, e mi fai ridere, con le tue danze del ventre in onore dei maggiolini e delle farfalle, coi goffi richiami agli uccellini che aspetti al varco, per il modo che hai di litigare con me e di darmi colpi secchi che mi risuonano duramente sulle mani. Hai una condotta molto vergognosa: due o tre volte all'anno, ti trovo in giardino, sui muri, con un'aria pazza, ridicola, circondata da una folla di gatti. Conosco persino il tuo favorito, perversa Fanchette: è un micione grigio sporco, lungo, magro, spelacchiato, con le orecchie da coniglio e le zampe volgari. Come puoi unirti vergognosamente con questa bestia di abbietta origine, e così spesso? Ma persino in questi periodi di follia, quando mi vedi, riprendi per un momento l'espressione naturale, mi miagoli in tono amichevole qualcosa come: "Vedi, sono ridotta così; non disprezzarmi troppo, la natura ha le sue esigenze, ma tornerò presto e mi leccherò a lungo per purificarmi di questa esistenza vergognosa". O bella Fanchette bianca, come ti si addice di comportarti male! Quando mi è passato il raffreddore, mi accorgo che a scuola ci si comincia ad agitare molto per i prossimi esami. Siamo alla fine di maggio e le prove incominciano il 5 luglio! Rimpiango di non essere più emozionata, ma le altre lo sono abbastanza anche per me, soprattutto la piccola Luce Lanthenay che ha vere crisi di lacrime quando prende un brutto voto. In quanto alla signorina Sergent, si occupa di tutto, ma più di tutto della piccola dai begli occhi che le fa girare la testa. Questa Aimée è fiorita in modo sorprendente! La sua meravigliosa carnagione, la pelle vellutata, gli occhi "da coniarne delle medaglie", come dice Anaïs, la rendono una creaturina maligna e trionfante. E' tanto più bella dell'anno scorso! Non si noterebbe, ora, che ha il viso leggermente schiacciato, che, quando sorride, il labbro sinistro ha una piccola sporgenza; e comunque, ha i denti aguzzi così bianchi! La sua rossa innamorata viene meno solo a guardarla, e non resiste quasi più davanti a noi al folle desiderio di abbracciare ogni momento la favorita... In questo pomeriggio caldo, la scolaresca ripete con un mormorìo il brano di antologia che dobbiamo recitare alle tre; quasi sonnecchio, spossata da una pigrizia nervosa. Non ne posso più, e, a un tratto, ho voglia di graffiare, di stirarmi violentemente e di schiacciare le mani a qualcuno; capita che questo qualcuno sia Luce, la mia vicina. Le ho afferrato la nuca, e vi ho affondato le unghie; per fortuna non ha detto nulla. Ricado nel mio languore irritato... Si apre la porta senza che nessuno abbia neppure bussato: è Dutertre, con una cravatta chiara, i capelli sparsi al vento, ringiovanito e battagliero. La signorina Sergent, alzatasi, lo saluta appena e lo ammira appassionatamente; il ricamo le è caduto per terra. (Lo ama più di Aimée? O Aimée più di lui? Che donna strana!) La scolaresca si è alzata. Per malignità resto seduta in modo che Dutertre, quando si volta verso di noi, mi osserva subito. "Buongiorno, signorina. Buongiorno, piccine. Come sei deperita!" "Sono fiacca. Non mi sento più le ossa." "Sei malata?" "No, non credo. E' il tempo, l'apatia." "Vieni qui, voglio vederti." Stanno per ricominciare queste scuse mediche per fare esami prolungati? La direttrice mi lancia sguardi infiammati d'indignazione, per il mio modo di comportarmi, di parlare col suo caro ispettore. No, non mi metterò certo in soggezione! D'altronde gli piacciono enormemente questi modi sconvenienti. Mi trascino pigramente sino alla finestra. "Non ci si vede, qui, a causa di questa ombra verde degli alberi. Vieni nel corridoio, c'è il sole. Hai una cera orribile, piccina mia." (Triplice bugia! Ho una bella cera, me ne intendo; se mi crede malata per gli occhi pesti, sbaglia: è buon segno, io sto bene quando ho gli occhi cerchiati. Per fortuna sono le tre del pomeriggio, altrimenti non mi sentirei troppo sicura andando, sia pure nel corridoio a vetri, con questo individuo del quale diffido come del fuoco.) Appena ha richiuso la porta alle nostre spalle, mi volto verso di lui e gli dico: "Ma no, andiamo, non ho l'aria malata; perché lo dice?". "No? E quegli occhi cerchiati sino alle labbra?" "Ebbene, è il colore della mia pelle, ecco!" Si è seduto sul banco e mi tiene in piedi davanti a lui, contro le ginocchia. "Sta' zitta, dici sciocchezze. Perché hai sempre l'aria di essere in collera con me?" "...?" "Sì, tu mi capisci. Hai un visino, sai, che frulla nel cervello, quando lo si è visto." (Io rido stupidamente. O eterno Padre, mandami un po' di spirito, e risposte sottili, perché sento di esserne completamente priva!) "E' vero che vai sempre sola a passeggiare nei boschi?" "Sì, è vero. Perché?" "Perché, canaglia, vai a trovare un innamorato, forse? Sei così ben sorvegliata!" Alzo le spalle: "Lei conosce bene come me tutta la gente di qui; mi ci vede un innamorato fra questi?". "E' vero. Ma saresti abbastanza viziosa..." Mi stringe le braccia, brillano gli occhi e i denti. Che caldo qui! Preferirei che mi lasciasse tornare in classe. "Se non stai bene, perché non vieni a consultarmi in casa mia?" Rispondo troppo presto: "No! Non ci verrò..." e cerco di liberare le braccia, ma mi tiene stretta e alza verso di me degli occhi ardenti e cattivi... ma anche belli, è vero. "O piccina, piccola seduttrice, perché hai paura? Hai proprio torto ad avere paura di me! Credi che sia un mascalzone? Non avresti nulla da temere, nulla. O piccola Claudine, mi piaci tanto, con quegli occhi di un bruno caldo e i riccioli folli! Sei fatta come una adorabile statuina, ne sono sicuro..." Si drizza bruscamente, mi stringe fra le braccia e mi bacia; non ho avuto il tempo di scappare, è troppo forte e troppo nervoso, e ho una confusione nel cervello... Che razza di avventura! Non so più quel che dico, mi gira la testa... Tuttavia non posso rientrare in classe, rossa e sconvolta come sono, e lo sento dietro a me: vorrà abbracciarmi ancora, di certo... Apro la porta del pianerottolo, scendo nel cortile sino alla pompa dove bevo una ciotola d'acqua. Uff!... Bisogna tornare su... Ma deve essersi nascosto nel corridoio. Ah, e poi via! Griderò se cercherà di riafferrarmi... Mi ha baciata all'angolo della bocca, non potendo fare di meglio, quell'animale! No, non e più nel corridoio, che fortuna! Rientro nell'aula, e lo vedo in piedi, vicino alla cattedra, che chiacchiera tranquillamente con la signorina Sergent. Mi siedo al posto, mi squadra e domanda: "Non hai bevuto troppa acqua, almeno? Queste ragazzine buttano giù ciotole intere di acqua fredda: fa molto male". Davanti a tutti sono più coraggiosa. "No, non ne ho bevuto che un sorso, è quanto basta; non ne prenderò più." Ride con aria contenta: "Sei buffa, e non sei troppo sciocca". La signorina Sergent non capisce, ma l'inquietudine che le faceva aggrottare le ciglia sparisce a poco a poco; non ha più che disprezzo per il contegno deplorevole che affetto davanti al suo idolo. Ho caldo, io: è stupido! Anaïs la lunga ha subodorato qualcosa di sospetto e non può trattenersi dal domandarmi: "Ti ha dunque ascoltata molto da vicino, che sei così sossopra?". Ma non sarà lei a farmi parlare: "Come sei stupida! Ti dico che vengo dalla pompa". La piccola Luce, a sua volta, si strofina contro di me come una gatta irritata e si arrischia a domandarmi: "Dimmi, Claudine mia, ma perché ti ha condotta via così?". "Prima di tutto, io non sono la "tua" Claudine; e poi ciò non ti riguarda, canaglia. Doveva consultarmi sul conguaglio delle pensioni. Va bene?" "Tu non vuoi mai dirmi niente, e io ti dico tutto!" "Tutto che cosa? Mi è molto utile sapere che tua sorella non paga il suo mantenimento, né il tuo, e che la signorina Olympe la colma di regali, e che porta sottane di seta, e che..." "Zitta, taci, ti prego! Sarei rovinata, se sapessero che ti ho raccontato tutte queste cose!" "Allora non domandarmi nulla. Se sei buona, ti darò la mia bella riga di ebano, che ha le filettature di ottone." "Oh, come sei gentile. Ti abbraccerei volentieri, ma ti dispiace..." "Basta; te la darò domani, se ne avrò voglia!" Perché la passione degli "oggetti di cancelleria" va diminuendo in me, e anche questo è un gran brutto segno. Tutte le mie compagne (e io ero come loro sino a poco fa) vanno pazze per i "rifornimenti scolastici": ci roviniamo in quaderni di carta con la filigrana e la copertina a riflessi metallici, in matite di legno di rosa, in astucci laccati, così lustri da specchiarcisi, in penne di legno d'olivo, in righe di mogano e d'ebano come la mia che ha i quattro spigoli di ottone, e davanti alla quale impallidiscono d'invidia le convittrici troppo povere per potersene concedere d'uguali. Abbiamo grandi cartelle da avvocato di marocchino più o meno del Levante, più o meno pressato. E se le scolarette, come strenna, non si fanno rilegare i testi scolastici con copertine appariscenti, se non lo faccio neanch'io, è soltanto perché non sono di nostra proprietà. Appartengono al comune, che ce li fornisce generosamente, con l'obbligo di consegnarli alla scuola quando la lasciamo per non ritornarvi più. Perciò odiamo questi libri del comune: non li sentiamo nostri e gli facciamo orribili scherzi; capitano loro disgrazie impreviste e strane; certuni hanno preso fuoco accanto alla stufa, d'inverno; se ne sono visti certi sui quali i calamai si rovesciavano con speciale predilezione; ma sì, attirano la folgore. E tutte le disgrazie che capitano agli sfortunati "libri del comune" sono oggetto di lunghe lamentele della signorina Lanthenay e di terribili sgridate della signorina Sergent. Dio, come sono stupide le donne! (Ragazzine e donne è tutt'uno.) Chi crederebbe che, dopo i "colpevoli tentativi" di quel forsennato Dutertre su di me, provo una specie di vaga fierezza? Questa constatazione è molto umiliante per me. Ma lo so perché; in fondo, mi dico: "Siccome quell'uomo, che ha conosciuto un'infinità di donne, a Parigi e dappertutto, mi trova attraente, vuol dire che non sono molto brutta!". Ecco: è un piacere della vanità. Dubitavo di non essere ripugnante, ma mi piace esserne sicura. E poi, sono contenta di avere un segreto che Anaïs la lunga, Marie Belhomme, Luce Lanthenay e le altre non sospettano. Ora la scolaresca è ben ammaestrata. Tutte le ragazzine, sino alla terza sezione compresa, sanno che non bisogna mai entrare durante la ricreazione in un'aula dove si siano chiuse le maestre. Certo non abbiamo imparato in un giorno! Siamo entrate infinite volte, l'una o l'altra di noi, nell'aula dove si nascondeva l'amorosa coppia. Ma le sorprendevamo così teneramente avvinte, o tanto assorte nel loro parlottare, oppure la signorina Sergent teneva sulle ginocchia la piccola Aimée con tanto abbandono, che anche le più stupide ne rimanevano confuse e subito scappavano via, sentendosi dire dalla rossa: "Ma che altro volete?", spaventate dall'aggrondarsi feroce delle folte sopracciglia di lei. Io, come le altre, ho fatto spesso irruzione, e talora persino non di proposito: le prime volte, quando entravo io, ed esse stavano troppo vicine, si alzavano vivamente, oppure una fingeva di annodare i capelli disfatti dell'altra; poi hanno finito col non avere più soggezione di me. Allora non mi ci sono più divertita. Rabastens non viene più; parecchie volte ha dichiarato di essere "troppo intimidito da questa intimità", e tale modo di esprimersi gli sembrava una specie di gioco di parole che gli piaceva molto. Non pensano più che a se stesse. L'una segue i passi dell'altra, cammina nella sua ombra; si amano in modo così completo, che non penso più a tormentarle e sono quasi invidiosa del loro delizioso oblio di ogni altra cosa. Ecco! Ci siamo; doveva accadere! Tornando a casa, trovo una lettera della piccola Luce in una tasca della cartella. ""Mia cara Claudine, "Io ti amo tanto, ma tu hai sempre l'aria di non accorgertene, e io deperisco per il dispiacere. Sei buona e cattiva con me: non vuoi prendermi sul serio, mi tratti come un cagnolino. Ne provo un dispiacere che non puoi immaginare. Vedi tuttavia come potremmo essere contente tutt'e due. Guarda mia sorella Aimée e la signorina: sono cosi felici che non pensano più a nulla. Ti prego, se non sei in collera per questa lettera, di non dirmi nulla domani mattina a scuola: lì per lì sarei troppo imbarazzata. Saprò soltanto dal tuo modo di parlarmi, se vuoi o se non vuoi essere la mia grande amica. "Ti abbraccio con tutto il cuore, cara Claudine mia, e conto anche su te perché bruci questa lettera, siccome so che non vorresti farla vedere ad altri per non procurarmi delle noie. Non è tua abitudine. Ti abbraccio ancora molto teneramente e aspetto domani con tanta impazienza! "La tua piccola Luce."" Ebbene no, non voglio! Se mi attirasse, lo farei con qualcuno più forte e più intelligente di me, che mi schiacciasse un po', a cui potessi obbedire, e non con una bestiolina viziosa che forse non è priva di fascino, che graffia e miagola solo per una carezza, ma troppo inferiore. Non mi piacciono le persone che domino. La sua lettera, carina e senza malizia, l'ho stracciata subito e ne ho messi i pezzi in una busta per restituirglieli. L'indomani mattina vedo un visetto preoccupato che mi attende, schiacciato contro i vetri. Povera Luce, i suoi occhi verdi sono diventati più chiari per l'ansia! Peggio per lei, non posso tuttavia accontentarla, solo per farle piacere... Entro; per fortuna, è sola soletta. "To', piccola Luce, ecco i pezzi della tua lettera; vedi che non l'ho tenuta a lungo." Lei non risponde nulla e prende macchinalmente la busta. "Però, pazzerella, che cosa andavi a fare in quella galera... voglio dire in quella galleria del primo piano, (15) dietro al buco della serratura dell'appartamento della signorina Sergent? Ecco a che cosa ti ha spinto! Però, io non posso fare niente per te." "Oh!" esclama atterrita. "Ma sì, povera piccina mia. Non è per virtù, te lo immagini; la mia virtù è ancora troppo piccina, non la tiro fuori. Ma, vedi, nella mia prima giovinezza mi ha infiammato una grande passione, ho addolorato un uomo che è spirato facendomi giurare sul letto di morte di non..." M'interrompe, gemendo: "Ecco, ecco, mi prendi in giro per giunta; io non volevo scriverti, sei senza cuore. Oh, come sono infelice! Oh, come sei cattiva!". "E poi mi stordisci, alla fine! Guarda un po' che chiassata! Vuoi scommettere che ti allungo un po' di scapaccioni per ricondurti sulla via del dovere?" "Ah, che cosa me ne importa! Oh, ho proprio voglia di ridere!..." "To', razzaccia di femmina! Dammi la ricevuta." Ha incassato un potente schiaffo che ha per effetto di farla tacere subito; mi guarda di sotto in su con occhi teneri e piange, già consolata, fregandosi la faccia. E' straordinario come le piace essere battuta. "Ecco Anaïs e molte altre, cerca quindi di assumere un'aria quasi per bene; stiamo per entrare in classe, scendono le due tortorelle." Soltanto quindici giorni prima degli esami! Il mese di giugno ci spossa: stiamo arrostendo, insonnolite, nelle aule; stiamo zitte per pigrizia. Trascuro persino il diario! E con questa temperatura da incendio dobbiamo per giunta giudicare la condotta di Luigi XV, descrivere la funzione del succo gastrico nella digestione, disegnare foglie di acanto, e dividere l'apparato uditivo in orecchio interno, orecchio medio e orecchio esterno. Non c'è giustizia sulla terra! Luigi XV ha fatto quello che ha voluto, non mi riguarda; oh, Dio mio, no, riguarda me meno di qualsiasi altra persona!... Il caldo è tale che si perde l'istinto della civetteria, o piuttosto la civetteria si modifica sensibilmente, ora: si mostra un po' di pelle. Incomincio a portare vestiti con scollature quadrate, un po' medioevali, con maniche che si fermano al gomito. Abbiamo le braccia ancora un po' sottili, ma tuttavia graziose, e in quanto al collo non temo rivali! Le altre mi imitano: Anaïs non porta le maniche corte, ma ne approfitta per rimboccare le sue sino alla spalla; Marie Belhomme mostra delle braccia imprevedibilmente grassocce al di sopra delle mani magre, un collo fresco e destinato a ingrossare. Ah, Signore, che cosa non si mostrerebbe con una temperatura simile! In gran segreto sostituisco le calze con i calzini. In capo a tre giorni, lo sanno tutte, se lo ripetono, e mi pregano sottovoce di alzare la sottana. "Fa' vedere i calzini, se è vero?" "To'!" "Che fortunata! Comunque, io non ne avrei il coraggio!" "Perché, per le convenienze?" "Sfido..." "Lascia stare, io lo so il perché; hai le gambe pelose!" "Oh, gran bugiarda! Potete guardare, non ne ho più di te; solamente mi vergognerei di sentire le gambe completamente nude sotto il vestito!" La piccola Luce mostra timidamente un po' di pelle, una pelle bianca e morbida da far meraviglia; e Anaïs la lunga invidia questa bianchezza al punto di punzecchiarle le braccia con l'ago durante le lezioni di cucito. Addio riposo! L'avvicinarsi degli esami, l'onore che deve riflettersi su questa bella scuola nuova dai nostri eventuali successi, hanno finalmente tratto le nostre maestre dal loro dolce isolamento. Ci tengono chiuse, noi, le sei candidate, ci tormentano con ripetizioni, ci obbligano ad ascoltare, a imparare a memoria, persino a capire, ci fanno venire un'ora prima delle altre e andare via un'ora dopo! Quasi tutte diventiamo pallide, stanche e istupidite; ci sono certune che perdono l'appetito e il sonno a forza di studio e di ansie; io sono rimasta quasi fresca, perché non mi agito molto, e perché ho la carnagione scura; e anche la piccola Luce Lanthenay, che, come la sorella Aimée, ha una di quelle carnagioni bianche e rosee inalterabili... Sappiamo che la signorina Sergent ci accompagnerà tutte insieme al capoluogo, ci farà alloggiare con lei in un albergo, s'incaricherà di tutte le spese; faremo i conti al ritorno. Se non fosse per quel maledetto esame, questo viaggetto ci entusiasmerebbe. Questi ultimi giorni sono tremendi. Maestre, scolare, terribilmente innervosite, scattano continuamente. Aimée ha gettato il quaderno in faccia a una convittrice che faceva per la terza volta lo stesso sbaglio in un problema di aritmetica, e poi è scappata in camera. La piccola Luce si è presa gli schiaffi dalla sorella ed è venuta a gettarmisi fra le braccia perché la consoli. Ho picchiato Anaïs che mi stuzzicava fuor di luogo. Una delle Jaubert è stata presa da una crisi frenetica di singhiozzi, poi da un attacco di nervi non meno frenetico, perché gridava - "non riuscirò mai a essere promossa!..." (asciugamani bagnati, acqua di fiori d'arancio, incoraggiamenti). La signorina Sergent, esasperata anch'essa, ha fatto girare come una trottola davanti alla lavagna la povera Marie Belhomme, che disimpara l'indomani, immancabilmente, quello che ha imparato il giorno prima. La sera, io non riesco a riposare che sulla cima del grosso noce, su un lungo ramo cullato dal vento... il vento, la notte, le foglie... Fanchette viene a trovarmi lassù; ogni volta sento le sue forti unghie mentre si arrampica e con quale sicurezza! Miagola stupita: "Ma che cosa mai cerchi su questo albero? Io sono fatta per starmene quassù, ma mi scandalizza sempre un pochino che ci venga tu!". Poi gironzola sui piccoli rami, completamente bianca nell'oscurità, e parla agli uccellini addormentati, con semplicità, sperando che vengano gentilmente a farsi mangiare; ma perché mai? Vigilia della partenza; niente studio; abbiamo portato a scuola le valigie (un vestito e un po' di biancheria: ci fermiamo soltanto due giorni). Domani mattina, appuntamento alle nove e mezzo e partenza con l'omnibus puzzolente di papà Racalin che ci trasporta alla stazione. E' fatta: ieri siamo tornate dal capoluogo trionfanti, eccetto (naturalmente) la povera Marie Belhomme, rimandata. La signorina Sergent è tronfia di un tal successo. Bisogna che racconti. La mattina della partenza, ci ammucchiano nell'omnibus di papà Racalin, ubriaco fradicio tanto per cambiare! - che ci porta a rotta di collo, ondeggiando da un fosso all'altro, domandandoci se andiamo tutte a sposarci, ed elogiando se stesso per la bravura con la quale ci fa sballottare: "Vado bene, eh?...", mentre Marie getta strilli acuti e diventa verde per la paura. Alla stazione ci rinchiudono nella sala d'aspetto; la signorina Sergent prende i biglietti e prodiga teneri addii alla benamata, che è venuta ad accompagnarla sin qui. Questa, con un vestito di tela grigio, un gran cappello piuttosto semplice, sotto il quale è più fresca di un fiore (sgualdrinella di un'Aimée!) eccita l'ammirazione di tre commessi viaggiatori che fumano il sigaro, e che, divertiti da questa partenza di un convitto, vengono nella sala d'aspetto a ostentare davanti a noi gli anelli e la parlantina, perché trovano divertente dirne di grosse. Do una gomitata a Marie Belhomme per avvertirla di ascoltare; lei tende le orecchie e non capisce; tuttavia io non posso disegnarle delle figure per farle capire meglio! Anaïs la lunga capisce benissimo, lei, e si affanna ad assumere degli atteggiamenti graziosi con inutili sforzi per arrossire. Il treno sbuffa, fischia; noi afferriamo le valigie e ci cacciamo in uno scompartimento di seconda, surriscaldato, soffocante; per fortuna il viaggio non dura che tre ore! Mi sono installata in un angolo per respirare un po', e, durante il percorso, non chiacchieriamo quasi mai, divertendoci a vedere sfilare il paesaggio. La piccola Luce, rincantucciata vicino a me, infila teneramente il braccio sotto il mio, ma io mi svincolo: "Lasciami, fa troppo caldo". Comunque ho un vestito di tussor greggio, tutto dritto, pieghettato come quelli dei bimbi, stretto alla vita da una cintura di cuoio larga più di una mano, e con la scollatura quadrata. Anaïs, ravvivata da un vestito di tela rossa, fa bella figura; come pure Marie Belhomme, in mezzo lutto: tela lilla con mazzolini neri. Luce Lanthenay ha tenuto l'uniforme nera, cappello nero con un nastro rosso. Le due Jaubert continuano a non farsi notare e si tolgono di tasca liste di domande che la signorina Sergent, sdegnosa di questo zelo eccessivo, impone loro di riporre. Rimangono sbalordite! Camini di fabbriche, case sparse e bianche che presto infittiscono e diventano numerose, ecco la stazione, scendiamo. La signorina Sergent ci spinge verso un omnibus e corriamo sul lastricato sconnesso e a onde, verso l'albergo della "Posta". Nelle vie imbandierate, stanno bighellonando degli oziosi, perché domani è la festa di non so quale santo - grande solennità in questo paese - e la banda infierirà durante la serata. La signora Cherbay, che gestisce l'albergo, una compaesana della signorina Sergent, una grassona troppo gentile, si fa in quattro. Delle scale, che non finiscono più, un corridoio e... tre camere per sei. Non ci avevo pensato! Con chi mi metteranno? E' stupido; mi è insopportabile dormire con altre persone! La signora Cherbay ci lascia finalmente. Esplodiamo in parole, in domande, apriamo le valigie; Marie ha perso la chiave della sua e si lamenta; io mi siedo già stanca. La signorina riflette: "Vediamo, bisogna che vi metta a posto...". S'interrompe e cerca di accoppiarci nel modo migliore; la piccola Luce scivola silenziosamente vicino a me e mi stringe la mano: spera che ci ficchino nello stesso letto. La direttrice si decide: "Le due Jaubert... voi dormirete insieme; lei, Claudine, con..." (mi guarda in modo penetrante, ma io non mi scompongo, né batto ciglio) "con Marie Belhomme, e Anaïs con Luce Lanthenay. Credo che vada abbastanza bene così". La piccola Luce non è affatto di questo parere! Prende il proprio bagaglio mogia mogia e se ne va tristemente con Anaïs la lunga nella camera di fronte alla mia. Marie e io c'installiamo; mi spoglio rapidamente per levarmi la polvere del treno, e dietro le imposte, chiuse a causa del sole, giriamo in camicia con voluttà. Ecco l'abbigliamento razionale, il solo pratico! Nel cortile cantano; guardo e vedo la grossa padrona seduta all'ombra con serve, giovanotti e ragazze; tutti insieme belano romanze sentimentali: Manon, ecco il sole!, confezionando rose di carta e ghirlande di edera per decorare la facciata l'indomani. Per terra, nel cortile, sono sparsi rami di pino; la tavola di ferro dipinto è coperta di bottiglie di birra e di bicchieri; proprio il paradiso terrestre! Bussano: è la signorina Sergent; può entrare: non mi fa soggezione. La ricevo in camicia mentre Marie Belhomme s'infila precipitosamente una sottana, per rispetto. D'altronde sembra che non se ne accorga e ci invita soltanto a sbrigarci: la colazione è pronta. Scendiamo tutte. Luce si lamenta della camera, rischiarata dall'alto: non c'è nemmeno la risorsa di mettersi alla finestra! Una cattiva colazione da locanda. Siccome l'esame scritto avrà luogo domani, la signorina Sergent c'impone di salire in camera e di ripassare un'ultima volta quello che sappiamo meno. E' inutile essere qui per farlo! Preferirei andare dagli X, certi amici di papà simpaticissimi, ottimi musicisti... Essa aggiunge: "Se siete buone, questa sera verrete giù con me dopo pranzo e faremo le rose con la signora Cherbay e le figlie". Mormorii di gioia; tutte le mie compagne esultano. Non io! Non provo alcuna ebbrezza all'idea di confezionare rose di carta in un cortile d'albergo con questa obesa padrona, ingrassata come una pollastra. Lo lascio capire, forse, poiché la rossa ricomincia subito, eccitata: "Io non obbligo nessuno, s'intende; se la signorina Claudine non crede di dover unirsi a noi...". "E' vero, signorina, preferisco restare in camera, temo veramente di non essere molto utile!" "Ci resti, faremo a meno di lei. Ma sarò obbligata, in tal caso, a portarmi via la chiave della sua camera; sono responsabile di lei." Non avevo pensato a questo particolare e non so che cosa rispondere. Ritorniamo su e sbadigliamo tutto il pomeriggio sui libri, snervate dall'attesa dell'indomani. Sarebbe stato meglio andare a spasso, perché non concludiamo nulla, proprio nulla... E dire che questa sera sarò chiusa a chiave, chiusa a chiave! Tutto quanto somiglia alla prigionia m'infuria; perdo la testa appena mi rinchiudono. (Non hanno mai potuto mettermi in collegio da ragazzina, perché cadevo in deliquio dalla rabbia nel sentire che mi proibivano di varcare la soglia. Provarono due volte; avevo nove anni; tutt'e due le volte, sin dalla prima sera, corsi alle finestre come uno stupido uccellino, gridai, morsicai, graffiai, mi sentii soffocare. Dovettero rimettermi in libertà, e non ho potuto "resistere" se non in questa inverosimile scuola di Montigny, perché qui, almeno, non mi sento "imprigionata" e dormo nel mio letto, a casa mia.) Certo non