Claudine a scuola

Sidonie-Gabrielle Colette
Claudine a scuola
Claudine à l'école, 1900
Traduzione di Laura Marchiori
Introduzione di Carlo Bo
Copyright 1955, 1985, 1991
RCS Rizzoli Libri S.p.A.,
Milano
Sidonie-Gabrielle
Colette,
scrittrice francese (Saint-Sauveuren-Puisaye, Yonne, 1873-Parigi
1954). Col suo primo marito,
Henri Gauthier-Villars (Willy),
pubblicò i romanzi ispirati a
Claudine ("Claudine a scuola",
1900; "Claudine a Parigi", 1901;
"Claudine
sposata",
1902;
"Claudine se ne va", 1903). Nel
1906, dopo aver divorziato, fu per
un certo tempo attrice di teatro,
senza per questo rinunziare alla
sua attività di scrittrice. Fra i suoi
romanzi ricordiamo: "Il rifugio
sentimentale",
1907;
"La
vagabonda", 1910; "L'altra faccia
del music-hall", 1913; "Chéri",
1920; "Il grano in erba", 1923; "La
fine di Chéri", 1926; "Sido", 1929;
"La gatta", 1933; "Mie esperienze",
1936; "Diario a ritroso", 1941;
"Gigi", 1943; "Il fanale blu", 1949,
ecc.. Parecchi dei suoi romanzi
furono adattati per le scene e per
lo schermo.
Introduzione
Claudine ha ottantacinque
anni, qualcuno di più se ci si
attiene alla data in cui è stata
scritta, 1895, ma non li dimostra.
Con lei è nata Colette, uno dei
grandi scrittori della prima metà
del Novecento francese. La
cronaca ci ha anche fornito altri
dati, primo fra tutti quello della
casualità di questa nascita. Il
primo marito della scrittrice, Willy
(Henri Gauthier-Villars), era uno
specialista in letteratura di pronto
consumo fra lampi di buona
scrittura e temi audaci, una specie
di Dumas in ventiquattresimo che
preferiva firmare i libri scritti da
altri, tutt'al più correggendoli e
aggiungendovi un po' di pimento.
Anche nel caso di Claudine la
regola è rispettata.
Il primo libro della serie
appare con solo il suo nome per
rispettare la tradizione della
bottega ma forse qualcosa di più:
voleva dire, a chi avrebbe potuto
capire la musica, chi lo aveva
ispirato. Com'è stato in realtà.
Willy, colpito dalla capacità tutta
istintiva
della
moglie
nel
raccontare,
nell'animare
un
piccolo teatro di memorie di
scuola, l'aveva invitata a "mettere
sulla carta" le sue piccole storie di
provincia. Per la verità, Willy non
rimase soddisfatto del risultato e
per un lungo periodo di tempo
preferì dimenticare il manoscritto
della moglie fino a quando, o
pentito del primo giudizio o spinto
piuttosto dal bisogno, lo ritirò
fuori e trovò un editore più
compiacente dei primi che lo
avevano esaminato e respinto. Il
libro ebbe un enorme successo, si
può dire senza esagerazioni che
rappresentò un caso e ben presto
venne trasferito nella macchina
della propaganda, allora già
perfettamente funzionante. Cento
prodotti
vennero
venduti
all'insegna di Claudine, ma
soprattutto tutta un'epoca si vestì
con gli abiti della turbolenta e
irrispettosa
studentessa
di
provincia. Questa è stata la moda,
durata per molti anni, ma al di là
delle coincidenze il caso esigeva
qualcosa di più e va detto che gli
osservatori più acuti del momento
non tardarono a riconoscerne i
meriti, anzi la novità letteraria. Si
è discusso a lungo sulla natura
della composizione del libro, più
precisamente sulla parte che
spettava alla donna e quella che
spettava al marito.
Il problema alla fine è stato
risolto, il libro lo aveva scritto
Colette, Willy si era limitato a fare
qualche correzione e a inserire là
dove lo aveva ritenuto opportuno
qualche tratto più spinto. Sempre
il sistema antico del condimento.
Comunque, con Claudine à l'école
era nata una vera e autentica
scrittrice che per mezzo secolo
avrebbe onorato la casa della sua
letteratura.
Per quanto confusi e non
sempre ben riconoscibili, ci sono
nel libro tutti i segni di quella che
sarebbe diventata la sua arte di
narratrice. Almeno in questo Willy
non si era sbagliato, avendo
riconosciuto subito il senso di
quella novità, dovuta più all'istinto
che non a una suggestione
culturale. Colette ha infatti molto
del suo personaggio, prima di
tutto ha il senso e il gusto della
natura, poi una forte carica
sentimentale e per certi aspetti
sessuale, soprattutto dimostra uno
spirito vivo e pronto, insomma
quell'istinto che l'avrebbe guidata
attraverso la sua vita tempestosa.
Ammettiamo per un momento che
il suo primo scopo fosse quello di
mettere in rilievo gli avvenimenti
più piccanti della sua vita di
studentessa e quindi di rispettare
il clima di una certa letteratura
minore che andava di moda alla
fine del secolo, ma tutto questo
non inficia la parte più vera del
racconto. Basta fare una semplice
prova: colpiscono oggi in modo
distorto
buona
parte
delle
situazioni più audaci epperò ci
consentono di riportarci a quel
tipo di letteratura di divertimento
e
di
distrazione,
peraltro
rispecchiante una società ben
definita in modo da separare
nettamente il giusto tono da
quello di comodo o posticcio, la
scrittura dalla ripetizione. Nasce
con Claudine non soltanto una
delle immagini più celebrate della
donna che si vuole libera e
indipendente e padrona dei propri
istinti, nasce un tipo di donna che
va ben al di là delle mode e delle
voghe.
Potremmo dire che una volta
morta la Claudine del successo ne
nasce una seconda, una terza,
tutta una serie di Claudine che era
poi sempre la stessa ma fatta più
esperta e più sottilmente critica
dei propri umori e delle proprie
virtù. Che è poi quello che succede
con la scrittrice: Colette parte con
il
vento
dell'improvvisazione
parlata ma poi accettando il
suggerimento di Willy comincia a
lavorare di forbici e di gomma da
cancellare e alla fine le riesce di
raggiungere il successo più alto
nella resa dello stile, nell'ambito
di una lunga meditazione che le
consentirà di darci delle opere
quasi perfette come Chéri, La
naissance du jour, ecc..
Come si vede, si tratta di una
felice congiunzione fra una natura
forte, fra un temperamento e
un'intelligenza
ferma,
senza
pregiudizi
né
preconcetti.
All'origine c'è - lo ripetiamola
natura e l'amore della natura, nel
senso che Colette impara subito e
dai genitori e dalla vita di paese
quelli che sarebbero stati i suoi
punti di riferimento, le sue solide
piccole verità. E' su questo capitale
iniziale che innesta le sue prime
esperienze, e poi la così diversa
vita parigina ed è sempre a questo
capitale che si rifarà nelle diverse
occasioni
dell'esistenza.
Le
rimarrà quel suo primo carattere
di contadina ma suscettibile, anzi
bisognoso di altre esperienze,
quindi libero e disponibile. Per
quanto la sua esistenza sia stata
accidentata e a volte scandalosa,
non c'è però mai stata nessuna
forma di abiura o di rinuncia.
Colette doveva sentire che niente
l'avrebbe
potuta
corrompere
nell'intimo e distoglierla da quella
che era la sua vocazione. Lo stesso
va detto per le influenze che ha
subìto, a cominciare da quella del
marito: un uomo più anziano di lei
e non certo trattenuto da remore
al momento di mettere la moglie
in contatto con persone e ambienti
così diversi e lontani dalle sue
origini. Anzi, si ha l'impressione (e
non appena l'impressione) che
qualche volta sia stata usata da
cavia e promossa al ruolo di donna
in vena di perversioni. Tutta la
prima parte della sua vita parigina
va letta alla luce di questa società
che ritroviamo sul fondo di molte
ricapitolazioni
romanzesche,
anche famose e consacrate dal
successo. Resterebbe da vedere
quale di queste due componenti
dell'animo di Colette sia stata
vincitrice e preponderante: un
calcolo
piuttosto
complicato.
Epperò
crediamo
si
possa
sostenere che delle due, la
componente più sicura è la prima,
nel senso che è grazie al suo
istinto di contadina che la realtà è
rimasta integra, ferma e sciolta da
ogni correzione abusiva. Da
questo punto di vista non ci sono
differenze fra vita e scrittura, fra la
donna e la scrittrice. La sua natura
era così forte che neppure le
esperienze più suscettibili di
devastazione
morale
l'hanno
scalfita.
Ma è giusto parlare di morale a
proposito di Colette? Non lo è,
così come quando si parla di
natura in assoluto. L'assenza quasi
totale di questo ordine interiore è
stata compensata - almeno in
parte - dalla carica sentimentale
che proprio nelle Claudine ha
avuto la sua prima codificazione.
Per capire fino a che punto il
sentimento fosse radicato nella
natura del suo temperamento,
bisognerebbe
ripercorrere
l'itinerario
del
suo
primo
matrimonio, tutto quanto Colette
ha abbandonato nelle mani di
Willy e quello che ne ha ricavato
personalmente. E' su quel passivo
che vanno inscritte le debolezze, le
incertezze e gli squilibri degli anni
in cui Colette diventa un
personaggio, va sul palcoscenico,
canta, apre negozi e infine non si
sottrae a tutta una serie di
esperienze che vanno sotto il
segno del lesbismo. Anche lì, dove
sembra più prepotente il gusto
della deviazione, è ben visibile il
bisogno del sentimento, l'altro
volto dell'amore che non sta
soltanto nel piacere. Colette
avrebbe analizzato poi questi
piaceri che a torto si chiamano
fisici e avrebbe sapientemente
discettato sul puro e sull'impuro,
senza
però
tentare
una
discriminazione netta fra i due
domini, ma anche in questi casi si
ha la sensazione che l'area
sentimentale non sia mai stata
diminuita o sottovalutata. Anzi si
potrebbe sostenere con qualche
sicurezza che tutto il suo vissuto
non abbia avuto altro significato
che questo di salvare intatta la
parte del cuore. Una volta pagato il
debito al piacere, a tutti i piaceri
(il suo appetito era vivo), non
avrebbe dovuto far altro che
segnare sul libro dei suoi conti
personali la cifra, l'utile che
nonostante tutto aveva saputo
trarre dalle sue navigazioni. Senza
questo non solo non ci sarebbero
stati i libri del vissuto ma neppure
quelli della memoria, e si pensi a
tutta la stupenda antologia che si
fa con le pagine che Colette ha
scritto sulla madre e per la madre
o quella altrettanto felice costruita
con le pagine sugli animali. Non è
un caso che dopo le Claudine,
Colette entri direttamente in
letteratura con i Dialogues de
bêtes. Caso mai, si potrebbe
osservare che tanta era la forza di
questo bisogno sentimentale da
farla cadere in qualche eccesso di
tono, in qualche motivo troppo
tenuto,
se
non
addirittura
estenuato. Tutti difetti, questi,
dipendenti
dall'abitudine
all'improvvisazione e più ancora
agli insegnamenti distorti di Willy.
E' la parte di scorie che Colette
dovrà ridurre al minimo e va detto
che è riuscita assai bene
nell'impresa se già ne Les vrilles
de la vigne la sua autonomia sarà
completa. D'altra parte se non ci
fosse stata questa zona iniziale di
cattivo gusto e di eccesso Colette
non si sarebbe sentita spronata a
ridurre, a potare, a giuocare di
allusioni. La grazia della sua
pagina è stata un frutto maturato
lentamente e questo succede
sempre con gli scrittori di istinto, i
quali devono imparare tutti i
sussidi della misura e della
compostezza e Colette ci ha messo
diversi anni prima di arrivare a
quel suo felice dettato di
composizione.
Il tempo dell'apprentissage
(tanto per riecheggiare il titolo di
uno dei suoi libri più belli) per
Colette è durato molto, potremmo
dire quanto dura lo sforzo,
l'impegno del prosatore intento a
raffinare
per
sottrazione
e
riduzione.
C'è
una
precisa
corrispondenza fra il progressivo
staccarsi dalla vita intensa e la
conquista di un nuovo regime
stilistico. Non per nulla ai primi
anni del successo parigino faceva
un
tipo
di
letteratura
di
amplificazione, il cui nucleo è
rappresentato dalla serie di
Claudine: Colette aveva infatti
bisogno di trovare un punto di
soluzione e di innesto fra il suo
capitale originario e il calendario
delle sue esperienze. In fondo
Claudine non è che l'esempio di
un riadattamento o forse meglio di
una ricerca di equilibrio fra ciò che
aveva visto da ragazza e lo
spettacolo che le offriva una città
come Parigi. Di fronte alla
provinciale che cerca di diventare
parigina c'è la scrittrice che passa
dal discorso parlato a quello
scritto. Però non dimentichiamo
mai che Colette si è fatta da sola,
spesso contro le illusioni e le voci
che le arrivavano un po' da tutte le
parti, in principio per tramite di
Willy e dei suoi amici. Ha fatto
tutto da sé, almeno per quanto
sappiamo della sua educazione
letteraria e tenendo presente che
non ha mai obbedito a schemi e
progetti stabiliti a freddo. Così ci
spieghiamo la sua originalità e il
suo non dipendere da modelli di
alta letteratura, quali erano in
voga nella zona della letteratura
pura. Il che torna a riproporci la
stretta connessione fra letteratura
e vita e a comprendere uno dei
suoi bisogni più nascosti, quello di
disinnescare la carica vitale di
certe situazioni in modo da
costituire accanto al dato della
realtà una nuova valutazione delle
cose. Nessuno potrebbe mettere in
dubbio questa sua fedeltà naturale
alle cose, anche nelle pagine
apparentemente più fatue è
sempre ben riconoscibile questo
legame saldo e forte, per cui negli
anni della dissipazione non smette
di vincere la concretezza, la
coscienza della sua verità naturale.
E c'è anche un'altra spiegazione
della lunga dimora della figura di
Claudine, a meno che non la si
voglia spiegare semplicemente con
la chiave del successo e dello
sfruttamento
del
successo:
restando legata al tipo, a quel
carattere, Colette si riservava l'uso
di uno strumento più sicuro.
Claudine era in qualche modo il
porto
sicuro
per
le
sue
navigazioni. Di qui la memoria
costante e sempre più crescente
negli anni della maturità della
figura della madre e del padre,
soprattutto della madre.
La madre era per Colette un
modello di vita e di saggezza,
l'esempio più alto di quello spirito
di naturalezza che in fondo ha
continuato a voler rispettare e a
imitare. Il lettore del primo
volume della serie è al proposito
informato sui meccanismi della
sua psicologia, la differenza che
passa fra Claudine e l'ambiente
della scuola illuminando assai
bene quelli che erano i suoi gusti e
le
sue
tendenze. Insomma
Claudine era un carattere e questo
carattere se lo era portato a scuola
dalla famiglia e da un modo di vita
che rifiutava per istinto il giuoco
delle convenienze e le trame dello
spirito di opportunità e di
egoismo.
Se
poi
vogliamo
confrontare su questo metro e la
vita e l'opera intera di Colette, ci
accorgeremo che da questo punto
di vista non ci sono state
speculazioni di alcun genere.
Colette
è
rimasta
fedele
all'immagine
della
sua
adolescenza, nel senso che non si
è mai nascosta e ha sempre
cercato di essere quello che
sentiva di essere. A questa luce gli
stessi errori, lo stesso spirito di
ribellione alle norme della società
francese degli inizi del secolo
appaiono per ciò che volevano
essere, delle correzioni, magari
negative e violente ma sempre in
nome
della
libertà
e
dell'indipendenza. Sarebbe curioso
cercare di vedere chi sia stato più
libero, lei o Gide? In Gide c'era
sempre
qualcosa
di
programmatico, la sua protesta e
così il suo bisogno di liberazione
obbedivano a un calcolo critico; a
un risentimento, piuttosto. Gide
ha avuto bisogno di giustificarsi
nella protesta, lo stesso suo
"immoralismo"
era
una
dissacrazione ben calcolata di certi
tabù. In Colette nessun calcolo, la
vediamo andare allo sbaraglio
epperò l'insegnamento sarebbe
venuto dopo, per tutto ciò che
aveva fatto nell'ambito dell'istinto.
Colette fa in un giorno ciò che è
costato
a
Gide
anni
di
speculazione e di attenzione. Non
basta,
Gide
obbedisce
allo
scrupolo, misurando ogni suo
gesto, per arrivare alla confessione
intera dovrà lasciare passare molti
anni e Si le grain ne meurt
raggiunge il pubblico a cose fatte,
quando intanto i modelli di una
certa morale erano stati superati.
Colette in qualche modo si
confessa nel momento stesso in
cui fa certe scelte, si dirà che si
metteva troppo in mostra e dava
alla sua rivolta troppe luci e troppi
suoni e forse è vero, comunque la
spinta, il
deterrente
vanno
ricercati nel suo carattere, in quel
suo alternare la furia con il
ragionamento. Ci si dirà: ma quale
ragionamento, se non c'è mai
nessun atto di meditazione,
nessun segno di rimorso? Così
com'era Claudine-Colette ignorava
queste categorie perché era
impossibile per lei un disegno
calcolato. Per il fatto di essere ciò
che sentiva di essere si escludeva
da qualsiasi memoria di morale e
infatti su di lei è passato invano
tutto il tempo cristiano. Non aveva
né senso né nozione del peccato e
per lei la vita era una vite da
vendemmiare, a meno che non si
voglia dare alla parte del
sentimento
un
colore
di
malinconia ma se si scopre questa
vena
malinconica
bisogna
riportarla a uno stato puramente
fisico, all'idea di piacere. E' grazie
a questa nozione di "piacere" che
la possiamo distinguere dagli altri
scrittori del suo tempo. Si pensi
per esempio a Proust, il piacere
dei suoi personaggi era subito
cenere, lo era quando ancora era
nascosto e segreto. Più che di
piacere si trattava di passione,
oltretutto
avvelenata
dalle
circostanze e dagli elementi più
velenosi del tessuto sociale.
Di Gide abbiamo già detto, se
passiamo ad altri ci ritroviamo
sempre costretti a registrare delle
contrazioni e delle contraddizioni:
pensate a un Mauriac per il quale
vale soltanto il criterio del peccato,
della colpa e del rimorso.
Naturalmente Colette non è stata
né la prima né la sola a
manifestare questo senso di gioia
fisica ma senza dubbio è stata
quella che lo ha provato e
restituito nella maniera più libera,
totalmente
scevra
da
altri
condizionamenti. Eccezion fatta
per Claudel che ha legato la
nozione di gioia a un'altra ragione,
tutti gli scrittori contemporanei di
Colette si sono dibattuti nel
cerchio degli impedimenti e delle
costrizioni. Nessuno ha cantato il
piacere così come lei, senza
dissimulazioni,
senza
patteggiamenti. Lo ha fatto perché
la realtà che vedeva glielo
consentiva, soprattutto perché
trovava nel fisico tutti i motivi di
soddisfazione e di giustificazione.
Quanti
altri
non
hanno
provveduto
a
mascherare
letterariamente il suo stesso
criterio,
pensiamo
a
un
Montherlant e alla sua prudenza
mascherata
dalle
luci
del
monumentalismo con tutte le
dipendenze del caso, strappate alla
storia.
L'esaltazione
che
Montherlant faceva della virilità
era ben diversa da quella tutta
semplice che Colette faceva della
femminilità. Ma Colette andava
più in là, perché non ha mai fatto
questione di femminismo o no.
Dal momento che dominava il
principio del piacere, non c'era più
motivo
perché
esistessero
discriminazioni né differenze. Il
piacere dipende dal corpo e prima
ancora dal bisogno naturale della
soddisfazione. Ricordiamoci che
per lei non esistevano né colpe né
peccati, tutto consisteva nel
raggiungimento
della
soddisfazione.
Naturalmente
cedeva quando vi era portata da
esigenze di rappresentazione allo
spettacolo, valga l'esempio di
Claudine en ménage, ma anche
queste passioni minori o di pura
dipendenza non costituivano mai
un ostacolo, erano dei pimenti,
quei pimenti che la maliziosa
Claudine del collegio conosceva
già, senza che nessuno glieli
avesse
raccomandati.
Tutto
l'album dei suoi amori, dei suoi
incontri, dei suoi matrimoni ha un
asse unico: è la lunga storia di un
cuore tentato dal piacere. Potrebbe
darsi - lo ripetiamo - che vi fosse
stata portata dalla convivenza con
il marito Willy e quindi dalle
delusioni sofferte, ciò non toglie
che una volta affrancata e
svincolata dai residui della morale
borghese si sia pacificata senza
scosse
eccessive,
senza
lacerazioni. E torniamo così alla
doppia registrazione fra vita e
letteratura, meglio a una perfetta
fusione fra il fare e il raccontare.
Non sarebbe diventata così
maestra nell'arte delle allusioni
sottili se all'origine non ci fosse
stata
questa
naturale
combinazione. Per qualche aspetto
Colette non è che questa
leggerissima trama di fatti e di
voci, non è che l'eco magica del
vissuto, del vissuto per intero e
sublimato. Colette non offende, le
sue proteste sono sempre tenute
sul filo di una confidenza, anche
se a volte tradendo questo tipo di
registrazione non riesce a sottrarsi
del tutto a un minimo di
compiacimento.
Ma
sono
eccezioni, normalmente i suoi
testi non presentano di queste
sfasature, la sua pagina essendo
generalmente trasparente. Anche
quando la materia può ferire, c'è
sempre una luce di innocenza che
la riscatta e la depura. Siamo ben
lontani da tutta quella produzione
minore fra secolo e secolo che
riecheggiava una società assai
povera intellettualmente e che
Colette - sempre sulla spinta di
Willy - aveva frequentato. Là
c'erano delle situazioni volute, qui
ci sono dei fatti vissuti e senza
dubbio scontati e pagati. Talché
potremmo sostenere che Colette
ha portato via da un grosso
registro di "vita parigina" con il
fatuo, l'equivoco e il morboso.
Torniamo per concludere alla
nascita di Colette o, se si
preferisce,
alla
sua
prima
apparizione
nelle
vesti
di
Claudine. C'era tutto il necessario
per limitare la questione a un
caso, strettamente legato a una
stagione e a un modo di vita.
Colette ha fatto invece del suo
personaggio un cavallo di Troia;
ha introdotto per vie traverse la
semplicità in un contesto devoto
all'inganno e al giuoco delle
illusioni. E' stato il tempo a
sancire questa verità. Se nella
serie delle Claudine ci fosse stato
un fenomeno di obbedienza alla
moda, oggi questi libri sarebbero
illeggibili o avrebbero un ben
limitato valore storico, nel caso già
ipotizzato
che
qualcuno
intendesse darci un panorama di
quella misera letteratura di
intrattenimento. C'era invece una
ben diversa intelligenza della vita
e, dentro, una capacità di
decifrazione e di interpretazione
dei sentimenti autentici. Da una
parte la storia di una donna che si
fa, dall'altra l'accumulazione di
sensazioni e di sentimenti che
avrebbero avuto una ben diversa
durata. A noi oggi questi libri
servono anche per capire il seguito
della storia di Colette, sono un
antefatto, qualche volta enfatico
ma sempre sincero e contenente
gran parte dei motivi che
sarebbero stati recuperati e risolti
in una prosa di grande qualità. C'è
una corrispondenza fra la prima e
l'ultima Colette, diciamo la Colette
degli ultimi anni della sua vita,
quando dal suo ritiro parigino le
bastano poche parole per rendere
inimitabili certe atmosfere. Alla
fine le bastavano pochi suoni,
poche luci per darci la sensazione
che il non detto fosse in grado di
sciogliere e compiere il detto.
Anche qui non ci sono molti altri
esempi di questa rara sapienza
della
restituzione
artistica,
davvero Colette era riuscita a
portare oltre il margine della
pagina tutto quanto rende sporca e
inutile la vita. E' la Colette del
tempo
di
guerra
e
delle
persecuzioni
razziali,
quando
scopre dentro di sé una facoltà di
reazione agli eventi comuni. E' il
tempo della sua musica più pura
ma è anche il bilancio di una vita
ben spesa nell'ascoltare i moti più
segreti della nostra anima: tutta
questa luce limpida era, dunque, il
frutto di un'attenzione che da
naturale e istintiva si era fatta più
profonda e più critica.
Non so quale impressione
possa fare questa Colette ai lettori
giovani, a chi non ha memoria
della gioia e della festa che
comunicavano i suoi libri in un
tempo che sopportava ancora i
legami e gli impedimenti di molte
convenzioni. Non lo sappiamo e
per noi la cosa resta difficile,
tuttavia pensiamo che ci siano in
questi quattro quadri della storia
di Claudine un accento molto
persuasivo di verità naturale e di
spontaneità. Una volta liberato il
testo da quanto vi è stato
depositato di un costume di vita
oggi del tutto desueto e spesso
imperscrutabile, non c'è dubbio
che il dato del risentimento
diretto, quello del gusto del vivere
e del piacere, una certa parte di
ribellione potranno mettere sulla
buona strada il lettore abituato a
ben altri testi, sostenuti e
fortificati da un secolo di
sperimentazioni e di grandi
scoperte letterarie. In tal senso
l'unicità del discorso di Colette
non
potrà
non
risultare
all'attenzione di lettori lontani e
per forza di cose ignoranti della
piccola storia di quel tempo. La
grazia del segno, la leggerezza del
raccontare, il geloso senso della
natura costituiranno le altre tappe
del cammino verso Colette. Ma
non basta, in tutto questo c'è una
riprova e cioè che uno scrittore,
quando lo sia veramente, nasce a
tutti i costi, per qualunque strada
si sia incamminato. Ci sono delle
nature che respingono per virtù
naturale le leggi e le imposizioni
del tempo e della moda. Caso
curioso, questo, di una giovane
donna che il marito intendeva
sfruttare come fabbricatrice di
testi pimentari, come "negro", e si
è invece scoperta e rivelata come
uno dei grandi scrittori del secolo.
Un po' come dire che alla fine la
natura, quando sia pazientemente
ascoltata, la vince sui calcoli e
sugli aggiustamenti stessi della
critica.
Carlo Bo.
Mi chiamo Claudine, abito a
Montigny; vi sono nata nel 1884;
probabilmente non vi morirò.
Il mio Manuale di geografia dei
dipartimenti dice così:
"Montigny-en-Fresnois,
grazioso paese di 1950 abitanti,
costruito ad anfiteatro sulla
Thaize; vi si ammira una torre
saracena ben conservata...". A me
non dice niente questo genere di
descrizioni!
Anzitutto la Thaize non c'è; so
benissimo che si ritiene che
attraversi dei prati al di sotto del
passaggio a livello, ma in nessuna
stagione vi trovereste tanta acqua
da lavare le zampe di un passero.
Montigny
costruita
"ad
anfiteatro"? No, io non la vedo
così; secondo me, sono delle case
che ruzzolano, dalla sommità della
collina fin giù nella valle; è
disposta a gradinate al di sotto di
un grande castello, ricostruito
sotto Luigi XV e ormai più in
rovina della torre saracena, bassa,
tutta rivestita di edera, che in cima
si sbriciola un po' alla volta. E' un
villaggio e non un paese: le vie,
grazie al cielo, non sono selciate;
gli acquazzoni vi scorrono come
torrentelli, asciutti dopo due ore; è
un villaggio, non troppo bello anzi,
e che tuttavia io adoro.
Il fascino, la delizia di questo
paese formato di colline e di valli
così strette che alcune sembrano
veri burroni, sono i boschi, i
boschi fitti e invadenti, che
s'increspano e ondeggiano sin
laggiù, sin dove arriva lo sguardo...
Qua e là sono interrotti da prati
verdi, anche da brevi spazi
coltivati, non un gran che: i
magnifici boschi divorano tutto.
Cosicché questa bella regione è
spaventosamente povera, con le
sue poche fattorie sparse, non
numerose, proprio quel tanto di
tetti rossi che ci vuole per far
spiccare il verde vellutato dei
boschi.
Cari boschi! Io li conosco tutti;
li ho percorsi così spesso. Vi è il
bosco ceduo, dagli arbusti che ti
agguantano malvagiamente il viso
mentre passi; e sono pieni di sole,
di fragole, di mughetti, e anche di
serpi. Vi ho provato certi spaventi
da mozzare il fiato nel vedermi
strisciare davanti ai piedi quegli
orrendi piccoli corpi lisci e freddi;
molte volte mi sono fermata
ansante, sentendo sotto la mano,
vicino alla malvarosa, una biscia
quieta quieta, arrotolata proprio
come una lumaca, con la testa
sopra, gli occhietti dorati che mi
guardavano; non era pericolosa,
ma che spaventi! Pazienza, finisco
sempre per ritornarci sola o con
qualche compagna; meglio sola,
perché
queste
signorinelle
m'irritano; hanno paura di
stracciarsi le vesti coi rovi, hanno
paura delle bestiole, dei bruchi
pelosi e dei ragni delle brughiere,
così belli, tondi e rosei come perle;
gridano,
si
stancano...
insopportabili insomma.
E poi ci sono i miei preferiti, i
boschi di alberi che hanno sedici,
vent'anni, e mi sanguina il cuore
di vederne tagliare uno.
Essi non sono pieni di
macchie: degli alberi come
colonne, sentieri stretti dove è
quasi buio a mezzogiorno, dove la
voce e i passi risuonano in modo
inquietante.
Dio,
come
mi
piacciono! Mi ci sento tanto sola,
con gli occhi smarriti lontano fra
gli alberi, nella luce verde e
misteriosa,
deliziosamente
tranquilla e un po' ansiosa al
tempo stesso, a causa della
solitudine e della vaga oscurità...
Niente bestiole, in questi
grandi boschi, né erba alta: un
suolo battuto, via via secco,
sonoro o molle a causa delle
sorgenti; lo traversano conigli dal
dorso bianco; timidi caprioli di cui
si fa appena in tempo a intuire il
passaggio, tanto corrono veloci;
grandi fagiani pesanti, rossi dorati;
dei cinghiali (io non ne ho visti);
lupi, ne ho sentito uno, al
principio dell'inverno, mentre
raccoglievo faggine, quelle care
piccole
faggine
oleose, che
raschiano la gola e fanno tossire.
Talvolta, in quei grandi boschi, ti
sorprendono
piogge
temporalesche; ci si rannicchia
sotto una quercia più fronzuta
delle altre, e, senza dir nulla, si
ascolta la pioggia che crepita lassù
come su un tetto, stando ben
riparati, per poi uscire da quelle
profondità abbagliati e confusi, a
disagio in piena luce.
E le abetaie! Poco fitte, così
come poco misteriose; a me
piacciono per l'odore, per le eriche
rosa e viola che crescono sotto, e
perché cantano al vento. Prima di
arrivarci, si attraversano dei fitti
boschi di alberi di alto fusto, e a
un tratto si ha la deliziosa
sorpresa di sbucare sulla riva di
uno stagno, uno stagno liscio e
profondo, circondato dai boschi da
ogni lato, così lontano da tutto!
Gli abeti crescono in mezzo, in
una specie di isola; bisogna
passare coraggiosamente a cavallo
di un tronco sradicato che unisce
le due rive. Sotto gli abeti si
accende il fuoco, persino d'estate,
proprio perché è proibito; vi si
cuoce qualsiasi cosa: una mela,
una pera, una patata rubata in un
campo, del pane nero in mancanza
d'altro; sa di fumo amaro e di
resina: è pessimo, è squisito.
Ho vissuto in questi boschi
dieci
anni
di
vagabondaggi
disperati, di conquiste e di
scoperte; il giorno in cui dovrò
lasciarli ne avrò un gran
dispiacere.
Quando, due mesi fa, ho
compiuto quindici anni e mi sono
allungata le sottane sino alle
caviglie, hanno demolito la
vecchia scuola, e cambiato la
direttrice.
I
miei
polpacci
richiedevano le sottane lunghe,
perché attiravano gli sguardi e mi
davano ormai l'aria di una
signorina; la vecchia scuola cadeva
in rovina; in quanto alla direttrice,
la povera buona signora X'
(quarantenne, brutta, ignorante,
paziente e che perdeva sempre la
testa davanti agli ispettori delle
scuole elementari), il dottor
Dutertre, l'ispettore scolastico del
mandamento, aveva bisogno del
posto di lei per mettervi una sua
protetta. In questo paese quello
che vuole Dutertre, lo vuole il
ministro.
Povera vecchia scuola in
rovina,
malsana,
ma
così
divertente! Ah, i begli edifici che
stanno costruendo non ti faranno
dimenticare. (1)
Le camere del primo piano,
quelle dei maestri, erano uggiose e
scomode; il pianterreno era
occupato dalle nostre due classi,
quella delle grandi e quella delle
piccole, due aule di una bruttezza
e di una sporcizia incredibili, con
certi banchi, come non ne ho mai
più rivisti, ridotti a metà dall'uso,
e sui quali, logicamente, avremmo
dovuto diventar gobbe in capo a
sei mesi. L'odore di queste aule,
dopo le tre ore di studio del
mattino e del pomeriggio, era,
letteralmente, da far vomitare.
Non ho mai avuto compagne della
mia condizione, perché le rare
famiglie borghesi di Montigny, di
solito, mandano i figli in collegio
nel capoluogo, di modo che la
scuola non ha, come alunne, che
figlie di bottegai, di agricoltori, di
gendarmi e soprattutto di operai;
tutte piuttosto sporche.
Io mi ci trovo in questo strano
ambiente, perché non voglio
lasciare Montigny; se avessi una
mamma, so benissimo che non mi
ci lascerebbe ventiquattr'ore, ma
papà non vede niente, lui, non si
occupa di me, completamente
occupato nei suoi lavori, e non
pensa che potrei essere educata
più decentemente in un collegio di
monache o in un liceo qualsiasi.
Non c'è pericolo che io gli apra gli
occhi!
Come compagne, dunque, ho
avuto, ho ancora Claire (ne ometto
il cognome), che ha fatto con me
la
prima
comunione,
una
ragazzetta tranquilla, con dei begli
occhi appassionati e una piccola
anima romantica, che ha passato
tutta la sua vita scolastica a
innamorarsi ogni otto giorni (oh,
platonicamente) di un nuovo
ragazzo, e che, anche adesso, non
chiede che d'incapricciarsi del
primo imbecille, maestro o
addetto
alla
manutenzione
stradale, in vena di dichiarazioni
"poetiche".
Poi Anaïs, la lunga (che
riuscirà senza dubbio a varcare le
porte della scuola di Fontenayaux-Roses, grazie a una memoria
prodigiosa che le fa le veci di una
vera intelligenza), fredda, viziosa,
e così imperturbabile che non
arrossisce mai, quella fortunata
creatura! Ha una vera arte della
comicità, e spesso mi fa star male
a forza di ridere. Ha i capelli né
scuri né biondi, la pelle gialla,
nessun colorito alle guance, gli
occhietti neri, ed è lunga come
una pertica. Insomma un tipo non
comune; bugiarda, disonesta,
adulatrice,
traditrice,
saprà
cavarsela nella vita, Anaïs, la
lunga. A tredici anni scriveva e
dava
appuntamenti
a
uno
sbarbatello della sua età; venne
risaputo e ne risultarono delle
storie che agitarono tutti i
ragazzini della scuola, tranne lei.
E poi le Jaubert, due sorelle,
due gemelle anzi, brave scolare;
oh, brave scolare, lo credo bene, le
scorticherei volentieri, tanto mi
irritano con la loro serietà, la bella
calligrafia ordinata, e la stupida
somiglianza: facce molli e scure,
gli occhi da pecora pieni di una
dolcezza piagnucolosa. Studiano
sempre, non fanno che prendere
buoni voti, sono per bene e
sornione, hanno il fiato che sa di
colla forte, puh!
E
Marie
Belhomme,
sciocchina, ma così allegra! A
quindici anni, col cervello e il
giudizio di una bambina di otto un
po' indietro per la sua età,
abbonda di ingenuità enormi, che
disarmano la nostra cattiveria, e le
vogliamo molto bene; e io dico
sempre molte cose terribili
davanti a lei, perché se ne
scandalizza
sinceramente,
dapprima, per riderne di tutto
cuore subito dopo, levando al cielo
le lunghe mani strette, "le sue
mani da levatrice" dice Anaïs, la
lunga.
Bruna e scura di carnagione,
con occhi neri, lunghi e umidi,
Marie assomiglia, col naso privo di
malizia, a una graziosa timida
lepre.
Quest'anno loro quattro e io
formiamo la pleiade invidiata;
ormai superiori alle "grandi",
aspiriamo al diploma.
Le altre, ai nostri occhi, sono la
feccia, sono la vile plebaglia!
Presenterò via via qualche altra
compagna nel proseguimento di
questo diario, poiché è proprio un
diario, o quasi, quello che sto per
incominciare...
La signora X', che ha ricevuto
l'annuncio del suo trasferimento,
ne ha pianto, povera donna, tutta
una giornata - e anche noi - il che
mi ispira una profonda avversione
contro quella che la sostituirà.
Nello stesso momento in cui
compaiono
nel
cortile
di
ricreazione
gli
operai
che
demoliscono la vecchia scuola,
arriva la nuova direttrice, la
signorina Sergent, accompagnata
dalla madre, un donnone con la
cuffia, che serve la figlia e
l'ammira, e che mi sembra una
contadina furba, che sa il fatto
suo, ma in fondo non cattiva. In
quanto alla signorina Sergent, mi
sembra tutt'altro che buona, e me
la vedo brutta con questa rossa,
ben fatta, con la vita e i fianchi
tondeggianti, ma di una bruttezza
indiscutibile, col viso gonfio e
sempre acceso, il naso un po'
camuso, fra due occhietti neri,
infossati e sospettosi. Occupa,
nella vecchia scuola, una stanza
che non è necessario demolire
subito, e così pure la sua aiutante,
la bella Aimée Lanthenay che mi
piace tanto quanto mi dispiace la
direttrice. Contro la signorina
Sergent, l'intrusa, mantengo in
questi giorni un atteggiamento
selvatico e ribelle; essa ha già
tentato di addomesticarmi, ma io
ho resistito in un modo quasi
insolente. Dopo qualche vivace
scaramuccia, devo ben riconoscere
in lei un'insegnante davvero
impareggiabile, precisa, spesso
brusca, dotata di una volontà che
sarebbe mirabilmente lucida se
talvolta non l'accecasse la collera.
Con un maggior dominio su se
stessa, questa donna sarebbe
ammirevole;
ma
provate
a
resisterle: gli occhi mandano
fiamme, i capelli rossi si bagnano
di sudore... ieri l'altro l'ho vista
uscire per non gettarmi contro un
calamaio.
Durante
la
ricreazione,
siccome il freddo umido di questo
brutto autunno non mi invita
molto a giocare, chiacchiero con la
signorina Aimée. La nostra
intimità fa rapidi progressi. E' per
indole una gatta carezzevole,
delicata
e
freddolosa,
incredibilmente leziosa; mi piace
guardare il suo musetto roseo di
biondina, gli occhi dorati dalle
ciglia all'insù. Quei begli occhi che
non domandano se non di
sorridere!
Fanno
voltare
i
giovanotti, quando esce. Spesso,
mentre
chiacchieriamo
sulla
soglia della classe inferiore, la
signorina Sergent passa frettolosa
davanti a noi per ritornare in
camera sua, senza dire nulla,
fissando su noi quegli sguardi
gelosi e indagatori.
La mia nuova amica e io
sentiamo, nel suo silenzio, che è
furente di vedere che "ce
l'intendiamo" così bene.
Questa piccola Aimée - ha
diciannove anni e mi arriva
all'orecchio - chiacchiera da quella
scolaretta che era ancora tre mesi
fa, con un bisogno di tenerezza, di
gesti di abbandono che mi
commuove. Gesti di abbandono!
Essa li frena per una paura
istintiva della signorina Sergent,
tenendo le manine fredde, strette
sotto il bavero di pelliccia finta
(quella poverina è senza soldi
come migliaia di colleghe). Per
farmela amica, divento buona
buona, senza fatica, e la interrogo,
già soddisfatta di poterla guardare.
Lei parla, graziosa nonostante, o a
causa, del musetto irregolare. Se
gli zigomi sono un po' troppo
sporgenti, se sotto il naso corto la
bocca un po' gonfia fa un buffo
angolino a sinistra quando ride, in
compenso che meravigliosi occhi
del colore dell'oro giallo, e che
carnagione,
una
di
quelle
carnagioni delicate all'occhio, così
resistenti che il freddo non le
illividisce neppure! Parla, parla... e
che suo padre è uno scalpellino, e
che sua madre la picchiava spesso,
e sua sorella e i suoi tre fratelli, e
la dura scuola normale del
capoluogo dove l'acqua gelava
nelle brocche, dove cascava
sempre dal sonno perché ci si alza
alle
cinque
(fortunatamente
l'insegnante d'inglese era molto
gentile con lei) e le vacanze in
famiglia, dove la obbligavano a
riprendere
le
faccende
domestiche, dicendole che avrebbe
fatto meglio a preparare la zuppa
che a fare la signorina, tutto ciò
sfila nel suo chiacchierìo, tutta
questa giovinezza di miseria,
sopportata con impazienza, e che
lei ricorda con terrore.
Piccola signorina Lanthenay, il
vostro corpo flessuoso cerca e
richiede
un
benessere
sconosciuto; se non foste maestra
a Montigny, sareste forse... Non
voglio dire che cosa. Ma come mi
piace ascoltare e vedere voi, che
avete quattro anni più di me e di
cui mi sento, a ogni istante, la
sorella maggiore!
Un giorno la mia nuova
confidente mi dice che sa
abbastanza l'inglese, e ciò mi
suggerisce
un
progetto
semplicemente
meraviglioso.
Domando a papà (dato che fa le
veci della mamma) se non sia
disposto a farmi dare delle lezioni
di grammatica inglese dalla
signorina Aimée Lanthenay. Papà
trova geniale quest'idea, come la
maggior parte delle mie idee, e,
"per concludere l'affare", come egli
dice,
mi
accompagna
dalla
signorina Sergent. Essa ci riceve
con una gentilezza impassibile, e,
mentre papà le espone il suo
progetto, sembra approvarlo; ma
io sento una vaga inquietudine,
pur non vedendone gli occhi
mentre parla. (Mi sono subito
accorta che i suoi occhi rivelano
sempre il suo pensiero, senza che
essa riesca a dissimularlo, e sono
ansiosa nel constatare che li tiene
ostinatamente abbassati.) Viene
chiamata la signorina Lanthenay
che scende frettolosa, arrossendo
e ripetendo: "Sì, signore" e
"Certamente,
signore",
senza
sapere bene quello che dice,
mentre io la guardo felicissima
della mia astuzia, rallegrandomi al
pensiero che d'ora in poi starò con
lei più intimamente che non sulla
soglia della classe delle piccine.
Prezzo delle lezioni: quindici
franchi al mese, due alla
settimana: per questa povera
piccola maestrina, che guadagna
settantacinque franchi al mese e
con questi deve pagarsi la
pensione, è una manna insperata.
Credo pure che le faccia piacere
stare più spesso con me. Durante
questa visita non scambio con lei
che due o tre frasi.
Primo giorno di lezione.
L'aspetto dopo la scuola mentre lei
riunisce i libri di inglese; e via,
verso casa. Ho preparato un
angolino comodo per noi due nella
biblioteca di papà, una gran tavola,
quaderni e penne, con una bella
lampada che illumina soltanto la
tavola. La signorina, molto
imbarazzata (perché?), arrossisce,
tossicchia.
"Suvvia, Claudine, immagino
che lei saprà l'alfabeto."
"Certamente, signorina, so
anche un po' di grammatica
inglese, potrei benissimo fare
questa traduzione... si sta bene
qui, non è vero?"
"Sì, benissimo."
Abbassando un po' la voce per
assumere il tono delle nostre
chiacchierate, le domando:
"La signorina Sergent non le ha
più parlato di queste nostre
lezioni?".
"Oh, non me ne ha quasi
parlato. Mi ha detto che era una
fortuna per me, che con lei non
avrei fatto fatica, se soltanto
avesse voluto studiare un po', che
lei impara con grande facilità
quando vuole."
"Soltanto questo? Non è molto.
Immaginava che me lo avrebbe
riferito."
"Suvvia, Claudine, noi non
stiamo studiando. In inglese c'è un
solo articolo..." Eccetera, eccetera.
Dopo dieci minuti di serio
studio
dell'inglese,
interrogo
ancora:
"Non ha osservato che non
aveva l'aria soddisfatta quando
sono venuta con papà per chiedere
di prendere lezioni da lei?".
"No... sì... Forse, ma non
abbiamo quasi parlato quella
sera."
"Si levi dunque la giacca, si
scoppia sempre nello studio di
papà.
Ah, com'è sottile lei, si
potrebbe spezzarla! I suoi occhi
sono molto belli alla luce."
Lo dico perché lo penso, e godo
nel farle dei complimenti più di
quanto godrei se ne facessero a
me. Le domando:
"Dorme sempre nella stessa
camera con la signorina Sergent?".
(Quella promiscuità mi sembra
odiosa, ma come fare altrimenti?
Tutte le altre camere sono già
sgomberate, e cominciano a levare
il tetto. Quella poveretta sospira:)
"E' necessario, ma è molto
noioso! La sera, alle nove, vado
subito a letto, presto presto, e lei
viene a coricarsi dopo, ma lo
stesso è spiacevole, quando ci si
trova a disagio insieme".
"Oh, mi dispiace enormemente
per lei! Come deve essere noioso,
al mattino, vestirsi davanti a
quella donna! Mi sarebbe odioso
mostrarmi in camicia a gente che
non mi va!"
La
signorina
Lanthenay
sobbalza, tirando fuori l'orologio:
"Ma insomma, Claudine, non
facciamo
niente!
Studiamo,
dunque!".
"Sì... Lei sa che devono venire
altri maestri?"
"Lo so: due. Arrivano domani."
"Sarà
divertente!
Due
innamorati per lei!"
"Oh, ma stia zitta. Prima di
tutto erano così cretini tutti quelli
che ho visto che non mi tentavano
molto; so già i nomi di questi qui,
nomi ridicoli: Antonin Rabastens
e Armand Duplessis."
"Scommetto
che
questi
imbecilli verranno molte volte al
giorno nel nostro cortile, con la
scusa che l'ingresso della scuola
maschile è ingombro di macerie..."
"Claudine, senta, è vergognoso,
non abbiamo fatto niente, oggi."
"Oh, è sempre così il primo
giorno. Studieremo molto meglio
venerdì prossimo, ci vuole bene
un po' di tempo per ingranare."
Nonostante
questo
valido
ragionamento
la
signorina
Lanthenay, impressionata dalla
sua stessa pigrizia, mi fa studiare
seriamente fino alla fine dell'ora;
dopo di che la riaccompagno sino
in fondo alla via. E' buio, gela, mi
fa pena vedere quella piccola
ombra sottile, che se ne va con
questo freddo e questa oscurità
per tornare dalla rossa dagli occhi
gelosi.
Questa settimana abbiamo
vissuto momenti di vera gioia,
perché ci hanno incaricato, noi
grandi, di sgomberare la soffitta e
portar giù i libri e i vecchi oggetti
che la riempivano. Abbiamo
dovuto fare in fretta; i muratori
aspettavano per demolire il primo
piano. Furono corse folli nelle
soffitte e per le scale; col rischio di
essere
castigate,
ci
avventuravamo, Anaïs la lunga e
io, fin sulla scala che conduce alle
stanze dei maestri, con la speranza
di intravedere finalmente i due
nuovi insegnanti, che dal loro
arrivo erano rimasti invisibili...
Ieri, davanti a una stanza
socchiusa, Anaïs mi spinge, io
perdo l'equilibrio e apro la porta
con la testa. Allora scoppiamo a
ridere e restiamo piantate sulla
soglia della camera, proprio una
camera da maestro, vuota, per
fortuna,
del
suo
inquilino.