lo dimostrerò alle altre, ma mi sento male per il dispetto e l'umiliazione. Non andrò a mendicare il perdono: ne sarebbe troppo contenta, quella perfida rossa! Se almeno mi lasciasse la chiave per di dentro! Ma non chiederò neanche questo, non voglio! Speriamo che la notte passi presto... Prima di pranzo la signorina Sergent ci porta a spasso lungo il fiume; la piccola Luce, impietosita, vuole consolarmi del mio castigo: "Senti, se tu le chiedessi di lasciarti venire giù, acconsentirebbe; potresti chiederglielo gentilmente...". "Andiamo! Preferirei essere rinchiusa con un triplice giro di chiave per otto mesi, giorni, otto ore, otto minuti." "Hai proprio torto di non volere! Faremo le rose, canteremo..." "Piaceri puri! Io vi rovescerò l'acqua sulla testa." "Zitta, taci! Ma, veramente, ci hai guastato la giornata; non sarò più allegra questa sera perché non ci sarai tu!" "Non commuoverti. Dormirò, riprenderò le forze per "la gran giornata" di domani." Pranziamo di nuovo alla tavola rotonda con commessi viaggiatori e commercianti di cavalli. Anaïs la lunga, invasata dal desiderio di farsi notare, è prodiga di gesti e rovescia sulla tovaglia bianca il bicchiere di acqua tinta di vino. Alle nove risaliamo nelle stanze. Le compagne si provvedono di sciarpe per il fresco che potrebbe calare, e io... rientro in camera mia. Oh, faccio un viso indifferente, ma non sento di buon animo il suono della chiave che la signorina Sergent fa girare nella toppa e si porta via in tasca... Ecco, sono sola soletta... Quasi subito le sento nel cortile, e potrei vederle benissimo dalla finestra, ma per nulla al mondo confesserei i miei rimpianti, dimostrando d'essere curiosa. Ebbene, che fare? Non mi resta che andare a letto. Sto già levandomi la cintura, quando mi fermo di fronte al cassettone-toletta, davanti alla porta di comunicazione che esso sbarra. Questa porta dà nella stanza vicina (il catenaccio è dalla mia parte) e la camera vicina dà sul corridoio... Riconosco in ciò la mano della provvidenza: non si può negarlo... Tanto peggio, succeda quel che succeda, ma io non voglio che la rossa possa trionfare e dire: "L'ho rinchiusa!". Mi allaccio di nuovo la cintura, rimetto il cappello. Non vado in cortile, non sono tanto sciocca, vado dagli amici di papà, quei signori X, ospitali e gentili, che mi accoglieranno bene. Uf, com'è pesante questo cassettone! Mi fa sudare. Il catenaccio è duro da tirare, non viene adoperato da molto, e la porta si apre scricchiolando; ma si apre. La camera in cui entro, tenendo alta la candela, è vuota, il letto senza lenzuola; corro alla porta, la porta benedetta, che non è chiusa, si apre pian piano sul delizioso corridoio... Come si respira bene quando non si è chiusi a chiave! Non facciamoci sorprendere! Nessuno per le scale, nessuno al bureau dell'albergo: tutti stanno facendo rose. Brava gente, fate le rose senza di me! Fuori, nella notte tiepida, rido sommessamente; ma devo andare dagli X. il brutto è che non so la strada, soprattutto di notte. Via! Domanderò. Prima risalgo risolutamente il corso del fiume, poi mi decido, sotto un fanale, a chiedere della "piazza del Teatro, per piacere", a un signore che passa. Si ferma, si china per guardarmi: "Ma, bella ragazza mia, mi permetta di accompagnarla, non saprebbe trovare la strada da sola". Che scocciatura! Volto i tacchi e fuggo velocemente nell'ombra. Poi, mi rivolgo a un garzone, che con gran chiasso sta abbassando la saracinesca del negozio, e, di strada in strada, spesso inseguita da risate o da un richiamo familiare, arrivo in piazza del Teatro. Suono alla porta della casa ben nota. La mia entrata interrompe il trio di violino, violoncello e piano, che stanno suonando due bionde sorelle e il padre; si alzano rumorosamente: "E' lei? Come mai? Sola!". "Aspettate, lasciatemi parlare e scusatemi." Racconto dell'imprigionamento, della fuga, dell'esame di domani; le biondine si divertono come matte. "Ah, com'è buffo! Non c'è che lei per inventare scherzi simili!" Il babbo ride anch'egli, indulgente: "Suvvia, non abbia paura, la riaccompagneremo, otterremo il suo perdono". Brava gente! E facciamo musica, senza rimorso. Alle dieci, voglio andarmene e ottengo che mi riaccompagni soltanto una vecchia domestica... Percorriamo le strade piuttosto deserte, sotto la luna che si è alzata... Tuttavia mi domando che cosa mai dirà quella rossa rabbiosa. La domestica entra con me nell'albergo, e posso constatare che tutte le mie compagne sono ancora nel cortile intente a confezionare rose, a bere birra e limonata. Potrei rientrare in camera, inosservata, ma preferisco permettermi il lusso di una scena a effetto, e mi presento, modesta, davanti alla signorina che, vedendomi, balza in piedi: "Da dove salta fuori?". Con un cenno del mento, indico la domestica che mi accompagna e questa spiffera docilmente la lezione: "La signorina ha passato la serata in casa del mio padrone con le signorine". Poi mormora un vago "Buona sera", e sparisce. Io resto sola con... una furia! I suoi occhi mandano lampi, le sopracciglia, si toccano e si uniscono, le mie compagne, stupefatte, restano in piedi, tenendo in mano le rose incominciate. Immagino, nel vedere gli sguardi scintillanti di Luce, le guance rosse di Marie, l'aria febbrile di Anaïs la lunga, che siano un po' brille; veramente non c'è alcun male, la signorina Sergent non dice una parola; senza dubbio sta pensando; oppure sta facendo sforzi per non scoppiare. Finalmente parla; non a me: "Saliamo, è tardi". Esploderà di sopra? Sia pure... Per le scale, tutte le ragazzine mi guardano come un'appestata; la piccola Luce m'interroga con occhi supplichevoli. In camera mia vi è dapprima un silenzio solenne, poi la rossa m'interroga con una solennità grave: "Dov'è stata?". "Lo sa bene, dagli X, certi amici di mio padre." "Come ha osato uscire?" "Caspita, lo vede bene, ho spostato il cassettone che sbarrava questa porta." "E' di una sfacciataggine vergognosa! Farò sapere questa condotta stravagante al suo signor padre; senza dubbio ne sarà molto lieto." "Papà? Dirà: "Mio Dio, sì, questa ragazza ha un grande amore della libertà" e aspetterà con impazienza la fine del suo discorso per immergersi di nuovo, avidamente, nella Malacologia del Fresnois." Si accorge che le altre ascoltano e gira sui tacchi: "Andate tutte a letto! Se fra un quarto d'ora le candele non saranno spente, l'avrete a che fare con me! In quanto alla signorina Claudine, cessa di essere sotto la mia responsabilità e può farsi rapire questa notte stessa, se le fa piacere!". Oh, shocking, signorina! Le ragazzine sono sparite come sorci spaventati, e io resto sola con Marie Belhomme che mi dichiara: "E' proprio vero che non ti si può chiudere dentro! Io non avrei avuto l'idea di spostare il cassettone!". "Non mi sono annoiata. Ma sbrigati dunque, perché lei non torni a spegnere la candela." Si dorme male in un letto estraneo; e poi mi sono addossata alla parete tutta la notte per non sfiorare le gambe di Marie. La mattina seguente ci svegliano alle cinque e mezzo; ci alziamo intorpidite; mi inondo di acqua fredda per svegliarmi un po'. Mentre sto guazzando, Luce e Anaïs la lunga vengono a chiedermi in prestito il sapone profumato, a farsi dare un allaccia-bottoni, eccetera; Marie mi prega d'incominciare ad annodarle i capelli. Tutte queste piccine, poco vestite e assonnate, sono divertenti a vedersi. Vi è uno scambio di vedute sulle ingegnose precauzioni da prendere contro gli esaminatori: Anaïs ha copiato tutte le date della storia, delle quali è incerta, nell'angolo del fazzoletto (per me ci vorrebbe una tovaglia!). Marie Belhomme ha fatto un minuscolo atlante che le sta nel cavo della mano; Luce ha scritto sui polsini bianchi le date, brani di storia, teoremi di aritmetica, tutto un manuale; le sorelle Jaubert hanno ugualmente segnato un'infinità di nozioni su strisce sottili di carta che hanno arrotolato nella cavità delle penne. Tutte si preoccupano molto degli esaminatori; sento Luce che dice: "In aritmetica interroga Lerouge; in fisica e chimica, Roubaud, un farabutto a quanto pare; in letteratura è papà Sallé...". Io interrompo: "Che Sallé? L'ex direttore del collegio?". "Sì, quello." "Che fortuna!" Sono felice di essere interrogata da questo vecchio tanto buono, che papà e io conosciamo benissimo: sarà certo gentile con me. Appare la signorina Sergent, assorta e silenziosa in questo momento di lotta. "Non dimenticate nulla? Andiamo." Il nostro gruppetto passa il ponte, si arrampica per certe vie e viuzze, arriva finalmente davanti a un vecchio portico in rovina, sulla cui porta un'iscrizione quasi cancellata annuncia: "Istituto Rivoire"; è l'antico convitto femminile, abbandonato da due o tre anni a causa della sua vetustà. (Perché ci chiudono là dentro?) Nel cortile qua e là disselciato, chiacchierano vivacemente una sessantina di ragazze, in gruppi ben separati: le varie scuole non si mescolano. Ce ne sono di Villeneuve, di Beaulieu, e di una decina di capoluoghi del mandamento; tutte ammassate in piccoli gruppi attorno alle rispettive maestre, eccedono in osservazioni prive di benevolenza nei confronti delle altre scuole. Appena giunte, siamo squadrate, spogliate; osservano me soprattutto, a causa del vestito, bianco a righe azzurre, e del grande cappello di pizzo che spiccano sul nero delle uniformi; siccome sorrido sfacciatamente alle candidate che mi guardano, si voltano nel modo più sprezzante. Luce e Marie arrossiscono sotto gli sguardi e si fanno piccine piccine; Anaïs la lunga gode nel sentirsi tanto osservata. Gli esaminatori non sono ancora giunti; le scolare pestano i piedi; io mi annoio. Una porticina senza spranga si apre su un corridoio scuro, interrotto all'estremità da una fascia luminosa. Mentre la signorina Sergent scambia glaciali cortesie con le colleghe, io penetro piano piano nel corridoio: all'estremità, c'è una porta vetrata - o che fu tale, per lo meno; alzo la spranga arrugginita, e mi trovo in un cortiletto quadrato, vicino a una rimessa. Vi sono fioriti in abbandono gelsomini e clematidi insieme con un piccolo susino selvatico, una vegetazione selvaggia e deliziosa: è un luogo verde, silenzioso, in capo al mondo. Per terra, scoperta mirabile, sono maturate le fragole, e mandano un profumo squisito. Chiamo le altre per mostrare loro queste meraviglie! Ritorno nel cortile senza attirare l'attenzione, e annuncio alle compagne l'esistenza di questo frutteto sconosciuto. Dopo aver lanciato sguardi timorosi alla signorina Sergent che chiacchiera con una matura maestra, e in direzione della porta che continua a non aprirsi per lasciar passare gli esaminatori (dormono della bella, quelli là), Marie Belhomme, Luce Lanthenay e Anaïs la lunga si decidono, le Jaubert si astengono. Mangiamo le fragole, saccheggiamo la clematide, scuotiamo il susino, quando, da un mormorìo più forte nel cortile d'ingresso, indoviniamo che sono giunti i nostri tormentatori. A gambe levate, attraversiamo di nuovo il corridoio; arriviamo in tempo per vedere una fila di uomini scuri, non belli, che entrano nel vecchio edificio, solenni e muti. Dietro di loro saliamo la scala col chiasso di uno squadrone, essendo più di sessanta, ma, subito al primo piano, ci fermano sulla soglia di un'aula abbandonata: bisogna lasciare che si installino quei signori. Siedono a una gran tavola, si asciugano il sudore e deliberano. Che cosa? Sull'utilità di farci entrare? Ma no, sono sicura che si scambiano impressioni sulla temperatura e chiacchierano dei loro piccoli interessi, mentre ci trattengono a stento sul pianerottolo e la scala dove straripiamo. Dalla prima fila posso osservare questi esseri eccelsi; uno spilungone brizzolato, con l'aria mite e da nonnino; il buon papà Sallé, storto e gottoso, dalle mani simili a sarmenti; un grassone basso, col collo stretto in una cravatta dalle tinte cangianti, degna di Rabastens stesso: è Roubaud, il terribile, che domani c'interrogherà in scienze. Finalmente si sono decisi a dirci di entrare. Riempiamo la vecchia brutta sala dalle pareti di stucco indicibilmente sporche, deturpate da iscrizioni e da nomi di scolare; anche i banchi sono orribili, tagliuzzati, neri e viola a causa dei calamai rovesciati in passato. E' una vergogna relegarci in una simile stamberga. Uno di quei signori procede alla distribuzione dei posti: tiene in mano una lunga lista e mescola con cura tutte le scuole, separando il più possibile le scolare di uno stesso mandamento, per evitare i suggerimenti. (Non sa dunque che si può sempre trovare il mezzo di suggerire?) Io sono all'estremità di un banco, vicino a una giovinetta in lutto, dai grandi occhi seri. Dove sono le mie compagne? Vedo là in fondo Luce che mi rivolge cenni e sguardi disperati; Marie Belhomme si agita, nel banco davanti a lei: loro due, così deboli, potranno scambiarsi suggerimenti... Roubaud va in giro a distribuire certi grandi fogli timbrati in azzurro nell'angolo sinistro, e le ostie per sigillare. Conosciamo tutte queste operazioni: bisogna scrivere nell'angolo il proprio nome, con quello della scuola dove abbiamo fatto gli studi, poi piegare e sigillare quest'angolo. (Tanto per rassicurare tutti sulla imparzialità, dei giudizi.) Compiuta la formalità, aspettiamo che si decidano a dettarci qualcosa. Guardo attorno a me i visetti sconosciuti, dei quali parecchi mi fanno pietà, tanto sono già sconvolti e ansiosi. Un sussulto. Roubaud ha parlato fra il silenzio generale: "Prova di ortografia, signorine; scrivete: non ripeto che una sola volta la frase che detto". Incomincia a dettare passeggiando per la classe. Profondo silenzio di raccoglimento. Sfido! I cinque sesti di queste piccine giocano il loro avvenire. E pensare che tutte diventeranno maestre che triboleranno dalle sette del mattino alle cinque della sera e tremeranno davanti a una direttrice, quasi sempre piena di malevolenza, per guadagnare settantacinque franchi il mese! Di queste sessanta ragazzine, quarantacinque sono figlie di contadini o di operai; per non lavorare la terra o la tela hanno preferito ingiallirsi la carnagione, scavarsi il petto e deformarsi la spalla destra; si preparano coraggiosamente a passare tre anni in una scuola normale (alzarsi alle cinque, coricarsi alle otto e mezzo, due ore di ricreazione su ventiquattro), e a rovinarsi lo stomaco, che resiste di rado a tre anni di refettorio. Ma almeno porteranno il cappello, non cuciranno i vestiti altrui, non custodiranno le bestie, non tireranno su i secchi dal pozzo, e disprezzeranno i rispettivi genitori. Non chiedono di più. E che cosa faccio qui, io, Claudine? Sono qui perché non ho altro da fare; perché papà, mentre subisco le interrogazioni di questi professori, può maneggiare in pace le sue lumache; ci sono anche per "l'onore della Scuola", per ottenerle un diploma in più, un po' di gloria in più, a questa Scuola unica, inverosimile e deliziosa... Hanno ficcato in mezzo qualche participio, teso tranelli di plurali ambigui, in questo dettato che non ha più nessun senso, tanto hanno reso contorte e irte di difficoltà tutte le frasi. E' puerile! "Punto: è finito. Rileggo." Credo di non avere fatto errori; non mi resta che badare agli accenti, perché contano come mezzi sbagli, quarti di sbaglio per certe velleità di accenti che a sproposito si prolungano al di sopra delle parole. Mentre rileggo, mi cade sul foglio una pallina di carta, gettata con straordinaria abilità; la svolgo nel cavo della mano: è Anaïs la lunga che mi scrive: "Ci vuole una esse in trouvés, nella seconda frase?". Non dubita di nulla questa Anaïs! Dovrei dirle una bugia? No, disdegno quei mezzucci di cui lei si serve abitualmente. Rialzando il capo, le faccio un impercettibile "sì", e lei corregge tranquillamente. "Avete cinque minuti per rileggere," annuncia la voce di Roubaud "seguirà la prova di calligrafia." Seconda pallina di carta, più grossa. Mi guardo intorno: l'ha gettata Luce, i cui occhi ansiosi spiano i miei. Ma domanda quattro parole! Se rimando la pallina, prevedo che la pescheranno; mi viene un'ispirazione semplicemente geniale: sulla busta di cuoio nero che contiene le matite e i carboncini (le candidate devono procurarsi tutto esse stesse) scrivo, con un pezzetto di stucco, staccatosi dalla parete, che mi serve da gesso, le quattro parole che preoccupano Luce, poi alzo bruscamente la busta sopra alla testa, col lato vergine voltato verso gli esaminatori che, d'altronde, si occupano ben poco di noi. Il viso di Luce si illumina, corregge rapidamente. La mia vicina, vestita a lutto, che ha seguito la scena, mi rivolge la parola: "Non ha davvero paura, lei?". "Non troppa, come vede. Bisogna bene aiutarsi un poco." "Certamente... Sì. Ma io non ne avrei il coraggio. Lei si chiama Claudine, non è vero?" "Sì, come lo sa?" "Oh, è tanto tempo che si "chiacchiera" di lei. Io sono della scuola di Villeneuve; le nostre maestre dicevano di lei: "E' una ragazza intelligente, ma troppo sfacciata e della quale non bisogna imitare né le maniere da ragazzaccio, né la pettinatura. Tuttavia se vorrà mettersi d'impegno, sarà una concorrente temibile all'esame". Anche a Bellevue la conoscono, dicono che lei è un po' pazza, e abbastanza eccentrica..." "Sono gentili le sue maestre! Ma si occupano di me più di quanto io non mi occupi di loro. Dica dunque a costoro che non sono che un branco di zitelle inviperite perché stanno sfiorendo, non è vero? Lo dica da parte mia!" Tace scandalizzata. D'altronde Roubaud passeggia fra i banchi con la sua pancetta tondeggiante e raccoglie i nostri compiti che porta ai colleghi. Poi ci distribuisce altri fogli per la prova di calligrafia e va a modellare alla lavagna, con una "bella scrittura", quattro versi: Te ne ricordi, Cinna, tanta sorte e tanta gloria./ eccetera... "Signorine, vi prego di eseguire una riga di corsivo grande, una di corsivo mezzano una di corsivo piccolo, una di rotondo grande, una di mezzano e una di piccolo, una di bastarda grande, una di mezzana e una di piccola. Avete un'ora di tempo." Quest'ora è un riposo. Un esercizio non faticoso, e non sono molto esigenti in quanto alla calligrafia. La rotonda e la bastarda mi piacciono, perché sono quasi un disegno; ma il mio corsivo è orribile; le lettere ad anello e le maiuscole stentano a conservare la quantità richiesta di "corpo" e di "mezzo corpo". Pazienza! Abbiamo fame quando è finita l'ora! Voliamo via da quella sala rattristante e ammuffita, e nel cortile ritroviamo le maestre, inquiete, raggruppate all'ombra che non è neppure fresca. Subito sgorgano fiotti di parole, di domande, di lamenti: "E' andata bene? Che argomento di dettato? Vi ricordate delle frasi difficili?". "Era così e così... ho scritto "indication" al singolare... io al plurale... il participio era invariabile, non è vero, signorina?... Volevo correggere, e poi l'ho lasciato... un dettato così difficile!..." E' mezzogiorno passato e l'albergo è lontano... Sbadiglio per la fame. La signorina Sergent ci conduce in un ristorante vicino, dato che l'albergo è troppo lontano per andare fin là con questo caldo afoso. Marie Belhomme piange e non mangia, desolata per i tre sbagli che ha fatto (e per ogni sbaglio levano due punti!). Racconto alla direttrice - che pare non pensi più alla mia scappatella di ieri - i nostri espedienti per metterci in comunicazione; ne ride, contenta, e ci raccomanda soltanto di non commettere troppe imprudenze. In tempo di esami c'incoraggia a fare i peggiori imbrogli, tutto per la gloria della scuola. In attesa dell'ora del componimento, sonnecchiamo quasi tutte sulle sedie, prostrate dal caldo. La signorina legge i giornali illustrati, e si alza dopo aver dato un'occhiata all'orologio: "Suvvia, piccine, bisogna andare via... Cercate di non mostrarvi troppo sciocche fra poco. E lei, Claudine, se non prende diciotto su venti in componimento, la getto nel fiume". "Ci starei più fresca, almeno!" Che imbecilli questi esaminatori! Il cervello più ottuso avrebbe capito che, con questo tempo opprimente, al mattino avremmo avuto il cervello più lucido per fare il componimento. Essi no. Che cosa possiamo fare a quest'ora? Benché pieno, il cortile è più silenzioso di questa mattina, e quei signori si fanno attendere ancora! Me ne vado sola nel giardinetto chiuso, mi siedo sotto le clematidi, all'ombra, e chiudo gli occhi, ebbra di pigrizia... Urla, grida di richiamo: "Claudine! Claudine!". Faccio un balzo, mezza addormentata, poiché dormivo con voluttà, e mi trovo davanti Luce confusa che mi scuote, mi trascina: "Ma sei pazza! Ma non sai quello che succede! Siamo rientrati in classe, mia cara, da un quarto d'ora! Hanno dettato il tema, e poi finalmente io ho osato dire, e così pure Marie Belhomme che tu non c'eri... ti hanno cercata, la signorina Sergent è in giro, e io ho pensato che forse gironzolavi da queste parti... Cara mia, sentirai che cosa ti diranno di sopra!". Mi precipito per le scale; Luce mi viene dietro; si leva un leggero brusìo al mio apparire, e quei signori, rossi dopo una colazione che si è prolungata sino a tardi, si voltano verso di me: "Non ci pensava più, signorina? Dov'era?". Mi ha parlato Roubaud, gentile e rude insieme. "Ero giù in giardino: facevo la siesta." Un battente della finestra aperta rispecchia la mia immagine oscurata: ho qualche petalo di clematide lilla nei capelli, foglie sul vestito, una bestiolina verde e una coccinella sulla spalla, e i capelli sono sparsi disordinatamente... Un insieme non ripugnante... Bisogna ben crederlo, almeno, poiché quei signori si attardano a osservarmi e Roubaud mi domanda a bruciapelo: "Lei non conosce un quadro che s'intitola La primavera, di Botticelli?". Paf! Me l'aspettavo: "Sì, professore, me lo hanno già detto". Gli ho troncato il complimento a mezzo, ed egli si morde le labbra, seccato; me la farà pagare. Gli uomini neri ridono tra loro; vado al posto, accompagnata da questa frase rassicurante, masticata da Sallé, un brav'uomo che tuttavia non mi riconosce, povero miope: "D'altronde lei non è in ritardo, copi il tema scritto alla lavagna, le sue compagne non hanno ancora incominciato". Oh, non abbia paura, io non la sgrido! Suvvia, facciamo il componimento! Questo piccolo incidente mi ha dato coraggio. "Tema - Esponete le riflessioni e i commenti che vi ispirano queste parole di Crisale: "Che importa che essa tradisca le leggi di Vaugelas," (16) eccetera." Per una fortuna davvero insperata non è un argomento troppo stupido, né troppo ingrato. Sento attorno a me domande ansiose e disperate, perché la maggior parte di queste ragazzine non sanno chi sia Crisale, né le Donne sapienti. Combineranno bei pasticci! Non posso fare a meno di riderne sin da ora. Preparo una breve dissertazione non troppo sciocca, costellata di citazioni varie per dimostrare che conosco abbastanza Molière. E' piuttosto scorrevole, finisco col non pensare più a quello che succede attorno a me. Alzando il capo per cercare una parola che non trovo, scorgo Roubaud occupatissimo a schizzare il mio ritratto su un taccuino. Io acconsento; e riprendo la posa senza averne l'aria. Paf! Casca ancora un'altra pallina. E' di Luce: "Puoi scrivermi due o tre idee generali? Non ce la faccio, sono desolata; ti abbraccio da lontano". La guardo, vedo il suo povero visetto tutto chiazzato, gli occhi rossi, e lei risponde al mio sguardo con un disperato tentennare del capo. Le scribacchio su un pezzo di carta tutto quello che posso e lancio la pallina, non in aria - è troppo pericoloso - ma per terra, nel corridoio che separa le due file di banchi; e Luce vi posa il piede sopra, lestamente. Mi attardo con cura a scrivere la conclusione; sviluppo certe idee che piaceranno e che dispiacciono a me. Uf! Ho finito! Vediamo che cosa fanno le altre... Anaïs scrive senza alzare il capo, sorniona, col braccio sinistro posato sul foglio per impedire alla vicina di copiare. Roubaud ha finito lo schizzo, e il tempo passa mentre il sole incomincia appena a calare. Sono spossata: questa sera andrò a letto buona buona con le altre, senza musica. Continuiamo a osservare la scolaresca: tutto un reggimento di banchi su quattro file, che si stendono sino in fondo; e ragazzette scure, curve, delle quali si vede soltanto il nodo dei capelli lisci o la treccia penzolante, stretta come una corda, pochi vestiti chiari, soltanto quelli delle alunne di scuole come la nostra: spiccano i nastri verdi, al collo delle convittrici di Villeneuve. Un gran silenzio rotto dal leggero fruscìo dei foglietti voltati, da un sospiro di stanchezza... Finalmente Roubaud piega il Moniteur du Fresnois sul quale si è un po' assopito, e tira fuori l'orologio: "E' ora, signorine, ritiro i fogli!". Si leva qualche debole gemito, le ragazzine che non hanno finito si agitano, chiedono cinque minuti di grazia che vengono concessi; poi quei signori ritirano i fogli e ci lasciano. Ci alziamo tutte, ci stiriamo, sbadigliamo, e immediatamente si riformano i gruppi prima di arrivare in fondo alle scale; Anaïs si precipita verso di me: "Che cosa hai scritto? Come hai incominciato?". "Mi annoi, credi che abbia imparato a memoria tutto quello che ho scritto!" "Ma la tua brutta copia?" "Non l'ho fatta; ho soltanto aggiustato qualche frase prima di scriverla." "Cara mia, come ti sgrideranno! Io ho portato via la brutta copia per farla vedere alla signorina." Anche Marie Belhomme ha portato via la brutta copia, e così Luce e le altre; e d'altronde tutte; lo si fa sempre. Nel cortile ancora tiepido per il sole che si è ritirato, la signorina Sergent legge un romanzo, seduta su un basso muretto: "Ah, eccovi finalmente! Datemi subito le brutte copie, vediamo se non avete fatto troppe sciocchezze". Le legge, e decreta: quello di Anaïs "non c'è male", sembra; Luce "ha buone idee" (perdinci, le mie) "non abbastanza sviluppate"; Marie "ha sbrodolato l'argomento, come sempre"; quelli delle Jaubert "più che sufficienti". "La sua brutta copia, Claudine?" "Non l'ho fatta." "Bimba mia, bisogna essere pazzi! Non far la brutta copia il giorno dell'esame! Non ho più speranza che lei faccia mai qualcosa di ragionevole... Insomma, è brutto il suo compito?" "Ma no, signorina, non lo credo brutto." "Quanto merita: diciassette?" "Diciassette? Oh, signorina, la modestia m'impedisce... Diciassette è molto... Ma insomma mi daranno ben diciotto!" Le compagne mi guardano con una malevolenza invidiosa: "Questa Claudine ha la gran fortuna di poter prevedere il suo voto! Diciamo subito che non ha alcun merito, una disposizione naturale e null'altro; fa un componimento come si fa un uovo al tegamino... e avanti!". Intorno a noi le