Facciamo una rapida ispezione.
Alle pareti e sul caminetto, grandi
cromolitografie
con
cornici
comuni:
un'italiana
con
un'abbondante capigliatura, i denti
abbaglianti, la bocca che è un terzo
degli occhi; di riscontro, una
bionda estatica che si stringe un
cagnolino contro il corpetto dai
nastri blu. Sopra il letto di Antonin
Rabastens (ha fissato il biglietto
sulla porta con quattro puntine),
vi sono bandierine incrociate
russe e francesi. Che cos'altro? Un
tavolo con un catino, due sedie,
delle farfalle infilate su tappi di
sughero, romanze sparse sul
caminetto,
e
nient'altro.
Guardiamo tutto ciò senza dir
nulla, e tutto a un tratto
scappiamo correndo verso la
soffitta, sopraffatte dalla terribile
paura che quel tale Antonin (non è
permesso di chiamarsi Antonin!)
venga su per le scale; il nostro
scalpiccìo, su quei gradini proibiti,
è così rumoroso che si apre una
porta a pianterreno, la porta della
classe maschile, e si affaccia
qualcuno, domandando con un
buffo accento marsigliese: "Ma
che cosa c'è, dunque? E' mezz'ora
che sento dei cavalli per le scale!".
Facciamo ancora in tempo a
intravedere un ragazzone bruno
dalle guance grosse... Lassù, al
sicuro, la mia complice mi dice,
sbuffando: "Eh, se sapesse che
veniamo dalla sua stanza!".
"Sì, non si consolerebbe di aver
fatto cilecca."
"Fatto cilecca!" continua Anaïs
con una serietà glaciale. "Ha l'aria
di un ragazzo robusto che non
deve mai far cilecca."
"Va' là, sporcacciona!"
E continuiamo lo sgombero
della soffitta; è un piacere
rovistare in questo ammasso di
libri e di giornali da portar via, che
appartengono
alla
signorina
Sergent. Naturalmente sfogliamo
tutto il mucchio prima di portarli
giù e posso constatare che vi è
l'Afrodite di Pierre Louys X, con
molti
numeri
del
Journal
Amusant. Ce la godiamo, Anaïs e
io, messe di buonumore da un
disegno di Gerbault, Rumori di
corridoio: alcuni signori in
marsina intenti a fare il solletico a
certe graziose ballerine dell'Opéra,
in maglia e sottanina corta, che
gesticolano e strillano. Le altre
scolare sono scese giù; è buio in
soffitta, e indugiamo a guardare
delle figure che ci fanno ridere,
certune di Albert Guillaume, così
spinte!
A un tratto facciamo un balzo,
perché qualcuno apre la porta,
domandando con tono acido: "Eh,
si può sapere chi fa questo chiasso
infernale per le scale?". Noi ci
alziamo, serie, con le braccia
cariche di libri e diciamo con tono
posato: "Buongiorno, signore",
frenando una voglia matta di
ridere. E' quello di poco fa, il
grosso maestro dal volto gioviale.
Allora, siccome siamo ragazze
grandi
che
dimostrano
comodamente sedici anni, egli si
scusa e se ne va dicendo:
"Scusino tanto, signorine". E
dietro alle sue spalle noi balliamo
silenziosamente,
facendogli
smorfie diaboliche. Scendiamo in
ritardo; ci sgridano; la signorina
Sergent mi domanda: "Ma che
cosa
mai
facevate
lassù?".
"Signorina,
stavamo
ammucchiando dei libri per
portarli giù." E poso davanti a lei,
in modo visibile, la pila dei libri
con l'audace Afrodite e i numeri
del Journal Amusant, piegati
sopra, con la figura in vista. Li
nota subito; le guance rosse le
diventano
più
rosse,
ma
riprendendosi presto, spiega: "Ah,
sono i libri del direttore, questi
che avete portato giù; tutto è così
confuso in quella soffitta comune;
glieli restituirò". E la ramanzina si
ferma a questo punto; non vi è
nessun castigo per noi due.
Uscendo, do una gomitata ad
Anaïs i cui occhietti sono
semichiusi dalle risa: "Eh, ha
buone spalle il direttore".
"Te lo immagini, Claudine,
quante
porcherie
deve
collezionare
quel
povero
innocentino! Quasi quasi crederà
ancora che i bambini nascano
sotto i cavoli."
Perché il direttore è un vedovo
triste, scialbo; ci si accorge appena
che esiste, non lascia la sua aula
se non per rinchiudersi in camera.
Il venerdì seguente, durante la
seconda
lezione
d'inglese,
domando alla signorina Aimée
Lanthenay:
"I maestri le fanno già la
corte?".
"Oh, appunto, Claudine, sono
venuti ieri a farci la "visita di
convenienza". Quel buon diavolo
che fa il bello è Antonin
Rabastens."
"Detto
"la
perla
della
Canebière"; (2) e l'altro com'è?"
"Magro, bello, interessante di
faccia,
si
chiama
Armand
Duplessis."
"Sarebbe un peccato non
soprannominarlo "Richelieu". (3)"
Ride:
"Un nome che avrà fortuna fra
gli scolari, birbona di una
Claudine.
Ma che selvatico! Non dice che
sì e no".
La mia insegnante d'inglese mi
sembra deliziosa questa sera, sotto
la lampada della biblioteca; gli
occhi felini sprizzano scintille
d'oro, maliziosi, teneri, e io li
ammiro, pur accorgendomi che
non sono né buoni, né franchi, né
sicuri. Ma brillano con tale
splendore nel suo viso fresco; e
sembra che stia tanto bene in
questa stanza calda e silenziosa,
che mi sento già pronta a volerle
tanto e tanto bene con tutto il mio
cuore
irragionevole.
Sì,
so
benissimo, da molto tempo, che
ho un cuore irragionevole, ma il
fatto di saperlo non mi frena
affatto.
"E lei, la rossa, non le dice
niente in questi giorni?"
"No, è persino abbastanza
gentile, non credo che sia tanto
seccata come lei suppone, nel
vedere che andiamo d'accordo."
"Macché! Non le vede gli
occhi? Sono meno belli dei suoi, e
più
cattivi...
Bella
piccola
signorina, com'è graziosa, lei!..."
Arrossisce vivamente, e mi dice
senz'esserne però affatto convinta:
"Lei è un po' pazza, Claudine,
comincio a crederlo, me lo hanno
tanto ripetuto!".
"Sì, so benissimo che le altre lo
dicono, ma che cosa importa?
Sono contenta di stare con lei; mi
parli dei suoi innamorati."
"Non ne ho. Lo sa? Credo che
vedremo spesso i due nuovi
maestri:
Rabastens mi sembra molto
"mondano", e trascina con sé il
collega
Duplessis.
Sa
che
certamente farò venire qui, come
convittrice, la mia sorellina?"
"Sua sorella? Me ne infischio.
Quanti anni ha?"
"La sua età, qualche mese di
meno, quindici anni in questi
giorni."
"E' carina?"
"Non bella, vedrà: un po'
timida e selvatica."
"Basta parlare di sua sorella!
Senta un po', ho visto Rabastens
in soffitta, è venuto su apposta. Ha
un forte accento marsigliese quel
grassone di Antonin!..."
"Sì, ma non è poi tanto brutto...
Suvvia,
Claudine,
studiamo,
dunque, non si vergogna? Legga
qui e traduca."
Ha un bell'indignarsi: lo studio
non va avanti.
L'abbraccio salutandola.
L'indomani,
durante
la
ricreazione, Anaïs stava ballando
davanti a me, per instupidirmi,
una
danza
forsennata,
pur
conservando la solita espressione
chiusa e fredda, quand'ecco che
Rabastens e Duplessis compaiono
alla porta del cortile.
Siccome ci siamo noi - Marie
Belhomme, Anaïs la lunga e io salutano, e noi rispondiamo con
fredda cortesia. Entrano nella
grande aula dove le signorine
stanno correggendo i quaderni, e
noi
li
vediamo
ridere
e
chiacchierare
insieme.
Allora
scopro di avere la necessità
urgente e improvvisa di prendere
il cappuccio, che è rimasto sul mio
banco, e mi precipito nell'aula,
spingendo la porta, come se non
avessi assolutamente pensato che
ci potessero essere quei signori;
poi mi fermo sulla soglia, fingendo
di essere confusa. La signorina
Sergent rallenta la mia corsa,
dicendo: "Sia più calma, Claudine"
in un tono da far gelare, e io mi
ritiro con passi felpati; ma ho
avuto il tempo di vedere che la
signorina Aimée Lanthenay ride
chiacchierando con Duplessis e fa
delle smancerie per lui. Aspetta,
bel tenebroso, domani o dopo, ci
sarà una canzonetta su di te, o
qualche facile freddura, o dei
nomignoli, così imparerai a
sedurre la signorina Aimée. Ma...
ebbene, che c'è? Mi richiamano?
Che fortuna!
Rientro, con aria docile:
"Claudine," spiega la signorina
Sergent "venga qui a leggere
questo pezzo a prima vista; il
signor Rabastens conosce la
musica, ma non quanto lei".
Com'è gentile! Che voltafaccia!
"Questo pezzo" è un'aria dello
Chalet, tanto noiosa da far
piangere. Non c'è nulla che mi
soffochi la voce come cantare
davanti a persone che non
conosco; quindi leggo a puntino,
ma con una voce ridicolmente
tremolante che, grazie a Dio, si
rafforza alla fine del pezzo.
"Oh, signorina, mi permetta di
farle i miei rallegramenti, lei è
tanto brava!"
Protesto tirandogli la lingua (in
cuor mio), la lingua, direbbe lui. E
me ne vado a raggiungere le oltre
(è contagioso) che mi accolgono
acidamente.
"Cara mia!" dice Anaïs la lunga,
con voce stridula. "Si può ben dire
che ti sei comprata le loro grazie!
Devi aver prodotto un effetto
folgorante su quei signori, e li
vedremo spesso da queste parti."
Le Jaubert sogghignano sotto
sotto, piene di invidia.
"Ma lasciatemi in pace, non è
proprio il caso di vantarsi perché
ho letto un pezzo. Rabastens è un
meridionale, più che meridionale,
ed è una razza che odio; in quanto
a Richelieu, se verrà spesso, so
ben io chi lo attirerà."
"Chi dunque?"
"La signorina Aimée, to'! La
mangia con gli occhi."
"Dimmi un po'," sussurra
Anaïs "di lui non sarai gelosa,
allora lo sarai di lei..."
(Che diavolo quell'Anaïs! Vede
tutto, e quello che non vede, se lo
inventa!)
I due maestri rientrano nel
cortile,
Antonin
Rabastens
espansivo e cordiale, l'altro
intimidito, quasi selvatico. E'
tempo che se ne vadano, sta per
suonare l'ora di riprendere le
lezioni e i loro monelli fanno tanto
chiasso, nel cortile vicino, come se
li avessero tuffati tutti insieme in
una caldaia di acqua bollente.
Suonano per chiamarci, e io dico
ad Anaïs:
"Senti un po', è molto tempo
che non è venuto l'ispettore
scolastico del mandamento; mi
stupirebbe molto se non lo
vedessimo questa settimana".
"E'
arrivato
ieri,
verrà
certamente a ficcare un po' il naso
da queste parti."
Dutertre, l'ispettore scolastico
del mandamento, è inoltre medico
dei bimbi dell'ospizio, che per lo
più frequentano la scuola; questo
duplice titolo lo autorizza a venire
a visitarci, e Dio sa se ne
approfitta! Certuni affermano che
la signorina Sergent sia la sua
amante, io non ne so nulla. Che
egli le dava del denaro, questo sì,
lo scommetterei: le campagne
elettorali costano care, e Dutertre,
quello squattrinato, si ostina con
insuccesso persistente a voler
sostituire quel vecchio cretino
muto
ma
milionario
che
rappresenta alla Camera gli
elettori della regione di Fresnois.
Che questa rossa ardente sia
innamorata di lui, ne sono sicura!
Freme d'ira gelosa quando lo vede
strofinarsi addosso a noi con
troppa insistenza.
Perché, lo ripeto, egli ci onora
frequentemente delle sue visite, si
siede sui banchi, si comporta
male, si trattiene accanto alle più
grandi, soprattutto a me, legge i
nostri compiti, ci ficca i baffi nelle
orecchie, ci accarezza il collo e dà
del tu a tutte (ci ha viste tanto
piccine), facendo splendere i denti
di lupo e gli occhi neri. A noi
sembra molto gentile; ma io so
che è una tale canaglia, che
davanti a lui non provo alcuna
timidezza, cosa che scandalizza le
compagne.
E' il giorno della lezione di
lavoro, si agucchia pigramente,
chiacchierando
con
voce
inafferrabile. Bene, ecco che
cominciano a cadere i fiocchi di
neve. Che fortuna! Faremo gli
scivoloni, con molti capitomboli, e
ci tireremo le palle di neve. La
signorina Sergent ci guarda senza
vederci, con la mente rivolta
altrove.
Toc! Toc! battono ai vetri.
Attraverso le piume svolazzanti
della neve, si scorge il dottor
Dutertre che bussa seminascosto
in una pelliccia e in un berretto di
pelo; è un bel giovanotto sotto
quelle pelli, con gli occhi lucenti e
i denti sempre in vista. Il primo
banco (io, Marie Belhomme e
Anaïs la lunga) si agita; mi ravvio i
capelli sulle tempie, Anaïs si
morde le labbra per farle diventare
rosse e Marie si stringe un po' più
la cintura; le sorelle Jaubert
congiungono le mani come due
immagini della prima comunione:
"Io sono il tempio dello Spirito
Santo".
La signorina Sergent ha fatto
un salto così brusco che ha
rovesciato la sedia e il panchetto
per correre ad aprire la porta; alla
vista di tanta emozione mi sbellico
dalle risa, e Anaïs approfitta di
questa agitazione per pizzicarmi,
per farmi smorfie diaboliche,
sgranocchiando
carboncino
e
gomma (per quanto le si
proibiscano questi strani cibi,
tutto il giorno ha le tasche e la
bocca piene del legno delle matite,
di gomma nera e schifosa, di
carboncino e di carta assorbente
rosa. Il gesso, la grafite, tutta
questa robaccia le gonfia lo
stomaco in modo bizzarro; senza
dubbio è questa razza di cibi che le
fa venire quella cera del color del
legno e dello stucco grigiastro. Io,
almeno, non mangio che la carta
da sigarette, e solo di una certa
marca. Ma Anaïs la lunga rovina il
comune che ci passa gli oggetti di
cancelleria,
chiedendo
nuovi
"rifornimenti" ogni settimana;
così che, all'inizio dell'anno
scolastico, il consiglio municipale
ha fatto un reclamo).
Dutertre scuote la pelliccia
incipriata di neve (sembra il suo
pelame); la signorina Sergent si
illumina di una tale gioia nel
vederlo che non pensa neppure ad
accertarsi se la sorveglio; egli
scherza con lei, il suo accento
montanaro sonoro e svelto
riscalda l'aula. Mi guardo le
unghie e metto in evidenza i
capelli, perché il visitatore guarda
soprattutto dalla nostra parte.
Sfido! Siamo ragazzone di quindici
anni, e se il mio viso dimostra
meno della mia età, il corpo è da
diciottenne. E anche i miei capelli
meritano di essere messi in
mostra, perché formano una
massa irrequieta di riccioli che
cambiano di colore secondo il
tempo, fra il castano scuro e l'oro
cupo, e fanno un contrasto non
sgradevole con i miei occhi brunocaffè; ricci come sono, mi
scendono quasi sino alle reni; non
ho mai portato le trecce, né ho
raccolto i capelli in un nodo:
questo mi fa venire l'emicrania, e
le trecce non mi incorniciano bene
il viso; quando giochiamo a
rincorrerci, raccolgo la massa dei
capelli, che farebbe di me una
preda troppo facile, e li annodo a
coda di cavallo. E poi, insomma,
non è più bello così?
La
signorina
Sergent
interrompe finalmente il suo
dialogo estatico con l'ispettore ed
esclama: "Signorine, vi comportate
molto male".
Per
confermare
questa
opinione, Anaïs ritiene utile di
lasciarsi sfuggire il borbottìo delle
risate trattenute, senza muovere
un muscolo del volto, e la
signorina rivolge a me uno
sguardo di collera che promette un
castigo.
Finalmente il dottor Dutertre
alza la voce, e sentiamo che ci
domanda: "Studiate molto? State
bene?".
"Stanno benissimo," risponde
la signorina Sergent "ma studiano
pochino. Quelle ragazze grandi
sono così pigre!"
Appena abbiamo visto il bel
dottore voltarsi verso di noi, ci
siamo chinate sui quaderni, con
aria diligente, assorta, come se
dimenticassimo la sua presenza.
"Ah, ah!" fa lui, avvicinandosi
ai nostri banchi. "Non studiate
molto? Che idee vi frullano in
testa? La signorina Claudine non è
più la prima in componimento?"
I componimenti mi fanno
orrore! Tutti argomenti stupidi e
odiosi:
"Immaginate i pensieri e le
azioni di una giovinetta cieca"
(perché non sordomuta per
giunta?), o anche: "Scrivete,
facendo il vostro ritratto fisico e
morale, a un fratello che non
vedete da dieci anni" (mi manca la
corda del sentimento fraterno,
sono figlia unica). Non si saprà
mai quali sforzi debbo fare per
trattenermi dallo scrivere frottole
e consigli sovversivi! Macché, le
mie compagne - eccetto Anaïs - se
la cavano così male, tutte, che,
mio malgrado, sono "la scolara
esimia in componimento".
Dutertre è arrivato al punto
dove si augurava di giungere, e io
alzo il capo, mentre la signorina
Sergent gli risponde:
"Claudine? Oh, sì! Ma non è
merito suo, ha disposizione e non
fa fatica".
E' seduto sul banco, con una
gamba penzoloni, e mi dà del tu
per non perderne l'abitudine:
"Dunque, sei pigra?".
"Sfido, è il mio unico piacere a
questo mondo."
"Ma scherzi! Tu preferisci
leggere, eh? Che cosa leggi? Tutto
quello che ti capita? Tutta la
biblioteca di tuo padre?"
"Nossignore, non i libri che mi
annoiano."
"Ti fai una bella istruzione,
scommetto!
Dammi
il
tuo
quaderno."
Per leggere più comodamente,
mi appoggia una mano sulla spalla
e arrotola un ricciolo dei miei
capelli. Anaïs la lunga diventa più
gialla di quanto sarebbe logico;
non le hanno chiesto il quaderno,
a lei! Questa preferenza mi varrà
qualche colpo di spillo vibrato
sotto sotto, subdole denunce alla
signorina Sergent, e lo spionaggio
delle mie chiacchierate con la
signorina Lanthenay. Sta accanto
alla porta della classe delle piccole,
la graziosa Aimée, e mi sorride
così teneramente, con gli occhi
dorati, che quasi mi consolo di
non avere potuto chiacchierare
con lei, né oggi né ieri, se non
davanti alle compagne. Dutertre
posa il quaderno e mi carezza le
spalle con aria distratta. Non
pensa affatto a quello che sta
facendo, evidentemente, e-vidente-men-te...
"Quanti anni hai?"
"Quindici."
"Che ragazzina strana! Se non
avessi quell'aria da pazzerella,
potresti dimostrarne di più, lo sai?
Ti presenterai per la licenza il
prossimo ottobre?"
"Sissignore, per far piacere a
papà."
"A tuo padre? Che cosa vuoi
che gliene importi! Ma dunque a
te
non
fa
una
grande
impressione?"
"Sì, mi diverte vedere tutta
quella gente che ci interroga; e poi
se in quel periodo vi sarà qualche
concerto nel capoluogo, sarà
piacevole."
"Non andrai alla scuola
normale?"
Faccio un balzo:
"Ah no, perbacco!".
"Perché
questo
scatto,
ragazzina esuberante?"
"Non voglio andarci, come non
ho voluto andare in collegio,
perché vi si sta rinchiusi."
"Oh, oh, ci tieni tanto alla
libertà? Tuo marito non farà
quello che vorrà, diamine! Fammi
vedere quella faccia. Ti senti bene?
Un po' d'anemia, forse?"
Quel buon dottore mi volta
verso la finestra, cingendomi la
vita col braccio, e affonda i suoi
occhi di lupo nei miei, che
diventano candidi e privi di
mistero. I miei occhi sono sempre
cerchiati ed egli mi domanda se ho
palpitazioni o l'affanno.
"No, niente affatto."
Abbasso le palpebre perché
sento
che
arrossisco
stupidamente. Mi guarda troppo,
per giunta! E indovino che la
signorina Sergent, dietro di noi, si
irrita.
"Dormi tutta la notte?"
Sono furente perché arrossisco
ancor più rispondendo:
"Ma sì, dottore, tutta la notte".
Non insiste e si alza,
smettendo di stringermi la vita.
"Via! In fondo sei robusta."
Una carezzina sulla guancia,
poi passa ad Anaïs la lunga, che si
consuma di rabbia nel banco.
"Fammi
vedere
il
tuo
quaderno."
Mentre lo sfoglia, piuttosto in
fretta, la signorina Sergent folgora
a voce bassa la prima sezione
(ragazzine dai dodici ai quattordici
anni che cominciano già a
stringersi la cintura e a tirarsi su i
capelli, perché la prima sezione ha
approfittato della disattenzione
della direttrice per abbandonarsi a
un baccano indiavolato; si sentono
colpi di riga sulle mani, un
chiocciolìo di monelle che si
prendono a pizzicotti; certamente
si
faranno
affibbiare
una
sospensione generale!
Anaïs scoppia di gioia vedendo
il quaderno in mani tanto auguste,
ma Dutertre, indubbiamente, la
trova poco degna di attenzione e
passa
avanti
dopo
qualche
complimento e un pizzicotto
sull'orecchia. Si sofferma qualche
minuto
accanto
a
Marie
Belhomme, la cui freschezza
bruna e morbida gli piace, ma
subito, persa la testa per la
timidezza, lei abbassa il capo come
un ariete, risponde sì per no, e
chiama Dutertre "signorina". In
quanto alle due sorelle Jaubert, fa
loro qualche elogio per la bella
calligrafia. Era previsto.
Finalmente se ne va. Buon
viaggio!
Ci restano una decina di
minuti prima della fine della
lezione; come impiegarli? Chiedo
di
uscire
per
raccogliere
furtivamente un pugno della neve
che continua a cadere, ne faccio
una palla e l'addento: è buona e
fredda, ha un po' il sapore della
polvere, la prima neve. La
nascondo in tasca e rientro. Mi
fanno segno all'intorno, e io faccio
passare in giro la palla di neve, che
tutte addentano con aria rapita,
eccetto le due impeccabili gemelle.
Macché! Ecco che quella
sciocca di Marie Belhomme lascia
cadere l'ultimo pezzo, e la
signorina Sergent lo vede.
"Claudine, ancora una volta ha
portato dentro della neve? Questo
passa i limiti, proprio!"
Fa certi occhiacci così furenti,
che mi trattengo dal dire: "E' la
prima volta dall'anno scorso", solo
perché ho paura che la signorina
Lanthenay soffra per le mie
insolenze, e apro la Storia di
Francia, senza rispondere.
Stasera
avrò
la
lezione
d'inglese, e mi consolerà di questo
silenzio.
Alle quattro viene la signorina
Aimée e filiamo via, contente.
Come si sta bene con lei nella
biblioteca calda! Accosto la mia
sedia stretta stretta alla sua, e le
poso la testa sulla spalla; lei mi
cinge col braccio; io le stringo la
vita che si piega.
"Oh, cara signorina, è tanto
tempo che non la vedo!"
"Ma... non sono che tre
giorni..."
"Non importa... stia zitta e mi
abbracci! Lei è cattiva, e il tempo
le sembra breve lontano da me...
L'annoiano molto queste lezioni,
dunque?"
"Oh, Claudine! Anzi, lei sa
benissimo che io chiacchiero solo
con lei e che non sto bene se non
qui."
Mi abbraccia e io faccio le fusa,
e, tutto a un tratto, la stringo così
bruscamente fra le braccia che lei
manda un piccolo strillo.
"Claudine, bisogna studiare."
Eh, al diavolo la grammatica
inglese! Mi piace molto di più
appoggiare la testa sul suo petto;
lei mi accarezza i capelli o il collo,
e sento sotto l'orecchio il battito
affannoso del suo cuore.
Come sto bene con lei!
Tuttavia bisogna prendere una
penna e almeno fingere di
studiare! Del resto a quale scopo?
Chi potrebbe entrare?
Papà? Proprio lui!
Nella stanza più scomoda del
primo piano, quella dove si gela
d'inverno, dove ci si arrostisce
d'estate, papà si chiude, selvatico,
assorto, accecato e sordo ai rumori
del mondo per... Ah, ecco... voi non
avete letto, perché non sarà mai
finita, la sua grande opera sulla
Malacologia del Fresnois, e non
saprete mai che, dalle complicate
esperienze,
dalle
premure
angosciose che lo hanno indotto a
star chino ore e ore su
innumerevoli chiocciole chiuse in
certe piccole campane di vetro, in
certe scatole di filo metallico, papà
ha
tratto
questa
certezza
folgorante: un limax flavus divora
in un giorno persino grammi
ventiquattro di cibo, mentre l'helix
ventricosa non ne consuma che
grammi diciannove nel medesimo
tempo! Come volete che la
nascente speranza di simili
constatazioni
lasci
a
un
appassionato
malacologo
il
sentimento della paternità, dalle
sette del mattino alle nove di sera?
E' l'uomo più buono e più tenero,
fra due pasti di lumache.
D'altronde, quando ne ha tempo,
mi
guarda
vivere
con
ammirazione, e si stupisce di
vedere che esisto come "un vero
essere". Ne ride con gli occhietti
semichiusi, col nobile naso
borbonico (dov'è andato a pescare
quel naso regale?), la bella barba
chiazzata di tre colori: rossastra,
grigia e bianca... Non vi ho spesso
visto brillare delle piccole bave di
lumaca?
Domando ad Aimée, con
indifferenza, se ha rivisto i due
compagni:
Rabastens e Richelieu. Si
anima, cosa che mi sorprende:
"Ah, sicuro, non gliel'ho detto...
lei sa che ora dormiamo all'asilo,
perché demoliscono tutto; ebbene,
ieri sera, lavoravo in camera, verso
le dieci, e, chiudendo le imposte
per andare a letto, ho visto una
grande ombra che passeggiava
sotto la mia finestra, con questo
freddo; indovini chi era?".
"Uno dei due, perbacco."
"Sì, ma era Armand; se lo
sarebbe aspettato da quello
scontroso?"
Rispondo di no, ma me lo sarei
aspettato benissimo, invece, da
quell'omone nero, dagli occhi seri
e scuri, che mi sembra molto
meno insignificante dell'allegro
marsigliese. Tuttavia vedo che la
testa da uccellino della signorina
Aimée è già eccitata per questa
meschina avventura e ne sono un
po' triste. Le domando:
"Come? Lo trova già degno di
un così vivo interesse quel corvo
solenne?".
"Ma no, suvvia! Mi diverte
soltanto."
E' lo stesso: la lezione finisce
senza ulteriori espansioni.
Solamente,
uscendo,
nel
corridoio buio, la bacio con tutta la
forza sul collo delicato e bianco,
sui capelli corti che hanno un
buon profumo. E' piacevole
abbracciarla come si abbraccia un
animaletto caldo e grazioso, e lei
mi restituisce teneramente il
bacio. Ah, me la terrei sempre
vicino, se potessi!
Domani è domenica, niente
scuola, che noia! Non mi diverto
se non là.
Questa domenica sono andata
a passare il pomeriggio nella
fattoria dove abita Claire, la dolce
e buona compagna della prima
comunione, che non viene più a
scuola già da un anno. Scendiamo
lungo il sentiero dei Matignons,
che dà sulla strada della stazione,
un sentiero che d'estate è fronzuto
e scuro; grazie alla vegetazione in
questi mesi invernali non ci sono
più foglie, s'intende, ma si è
ancora abbastanza nascosti in
mezzo per potere spiare la gente
che si siede sulle panchine della
strada. Noi camminiamo sulla
neve che scricchiola. Le piccole
pozze
gelate
gemono
musicalmente sotto il sole, con
quel bel suono, che non è simile
ad alcun altro, del ghiaccio che si
fende. Claire mi confida in un
sussurro i suoi amoretti iniziati
coi giovanotti ai balli domenicali
da Trouillard, certi rozzi e violenti
giovani; e io guizzo ascoltandola.
"Capisci, Claudine, c'era anche
Montassuy, e ha ballato la polca
con me, stringendomi forte. In
quel momento Eugène, mio
fratello, che ballava con Adèle
Tricotot, pianta la ballerina e salta
in aria per sbattere con la testa
contro una delle lampade che
pendono dal soffitto; il vetro
oscilla e spegne la lampada.
Mentre
tutti
guardano,
e
prorompono in esclamazioni di
meraviglia, ecco che il grosso
Féfed gira la chiavetta dell'altra
lampada e tutto diventa buio buio,
non c'era che una candela proprio
in fondo al piccolo bar.
Cara mia, finché la vecchia
Trouillard
non
torna
coi
fiammiferi si sentono solo grida,
risate, schiocchi di baci. Vicino a
me, mio fratello stringeva Adèle
Tricotot, e lei faceva certi sospiri,
certi sospiri, dicendo: "Lasciami
andare,
Eugène,"
con
voce
soffocata, come se avesse avuto le
sottane rialzate sopra la testa; e il
grosso Féfed era caduto per terra
con la propria dama; ridevano,
ridevano tanto che non potevano
più rialzarsi!"
"E tu con Montassuy?"
Claire arrossisce di un tardivo
pudore.
"Ah, appunto... Il primo
momento era tanto sorpreso
perché avevano spento le lampade
che ha soltanto continuato a
tenere la mano che mi stringeva; e
poi, mi ha ripresa per la vita e mi
ha detto sottovoce:
"Non abbia paura". Io non ho
detto niente e ho sentito che si
chinava, che, a tastoni, mi baciava
pian piano sulle guance, e anzi era
tanto buio che si è sbagliato
(quell'ipocrita!) e mi ha baciata
sulla bocca; mi ha fatto tanto
piacere, tanto bene e mi ha
causato tanta emozione che sono
stata lì lì per cadere, e lui mi ha
sorretta stringendomi ancora di
più. Oh, è tanto caro, lo amo."
"E dopo, sgualdrina?"
"Dopo, la vecchia Trouillard ha
riacceso le lampade, con viso
arcigno, e ha giurato che, se
capiterà ancora una cosa simile,
farà una denuncia e chiuderanno
la sala da ballo."
"Però era un po' troppo
spinto!... Zitta, chi sta venendo?"
Siamo sedute dietro la siepe di
rovi, proprio vicino alla strada che
passa due metri sotto di noi, e che
ha una panca sulla riva del fosso,
un meraviglioso nascondiglio per
ascoltare senza essere viste.
"Sono i maestri!"
Sì, sono Rabastens e il cupo
Armand
Duplessis,
che
camminano
chiacchierando,
fortuna insperata! Il bell'Antonin
vuole sedersi su questa panca, a
causa del pallido solicello che la
riscalda un pochino. Sentiremo la
loro conversazione e non stiamo
nella pelle dalla gioia, nel nostro
posto d'osservazione, sopra le loro
teste.
"Ah!" sospira il meridionale
con soddisfazione "Ci si scalda un
po' qui. Non le pare?"
Armand borbotta qualcosa di
non
chiaro.
Il
marsigliese
ricomincia; parlerebbe da solo, ne
sono sicura!
"Io, veda un po', mi trovo bene
in questo paese: le maestre sono
molto gentili. La signorina
Sergent, se è brutta! Ma la piccola
signorina Aimée è così carina! Mi
sento più in gamba quando lei mi
guarda."
Il falso Richelieu si è
raddrizzato, gli si scioglie la
lingua:
"Sì, è seducente, e così
graziosa!
Sorride
sempre
e
cinguetta come una capinera".
Ma si frena subito dopo questa
espansione e aggiunge con un
altro tono: "E' una buona
signorina, certo lei le farà girare la
testa, don Giovanni!".
Sono stata lì lì per scoppiare.
Rabastens nelle vesti di don
Giovanni! L'ho immaginato con
un feltro piumato sulla testa tonda
e le guance pienotte... Lassù,
protese verso la strada, ridevamo
con gli occhi, tutte e due, senza
muoverci di un millimetro.
"Ma, parola d'onore," riprende
il rubacuori dell'insegnamento
elementare "ci sono altre belle
ragazze oltre a quella, si direbbe
che lei non le ha viste! L'altro
giorno a scuola, la signorina
Claudine venne a cantare in modo
delizioso (posso dire che me ne
intendo un poco, eh?). E non è un
tipo da passare inosservata, coi
capelli sciolti sulle spalle e tutto
intorno, e gli occhi scuri così
maliziosi! Caro mio, credo che
quella bambina ne sappia più delle
cose che dovrebbe ignorare, che di
geografia!"
Ho avuto un piccolo sussulto
di stupore, e ci siamo quasi fatte
sorprendere, perché Claire si è
lasciata scappare una risata come
una fuga di gas, che avrebbe
potuto essere sentita. Rabastens si
agita sulla panchina, accanto a
Duplessis assorto, e gli sussurra
qualcosa all'orecchio, ridendo con
aria lasciva. L'altro sorride; si
alzano; se ne vanno. Noi due, in
alto, siamo felici, e balliamo dalla
gioia, tanto per scaldarci come per
rallegrarci di questo delizioso
spionaggio.
Tornando a casa, rimugino già
qualche civetteria per infiammare
questo grasso Antonin ultra-
combustibile, per far passare il
tempo durante la ricreazione,
quando piove. E io che lo credevo
intento a progettare la seduzione
della signorina Lanthenay! Sono
molto felice che non cerchi di
piacerle, perché quella piccola
Aimée mi sembra così pronta ad
amare, che persino un Rabastens
avrebbe potuto riuscire, chi lo sa?
E' vero che Richelieu è stato
colpito da lei ancor più di quanto
non pensassi.
Già alle sette del mattino entro
a scuola; tocca a me accendere il
fuoco, ahimè! Bisognerà spaccare
un po' di legna nella rimessa e
rovinarsi le mani, e portare ceppi,
e soffiare, e prendersi negli occhi
il fumo bruciante... To', il primo
edificio nuovo si eleva già alto, e
su quello della scuola maschile,
simmetrico, il tetto è quasi finito;
la nostra povera vecchia scuola
mezzo demolita sembra un'infima
catapecchia accanto a questi due
edifici che sono spuntati da terra
così in fretta. Anaïs la lunga mi
raggiunge e andiamo a spaccare
legna.
"Sai, Claudine, oggi arriva una
seconda maestra, e saremo tutte
costrette a sloggiare; ci faranno
scuola all'asilo."
"Magnifica
idea!
Ci
prenderemo le pulci e i pidocchi: è
così sporco là dentro."
"Sì, ma siamo più vicine alla
classe maschile, mia cara."
(Che spudorata quella Anaïs!
Infatti ha ragione.)
"Questo è vero. Ebbene,
focherello striminzito, ti decidi ad
attaccare? Sono dieci minuti che
mi spolmono. Ah, come deve
prendere fuoco più facilmente
Rabastens!"
A poco a poco, il fuoco si
decide ad attaccare, arrivano le
scolare, la signorina Sergent è in
ritardo (perché? E' la prima volta).
Scende finalmente, ci risponde
"Buon
giorno"
con
aria
preoccupata, poi siede in cattedra,
dicendoci: "Al vostro posto", senza
guardarci, e, evidentemente, senza
pensare a noi. Copio i problemi
domandandomi quali pensieri la
tormentino, e mi accorgo con
inquieta sorpresa che mi lancia di
tratto in tratto certi rapidi sguardi,
furenti e insieme vagamente
soddisfatti. Che c'è dunque? Non
sono affatto, affatto tranquilla.
Cerchiamo di ricordare... Ricordo
soltanto che, con una collera quasi
dolorosa, appena dissimulata, ha
visto la signorina Lanthenay e me
che ce ne andavamo per la lezione
d'inglese.
Ahimè!
Non
ci
lasceranno dunque tranquille, la
mia piccola Aimée e me? Non
facciamo niente di male, tuttavia!
La nostra ultima lezione d'inglese
è stata così dolce! Non abbiamo
nemmeno aperto il dizionario, né
la Scelta di frasi d'uso comune, né
il quaderno...
Penso e sono furente mentre
copio i problemi con una
calligrafia disordinata; Anaïs mi
spia di soppiatto e indovina che c'è
"qualcosa". Io guardo ancora
quella terribile rossa dagli occhi
gelosi, mentre raccolgo la penna
che, per una felice sbadataggine,
ho gettato per terra. Ma, ma ha
pianto, non mi sbaglio! Allora
perché quegli sguardi irosi e quasi
soddisfatti? Non va per niente
bene, bisogna assolutamente che
oggi interroghi Aimée. Non penso
più al problema da trascrivere:
"...Un operaio pianta alcuni
pali per fare una palizzata. Li
conficca a una distanza tale l'uno
dall'altro, che il secchio di
catrame,
in
cui
immerge
l'estremità inferiore
sino a
un'altezza di cm 30, è vuoto in
capo a ore 3. Dato che la quantità
di catrame che resta attaccata ai
pali è uguale a dieci centimetri
cubi, che il secchio è un cilindro di
m 0,15 di raggio alla base e di m
0,75 di altezza, pieno per 3/4, che
l'operaio immerge 40 pali l'ora e si
riposa 8 minuti circa nel
medesimo tempo, qual è il
numero dei pali e qual è la
superficie della proprietà che ha la
forma di un quadrato perfetto?
Dite anche quale sarebbe il
numero dei pali necessari, se si
piantassero a una distanza
maggiore di cm 10. Dite anche il
costo di questa operazione nei due
casi: se i pali costano fr. 3 al
centinaio, e se l'operaio è pagato
fr. 0,50 l'ora".
Non bisognerebbe anche dire
se l'operaio è uno sposo felice?
Oh, qual è la fantasia malsana, il
cervello
depravato
in
cui
germinano
questi
problemi
ripugnanti coi quali ci torturano?
Li aborrisco! E gli operai che si
coalizzano per complicare la
somma di lavoro di cui sono
capaci, che si dividono in due
squadre, delle quali una consuma
un terzo in più delle forze
dell'altra, mentre quell'altra, in
compenso, lavora ore due di più! E
il numero di aghi che una sarta
adopera in venticinque anni
quando si serve di aghi a franchi
zero e cinquanta la cartina per
undici anni, e di aghi a franchi
zero e settantacinque durante il
resto del tempo, ma quelli da
franchi zero e settantacinque
sono... eccetera. E le locomotive
che complicano diabolicamente la
velocità, le ore della partenza e lo
stato di salute dei macchinisti!
Odiose
supposizioni,
ipotesi
inverosimili, che mi hanno reso
refrattaria all'aritmetica per tutta
la vita!
"Anaïs, venga alla lavagna."
Quella spilungona si alza e di
nascosto mi fa una smorfia da
gatta disturbata; non piace a
nessuno "andare alla lavagna"
sotto gli occhi neri e indagatori
della signorina Sergent.
"Faccia il problema."
Anaïs lo fa e lo spiega. Ne
approfitto
per
esaminare
comodamente la maestra: i suoi
sguardi scintillano, i capelli rossi
le fiammeggiano...
Se, almeno, avessi potuto
vedere Aimée Lanthenay prima
della lezione!
Bene, il problema è finito.
Anaïs respira e ritorna al suo
posto.
"Claudine, venga alla lavagna.
Scriva le frazioni:
3525/5712 806/925 14/56
302/1052" (mio Dio! Salvami dalle
frazioni divisibili per sette e per
undici, come pure da quelle
divisibili per cinque, per nove, e
per quattro e per sei, e per
millecentoventisette) "e trovi il
loro massimo comun divisore".
Ecco quello che temevo.
Comincio malinconicamente; mi
sfugge qualche sciocchezza perché
non sto attenta a quel che faccio.
Come corregge presto, con un
gesto secco della mano o
aggrottando le sopracciglia, le
piccole
inesattezze
che
mi
permetto di fare!
Finalmente me la cavo e
ritorno al posto, riportandomi
questo avvertimento: "Niente
freddure qui, eh?", perché a questa
sua osservazione: "Lei dimentica
di abbassare gli zeri" ho risposto:
"Bisogna sempre abbassare gli
zeri, se lo meritano".
Dopo di me, va alla lavagna
Marie Belhomme, e secondo
l'abitudine, fa spropositi inauditi
l'uno sull'altro, con la più gran
buona fede di questo mondo;
volubile e sicura di sé quando
annaspa, indecisa e rossa quando
si ricorda della lezione precedente.
Si apre la porta della classe
inferiore, entra la signorina
Lanthenay.
Io
la
guardo
avidamente: oh, quei poveri occhi
dorati che hanno pianto e sono
gonfi sotto, quei cari occhi, che mi
lanciano uno sguardo smarrito e si
volgono
subito!
Ne
resto
costernata; che cosa mai le ha
fatto lei? Arrossisco di collera, in
tal modo che Anaïs la lunga lo
nota e sogghigna di nascosto. La
dolente Aimée ha chiesto un libro
alla signorina Sergent, che glielo
ha dato con una premura
accentuata e le cui guance sono
diventate di un rosso più cupo.
Che cosa vuol dire tutto ciò?
Quando penso che la lezione
d'inglese è solo domani, sono
ancora più angosciata. Ma che
farci? Non posso fare nulla. La
signorina Lanthenay ritorna nella
sua classe.
"Signorine," annuncia la cattiva
rossa "tirate fuori i libri e i
quaderni, siamo costrette a
rifugiarci
provvisoriamente
nell'asilo."
Subito tutte le ragazzine si
agitano come se avessero il fuoco
alle gambe; ci spingiamo, ci
pizzichiamo, muoviamo i banchi,
cascano i libri, li ammucchiamo
nei nostri grandi grembiuli. Anaïs,
la lunga, reggendosi il bagaglio fra
le braccia, mi osserva mentre
prendo il mio carico, poi mi tira in
fretta l'angolo del grembiule e
tutto crolla. Lei continua ad avere
la sua aria distratta e osserva
attentamente tre muratori che si
lanciano tegole nel cortile. Mi
sgridano per la mia goffaggine, e
due minuti dopo quella canaglia di
Anaïs
ricomincia
lo
stesso
esperimento
con
Marie
Belhomme. Lei prorompe in
esclamazioni così rumorose che le
vengono assegnate alcune pagine
di storia antica da copiare.
Finalmente la nostra compagnia,
chiacchierando e trascinando i
piedi, attraversa il cortile ed entra
nell'asilo. Io arriccio il naso: è
sporco, lo hanno pulito alla svelta
per noi, puzza ancora di bambini
trascurati.
Purché questo "provvisorio"
non duri troppo!
Anaïs ha posato i libri e subito
ha voluto accertarsi che le finestre
diano sul giardino del maestro. Io,
troppo preoccupata per le noie che
prevedo, non ho avuto il tempo di
contemplare i maestri.
Ritorniamo nella vecchia aula
facendo il rumore di una mandria
di buoi scappati e trasportiamo i
banchi così vecchi, così pesanti
che urtiamo e inciampiamo un po'
dappertutto, con la speranza che
almeno
uno
si
sconquassi
completamente e cada a pezzi
tarlati. Vana speranza! Arrivano
interi; non è colpa nostra.
Non abbiamo studiato molto,
questa
mattina.
Tanto
di
guadagnato.
Alle undici, quando usciamo,
faccio la ronda per vedere la
signorina Lanthenay, ma senza
successo. La chiude a chiave, lei?
Me ne vado a colazione, così piena
di collera compressa che papà
stesso se ne accorge e mi domanda
se ho la febbre... Poi ritorno molto
presto, a mezzogiorno e un quarto,
e mi innervosisco, fra le poche
scolare presenti, tutte ragazzine di
campagna, che fanno colazione a
scuola con uova sode, lardo,
melassa spalmata sul pane, frutta.
E aspetto inutilmente, e mi rodo!
Entra Antonin Rabastens (un
diversivo come un altro) e mi
saluta con la grazia di un orso che
balla.
"Scusi tanto, signorina; e allora
le signorine non sono ancora
scese?"
"Nossignore, le aspetto; Dio
voglia che non tardino troppo,
perché "la lontananza è il peggiore
di tutti i mali"! Ho già
commentato sette volte questo
aforisma di La Fontaine, in vari
componimenti che sono stati
segnalati."
Ho parlato con dolce gravità; il
bel marsigliese ha ascoltato con
un'espressione un po' inquieta
nella sua buona faccia di luna
piena.
(Anche lui penserà che sono
un po' pazza.) Cambia argomento:
"Signorina, mi hanno detto che
lei legge molto. Suo padre
possiede una ricca biblioteca?".
"Sì,
signor
maestro,
duemilatrecentosette volumi, non
uno di più."
"Lei sa tante cose interessanti,
senza dubbio, e ho capito subito
l'altro giorno - quando ha cantato
con tanta grazia - che lei è molto
avanti per la sua età."
(Dio, che idiota! Non se ne
andrà una buona volta? Ah,
dimenticavo che è un po'
innamorato di me. Devo essere
più gentile.)
"Ma anche lei, signor maestro,
ha una bella voce di baritono a
quanto mi hanno detto. Qualche
volta la sentiamo cantare in
camera sua, quando i muratori
non fanno baccano."
Diventa rosso di gioia e
protesta con modestia assai
compiaciuta.
Si schermisce:
"Oh, signorina!... D'altronde
potrà giudicare lei stessa fra poco,
perché la signorina Sergent mi ha
pregato di dare qualche lezione di
solfeggio, il giovedì e la domenica,
alle scolare grandi che fanno
l'esame di licenza; e cominceremo
la settimana prossima".
Che fortuna! Se non fossi così
preoccupata, sarei felice
di
comunicare questa notizia alle
altre che non sanno ancora nulla.
Figurarsi come si inonderà di
acqua di Colonia, Anaïs, e si
morderà
le
labbra
giovedì
prossimo, e si stringerà la cintura
di cuoio, e canterà languidamente!
"Come? Ma io non ne sapevo
nulla! La signorina Sergent non ci
ha detto niente."
"Oh, forse non avrei dovuto
dirlo? Sia tanto gentile da fingere
d'ignorarlo!"
Mi supplica muovendo il busto
ad arte, e io scrollo il capo per
scacciare dei riccioli che non mi
disturbano
affatto.
Questa
parvenza di segreto fra di noi lo
rallegra, gli servirà come spunto
per darmi occhiate d'intesa, di una
intesa molto naturale. Se ne va,
facendo il bello, con un saluto già
più
familiare:
"Arrivederci,
signorina Claudine". "Arrivederci,
signor maestro."
Mezzogiorno e mezzo: vengono
le scolare; e Aimée non si vede
ancora! Rifiuto di giocare con la
scusa di un'emicrania, e mi scaldo.
Oh, oh! Che cosa vedo? Ecco
che sono scese Aimée e la sua
temibile superiora: sono scese e
attraversano il cortile, e la rossa
ha preso a braccetto la signorina
Lanthenay; avvenimento inaudito!
La signorina Sergent parla, e
molto piano, alla subordinata, che,
ancora un po' confusa, alza gli
occhi già rassicurati e belli verso
l'altra, tanto più alta di lei. Lo
spettacolo di questo idillio muta la
mia inquietudine in dispiacere.
Prima che siano vicino alla porta,
mi precipito fuori in mezzo a un
gruppo che gioca sfrenatamente
"al lupo", gridando: "Gioco
anch'io!" come griderei: "Al
fuoco!". E, sino a quando suona
l'ora di tornare in classe, mi sfiato
e corro a più non posso, inseguita
e inseguitrice, trattenendomi il più
possibile dal pensare.