candidate cinguettano in tono acuto e mostrano la brutta copia alle maestre, e prorompono in esclamazioni, ed esprimono il rimpianto di aver dimenticato un'idea... un pigolìo di passerotti in una uccelliera. La sera, invece di scappare in città, distesa sul letto accanto a Marie Belhomme, chiacchiero con lei di questa grande giornata. "La mia vicina di destra" mi racconta Marie "viene da un collegio di monache; figurati, Claudine, che stamattina, mentre distribuivano i fogli prima del dettato, si era tirata fuori di tasca un rosario che sgranava sotto il banco; sì, cara mia, un rosario con certi grossi grani tondi tondi, una specie di pallottoliere tascabile. Lo faceva perché le portasse fortuna." "Via! Se non fa bene, non fa neppure male... Che cos'è questo rumore che si sente?" Si sente, mi pare, un gran fracasso nella camera dirimpetto alla nostra, quella dove dormono Luce e Anaïs. si apre la porta con violenza; Luce, in camicia corta, si precipita in camera, smarrita: "Ti prego, difendimi: Anaïs è così cattiva!...". "Che cosa ti ha fatto?" "Prima mi ha rovesciato dell'acqua negli stivaletti, e poi, a letto, mi ha dato pedate e pizzicotti nelle cosce, e quando mi sono lamentata mi ha detto che potevo dormire sullo scendiletto, se non ero soddisfatta!" "Perché non chiami la signorina?" "To', chiamare la signorina! Sono andata sino alla porta della sua camera: non c'è; e la ragazza che passava nel corridoio mi ha detto che è uscita con la padrona... Ora, che cosa devo fare?" Piange, povera bimbetta! Così piccolina con la camicia da giorno che lascia vedere le braccia sottili e le belle gambe. Completamente nuda, e col viso velato, sarebbe di certo molto seducente. (Due buchi per gli occhi, forse?) Ma non è il momento di decidere su questo argomento: salto a terra, corro nella camera dirimpetto. Anaïs occupa il centro del letto, con la coperta tirata fin sul mento; ha la sua grinta peggiore. "Be', che cosa ti piglia? Non vuoi permettere a Luce di dormire con te?" "Non dico questo; soltanto vuole occupare tutto il posto, allora l'ho spinta via." "Sono frottole! Le dài i pizzicotti, e le hai versato l'acqua negli stivaletti." "Mettila a dormire con te, se vuoi, io non ci tengo." "Tuttavia ha la pelle più fresca di te! E' vero che non ci vuole molto." "Andiamo, andiamo, si sa bene che la piccola ti piace quanto la grande!" "Aspetta, bimba mia, ti farò cambiare d'idea." In camicia, come sono, mi getto sul letto, strappo le lenzuola, afferro Anaïs la lunga per i piedi, e quantunque mi si aggrappi silenziosamente con le unghie alle spalle, la tiro giù dal letto, supina, sempre tenendole le zampe con le mani, e chiamo: "Marie, Luce, venite a vedere!". Accorre a piedi nudi una piccola processione di camicie bianche. Si affannano: "Ohi, là, separatele! Chiamate la signorina!". Anaïs non grida, agita le gambe e mi lancia sguardi feroci, affannata a nascondere quello che io metto in vista, trascinandola per terra: cosce gialle, un deretano a pera. Ho tanta voglia di ridere che ho paura di lasciarla cadere. Spiego: "Succede che Anaïs la lunga, che tengo stretta, non vuole permettere alla piccola Luce di dormire con lei, le dà pizzicotti, le versa acqua negli stivaletti, e io voglio che stia tranquilla". Silenzio e gelo. Le Jaubert sono troppo prudenti per dare torto a una di noi due. Finalmente lascio andare le caviglie di Anaïs che si rialza e abbassa la camicia precipitosamente. "Adesso va' a letto e cerca di lasciar stare quella ragazzina, altrimenti ti darò tante botte che ti bruceranno la pelle." Sempre muta e furiosa, corre verso il letto, vi si nasconde col naso contro la parete. E' di una incredibile vigliaccheria e non teme che le botte. Mentre i piccoli fantasmi bianchi tornano nelle varie camere, Luce si corica timidamente accanto alla persecutrice, che ora sta ferma come un masso. (La mia protetta mi ha detto l'indomani che Anaïs non si era mossa tutta la notte se non per far cadere a terra il guanciale, dalla rabbia.) Nessuno parla di questo incidente alla signorina Sergent. Eravamo già abbastanza preoccupate per la giornata che avremmo trascorso l'indomani! Prova di aritmetica e di disegno; e, la sera, affissione dei nomi delle candidate ammesse all'orale. NOTE: (12) Lucien Muhlfeld: romanziere e critico dell'écho de Paris (1870-1902). [N.d.T.] (13) In Francia la numerazione delle classi è in senso inverso: si comincia dalla terza. [N.d.T.] (14) Eugène Manuel (18231901), poeta e letterario. [N.d.T.] (15) Gioco di parole su una celebre frase delle Furberie di Scapin, commedia di Molière (1622-1673). Scapin, per spillare quattrini al padre del suo giovane padrone, gli racconta che il figlio, salito a bordo di una galera ancorata al porto, è stato rapito da malviventi che ne chiedono un forte riscatto. Il padre ripete, lamentandosi: "Ma che cosa è andato a fare in quella maledetta galera!". [N.d.T.] (16) Vaugelas (1595-1650), grammatico, fu il primo grande codificatore della lingua francese. Nelle Donne sapienti di Molière, Crisale difende la cuoca Martina che Belise voleva scacciare sentendosi offesa dalle sue improprietà di linguaggio. Crisale dice: "Che importa che tradisca le leggi di Vaugelas, se sa cucinar bene?". [N.d.T.] Prendiamo rapidamente la cioccolata e scappiamo a precipizio. Alle sette fa già caldo. Avendo acquistato ormai una certa familiarità, prendiamo posto da sole e chiacchieriamo con decoro e moderazione, in attesa di quei signori. Ci sentiamo già più a nostro agio, ci infiliamo, senza urtarci, fra il sedile e il banco; disponiamo davanti a noi la matita, la penna, le gomme e i temperini con aria familiare; d'altronde è molto naturale. Quasi quasi affetteremmo troppa confidenza. Entrano gli arbitri del nostro destino. Hanno già perso un po' del loro prestigio: le meno timide li guardano tranquillamente, come vecchie conoscenze. Roubaud, che sfoggia un finto panama col quale si crede elegantissimo, s'impazientisce, molto agitato: "Andiamo, signorine, andiamo! Siamo in ritardo, questa mattina, bisogna riguadagnare il tempo perduto". Questa è bella! Fra poco sarà colpa nostra se non hanno potuto alzarsi di buon mattino. Presto, presto, i fogli vengono distribuiti sui banchi; presto sigilliamo l'angolo, per nascondere il nome; presto il frettoloso Roubaud rompe il sigillo della grande busta gialla, col timbro dell'ispettorato scolastico, e ne tira fuori i temibili problemi: ""Prima domanda - Un privato ha comperato una rendita del 3,5% al tasso di fr. 94.60, eccetera"". Possa la grandine bucargli il finto panama! Le operazioni di borsa mi straziano: vi sono delle mediazioni e degli 1/800%, che faccio una gran fatica a non dimenticare. ""Seconda domanda - La divisibilità per 9." Avete un'ora." Non è troppo, veramente. Per fortuna, la divisibilità per nove l'ho studiata tante volte che ho finito per ricordarla. Ma bisognerà che riordini tutte le condizioni necessarie e sufficienti, che scocciatura! Le altre candidate sono già assorte, attente; un leggero sussurrìo di cifre, di calcoli fatti a voce bassa, corre al di sopra delle teste curve. ...E' finito questo problema. Dopo aver rifatto due volte ogni operazione (sbaglio così spesso!) ottengo un risultato di ventiduemilaottocentocinquanta franchi, quale utile di quel signore: un bel guadagno! Ho fiducia in questa cifra tonda è rassicurante, ma tuttavia voglio avere l'appoggio di Luce, che maneggia le cifre in modo magistrale. Parecchie candidate hanno finito, e vedo che quasi tutte hanno la faccia contenta. La maggior parte di queste ragazzine, figlie di contadini avidi o di abili operaie, hanno d'altronde il dono dell'aritmetica in modo tale che mi ha spesso sbalordito. Potrei interrogare la mia bruna vicina, che ha finito anche lei, ma diffido dei suoi occhi seri e discreti; faccio dunque una pallina che vola e cade sul naso di Luce, portando la cifra "22.850". La piccina, allegramente, mi fa cenno di sì col capo: va bene. Soddisfatta, domando allora alla mia vicina: "Quanto le "dà"?". Lei esita e mormora, riservata: "Risulta più di ventimila franchi". "Anch'io; ma quanto in più?" "Caspita... Più di ventimila..." "Eh, non le chiedo di prestarmeli! Si tenga i suoi ventiduemilaottocentocinquanta franchi, non è la sola ad avere la soluzione esatta; lei assomiglia sotto diversi aspetti a una formica nera!" Attorno a noi alcune ridono; la mia interlocutrice, che non si è neppure offesa, incrocia le mani e abbassa gli occhi. "Avete finito, signorine?" grida Roubaud. "Vi ridò la libertà, siate puntuali per la prova di disegno." Alle due meno cinque ritorniamo all'ex istituto "Rivoire". Che disgusto e che voglia di andarmene mi ispira la vista di questo carcere in rovina! Nel punto più illuminato della classe, Roubaud ha disposto due file di sedie in cerchio; nel centro di ciascuna, un trespolo da scultore. Che cosa vi poseranno sopra? Siamo tutt'occhi. L'esaminatore ^factotum sparisce e ritorna portando due caraffe di vetro col manico. Prima che le posi sui trespoli, tutte le scolare borbottano: "Cara mia, come sarà difficile per la trasparenza!". Roubaud parla: "Signorine, avete la facoltà, per la prova di disegno, di disporvi come vi pare. Riproducete questi due vasi," (fango sarai tu! (17)) "col tratteggio, lo schizzo a carboncino, rifinito con la matita "Conté", con la proibizione formale di servirsi di una riga o di qualunque cosa che le assomigli. I cartoni, che dovete avere portato tutte, vi serviranno da tavole da disegno". Non ha ancora finito che mi precipito già sulla sedia che ho adocchiato, un posto magnifico, dal quale si vede la caraffa di profilo, col manico da una parte; parecchie mi imitano e mi trovo fra Luce e Marie Belhomme. "Proibizione formale di servirsi della riga per le linee fondamentali?" Macché, si sa che cosa significa! Le mie compagne e io abbiamo di riserva certe strisce di carta rigida, lunghe un decimetro e divise in centimetri, facilissime da nascondere. E' permesso di chiacchierare, ma ne approfittiamo poco; preferiamo far smorfie, il braccio teso, chiudendo un occhio, per prendere le misure col porta-lapis. Con un po' di abilità, è semplicissimo tracciare con la riga le linee fondamentali (due tratti che tagliano il foglio in croce e un rettangolo per richiudere la pancia della brocca). Nell'altro circolo di sedie un mormorìo improvviso, esclamazioni soffocate, e la voce severa di Roubaud: "Basta questo, signorina, per farla escludere dall'esame!". E' una povera piccina, striminzita e mingherlina, che si è lasciata pescare un doppio decimetro fra le mani, e ora singhiozza nel fazzoletto. Subito Roubaud diventa molto indiscreto e ci sorveglia da vicino; ma le strisce di carta con le misure sono sparite come per incanto: d'altronde non ne abbiamo più bisogno. La mia caraffa riesce meravigliosamente, ben panciuta. Mentre la guardo con compiacenza, il nostro sorvegliante, distratto dalla timida entrata delle maestre che vengono a informarsi "se in generale i componimenti sono buoni", ci lascia sole, e Luce mi tira pian piano: "Dimmi, per piacere, se il mio disegno va bene; mi sembra che ci sia qualcosa che non va". Dopo averlo esaminato, le spiego: "Perbacco, ha il manico troppo basso; gli dà l'aspetto di un cane frustato che abbassi la coda". "E la mia?" domanda Marie dall'altra parte. "La tua ha una gobba a destra; mettile un busto ortopedico." "Un che cosa?" "Dico che devi metterle un po' d'imbottitura a sinistra, ha "protuberanze" solo da una parte; chiedi ad Anaïs di prestarti una delle sue poppe finte." (Anaïs la lunga si mette due fazzoletti nella cavità del busto, e tutti i nostri frizzi non sono serviti a deciderla a tralasciare questa imbottitura puerile.) Questo chiacchierìo suscita nelle mie vicine una ilarità smodata: Luce si rovescia sulla sedia, ridendo e mettendo in mostra tutti i denti candidi della boccuccia felina. Marie gonfia le guance come sacchi da cornamuse; poi tutt'e due si fermano impietrite nel bel mezzo della loro allegria, perché il terribile paio di occhi fiammeggianti della signorina Sergent le fa restare di sasso, guardandole dal fondo della sala. E la seduta finisce in un silenzio assoluto. Ci mandano fuori, febbricitanti e chiassose all'idea che questa sera verremo a leggere, su un grande cartello inchiodato alla porta, i nomi delle candidate ammesse agli orali di domani. La signorina Sergent ci trattiene a stento; chiacchieriamo in modo insopportabile. "Verrai a vedere i nomi, Marie?" "No, perbacco! Se non ci fosse il mio, le altre riderebbero di me." "Io" dice Anaïs "ci verrò! Voglio vedere le facce di quelle che non saranno ammesse." "E se tu fossi una di quelle?" "Be', non porto il nome scritto sulla fronte e saprei fare una faccia contenta perché le altre non assumessero un'aria compassionevole." "Basta! Mi fate venire male alla testa," interviene bruscamente la signorina Sergent "vedrete quello che vedrete, e state attente che non venga io sola, questa sera, a leggere i nomi sulla porta. Prima di tutto, non rientriamo all'albergo, non ho voglia di fare due volte in più questa camminata: pranziamo in trattoria." Chiede una sala riservata. In quella specie di gabinetto da bagno che ci assegnano, dove la luce filtra tristemente dall'alto, la nostra effervescenza si spegne; mangiamo come altrettanti lupacchiotti, senza parlare quasi mai. E, calmata la fame, domandiamo, ora l'una ora l'altra, ogni dieci minuti che ore sono. La signorina tenta invano di calmare il nostro nervosismo, assicurando che le candidate sono troppo numerose perché quei signori abbiano potuto leggere tutti i componimenti prima delle nove; fremiamo ugualmente. Non si sa più che cosa fare in questa cantina! La signorina Sergent non vuole accompagnarci fuori; lo so perché: la guarnigione è in libera uscita a quest'ora, e quei bellimbusti in calzoni rossi non hanno soggezione. Già, mentre venivamo a pranzare, il nostro piccolo gruppo era scortato da sorrisi, scoppiettii di lingua e schiocchi di baci; queste manifestazioni esasperano la direttrice, che fulmina con gli sguardi gli audaci fantaccini; ma ci vorrebbe altro per farli stare a posto! Il sole che cala e la nostra impazienza ci rendono scontrose e cattive; Anaïs e Marie si sono già scambiate rispostacce pungenti con gesti aspri da galline che lottano; le due Jaubert sembrano meditare sulle rovine di Cartagine, e io ho respinto con una rude gomitata la piccola Luce che voleva farsi carezzare. Per fortuna, la signorina, irritata quasi quanto noi, suona il campanello e chiede la luce e due mazzi di carte. Che buona idea! Il chiarore dei due becchi a gas ci rialza un po' il morale, e i mazzi di carte ci fanno sorridere. "Suvvia, un "trentuno"!" Macché! Le due Jaubert non sanno giocare! Ebbene, continuino a riflettere sulla fragilità del destino umano; giocheremo disperatamente, noi altre, mentre la signorina legge i giornali. Ci divertiamo, giochiamo male. Anaïs bara. E alle volte ci fermiamo a metà della partita, coi gomiti sulla tavola, il viso sconvolto, per domandare: "Che ora sarà?". Marie esprime il parere che, siccome è buio, non si potranno leggere i nomi. Bisognerebbe portare dei fiammiferi. "Cretina, ci saranno i fanali." "Ah, sì... Ma se non ce ne fossero proprio in quel punto?" "Be'," dico a bassa voce "ruberò una candela dai candelabri del caminetto, e tu porterai i fiammiferi. Giochiamo... Il fante di fiori e due assi!" La signorina Sergent tira fuori l'orologio; non le togliamo gli occhi di dosso. Si alza; noi la imitiamo così bruscamente che cade qualche sedia. Riafferrate dall'entusiasmo, andiamo a prendere i cappelli a passo di danza, e, guardandomi nello specchio per mettermi il mio, rubo una candela. La signorina Sergent si dà un gran da fare per impedirci di correre; i passanti ridono di questa fila di ragazze che si sforzano di non galoppare, e noi ridiamo loro in faccia. Finalmente la porta risplende ai nostri occhi. Dicendo che risplende, faccio della letteratura... Eppure è vero che non c'è fanale. Davanti a questa porta chiusa, un'infinità di ombre si agitano, gridano, saltano dalla gioia o si lamentano: sono le nostre concorrenti delle altre scuole; un brusco e rapido accendersi di fiammiferi subito spenti, fiamme vacillanti di candele rischiarano un gran foglio bianco, inchiodato sulla porta. Noi ci precipitiamo, scatenate, spingendo violentemente a gomitate le piccole ombre che si muovono. Nessuno bada a noi. Tenendo la candela rubata più dritta che posso, leggo, indovino, guidata dalle iniziali in ordine alfabetico: Anaïs, Belhomme, Claudine, Jaubert, Lanthenay. "Tutte, tutte!" Che gioia! E ora verifichiamo i punti. Il minimo di punti richiesto è quarantacinque; il totale è scritto a fianco dei nomi, fra parentesi i singoli voti. La signorina Sergent, entusiasta, si copia sul taccuino: "Anaïs, 65; Claudine, 68; quanto alle Jaubert? 63 e 64. Luce, 49; Marie Belhomme, 44 1/2. Come 44 1/2? Ma allora lei non è ammessa? Che cosa mi state a raccontare?" "No, signorina," osserva Luce che è andata a verificare "è 44 3/4: è ammessa con un quarto di punto in meno: è una gentilezza di quei signori." La povera Marie, molto affannata per la terribile paura che ha provato, tira un gran sospiro. Hanno fatto bene quelli là a concederle un quarto di punto, ma ho paura che si confonda all'orale. Anaïs, quella cattivaccia, passato il primo istante di gioia, fa luce, caritatevolmente, alle nuove arrivate, innaffiandole di cera liquefatta. La signorina non riesce a calmarci, neppure dandoci la doccia fredda di questa sinistra profezia: "Le vostre pene non sono ancora finite, vorrei vedervi domani sera dopo l'orale". A fatica ci riaccompagna all'albergo: saltelliamo e canticchiamo sotto la luna. E la sera, quando la direttrice è coricata e addormentata, Anaïs, Luce, Marie e io (senza le Jaubert, s'intende) scendiamo dal letto per ballare pazzamente, coi capelli che rimbalzano sulle spalle, tirando su la camicia come per un minuetto. Poi, in seguito a un rumore immaginario proveniente dalla camera dove riposa la signorina, le ballerine di questa sconveniente quadriglia scappano con fruscii di zampette nude e risa soffocate. L'indomani mattina, svegliatami troppo presto, corro a "far paura" alla coppia Anaïs-Luce, che dorme con un'espressione assorta e coscienziosa: faccio il solletico coi miei capelli sul naso di Luce, che starnuta prima di aprire gli occhi, e la sua agitazione sveglia Anaïs che brontola e si siede mandandomi al diavolo. Io esclamo con gran serietà: "Ma non sai che ore sono? Le sette, cara mia, e l'orale è alle sette e mezzo". Lascio che si precipitino giù dal letto, che s'infilino le scarpe, e aspetto che queste siano abbottonate per dire che sono soltanto le sei, che avevo visto male. Non sono tanto seccate quanto avevo sperato. Alle sette meno un quarto, la signorina Sergent ci sprona, affretta la colazione a base di cioccolata, ci consiglia di dare un'occhiata ai riassunti di storia, mentre mangiamo le tartine, ci spinge ancora stordite nella via soleggiata: Luce munita dei polsini scribacchiati a lapis, Marie col tubetto di carta arrotolata, Anaïs col minuscolo atlante. Si aggrappano a queste piccole tavole di salvezza, più ancora di ieri, perché oggi bisognerà parlare, parlare a quei signori che non conosciamo, parlare davanti a trenta paia di orecchie malevole. Solo Anaïs ha un contegno sicuro; non sa che cosa sia essere timida. Nel vecchio cortile, le candidate sono oggi molto meno numerose: ne sono rimaste tante per strada fra lo scritto e l'orale! (E' un bene: quando ne passano molte agli scritti, ne bocciano molte agli orali.) La maggior parte, palliducce, sbadigliano nervosamente e si lamentano, come Marie Belhomme, di sentirsi contrarre lo stomaco... che brutta tremarella! Si apre la porta davanti agli "uomini neri"; noi li seguiamo in silenzio sin dentro la sala superiore, oggi sgombrata da tutte le sedie; ai quattro angoli, dietro le lavagne, o ex lavagne, siede un esaminatore, serio, quasi lugubre. Mentre osserviamo questa messa in scena, curiose e timorose, ammassate all'entrata, intimidite dalla grande distanza da percorrere, la signorina ci spinge: "Andate, andate dunque! Mettete le radici qui?". Il nostro gruppo si fa avanti più coraggioso, in un plotone; papà Sallé, gottoso e rattrappito, ci guarda senza vederci, inverosimilmente miope; Roubaud, gli occhi distratti, si gingilla con la catena dell'orologio; il vecchio Lerouge attende pazientemente e consulta la lista dei nomi; e nel vano di una finestra spicca una donna grassa e bonacciona, che d'altronde è zitella, la signorina Michelot, con i solfeggi davanti a lei. Stavo per dimenticarne un altro, lo scontroso Lacroix, che brontola, alza le spalle, furente, sfogliando i suoi libri, e sembra che litighi con se stesso; le piccole, spaventate, dicono fra sé che deve essere "terribilmente cattivo". E' lui che si decide a borbottare un nome: "La signorina Aubert!". Colei che risponde al nome di Aubert, una ragazza troppo alta, flessuosa e curva, s'impenna come un cavallo, guarda con occhi loschi e subito diventa cretina per l'ansia di fare bella figura, si slancia avanti, strillando con voce da trombetta e un forte accento campagnolo: "Sson qua, segnor!". Scoppiamo tutte a ridere, e questo riso, che non abbiamo pensato di trattenere, ci rianima e ci incoraggia. Quel bulldog di Lacroix ha aggrottato le ciglia, quando quella disgraziata ha pronunciato il suo "Sson qua!" di disperazione, e le ha risposto: "Chi le dice il contrario?". Quindi lei è in uno stato da fare pietà. "Signorina Vigoureux!" chiama Roubaud, che prende l'alfabeto per la coda. Si precipita una ragazza piccola e grassa; ha il cappello bianco, inghirlandato di margherite, della scuola di Villeneuve. "Signorina Mariblom!" strilla papà Sallé, che crede di incominciare l'alfabeto dal mezzo e legge a rovescio. Marie Belhomme si avanza rossa rossa, e siede sulla sedia in faccia a papà Sallé; egli la guarda fisso e le domanda se sa che cosa sia l'Iliade. Luce, dietro a me, sospira: "Almeno lei ha cominciato, tutto sta a incominciare". Le candidate in attesa, fra le quali ci sono anch'io, si disperdono timidamente, si sparpagliano e vanno ad ascoltare le compagne che vengono interrogate. Io vado ad assistere all'esame della piccola Aubert, per mettermi di buon umore. Nel momento in cui mi avvicino, papà Lacroix le domanda: "Allora lei non sa chi aveva sposato Filippo il Bello?". Essa ha gli occhi fuori dalla testa, il viso rosso e lustro di sudore; i mezzi guanti lasciano passare certe dita grosse come salsicce: "Aveva sposato... no, non si era sposato. Segnore, segnor professore," grida a un tratto "ho dimenticato tutto!". Trema, grosse lacrime le rigano il volto. Lacroix la guarda, cattivo come un demonio: "Ha dimenticato tutto? Con quello che le resta, si prende un bello zero". "Sì, sì," balbetta "ma non importa, preferisco tornarmene a casa mia, non importa..." La portano via, che ha il singhiozzo a furia di piangere dirottamente, e dalla finestra la sento dire, fuori, alla propria maestra mortificata: "Ma sì che preferisco custodire le vacche a casa mia, e mai più che prenderò il treno delle due". Nell'aula le sue compagne parlano dello "spiacevole incidente", serie e sprezzanti: "Cara mia, non ti pare che sia una gran cretina?... Cara mia, se mi avessero fatto una domanda così facile, sarei stata ben felice, cara!". "Signorina Claudine!" Mi chiama il vecchio Lerouge. Ahimè! L'aritmetica... E' una fortuna che abbia un'aria paterna... Vedo subito che non mi nuocerà. "Vediamo, figlia mia, mi dirà ben qualcosa sui triangoli rettangoli?" "Sì, professore, sebbene loro non mi dicano un gran che." "Via, via! Li vuol far passare per più cattivi di quanto siano. Vediamo, mi costruisca un triangolo rettangolo su questa lavagna e gli dia le dimensioni; poi mi farà il piacere di parlarmi del quadrato dell'ipotenusa..." Bisognerebbe tenerci proprio, per riuscire a farsi bocciare da un uomo come questo! Quindi sono più mansueta di un agnellino dal collare rosa, e dico tutto quello che so. E' presto fatto d'altronde. "Ma va benissimo! Mi dica anche come si riconosce che un numero è divisibile per nove, e la lascio libera." Io spiattello: "La somma delle cifre... condizione necessaria... sufficiente". "Se ne vada, figlia mia, basta." Mi alzo respirando di sollievo, trovo dietro di me Luce che dice: "Sei fortunata, ne sono contenta per te". Ha detto queste parole gentilmente: per la prima volta le accarezzo il collo senza malizia. Bene, ancora io! Non si ha il tempo di respirare! "Signorina Claudine!" E' quel porcospino di Lacroix, l'atmosfera si scalda! Prendo posto, ed egli mi guarda al di sopra delle lenti e dice: "Ah, mi parli della guerra delle Due Rose!". Patatrac! Sono spacciata sin dal primo colpo! Non so dire quindici parole sulla guerra delle Due Rose. Dopo i nomi dei capi dei due partiti, mi fermo. "E poi? E poi? E poi?" Mi irrita, sbotto a dire: "E poi hanno combattuto come forsennati per molto tempo, ma il resto mi è sfuggito dalla memoria". (Mi guarda stupefatto. Di certo mi tirerà qualcosa addosso!) "E' così che impara la storia, lei?" "Puro sciovinismo, professore! M'interessa soltanto la storia di Francia." Fortuna insperata: ride! "Preferisco avere a che fare con le impertinenti che con le cretine. Mi parli di Luigi XV (1742)." "Ecco. Era il tempo in cui la signora de la Tournelle esercitava su di lui un'influenza deplorevole..." "Perdinci, non le domando questo!" "Scusi, professore, non è una mia invenzione, è la pura verità... I migliori storici..." "Come? I migliori storici?..." "Sì, professore, l'ho letto in Michelet con tutti i particolari!" "Michelet! Ma è una pazzia! Michelet, capisce bene, ha scritto un romanzo storico in venti volumi e ha osato chiamarlo La storia di Francia! E lei viene a parlarmi di Michelet!..." E' infuriato, picchia sulla tavola; gli tengo testa; le giovani candidate sono impietrite attorno a noi, stentano a credere alle proprie orecchie; la signorina Sergent si è avvicinata ansante, pronta a intervenire. Quando mi sente dichiarare: "Michelet è però meno scocciatore di Duruy!...". Si butta addosso alla tavola e protesta angosciosamente: "Professore, la prego di perdonare... questa ragazza ha perso la testa: si ritirerà subito...". Egli la interrompe, si asciuga la fronte e sbuffa: "Lasci, signorina, non importa: ci tengo alle mie opinioni, ma mi piace che gli altri tengano alle loro; questa ragazza ha idee false e ha fatto cattive letture, ma non difetta di personalità... si vedono tante oche!... Solamente lei, lettrice di Michelet, cerchi