Durante la partita, ho visto la
testa di Rabastens: guarda al di
sopra del muro e si diverte a
vedere correre queste ragazze
ormai grandi, che mostrano,
alcune
inconsciamente
come
Marie Belhomme, altre ben
conscie, come Anaïs la lunga, certi
polpacci belli o ridicoli. Il gentile
Antonin mi rivolge un grazioso
sorriso,
straordinariamente
grazioso; non ritengo di dover
rispondervi
a
causa
delle
compagne, ma dimeno i fianchi e
scuoto i riccioli. Devo ben far
divertire
questo
giovane
(d'altronde mi sembra un balordo
nato, capace solo d'infilare una
topica dopo l'altra). Anaïs, che l'ha
visto anche lei, corre dandosi col
ginocchio dei colpi alle sottane per
mettere in mostra gambe che
tuttavia non sono attraenti, e ride
e manda strilli da uccello. Quella
farebbe la civetta con un bue da
tiro.
Rientriamo in classe e, ancora
ansanti, apriamo i quaderni. Ma
dopo un quarto d'ora la vecchia
Sergent viene ad avvertire la figlia,
in un dialetto da selvaggi, che
sono arrivate due convittrici. La
classe è in ebollizione; due
"novelline" da stuzzicare. E la
signorina esce, pregando la
signorina Lanthenay, con voce
dolce, di sorvegliare la scolaresca.
Viene Aimée, io cerco i suoi occhi
per sorriderle con tutta la più
ansiosa tenerezza, ma lei mi
risponde
con
uno
sguardo
piuttosto malsicuro; e il cuore mi
si affligge stupidamente, mentre
mi chino sul lavoro a maglia... Non
ho mai lasciato cadere tanti punti!
Ne lascio cadere una tale quantità,
che sono costretta a chiedere aiuto
alla signorina Aimée. Mentre lei
cerca di rimediare alla mia
sbadataggine,
le
sussurro:
"Buongiorno,
cara,
piccola
graziosa signorina, ma che cosa c'è
dunque, mio Dio? Mi rodo perché
non le posso parlare". Lei volge
intorno sguardi inquieti, e mi
risponde molto piano:
"Adesso non posso dirle nulla;
domani durante la lezione".
"Non riuscirò assolutamente
ad aspettare sino a domani! Se
facessi finta che domani papà ha
da fare in biblioteca, e chiedessi di
fare lezione questa sera?"
"No... sì... lo chieda. Ma torni
subito al posto, le grandi ci
guardano."
La ringrazio a voce alta e torno
a sedere. Ha ragione: Anaïs la
lunga
ci
spia,
cercando
d'indovinare che cosa succede da
due o tre giorni.
Finalmente ritorna la signorina
Sergent, accompagnata da due
giovinette insignificanti, il cui
arrivo provoca un certo brusìo fra i
banchi.
Installa le nuove arrivate al
loro posto. I minuti scorrono lenti.
Quando finalmente suonano le
quattro,
vado
subito
dalla
signorina Sergent e le chiedo tutto
d'un fiato:
"Signorina, vuol essere tanto
gentile
da
permettere
alla
signorina Lanthenay di darmi la
lezione questa sera invece di
domani?
Papà
riceve
nella
biblioteca un tale, che viene per
affari, e noi non potremo restarci".
Uff! Ho pronunciato la frase
senza respirare. La signorina
aggrotta le sopracciglia, mi
squadra per un attimo e decide:
"Sì, vada ad avvertire la signorina
Lanthenay".
Corro da lei, si mette il
cappello, il soprabito, e me la
porto via, pestando i piedi per
l'ansia di sapere.
"Ah, come sono contenta di
averla un po' con me! Mi dica,
presto, che cosa c'è che non va?"
Lei esita, tergiversa:
"Non qui, aspetti, è difficile da
raccontare per la strada; fra un
minuto saremo a casa sua".
Intanto le stringo il braccio
sotto il mio, ma non ha il solito
sorriso gentile. Quando abbiamo
sbattuto dietro le spalle la porta
della biblioteca, la prendo fra le
braccia e la bacio; mi sembra che
l'abbiano tenuta chiusa lontano da
me per un mese, questa povera
piccola
Aimée
dagli
occhi
cerchiati, dalle guance pallide! Ma
dunque ha avuto un gran
dispiacere? Tuttavia i suoi sguardi
mi
sembrano
soprattutto
imbarazzati ed è più agitata che
triste.
Eppoi,
anche,
contraccambia i miei baci in fretta;
non mi piace che mi si baci
distrattamente!
"Suvvia, parli, racconti dal
principio."
"Ma non è una storia molto
lunga; non c'è stato un gran che,
tutto sommato. E' la signorina
Sergent,
sì,
che
vorrebbe...
insomma preferisce... trova che
queste
lezioni
d'inglese
m'impediscono di correggere i
quaderni, e che sono costretta ad
andare a letto troppo tardi..."
"Andiamo, su, non perda
tempo e sia franca; non vuole più
che lei venga?"
Tremo per l'angoscia, stringo le
mani fra le ginocchia per tenerle
ferme.
Aimée
spiegazza
la
copertina della grammatica e la
stacca, alzando su di me gli occhi
che ridiventano sgomenti.
"Sì, proprio così, ma non l'ha
detto come lo dice lei, Claudine:
mi ascolti un momento."
Io non ascolto affatto, mi sento
struggere dal dolore; sono seduta
su un panchettino per terra, e
stringendola, col braccio intorno
alla vita sottile, la supplico:
"Cara, non se ne vada! Se
sapesse, ne soffrirei troppo! Oh,
trovi delle scuse, inventi qualche
cosa, ritorni, non mi lasci! Lei mi
riempie
di
gioia,
soltanto
standomi vicino! Dunque non le fa
piacere?
Sono dunque come una Anaïs
o una Marie Belhomme qualsiasi
per lei?
Cara signorina, ritorni, ritorni
ancora a darmi le lezioni d'inglese!
Io le voglio tanto bene... non
glielo dicevo, ma ora lo vede!...
Ritorni, la prego. Non potrà
mica picchiarla quella maledetta
rossa!".
Brucio dalla febbre, e mi irrito
ancor più sentendo che Aimée non
vibra insieme con me. Mi
accarezza la testa posata sulle sue
ginocchia, e non m'interrompe se
non esclamando ogni tanto con
voce tremolante: "Mia piccola
Claudine!". Alla fine gli occhi le si
bagnano di lacrime e si mette a
piangere dicendo:
"Le racconterò tutto, è troppo
triste; lei mi fa troppa pena! Ecco:
sabato scorso, mi sono accorta che
lei mi faceva più gentilezze del
solito, e io, credendo che si stesse
abituando alla mia presenza e che
ci
lasciasse
tranquille,
ero
contenta e allegrissima. E poi,
verso la fine della serata, mentre
correggevamo
quaderni
sulla
stessa tavola, a un tratto, alzando
il capo, vedo che piangeva,
guardandomi con certi occhi così
strani che ne sono rimasta
turbata; lei si è subito allontanata
dalla sedia ed è andata a dormire.
L'indomani, dopo una giornata
piena di premure per me, ecco che,
la sera, mentre ero sola con lei,
stavo per augurarle la buona
notte, quando mi domanda:
"Dunque vuole molto bene a
Claudine? E senza dubbio lei
glielo contraccambia?". E prima
che avessi avuto il tempo di
rispondere era caduta a sedere
accanto a me singhiozzando. E poi
mi ha preso le mani, e mi ha detto
tante e tante cose delle quali ero
sbalordita...".
"Quali cose?"
"Ebbene, mi diceva: "Piccola
cara, non vede dunque che mi
strazia il cuore con la sua
indifferenza? Oh, tesoruccio mio,
come mai non si è accorta del
grande affetto che ho per lei?
Piccola Aimée mia, sono gelosa
della tenerezza che lei dimostra a
questa Claudine scriteriata che
certamente è un po' pazza... Se
soltanto non mi odiasse, oh, se
soltanto mi volesse un pochino di
bene, io sarei per lei un'amica più
tenera di quanto non possa
immaginarlo...". E mi guardava
sino in fondo all'anima con due
occhi come carboni accesi."
"Lei non le rispondeva nulla?"
"Certamente! Non ne avevo il
tempo! E anche diceva: "Crede che
siano molto utili per lei e molto
gentili per me queste lezioni
d'inglese che dà a Claudine? So
benissimo che non studiate molto
l'inglese durante le lezioni, e ogni
volta mi strazia l'anima quando vi
vedo andare via! Non ci vada, non
ci vada più! In capo a una
settimana Claudine non ci penserà
più, io le darò più affetto di quanto
lei sia capace di provare!". Le
assicuro, Claudine, che non
sapevo più quello che mi facessi,
lei mi magnetizzava con quegli
occhi folli, e tutto a un tratto, la
stanza mi gira intorno, e barcollo,
e non vedo più niente per due o
tre secondi, non di più; sentivo
soltanto che lei ripeteva molto
spaventata: "Dio mio...
Povera piccola! La spavento, è
pallida, piccola Aimée, mia cara!".
E subito dopo mi ha aiutata a
spogliarmi,
con
maniere
affettuose, e ho dormito come se
avessi
camminato
tutta
la
giornata... Povera Claudine mia,
vede bene che non ci posso far
nulla!"
Sono sbalordita. Ha passioni
piuttosto violente, quella rossa
vulcanica! In fondo, non me ne
meraviglio troppo; doveva finire
così.
Frattanto, resto lì, affranta; e
dinanzi ad Aimée, piccola fragile
creatura stregata da quella furia,
non so che cosa dire. Lei si asciuga
gli occhi. Mi sembra che il suo
dispiacere cessi con le lacrime. La
interrogo:
"Ma lei, lei non le vuole
bene?".
Risponde senza guardarmi:
"No, di certo; ma veramente
sembra che la direttrice me ne
voglia molto, e io non me lo
aspettavo".
La risposta mi agghiaccia,
perché insomma io non sono
ancora diventata una cretina, e
capisco quello che mi si vuole dire.
Le lascio cadere le mani, che
stringevo, e mi alzo. C'è qualcosa
che si è spezzato. Poiché non
vuole confessarmi francamente
che non è più con me contro
l'altra, poiché nasconde il fondo
del suo pensiero, credo che sia
finita. Ho le mani gelate e le
guance che mi bruciano.
Dopo un silenzio spiacevole,
ricomincio:
"Cara signorina Aimée dai begli
occhi, la supplico di ritornare
ancora una volta per finire il
mese; crede che lei lo permetta?".
"Oh, sì, glielo chiederò."
L'ha detto in fretta, con
naturalezza, ormai sicura di
ottenere dalla signorina Sergent
tutto quel che vuole. Come si
allontana presto da me e come ha
vinto presto, quell'altra! Vigliacca
d'una piccola Lanthenay! Le piace
il benessere come a una gatta
freddolosa, e capisce che l'amicizia
della superiora le sarà più utile
della mia!
Ma io non voglio dirglielo,
perché non ritornerebbe più per
l'ultima lezione, e io conservo
ancora una vaga speranza... E'
passata
l'ora;
riaccompagno
Aimée, e nel corridoio la bacio
violentemente, con un fondo di
disperazione.
Appena sola, mi stupisco di
non sentirmi tanto triste quanto
avrei creduto. Mi aspettavo una
grande e ridicola esplosione di
dolore; no, è piuttosto un freddo
che mi agghiaccia...
A tavola interrompo il sogno di
papà:
"Sai,
papà,
le
lezioni
d'inglese?".
"Sì, lo so, hai ragione di
prenderle..."
"Ascoltami dunque, non ne
prenderò più."
"Ah, ti stancano?"
"Sì, mi irritano."
"Hai ragione."
E il pensiero gli vola daccapo
alle lumache; le aveva forse
abbandonate?
Una notte agitata da stupidi
sogni: la signorina Sergent nelle
vesti di una Furia, con serpenti nei
capelli rossi, voleva abbracciare
Aimée Lanthenay che scappava
gridando. Io cercavo di correre in
suo aiuto, ma mi fermava Antonin
Rabastens, con un vestito rosa
pallido, e mi tratteneva per il
braccio, dicendomi: "Senta, senta
dunque: ecco una romanza che io
canto, e ne sono veramente
entusiasta". Allora cantava con
voce di baritono:
Miei cari amici, quando
morirò/ piantate un salice al
cimitero/ ...sull'aria di Ah, come si
è orgogliosi d'essere francesi,
quando si guarda la colonna! Una
notte assurda e che non mi riposa
davvero!
Arrivo a scuola in ritardo e
osservo la signorina Sergent con
una sorpresa segreta al pensiero
che l'audace rossa l'ha spuntata.
Mi lancia certe occhiate maliziose,
quasi di scherno; ma stanca,
abbattuta, non ho il coraggio di
risponderle.
All'uscita dalla scuola, vedo la
signorina Aimée che mette in fila
le piccole (mi sembra un sogno la
scena di ieri sera). La saluto,
passando; anche lei ha l'aria
stanca. Non c'è la signorina
Sergent; mi fermo:
"Sta bene, questa mattina?".
"Ma sì, grazie. Ha gli occhi
pesti, Claudine."
"Può darsi. Che c'è di nuovo?
La scena non si è ripetuta? E'
sempre così gentile con lei?"
Arrossisce e si confonde:
"Sì, sì, non c'è nulla di nuovo
ed è molto gentile. Io... io penso
che lei non la conosca bene, non è
affatto come lei crede...".
Un po' disgustata, la lascio
balbettare; quando ha bene
aggrovigliato
la
frase,
la
interrompo:
"Forse ha ragione lei. Verrà
mercoledì per l'ultima volta?".
"Oh, sì! Gliel'ho chiesto, è
certo."
Come cambiano presto le cose!
Dopo la scena di ieri sera non
parliamo già più nello stesso
modo, e oggi non oserei più
dimostrarle il dolore che ho
lasciato trasparire ieri sera senza
ritegno. Suvvia!
Bisogna farla ridere un po':
"E i suoi amori? Sta bene il bel
Richelieu?".
"Ma chi? Armand Duplessis?
Ma sì, sta bene; qualche volta sta
due ore all'ombra sotto la mia
finestra; ma ieri sera gli ho fatto
capire che me ne ero accorta, e se
ne è andato presto, con quelle
gambe a compasso. E quando il
maestro Rabastens ha voluto
accompagnarlo da noi ieri l'altro,
ha rifiutato."
"Lo sa? Armand è seriamente
innamorato di lei, creda a me; per
caso, domenica scorsa, per strada,
ho sentito una conversazione fra i
due maestri e... non le dico altro!
Armand è proprio innamorato;
solamente
cerchi
di
addomesticarlo: è un uccello
selvatico."
Animatissima, vorrebbe dei
particolari, ma io scappo.
Cerchiamo di pensare alle
lezioni di solfeggio del seducente
Antonin Rabastens. Cominciano
giovedì; mi metterò la sottana
azzurra, con la camicetta a pieghe
che mi disegna la vita, e il
grembiulino, non il grande
grembiule nero di tutti i giorni col
busto attillato (che tuttavia mi sta
bene), ma quello piccolo celeste,
ricamato, quello che mi metto a
casa la domenica. E nient'altro;
non troppo sfoggio per questo
signore: le mie buone piccole
compagne se ne accorgerebbero.
Aimée, Aimée! E' proprio un
peccato che sia scappato così
presto questo bell'uccellino che mi
avrebbe consolato di tutte quelle
oche!
Ora capisco benissimo che
l'ultima lezione non servirà a
nulla. Con un carattere meschino
come il suo, superficiale, egoista e
che ama il piacere salvaguardando
l'interesse, è inutile lottare contro
la signorina Sergent. Spero
soltanto che questa grande
delusione non mi rattristi a lungo.
Oggi, durante la ricreazione,
gioco
sfrenatamente
per
scuotermi e per scaldarmi. Anaïs e
io, stringendo forte le "mani da
levatrice" di Marie Belhomme, la
facciamo correre così forte da
mozzarle il fiato, finché non
chiede pietà; poi, con la minaccia
di rinchiuderla nei gabinetti, la
condanno a recitare, a voce alta e
intelligibile,
il
racconto
di
Teramene. (4)
Lei recita gli alessandrini con
la voce di una martire e poi scappa
con le braccia levate. Le sorelle
Jaubert
mi
sembrano
impressionate.
Va bene, se non apprezzano il
genere classico, faremo loro
sentire dei versi moderni alla
prossima occasione!
La prossima occasione non
tarda molto; appena rientrate in
classe, ci fanno fare esercizi di
scrittura rotonda e bastarda, data
l'imminenza degli esami. Perché,
in generale, la nostra scrittura è
orribile.
"Claudine, lei detterà i modelli
mentre io assegno i posti nella
classe inferiore."
Se ne va nella "seconda classe"
che, sloggiata a sua volta, sarà
sistemata non so dove. Questo ci
promette una buona mezz'ora di
solitudine. Io comincio:
"Ragazze mie, oggi vi detterò
un brano molto divertente".
Coro: "Ah!".
"Sì, certe canzoncine allegre,
dai Palazzi nomadi." (5)
"Già il solo titolo sembra molto
bello" osserva con convinzione
Marie Belhomme.
"Hai ragione. Siete pronte?
Suvvia:
Sulla stessa curva lenta,/
implacabilmente lenta,/ s'estasia,
vacilla e sprofonda/ il presente
complesso delle curve lente./
Mi riposo. Anaïs la lunga non
ride
perché
non
capisce
(neanch'io).
E Marie Belhomme, sempre
candida,
esclama:
"Ma
sai
benissimo che abbiamo già
studiato
geometria
questa
mattina! E poi sembra troppo
difficile: non ho scritto nemmeno
la metà di quello che hai detto".
Le gemelle stralunano quattro
occhi diffidenti. Io continuo
impassibile:
All'identico autunno le curve
s'omologano,/ analogo il tuo
dolore
alle
lunghe
sere
d'autunno,/ e stona la lenta curva
delle cose ed i tuoi brevi
salterelli./
Mi seguono a stento senza più
cercare di capire, e provo una
soddisfazione molto piacevole nel
sentire Marie Belhomme che si
lamenta ancora e m'interrompe:
"Aspetta, ma aspetta, detti troppo
in fretta... La lenta curva di che
cosa?".
Io ripeto: ""La lenta curva delle
cose ed i tuoi brevi salterelli"...
Ora ricopiate prima in scrittura
rotonda e poi bastarda".
Sono la mia gioia queste
lezioni
supplementari
di
calligrafia, che hanno lo scopo di
prepararci per gli esami della fine
di luglio. Io detto cose stravaganti,
e provo un gran piacere sentendo
queste figlie di bottegai, calzolai e
gendarmi che recitano e scrivono
docilmente bizzarrie della école
Romane, (6) o ninne nanne
mormorate da Francis Jammes,
(7) tutto ciò spigolato a uso di
queste care piccole compagne,
nelle riviste e nei libercoli che
riceve papà (e ne riceve!). Dalla
Revue des Deux Mondes al
Mercure de France, tutti i giornali
si accumulano in casa nostra. Papà
mi affida l'incarico di tagliarne le
pagine, io mi concedo quello di
leggerli.
Bisogna
bene
che
qualcuno li legga! Papà vi getta
uno
sguardo
superficiale
e
distratto dato che il Mercure de
France tratta molto raramente di
malacologia. Io mi ci istruisco,
senza capire sempre, e avverto
papà quando stanno per scadere
gli abbonamenti. "Rinnovali, papà,
per conservarti la stima del
postino."
Anaïs la lunga, che è digiuna di
lettere - non è colpa sua mormora scetticamente:
"Queste cose che ci detti
durante le lezioni di calligrafia,
sono sicura che te le inventi
apposta".
"E' impossibile dire una cosa
simile! Sono versi dedicati al
nostro alleato, lo zar Nicola, ecco!"
Essa non può canzonarmi e
conserva
un'espressione
incredula.
Ritorna la signorina Sergent,
che dà un'occhiata alle nostre
calligrafie. Esclama: "Claudine,
non si vergogna di dettare
assurdità simili? Farebbe meglio a
imparare a memoria i teoremi di
matematica, sarebbe meglio per
tutti". Ma mi sgrida senza
convinzione, perché in fondo non
le
dispiacciono
queste
mistificazioni. Tuttavia io l'ascolto
senza ridere, e mi torna il rancore,
sentendomi vicina colei che ha
ottenuto con la forza la tenerezza
di quella piccola Aimée così poco
fedele... Mio Dio! Sono le tre e
mezzo, e fra una mezz'ora verrà da
noi per l'ultima volta.
La signorina Sergent si alza e
dice: "Chiudete i quaderni. Voi
grandi che prendete il diploma,
restate: devo parlarvi". Le altre se
ne
vanno,
si
imbacuccano
lentamente in sciarpe e cappucci,
seccate di non restare a sentire il
discorso,
evidentemente
di
formidabile interesse, che sta per
esserci rivolto. La rossa direttrice
c'interpella, e mio malgrado ne
ammiro,
come
sempre,
la
chiarezza della voce, la decisione e
l'esattezza delle frasi.
"Signorine, credo che non vi
facciate illusioni sulla vostra
nullità in fatto di musica, tutte,
tranne la signorina Claudine che
suona
il
piano
e
legge
correntemente, a prima vista; io vi
farei ben dare lezioni da lei, ma
siete troppo indisciplinate per
obbedire a una vostra compagna.
Da domani in poi, verrete la
domenica e il giovedì alle nove per
esercitarvi nel solfeggio e nella
lettura sotto la direzione del
signor Rabastens, il maestro,
perché io, e così pure la signorina
Lanthenay, non siamo in grado di
darvi delle lezioni. Il signor Rabastens sarà aiutato dalla signorina
Claudine.
Cercate
di
non
comportarvi troppo male. E
domani siate qui alle nove."
Io aggiungo a voce bassa un:
"Rompete le file!" che le sue
temibili
orecchie
afferrano.
Aggrotta le ciglia, ma poi sorride,
suo malgrado.
Il breve discorso è stato
pronunciato con un tono così
perentorio, che quasi s'impone un
saluto militare; se n'è accorta. Ma
si direbbe davvero che non riesco
più
a
farla
arrabbiare;
è
scoraggiante; bisogna proprio che
sia sicura del proprio trionfo per
mostrarsi così buona!
Se ne va, e tutte esplodono
facendo un gran chiasso. Marie
Belhomme non ci si raccapezza:
"Però, veramente, farci dare
delle lezioni da un giovanotto, è
un po' forte! Tuttavia sarà
divertente,
non
ti
pare,
Claudine?".
"Sì. Bisogna bene distrarsi un
poco."
"Non ti intimidirà darci delle
lezioni di canto col maestro?"
"Non immagini quanto mi sia
indifferente."
Non presto molta attenzione e
aspetto, agitata in cuor mio,
perché
la
signorina
Aimée
Lanthenay non viene subito. Anaïs
la lunga sogghigna felice, e stringe
le spalle, come se scoppiasse dalle
risa,
e
punzecchia
Marie
Belhomme, che geme incapace di
difendersi: "Eh, farai la conquista
del bell'Antonin Rabastens: non
resisterà a lungo alle tue mani
sottili e lunghe, alle tue mani da
levatrice, alla tua vita esile, ai tuoi
occhi espressivi; eh, cara mia, ecco
una storia che finirà con un
matrimonio!". Si eccita e balla
davanti a Marie che, spinta da lei
in un angolo, nasconde le
disgraziate mani, gridando che è
una sconvenienza.
Aimée non viene ancora!
Innervosita, non riesco a stare
ferma e vado a gironzolare sino
alla porta della scala che conduce
nelle
camere
"provvisorie"
(sempre!) delle maestre. Ah, ho
fatto bene a venire a vedere! Su,
nel pianerottolo, la signorina
Lanthenay è bell'e pronta per
uscire. La signorina Sergent la
tiene per la vita e le parla
sottovoce, con l'aria d'insistere
teneramente; poi abbraccia a
lungo la piccola velata, che la
lascia fare e si presta gentilmente,
e si attarda persino e si volta
scendendo le scale. Io scappo
senza che se ne accorgano, ma
ancora una volta provo un gran
dispiacere. Cattiva, cattiva piccina,
che si è presto staccata da me per
dare le sue tenerezze e gli occhi
dorati a colei che era la nostra
nemica!... Non so più che cosa
pensare... Mi raggiunge nell'aula
dove sono rimasta impietrita,
assorta nelle mie fantasticherie.