di dirmi come andrebbe, in battello, da Amiens a Marsiglia, o le affibbio un due del quale si accorgerà!". "Partita da Amiens, imbarcandomi sulla Somme, risalgo... eccetera... i canali... eccetera... e arrivo a Marsiglia; solamente, dopo un periodo di tempo che varia dai sei mesi ai due anni." "Questo non è affar suo. Sistema orografico della Russia, e presto." (Ahimè! Non posso dire di brillare particolarmente per la conoscenza del sistema orografico della Russia, ma me la cavo abbastanza bene, eccetto per qualche lacuna che sembra deplorevole all'esaminatore.) "E i Balcani, lei li sopprime, allora?" (Quest'uomo parla con la velocità di un razzo.) "Ma no, professore, li serbavo per ultimi." "Va bene, se ne vada." Fanno ala al mio passaggio con un po' d'indignazione. Quelle care piccine! Mi riposo, non mi chiamano, e sento con spavento Marie Belhomme che risponde a Roubaud che, "per preparare l'acido solforico, si versa l'acqua sulla calce che si mette a ribollire; allora si raccoglie il gas in un pallone". Ha l'espressione di quando prende le più grosse cantonate e fa le stupidaggini più irreparabili: le mani enormi, lunghe e strette, si appoggiano sulla tavola; gli occhi di stupido uccello brillano e ruotano; sta sciorinando, con straordinaria volubilità, idiozie mostruose. Non c'è nulla da fare, anche se le si suggerisse all'orecchio, non sentirebbe! Anaïs l'ascolta anch'essa, e si diverte con tutto il suo buon animo. Le domando: "Che esami hai già fatto?". "Canto, storia, geografia..." "E' cattivo, il vecchio Lacroix?" "Sì, com'è esigente! Ma mi ha fatto un mucchio di domande facili: la guerra dei Trent'anni, i trattati... Dimmi un po', Marie sta perdendo la bussola!" "Perdere la bussola è un'espressione che mi sembra insufficiente." La piccola Luce, commossa e scapigliata, viene verso di noi: "Ho fatto l'esame di geografia e di storia, ho risposto bene. Ah, come sono contenta!". "Sei qui, buona a nulla? Io vado a bere alla pompa, non resisto più, chi viene con me?" Nessuna; non hanno sete o hanno paura di mancare a un appello. In una specie di parlatorio, giù, trovo la scolara Aubert, con le guance ancora chiazzate del rossore della disperazione di poco prima e gli occhi gonfi; scrive alla famiglia su un tavolino, tranquilla e contenta, ora, di tornare nella fattoria. Le dico: "Ebbene, non ha proprio voluto sapere nulla poco fa?". Alza su di me degli occhi da vitello: "A me tutte 'ste cose fan paura e me rimescolano 'l sangue. Mamma m'ha messa in collegio, papà non voleva, diceva ch'ero bbona a bbadà alla casa come le sorelle e da fa' 'l bucato e zappà in giardino, ma mamma non ha voluto, ed è lei che l'ha vinta. M'hanno fatto ammalà, a forza di farme studiare e vede quel ch'è successo oggi. L'avevo indovinato! Adesso me crederanno!". E si rimette a scrivere tranquilla. Lassù, nella sala, fa un caldo da morire; quelle ragazzine, quasi tutte rosse e lustre (è una fortuna che io non abbia la pelle rossa per natura!), hanno perso la testa, coi nervi tesi, aspettano di essere chiamate, con l'ossessione di rispondere sciocchezze. Non suonerà presto mezzogiorno, sì che possiamo andarcene? Anaïs ritorna dall'esame di fisica e chimica; non è rossa, come potrebbe esserlo? Credo che in una caldaia bollente resterebbe gialla e fredda. "Allora, va bene?" "Se Dio vuole, ho finito. Sai che per giunta Roubaud interroga in inglese; mi ha fatto leggere frasi e tradurre; non so perché si sbellicava dalle risa quando leggevo in inglese. Che cretino!" E' la pronuncia! Sfido, ho il dubbio che la signorina Aimée Lanthenay, che ce lo insegna, non parli l'inglese con eccessiva purezza. Cosicché, fra poco, quell'imbecille del professore mi prenderà in giro perché non pronuncio meglio di lei! Eccone un'altra di bella! Sono furente al pensiero che quell'idiota riderà di me. Mezzogiorno. Quei signori si alzano, e noi ci abbandoniamo al solito strepito di quando si lascia l'aula. Lacroix, spinoso e con gli occhi fuori dalla testa, annuncia che questo divertimento ricomincerà alle due e mezzo. La signorina ci pesca a stento fra il turbinìo delle ragazzine chiacchierone e ci conduce al ristorante. Mi tiene ancora il broncio per la "riprovevole condotta con papà Lacroix; ma non me ne importa! Il caldo è opprimente, sono stanca e senza voce... Ah, i boschi, i cari boschi di Montigny! A quest'ora so bene come mormorano: le vespe e le mosche che succhiano i fiori dei tigli e dei sambuchi fanno vibrare tutta la foresta come un organo; e gli uccelli non cantano, perché a mezzogiorno stanno ritti sui rami, cercano l'ombra, si lisciano le penne e guardano il sottobosco con occhi mobili e lucenti. Me ne starei coricata, sull'orlo dell'abetaia donde si vede tutto il paese in basso, sotto di noi, col vento caldo che mi soffia in faccia, mezza sfinita di benessere e di pigrizia. ...Luce mi vede distratta, completamente assorta, e mi tira per la manica col sorriso più provocante. La signorina sta leggendo il giornale; le compagne, piuttosto insonnolite, si scambiano mezze frasi. Io gemo e Luce protesta sommessamente: "Però non mi rivolgi più la parola! Tutto il giorno facciamo gli esami, la sera andiamo a letto, e a tavola sei così di cattivo umore che non so più quando posso venire a cercarti!". "E' molto semplice: non cercarmi!" "Oh, come sei scortese! Non ti accorgi neppure di tutta la mia pazienza di aspettarti, di sopportare quel tuo modo di respingermi sempre..." Anaïs la lunga ride come una porta non unta, e la piccina s'interrompe molto intimidita. E' vero, però, che ha una pazienza tenace. E pensare che tanta costanza non le servirà a nulla, è triste, triste! Anaïs continua a seguire il proprio pensiero; non ha dimenticato le risposte incoerenti di Maria Belhomme, e, da quella birbona che è, domanda gentilmente alla disgraziata, inebetita e immobile: "Che domanda ti hanno fatto in fisica e in chimica?". "Non ha importanza," borbotta la signorina, stizzosa "comunque avrà risposto qualche sciocchezza." "Non lo so più," fa la povera Marie Belhomme, sconcertata "l'acido solforico, credo..." "E che cosa gli è andata a dire?" "Oh, per fortuna sapevo qualcosa, signorina; ho detto che si versava l'acqua sulla calce, che le bolle di gas che si formavano erano acido solforico..." "Ha detto questo?" chiede la signorina con la voglia di mordere... Anaïs si mangia le unghie dalla gioia. Marie, folgorata, non apre più la bocca, e la direttrice ci conduce via impettita, rossa, camminando con passo accelerato; le trotterelliamo dietro come cagnolini, e quasi quasi tiriamo fuori la lingua anche noi sotto questo sole opprimente. Non badiamo più alle nostre concorrenti forestiere, che neppure ci guardano a loro volta. Il caldo e il nervosismo ci tolgono ogni civetteria, ogni animosità. Le alunne della scuola superiore di Villeneuve - le "mele verdi", come le chiamano per il nastro verde che portano al collo, quell'orribile verde sfacciato, del quale i collegi hanno la specialità - affettano ancora atteggiamenti da santarelline e di disgusto, passando vicino a noi (perché? Non lo sapremo mai); ma tutto ciò si acquieta, si placa; pensiamo alla partenza dell'indomani, pensiamo con gioia che daremo la baia alle compagne bocciate, a quelle che non hanno potuto presentarsi agli esami a causa di una "debolezza generale". Come si pavoneggerà Anaïs la lunga, e parlerà della scuola normale come se fosse una sua proprietà! Puh, mi sembra di non poter mai dimostrare abbastanza il mio disprezzo. Finalmente ricompaiono gli esaminatori, si asciugano il sudore, sono brutti e lustri. Dio mio, non mi piacerebbe essere sposata in una stagione simile! Solo l'idea di andare a letto con un uomo che soffrisse il caldo come loro... (D'altronde, d'estate, avrei due letti...) E poi, in questa sala surriscaldata, c'è una puzza spaventosa; molte di queste ragazzine sono sporche sotto, di certo. Me ne andrei volentieri. Accasciata su una sedia, ascolto vagamente le altre aspettando il mio turno; vedo la scolara più fortunata di tutte che ha "finito" per prima. Ha subìto tutte le interrogazioni, respira, attraversa la sala, seguita dai rallegramenti, dall'invidia, da esclamazioni come questa: "Sei proprio fortunata, tu!". Ben presto la segue un'altra, la raggiunge nel cortile, dove le "liberate" si riposano e scambiano le loro impressioni. Papà Sallé, un po' sollevato con questo sole che gli riscalda la gotta e i reumatismi, si riposa, forzatamente, perché la scolara ch'egli sta aspettando è occupata altrove; se arrischiassi un attentato alla sua virtù? Mi avvicino pian piano e mi siedo sulla sedia davanti a lui. "Buongiorno, professor Sallé." Mi guarda, si accomoda gli occhiali, ammicca e non mi vede. "Claudine, non ricorda?" "Ah!... Ma come no! Buongiorno, cara; suo padre sta bene?" "Benissimo, grazie." "Dunque va bene l'esame? E' soddisfatta? Ha quasi finito?" "Ahimè, magari! Ma devo ancora fare l'esame di fisica e di chimica, quello di letteratura con lei, d'inglese e di musica. La signora Sallé sta bene?" "Mia moglie sta facendo un giro nel Poitou; farebbe meglio a curarmi, ma..." "Senta, professor Sallé, dato che sono qui, mi "liberi" dalla letteratura." "Ma non sono arrivato al suo nome, tutt'altro! Torni fra poco..." "Professor Sallé, che cosa importa?" "Importa, importa che mi stavo godendo un momento di riposo e me lo ero ben meritato. E poi non è nel regolamento: non si deve interrompere l'ordine alfabetico." "Professor Sallé, sia buono. Non mi domandi quasi nulla. Lei sa che ne so più di quanto esiga il programma, in fatto di libri di letteratura. Sono un topo della biblioteca di papà." "Eh... sì, è vero. Posso ben farlo per lei. Avevo l'intenzione di domandarle che cosa erano gli aedi e i trovadori e il Romanzo della rosa, eccetera..." "Stia tranquillo, professor Sallé. I trovadori li conosco: li vedo tutti sotto l'aspetto del piccolo "cantore fiorentino", così..." Mi alzo e ne imito la posa: col corpo appoggiato sulla gamba destra, mentre il parasole verde di papà Sallé mi serve da mandolino. Per fortuna siamo soli in questo angolo! Luce mi guarda da lontano e sta a bocca aperta dalla sorpresa. Questo povero gottoso si distrae un po', ride. "...Hanno un berretto di velluto, i capelli ricciuti, spesso anche un costume bipartito (color azzurro e giallo sta benissimo); col mandolino appeso a un cordone di seta, cantano quel piccolo brano del Passante: "Mia cara, ecco l'aprile...". E' così, professor Sallé, che immagino i trovadori. Abbiamo anche i trovadori del primo impero." "Figlia mia, lei è un po' pazza, ma mi distraggo con lei. Che cosa saranno mai quelli che lei chiama i trovadori del primo impero, santo cielo? Parli piano, piccola Claudine mia, se quei signori ci vedessero..." "Zitto, i trovadori del primo impero li conosco da certe canzoni che cantava papà. Stia a sentire." Canticchio sottovoce: D'amore ardente, pronto per la guerra,/ con l'elmo in capo e con la lira in mano,/ un trovadore alla sua pastorella/ partendo ripeteva il ritornello:/ Il mio braccio alla patria,/ Il mio cuore all'amata;/ lieto morir per la gloria e l'amore:/ e il ritornel del gaio trovadore!/ Papà Sallé ride di tutto cuore: "Dio mio, com'era ridicola quella gente! So benissimo che anche noi lo saremo altrettanto fra vent'anni, ma l'idea di un trovadore con l'elmo e la lira!... Scappi in fretta, figlia mia, se ne vada, avrà un bel voto, tanti saluti a suo padre, gli dica che ho molta simpatia per lui, e che insegna canzoni proprio belle a sua figlia!". "Grazie, professor Sallé, arrivederci; grazie ancora una volta di non avermi interrogata, non dirò nulla, stia tranquillo!" Ecco un brav'uomo! Mi ha ridato un po' di coraggio e ho un'aria così allegra che Luce mi domanda: "Dunque hai risposto bene? Che cosa ti ha domandato? Perché prendevi il suo parasole?". "Ah, ecco! Mi ha domandato cose molto difficili sui trovadori, sulla forma degli strumenti di cui si servivano; è una fortuna che sapessi tutti quei particolari!" "La forma degli strumenti... no veramente, tremo pensando che avrebbe potuto domandarlo a me! La forma degli... ma non è nel programma! Lo dirò alla signorina!" "Benissimo, faremo una protesta. Hai "finito" tu?" "Sì, grazie, ho finito. Ho un quintale di meno sullo stomaco, te lo assicuro; credo che solo Marie debba ancora far esami." "Signorina Claudine!" esclama una voce dietro a noi. Ah, ah, è Roubaud. Mi siedo davanti a lui, riservata e seria; si mostra gentile, è il professore mondano di questo ambiente; io parlo, ma mi tiene ancora il broncio, quell'astioso, perché ho respinto troppo in fretta il suo madrigale botticelliano. Con voce un po' irritata mi domanda: "Oggi non si è addormentata sotto le fronde, signorina?". "E' una domanda che fa parte del programma, professore?" (Tossicchia. Ho fatto una grossa corbelleria per tormentarlo. Pazienza!) "Mi vuol dire come farebbe per procurarsi un po' d'inchiostro?" "Dio mio, professore, ci sono tanti modi; il più semplice sarebbe ancora quello di andare a chiederlo dal cartolaio all'angolo..." "Questa spiritosaggine è divertente, ma non basterebbe a farle avere un bellissimo voto... Cerchi di dirmi con quali ingredienti farebbe l'inchiostro." "Noce di galla... tannino... ossido di ferro... gomma..." "Non sa le proporzioni?" "No." "Peggio per lei! Può parlarmi della mica?" "Non ne ho mai vista, se non nei portelli delle stufe." "Davvero? Peggio per lei ancora una volta! Di che cosa è fatta la mina delle matite?" "Di grafite, un minerale tenero che si sega a bacchettine e che si rinchiude nelle due metà di un cilindro di legno." "E' il solo uso della grafite?" "Non ne conosco altri." "Peggio per lei, sempre! Se ne fanno soltanto matite?" "Sì, ma se ne fanno molte; ve ne sono miniere in Russia, credo. In tutto il mondo si consuma una quantità straordinaria di matite, soprattutto gli esaminatori che schizzano il ritratto delle candidate sul loro taccuino..." (Arrossisce e si agita.) "Passiamo all'inglese." E aprendo una piccola raccolta di racconti di miss Edgeworth: "Mi traduca qualche frase". "Tradurre, sì, ma leggere... è un'altra cosa!" "Perché?" "Perché la nostra insegnante d'inglese ha una pronuncia ridicola; io non so pronunciare altrimenti." "Via, che cosa importa?" "Importa che non mi piace essere ridicola." "Legga un po', la farò smettere subito." Leggo, ma a voce bassissima, abbozzando appena le sillabe, e traduco le frasi prima di aver articolato le ultime parole. Roubaud, suo malgrado, scoppia dalle risa per la mia gran sollecitudine di non voler dimostrare l'insufficienza in inglese, e ho voglia di graffiarlo. Come se fosse colpa mia! "Va bene. Vuol dirmi qualche verbo irregolare con le forme dell'imperfetto e del participio passato?" "To see, vedere, saw, seen; to be, essere, was, been; to drink, bere, drank, drunk; to..." "Basta, grazie. Buona fortuna, signorina." "Lei è troppo gentile, professore." Ho saputo l'indomani che quell'elegante ipocrita mi aveva affibbiato un bruttissimo voto, tre punti sotto la media, di che farmi bocciare, se i voti degli scritti, soprattutto il componimento, non avessero perorato in mio favore. Va' a fidarti di quei sornioni vestiti pretenziosamente, che si lisciano i baffi e ti fanno il ritratto lanciandoti occhiate! E' vero che lo avevo irritato, ma fa lo stesso; i bulldogs franchi, come papà Lacroix, valgono cento volte di più! Liberata dalla fisica e dalla chimica come pure dall'inglese, mi siedo e mi accingo a mettere un po' di arte nel disordine dei miei capelli. Luce mi viene vicino, si arrotola con compiacenza i miei riccioli attorno al dito; è sempre una gatta che si strofina. Ha un bel coraggio, con questa temperatura. "Dove sono le altre, piccina?" "Le altre? Hanno finito tutte, sono giù nel cortile con la signorina, e ci sono anche quelle delle altre scuole che hanno finito." Il fatto è che la sala si sta vuotando rapidamente. Quella grassa bonacciona della signorina Michelot finalmente mi chiama. E' rossa e stanca da far pietà ad Anaïs stessa. Mi siedo; essa mi contempla senza dire nulla, con grandi occhi perplessi e bonari. "Lei... sa suonare, mi ha detto la signorina Sergent." "Sì, signorina, suono il piano." Esclama, alzando le braccia: "Ma allora ne sa molto più di me". (Le è uscito dal cuore; non posso fare a meno di ridere.) "Allora, senta, le farò leggere a prima vista e basta. Le cercherò qualcosa di difficile: riuscirà sempre a cavarsela." Il pezzo difficile che ha trovato è un esercizio abbastanza semplice, che, tutto in semicrome, con sette bemolli in chiave, le è sembrato "ostico" e pauroso. Io lo canto allegro vivace, circondata da un cerchio di ragazzine che mi ammirano, che sospirano d'invidia. La signorina Michelot dondola il capo e mi dà, senza insistere ulteriormente, un venti che fa stralunare l'uditorio. Uff, è dunque finita! Ritorneremo a Montigny, ritorneremo a scuola, correremo nei boschi, assisteremo ai sollazzi delle nostre maestre (povera piccola Aimée, deve languire sola soletta!). Scendo in cortile, la signorina Sergent non aspettava che me, e, vedendomi, si alza. "Ebbene! E' finita?" "Sì, grazie a Dio! Ho preso 20 in musica." "Venti in musica!" Lo hanno gridato in coro le compagne che non vogliono credere alle loro orecchie. "Non ci mancherebbe altro che lei non avesse venti in musica" dice la signorina con aria distaccata ma in fondo lusingata. "Però," soggiunge Anaïs, seccata e gelosa, "venti in musica, diciannove in componimento... se hai molti voti come questi!" "Sta' tranquilla, cara la mia figliola, l'elegante Roubaud mi avrà dato voti molto scarsi!" "Perché?" chiede la signorina, subito inquieta. "Perché non gli ho detto un gran che. Mi ha domandato con che legno si fanno i flauti, no, le matite, qualcosa di questo genere, e poi certe storie sull'inchiostro... e Botticelli, insomma non riuscivamo a intenderci, noi due." La direttrice si è rabbuiata. "Mi stupirebbe se lei non avesse fatto qualche corbelleria! Dovrà prendersela solo con se stessa, se sarà bocciata." "Eh, chi lo sa? Me la prenderò col maestro Antonin Rabastens; mi aveva ispirato una violenta passione e i miei studi ne hanno sofferto straordinariamente." Dopo questo Marie Belhomme dichiara, unendo le mani da levatrice, che se avesse un innamorato non lo direbbe così sfacciatamente. Anaïs mi guarda di sottecchi per capire se scherzo o no, e la signorina, alzando le spalle, ci riaccompagna all'albergo, fiacche, disperse, così lente che deve sempre attenderne qualcuna all'angolo delle vie. Si pranza, si sbadiglia; alle nove ci riprende la febbre di andare a leggere il nome delle elette, alla porta di quel laido paradiso. "Non accompagno nessuno," dichiara la signorina; "andrò sola: voi aspetterete." Ma si leva un tal concerto di gemiti ch'essa si intenerisce e ci permette di seguirla. Di nuovo ci siamo premunite di candele, inutili questa volta, dato che una mano benevola ha appeso una grossa lanterna al di sopra del cartello bianco dove sono scritti i nostri nomi... Eh, piano! Corro un po' troppo dicendo i "nostri"... se il mio non si trovasse nella lista? Anaïs cadrebbe in deliquio per la gioia! Fra esclamazioni, spinte, battimani, leggo, per fortuna: "Anaïs, Claudine", eccetera... Tutte dunque! Ahimè no, non Marie. "Marie è rimandata" mormora Luce. "Marie non c'è" sussurra Anaïs, che stenta a nascondere la perfida gioia. La povera Marie Belhomme resta piantata lì, pallidissima, davanti al brutto foglio ch'essa contempla con gli occhi lucenti da uccello, sgranati e rotondi; poi le si tirano gli angoli della bocca e scoppia in un pianto rumoroso. "Su, su, bimba mia," interviene la signorina "lei non sa rassegnarsi. Sarà per ottobre, avrà più fortuna... Ma che cos'è dunque? Ha altri due mesi di studio..." "Uh!" si lamenta l'altra, inconsolabile. "Sarà promossa, glielo dico io! Guardi, le prometto che sarà promossa! E' contenta?" Effettivamente questa affermazione produce un ottimo effetto. Marie emette soltanto piccoli guaiti, come quelli di un cucciolo di un mese al quale si impedisce di succhiare il latte, e cammina fregandosi gli occhi. Il suo fazzoletto è da torcere, e lei lo torce ingenuamente, nel momento in cui passa sul ponte. Quella cattivaccia di Anaïs dice a mezza voce: "I giornali annunciano una grande piena della Lisse...". Marie, che sente, sbotta in una risata irrefrenabile, mescolata agli ultimi singhiozzi, e anche noi scoppiamo tutte. Ecco, la testolina volubile della bocciata ha girato dalla parte della gioia; pensa che sarà promossa in ottobre, si rallegra, e non troviamo nulla di più opportuno, in quella sera afosa, che saltare alla corda nella piazza (tutte, sì, persino le Jaubert!) sino alle dieci, sotto la luna. L'indomani la signorina viene a scuoterci dal letto già alle sei; tuttavia il treno non parte che alle dieci! "Andiamo, andiamo, pigrone, bisogna rifare le valigie, e c'è la colazione, non avete tempo d'avanzo!" Vibra in uno stato di eccezionale trepidazione: i suoi occhi penetranti brillano e sprizzano scintille, ride, urta Luce che casca dal sonno, strapazza Marie Belhomme che si frega gli occhi, in camicia, coi piedi infilati nelle pantofole, senza riprendere chiaramente la coscienza della realtà. Siamo tutte sfibrate, noi, ma chi riconoscerebbe nella signorina la sorvegliante che ci ha accompagnate in questi tre giorni? La felicità la trasfigura, non fa che sorridere fra sé nell'omnibus che ci riconduce alla stazione. Marie sembra un po' malinconica per lo scacco subito, ma penso che ostenti per dovere un'aria contrita. E noi chiacchieriamo disperatamente, tutte insieme: ciascuna racconta il suo esame ad altre cinque che non ascoltano. "Vecchia mia!" esclama Anaïs "Quando ho sentito che mi domandava le date dei..." "Vi ho proibito cento volte di chiamarvi "vecchia mia"" interrompe la signorina. "Vecchia mia," ricomincia sottovoce Anaïs "non ho avuto che il tempo di aprire il piccolo taccuino che avevo in mano; il bello è che lo ha visto, parola d'onore, e non ha detto niente!" "Sei una gran bugiarda!" grida l'onesta Marie Belhomme, con gli occhi fuori dalla testa. "C'ero io, guardavo, non ho visto niente; te lo avrebbe levato; hanno pur levato il decimetro a una di Villeneuve." "Ti consiglio proprio di aprir bocca! Va' dunque a raccontare a Roubaud che la grotta del Cane è piena di acido solforico!" Marie abbassa il capo, diventa rossa, e ricomincia a piangere al ricordo delle sue disgrazie; io faccio il gesto di aprire un ombrello e la signorina si strappa ancora una volta all'"affascinante aspettativa": "Anaïs, lei è perfida! Se dà fastidio a una sola delle compagne, la faccio viaggiare sola in uno scompartimento riservato". "Quello dei fumatori; benissimo" affermo. "In quanto a lei, nessuno la interroga. Prendete le valigie, i mantelli, non siate sempre i soliti impiastri!" Quando siamo in treno, non si occupa di noi, proprio come se non esistessimo; Luce si addormenta con la testa sulla mia spalla; le Jaubert si sprofondano nella contemplazione dei campi che sfilano, del cielo a pecorelle e bianco; Anaïs si rosicchia le unghie; Marie si assopisce e contemporaneamente le si placa il dispiacere. A Bresles, l'ultima stazione prima di Montigny, cominciamo ad agitarci un po'; ancora dieci minuti, e ci siamo. La signorina tira fuori lo specchietto tascabile e verifica l'equilibrio del cappello, il disordine dei ruvidi e crespi capelli rossi, la porpora crudele delle labbra, assorta, palpitante e con un'aria quasi folle; Anaïs si pizzica le guance nella irragionevole speranza di farvi affluire un'ombra rosea, io mi metto il mio appariscente e immenso cappello. Per chi facciamo tanto sfoggio? Non per la signorina Aimée, noi altre, certamente... Be', per nessuno, per gli impiegati della stazione, per il conducente dell'omnibus, papà Racalin, un ubriacone sessantenne, per quel cretino che vende i giornali, per i cani che correranno sulla strada. Ecco l'abetaia e il bosco del Bel Air, e poi il prato comunale, e lo scalo-merci, e finalmente stridono i freni! Saltiamo a terra, dietro alla signorina che è già corsa verso la sua piccola Aimée, allegra e saltellante sulla banchina. L'ha stretta in un abbraccio così vigoroso che la fragile aiutante, soffocata, arrossisce bruscamente. Noi le corriamo incontro e le diamo il benvenuto con l'aria di buone scolarette: "...Buongiorno, signorina!... Sta bene, signorina?". Siccome il tempo è bello, siccome non c'è fretta, ficchiamo le valigie nell'omnibus e ritorniamo a piedi, gironzolando lungo la strada fra le alte siepi in cui fioriscono le poligale azzurre e di un rosa che tende al color vino, e le "Ave Marie", che hanno fiori simili a piccole croci bianche. Felici di essere libere, di non avere la storia di Francia da ripassare, né carte geografiche da colorire, corriamo davanti e dietro alle signorine, che camminano a braccetto, ritmando insieme il passo. Aimée ha abbracciato la sorella, le ha dato un buffetto sulla guancia, dicendole: "Vedi bene, sciocchina, che si riesce pure a cavarsela?". E ora non ha occhi, né orecchi che per la sua grande amica. Delusa ancora una volta, la povera Luce si attacca a me e mi segue come un'ombra, mormorando parole di scherno e minacce: "Val proprio la pena di rompersi il cervello per ricevere complimenti simili!... Hanno un bel modo di presentarsi tutt'e due; mia sorella appesa all'altra, come un paniere!... Davanti a tutti quelli che passano, domando io se non fa rabbia!". Se ne infischiano della gente che passa. Ritorno trionfante. Tutti sanno da dove veniamo e l'esito degli esami, telegrafato dalla signorina; la gente sta sulla porta e ci fa cenni affettuosi... Marie sente crescere l'avvilimento e cerca di nascondersi più che può. Dopo aver lasciato la scuola per qualche giorno, la vediamo più bella, ritrovandola: terminata, rifinita, leccata, bianca, col municipio in mezzo, fiancheggiato dalle due scuole: quella maschile e quella femminile, il gran cortile del quale hanno rispettato i cedri, per fortuna, e i piccoli cespugli regolari, secondo il gusto francese, e le pesanti porte di ferro - troppo pesanti e troppo temibili - che ci rinchiudono, e i gabinetti a sei scomparti, tre per le grandi, tre per le piccole (per una commovente e pudica attenzione, i camerini delle grandi hanno le porte intere, quelli delle piccole le mezze porte), i bei dormitori del primo piano, dei quali si scorgono di fuori i vetri chiari e le tende bianche. I disgraziati contribuenti avranno da pagare per un pezzo. Si direbbe una caserma, tanto è bella! Le scolare fanno un'accoglienza rumorosa; la signorina Aimée aveva semplicemente affidato la sorveglianza delle proprie scolare e di quelle della prima classe alla clorotica signorina Griset, durante la passeggiatina alla stazione, le aule sono disseminate di carte, sparse di zoccoli-proiettili, torsoli di mele... A un aggrottarsi delle rosse ciglia della signorina Sergent, tutto rientra nell'ordine: qualche mano raccoglie strisciando i torsoli di mela, qualche piede si allunga e, silenziosamente, si infila di nuovo gli zoccoli sparsi. Il mio stomaco protesta e vado a fare colazione, felice di ritrovare Fanchette e il giardino e papà; la bianca Fanchette che si arrostisce e dimagra al sole, e mi accoglie con miagolii bruschi e stupiti; il giardino verde, trascurato e invaso da piante che si alzano e si allungano per trovare il sole nascosto dai grandi alberi, e papà che mi accoglie dandomi un gran colpo affettuoso sulla spalla: "Ma che cosa ti succede? Non ti vedo mai!". "Ma papà, ho fatto l'esame." "Che esame?" Vi dico che non ce n'è un altro come lui! Con compiacenza gli racconto le avventure di questi ultimi giorni, mentre egli si tira la gran barba rossa e bianca. Sembra contento. Senza dubbio i suoi incroci di lumache gli avranno dato risultati insperati. Mi sono concessa quattro o cinque giorni di riposo, di vagabondaggi a Matignons, dove trovo Claire, la compagna della prima comunione, grondante di lacrime perché il suo innamorato ha lasciato Montigny, senza nemmeno degnarsi di avvertirla. Fra otto giorni avrà un altro fidanzato che l'abbandonerà in capo a tre mesi, poiché non è abbastanza furba per trattenere i giovani, non abbastanza esperta per farsi sposare; e siccome si ostina a rimanere onesta... può continuare un pezzo. Intanto conduce al pascolo le sue venticinque pecore, un po' come una pastorella da operetta, un po' ridicola col cappellone a campana che le protegge la carnagione e il nodo dei capelli (il sole fa ingiallire i capelli, cara mia!), il grembiulino azzurro ricamato di bianco e il romanzo bianco col titolo rosso In festa! che tiene nascosto nel cestino. (Le ho prestato io le opere di Auguste Germain per iniziarla alla grande vita! Ahimè, sarò forse responsabile di tutte le brutture che commetterà.) Sono sicura che si considera poeticamente infelice, una triste fidanzata tradita, e che si compiace, quando è sola, di assumere pose nostalgiche "con le braccia abbandonate come inutili armi", oppure con la testa china, mezza sepolta sotto i capelli sciolti. Mentre mi racconta le scarse novità di questi quattro giorni, e le sue disgrazie, mi occupo io delle pecore e spingo verso di loro la cagna: "Riportale qui, Lisetta! Accompagnale là!". Sono io che faccio il verso per impedire che tocchino l'avena; vi sono abituata. "...Quando ho saputo con che treno partiva," sospira Claire "ho fatto in modo di lasciare le pecore a Lisetta e sono scesa al passaggio a livello. Alla barriera, ho aspettato il treno che non corre troppo in fretta in quel punto, perché è in salita. L'ho scorto, ho sventolato il fazzoletto, ho mandato baci, credo che lui mi abbia vista... Senti, non ne sono sicura, ma mi è sembrato che avesse gli occhi rossi. Forse i suoi genitori lo hanno costretto a tornare... Forse mi scriverà..." Continua pure, piccola romantica, non ti costa nulla sperare. E poi, se cercassi di staccarti da lui, non mi crederesti. Dopo cinque giorni di vagabondaggi nei boschi, a graffiarmi le braccia e le gambe con i rovi, a riportarne delle bracciate di garofani selvatici, di fiordalisi e di silene, a mangiare prugnole amare e l'uva spina, mi riprende la curiosità e la nostalgia della scuola. Vi ritorno. Trovo tutte le grandi sedute sui banchi all'ombra, nel cortile, intente a lavorare pigramente per preparare i lavori "da esposizione"; le piccole, sotto la tettoia, stanno guazzando alla pompa; la signorina, in una poltrona di vimini, e Aimée ai suoi piedi, seduta su una cassetta di fiori rovesciata, stanno oziando e chiacchierando a bassa voce. Vedendomi entrare, la signorina Sergent fa un balzo e gira su se stessa: "Ah, eccola qui! Meno male! Se la gode; la signorina Claudine batte la campagna, senza pensare che si avvicina la distribuzione dei premi, e che le scolare non sanno una nota del coro che devono cantare!". "Ma... la signorina Aimée non è dunque maestra di canto? E il maestro Rabastens (Antonin)?" "Non dica sciocchezze! Lei sa benissimo che la signorina Lanthenay non può cantare, non glielo permette la fragilità della voce; in quanto al maestro Rabastens, a quanto pare ci sono state chiacchiere in paese a proposito delle sue visite e delle lezioni di canto. Ah, Dio, il vostro sporco paese di pettegolezzi! Insomma non tornerà più. Lei è indispensabile per i cori e ne approfitta. Questa sera, alle quattro, divideremo le parti e lei farà copiare alla lavagna le strofe." "Va bene. Com'è il coro di quest'anno?" "Inno alla natura. Marie, vada a prendermelo sulla cattedra: Claudine incomincerà a ripeterlo." E' un coro a tre voci, proprio un coro da collegio. I soprani pigolano con convinzione: Laggiù lontano/ l'inno mattutino/ si leva in dolce mormorìo/ ... Mentre le voci di mezzo, facendo eco alle rime in "tin" ripetono: "tin tin tin" per imitare la campana dell'Ave Maria. Piacerà moltissimo. Sta per incominciare questa dolce vita che consiste nello sgolarsi, cantare trecento volte la stessa aria, rientrare afona a casa, arrabbiarsi con queste piccine refrattarie a ogni ritmo. Se almeno mi facessero un regalo! Per fortuna, Anaïs, Luce e qualche altra hanno buona memoria e mi seguono con la voce sin dalla terza volta. Smettiamo perché la signorina ha detto: "Basta per oggi" e sarebbe troppo crudele farci cantare a lungo con questa temperatura da Senegal. "E poi lo sapete," aggiunge la signorina "è proibito di canticchiare l'Inno alla natura fra una lezione e l'altra! Altrimenti lo storpierete, lo deformerete e non sarete capaci di cantarlo decentemente alla distribuzione dei premi. Ora lavorate e che io non senta parlare troppo forte." Noi grandi stiamo fuori per eseguire più comodamente i meravigliosi ricami destinati all'esposizione dei "lavori a mano" (forse che i lavori possono essere fatti altrimenti che "a mano"? Non ne conosco di fatti "a piede") che segue la distribuzione dei premi, quando tutto il paese viene ad ammirare l'esposizione dei nostri lavori che riempiono due aule: pizzi, arazzi, ricami, biancheria infiocchettata, disposti sui banchi. I muri sono tappezzati di tende con l'orlo a giorno, di coperte da letto all'uncinetto su trasparenti di colore, di scendiletti in mussola di lana verde (maglia disfatta) trapunta di fiori finti rossi e rosa, anche quelli di lana; ornamenti per caminetto in felpa ricamata... Queste ragazze ormai grandi, vanitose della biancheria intima che mettono in mostra, espongono soprattutto un'infinità di capi sontuosi: camicie di batista di cotone a fiorellini, meravigliose applicazioni, mutande a forma di zoccolo, con legacci di nastro, copribusti con festoni in alto e in basso, tutto ciò su un trasparente di carta azzurra, rossa e lilla con cartellini sui quali spicca in bella calligrafia rotonda il nome dell'esecutrice. Lungo le pareti sono allineati panchettini a punto in croce, sui quali riposa sia l'orribile gatto i cui occhi sono fatti di quattro punti verdi, con uno nero in mezzo, sia il cane con la schiena rossa e le zampe violacee, che lascia penzolare una lingua rosso fiamma. S'intende che la biancheria, più di ogni altra cosa, interessa i giovanotti che vengono a visitare l'esposizione come tutti quanti; si attardano davanti alle camicie a fiorellini, alle mutande dai nastri, si danno spintoni e sussurrano frasi sboccate. Bisogna dire che anche la scuola maschile ha la sua esposizione, rivale della nostra. Se non offrono all'ammirazione biancheria eccitante, mostrano altre meraviglie: gambe di tavolo abilmente tornite, colonne a spirale (cara mia, è la cosa più difficile), un'accozzaglia di lavori in legno a "coda di rondine", rilegature gocciolanti di colla e soprattutto calchi in creta - gioia del maestro, che modestamente ha battezzato questa sala "sezione di scultura" - dico, che hanno la pretesa di riprodurre i fregi del Partenone e altri bassorilievi, indecisi, pasticciati, pietosi. La "sezione di disegno" non è più confortante: le teste dei briganti degli Abruzzi hanno gli occhi loschi, il re di Roma ha una gota gonfia, Nerone fa una orribile smorfia, e il presidente Loubet, in una cornice tricolore, lavoro di legno e cartone combinati, ha voglia di vomitare (è perché pensa al suo ministero, spiega Dutertre, sempre furente di non essere deputato). Alle pareti vi sono acquerelli slavati, piani di architettura e la Veduta generale anticipata (sic) dell'Esposizione del 1900, acquerello che merita il primo premio. Durante i giorni che ancora ci separano dalle vacanze lasceremo da parte tutti i libri, lavoreremo pigramente all'ombra dei muri, lavandoci continuamente le mani una scusa per andare in giro - sì da non macchiare di sudore le lane chiare e le stoffe bianche. Io espongo soltanto tre camicie di tela di lino rosa del modello per bimbi, con le mutande uguali, chiuse, particolare che scandalizza le mie compagne, tutte concordi nel trovare ciò "sconveniente", parola d'onore! Mi siedo fra Luce e Anaïs, che a sua volta sta accanto a Marie Belhomme, perché noi formiamo di solito un gruppetto. Povera Marie! Deve ristudiare per l'esame di ottobre... Siccome si annoiava mortalmente nell'aula, la signorina, per pietà, la lascia venire con noi; consulta l'atlante, la storia di Francia; quando dico che consulta... tiene il libro aperto sulle ginocchia, china il capo, lancia furtivamente occhiate verso di noi, tendendo l'orecchio per sentire quello che diciamo. Prevedo il risultato dell'esame di ottobre! "Muoio di sete! Hai la bottiglia?" mi domanda Anaïs. "No, non mi sono ricordata di portarla, ma Marie deve avere la sua." Ecco un'altra nostra abitudine immutabile e ridicola: queste bottiglie. Sin dai primi giorni di afa, siamo tutte d'accordo che l'acqua della pompa non è più potabile (non lo è mai) e portiamo tutte in fondo al cestino - talvolta nella busta di cuoio o nel sacchetto di tela - una bottiglia piena di una bibita fresca. E' una gara a chi riuscirà a combinare la miscela più bizzarra, i liquidi più strani. Niente cocco: è roba per la classe inferiore! Per noi l'acqua con aceto che scolora le labbra e fa male allo stomaco, le limonate agre, la menta fatta da noi stesse con le foglie fresche della pianta, l'acquavite rubata a casa e mescolata con zucchero, il sugo del ribes verde che allega i denti. Anaïs la lunga rimpiange amaramente la partenza della figlia del farmacista, che in passato ci forniva bottigliette piene di alcool alla menta, non troppo annacquato, o anche l'acqua dentifricia di Botot zuccherata; io, che sono semplice per indole, mi limito a bere vino bianco allungato col seltz e mescolato con zucchero e un po' di limone. Anaïs abusa di aceto e Marie di sugo di liquerizia, così concentrato che è quasi nero. Siccome è proibito l'uso delle bottiglie, ciascuna di noi, ripeto, porta la sua, chiusa con un turacciolo forato dalla cannuccia di una penna, il che ci permette, chinandoci con la scusa di raccogliere un rocchetto, di bere senza muovere la bottiglia adagiata nel cesto col collo fuori. Durante la breve ricreazione di un quarto d'ora (alle nove e alle tre) ci precipitiamo tutte alla pompa per inondare le bottiglie e rinfrescarle un po'. Tre anni fa, una piccola cadde con la bottiglia e si ferì a un occhio: ora l'occhio è tutto bianco. In seguito a questo incidente, confiscarono tutte le bottiglie, tutte, per una settimana... e poi qualcuna ricominciò a portare la sua, esempio che fu imitato da un'altra il giorno seguente: un mese dopo le bottiglie funzionavano regolarmente. Forse la signorina ignora questo incidente avvenuto prima del suo arrivo, oppure preferisce chiudere gli occhi perché la lasciamo in pace. Non accade proprio nulla. Il caldo ci toglie ogni slancio: Luce mi assedia meno con le sue moine importune; qualche velleità di litigare si sveglia un istante, pronta a spegnersi subito; è l'apatia, to', e i temporali improvvisi di luglio, che ci sorprendono nel cortile, ci spazzano sotto trombe di grandine; un'ora dopo il cielo è sereno. Abbiamo fatto un brutto scherzo a Marie Belhomme, che si era vantata di venire a scuola senza mutande, per il caldo. Eravamo in quattro, un pomeriggio, sedute su un banco nel seguente ordine: Marie-Anaïs-Luce-Claudine. Dopo essersi fatte spiegare debitamente il mio piano, sottovoce, le due vicine si alzano per lavarsi le mani, e il centro del banco resta vuoto, mentre Marie è a una estremità e io all'altra. Lei sonnecchia sul testo di aritmetica. Io mi alzo bruscamente; il banco oscilla: Marie, svegliata di soprassalto, cade con le gambe in aria, facendo uno di quegli strilli di gallina che stanno sgozzando, di cui ha il segreto, e ci fa vedere... che effettivamente non ha le mutande. Si levano fischi, scoppiano risate fragorose; la direttrice vuole sgridarci e non ci riesce, presa anch'essa da una voglia matta di ridere; e Aimée Lanthenay preferisce andarsene per non offrire alle scolare lo spettacolo dei suoi contorcimenti di gatta avvelenata. Dutertre non viene più da molto tempo. Si dice che sia ai bagni di mare, in qualche luogo dove ozia e amoreggia (ma dove prende i denari?). Lo immagino vestito di flanella bianca, con le camicie flosce, cinghie troppo larghe e scarpe troppo gialle; ha la passione per certe fogge un po' pacchiane, essendo lui stesso molto pacchiano con quei colori chiari, troppo abbronzato e con gli occhi troppo scintillanti, i denti aguzzi e i baffi di un nero arsiccio come se li avessero bruciacchiati. Non ho più pensato al suo brusco attacco nel corridoio a vetri: l'impressione è stata viva, ma rapida - e poi, con lui, si sa benissimo che non ha importanza! Sarò la trecentesima ragazzina che egli ha tentato di attirare a casa sua: questo incidente non ha interesse né per lui, né per me. Ne avrebbe se il colpo fosse riuscito, ecco tutto. Pensiamo già molto agli abiti che indosseremo per la distribuzione dei premi. La signorina si fa ricamare un vestito di seta nera dalla madre, abile nei lavori d'ago, che disegna in rilievo grandi mazzi di fiori, sottili ghirlande che seguono il fondo della sottana, ramoscelli che si arrampicano sul busto, tutto ciò in diverse gradazioni di viola, sfumate: una cosa molto distinta, un po' da "signora anziana", forse, ma di taglio impeccabile; è sempre vestita di scuro e semplicemente, l'eleganza delle sue vesti eclissa quella di tutte le mogli dei notai, degli esattori, dei commercianti e dei possidenti di qui! E' la sua piccola vendetta di donna brutta e ben fatta. La signorina Sergent pensa anche a vestire bene la sua piccola Aimée per quel gran giorno. Hanno fatto venire i campioni dai magazzini del "Louvre", del "Bon Marché", e le due amiche scelgono insieme, assorte, davanti a noi, nel cortile dove lavoriamo, all'ombra. Penso che sarà un vestito che non costerà caro alla signorina Aimée; avrebbe proprio torto ad agire altrimenti: non è con i suoi settantacinque franchi al mese dai quali bisogna detrarre trenta franchi per la pensione (ch'essa non paga), altrettanti per quella della sorella (che risparmia) e venti franchi che manda ai genitori; lo so da Luce - non è con simili stipendi, dico, che lei potrebbe pagare il grazioso vestito di moire bianco, di cui ho visto il campione. Fra le scolare è molto raffinato aver l'aria di non occuparsi del vestito che indosseremo il giorno della distribuzione dei premi. Tutte vi pensano un mese prima, tormentano le mamme per ottenere nastri, merletti, o soltanto certe modifiche che rinnoveranno il vestito dell'anno scorso, ma è di buon gusto non parlarne; ci si domanda con una curiosità distaccata, come per gentilezza: "Come sarà il tuo vestito?". E si ha l'aria di ascoltare appena la risposta, fatta con lo stesso tono noncurante e sdegnoso. Anaïs la lunga mi ha fatto la solita domanda, con gli occhi rivolti altrove, il viso distratto. Con lo sguardo smarrito, una voce indifferente, ho spiegato: "Oh, nulla di straordinario: mussola bianca... il busto a fisciù incrociato, scollato a punta... e le maniche Luigi XV con una guarnizione di mussola, fermate al gomito. Nient'altro". Siamo tutte in bianco per la premiazione; ma i vestiti sono guarniti di nastri chiari, fiocchi, nodi, cinture, il cui colore (che noi ci teniamo a cambiare tutti gli anni) ci preoccupa molto. "I nastri?" domanda Anaïs a fior di labbra. (Me lo aspettavo.) "Bianchi anche quelli." "Cara mia, allora una vera sposa! Lo sai, ce ne sono molte che in mezzo a tutto quel bianco sembrerebbero nere come pulci sopra una stoffa." "E' vero. Per fortuna il bianco mi sta abbastanza bene." (Roditi, cara figliola. Sappiamo che con quella tua pelle gialla sei obbligata a metterti nastri rossi o arancione per non sembrare un limone.) "E tu? Nastri arancione?" "Ma no, via: li avevo l'anno scorso! Nastri Luigi XV, a strisce, in faglia e raso, avorio e rosso papavero. Il mio vestito è di lanetta crema." "Il mio," annuncia Marie Belhomme, alla quale non domandiamo nulla "è di mussola bianca, e i nastri sono color pervinca, di un azzurro lilla, molto bello!" "Io" interviene Luce, sempre attaccata alle mie sottane, o annidata nella mia ombra, "ho il vestito, soltanto non so che nastri metterci; Aimée li vorrebbe azzurri..." "Azzurri? Tua sorella è una cretina, salvo il rispetto che le devo. Con gli occhi verdi come i tuoi, non si scelgono dei nastri azzurri, fa rabbrividire. La modista del paese vende nastri molto belli: lucidi, verde e bianco... è bianco il tuo vestito?" "Sì, di mussola." "Bene! Ora insisti con tua sorella perché ti comperi i nastri verdi." "Non c'è bisogno, li compero io." "E' ancora meglio. Vedrai che sarai carina; non ce ne saranno neppure tre che oseranno portare nastri verdi: sono troppo difficili da portare." Questa povera ragazzina! Per la minima gentilezza che le dico, senza farlo apposta, si illumina... La signorina Sergent, alla quale la prossima esposizione ispira una certa inquietudine, ci strapazza, ci sprona; piovono i castighi, castighi che consistono nel fare dopo la scuola venti centimetri di merletto, un metro di orlo o venti righe di lavoro a maglia. Lavora anch'essa per fare un paio di bellissime tende di mussola che ricama molto bene, quando la sua Aimée gliene lascia il tempo. Quella graziosa fannullona dell'aiutante, pigra da quella gatta che è, dopo cinquanta punti di ricamo sospira e si stira le membra davanti a tutte le scolare, e la signorina dice, senza osare di sgridarla, che "è un esempio deplorevole per noi". Subito quell'insubordinata getta all'aria il lavoro, guarda l'amica con occhi scintillanti, e si slancia su di lei per morsicarle le mani. Le grandi sorridono e si danno gomitate, le piccole non battono ciglio. Un gran foglio di carta, col bollo della prefettura e il timbro del municipio, trovato dalla signorina nella cassetta delle lettere, ha turbato straordinariamente questa mattina, che per caso era fresca; lavorano tutti i cervelli e tutte le lingue. La direttrice apre il plico, lo legge, lo rilegge e non dice niente. Quella pazzerella della compagna, impaziente perché non sa nulla, vi mette sopra le sue zampette vivaci ed esigenti e lancia degli "Ah!" e dei "Ci darà delle noie!" così forti che noi, vivamente incuriosite, ci agitiamo. "Sì," le risponde la signorina "ero avvertita, ma aspettavo l'annuncio ufficiale; è un amico del dottor Dutertre..." "Ma non è tutto qui, bisogna dirlo alle scolare, perché dovremo imbandierare, illuminare, ché ci sarà un banchetto... Le guardi dunque: ardono dall'impazienza!" Altro che, se ardiamo dall'impazienza! "Sì, bisogna annunciarlo... Signorine, cercate di ascoltarmi e di capire! Il ministro dell'Agricoltura, Jeam Dupuy, verrà nel capoluogo in occasione del prossimo comizio agricolo, e ne approfitterà per inaugurare le nuove scuole; la città sarà imbandierata, illuminata, vi sarà un ricevimento alla stazione... e poi mi annoiate, saprete tutto perché lo annuncerà il banditore del paese, cercate soltanto di sbrigarvi un po' di più, in modo che i vostri lavori siano pronti." Silenzio profondo. E poi scattiamo! Prorompono esclamazioni, si fondono, e cresce il chiasso, rotto da una vocetta penetrante: "Il ministro ci interrogherà?". Fischiamo Marie Belhomme, la cretina che ha fatto questa domanda. La signorina ci fa mettere in fila, benché non sia ancora suonata l'ora, e ci lascia andare, rumorose e chiacchierone, per poter chiarire le proprie idee e prendere le disposizioni per l'avvenimento inaudito che si prepara. "Cara mia, che ne dici?" mi domanda Anaïs per la strada. "Dico che le vacanze cominceranno otto giorni prima, questo non mi rallegra: mi annoio quando non posso venire a scuola." "Ma ci saranno feste, balli, giochi nelle piazze." "Sì, e molta gente davanti alla quale potremo fare bella mostra, ti capisco! Sai, saremo molto in vista; Dutertre, che è amico personale del nuovo ministro (è per lui che questa Eccellenza di fresca data si avventura in un buco come Montigny), ci metterà davanti..." "No? Lo credi?" "Sicuro! E' un tiro che ha preparato per scalzare la posizione del deputato!" Se ne va raggiante, sognando feste ufficiali in cui diecimila paia di occhi la contempleranno! Il banditore della città ha gridato la notizia; ci promettono gioie infinite: l'arrivo del treno ministeriale alle nove, le autorità municipali, gli alunni delle due scuole, infine il fior fiore della popolazione di Montigny attenderà il ministro vicino alla stazione, all'entrata del paese, e lo accompagnerà, attraverso le vie imbandierate, dentro alle scuole. Qui, su un palco, egli farà un discorso! E nel salone del municipio siederà a banchetto in numerosa compagnia. Poi, distribuzione dei premi agli adulti (poiché Jeam Dupuy porta alcuni nastrini viola e verdi ai fedeli dell'amico Dutertre, che azzecca così un colpo da maestro). La sera, gran ballo nella sala del banchetto. La fanfara del capoluogo (proprio bella!) presterà la sua gentile cooperazione. Infine il sindaco invita gli abitanti a imbandierare le case e a decorarle di verde. Uff, che onore per noi! Questa mattina, in classe, la signorina ci annuncia solennemente - si vede subito che si preparano grandi cose - la visita del suo caro Dutertre, che, con la solita compiacenza, ci darà ampi particolari sul modo di regolare la cerimonia. E poi non viene. Soltanto nel pomeriggio, verso le quattro, nel momento in cui pieghiamo nei cestini lavori a maglia, merletti e ricami, entra Dutertre precipitosamente, come sempre, senza bussare. Non l'avevo rivisto dopo il suo "attentato"; non è cambiato: vestito con la solita trascuratezza ricercata - camicia di colore, abiti quasi bianchi, una grande cravatta chiara infilata nella fascia che gli serve da panciotto -, la signorina Sergent, come pure Anaïs, come Aimée Lanthenay, come tutte, trovano che si veste in un modo sommamente raffinato. Parlando con le signorine, si permette di volgere gli occhi verso di me: occhi obliqui, tirati verso le tempie, occhi da animale cattivo, ch'egli sa rendere dolci. Non mi becca più a lasciarmi trascinare nel corridoio, sono finiti quei tempi! "Ebbene, piccine," esclama "siete contente di vedere un ministro?" Rispondiamo con mormorii indistinti e rispettosi. "Attente! Alla stazione gli farete una riguardosa accoglienza, tutte in bianco! Non è tutto, bisogna che gli offrano mazzi di fiori tre scolare grandi, delle quali una reciterà un breve discorso. Ah, sicuro!" Ci scambiamo sguardi di finta timidezza e di spavento simulato. "Non fate le ochette! Ce ne vuole una tutta in bianco, una in bianco con nastri azzurri, una in bianco con nastri rossi per rappresentare la bandiera in suo onore. Eh, eh, una bandierina niente affatto brutta! Si intende che tu fai parte della bandiera, tu," (questa sono io!) "tu sei decorativa, e poi mi piace che ti vedano. Come sono i tuoi nastri per la distribuzione dei premi?" "Caspita, quest'anno sono tutta in bianco." "Va bene, tipo di verginella, formerai il centro della bandiera. E pronuncerai un discorso davanti al mio amico ministro; non si annoierà a guardarti, lo sai?" (E' completamente pazzo a lasciarsi scappare qui frasi simili! La signorina Sergent mi ucciderà!) "Chi ha i nastri rossi?" "Io" grida Anaïs, palpitante di speranza. "Bene, ti accetto." E' una mezza bugia di quella forsennata, perché i suoi nastri sono a strisce. "Chi li ha azzurri?" "Io, dot...tore" balbetta Marie Belhomme, con voce strozzata dalla paura. "Va bene, tutte e tre non sarete ripugnanti... E poi, lo sapete, per i nastri, fate pure le cose per bene, fate pure pazzie: pago io!" (Uhm!) "Che ci siano belle cinture, nodi svolazzanti, e vi ordinerò mazzi di fiori con le vostre tinte!" "Così presto!" dico. "Avranno il tempo di avvizzirsi." "Taci, monella, non avrai mai il bernoccolo del rispetto. Spero che tu ne possegga già qualche altro situato in una posizione più attraente!" Tutta la classe scoppia a ridere con entusiasmo; la signorina ha un riso sforzato. In quanto a Dutertre, giurerei che è ubriaco. Ci mettono alla porta prima che se ne vada. Da quante mi sento dichiarare: "Cara mia, si può ben dire che sei fortunata! Per te tutti gli onori, eh! Non poteva toccare a un'altra, non c'era pericolo!". Io non rispondo nulla, me ne vado a consolare quella povera piccola Luce, tanto addolorata di non essere stata scelta per la bandiera. "Andiamo, il verde ti starà meglio di tutto... e poi è colpa tua, perché non ti sei fatta avanti come Anaïs?" "Oh!" sospira la piccola "Non importa. Io perdo la testa davanti alla gente e avrei fatto qualche sciocchezza. Ma sono contenta che sia tu a fare il discorso e non Anaïs la lunga." Papà, avvertito della parte gloriosa che avrò all'inaugurazione delle scuole, ha arricciato il naso borbonico per domandarmi: "Dio mio, sarà necessario che mi ci faccia vedere anch'io?". "Niente affatto, papà, tu resti nell'ombra!" "Allora benissimo, non ho da occuparmi di te?" "No di certo, papà, non cambiare le tue abitudini!" Il paese e la scuola sono sottosopra. Se continua così, non avrò più il tempo di raccontare nulla. Al mattino giungiamo a scuola già alle sette, e non certo per studiare. La direttrice ha fatto venire dal capoluogo certi enormi pacchi di carta velina rosa, azzurra, rossa, gialla, bianca; li apriamo nell'aula centrale - le scolare più grandi diventano le commesse principali - e dàgli, dàgli a contare i grandi fogli leggeri, a piegarli in sei per il verso