"Viene, Claudine?"
"Sì, signorina, sono pronta."
Per la strada non oso più
interrogarla;
che
cosa
mi
risponderebbe?
Preferisco aspettare di essere a
casa,
e,
fuori,
parlarle
indifferentemente del freddo,
prevedere che nevicherà ancora,
che le lezioni di canto della
domenica e del giovedì ci
divertiranno... ma parlo senza
convinzione e capisce bene anche
lei che tutto questo chiacchierìo
non conta.
A casa, sotto la lampada, apro i
quaderni e la guardo: è più bella
dell'altra sera, un po' più pallida,
con gli occhi cerchiati che
sembrano più grandi:
"Si direbbe che è stanca, eh?".
E' imbarazzata per tutte le mie
domande, perché dunque? Ecco
che ridiventa rosea, che si guarda
intorno. Scommetto che si sente
vagamente colpevole verso di me.
Continuiamo:
"Mi dica, le dimostra sempre
tanta amicizia quell'orribile rossa?
Sono ricominciate le furie e le
carezze dell'altra sera?".
"Ma no... è molto buona con
me... L'assicuro che ha tante
premure per me."
"Non l'ha più "magnetizzata"?"
"Oh, no, non si tratta di
questo... Credo di aver esagerato
un po', l'altra sera, perché ero
irritata."
Ahi, eccola che sta per
confondersi! Tanto peggio, voglio
sapere.
Mi avvicino a lei e le prendo le
mani, le sue mani piccine piccine.
"Oh, cara, mi racconti che altro
c'è! Non vuol dunque dire più
nulla alla sua povera Claudine che
ha avuto tanto dispiacere ieri
l'altro?"
Ma si direbbe che si è ripresa,
bruscamente decisa a tacere;
prende a poco a poco una cert'aria
calma, falsamente naturale, e mi
guarda con quegli occhi di gatta,
bugiardi e chiari.
"No, Claudine, andiamo; ma se
le assicuro che mi lascia
assolutamente tranquilla, e che
anzi si mostra molto buona. Noi la
credevamo più cattiva di quanto
non sia, lo sa?"
Che cosa significa questa voce
fredda, e questi occhi chiusi, pur
spalancati come sono? E' la voce
che ha a scuola, questa; e non la
voglio! Mi rimangio la voglia di
piangere per non sembrare
ridicola.
Allora, come, è finita fra noi
due? E se la importuno con
domande,
ci
lasceremo
nemiche?... Prendo la grammatica
inglese, non c'è nient'altro da fare;
lei con un gesto frettoloso apre il
mio quaderno.
E' la prima volta e la sola, che
ho fatto con lei una lezione seria;
col cuore gonfio e pronto a
scoppiare, ho tradotto delle pagine
intere di:
"Voi avevate delle penne, ma
egli non aveva un cavallo."
"Noi avremmo le mele di
vostro cugino, se egli avesse molti
temperini."
"Avete inchiostro nel vostro
calamaio? No, ma ho una tavola
nella mia stanza da letto" eccetera.
Verso la fine della lezione,
questa strana Aimée mi domanda
a bruciapelo:
"Mia piccola Claudine, non è in
collera con me?".
Non
mento
del
tutto
rispondendo:
"No, non sono in collera con
lei".
E' quasi vero, non sono in
collera con lei, provo soltanto un
po' di dispiacere e di stanchezza.
La riaccompagno e la bacio, ma lei
mi tende la guancia voltando il
capo così bruscamente che le mie
labbra quasi le toccano l'orecchio.
Piccola senza cuore! La osservo
mentre se ne va sotto il fanale, con
un vago desiderio di correrle
dietro; ma a quale scopo?
Ho dormito piuttosto male: lo
dimostrano i miei occhi cerchiati
sino a metà delle guance; per
fortuna mi dona abbastanza, me
ne
accorgo
allo
specchio,
spazzolandomi vigorosamente i
riccioli
(tutti
dorati
questa
mattina) prima di andare alla
lezione di canto.
Arrivo con una mezz'ora di
anticipo, e non posso fare a meno
di ridere trovando due mie
compagne
su
quattro,
già
installate a scuola!
Ci facciamo una reciproca
ispezione, e Anaïs fa un fischio di
ammirazione per il mio vestito
azzurro e il mio grazioso
grembiule.
Per l'occasione lei ha tirato
fuori il grembiule del giovedì e
della domenica, rosso, ricamato in
bianco (la fa sembrare ancora più
pallida); pettinata col ciuffo con
cura meticolosa, il nodo molto
avanti quasi sulla fronte, si è
stretta da scoppiare con una
cintura nuova. Osserva ad alta
voce, con animo compassionevole,
che ho brutta cera; ma io rispondo
che l'aria stanca mi dona. Accorre
Marie
Belhomme,
scervellata
e
svaporata, come al solito. Anche
lei ha fatto dei preparativi,
sebbene in lutto; il suo colletto di
crespo arricciato le dà un'aria da
pierrot nero, trasognato; con i
lunghi occhi vellutati, l'aria
ingenua
e
sperduta,
è
graziosissima. Le due Jaubert
arrivano insieme come sempre,
punto civette, o per lo meno non
quanto noi, pronte a comportarsi
irreprensibilmente, a non alzare
gli occhi, e a dir male di ciascuna
di noi, dopo la lezione.
Ci scaldiamo, strette intorno
alla stufa, canzonando in anticipo
il
bell'Antonin.
Attenzione,
eccolo... Si avvicina un rumore di
voci e di risa, la signorina Sergent
apre
la
porta,
precedendo
l'irresistibile maestro.
Bellissimo il Rabastens! Ha un
berretto di pelo, un vestito blu
scuro sotto il soprabito, e si toglie
berretto e cappotto, entrando,
dopo aver detto con profondo
rispetto: "Signorine". Ha ornato la
giacca con un crisantemo rosso
ruggine di ottimo gusto e la
cravatta fa colpo: verde-grigia con
tanti anelli intrecciati sparsi. Una
cravatta annodata con cura allo
specchio! Subito ci disponiamo in
fila seriamente, e le mani tirano di
nascosto i corpetti per nascondere
qualsiasi
velleità di
pieghe
sgraziate. Marie Belhomme si
diverte già in modo tanto evidente
che scoppia a ridere, e si ferma
spaventata di se stessa. La
signorina Sergent aggrotta le
terribili ciglia e si irrita. Mi ha
guardata entrando: scommetto
che la sua piccola le racconta già
tutto! Mi ripeto con ostinazione
che Aimée non merita tanto
dispiacere, ma non me ne
persuado.
"Signorine", dice Rabastens
con l'erre moscia "chi di voi
vorrebbe darmi il libro?"
Anaïs la lunga porge subito il
proprio Marmontel per mettersi in
vista e riceve un "grazie" di una
gentilezza
esagerata.
Quel
grassone deve farsi i complimenti
davanti all'armadio a specchio. E'
vero che non ha un armadio a
specchio.
"Signorina Claudine," mi dice
con
un'occhiata
assassina
(assassina per lui, s'intende) "sono
felice e onoratissimo di diventare
suo collega: perché lei dava
lezione di canto a queste
signorine, non è vero?"
"Sì, ma non obbediscono
affatto a una compagna" taglia
netto
la signorina Sergent,
impazientita
da
queste
chiacchiere. "Aiutata da lei, signor
maestro, otterrà migliori risultati,
oppure
saranno
bocciate
all'esame, poiché non sanno
niente di musica."
Benone, imparerà a lasciarsi
scappare frasi inutili, quel signore!
Le mie compagne ascoltano,
con uno stupore non dissimulato;
finora non era mai stata usata
tanta galanteria con loro; sono
stupefatte,
soprattutto
dei
complimenti che mi prodiga
l'adulatore Antonin.
La signorina Sergent prende il
Marmontel e indica a Rabastens il
punto che le scolare sono incapaci
di superare, alcune per mancanza
di attenzione, altre per incapacità
(eccetto Anaïs, cui la memoria
permette di ritenere tutti gli
esercizi
di
solfeggio, senza
"batterli" e senza scomporli).
Siccome è vero che queste
scioccherelle "non sanno nulla di
musica", e siccome ci mettono una
specie di punto d'onore a
disobbedirmi,
si
farebbero
sicuramente affibbiare degli zeri al
prossimo
esame.
Questa
prospettiva
fa
infuriare
la
signorina Sergent, che è stonata e
che non può fare la maestra di
canto, e così pure la signorina
Aimée
Lanthenay,
non
completamente guarita da una
laringite di vecchia data.
"Le faccia prima cantare
separatamente,"
dico
al
meridionale
(felicissimo
di
pavoneggiarsi in mezzo a noi)
"sbagliano tutte il tempo, ma non
fanno gli stessi sbagli, e sino ad
ora
non
sono
riuscita
a
correggerle."
"Vediamo, signorina...?"
"Marie Belhomme."
"Signorina Marie Belhomme,
mi solfeggi questo esercizio."
E' una breve polca in sol,
assolutamente
sprovvista
di
difficoltà, ma la povera Marie,
assolutamente negata per la
musica, non ha mai potuto
solfeggiarla senza sbagli. Sotto
questo attacco diretto, ha avuto un
sussulto, si è fatta rossa e straluna
gli occhi.
"Io segno una battuta a vuoto,
e lei comincerà sul primo tempo;
re si si, la sol fa fa... Non è molto
difficile, non è vero?"
"Sissignore" risponde Marie
che perde la testa per eccesso di
timidezza.
"Bene, io comincio... Uno, due,
uno..."
"Re si si, la sol fa fa" strilla
Marie con una voce da gallina
rauca. Non si è lasciata scappare
l'occasione di cominciare al
secondo tempo! Io la fermo:
"No, senti un po': uno, due re si
si... capisci?". Il maestro segna una
battuta a vuoto. Ricomincia.
"Uno, due, uno..."
"Re si si..." ricomincia lei con
calore, facendo lo stesso sbaglio!
E pensare che da tre mesi
canta la polca fuori tempo!
Rabastens s'intromette, paziente e
discreto:
"Permetta,
signorina
Belhomme, faccia il piacere di
battere il tempo insieme con me".
Le ha preso il polso e le guida
la mano.
"Così capirà meglio: uno, due,
uno... Ebbene, canti dunque!"
Questa volta non ha neppure
cominciato! Paonazza a causa di
questo gesto inatteso, ha perso
completamente la testa. Io mi
diverto un mondo. Ma il bel
baritono, assai lusingato dal
turbamento di quella povera
scioccherella, si farebbe uno
scrupolo di insistere. Anaïs, la
lunga, ha le gote gonfie dalle risate
represse.
"Signorina Anaïs, la prego di
cantare questo esercizio per
mostrare alla signorina Belhomme
come deve essere interpretato."
Non si fa pregare, questa!
Gorgheggia il suo pezzetto "con
sentimento" alzando la voce negli
acuti e non troppo a tempo.
Macché!
Lo sa a memoria, e la sua
maniera un po' ridicola di
solfeggiare come se cantasse una
romanza piace al meridionale, che
si congratula con lei. Anaïs cerca
di arrossire, non ci riesce, e si
limita, in mancanza di meglio, ad
abbassare gli occhi, a mordersi le
labbra e a chinare il capo.
Dico a Rabastens: "Signor
maestro, vuole far ripetere
qualche esercizio a due voci? Per
quanto abbia fatto, non li sanno".
Questa mattina sono seria,
prima perché non ho una gran
voglia di ridere, poi perché, se
facessi troppo chiasso durante
questa prima lezione, la signorina
Sergent sopprimerebbe le altre. E
poi penso ad Aimée. Non viene
dunque giù questa mattina? Solo
otto giorni fa, non avrebbe osato
starsene a letto sino a così tarda
ora!
Pensando
a
tutto
ciò,
distribuisco le due parti: la prima
ad Anaïs, col peso di Marie
Belhomme, l'altra alle convittrici.
In quanto a me, verrò in aiuto di
quella che sarà più debole.
Rabastens sostiene la seconda.
Ed eseguiamo il pezzetto a due
voci, io a fianco del bell'Antonin
che, con voce di baritono, lancia
certi
"Ah!
Ah!"
pieni
di
espressione chinandosi dalla mia
parte. Dobbiamo formare un
gruppetto
straordinariamente
ridicolo. Questo marsigliese non
dirozzabile è così preoccupato
delle grazie che sta sfoggiando,
che fa sbagli su sbagli, senza che
nessuno, d'altronde, se ne accorga.
L'elegante crisantemo che porta
all'occhiello della giacchetta si
stacca e cade; finito il pezzo, lo
raccoglie e lo getta sulla tavola,
dicendo, come se pretendesse dei
complimenti per sé: "Be', mi
sembra che non sia andata troppo
male".
La signorina Sergent smorza la
sua infatuazione, rispondendo:
"Sì, ma le lasci cantare da sole,
senza di lei, senza Claudine, e
vedrà".
(Scommetterei, dalla sua faccia
avvilita, che aveva dimenticato
perché si trova qui. Dev'essere
davvero molto diligente, come
insegnante, questo Rabastens.
Tanto meglio! Quando la direttrice
non assisterà alle lezioni, ci si
potrà permettere qualunque cosa
con lui.)
"Sì, certamente, ma se queste
signorine vorranno fare un piccolo
sforzo, vedrà che arriveranno
presto a saperne abbastanza per
rispondere agli esami. Pretendono
così poco di musica, lei lo sa bene,
non è vero?"
Guarda, guarda, si ribella
adesso? Sarebbe impossibile far
capire meglio alla rossa che non è
capace di fare una scala. Lei
capisce la malignità, e i suoi occhi
scuri si voltano. Antonin risale un
po' nella mia stima, ma ha irritato
la signorina Sergent che gli dice
seccamente:
"Avrebbe la gentilezza di far
studiare ancora un po' queste
ragazze? Mi piacerebbe che
cantassero separatamente per
acquistare un po' di disinvoltura e
di sicurezza".
Tocca alle gemelle, che hanno
voci inconsistenti, incerte, con
uno scarso senso del ritmo, ma
quelle due sgobbone se la
caveranno sempre, studiano in
modo così esemplare! Non posso
soffrire queste Jaubert, buone e
modeste. E immagino come
studiano
a
casa,
ripetendo
sessanta volte ogni esercizio,
prima di venire alle lezioni del
giovedì, irreprensibili e sornione.
Per
finire
Rabastens
si
"procura il piacere", dice, di
ascoltarmi, e mi prega di leggere
certe musiche molto noiose,
romanze nefaste o arie con
gorgheggi esagerati i cui vocalizzi
antiquati gli sembrano il non plus
ultra dell'arte. Per amor proprio,
siccome è presente la signorina
Sergent, e anche Anaïs, canto
meglio che posso. E l'ineffabile
Antonin va in estasi; s'ingarbuglia
in complimenti tortuosi, in frasi
piene di trabocchetti, dai quali mi
guarderei
dall'aiutarlo
a
districarsi, ben felice di ascoltarlo,
invece, con occhi attenti e fissi nei
suoi. Non so come sarebbe
arrivato alla fine di una frase
zeppa di proposizioni incidentali,
se la signorina Sergent non si
fosse avvicinata: "Ha dato a queste
signorine qualche pezzo da
studiare per questa settimana?".
No, non ha dato niente. Non
riesce a ficcarsi in testa che non
l'hanno chiamato qui per cantare a
due voci con me!
Ma che ne è della piccola
Aimée? Bisogna che lo sappia.
Dunque rovescio abilmente un
calamaio sul banco, avendo cura di
macchiarmi abbondantemente le
dita. Prorompo in un'esclamazione
desolata, con tutte le dita aperte
come un ragno. La signorina
Sergent coglie l'occasione per
osservare che ne faccio sempre
una, e mi manda a lavare le mani
alla pompa.
Quando sono fuori, mi asciugo
le mani con la spugna della
lavagna per levare più inchiostro
che posso, e ficco il naso e guardo
in tutti gli angoli. In casa niente.
Esco di nuovo e vado sino al
muretto che ci separa dal giardino
del maestro. Niente anche lì. Ma,
ma, stanno chiacchierando là
dentro! Chi? Mi chino al disopra
del muretto per guardare giù, nel
giardino che è due metri più in
basso, e là, sotto dei noccioli senza
foglie, al solicello pallido che si
sente appena, vedo il cupo
Richelieu che chiacchiera con la
signorina Aimée Lanthenay. Tre o
quattro giorni fa sarei rimasta di
stucco,
davanti
a
questo
spettacolo, ma la grande delusione
di questa settimana mi ha un po'
corazzata.
Quel selvatico Duplessis! Ha
trovato l'uso della lingua, adesso, e
non abbassa più gli occhi. Si è
proprio gettato allo sbaraglio?
"Mi dica, signorina, lei non se
lo immaginava? Oh, mi dica di sì!"
Aimée, col suo bel color rosa,
freme di gioia, e i suoi occhi sono
più dorati che mai, gli occhi che
spiano e ascoltano attentamente
tutto intorno, mentre lui parla.
Ride con grazia facendo segno che
non se l'aspettava proprio, quella
bugiarda!
"Ma sì, lei lo sospettava,
quando passavo intere serate sotto
le sue finestre. Ma io l'amo con
tutte le mie forze, non per passare
il tempo durante una stagione e
poi andarmene per le vacanze.
Vuole ascoltarmi seriamente,
come io le parlo ora?"
"E' proprio una cosa così
seria?"
"Sì, gliel'assicuro. Mi dà il
permesso di venire questa sera a
parlarle davanti alla signorina
Sergent?"
Oh, perbacco! Sento che si apre
la porta dell'aula; vengono a
vedere che cosa mi è successo. In
due salti sono lontana dal muro e
quasi vicino alla pompa; mi getto
in ginocchio per terra, e quando la
direttrice,
accompagnata
da
Rabastens che se ne va, mi è
vicina, vede che sto fregando
energicamente con la sabbia le
macchie di inchiostro delle mani
"dato che non se ne vanno con
l'acqua".
Attacca benissimo.
"Ma lasci stare," dice la
signorina Sergent "le toglierà a
casa con la pietra pomice."
Il bell'Antonin mi rivolge un
"arrivederci" allegro e malinconico
insieme. Mi sono rialzata e gli
faccio il più ondeggiante cenno del
capo, che mi fa scivolare
mollemente i riccioli lungo le
guance.
Dietro alle sue spalle, rido:
gran balordo, crede di essere
arrivato!
Rientro in classe per prendere
il cappuccio, e ritorno a casa
pensando
alla
conversazione
sorpresa dietro il muretto.
Peccato che non abbia potuto
sentire la fine di quel dialogo
d'amore! Aimée avrà acconsentito,
senza farsi pregare, a ricevere
questo infiammabile ma onesto
Richelieu, e lui è capace di
chiedere la sua mano. Ma che
cos'ha dunque nella pelle quella
donnina che non è neppure una
bellezza regolare? Fresca, sì, con
un paio d'occhi meravigliosi; ma
insomma non mancano begli
occhi in visi più belli, e questa
tutti gli uomini la guardano! I
muratori, quando passa lei,
smettono di impastare la calcina
strizzando l'occhio e schioccando
la lingua. (Ieri ne ho sentito uno
che diceva al suo compagno,
additandola: "Davvero, non so che
cosa darei per essere una pulce nel
suo letto!".) I giovanotti per la
strada fanno i bellimbusti per lei,
e gli assidui frequentatori del caffè
della "Perla", quelli che prendono
il
vermut
tutte
le
sere,
chiacchierano
fra
loro
con
interesse "di una ragazza" che
insegna nelle scuole, che fa
allegare i denti come una torta di
frutta non abbastanza zuccherata".
Muratori, piccoli possidenti, la
direttrice,
il
maestro,
tutti
dunque? A me interessa un po'
meno da quando ho scoperto che è
tanto traditrice, e mi sento
completamente vuota, vuota della
mia tenerezza, vuota del mio gran
dispiacere della prima sera.
Stanno demolendo, finiscono
di demolire la vecchia scuola;
povera vecchia scuola! Buttano giù
il pianterreno, e assistiamo con
curiosità alla scoperta di muri
doppi, di muri che credevamo
pieni e spessi e che sono vuoti
come armadi, con una specie di
corridoio buio, dove non si trova
che polvere e uno schifoso odore
vecchio e ripugnante. Mi diverto a
spaventare
Marie
Belhomme
raccontandole
che
questi
nascondigli misteriosi sono stati
sistemati un tempo per murarvi le
donne che tradivano il marito, e
che ho visto ossa bianche sparse
fra i calcinacci; spalanca gli occhi
smarriti, domanda: "E' vero?" e si
avvicina in fretta "per vedere le
ossa". Ritorna subito a me.
"Non ho visto niente, è una
nuova frottola che mi racconti!"
"Che io possa perdere subito la
lingua se questi nascondigli nei
muri non sono stati scavati con un
intento criminoso! E poi, prima di
tutto, sai, è proprio il caso che mi
accusi di menzogna, tu, che
nascondi un crisantemo nel
Marmontel, quel crisantemo che il
signor Antonin Rabastens portava
all'occhiello!"
L'ho detto a voce molto alta,
perché ho visto la signorina
Sergent entrare nel cortile,
precedendo Dutertre. Oh, lo si
vede spesso quello là, siamo
giusti! E ha proprio un bello
spirito di sacrificio questo dottore,
che abbandona ogni momento la
clientela per venire a constatare lo
stato soddisfacente della nostra
scuola che, in questo momento, se
ne va a pezzi: la prima classe
all'asilo, la seconda, laggiù al
municipio. Indubbiamente teme
che la nostra istruzione abbia a
soffrire di questi spostamenti
successivi, quel degno ispettore
scolastico del mandamento!
Hanno sentito, lui e lei, quello
che dicevo (perbacco, l'ho fatto
apposta!), e Dutertre coglie
l'occasione per avvicinarsi. Marie
vorrebbe sprofondarsi sottoterra, e
geme coprendosi il volto con le
mani. Si avvicina ridendo, bonario,
e batte sulla spalla di quella
scioccherella che ha un sussulto e
si confonde: "Piccina, che cosa ti
dice questa indiavolata Claudine?
Serbi i fiori che porta il nostro bel
maestro? Mi dica un po', signorina
Sergent, le sue scolare hanno il
cuore molto sveglio, lo sa? Marie,
vuoi che informi tua madre per
farle capire che sua figlia non è
più una ragazzina?".
Povera
Marie
Belhomme!
Incapace di rispondere una parola,
guarda Dutertre, guarda me,
guarda la direttrice con occhi di
cerbiatta sgomenta, e sta per
piangere... La signorina Sergent,
che non è veramente entusiasta
dell'occasione
trovata
dall'ispettore per chiacchierare
con noi, lo contempla con occhi
gelosi e pieni di ammirazione; non
osa trascinarlo via (lo conosco
abbastanza per credere che
rifiuterebbe con disinvoltura). Io
gongolo della confusione di Marie,
del malcontento impaziente della
signorina Sergent (e la sua piccola
Aimée non le basta dunque più?) e
anche di vedere il piacere che
prova il nostro buon dottore nel
restarci accanto. Bisogna proprio
che i miei occhi dicano il mio stato
d'ira e di contentezza, perché egli
ne ride mostrando i denti aguzzi:
"Claudine, che hai da essere
così fremente? Ti agita la
cattiveria?".
Annuisco con un cenno del
capo, scuotendo i riccioli senza
parlare, una irriverenza che fa
aggrottare le folte sopracciglia
della signorina Sergent. Non me
ne importa. Non può aver tutto,
quella maledetta rossa: il suo
ispettore e la sua piccola aiutante,
no, no... Più disinvolto che mai,
Dutertre mi si avvicina e col
braccio mi cinge le spalle. Anaïs la
lunga
ci
guarda,
curiosa,
socchiudendo gli occhi.