della lunghezza, a tagliarli in sei strisce, e a riunire quelle strisce in mucchietti che portiamo sulla cattedra della signorina. Lei li taglia tutto in giro, con uno stampo dentellato, poi la signorina Aimée li distribuisce a tutta la prima classe, a tutta la seconda. Viviamo allegramente! Libri e quaderni dormono sotto le scrivanie chiuse, e facciamo a gara a chi si alzerà prima per correre subito alla scuola, trasformata in un laboratorio di fioraia. Io non poltrisco più a letto, no, e mi affretto tanto per arrivare presto che mi infilo la cintura per la strada. Qualche volta siamo già tutte riunite nelle aule quando le signorine scendono finalmente, e anche loro se la prendono comoda in quanto a toletta! La signorina Sergent si mostra in vestaglia di batista rossa (orgogliosamente senza busto); la sua vezzosa aiutante la segue, in pantofole, con occhi assonnati e teneri. Siamo in famiglia; l'altra mattina la signorina Aimée, essendosi lavata la testa, scese coi capelli sciolti e ancora umidi: capelli dorati, morbidi come la seta, piuttosto corti, mollemente inanellati all'estremità. Sembrava un paggetto scostumato, e la direttrice, la sua buona direttrice, se la mangiava con gli occhi. Il cortile è disertato; le tende di sargia, tirate, ci avvolgono in una fantasmagorica atmosfera azzurra. Facciamo i nostri comodi: Anaïs si leva il grembiule e si rimbocca le maniche come una pasticciera; la piccola Luce, che salta e mi corre dietro tutto il santo giorno, ha rialzato come una sguattera il vestito e la sottana, una scusa per mostrare i polpacci tondi e le fragili caviglie. La signorina, impietosita, ha permesso a Marie Belhomme di chiudere i libri; in camicetta di tela a righe bianche e nere, sempre con una certa aria da Pierrot, gironzola con noi, taglia le strisce per traverso, sbaglia, inciampa nel filo di ferro, si dispera e si bea d'entusiasmo nello stesso istante, inoffensiva e tanto buona che non le facciamo neppure i dispetti. La signorina Sergent si alza e tira la tenda con un gesto brusco, dalla parte del cortile dei ragazzi. Si sentono, nella scuola dirimpetto, ragli di voci giovanili rozze e mal impostate: è il signor Rabastens che insegna agli scolari un coro repubblicano. La signorina attende un momento, poi fa un segno col braccio, le voci tacciono laggiù e il compiacente Antonin accorre, senza cappello, con una rosa di Francia all'occhiello. "La prego di mandare due scolari nel laboratorio; faccia tagliare questo filo di ferro in pezzi da venticinque centimetri." "Subito, signorina. Sta sempre lavorando per preparare i fiori?" "Non finiremo tanto presto; ci vogliono cinquemila rose soltanto per la scuola, e per giunta abbiamo l'incarico di decorare la sala del banchetto!" Rabastens se ne va, correndo a capo scoperto sotto il sole feroce. Un quarto d'ora dopo bussano alla porta, che si apre e lascia passare due grandi grulli dai quattordici ai quindici anni; riportano il filo di ferro, non sanno che fare dei loro lunghi corpi, rossi e stupidi, eccitati nel trovarsi in mezzo a una cinquantina di ragazzine che, con le braccia nude, il collo nudo, il busto aperto, ridono malignamente dei due ragazzi. Anaïs li sfiora passando, e pian piano gli attacca alle tasche code di carta. Essi scappano finalmente, soddisfatti e malcontenti, mentre la signorina si affanna per fare stare zitte le scolare che non l'ascoltano. Io piego e taglio insieme con Anaïs; Luce fa il pacco e lo porta alla direttrice, Marie ammucchia. Alle undici del mattino piantiamo tutto e ci riuniamo per ripetere l'Inno alla natura. Verso le cinque ci agghindiamo un poco, tiriamo fuori di tasca lo specchietto; certe ragazzine compiacenti della seconda classe stendono il grembiule nero dietro ai vetri di una finestra aperta; davanti a questo specchio scuro ci rimettiamo il cappello, e io mi scompiglio i riccioli, Anaïs si tira su il nodo dei capelli, cascante, e ce ne andiamo. Il paese comincia ad agitarsi quanto noi. Pensate un po': Jean Dupuy arriva fra sei giorni! I ragazzi se ne vanno al mattino in tanti carretti, cantando a voce spiegata e frustando con tutta la forza delle braccia il ronzino che li tira; vanno nel bosco del comune, e anche nei boschi privati, ne sono certa, a scegliere alberi e a segnarli; soprattutto abeti, olmi, pioppi dalle foglie vellutate moriranno a centinaia: bisogna bene onorare questo ministro di nuova nomina! La sera, sulla piazza, sui marciapiedi, le ragazze preparano rose di carta e cantano per attirare i ragazzi che vengano ad aiutarle. Dio mio, come affretteranno il lavoro, quelli! Immagino già che ci si metteranno di gran lena. Alcuni falegnami levano i tramezzi mobili del salone del municipio dove si terrà il banchetto; sta sorgendo un gran palco nel cortile. Il medico-ispettore Dutertre fa brevi e frequenti apparizioni, approva tutto quello che si sta architettando, batte sulla spalla degli uomini, pizzica il mento delle donne, paga da bere e sparisce per ritornare subito dopo. Felice paese! In questo frattempo si devastano i boschi, si va giorno e notte a cacciare di frodo, ci si picchia all'osteria, e una pastora di Chêne-Fendu ha dato in pasto ai maiali il suo neonato. (Dopo qualche giorno hanno rinunciato a procedere contro di lei, poiché Dutertre è riuscito a dimostrare l'irresponsabilità di quella ragazza... Non ci si occupa già più di questa faccenda.) Con questo sistema corrompe il paese, ma, di duecento furfanti, si è fatto altrettante anime dannate che ammazzerebbero e morirebbero per lui. Sarà eletto deputato. Il resto che importa! Noi, Dio mio, facciamo rose. Cinque o seimila rose non sono una cosa da poco. Tutta la classe delle piccine si dedica a fare ghirlande di carta pieghettata, dai colori delicati, che ondeggeranno un po' dappertutto in balìa della brezza. La signorina teme che questi preparativi non siano finiti in tempo, e ogni sera ci dà da portare a casa una provvista di carta velina e di fil di ferro; lavoriamo a casa dopo pranzo, prima di pranzo, senza tregua; in tutte le case, le tavole sono ingombre di rose bianche, azzurre, rosse, rosa e gialle, gonfie, dritte e fresche all'estremità del gambo. Occupano tanto posto che non si sa dove metterle; traboccano dappertutto, fioriscono in mucchi multicolori e al mattino le riportiamo a fasci, come se andassimo a fare gli auguri ai parenti. La direttrice, il cui cervello ribolle d'idee, vuole per giunta far costruire un arco di trionfo all'entrata delle scuole; le colonne saranno ingrossate da rami di pino, da fronde disposte disordinatamente e guarnite di rose. Il frontone porterà questa iscrizione, formata di rose rosa, su un fondo di muschio: Benvenuti! E' grazioso, non è vero? Anch'io ho avuto una trovata, ho suggerito l'idea di coronare di fiori la bandiera, cioè noi. "Oh, sì" hanno gridato Anaïs e Marie Belhomme. "Va bene." (Per quello che ci costa!) "Anaïs, tu sarai incoronata di papaveri; Marie, tu avrai un diadema di fiordalisi, e io, biancore, candore, purezza, metterò..." "Che cosa? Fiori d'arancio?" "Li merito ancora, signorina! Più di lei senza dubbio!" "I gigli ti sembrano abbastanza immacolati?" "Mi secchi! Prenderò margherite; sai benissimo che il mazzo tricolore è composto di margherite, papaveri e fiordalisi. Andiamo dalla modista." Scegliamo con aria sprezzante e altezzosa; la modista ci prende la misura del giro della testa e ci promette "quello che di meglio si può fare". L'indomani riceviamo tre corone che mi affliggono: diademi rigonfi nel mezzo come quelli delle spose di campagna; come si fa a essere belle con roba simile! Marie e Anaïs, rapite, si provano la rispettiva corona fra un cerchio di ragazzine in ammirazione; io non dico niente, mi porto via il mio arnese a casa, dove lo disfo comodamente. Poi, sullo stesso fusto di filo di ferro, ricostruisco una corona fragile, delicata, le grandi margherite stellate, disposte come a caso, pronte a staccarsi; due o tre fiori penzolano a grappoli vicino alle orecchie, alcuni scivolano dietro fra i capelli; mi provo sul capo la mia opera. Non vi dico una parola di più! Non c'è pericolo che avverta le altre due! Vi è un aumento di lavoro: i diavoletti! Voi non lo sapete, non potete esserne informati. Sappiate che a Montigny una scolara non assisterebbe alla premiazione, a una qualsiasi festa solenne, senza essere debitamente arricciata o ondulata. Niente di strano in questo, certamente, benché queste rigide spirali e questi arricciamenti eccessivi diano piuttosto ai capelli l'aspetto di scope arrabbiate; ma le mamme di tutte queste ragazzine - sarte, giardiniere, mogli di operai e bottegaie - non hanno il tempo, né la voglia, né l'abilità di fare i ricci a tutte queste teste. Indovinate a chi tocca questo lavoro, a volte disgustoso? Alle maestre e alle scolare della prima classe! Sì, è una follia, ma che volete? E' un'abitudine, e questa parola risponde a tutto. Una settimana prima della distribuzione dei premi, le piccole ci importunano e si iscrivono sulle nostre liste. Almeno cinque o sei per ciascuna di noi! E per una testa pulita di bei capelli morbidi, quante zazzere untuose e... magari abitate! Oggi incominciamo a mettere i diavoletti a queste ragazzine dagli otto agli undici anni; accoccolate per terra, ci affidano la testa, e, come bigodini, adoperiamo i fogli di vecchi quaderni. Quest'anno non ho voluto accettare che quattro vittime e scelte fra quelle pulite, per giunta. Ognuna delle altre grandi arriccia sei piccine! E' un compito non facile, perché le ragazze di questi paesi hanno quasi tutte criniere abbondantemente fornite. A mezzogiorno chiamiamo il docile gregge; io incomincio da una biondina, che ha i capelli vaporosi, lievemente inanellati per natura. "Come? Che cosa vieni a fare qui? Con capelli simili vuoi che te li arricci? E' un vandalismo!" "To', ma certo voglio che me li arriccino! Non essere riccia il giorno della distribuzione dei premi, il giorno che arriva un ministro? Non si sarebbe mai vista una cosa simile!" "Sarai brutta come il peccato: avrai i capelli rigidi, una testa da lupo..." "Non me ne importa, almeno avrò i capelli ricci." Poiché ci tiene! E dire che tutte la pensano così. Scommetto che persino Marie Belhomme... "Dimmi un po', Marie, immagino che resterai come sei, tu che hai i capelli naturalmente inanellati." Urla indignata: "Io? Rimanere così? Ma ti pare! Vuoi che venga alla premiazione con i capelli lisci!". "Ma io non mi arriccio." "Tu, cara mia, hai onde piuttosto fitte e poi prendono la piega abbastanza facilmente... e poi si sa che tu non la pensi mai come tutte le altre." Mentre parla, arrotola con vivacità - con troppa vivacità - le lunghe ciocche color grano maturo della ragazzina seduta davanti a lei e sepolta sotto la propria capigliatura: un cespuglio donde talora escono acuti gemiti. Anaïs sta malmenando, non senza cattiveria, la sua paziente che urla. "Però ha davvero troppi capelli, questa qui!" dice a mo' di scusa. "Quando si crede di aver finito, si è a metà; l'hai voluto, ci sei, cerca di non gridare!" Arricciamo, arricciamo... il corridoio a vetri si riempie del fruscìo della carta piegata che si attorciglia sui capelli... Quando abbiamo finito il lavoro, le ragazzine si alzano sospirando e ci mostrano certe teste irte di trucioli di carta sui quali si può ancora leggere: "Problemi... Morale... duca di Richelieu...". Durante questi quattro giorni girano, così conciate, per le vie, in classe, senza vergogna. Poiché vi dico che è un'usanza. ...Viviamo non so come; sempre fuori, correndo in qua e in là, portando o riportando indietro le rose. Noi quattro - Anaïs, Marie, Luce e io -, facendo ovunque la cerca e la requisizione di fiori veri, questi, per ornare la sala del banchetto, entriamo (inviate dalla signorina che conta sui nostri giovani visetti per disarmare le persone riluttanti) in casa di gente che non abbiamo mai visto. Così, per esempio, da Paradis, il ricevitore del registro, perché la voce pubblica aveva rivelato che possiede rosai nani in vasi, vere piccole meraviglie. Perduta ogni timidezza, gli entriamo in casa, e: "Buongiorno, signore, ci hanno detto che lei ha dei bei rosai; servono per le giardiniere della sala del banchetto, lo sa bene; veniamo da parte di... eccetera". Quel pover'uomo balbetta qualcosa nella sua gran barba, e ci precede armato di cesoie. Ce ne andiamo con le braccia cariche di vasi di fiori, ridendo, chiacchierando, rispondendo sfacciatamente ai ragazzi che lavorano tutti a metter su, allo sbocco di ogni via, l'armatura degli archi di trionfo, e ci interpellano: "Eh, ragazze, se avete bisogno di qualcuno, eccoci qua... è mai possibile! Ecco appunto che stanno cascando! Avete perso qualcosa, raccoglietela dunque!". Tutti si conoscono, tutti si danno del tu... Ieri e oggi i giovanotti sono partiti all'alba in carretto e ritorneranno solo al tramonto, sepolti sotto i rami di bosso, di larice, di tuia, sotto montagne di muschio verde che sa di palude; e poi vanno a bere, com'è naturale. Non ho mai visto in un simile stato di effervescenza questa popolazione di briganti che, di solito, si infischiano di tutto, persino della politica; escono dai boschi, dalle stamberghe, dalle macchie dove aspettano al varco le pastore, per coprire di fiori Jean Dupuy. Chi ne capisce nulla! Le vie fanno a gara fra loro: la via del Chiostro costruisce tre archi di trionfo, perché la Gran Via intendeva di farne due, uno a ogni estremità. Ma la Gran Via si ostina per puntiglio e costruisce una meraviglia, un castello medioevale tutto a rami di pino uguagliati con le cesoie, con torri come garitte. La via dei Fours-Banaux, proprio vicino alla scuola, che subisce l'influenza artistico-campestre della signorina Sergent, si limita a tappezzare completamente le case che la fiancheggiano con rami fronzuti e scomposti, poi a stendere delle assi da una casa all'altra e a coprire questo tetto di edera penzolante e aggrovigliata. Ne risulta un viale scuro e verde, delizioso, dove le voci si smorzano come in una stanza tappezzata di stoffe; la gente vi passa e ripassa sotto con piacere. Allora, furente, la via del Chiostro perde ogni senso della misura e riunisce l'uno all'altro i suoi tre archi trionfali con fasci di ghirlande di muschio, ornate di fiori, per avere, anch'essa, il pergolato. A questo punto, la Gran Via si mette tranquillamente a togliere il selciato dei marciapiedi, e rizza un bosco, mio Dio, sì, un vero boschetto dalle due parti, con alberelli sradicati e trapiantati. Basterebbero solo quindici giorni di questa emulazione battagliera perché tutti si sgozzassero tra loro. Il capolavoro, il gioiello, è la nostra scuola, le nostre scuole. Quando sarà finito, non si vedrà più trasparire un pollice quadrato di muro sotto la verzura, i fiori e le bandiere. La signorina ha arruolato un esercito di giovanotti; gli scolari più grandi, i maestri: essa li dirige tutti, comanda a bacchetta, le obbediscono senza aprire bocca. E' sorto l'arco di trionfo dell'entrata; arrampicate su scale, la signorina e noi quattro abbiamo passato tre ore a "scrivere" con le rose rosa: Benvenuti! sul frontone, mentre i giovanotti si distraevano a sbirciarci i polpacci. Di lassù, dai tetti delle finestre, da tutte le sporgenze dei muri, viene fuori e trabocca una tale quantità di rami, ghirlande, stoffe tricolori, cordame mascherato sotto l'edera, rose penzolanti, verzura strisciante che, alla brezza leggera, il vasto edificio sembra ondeggiare dalla base alla cima, dondolare pian piano. Si entra a scuola sollevando una tenda frusciante di edera fiorita, e la fantasmagoria continua: ghirlande di rose seguono gli angoli, uniscono le pareti, penzolano dalle finestre. E' delizioso. Nonostante la nostra attività, nonostante le audaci irruzioni nelle case dei proprietari di giardini, questa mattina ci siamo viste a corto di fiori. Costernazione generale! Le teste coi diavoletti si chinano, si agitano attorno alla signorina che riflette con le sopracciglia aggrottate. "Eppure ne ho bisogno!" esclama. "Tutta la scansia di sinistra è vuota, ci vorrebbero vasi di fiori. Voi della requisizione, venite subito qui!" "Ecco, signorina!" Scattiamo tutte e quattro (Anaïs, Marie, Luce, Claudine), scattiamo fuori dal mormorante vortice, pronte a correre. "Sentite. Dovete andare da papà Caillavaut..." "Oh!..." Non l'abbiamo lasciata finire. Sfido, sentite un po': papà Caillavaut è un vecchio avaraccio, un po' tocco, cattivo come un demonio, smisuratamente ricco, che ha una casa e giardini meravigliosi, dove non entra nessuno tranne lui e il suo giardiniere. E' temuto, perché molto cattivo, odiato, perché molto avaro, rispettato come un mistero vivente. E la signorina vorrebbe che noi gli chiedessimo i fiori! Neppure pensarlo! "...Guarda, guarda! Si direbbe che vi mando al macello! Riuscirete a intenerire il giardiniere, e non lo vedrete neppure, lui, papà Caillavaut. E poi, che cosa? In ogni caso avete bene le gambe per scappare, no? Filate via!" Io trascino le altre tre che non hanno alcun entusiasmo, perché sento una voglia matta, mista a una vaga apprensione, di penetrare nella casa del vecchio maniaco. Le incoraggio: "Andiamo, Luce, andiamo, Anaïs! Vedremo cose strabilianti, racconteremo tutto alle altre... lo sapete bene, si possono contare sulle dita le persone che sono entrate da papà Caillavaut!". Davanti al portone verde, dove traboccano al di sopra del muro certe acacie fiorite e troppo profumate, nessuno osa tirare il cordone del campanello. Io mi ci appendo, scatenando così un formidabile scampanìo; Marie ha fatto tre passi per fuggire, e Luce, trasalendo, si nasconde coraggiosamente dietro di me. Niente, la porta resta chiusa. Un secondo tentativo non ha maggior successo. Allora sollevo il saliscendi che cede, e, come topi, a una a una, entriamo inquiete, lasciando la porta socchiusa. Un gran cortile sabbioso, molto ben tenuto, davanti alla bella casa bianca dalle persiane chiuse sotto il sole. Il cortile si allarga in un giardino verde, profondo e misterioso a causa dei fitti boschetti... Ferme, guardiamo senza osare muoverci; anche lì nessuno, e nessun rumore. A destra della casa, le serre chiuse e piene di piante meravigliose... La scala di pietra scende dolcemente svasata sino al cortile sabbioso; ogni gradino sostiene dei gerani fiammanti, delle calceolarie dalle piccole corolle tigrate, dei rosai nani costretti a fiorire troppo. L'evidente assenza di qualsiasi proprietario mi ridà coraggio: "Ah, dunque, non viene nessuno? Non metteremo le radici nei giardini dell'avaro-dormiente-nel-bosco!". "Zitta!" fa Marie, spaventata. "Come, zitta? Anzi, bisogna chiamare! Ohilà, signore! Giardiniere!" Nessuna risposta, anche questa volta silenzio. Mi dirigo verso le serre, e, col naso schiacciato sui vetri, cerco di indovinare l'interno: una specie di foresta di una tinta scura di smeraldo, chiazzata di macchie appariscenti, fiori esotici di certo... La porta è chiusa. "Andiamocene" sussurra Luce che si sente a disagio. "Andiamocene" ripete Marie ancora più turbata. "Se il vecchio venisse fuori da dietro un albero!" Questa idea le fa scappare verso la porta, io le chiamo indietro con tutta la mia energia. "Come siete stupide! Vedete bene che non c'è nessuno. Ascoltatemi: ciascuna di voi scelga due o tre vasi dei più belli che sono sulla scala, li porteremo a scuola senza dire nulla e credo che avremo un vero successo!" Non si muovono, tentate, di certo, ma timorose. Io mi impadronisco di due piante di orchidee, chiazzate come uova di cinciallegra, e faccio segno che sto aspettando. Anaïs si decide a imitarmi, si carica di due gerani doppi, Marie imita Anaïs, così pure Luce, e tutte e quattro camminiamo con prudenza. Vicino alla porta ci riprende la paura, assurda, ci pigiamo come pecorelle nella stretta apertura della porta, e corriamo sino alla scuola, dove la signorina ci accoglie con grida di gioia. Tutte insieme raccontiamo l'odissea. La direttrice, stupita, resta un momento perplessa e poi conclude con noncuranza: "Via, ci penseremo poi! Non è che un prestito, insomma, un po' forzato". Non ne abbiamo mai, mai sentito parlare, ma papà Caillavaut ha munito i muri di cocci aguzzi e di punte di lancia (questo furto ci ha procurato una certa considerazione: qui se ne intendono in fatto di brigantaggio). I nostri fiori furono collocati in prima fila, e poi, vi assicuro, nella confusione dell'arrivo del ministro, ci si dimenticò completamente di restituirli; i vasi andarono ad abbellire il giardino della signorina. Questo giardino è da parecchio tempo l'unica causa di discordia fra la signorina e quel donnone della madre; questa, che è rimasta una vera contadina, vanga, strappa le erbacce, dà la caccia alle chiocciole nei superstiti rifugi, e non ha altra aspirazione se non di coltivare riquadri di cavoli, porri, patate, di che nutrire tutte le pensionanti senza comperare nulla, insomma. La figlia, che è un tipo raffinato, sogna viali ombrosi, fiori a cespugli, pergole inghirlandate di caprifoglio, piante inutili, ohibò! Cosicché si può vedere ora la vecchia Sergent che vanga con gran disprezzo le vernonie del Giappone, le betulle piangenti, ora la signorina che, irritata, calpesta le coltivazioni di acetosella e le cipolline odorose. Questa lotta ci fa sbellicare dalle risa. Bisogna essere giusti, e riconoscere pure che, in tutti gli altri luoghi, tranne in giardino e in cucina, la signora Sergent sa stare completamente in disparte, non si fa mai vedere quando ci sono visite, non esprime un parere nelle discussioni, e porta fieramente la cuffia increspata. La cosa più buffa, in queste poche ore che mancano, è di venire a scuola e di tornarne attraverso le vie irriconoscibili, trasformate in viali di foreste, in sfondi di parchi, tutte olezzanti dell'odore penetrante degli abeti tagliati. Si direbbe che i boschi che circondano Montigny l'abbiano invasa, siano venuti quasi a seppellirla... Non avremmo potuto immaginare, per questo paese sperduto fra gli alberi, una decorazione più bella e più adatta... (Tuttavia non posso dire più "adeguata": è una parola che mi fa orrore.) Le bandiere, che daranno un aspetto brutto e volgare a questi viali verdi, saranno tutte messe a posto domani, così pure le lanterne veneziane e i lumini colorati. Pazienza! Non fanno complimenti con noi: le donne e i ragazzi ci chiamano quando passiamo: "Eh, voi che avete pratica, venite un po' qui ad aiutarci a disporre le rose!". Aiutiamo volentieri, ci arrampichiamo sulle scale; le mie compagne si lasciano - Dio mio, è per il ministro! - fare un po' di solletico sui fianchi e qualche volta sui polpacci; debbo dire che non si sono mai permessi simili scherzi con la figlia del "signore delle lumache". Però con questi giovanotti che non ci pensano più appena levata via la mano, è inoffensivo e non è neppure umiliante; capisco che le alunne della scuola si intonino all'ambiente. Anaïs permette tutte le libertà e ne desidera altre; Féfed la porta giù dalla scala tenendola in braccio. Touchand, detto Zéro, le ficca sotto le sottane qualche ramo pungente di pino; essa getta strilli come un sorcio prigioniero in una porta e socchiude gli occhi estasiata, senza avere nemmeno la forza di simulare una difesa. La signorina ci lascia riposare un po', perché teme che siamo troppo stanche per il gran giorno. D'altronde non so che cosa resterebbe da fare: tutto è ornato di fiori, tutto è a posto; i fiori recisi sono a bagno in cantina nei secchi di acqua fresca, saranno distribuiti un po' dappertutto all'ultimo momento. I nostri tre mazzi sono arrivati questa mattina in una grande e fragile cassetta; la signorina non ha nemmeno voluto che l'aprissimo del tutto: ha levato una tavola, ha sollevato un po' la carta velina che avvolgeva i fiori patriottici e l'ovatta che esalava un profumo umido: subito la vecchia Sergent ha portato giù in cantina la cassetta leggera in cui sono sparsi granellini di un sale che non conosco, che impedisce ai fiori di avvizzire. Piena di premure per le principali aiutanti, la direttrice manda Anaïs, Marie, Luce e me a riposare in giardino sotto i noccioli. Sdraiate all'ombra sulla panchina verde, quasi non pensiamo; il giardino è tutto un ronzìo. Come punta da una mosca, Marie Belhomme fa un balzo e improvvisamente si mette a srotolare uno dei grossi diavoletti che da tre giorni le tremolano sul capo: "...Che fai?". "Per vedere se sono ricci, no?" "E se non lo fossero abbastanza?" "Caspita, li bagnerei questa sera, andando a letto. Ma vedi, sono molto ricci, vanno bene!" Luce imita l'esempio e, delusa, fa un piccolo strillo. "Ah, è come se non avessi fatto nulla! Sono ricci in fondo e in cima niente o quasi niente!" Infatti ha di quei capelli soffici e morbidi come la seta, che sfuggono e scivolano sotto le dita, sotto i nastri, e non fanno se non quello che vogliono. "Tanto meglio," le dico "imparerai. Sei molto infelice di non avere la testa come una spazzola!" Ma essa non si consola, e siccome le loro voci mi annoiano, vado più lontano a sdraiarmi sulla sabbia, all'ombra dei castagni. Non ho idee molto chiare: il caldo, la fatica... Il mio vestito è pronto, mi sta bene... sarò bella domani, più di Anaïs la lunga, più di Marie: non è difficile, tuttavia fa piacere... Lascerò la scuola, papà mi manderà a Parigi da una zia ricca e senza figli, farò l'ingresso in società e insieme farò tante gaffes... Come potrò rinunciare alla campagna con questa fame di verde che non mi abbandona mai? Mi sembra assurdo pensare che non tornerò più qui, che non vedrò più la signorina, la sua piccola Aimée dagli occhi d'oro, non più Marie, la pazzerella, non più quella cattivaccia di Anaïs, non più Luce, avida di botte e di carezze... mi dispiacerà di non vivere più qui. E poi, finché me ne resta il tempo, posso ben dirlo: Luce, in fondo, mi piace più di quanto non voglia confessarmelo. Ho un bel ripetermi che non è una gran bellezza, che i suoi vezzi sono quelli di una bestiola traditrice, che gli occhi sono ingannatori: ciò non impedisce che abbia un suo fascino, fatto di originalità, di debolezza, di perversità ancora ingenua... e la carnagione bianca, e le mani sottili all'estremità delle braccia tonde, e i piedi graziosi. Ma non ne saprà mai nulla! Essa soffre per colpa della sorella che la signorina Sergent mi ha rapito a viva forza. Piuttosto che confessarlo, lingua! mi strapperei la Sotto i noccioli, Anaïs descrive a Luce il vestito che metterà domani; mi avvicino, in vena di cattiveria, e sento: "Il colletto? Non c'è colletto! E' scollato a punta davanti e dietro, con una guarnizione di mussola a lattuga e chiuso da un fiocco di nastro rosso...". "I cavoli rossi richiedono un terreno magro e pietroso, c'insegna l'ineffabile Bérillon; (18) è proprio quello che ci vuole, Anaïs? Lattuga, cavoli: non è un vestito, è un orto." (19) "Signorina Claudine, se viene qui per dire cose tanto spiritose, poteva rimanere sulla sabbia, non stavamo certo qui ad aspettare lei." "Non scaldarti; di', com'è fatta la sottana, con che verdure la condiremo? Me la immagino già: c'è intorno una frangia di prezzemolo!" Luce si diverte moltissimo; Anaïs si ammanta nella propria dignità e si allontana; siccome il sole sta calando, ci alziamo anche noi. Nel momento in cui chiudiamo il portone del giardino, zampillano limpide risate, si avvicinano, e la signorina Aimée passa di corsa, sghignazzando, inseguita dall'ineffabile Rabastens, che la bombarda di fiori e di semi di grandiflora. Questa inaugurazione alla presenza di un ministro giustifica piacevoli libertà per le strade, e anche a scuola, a quanto pare! Ma la signorina Sergent viene dietro di loro, pallida di gelosia e con le sopracciglie corrugate; più in là la sentiamo chiamare: "Signorina Lanthenay, le ho domandato due volte se aveva detto alle sue scolare di trovarsi qui alle sette e mezzo". Ma quella, pazza, felice di scherzare con un uomo e di irritare l'amica, corre senza fermarsi, e i fiori purpurei le si attaccano ai capelli, le scivolano sul vestito... Questa sera ci sarà una scenata. Alle cinque, le signorine ci radunano con gran fatica, dato che siamo sparse in tutto l'edificio. La direttrice decide di suonare la campana della cena, e interrompe così un furioso galoppo che Anaïs, Marie, Luce e io stavamo ballando nella sala del banchetto, sotto il soffitto infiorato. "Signorine," grida con la voce delle grandi occasioni "tornate subito a casa e andate a letto presto! Domani mattina, alle sette e mezzo, vi radunerete qui, vestite, pettinate, in modo che non dobbiamo più occuparci di voi! Vi daremo bandierine e gagliardetti; le signorine Claudine, Anaïs, e Marie prenderanno i mazzi di fiori... Il resto, lo vedrete quando sarete qui. Andatevene, non sciupate i fiori, passando per le porte, e che io non senta più parlare di voi sino a domani mattina!" Aggiunge: "Signorina Claudine, sa il discorso?". "Altro che! Anaïs me lo ha fatto ripetere tre volte oggi." "Ma... e la distribuzione dei premi?" si arrischia a dire una timida voce. "Ah, la distribuzione dei premi si farà quando si potrà! E' probabile d'altronde che io vi dia i libri qui, semplicemente, e che quest'anno, a causa dell'inaugurazione, non vi sia una distribuzione pubblica." "Ma... i cori, l'Inno alla natura?" "Li canterete domani, davanti al ministro. Filate via!" Questa allocuzione ha costernato parecchie ragazzine che aspettano la distribuzione dei premi come la festa più bella dell'anno; se ne vanno perplesse e insoddisfatte sotto gli archi di verzura ornati di fiori. Gli abitanti di Montigny, stanchi e orgogliosi, si riposano seduti sulle soglie e contemplano la loro opera; le ragazze impiegano il resto del giorno che muore a cucire un nastro, a mettere un pizzo sul bordo di una scollatura improvvisata, per il gran ballo del municipio, cara mia! Domani mattina, all'alba, i giovanotti spargeranno lungo il percorso del corteo uno strato di erba tagliata, di foglie verdi, mescolate con fiori e petali di rose. E se il ministro Jean Dupuy non sarà soddisfatto, vuol dire che è troppo esigente; e peggio per lui! Il mio primo impulso, aprendo gli occhi questa mattina, è stato di correre allo specchio; perbacco, non si sa mai, se questa notte mi fosse venuta una flussione di denti? Rassicurata, mi vesto con gran cura: giornata meravigliosa, sono solo le sei; ho tutto il tempo di agghindarmi. Grazie all'aria secca, i capelli mi formano come una nube. Ho un visetto sempre un po' pallido e aguzzo, ma - vi assicuro - occhi e bocca non sono brutti. Il vestito fruscia leggermente; la sottoveste di mussola, senza amido, ondeggia alla cadenza del passo e accarezza le scarpe a punta. Ora la corona. Ah, come mi sta bene! Una piccola Ofelia, giovanissima, con certi occhi così stranamente cerchiati!... Sì, quand'ero piccina, mi dicevano che avevo gli occhi da grande; più tardi erano gli occhi "poco per bene"; non si può accontentare tutti e se stessi. Preferisco accontentare prima me... Una bella noia è quel grosso mazzo di fiori stretto e rotondo che mi imbruttisce. Via, poiché lo rifilo a Sua Eccellenza... Tutta vestita di bianco me ne vado a scuola, per le vie fresche; i giovanotti, che stanno spargendo fiori, urlano complimenti spinti, un po' troppo spinti, alla "sposina" che sfugge, selvatica. Arrivo in anticipo, e tuttavia trovo già una quindicina di scolare, piccine delle campagne circostanti, delle fattorie più lontane: d'estate hanno l'abitudine di alzarsi alle quattro. Ridicole e commoventi, con le teste enormi, avendo i capelli gonfiati in rigidi ciuffi, stanno in piedi per non spiegazzare i vestiti di mussola, stirati con un appretto troppo azzurrognolo, che si gonfiano, rigidi, annodati alla vita con cinture scarlatte o viola; e i volti abbronzati sembrano proprio neri in mezzo a tutto quel bianco. Quando entro, prorompono in una esclamazione di meraviglia subito trattenuta, e ora tacciono molto intimidite per i bei vestiti e l'arricciatura dei capelli, rigirando fra le mani, coperte di guanti di filo bianco, un bel fazzoletto, nel quale la mamma ha versato qualche goccia di profumo. Le signorine non si fanno vedere, ma al piano superiore sento passettini di corsa... Nel cortile sbucano nuvole bianche con nastri rosa, rossi, verdi e azzurri; le ragazzine giungono sempre più numerose, zitte per lo più, perché molto affaccendate a squadrarsi e a stringere le labbra con aria sdegnosa. Sembra un accampamento di donne dell'antica Gallia con queste chiome sciolte, inanellate, ricciute, traboccanti, quasi tutte bionde... Una galoppata giù per le scale: sono le convittrici - gregge sempre isolato e ostile - che possono ancora portare il vestito della prima comunione; dietro di loro scende Luce, leggera come un angora bianco, graziosa con i riccioli molli e ondeggianti, la carnagione fresca come una rosa. Per renderla decisamente bella non le ci vorrebbe, come ad Aimée, un amore corrisposto? "Come sei bella, Claudine! E la tua corona non è affatto uguale alle altre due. Ah, che fortuna essere così bella!" "Ma, gattina mia, sai che mi sembri proprio piacente e desiderabile con i tuoi nastri verdi? Sei veramente una bestiolina molto curiosa! Dove sono tua sorella e la signorina?" "Non sono ancora pronte; pensa che il vestito di Aimée si abbottona sotto il braccio! Glielo sta mettendo la signorina." "Sì, può durare un pezzo." Dall'alto, la voce della sorella maggiore chiama: "Luce, vieni a prendere le bandierine!". Il cortile si riempie di ragazze piccole e grandi, e tutto questo bianco, sotto il sole, fa male agli occhi. (D'altronde troppi bianchi diversi si annullano.) Ecco Lillina, col solito sorriso inquietante di Gioconda sotto le ondulazioni dei capelli dorati e con gli occhi glauchi; e quella giovane pertica di Mathilde, coperta sino alle reni da una cascata di capelli color del grano maturo; la dinastia delle Vignale, cinque femmine dagli otto ai quattordici anni, le quali agitano tutte criniere abbondanti, che sembrano tinte all'henné; Jeannette, una furbetta dagli occhi maliziosi, cammina con due trecce lunghe come lei, di un biondo cupo, pesanti come dell'oro scuro, e tante, tante altre; e sotto la luce scintillante queste capigliature sfavillano. Arriva Marie Belhomme, attraente nel vestito color crema, con nastri azzurri, piuttosto buffa sotto la corona di fiordalisi. Ma, Dio mio, che mani grandi sotto i guanti di capretto bianco! Finalmente ecco Anaïs, e io sospiro di sollievo vedendola così mal pettinata, con ondulazioni rigide; con la corona di papaveri purpurei, troppo vicina alla fronte, ha una tal carnagione che sembra una morta. Con un accordo commovente, Luce e io le corriamo incontro, prorompiamo in un coro di complimenti: "Cara mia, come stai bene! Lo sai, cara, davvero nessun colore ti va come il rosso, stai proprio bene!". Un po' diffidente, dapprima, Anaïs non sta nella pelle per la gioia, e facciamo un ingresso trionfale nell'aula dove ora le ragazzine, al completo, salutano con una ovazione il tricolore vivo. Si fa un religioso silenzio: vediamo scendere le signorine senza fretta, un gradino alla volta, seguite da due o tre convittrici che portano le bandierine fissate in cima a grandi aste dorate. Aimée, perbacco - sono costretta a riconoscerlo - la si mangerebbe di baci tanto è seducente col vestito bianco di moire lucido (una sottana senza cucitura dietro, basta questo!) con un cappello di paglia di riso e un velo bianco. Va', piccolo mostro! E la signorina la cova con gli occhi, inguainata nel vestito nero, ricamato a rami lilla, che vi ho già descritto. Lei, la cattiva rossa, non può esser bella, ma il vestito la stringe come un guanto, e non si vedono che gli occhi scintillanti sotto le onde ardenti, coperte da un cappello nero elegantissimo. "Dov'è la bandiera?" domanda subito. La bandiera si avanza, modesta e soddisfatta di sé. "Va bene; va... benissimo! Venga qui, Claudine... Sapevo bene che avrebbe fatto bella figura. E ora mi seduca il ministro!" Esamina rapidamente tutto il battaglione bianco, mette a posto un ricciolo qui, tira un nastro là, chiude la sottana di Luce, che era mezzo sbottonata, ficca nuovamente nella crocchia di Aimée una forcina che scivolava giù, e dopo aver scrutato tutto col suo occhio temibile, prende il fascio delle iscrizioni varie: "Viva la Francia!", "Viva la Repubblica!", "Viva la Libertà!", "Viva il Ministro!" eccetera, in tutto venti bandiere che distribuisce a Luce, alle Jaubert, ad altre elette che arrossiscono di orgoglio, reggono l'asta come un cero, invidiate dalle semplici mortali che sono furibonde. Con gran cura togliamo dall'ovatta, come se fossero monili, i nostri tre mazzi annodati con fiocchi tricolori. Dutertre ha speso bene i denari dei fondi segreti; io ricevo un fascio di camelie bianche; Anaïs, uno di camelie rosse; a Marie Belhomme tocca il grosso mazzo di fiordalisi grandi e vellutati, poiché la natura, non avendo preveduto i ricevimenti ai ministri, ha trascurato di far spuntare camelie azzurre. Le piccole si urtano per vedere, e già si scambiano spintoni, pur con acuti lamenti. "Basta!" grida la signorina. "Credete che abbia il tempo di fare la guardia? Qui la bandiera! Marie a sinistra, Anaïs a destra, Claudine in mezzo; e via, scendete in cortile un po' svelte! Sarebbe bello che perdessimo l'arrivo del treno! Le portatrici di gagliardetti seguano a quattro a quattro, le più grandi in testa..." Scendiamo giù dal pianerottolo, non sentiamo il resto del discorso, Luce e le più grandi camminano dietro a noi, le banderuole dei gagliardetti ci sbattono leggermente sulle teste; seguite da uno scalpiccìo di pecore, passiamo sotto l'arco di verzura... Benvenuti! Tutta la folla che ci attendeva fuori, una folla vestita a festa, entusiasta, pronta a gridare: "Viva qualunque cosa!", vedendoci, prorompe in una grande esclamazione di meraviglia, come per un fuoco d'artificio. Superbe come pavoncelli, con gli occhi bassi, e scoppiando di vanità, camminiamo pian piano, col mazzo nelle mani congiunte, calpestando lo strato di fiori che copre la polvere; solo dopo qualche minuto ci scambiamo sguardi di traverso e sorrisi raggianti, pieni di allegria. "E' un piacere" sospira Marie contemplando i viali verdi attraverso i quali passiamo lentamente, fra due ali di spettatori a bocca aperta, sotto le volte del fogliame che filtrano il sole lasciando passare una luce falsa e deliziosa da sottobosco. "Lo credo bene che ci divertiamo! Si direbbe che la festa è per noi!" Anaïs non dice parola, troppo assorta nella propria dignità, troppo occupata a cercare, nella folla che fa ala al nostro passaggio, i giovanotti che conosce e che crede di affascinare. Non è bella, oggi, però, in mezzo a tutto quel bianco, non è bella! Ma gli occhietti le scintillano ugualmente di orgoglio. Al crocicchio del Mercato, ci gridano: "Ferme!". Bisogna che ci raggiunga la scuola maschile, tutto un corteo scuro che si fatica molto a tenere in file regolari. Oggi i ragazzi ci sembrano molto spregevoli, abbronzati e goffi con gli abiti da festa; le grosse mani impacciate reggono le bandiere. Durante la sosta, ci siamo voltate tutte e tre, nonostante la nostra importanza: dietro a noi, Luce e le sue compagne si appoggiano bellicosamente all'asta delle bandiere; la piccola è raggiante di vanità e sta dritta come Fanchette quando fa la graziosa; ride di gioia in tono sommesso, di continuo. E sino a perdita d'occhio, sotto gli archi verdi, con le sottane a sbuffo e le chiome gonfie, si stende e si perde l'esercito delle donne della Gallia. "In marcia!" Riprendiamo il cammino leggere come scriccioli, scendiamo la via del Chiostro e varchiamo finalmente questa muraglia verde fatta di tassi tagliati a forbiciate, che rappresenta una roccaforte, e siccome sulla strada il sole picchia sodo, ci fermiamo all'ombra del boschetto di acacie, vicino al paese; aspettiamo le vetture ministeriali. Ci riposiamo un po'. "La mia corona sta su?" domanda Anaïs. "Sì... vedi un po' tu." Le porgo uno specchietto tascabile, che ho portato per prudenza, e verifichiamo l'equilibrio delle nostre acconciature... La folla ci ha seguite, ma, troppo pigiata nel sentiero, ha rotto le siepi che la fiancheggiano, e ha calpestato i campi senza curarsi del raccolto del fieno. I giovanotti deliranti portano fasci di fiori, bandiere e anche bottiglie! (Benissimo, perché ne ho visto uno che si fermava, rovesciava il capo e beveva a garganella da una bottiglia da litro.) Le signore della "società" sono rimaste alle porte del paese, chi seduta sull'erba, chi su seggiolini pieghevoli, tutte riparate da ombrellini. Aspetteranno là, è più di buon gusto; non conviene mostrare troppa premura. Lontano ondeggiano bandiere sui tetti rossi della stazione, dove accorre la folla; e il chiasso si allontana. La signorina Sergent, tutta vestita di nero, e la sua Aimée, tutta in bianco, già ansanti per la fatica di sorvegliarci e di correrci accanto avanti e indietro, siedono sul pendìo, con le sottane rialzate per timore di macchiarle di verde. Noi aspettiamo in piedi, senza aver voglia di parlare, io ripasso mentalmente il discorsetto un po' sciocchino, opera di Antonin Rabastens, che reciterò fra poco: ""Signor ministro, i bimbi delle scuole di Montigny, ornati dei fiori del paese natale..." (Ditemi se si sono mai visti campi di camelie, qui!) "...vi vengono incontro pieni di riconoscenza..."" Pum! Una scarica di fucilate che rimbomba alla stazione fa balzare in piedi le maestre. Le grida della folla ci giungono come un rumore sordo, che subito cresce e si avvicina con uno strepito confuso di grida allegre, di molteplici scalpiccìi e di cavalli al galoppo... Con grande tensione d'animo, fissiamo la svolta della strada... Finalmente, finalmente sbuca l'avanguardia: monelli impolverati che trascinano rami e sbraitano, poi ondate di folla, poi due vetture chiuse che splendono al sole, due o tre landò dai quali si levano delle braccia che agitano il cappello... Siamo tutt'occhi a guardare... Le vetture si avvicinano con un trotto rallentato, sono qui, davanti a noi, prima che abbiamo avuto il tempo di rendercene conto, quando si apre a dieci passi da noi lo sportello della prima carrozza. Un giovanotto in marsina salta a terra e tende il braccio sul quale si appoggia il ministro dell'Agricoltura. Non è per nulla distinto l'Eccellenza, nonostante gli sforzi che fa per apparire imponente. Lo trovo persino un po' ridicolo, questo burbanzoso ometto, dal ventre di fringuello, che si asciuga la fronte insignificante, e gli occhi arcigni e la barbetta rossastra, perché gocciola di sudore. Sfido, non è vestito di mussola bianca, lui; e il panno nero, con questo sole... Lo accoglie un minuto di silenzio curioso; e subito, grida deliranti di: "Viva il ministro! Viva l'agricoltura! Viva la repubblica!"... Jean Dupuy ringrazia con un gesto parco, ma sufficiente. Un grosso signore, con l'uniforme ricamata d'argento, in feluca, e tenendo la mano sull'elsa di madreperla di uno spadino, viene a mettersi a sinistra dell'illustre personaggio; un vecchio generale dalla barbetta bianca, alto e curvo, si colloca al fianco destro. E l'imponente terzetto si avanza serio, scortato da una schiera di signori in marsina, dai collari rossi e con varie altre insegne cavalleresche. Fra le spalle e le teste, distinguo il viso trionfante di quella canaglia di Dutertre, acclamato dalla folla, che lo festeggia come amico del ministro e come futuro deputato. Cerco con gli occhi la signorina, le domando con un cenno del mento e delle sopracciglia: "Devo dunque cominciare il discorsetto?". Annuisce, e io trascino le mie due accolite. Si fa subito un silenzio sorprendente. Dio mio, come oserò parlare davanti a tutta questa gente? Purché quella maledetta tremarella non mi soffochi la voce! Prima di tutto, in perfetto sincronismo, ci sprofondiamo nelle sottane con un bell'inchino, che fa frusciare i vestiti, e incomincio (le orecchie mi ronzano in modo tale che non sento la mia voce): "Signor ministro, i bimbi delle scuole di Montigny, ornati dei fiori del paese natale, vi vengono incontro pieni di riconoscenza...". E poi subito mi faccio animo e continuo, articolando la prosa nella quale Rabastens si rende garante del nostro "indefettibile attaccamento alle istituzioni repubblicane", tanto tranquilla, ora, come se recitassi in classe il Vestito del Manuel. D'altronde il terzetto ufficiale non mi ascolta: il ministro pensa che sta morendo di sete, gli altri due grandi personaggi si scambiano sottovoce apprezzamenti: "Signor prefetto, da dove salta fuori questo quadro?". "Non ne so nulla, generale, è un amore." "Sembra un "primitivo"" (anche lui!) "Se quella sembra una ragazza di queste parti, vorrei essere..." "Favorite accettare questi fiori del suolo materno" concludo, tendendo il mazzo a Sua Eccellenza. Anaïs, affettata, come tutte le volte in cui cerca di avere l'aria distinta, porge il proprio al prefetto, e Marie Belhomme, paonazza per l'emozione, lo offre al generale. Il ministro balbetta una risposta di cui afferro le parole: "Repubblica... sollecitudine del governo... fiducia nella devozione"; mi irrita. Poi resta immobile, e io pure; tutti sono in attesa, quando Dutertre, chinandosi al suo orecchio, gli suggerisce: "Suvvia, bisogna baciarla!". Allora mi bacia, ma goffamente (la sua barba ispida mi punge). La fanfara del capoluogo comincia la Marsigliese, e, facendo un voltafaccia, andiamo verso la città, seguite dalle portabandiera; gli altri alunni fanno ala per lasciarci passare, e, precedendo il corteo maestoso, passiamo sotto la "roccaforte", rientriamo sotto le volte di verzura; intorno a noi urlano in tono acuto, da forsennati, sembra veramente che nessuno capisca più nulla! Diritte e coperte di fiori, noi tre siamo acclamate quanto il ministro... Ah, se avessi un po' di fantasia, immaginerei subito che noi tre siamo le figlie del re, che entrano col padre in una qualsiasi città fedele; le ragazzine sono le nostre damigelle, ci conducono al torneo, dove i prodi cavalieri si disputeranno l'onore di... Purché questi maledetti ragazzi non abbiano riempito troppo di olio i lumini colorati, sin da questa mattina! Con le scosse che danno ai pennoni, i monelli che vi si sono arrampicati e urlano, saremmo ben conciate! Non parliamo tra noi, non abbiamo nulla da dirci, siamo abbastanza occupate a dimenare i fianchi per questa gente venuta da Parigi, e a chinare il capo in direzione del vento per scompigliarci i capelli... Arriviamo nel cortile delle scuole, ci fermiamo, ci raggruppiamo, la folla affluisce da tutte le parti, dà l'assalto ai muri e vi si arrampica. Con aria sdegnosa allontaniamo piuttosto freddamente le compagne troppo disposte a circondarci, a sommergerci; ci scambiamo delle acide frasi: "Ma bada, dunque!... E tu non darti tante arie!... Sei stata abbastanza in mostra da questa mattina!". Anaïs la lunga oppone un silenzio sdegnoso a queste parole di scherno; Marie Belhomme si irrita; io mi trattengo più che posso dal levarmi una delle scarpine scollate per sbatterla sul viso della più sfacciata delle Jaubert che mi ha urtato di soppiatto. Il ministro, scortato dal generale, dal prefetto, da una quantità di consiglieri, di segretari, di non so bene che cosa (conosco poco quell'ambiente) che fendono la folla, è salito sul palco e si installa nella bella poltrona troppo dorata che il sindaco ha tolto apposta dal salotto. Magra consolazione per quel poveruomo, inchiodato a casa dalla gotta in questo giorno indimenticabile! Jean Dupuy suda e si asciuga il sudore; che cosa non darebbe perché fosse domani! Del resto, lo pagano per questo... Dietro di lui, in semicerchi concentrici, siedono i consiglieri generali, il consiglio municipale di Montigny... tutta questa gente sudata non deve olezzare... E allora noi? E' finita la nostra gloria? Ci lasciano giù, senza che nessuno ci offra una sedia? E' un po' grossa! "Venite, voialtre, andiamo a sederci." Non senza fatica ci facciamo strada sino alla pedana, noi, la bandiera, e tutte le reggi-stendardo. Là, a testa alta, chiamo a mezza voce Dutertre che chiacchiera, chino sulla spalliera della sedia del prefetto, proprio sull'orlo del palco: "Dottore, ehi, dottore; dottor Dutertre, via!... dottore!". Sente questo richiamo meglio degli altri e si china sorridendo, mostrando le zanne: "Sei tu! Che cosa vuoi? Il mio cuore? Te lo do!". Immaginavo che fosse già ubriaco. "No, dottore, preferirei una sedia per me e qualche altra per le mie compagne. Ci hanno abbandonate sole solette, con le semplici mortali: è molto triste." "Grida proprio vendetta! Vi disporrete a scaglioni, sedute sui gradini perché la gente possa almeno riposarsi l'occhio mentre noi l'annoieremo coi nostri discorsi. Salite tutte!" Non ce lo facciamo dire due volte, Anaïs, Marie e io ci arrampichiamo per prime con Luce, le Jaubert e le altre portabandiera dietro a noi, imbarazzate perché le aste si urtano, si aggrovigliano, ed esse le tirano furiosamente a denti stretti e con gli occhi bassi, pensando che la folla si diverta alle loro spalle. Un tale - il sacrestano s'impietosisce e raccoglie gentilmente le bandierine che porta via; di certo i vestiti bianchi, i fiori, i gagliardetti hanno dato a questo brav'uomo l'illusione di assistere a una festa del Corpus Domini, un po' più laica, e, obbedendo a una antica abitudine, ci porta via i ceri, voglio dire le bandierine, alla fine della cerimonia. Installate nel palco e troneggianti, guardiamo la folla ai nostri piedi e le scuole davanti a noi, queste scuole oggi bellissime sotto le tende di verzura, sotto i fiori, sotto tutta questa acconciatura fremente che ne dissimula il duro aspetto di caserma. In quanto alla vile plebaglia delle compagne rimaste giù in piedi, che ci osserva con invidia, si spinge a gomitate e ride forzatamente, noi la disdegniamo. Sul palco muovono le sedie, tossiscono, e noi ci voltiamo a metà per vedere l'oratore. E' Dutertre che, in piedi nel mezzo, agile e nervoso, si prepara a parlare, senza fogli, a mani vuote. Si fa un silenzio profondo. Si sentono, come durante la messa solenne, gli strilli di un bambino che vorrebbe andarsene, e, come alla messa solenne, fa ridere. Poi: "Signor ministro...". Non parla più di due minuti; il suo discorso, abile e secco, pieno di complimenti grossolani, di sottili birbonate (delle quali probabilmente non ho capito che la quarta parte), è terribile contro il deputato e gentile per tutti gli altri esseri umani; per il suo glorioso ministro e caro amico devono averne fatti dei brutti tiri insieme - per i suoi cari concittadini, per la direttrice "di un merito così indiscutibile che il numero delle promozioni ottenute dalle scolare mi dispensa da qualsiasi altro elogio..." (la signorina Sergent, seduta in basso, china modestamente il capo sotto il velo), per noi, in verità "fiori che portano fiori, bandiera femminile, patriottica e seducente". A questo colpo inatteso, Marie Belhomme perde la testa e si nasconde gli occhi con la mano; Anaïs rinnova i vani sforzi per arrossire, e io non posso fare a meno di muovere i fianchi. La folla ci guarda e ci sorride, e Luce mi strizza l'occhio... "...della Francia e della repubblica!" Gli applausi e le grida durano cinque minuti, così fragorosi da assordare; mentre si calmano, Anaïs la lunga mi dice: "Mia cara, vedi Monmond?". "Dove?... Sì, lo vedo. Ebbene che c'è?" "Non fa che guardare la Joublin." "Ti pesta i calli?" "No, ma veramente bisogna avere gusti ben strani. Ma guardalo! La fa salire su un banco e la sostiene! Scommetto che sta palpando per sentire se ha i polpacci sodi." "E' probabile. Povera Jeannette, non so se sia l'arrivo del ministro che la emoziona tanto! E' rossa come i tuoi nastri, e ha dei fremiti..." "Cara mia, sai a chi fa la corte, Rabastens?" "No." "Guardalo, lo saprai." E' proprio vero che il bel maestro sta guardando ostinatamente una tale... E questa tale è la mia incorreggibile Claire, vestita di azzurro, i cui begli occhi un po' malinconici si volgono con compiacenza verso l'irresistibile Antonin... Bene: è stata colpita ancora una volta la compagna della prima comunione! Fra poco sentirò storie romantiche di incontri, di gioie, di abbandoni... Dio mio, che fame! "Non hai fame, Marie?" "Sì, un po'." "Io muoio di fame. Ti piace il vestito nuovo della modista?" "No, trovo che è vistoso. Pensa che più dà nell'occhio, più è bello. La sindachessa ha ordinato il suo a Parigi, lo sai?" "Fa proprio bella figura! Lo porta come una scimmia vestita. L'orologiaia ha ancora il vestito di due anni fa." "To', vuol fare la dote alla figlia, ha ragione quella!" Il piccolo papà Dupuy si è alzato e incomincia la risposta con voce secca, con un'aria d'importanza proprio divertente. Per fortuna non parla a lungo. Il pubblico applaude, e anche noi, a più non posso. E' buffo vedere tutte queste teste che si agitano, tutte queste mani levate che battono in aria, ai nostri piedi, tutte queste bocche nere che gridano... E che bel sole in alto! Un po' troppo caldo... Vi è un movimento di sedie sul palco, tutti quei signori si alzano, ci fanno segno di scendere, accompagniamo il ministro che va a mangiare, andiamo a fare colazione! A fatica, sballottate fra la folla che si spinge in ondate