"Stai bene?"
"Sì, dottore, la ringrazio
moltissimo."
"Parla seriamente." (Già, è
proprio serio, lui!) "Perché hai
sempre gli occhi cerchiati?"
"Perché Iddio me li ha fatti
così."
"Non dovresti leggere tanto.
Leggi a letto, scommetto."
"Un po', non molto. Non
bisogna, forse?"
"Uhm, sì, puoi ben leggere. Che
cosa leggi? Vediamo, dimmelo."
Si eccita e mi ha stretto le
spalle con un gesto brusco. Ma io
non sono sciocca come l'altro
giorno, e non arrossisco, non
ancora. La direttrice ha deciso di
andare a sgridare le piccole che
giocano con la pompa e si
inondano. Come deve fremere in
cuor suo! Ballo dalla gioia.
"Ieri ho finito Afrodite; questa
sera comincerò La donna e il
burattino." (8)
"Sì? Sai scegliere bene, tu!
Pierre Louys? Diavolo! Non c'è da
stupirsi che tu... Vorrei ben sapere
che cosa ci capisci? Tutto?"
(Non sono vile, credo, ma non
mi piacerebbe continuare questa
conversazione sola con lui in un
bosco o su un sofà, gli occhi gli
brillano tanto! E poi se crede che
io gli faccia qualche confidenza
lubrica...)
"No,
non
capisco
tutto,
purtroppo,
ma
tuttavia
abbastanza. E la settimana scorsa
ho anche letto Susanna di Léon
Daudet. Sto finendo l'Anno di
Clarissa, un libro di PaulAdam che
mi entusiasma!"
"Sì, e dopo dormi?... Ma ti
stancherai con questo regime di
vita; riguardati, sarebbe un
peccato se ti rovinassi, lo sai."
Che cosa crede, dunque? Mi
guarda così da vicino, con una
voglia
così
evidente
di
accarezzarmi, di abbracciarmi, che
ecco sono invasa da uno
sgradevole ardente rossore, e
perdo la disinvoltura. Forse anche
lui teme di perdere il sangue
freddo, perché allenta la stretta,
respirando profondamente, e mi
lascia dopo avermi fatto una
carezza sui capelli, dalla testa sino
all'estremità dei riccioli, come
sulla schiena dei gatti. La
signorina Sergent si riavvicina, le
sue mani fremono di gelosia, e si
allontanano tutti e due; vedo che
parlano con molta vivacità, lei con
aria di supplica ansiosa; lui alza
leggermente le spalle e ride.
S'incrociano con la signorina
Aimée, e Dutertre si ferma,
sedotto dai suoi occhi carezzevoli,
scherza familiarmente con lei,
tutta rosea, un po' imbarazzata,
contenta; e la signorina Sergent
non dimostra di essere gelosa
questa volta, anzi... A me batte un
po' il cuore ogni volta che si
avvicina questa piccola. Ah, questa
storia è finita male!
Mi
sprofondo
così
intensamente nei miei pensieri da
non accorgermi Che Anaïs la lunga
sta facendo una danza selvaggia
intorno a me:
"Vuoi lasciarmi in pace,
orribile mostro! Oggi non ho
voglia di giocare".
"Sì, lo so, è perché ti frulla nel
cervello l'ispettore... Ah, sfido, non
sai più a quale badare: Rabastens,
Dutertre, chi altro?
Hai fatto la scelta? E la
signorina Lanthenay?"
Gira vertiginosamente con
occhi diabolici nel volto immobile,
furente, in fondo. Per poter stare
tranquilla, mi getto su lei e le
pesto le braccia a forza di pugni;
essa grida subito, vigliaccamente,
e scappa, io la inseguo e la blocco
nell'angolo della pompa dove le
verso un po' di acqua sulla testa,
non molta, il fondo della ciotola
comune. Perde la testa del tutto.
"Lo sai, è stupido, sono cose
che non si fanno, proprio adesso
che sono raffreddata, ho la tosse!"
"La tosse! Il dottor Dutertre ti
darà un consulto gratuito, e anche
qualcosa insieme."
L'arrivo
dell'innamorato
Duplessis interrompe il litigio; da
due giorni è trasfigurato, questo
Armand, e i suoi occhi raggianti
dicono abbastanza chiaramente
che Aimée gli ha concesso la
mano, insieme col cuore e la fede,
tutto nello stesso sacco. Ma vede
la dolce fidanzata che chiacchiera
e ride, fra Dutertre e la direttrice,
molestata
dall'ispettore,
incoraggiata
dalla
signorina
Sergent, e gli occhi gli si
rabbuiano. Ah, ah, non è geloso,
no, lo sarò io, allora! Sono sicura
che tornerebbe indietro se non lo
chiamasse proprio la rossa.
Egli accorre a grandi passi e fa
un profondo inchino a Dutertre
che
gli
stringe
la
mano
familiarmente, con un gesto di
congratulazione.
Il pallido Armand arrossisce, si
illumina e guarda la fidanzatina
con tenero orgoglio. Povero
Richelieu, mi fa pena! Non so
perché, ma immagino che questa
Aimée, che recita a mezzo la parte
dell'incosciente e si impegna tanto
in fretta, non lo renderà molto
felice. Anaïs la lunga non perde un
gesto del gruppo, e dimentica di
insolentirmi.
"Dimmi un po'," mi mormora a
voce bassissima "che cosa fanno
insieme a questo modo? Che cosa
c'è?"
Io sbotto: "C'è che il signor
Armand, il compasso, Richelieu,
sì, ha chiesto la mano della
signorina Lanthenay, che gliel'ha
concessa, che sono fidanzati e che
Dutertre si congratula con loro!
Ecco che cosa c'è!".
"Ah... E' proprio vero, allora!
Come, le ha chiesto la mano per
sposarla?"
Non posso fare a meno di
ridere; si è lasciata scappare
questa
espressione
così
naturalmente, con una ingenuità
insolita in lei! Ma io non la lascio
a lungo nello stupore: "Corri,
corri, va' a prendere qualsiasi cosa
nell'aula, senti quello che dicono;
di me diffiderebbero subito!".
Si slancia; passando accanto al
gruppo, perde abilmente uno
zoccolo (d'inverno portiamo tutte
gli zoccoli) e tende l'orecchio,
indugiando a rimetterselo. Poi
sparisce e ritorna portando ben
esposti i mezzi guanti, che s'infila
ritornando vicino a me.
"Che cos'hai sentito?"
"Il dottor Dutertre diceva a
Duplessis: "Non le faccio auguri di
felicità, signor maestro, sono
inutili quando si sposa una
ragazza simile". E la signorina
Aimée Lanthenay abbassava gli
occhi, così. Ma davvero, non avrei
mai creduto che fosse cosa fatta,
così certa!"
Mi stupisco anch'io, ma per
un'altra ragione. Come, Aimée si
sposa e ciò non fa nessun effetto
alla
signorina
Sergent?
Certamente c'è sotto qualcosa che
ignoro. Perché ha fatto tanti sforzi
per conquistarla, e perché quelle
scene di lacrime ad Aimée, se ora
la dà, senza rimpianti, a un
Armand Duplessis che conosce
appena? Che il diavolo se le porti!
Bisognerà che mi affanni a
scoprire la ragione segreta di
questa storia. Insomma, non c'è
dubbio: è gelosa solo delle donne.
Per sveltirmi le idee combino il
gioco della "gru" con molte
compagne e le piccoline della
seconda
sezione,
che
sono
abbastanza grandi per essere
ammesse a giocare con noi.
Traccio due righe distanti tre
metri, mi metto in mezzo per fare
la gru, e comincio il gioco
disseminato di strilli acuti e di
qualche caduta da me provocata.
Suona la campana; rientriamo
in classe per la noiosissima
lezione di lavoro. Prendo il ricamo
con disgusto. Dopo dieci minuti la
signorina Sergent se ne va, con la
scusa di andare a distribuire
oggetti di cancelleria alla classe
inferiore, che, sloggiata di nuovo,
è sistemata provvisoriamente
(s'intende!) in un'aula vuota
dell'asilo, proprio vicino a noi.
Scommetto che, in fatto di
rifornimenti, la rossa si occuperà
soprattutto della sua piccola
Aimée.
Dopo aver fatto una ventina di
punti nel ricamo, sono colta da un
improvviso accesso di stupidità,
che m'impedisce di sapere se devo
cambiare la tinta per riempire una
foglia
di
quercia,
oppure
continuare ad adoperare la stessa
lana con la quale ho finito una
foglia di salice. Ed esco, col lavoro
in mano, per chiedere consiglio
all'onnisciente
direttrice.
Attraverso il corridoio, entro nella
classe delle piccole: le cinquanta
monelle, rinchiuse là dentro,
strillano, si tirano i capelli, ridono,
ballano, disegnano fantocci alla
lavagna, e non v'è traccia né della
signorina
Sergent
né
della
signorina Lanthenay. Diventa un
fatto curioso! Esco di nuovo,
spingo la porta della scala:
nessuno nella scala! Se salissi? Sì,
ma che cosa risponderò, se mi ci
troveranno? Via, dirò che vengo a
cercare la signorina Sergent,
perché ho sentito che la chiamava
quella vecchia contadina di sua
madre.
Zitti! Salgo pian piano con le
sole calze, lasciando giù gli zoccoli.
Nessuno in cima alla scala. Ma
ecco la porta di una camera
appena socchiusa, e io non penso
più a nient'altro se non a guardare
attraverso l'apertura. La signorina
Sergent, seduta nella sua gran
poltrona, mi volta le spalle, per
fortuna, e tiene sulle ginocchia
l'aiutante, come se fosse una
bimba; Aimée sospira dolcemente
e abbraccia con ardore la rossa che
la stringe. Meno male, non si
potrà dire che questa direttrice
tratta male le dipendenti! Non
vedo i loro volti perché la poltrona
ha un grande schienale piuttosto
alto, ma non ho bisogno di vederli.
Il cuore mi batte nelle orecchie, e
a un tratto salto nella scala coi
calzini che non fanno rumore.
Tre secondi dopo ho ripreso il
mio posto accanto ad Anaïs la
lunga, che si diverte con la lettura
e le figure del Supplemento.
Perché non si accorgano del mio
turbamento, chiedo di vederlo
anch'io, come se mi interessasse!
Vi è un racconto di Catulle
Mendès, (9) che mi piacerebbe,
tenero com'è; ma non ho la mente
attenta a ciò che leggo, ancora
turbata da quello che ho spiato
lassù. Non chiedevo tanto, e non
credevo di certo che le loro
espansioni fossero così vivaci.
Anaïs mi fa vedere un disegno
di Gil Baër che rappresenta un
giovanottino senza baffi, che
sembra una donna travestita, e,
eccitata dalla lettura del Taccuino
di Lyonnette e dagli scherzi di
Armand Sylvestre, mi dice con uno
sguardo turbato: "Ho un cugino
che gli somiglia, si chiama Raoul,
è in collegio e lo vedrò ogni estate
durante le vacanze". Questa
rivelazione mi spiega il suo nuovo
atteggiamento di relativa serietà:
in questo momento scrive molto
di rado ai ragazzi. Le sorelle
Jaubert affettano di scandalizzarsi
per questo giornale sconcio, Marie
Belhomme rovescia il calamaio
per venire a vedere; dopo aver
guardato le figure e letto un poco,
scappa, con le lunghe mani levate,
gridando: "E' vergognoso! Non
voglio leggere il resto prima della
ricreazione!". E' appena seduta e
sta
asciugando
l'inchiostro
rovesciato, quando rientra la
signorina Sergent, seria, ma con
gli occhi rapiti; io guardo questa
rossa come se non fossi sicura che
è la stessa che lassù stava
abbracciando Aimée.
"Marie, farà un compito sulla
sbadataggine, e me lo porterà
questa sera alle cinque. Signorine,
domani arriva una nuova maestra,
la signorina Griset; voi non avrete
a che fare con lei: essa si occuperà
soltanto della classe delle piccole."
Sono stata lì lì per domandare:
"E la signorina Aimée, se ne va
dunque?". Ma la risposta viene da
sola.
"La signorina Lanthenay non
ha modo di esplicare tutta la sua
intelligenza nella classe inferiore;
d'ora in poi vi darà qui qualche
lezione di storia, di lavoro e di
disegno,
sotto
la
mia
sorveglianza."
La guardo sorridendo, e scrollo
il capo come per congratularmi
con lei di questa combinazione
veramente riuscita. Lei aggrotta le
ciglia, subito adirata:
"Claudine, che cosa ha fatto del
suo ricamo? Tutto qui? Oh, non si
è certo stancata!".
Assumo l'aria più sciocca per
rispondere:
"Ma, signorina, sono andata
poco fa nella classe inferiore per
domandarle se bisognava prendere
il verde numero due per la foglia
di quercia, e non c'era nessuno;
l'ho chiamata nella scala, e non
c'era nessuno neppure lì".
Parlo lentamente, ad alta voce,
perché tutte alzino la faccia china
sul lavoro a maglia o sul cucito; mi
ascoltano avide; le più grandi si
domandano che cosa poteva fare
la direttrice lontano, lasciando
così le scolare in abbandono. La
signorina Sergent diventa di un
color cremisi che volge al nero, e
risponde
vivacemente:
"Ero
andata a vedere dove sarebbe
possibile alloggiare la nuova
aiutante; l'edificio scolastico è
quasi finito, lo stanno asciugando
con grandi fiammate, e senza
dubbio
potremo
installarci
presto".
Faccio un gesto di protesta e di
scusa che significa: "Oh, non devo
sapere dov'era lei: non poteva
essere se non dove la chiamava il
dovere".
Ma
provo
una
contentezza frenetica pensando
che potrei risponderle: "No,
zelante educatrice, lei si occupa il
meno possibile della nuova
maestra, è l'altra, la signorina
Lanthenay che le interessa e lei
era nella sua camera con Aimée,
intenta
ad
abbracciarla
appassionatamente".
Mentre medito questi pensieri
di ribellione, la rossa si è riavuta:
molto calma, ora, parla con voce
chiara...
"Prendete i quaderni. Come
intestazione: "Tema". Spiegate e
commentate questo pensiero: "Il
tempo non rispetta quello che si è
fatto senza di lui". Avete un'ora e
mezzo."
Oh, disperazione e strazio!
Quali altre sciocchezze bisognerà
tirar fuori! Mi è indifferente che il
tempo rispetti o no quello che si fa
senza invitarlo! Sempre temi come
questo, o più brutti! Sì, più brutti,
perché siamo quasi alla vigilia di
Capodanno, e non sfuggiremo
all'inevitabile pezzetto di stile
sulle strenne, usanza venerabile,
gioia dei bimbi, commozione dei
genitori,
confetti,
giocattoli
(joujou al plurale prende una x
come bijou, caillou, chou, genou,
hibou e pou), senza dimenticare la
nota commovente sui poverelli
che non ricevono strenne e che
bisogna soccorrere in questo
giorno di festa, perché abbiano la
loro parte di gioia! Che orrore, che
orrore!
Mentre fremo di rabbia, le altre
stanno già facendo la brutta copia;
Anaïs la lunga aspetta che cominci
io per copiare il suo esordio dal
mio; le due Jaubert ruminano e
riflettono seriamente, e Marie
Belhomme ha già riempito una
pagina di sciocchezze, di frasi
contraddittorie e di riflessioni che
non hanno a che fare con
l'argomento. Dopo aver sbadigliato
un quarto d'ora, mi decido e scrivo
subito sul "quaderno-diario" senza
far la brutta copia, cosa che eccita
l'indignazione delle altre.
Alle quattro, uscendo, mi
accorgo senza dispiacere che tocca
a me e ad Anaïs di scopare. Di
solito questo servizio mi disgusta,
ma oggi non me ne importa, anzi
mi fa piacere. Andando a prendere
l'innaffiatoio, incontro finalmente
la signorina Aimée che ha gli
zigomi rossi e gli occhi scintillanti.
"Buongiorno, signorina. A
quando le nozze?"
"Come? Ma... queste ragazzine
sanno sempre tutto! Non è ancora
decisa... la data per lo meno. Sarà
per le vacanze, senza dubbio... A
lei non sembra brutto, dica, il
signor Duplessis?"
"Brutto, Richelieu? No di
certo! E' molto più bello dell'altro,
molto più! Lei lo ama?"
"Ma, sfido, poiché lo accetto
come marito!"
"Proprio una buona ragione!
Non mi dia risposte simili, crede
di parlare con Marie Belhomme?
Lei non lo ama molto, lo trova
simpatico e ha voglia di sposarsi,
per provare, e per vanità, per far
dispetto alle sue compagne della
scuola normale che resteranno
zitelle, ecco tutto! Non gli giochi
brutti tiri, ecco tutto quello che
posso augurargli, perché merita
indubbiamente di essere amato
più di quanto lei non lo ami."
To', subito dopo, volto le spalle
e corro a prendere l'acqua per
innaffiare. E' rimasta di pietra,
confusa. Finalmente se ne va a
sorvegliare mentre spazzano la
classe inferiore, o a raccontare
quello che ho detto alla sua cara
signorina Sergent. Vada pure! Non
voglio più occuparmi di queste
due matte, delle quali una non lo
è.
Ed eccitatissima, innaffio,
innaffio troppo, innaffio i piedi Di
Anaïs, le carte geografiche, poi
scopo con tutta la forza delle
braccia. Mi riposa stancarmi in
questo modo.
Lezione di canto. Entrata di
Antonin Rabastens, con una
cravatta azzurra. "Te', bell'astro",
come dicevano le provenzali a
Roumestan. (10)
Guarda un po', c'è anche la
signorina
Aimée
Lanthenay,
seguita da una personcina minuta,
ancora più piccola di lei, dal
portamento
straordinariamente
agile, e che dimostra tredici anni,
col viso un po' schiacciato, gli
occhi verdi, la carnagione fresca, i
capelli morbidi come la seta e
scuri. Questa ragazzina si è
fermata, come una vera selvaggia,
sulla soglia. La signorina Aimée si
volta verso di lei, ridendo:
"Andiamo, vieni, non avere paura;
Luce, mi senti?".
Ma è sua sorella! Avevo
completamente
dimenticato
questo particolare. Mi aveva
parlato di questa sorella che
probabilmente sarebbe venuta, ai
tempi in cui eravamo amiche... Mi
sembra così buffo che accompagni
questa sorellina, che pizzico Anaïs,
la quale chioccia, faccio il solletico
a Marie Belhomme, che miagola, e
abbozzo un passo di danza in due
tempi dietro alla signorina
Sergent.
Rabastens
trova
deliziose
queste follie; la sorellina Luce mi
guarda con gli occhi obliqui. La
signorina Aimée si mette a ridere
(ride di tutto, ora, è così felice!) e
mi dice:
"La prego, Claudine, non le
faccia perdere la testa tanto per
incominciare; è abbastanza timida
per natura".
"Signorina, veglierò su di lei
come sulla mia stessa virtù.
Quanti anni ha?"
"Quindici anni compiuti il
mese scorso."
"Quindici? Ebbene, ora non ho
più fiducia di nessuno! Gliene
davo tredici a essere generosi."
La piccola, diventata di brace,
si guarda i piedi, che d'altronde
sono graziosi. Si stringe alla
sorella e le tiene forte il braccio
per rassicurarsi. Aspetta, le farò
coraggio io!
"Vieni, piccina, vieni qui con
me. Non avere paura. Questo
signore, che sfoggia in nostro
onore le cravatte più estasianti, è
il nostro buon maestro di canto.
Non lo vedrai che il giovedì e la
domenica,
purtroppo.
Quelle
ragazzone là sono delle compagne!
Le conoscerai presto. Io sono la
scolara irreprensibile, la rara avis,
non mi si sgrida mai (vero,
signorina?), e sono sempre buona
come oggi. Sarò per te una
seconda madre!"
La signorina Sergent si diverte
senza voler averne l'aria.
Rabastens ammira, e gli occhi
della novellina esprimono dubbi
sul mio stato mentale. Ma io la
lascio, ho scherzato abbastanza
con questa Luce; lei resta accanto
alla sorella che la chiama
"bestiolina". Non m'interessa più.
Domando senza far complimenti:
"Dove la metterete a dormire,
questa bambina, dato che nulla è
ancora a posto?".
"Con me" risponde Aimée.
Io stringo le labbra, guardo la
direttrice bene in faccia e dico
chiaramente:
"E' una bella scocciatura,
questa!".
Rabastens soffoca una risata
con la mano (sa forse qualcosa?)
ed esprime questa opinione: che si
potrebbe forse cominciare a
cantare.
Sì, si potrebbe; e persino si
canta. La novellina non vuol
saperne e resta ostinatamente
muta.
"Lei non conosce bene la
musica,
signorina
Lanthenay
junior?" domanda il delizioso
Antonin con certi sorrisi da
piazzista di vini.
"Sissignore,
un
pochino"
risponde la piccola Luce con una
vocina melodiosa che deve essere
dolce all'orecchio quando non la
strozza la paura.
"Ebbene, allora?"
Ebbene, allora, niente. Lascia
dunque stare tranquilla questa
bambina,
cascamorto
della
Canebière!
Nello stesso istante Rabastens
mi sussurra: "E altrimenti (11)
credo che, se le signorine sono
stanche, le lezioni di canto non
c'entrano affatto!".
Io volgo gli occhi intorno, assai
sorpresa della sua audacia nel
parlarmi a bassa voce; ma ha
ragione, le mie compagne si
occupano della nuova arrivata, la
vezzeggiano e le parlano con
dolcezza; lei risponde con garbo,
pienamente
rassicurata
nel
vedersi bene accolta; in quanto
alla gatta Lanthenay e al suo
tiranno amato, rincantucciate nel
vano della finestra che dà sul
giardino
ci
dimenticano
completamente;
la
signorina
Sergent cinge col braccio la vita di
Aimée; parlano a bassa voce, o
non parlano affatto, il che fa lo
stesso. Antonin, che ha seguito il
mio sguardo, non si trattiene dal
dire:
"Stanno
proprio
bene
insieme!".
"Eh,
sì,
piuttosto.
E'
commovente questa amicizia, non
è vero, signor maestro?"
Quel grosso babbeo non sa
nascondere i suoi sentimenti ed
esclama a bassa voce:
"Commovente? Dica che è
imbarazzante
per
gli
altri!
Domenica sera, sono andato a
restituire delle musiche, le
signorine erano qui nell'aula,
senza luce. Entro - questa classe è
un luogo pubblico, non è vero? - e,
alla luce del crepuscolo, intravedo
la signorina Sergent con la
signorina Aimée, una accanto
all’altra, che si abbracciavano
strette strette. Crede forse che si
siano disturbate? No, la signorina
Sergent
si
è
voltata
languidamente,
domandando:
"Chi è?".
Io non sono molto timido;
tuttavia; ebbene sono rimasto
istupidito davanti a loro".
(Continua
pure
a
chiacchierare, non mi dici nulla di
nuovo, o candido maestro! Ma
dimenticavo
la
cosa
più
importante.)
"E il suo collega, signor
maestro, lo immagino molto felice
da quando si è fidanzato con la
signorina Lanthenay?"
"Sì, povero giovane, ma mi
sembra che non sia proprio il caso
di essere così felice."
"Oh, perché mai?"
"Eh, la direttrice fa tutto quello
che vuole della signorina Aimée;
non è molto piacevole per un
futuro marito. Mi seccherebbe che
mia moglie fosse dominata a quel
modo da un'altra persona."
Sono del suo parere. Ma le
altre hanno finito di intervistare la
nuova arrivata, è prudente tacere.
Cantiamo... No, è inutile: ecco
Armand
che
osa
entrare,
disturbando il tenero sussurrìo
delle due donne. Si ferma in estasi
davanti ad Aimée che civetta con
lui, e manovra con le palpebre
dalla ciglia ondulate, mentre la
signorina Sergent lo contempla
con gli occhi inteneriti di una
suocera che ha collocato la figlia.
Ricominciano le conversazioni
delle nostre compagne finché
suona l'ora. Ha ragione Rabastens; che ridicole, scusate, che
ridicole lezioni di canto.