contrastanti, riusciamo a uscire dal cortile, sulla piazza dove la calca si allenta un poco. Tutte le ragazzine in bianco se ne vanno, sole o con le mamme, molto orgogliose, che le attendevano; anche noi tre stiamo per separarci. "Ti sei divertita?" domanda Anaïs. "Certo, è andata molto bene, com'era bello!" "Be', io penso... Insomma credevo che fosse più divertente... Mancava un po' di slancio, ecco!" "Taci, mi fai rabbia! So quello che ti manca: avresti voluto cantare qualcosa, tu sola sul palco. La festa ti sarebbe sembrata subito più allegra." "Di' pure, non mi offendi; si sa che cosa valgono simili complimenti dalla tua bocca!" "Io" confessa Marie "non mi sono mai divertita tanto. Oh, che cosa ha detto di noi... Non sapevo più dove nascondermi!... A che ora torniamo?" "Alle due in punto. Cioè alle due e mezzo, capisci bene che il banchetto non sarà finito prima. Arrivederci fra poco." A casa, papà mi domanda con interesse: "Ha parlato bene Méline?". (20) "Méline? Perché non Sully? (21) E' Jean Dupuy, andiamo, papà!" "Sì, sì." Ma trova bella la figlia, e si compiace di guardarla. Dopo aver fatto colazione, mi ravvio di nuovo i capelli, raddrizzo le margherite della corona, mi scuoto via la polvere dalla sottana di mussola, e aspetto pazientemente due ore, resistendo alla meglio al vivo desiderio di fare la siesta. Come farà caldo, là, mio Dio. Fanchette, non toccarmi la sottana: è di mussola. No, non ti prendo le mosche, non vedi che devo ricevere il ministro? Esco di nuovo; per le strade vi è già un brusìo e risuona il rumore dei passi, tutti in direzione della scuola. Sono molto osservata, non mi dispiace. Quasi tutte le compagne sono già presenti quando sopraggiungo: facce rosse, sottane di mussola già gualcite e che hanno perso le pieghe, non hanno più l'aria fresca di questa mattina. Luce si stira e sbadiglia; ha fatto colazione troppo in fretta, ha sonno, ha troppo caldo, "si sente spuntare gli artigli". Anaïs sola è sempre la stessa, ugualmente pallida, ugualmente fredda, senza fiacchezza e senza emozione. Le signorine scendono finalmente. La signorina Sergent, con le guance rosse, sgrida Aimée che si è macchiata la balza della sottana col sugo di lampone; la piccola viziata tiene il broncio e scuote le spalle, e si volta senza voler accorgersi della tenera preghiera degli occhi dell'amica. Luce spia tutto ciò, s'infuria e si fa beffe. "Vediamo, ci siete tutte?" tuona la signorina che, come sempre, fa scoppiare sulle nostre teste innocenti i rancori personali. "Pazienza, andiamocene, non ho voglia di sorbirmi questa attesa, di aspettare un'ora qui. In fila, e più svelte!" Che bel vantaggio! Su questo enorme palco, scalpicciamo a lungo, perché il ministro non la finisce più di prendere il caffè e il resto. La folla, giù, rumoreggia e ci guarda ridendo, con facce grondanti di gente che ha mangiato molto... Le signore hanno portato i seggiolini pieghevoli; l'albergatore di via del Chiostro ha disposto qualche panchina che affitta a due soldi al posto; i giovanotti e le ragazze vi si accatastano e vi si pigiano; tutta questa gente brilla, volgare e ridanciana, aspetta pazientemente scambiandosi espressioni molto spinte, urlate a distanza con risate formidabili. Di tratto in tratto una ragazzina vestita di bianco si fa strada fino ai gradini del palco, si arrampica, si fa strapazzare e relegare nelle ultime file dalla signorina, irritata da questi ritardi e che rode il freno sotto la veletta, ancora più furente a causa della piccola Aimée che manovra le lunghe ciglia e i begli occhi per un gruppo di commessi venuti da Villeneuve in bicicletta. Si leva un "Ah!" di meraviglia che sospinge la folla verso le porte della sala del banchetto, che si sono aperte davanti al ministro più rosso, più sudato ancora di questa mattina, seguito dalla sua scorta di marsine. Facciamo ala al suo passaggio già con più familiarità, con sorrisi di confidenza; se restasse qui tre giorni, la guardia campestre gli darebbe colpetti sulla pancia, chiedendogli uno spaccio di tabacchi per la nuora che ha tre bambini, povera ragazza, e non un marito. La signorina ci raggruppa sul fianco destro del palco poiché il ministro e le sue comparse si siederanno su queste file di sedie per sentire meglio quando canteremo. Quei signori si accomodano: Dutertre, che è del colore del cuoio di Russia, ride e parla troppo forte, ubriaco - tanto per cambiare! La signorina ci minaccia sottovoce castighi spaventosi se stoneremo; e incominciamo l'Inno alla natura: Oramai l'orizzonte si colora/ dei più splendenti e vividi bagliori./ Alziamoci, orsù: ecco l'aurora/ ed il lavor vuole i nostri sudori!/ (Se il lavoro non si accontenta dei sudori del corteo ufficiale, vuole dire che è esigente.) Le vocine si sperdono un po' all'aria aperta; io mi affanno a sorvegliare insieme il secondo e il terzo gruppo. Jean Dupuy segue vagamente il ritmo dondolando il capo, ha sonno, sogna il Petit Parisien. Lo svegliano gli applausi fragorosi; si alza, si avanza e si congratula goffamente con la signorina Sergent, che diventa subito selvatica, abbassa gli occhi e si rinchiude in se stessa... Che strana donna! Ci fanno sloggiare, ci sostituiscono con gli alunni della scuola maschile che vengono a ragliare un coro idiota: Sursum corda! Sursum corda!/ Alti i cuori! Questo motto/ sia il segnale d'adunata./ Rinneghiam ciò che divide/ per andar dritti alla meta!/ Rinneghiamo l'egoismo/ che ancor più dei traditori/ fa annientar l'amor di patria;/ eccetera. Dopo di loro la fanfara del capoluogo, l'"amica del Fresnois", viene a far chiasso. E' molto noioso tutto ciò! Se potessi trovare un cantuccio tranquillo... E poi, siccome non si occupano più di noi, perbacco, me ne vado, senza dirlo a nessuno, torno a casa, mi spoglio e mi sdraio sino all'ora del pranzo. Sarò più fresca al ballo, to'! Alle nove, in piedi sul pianerottolo, sto respirando la frescura che cala finalmente. In cima alla strada, sotto l'arco di trionfo, sbocciano i palloni di carta come grossi frutti colorati. Aspetto, pronta coi guanti, un cappuccio bianco sotto il braccio, il ventaglio bianco in mano, Marie e Anaïs che verranno a prendermi... Passi leggeri, voci note vengono giù dalla strada: sono loro... Protesto: "Ma siete matte! Andar via alle nove e mezzo per il ballo! Ma la sala non sarà neanche illuminata: è ridicolo!". "Cara mia, la signorina ha detto: "Comincerà alle otto e mezzo, in questo paese sono così, non si può farli aspettare, si precipitano al ballo appena si sono puliti la bocca!". Ecco quello che ha detto." "Una ragione di più per non imitare i giovanotti e le ragazze di qui! Se questa sera ballano le "marsine", verranno verso le undici come a Parigi, e noi avremo già perso la freschezza a forza di ballare! Venite un po' in giardino con me." Mi seguono a malincuore nei viali cupi dove la mia gatta Fanchette, in abito bianco come noi, va a passo di danza dietro alle farfalle notturne, acrobatica e folle. Diffida nell'udire delle voci di estranei e si arrampica su un abete, donde i suoi occhi ci seguono come due piccole lanterne verdi. D'altronde Fanchette mi disprezza: l'esame, l'inaugurazione delle scuole, non sono mai qui, non le prendo più le mosche, un'infinità di mosche che infilavo allo spiedo su uno spillone da cappello e che lei sfilava delicatamente per mangiarle, tossendo talvolta a causa di una fastidiosa ala che le si fermava in gola; le do solo di rado la cioccolata e i corpi delle farfalle che le piacciono tanto, e la sera mi capita persino di dimenticarmi di "farle la camera" fra due Larousse. Pazienza, cara Fanchette! Avrò tutto il tempo di tormentarti e di farti saltare attraverso il cerchio, poiché, purtroppo!, non tornerò più a scuola... Anaïs e Marie non resistono più, mi rispondono soltanto con sì e no distratti, hanno il formicolìo alle gambe. Suvvia, andiamo, dunque, poiché ne hanno tanta voglia! "Ma vedrete che le signorine non saranno neppure scese!" "Oh, capirai, non hanno che da scendere la scaletta interna per trovarsi nella sala da ballo; ogni tanto danno un'occhiata dalla porticina per vedere se è giunto il momento giusto per fare il loro ingresso." "Appunto, se arriviamo troppo presto, sembreremo delle sciocche, sole solette con quattro gatti in quella grande sala!" "Oh, come sei noiosa, Claudine! Guarda, se non c'è gente, saliremo per la scaletta a prendere le convittrici e scenderemo quando saranno giunti i ballerini!" "Va bene così, allora." E io che temevo che questa grande sala fosse vuota. Più della metà è già piena di coppie che ballano al suono di un'orchestra mista (installata sul palco inghirlandato, in fondo alla sala), un'orchestra composta di Trouillard e di altri strimpellatori locali di violino, cornetta e trombone, uniti a elementi dell'"amica del Fresnois" col berretto gallonato. Tutti insieme soffiano, grattano e pestano con poca fusione, ma con enorme slancio. Dobbiamo farci strada attraverso la siepe di gente che guarda e ingombra la porta di ingresso, spalancata, poiché sapete che qui il servizio d'ordine!... Qui si scambiano le osservazioni scortesi e i pettegolezzi sui vestiti delle ragazze, sull'accoppiamento frequente degli stessi ballerini e ballerine: "Cara mia, mostrare la pelle a quel modo! E' una sgualdrinella!". "Sì, e poi esibire che cosa? Ossa!" "Sono quattro volte, quattro volte di seguito che balla con Monmond! Se fossi sua madre, la farei rigare dritto, la manderei a letto, io!" "Quei signori di Parigi non ballano come da noi." "E' vero! Si muovono così poco, che si direbbe abbiano paura di farsi male. I giovanotti di qui, vivaddio, si divertono senza risparmiare fatiche!" E' vero, benché Monmond, brillante ballerino, si trattenga dal volteggiare con le gambe a X, data la presenza dei signori di Parigi. E' un bel cavaliere, Monmond, e come se lo contendono. E' impiegato da un notaio; con un viso da fanciulla e i capelli neri ricciuti, come volete che gli si resista? Facciamo un timido ingresso tra due figure di quadriglia, e attraversiamo pian piano la sala per andare a sederci, come tre ragazzine serie, su una panca. Me lo immaginavo, lo vedevo che il mio vestito mi stava bene, che i capelli e la corona mi facevano un visetto non certo insignificante, ma gli sguardi sornioni, i volti improvvisamente fissi delle ragazze che si riposano e si sventolano me ne danno la certezza e mi sento ancor più sicura di me stessa. Posso esaminare la sala senza timore. Le "marsine" non sono certo numerose! Tutto il corteo ufficiale ha preso il treno delle sei; tanti saluti al ministro, al generale, al prefetto e al loro seguito. Sono rimasti soltanto cinque o sei giovanotti, semplici segretari, d'altronde simpatici e di bell'aspetto, che in piedi in un angolo hanno l'aria di divertirsi straordinariamente a questo ballo: non ne hanno mai visto uno simile. Gli altri ballerini? Tutti i garzoni e i giovanotti di Montigny e dei dintorni, due o tre in marsina di brutto taglio, gli altri in giacca: meschini abbigliamenti per questa serata che hanno voluto far credere fosse ufficiale. Come ballerine, solo ragazze da marito, perché, in questo paese primitivo, la donna cessa di ballare appena sposata. Hanno fatto sfoggio, questa sera, le giovani! Vestiti di tulle azzurro, di mussola rosa che fanno sembrare completamente nere queste carnagioni vigorose di contadinotte, dai capelli lisci e non troppo ariosi, coi guanti di filo bianco e - checché ne dicano le comari sulla porta - non abbastanza scollate; i busti si fermano troppo presto là dove la carne diventa bianca, soda e tondeggiante. L'orchestra dà alle coppie il segnale di unirsi e, fra lo sventolìo delle sottane che ci sfiorano, vedo passare la compagna della prima comunione, Claire, illanguidita e graziosissima, a braccetto del bel maestro Antonin Rabastens, che balla con slancio e ha un garofano bianco all'occhiello. Le signorine non sono ancora scese (sorveglio assiduamente la porticina della scala segreta da dove appariranno), quando un signore, una delle "marsine", fa un inchino davanti a me. Mi lascio portare via; non è antipatico, troppo alto per me, robusto, e balla bene senza stringermi troppo, guardandomi dall'alto con aria divertita... Come sono sciocca! Non avrei dovuto pensare che al piacere di ballare, alla gioia schietta di essere invitata prima di Anaïs, che sbircia il mio cavaliere con occhi invidiosi; e da questo valzer non ritraggo che dispiacere, una tristezza, sciocca forse, ma così acuta che trattengo le lacrime con gran fatica... Perché? Ah, perché no, non posso essere sincera, completamente, sino in fondo, posso solo accennare... mi sento l'animo dolorante, perché, io che non amo affatto il ballo, vorrei ballare con uno che amassi con tutto il cuore, perché vorrei avere qui questo tale per sfogarmi a dirgli tutto ciò che confido solo a Fanchette o al mio guanciale (e nemmeno al diario), perché sento una terribile mancanza di costui, e ne sono umiliata, e non mi concederò se non a questo tale, che amerò e che conoscerò a fondo... sogni che non si avvereranno mai, ohibò! Quello spilungone del mio ballerino non tralascia di domandarmi: "Le piace il ballo, signorina?". "No, signore." "Ma allora... perché balla?" "Perché il ballo è ancora meglio che nulla." Due giri in silenzio, e poi ricomincia: "Posso notare che le sue due compagne servono benissimo a far risaltare la sua grazia?". "Oh, Dio mio, sì, lo può. Marie, però, è piuttosto carina." "Che cosa dice?" "Dico che quella vestita di azzurro non è brutta." "Io... non apprezzo molto quel genere di bellezza... Mi permette di invitarla sin da ora per il prossimo valzer?" "Volentieri." "Non ha il carnet?" "Non importa; qui conosco tutti: non me ne dimenticherò." Mi riconduce al posto e non ha ancora voltato le spalle che Anaïs si congratula con un "Cara mia" dei più stizzosi. "Sì, è proprio simpatico, non è vero? E poi è divertente sentirlo parlare, se sapessi!" "Oh, lo sappiamo che hai tutte le fortune, oggi! Io sono invitata per il prossimo ballo da Féfed." "E io," dice Marie che è raggiante "da Monmond! Ah, ecco la signorina!" Infatti ecco le signorine. Nella porticina in fondo al salone, esse si inquadrano l'una dopo l'altra: prima la piccola Aimée, che si è messa soltanto un corpetto da sera tutto bianco, molto vaporoso, donde escono due spalle delicate e rotondette, braccia fini e grassocce; nei capelli, vicino alle orecchie, qualche rosa bianca e gialla ravviva ancor più gli occhi dorati che non ne avevano bisogno per brillare! La signorina Sergent, sempre in nero, ma con un abito di lustrini pochissimo scollato su una carne ambrata e soda, coi capelli vaporosi che fanno un'ombra ardente sul volto sgraziato e lasciano splendere gli occhi, non sta per nulla male. Dietro di lei serpeggia la fila delle convittrici bianche, con vestiti accollati, insignificanti; Luce corre verso di me a raccontarmi che si è scollata rivoltando la parte superiore del busto, nonostante l'opposizione della sorella. Ha fatto bene. Quasi nello stesso tempo entra dalla porta principale Dutertre, rosso, eccitato e che parla troppo forte. A causa delle dicerie che circolano in paese, nella sala viene molto osservato l'ingresso simultaneo del futuro deputato e della sua protetta. Non fa una grinza: Dutertre va diritto dalla signorina Sergent, la saluta, e siccome l'orchestra attacca una polca, la trascina sfacciatamente con lui. Lei, rossa, con gli occhi socchiusi, non apre bocca e balla davvero con grazia! Si formano di nuovo le coppie e l'attenzione si distoglie. L'ispettore, dopo aver riaccompagnato al posto la direttrice, viene accanto a me, ed è una lusinghiera cortesia che viene molto osservata. Balla la mazurca con violenza, non col ritmo del valzer ma girando troppo, stringendomi troppo, parlandomi troppo fra i capelli: "Sei graziosa come un amorino!". "Prima di tutto, dottore, perché mi dà del tu? Sono abbastanza grande." "No, dovrei avere soggezione? Guardate un po' questa signorina!... Oh, i tuoi capelli e questa corona! Mi piacerebbe tanto levartela!" "Le giuro che non sarà lei a levarmela." "Taci o ti bacio davanti a tutti!" "Nessuno si stupirebbe: gliene hanno già viste fare tante..." "E' vero. Ma perché non vieni a trovarmi? Ti trattiene soltanto la paura, hai certi occhi viziosi... Va' là, va' là, ti riacchiapperò un giorno o l'altro; non ridere, mi faresti arrabbiare alla fine!" "Via non faccia tanto il cattivo, non le credo." Ride mostrando i denti, e io penso in cuor mio: "Parla pure: l'inverno prossimo sarò a Parigi, e tu non mi ci incontrerai!". Dopo se ne va a ballare con la piccola Aimée, mentre m'invita Monmond, in giacca d'alpaca. Io non rifiuto, no, perbacco! Purché portino i guanti, ballo molto volentieri con i giovanotti del paese (quelli che conosco bene) che sono gentili con me, a modo loro. E poi ballo ancora una volta con la lunga "marsina" del primo valzer, sino al momento in cui riprendo un po' il fiato durante una quadriglia, per non diventare rossa e anche perché la quadriglia mi sembra ridicola. Claire mi viene vicino e si siede, dolce e languida, intenerita, questa sera, di una malinconia che le si addice. La interrogo: "Dimmi un po', ci sono molte chiacchiere sul tuo conto, a proposito dell'assiduità del bel maestro". "Oh, credi?... Non si può dir nulla, perché non c'è nulla." "Andiamo! Non vorrai far misteri con me?" "Dio mio, no! Ma la verità è che non c'è niente... To', ci siamo incontrati due volte, questa è la terza, lui parla in un modo... seducente! E poco fa mi ha domandato se qualche volta alla sera vado a spasso dalle parti dell'abetaia." "Si sa che cosa vuol dire. Che cosa risponderai?" Sorride senza parlare, con aria incerta e desiderosa. Ci andrà. Sono buffe queste ragazzine! Eccone una che dai quattordici anni in poi, bella e buona, sentimentale e docile, si è fatta piantare successivamente da una mezza dozzina di innamorati. Non ci sa fare. E' vero che non ce la saprei fare neppure io, che sto costruendo ragionamenti così belli. Mi prende un vago senso di vertigine, a forza di girare, e soprattutto di veder girare. Quasi tutte le "marsine" se ne sono andate, ma Dutertre, che gira vorticosamente, balla con tutte le ragazze che trova carine, o anche soltanto giovanissime. Le trascina, le fa roteare, le stringe palpeggiandole e le lascia allibite, ma straordinariamente lusingate. Dalla mezzanotte in poi, l'ambiente si fa sempre più intimo; essendosene andati i "forestieri", ci si ritrova fra amici, il pubblico dell'osteria di Trouillard nei giorni festivi; solamente si sta più comodi in questa grande sala gaiamente decorata, e il lampadario illumina meglio delle tre lampade a petrolio della taverna. La presenza del dottor Dutertre non è fatta per intimidire i giovanotti, tutt'altro, e già Monmond non costringe più i piedi a strisciare sul pavimento di legno. Volano, quei piedi, si alzano al di sopra delle teste e si allontanano pazzamente l'uno dall'altro in grandi balzi prodigiosi. Le ragazze lo ammirano, soffocano le risa nel fazzoletto profumato di acqua di Colonia a buon mercato. "Cara mia, fa crepare dalle risa. E' unico!" A un tratto questo forsennato passa con la violenza di un ciclone, trascinando la ballerina come un fagotto, perché ha scommesso "un secchio di vino bianco", pagabile alla mescita installata nel cortile, che avrebbe "fatto" tutta la lunghezza della sala in sei passi di galoppo; ci si raggruppa, lo si ammira. Monmond ha vinto, ma la sua ballerina - Fifine Baille, una sgualdrinella che porta in paese il latte e tutto quello che le si chiede - lo lascia furente e lo insulta. "Razza di cialtrone, avresti potuto stracciarmi il vestito! Vieni ancora a invitarmi che te le canterò io!" Il pubblico si sbellica dalle risa, e i giovanotti approfittano della ressa per pizzicare, fare il solletico e accarezzare quanto trovano a portata di mano. Diventano troppo allegri, fra poco vado a letto. Anaïs la lunga, che ha potuto finalmente conquistare una "marsina" ritardataria, passeggia con lui per la sala, si sventola, ride forte tubando, felice di vedere che il ballo si anima e i giovani si eccitano; ce ne sarà almeno uno che la bacerà sul collo o altrove! Dove mai sarà andato Dutertre? La signorina ha finito per spingere la sua piccola Aimée in un angolo e le fa una scena di gelosia, ridiventata imperiosa e tenera dopo aver lasciato il bell'ispettore; l'altra ascolta scrollando le spalle, con lo sguardo assente e la fronte ostinata. In quanto a Luce, balla sfrenatamente ("Non ne perdo uno!"), passando dalle braccia dell'uno a quelle dell'altro, senza perdere il fiato; i giovanotti non la considerano bella, ma quando l'hanno invitata una volta, tornano, tanto la sentono flessuosa, piccola e abbandonata fra le braccia, e leggera come un fiocco di neve. La signorina Sergent è sparita, ora, forse offesa nel vedere che la favorita balla, nonostante i suoi rimproveri, con un bellimbusto alto, biondo, che la stringe forte, che la sfiora coi baffi e con le labbra, senza ch'essa neppure si scomponga. E' l'una, oramai non mi diverto più e vado a letto. Durante l'interruzione di una polca (qui la polca si balla in due tempi, fra i quali le coppie passeggiano in fila intorno alla sala, a braccetto), fermo Luce, mentre passa, e la costringo a sedersi un minuto: "Non sei stanca di questo lavoro?". "Taci, ballerei otto giorni di seguito! Non mi sento le gambe..." "Allora ti diverti molto?" "Lo so forse? Non penso a nulla, ho la testa intontita, è tanto bello! Mi piace molto quando mi stringono... Quando mi stringono e si balla in fretta, fa venir voglia di urlare!" Ma che cosa si sente tutto a un tratto? Scalpiccìi, strilli di una donna schiaffeggiata, insulti che vengono urlati... Forse che i giovanotti se le danno? Ma no, viene dal piano superiore, perbacco! Gli strilli diventano subito così acuti che s'interrompe la passeggiata delle coppie; diventiamo inquieti, e un'anima buona, il coraggioso e ridicolo Antonin Rabastens, si precipita verso la porta della scala interna, l'apre... Il tumulto cresce, riconosco con stupore la voce della vecchia Sergent, quella voce stridula di vecchia contadina, che urla insulti spaventosi. Tutti ascoltano, inchiodati al loro posto, in un silenzio perfetto, con gli occhi fissi su quella porticina dalla quale proviene tanto chiasso. "Ah, razza di una sgualdrina! Non l'hai fatta franca! Eh, gliel'ho rotto il manico della scopa sulla schiena, a quel porco del medico! Eh, gliele ho date sul groppone! Ah, era un bel pezzo che vi sospettavo! No, no, cara mia, non sto zitta, me ne infischio io della gente del ballo! Sentano pure, ne sentiranno di belle! Domani mattina, no, non domani, subito, faccio fagotto, non dormo, io, in una casa simile! Spudorata! hai approfittato che era ubriaco, fuori di stato (sic), per portartelo da te, quel dongiovanni! E' dunque così che era aumentato il tuo stipendio, svergognata! Se ti avessi fatto mungere le vacche come ho fatto io, non saresti arrivata a questo punto! Ma la pagherai, lo griderò dappertutto, voglio che ti segnino a dito per la strada, voglio che ridano di te! Non può farmi proprio niente, il tuo ispettore, anche se dà del tu al ministro, gli ho dato un sacco tale di legnate che è scappato: ha paura di me! Viene a fare i suoi comodi qui, in una camera dove rifaccio io il letto tutte le mattine, e non si chiude neppure dentro! Scappa mezzo svestito, a piedi nudi, che i suoi sporchi stivaletti sono ancora qui! To', eccoli, i suoi stivaletti; che tutti li vedano!" Si sentono gettar giù dalla scala le scarpe che rimbalzano; una casca sino in basso, sulla porta, in piena luce: uno stivaletto di vernice, tutto splendente e fine... Nessuno osa toccarlo. La voce esasperata si affievolisce, si allontana lungo i corridoi, fra uno sbatacchiare di porte, si spegne. Allora ci guardiamo in faccia: ognuno stenta a credere alle proprie orecchie. Le coppie ancora unite rimangono perplesse, in ascolto; e a poco a poco qualche risata sorniona si disegna sulle bocche ironiche, corre, canzonatrice, fin sul palco dove i suonatori si fanno buon sangue, proprio come gli altri. Cerco con gli occhi Aimée, la vedo pallida come il suo vestito, con gli occhi spalancati, fissi sulla scarpa, punto di mira di tutti gli sguardi. Un giovanotto si avvicina a lei pietosamente, offrendole di uscire un momento per rimettersi... Essa gira intorno degli sguardi smarriti, scoppia in singhiozzi e si precipita fuori correndo. (Piangi, piangi figlia mia, questi momenti penosi ti renderanno più dolci le ore di gioia.) Dopo questa fuga nessuno si trattiene più dal divertirsi con maggior piacere, dallo scambiarsi delle gomitate, dicendo: "Hai visto che razza di roba!". Sento allora accanto a me uno scroscio di risa, un riso pungente, soffocante, invano represso nel fazzoletto: è Luce che si sbellica dalle risa su un panchettino, piegata in due, piangendo dalla gioia e ha nel viso una tale espressione di felicità senz'ombra che anch'io scoppio a ridere. "Ma sei pazza, Luce, a ridere a questo modo?" "Ah, ah... Oh, lasciami... E' troppo bello... Ah, non avrei mai osato sperare una cosa simile. Ah, ah, posso andarmene, mi sono divertita per un pezzo... Dio mio, come fa bene!..." L'accompagno in un angolo appartato perché si calmi un poco. Nella sala chiacchierano forte e nessuno balla più... Che scandalo, quando spunterà l'alba!... Ma un violino lancia una nota sperduta, lo seguono le cornette e i tromboni, una coppia abbozza timidamente un passo di polca, due coppie la imitano, poi tutte le altre; qualcuno chiude la porticina per nascondere la scandalosa scarpa, e il ballo ricomincia più allegro, più scapigliato, dopo che tutti hanno assistito a uno spettacolo così buffo, così inaspettato! Io vado a letto, pienamente felice di avere concluso con questa serata memorabile i miei anni di scuola. Addio, scuola; signorina Sergent e Aimée, addio; addio, piccola Luce felina, e cattiva Anaïs! Vi lascio per entrare in società; e mi stupirei davvero se non dovessi divertirmici come a scuola. NOTE: (17) Gioco di intraducibile: "vase" parole significa "vaso" e "fango". [N.d.T.] (18) Autore di opere di divulgazione agricola e di economia domestica. [N.d.T.] (19) Gioco di parole intraducibile: chou significa "cavolo" e "fiocco"; chicorée significa "cicoria" e "gorgiera" o "lattuga". [N.d.T.] (20) Felix Méline (1838-1925) fu ministro dell'agricoltura dal 1883 al 1885. [N.d.T.] (21) Sully (1560-1641), ministro di Enrico IV, diede un grande impulso all'agricoltura. [N.d.T.] Table of Contents Claudine a scuola Introduzione
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