Questa mattina, sulla soglia
della scuola, trovo una ragazza
pallida - capelli slavati, occhi grigi,
carnagione priva di freschezza che si stringe uno scialle di lana
sulle spalle strette con l'aria
straziante di un gatto magro che
ha freddo e paura. Anaïs me la
indica con un gesto del mento,
facendo un smorfia di scontento.
Io scrollo il capo impietosita, e
le dico a bassa voce: "Ecco una
poveretta che sarà infelice qui, si
vede subito; le altre due stanno
troppo bene insieme per non farla
soffrire".
Le scolare arrivano a poco a
poco. Prima di entrare, osservo
che stanno terminando i due
edifici scolastici con una rapidità
prodigiosa; pare che Dutertre
abbia promesso un forte premio
all'imprenditore se tutto sarà
pronto per una data che ha fissato.
Deve combinarne dei pasticci,
quel tipo là!
NOTE:
(1) Il nuovo "centro scolastico"
sta sorgendo da sette o otto mesi
in un giardino attiguo, comperato
apposta, ma noi sinora non ci
interessiamo molto di quei grossi
cubi bianchi che crescono a poco a
poco; nonostante la rapidità
(insolita in questo paese di pigri)
con la quale fanno i lavori, le
scuole non saranno finite, credo,
prima dell'Esposizione. E allora,
purtroppo!, munita della licenza,
avrò lasciato la scuola. [N.d.A.]
(2) Arteria principale di
Marsiglia. [N.d.T.]
(3) Il cardinale di Richelieu si
chiamava
Armand
Duplessis.
[N.d.T.]
(4) Un brano della Freda di
Recine (1639-1699). [N.d.T.]
(5) Raccolta di versi di Gustave
Kahn
(1859-1939),
poeta
simbolista assertore del verso
libero. [N.d.T.]
(6)
Corrente
letteraria
francese, il cui programma fu
divulgato con un manifesto dal
poeta Jean Moréas (1856-1910),
che in un linguaggio arcaicizzante
e insieme modernissimo espresse
un sentimento della vita fra
classico e decadente. [N.d.T.]
(7) F. Jammes (1868-1938),
poeta. [N.d.T.]
(8) Opere entrambe di Pierre
Louys. [N.d.T.]
(9) Catulle Mendès (18421909),
poeta,
romanziere,
drammaturgo e critico. [N.d.T.]
(10)
Numa
Roumestan:
personaggio
del
romanzo
omonimo dello scrittore Alphonse
Daudet (1840-1897). [N.d.T.]
(11) I marsigliesi hanno
sovente
questo
intercalare.
[N.d.T.]
Lezione di disegno, sotto la
direzione della signorina Aimée
Lanthenay. "Riproduzione lineare
di un oggetto comune." Questa
volta dobbiamo disegnare una
caraffa sfaccettata, posata sulla
cattedra della signorina. Sempre
allegre queste lezioni di disegno,
perché ci offrono mille scuse per
alzarci: si trovano "impossibilità",
si fanno macchie d'inchiostro di
China dovunque non se ne sente il
bisogno.
Subito cominciano le proteste.
Io apro il fuoco:
"Signorina Aimée, non ^posso
disegnare la caraffa dal posto dove
sono, me la nasconde il tubo della
stufa!".
La
signorina
Aimée,
occupatissima a fare il pizzicorino
sulla nuca rossa della direttrice,
che sta scrivendo una lettera, si
volta verso di me:
"Chini la testa in avanti: credo
che la vedrà".
"Signorina," continua Anaïs
"non posso assolutamente vedere
il modello, perché ho davanti la
testa di Claudine!"
"Ah, come siete noiose; voltate
un po' il banco, allora; vedrete
tutte e due."
Ora Marie Belhomme. Geme:
"Signorina,
non
ho
più
carboncino, e poi il foglio che lei
mi ha dato ha un difetto nel
mezzo, e allora non posso
disegnare la caraffa".
"Oh," strilla la signorina
Sergent, irritata "la volete finire
tutte di annoiarci? Ecco un foglio,
ecco il carboncino, e ora che io
non senta più nessuno, altrimenti
vi faccio disegnare tutto un
servizio da tavola!"
Silenzio
spaventato.
Si
sentirebbe volare una mosca... per
cinque minuti. Al sesto minuto
ricomincia un leggero brusìo,
casca
uno
zoccolo,
Marie
Belhomme tossisce, io mi alzo per
andare a misurare, con le braccia
tese, l'altezza e la larghezza della
caraffa. Anaïs la lunga fa lo stesso,
dopo di me, e approfitta di dover
chiudere un occhio per storcere il
volto in orribili smorfie, che fanno
ridere Marie. Alla fine faccio uno
schizzo a carboncino della caraffa
e mi alzo per andare a prendere
l'inchiostro
di
China
nell'armadietto a muro dietro alla
cattedra delle due maestre. Esse ci
hanno dimenticate, parlano a
bassa voce, ridono e ogni tanto la
signorina Aimée indietreggia con
una smorfietta di paura che le
dona molto.
Davvero fanno così pochi
complimenti davanti a noi, ora,
che non vale la pena di averne
soggezione. Aspettate, bimbe mie!
Richiamo l'attenzione con un
"psst" che fa alzare tutti i volti e,
indicando alla scolaresca la tenera
coppia Sergent-Lanthenay, stendo
al di sopra delle loro teste, per di
dietro, le mani benedicenti.
Marie Belhomme scoppia dalla
gioia, le Jaubert chinano il viso
con aria di rimprovero, e senza
essere stata vista dalle interessate,
mi slancio di nuovo verso
l'armadietto e prendo la bottiglia
d'inchiostro di China.
Passando, guardo il disegno di
Anaïs: la sua caraffa le assomiglia,
troppo alta, col collo troppo lungo
e sottile. Voglio avvertirla, ma lei
non sente, occupatissima, quella
canaglia,
a
preparare
sulle
ginocchia il "gugnigugna" per
mandarlo alla nuova arrivata in
una scatola di pennini! (Il
"gugnigugna" è carboncino pestato
nell'inchiostro di China, in modo
da formare una pasta quasi secca
che macchia terribilmente le dita
delle persone ignare e i vestiti e i
quaderni.) Quella povera piccola
Luce si annerirà le mani,
sporcherà il disegno aprendo la
scatola, e si prenderà una sgridata.
Per
vendicarla,
prendo
bruscamente il disegno di Anaïs,
disegno a inchiostro una cintura
con un fermaglio che stringe la
vita della caraffa, e vi scrivo sotto:
"Ritratto di Anaïs, la lunga". Lei
alza la testa nel momento in cui
finisco di scrivere, e spinge il suo
"gugnigugna" in scatola a Luce,
con un gentile sorriso. La piccola
arrossisce e ringrazia. Anaïs si
china di nuovo sul disegno e
lancia un "oh!" echeggiante di
indignazione che richiama alla
realtà le nostre maestre che
stavano tubando:
"Ma dunque, Anaïs, mi sembra
che stia diventando pazza!".
"Signorina, guardi che cosa mi
ha fatto Claudine sul disegno!"
Gonfia di collera, lo mette sulla
cattedra; la signorina Sergent vi
posa uno sguardo severo e,
bruscamente, scoppia a ridere.
Disperazione e ira di Anaïs che
piangerebbe dalla rabbia se non
stentasse tanto a piangere.
Riprendendo il tono serio, la
direttrice sentenzia: "Non è questo
genere di scherzi che l'aiuterà a
fare
gli
esami
in
modo
soddisfacente, Claudine; ma lei ha
fatto
un
giudizio
critico
abbastanza giusto del disegno di
Anaïs, che era veramente troppo
sottile e troppo lungo". La
spilungona ritorna al posto,
delusa, esulcerata. Io le dico:
"Imparerai
a
dare
il
"gugnigugna" a quella piccina che
non ti ha fatto nulla!".
"Ah, ah, vorresti dunque rifarti
sulla piccola del poco successo che
hai avuto con la sorella maggiore:
la difendi con tanto zelo!"
Pac!
Per questo è un terribile
schiaffo che le risuona sulla
guancia.
Gliel'ho appioppato a tutta
forza, con questo avvertimento per
giunta: "Occupati dei fatti tuoi". La
scolaresca, in subbuglio, fa un
mormorìo simile al ronzìo delle
api in un alveare; la signorina
Sergent scende dalla cattedra per
una così grave questione. Era
tanto tempo che non picchiavo
una compagna, e cominciavano a
credere che avessi messo giudizio.
(Un tempo avevo la brutta
abitudine di liquidare da sola le
mie liti, con scapaccioni e pugni, e
non ritenevo utile di fare la spia
come le altre.) La mia ultima
battaglia risale ormai a più di un
anno fa.
Anaïs piange sul banco.
"Signorina Claudine," dice
severamente la direttrice "la invito
a dominarsi. Se picchierà ancora le
sue compagne, sarò costretta a
non ammetterla più a scuola."
E' capitata male, io sono ormai
lanciata; le sorrido con tanta
insolenza che lei s'infuria subito:
"Claudine, abbassi gli occhi!".
Io non li abbasso.
"Claudine, vada fuori!"
"Con piacere, signorina!"
Esco, ma, fuori, mi accorgo che
sono a testa nuda. Rientro subito
per prendere il cappello. La
scolaresca è costernata e muta.
Osservo che Aimée, accorsa presso
la signorina Sergent, le parla
rapidamente sottovoce. Non sono
ancora sulla soglia che la direttrice
mi richiama:
"Claudine, venga qui; sieda al
suo banco. Non voglio scacciarla,
dato che lascia la scuola dopo gli
esami... E poi, insomma, lei non è
una scolara mediocre, benché sia
spesso una cattiva scolara, e non
vorrei separarmi da lei se non in
caso estremo. Rimetta il cappello a
posto".
Quanto dev'esserle costato! E'
ancora tanto agitata che i battiti
del cuore le fanno tremare i fogli
del quaderno che tiene in mano.
Io dico: "Grazie, signorina" con
molta serietà. E, dopo essermi
seduta di nuovo al mio posto,
accanto ad Anaïs la lunga,
silenziosa e un po' spaventata
dalla scena che ha provocato,
penso con stupore alle ragioni che
hanno potuto decidere questa
rossa astiosa a richiamarmi
indietro. Ha forse avuto paura
dell'effetto che avrebbe prodotto
nel capoluogo? Ha pensato che
avrei chiacchierato a più non
posso, che avrei raccontato tutto
quello che so (per lo meno), tutto
il disordine di questa scuola, e che
l'ispettore palpa le ragazze grandi,
e le visite prolungate alle maestre,
il frequente abbandono delle aule
da parte di queste due signorine,
occupatissime
a
scambiarsi
tenerezze a porte chiuse, le letture
piuttosto
licenziose
della
signorina Sergent (il Journal
Amusant, certi libri sconci di Zola
e peggio), il bel maestro galante
che canta con voce di baritono e
amoreggia con le signorine che si
preparano alla licenza: un'infinità
di cose sospette e ignorate dai
genitori, perché le grandi che si
divertono a scuola non le
racconteranno mai, e le piccole
non capiscono bene? Ha avuto
paura di un mezzo scandalo che
danneggerebbe enormemente la
sua reputazione e l'avvenire della
bella
scuola
che
stanno
costruendo con grande spesa?
Credo che sia così. E poi, ora che si
è smorzata la mia eccitazione,
come pure la sua, preferisco
restare in questo buco dove mi
diverto più che in qualsiasi altro
posto. Rinsavita, guardo la guancia
chiazzata di Anaïs, e le mormoro
allegramente:
"Ebbene, cara mia, ti tiene
caldo?".
Lei ha avuto tanta paura della
mia espulsione, di cui avrei potuto
accusarla di essere la causa, che
non mi serba rancore:
"Sicuro che mi tiene caldo! Ma
lo sai che hai la mano pesante! Sei
pazza, ad arrabbiarti a questo
modo?".
"Andiamo,
via,
non
ne
parliamo più. Mi sembra di avere
avuto un movimento nervoso un
po' violento al braccio destro."
Ha cancellato alla meno peggio
la cintura dalla caraffa; io ho finito
la mia, e la signorina Aimée, con
mani febbrili, corregge i nostri
disegni.
Oggi trovo il cortile vuoto, o
quasi vuoto. Per le scale dell'asilo,
chiacchierano assai, si sentono
voci chiamarsi e gridare:
"Ma sta' un po' attenta!... E'
pesante, accidenti!". Mi slancio:
"Che cosa fate?".
"Lo vedi bene," spiega Anaïs
"aiutiamo le signorine a fare il
trasloco da qui al nuovo edificio."
"Presto, datemi qualche cosa
da portare!"
"Ce n'è lassù, vacci."
Salgo nella stanza della
direttrice, la stanza dove ho spiato
dalla porta... finalmente! Quella
contadina di sua madre, con la
cuffia di traverso, mi affida una
grande cesta che contiene tutto il
servizio da toletta della figlia da
portare con l'aiuto di Marie
Belhomme. Si cura molto, la
rossa! Una toletta fornita in ogni
particolare: vasetti piccoli e grandi
di
cristallo
sfaccettato,
nettaunghie,
vaporizzatori,
spazzole, pinze e piumini, un
immenso catino e un bidet: non è
proprio il servizio da toletta di una
maestrina di campagna. Per
accertarsene non c'è che da
guardare la toletta della signorina
Aimée, anche quella della pallida e
silenziosa Griset, che trasportiamo
dopo: un catino, una brocca di
dimensioni
ridotte,
uno
specchietto
rotondo,
uno
spazzolino da denti, un po' di
sapone, ed ecco tutto. Però questa
piccola Aimée è molto civetta,
soprattutto da qualche settimana,
piena di fronzoli e profumata.
Come fa? Cinque minuti dopo, mi
accorgo che il fondo della sua
brocca è polveroso. Va bene, si
capisce.
Il
nuovo
edificio,
che
comprende tre aule, un dormitorio
al primo piano, e alcune camerette
per le maestre, è ancora troppo
fresco di pittura per il mio gusto, e
puzza di stucco in modo
sgradevole. Fra questi due, stanno
costruendo il corpo principale, che
comprenderà il municipio al
pianterreno, gli appartamenti
privati del primo piano e unirà le
due ali già terminate.
Scendendo, mi viene l'idea
meravigliosa di arrampicarmi
sulle armature, dato che i
muratori sono ancora a colazione.
Ed eccomi subito in cima a una
scala, poi sto gironzolando sulle
armature dove mi diverto molto.
Ahimè, ecco che tornano gli
operai! Mi nascondo dietro un
pezzo di muro, in attesa di poter
scendere; loro sono già sulla scala.
Via, non mi denunceranno, se mi
scorgono. Sono Houette il rosso e
Houette il nero, li conosco bene di
vista.
Con
la
pipa
accesa,
chiacchierano:
"Certamente non sarà lei che
mi farà innamorare".
"Ma chi?"
"La nuova maestrina che è
arrivata ieri."
"Ah, sfido, non ha l'aria felice,
non come le altre due."
"Delle
altre
due,
non
parlarmene, ne sono stufo, non è
più come la pensavo io, sembrano
marito e moglie. Tutti i giorni le
vedo da qui, tutti i giorni è la
stessa cosa: si leccano, chiudono
la finestra e non si vede più
niente. Non parlarmene più! Però
la piccola è molto attraente,
graziosa; ma basta! E l'altro
maestro che la sposa! Eccone uno
che ha proprio la benda sugli occhi
per fare una cosa simile!"
Mi diverto follemente, ma
siccome suonano la campana, ho
solo il tempo di scendere
nell'interno (ci sono scale un po'
dappertutto), e arrivo in classe
imbiancata di calcina e di stucco,
felice di cavarmela con una secca
domanda: "Da dove salta fuori? Se
si
sporca
tanto,
non
le
permetteremo più di aiutare nei
traslochi". Io sono gongolante
perché ho sentito i muratori che
parlavano di loro con tanto buon
senso.
Lettura ad alta voce. Brani di
antologia.
Al
diavolo!
Per
distrarmi, spiego sulle ginocchia
un numero dell'écho de Paris,
portato nell'eventualità di una
lezione noiosa, e sto assaporando
la forma elegante del Cattivo
desiderio di Lucien Muhlfeld, (12)
quando la signorina Sergent si
rivolge
a
me:
"Claudine,
continui!". Io non so affatto a che
punto siamo, ma mi alzo
bruscamente, decisa a "fare un
malanno" piuttosto che lasciarmi
portar via il giornale. Nel
momento in cui penso di
rovesciare
un
calamaio,
di
stracciare la pagina del mio libro,
di gridare: "Viva l'anarchia!",
bussano alla porta... La signorina
Lanthenay si alza, apre, si fa in
disparte e appare Dutertre.
Ha dunque seppellito tutti i
propri malati, questo medico che
ha tante ore di libertà? La
signorina Sergent
gli
corre
incontro, egli le stringe la mano,
guardando la piccola Aimée che,
col
volto
di
brace,
ride
imbarazzata. Perché dunque? Non
è così timida! Tutta questa gente
mi stanca, costringendomi di
continuo a domandarmi che cosa
possono mai pensare o fare...
Dutertre mi ha ben vista,
perché sono in piedi; ma si
accontenta di sorridermi da
lontano, e resta accanto alle
signorine; chiacchierano tutti e tre
a mezza voce; io mi sono seduta
molto composta, guardo.
All'improvviso la signorina
Sergent - che non la smette di
contemplare amorosamente il suo
bell'ispettore - alza la voce e dice:
"Potrà
accertarsene
ora,
signore; io continuerò a fare
lezione a queste bambine, e la
signorina
Lanthenay
l'accompagnerà. Lei verificherà la
crepa di cui le parlavo; solca il
muro nuovo a sinistra del letto,
dall'alto in basso. E' abbastanza
preoccupante in una casa nuova, e
io non dormo tranquilla". La
signorina Aimée non risponde
nulla, abbozza un gesto di
obiezione, poi si ricrede e se ne va,
precedendo Dutertre che porge la
mano alla direttrice e la stringe
calorosamente
come
per
ringraziare.
Non rimpiango certo di essere
tornata a scuola; per quanto
abituata ai loro modi singolari, e a
questi costumi insoliti, resto
sbalordita e mi domando che cosa
speri, mandando questo donnaiolo
e questa ragazza a constatare
insieme nella propria camera
l'esistenza di una fessura, che, lo
giurerei, non c'è.
"E' una bella storia questa della
crepa" insinuo questa riflessione
sottovoce all'orecchio di Anaïs la
lunga, che si tiene i fianchi dal
gran ridere e mangia gomma
freneticamente per dimostrare la
sua gioia di queste avventure
equivoche.
Trascinata
dall'esempio, mi levo dalla tasca
un pacchetto di carta da sigaretta
(non mangio che la marca "Nil") e
mastico con voluttà.
"Cara mia," dice Anaïs "ho
trovato una cosa straordinaria da
mangiare."
"Che cosa: giornali vecchi?"
"No, la mina delle matite rosse
da una parte e azzurre dall'altra, lo
sai benissimo: la parte azzurra è
un pochino migliore. Ne ho già
rubate cinque dall'armadietto dei
rifornimenti. E' delizioso!"
"Fammi vedere perché possa
provare... No, non è un gran che.
Preferisco la mia carta "Nil"."
"Sei una sciocca, non sai quello
che è buono!"
Mentre chiacchieriamo a bassa
voce, la signorina Sergent, assorta,
fa leggere la piccola Luce senza
ascoltarla. Un'idea! Che cosa
potrei inventare perché mettano
accanto a me questa ragazzina?
Proverei a farle dire quello che sa
di sua sorella Aimée, forse
parlerebbe...
Tanto più che mi segue,
quando attraverso l'aula, con occhi
stupiti e curiosi, un po' sorridenti:
occhi verdi, di un verde strano che
si scurisce all'ombra, e orlati di
lunghe ciglia nere.
Quanto tempo stanno laggiù!
Non viene, dunque, a farci dire la
lezione di geografia, quella piccola
spudorata?
"Dimmi un po', Anaïs, sono le
due."
"Ebbene, non lagnarti! Non
sarebbe brutto se si potesse far a
meno di dire la lezione, oggi. La
tua carta della Francia è pronta,
mia cara?"
"Non completamente... i canali
non sono finiti. Sai? Non
bisognerebbe
che
l'ispettore
venisse,
oggi:
troverebbe
veramente
molto
disordine.
Guarda se la signorina Sergent si
occupa di noi, col viso schiacciato
contro i vetri!"
Improvvisamente Anaïs la
lunga si sbellica dalle risa.
"Ma che diavolo possono fare?
Immagino che il dottor Dutertre
stia misurando la larghezza della
fessura."
"Credi che sia larga la fessura?"
domanda ingenuamente Marie
Belhomme che rifinisce il disegno
delle
catene
di
montagne,
fregando sulla carta una matita da
disegno temperata irregolarmente.
Tanto candore mi strappa uno
scoppio
di
risa.
Non
ho
sghignazzato troppo forte? No,
Anaïs la lunga mi rassicura.
"Puoi stare tranquilla, via; la
signorina è tanto assorta che
potremmo ballare in classe senza
farci castigare."
"Ballare? Vuoi scommettere
che lo faccio?" dico alzandomi
piano piano.
"Oh, scommetto due biglie che
non riesci a ballare senza buscarti
il castigo di copiare un verbo!"
Mi
levo
gli
zoccoli,
delicatamente, e mi metto in
mezzo all'aula, fra le due file di
banchi. Tutte alzano il capo;
evidentemente
l'impresa
annunciata
eccita
un
vivo
interesse. Coraggio! Getto indietro
i capelli che mi danno fastidio, tiro
su la sottana con due dita, e
comincio una "polca frenetica"
che, per quanto silenziosa,
provoca
ugualmente
l'ammirazione generale; Marie
Belhomme gongola e non riesce a
trattenere un allegro strillo. Che
Iddio la stramaledica! La signorina
Sergent ha un sussulto e si volta,
ma io mi sono già gettata sul mio
banco a corpo morto, e sento che
la direttrice annuncia a quella
sciocca, con voce distante e
annoiata:
"Marie Belhomme, lei copierà
il verbo "ridere" in scrittura
rotonda media. E' veramente
spiacevole che delle ragazzone di
quindici anni non sappiano
comportarsi bene se non quando
sono tenute d'occhio".
La povera Marie ha una gran
voglia di piangere. Però non è
permesso di essere così sciocche!
E io pretendo immediatamente le
due biglie da Anaïs la lunga, che
me
le
porge
piuttosto
a
malincuore.
Che cosa faranno quei due
osservatori
di
fessure?
La
signorina Sergent continua a
guardare dalla finestra. Suonano
le due e mezzo, non può durare a
lungo. Bisogna che almeno lei
sappia che noi abbiamo notato
l'assenza indebita della sua piccola
favorita. Tossisco, inutilmente;
tossisco di nuovo e domando in
tono serio, il tono delle Jaubert:
"Signorina, abbiamo delle carte
da
mostrare
alla
signorina
Lanthenay;
c'è
lezione
di
geografia, oggi?".
La rossa si volta di scatto e
getta uno sguardo all'orologio. Poi
aggrotta le ciglia, contrariata e
impaziente:
"La signorina Aimée tornerà
subito; sapete bene che l'ho
mandata nella nuova scuola;
intanto ripassate la lezione: non la
saprete mai abbastanza".
Buona questa! Può darsi che
non si faccia lezione oggi! Grande
gioia e mormorìo di attività,
appena sappiamo che non c'è nulla
da fare. E incomincia la commedia
del "ripasso delle lezioni" in ogni
banco una scolara prende il libro,
la vicina chiude il proprio e deve
dire la lezione o rispondere alle
domande che le fa la compagna.
Su dodici scolare non ci sono che
le gemelle Jaubert che ripassino
veramente. Le altre si rivolgono
domande di fantasia, mantenendo
un contegno studioso, mentre la
bocca sembra recitare a bassa
voce.
Anaïs la lunga ha aperto
l'atlante e mi interroga:
"Che cos'è una cateratta?".
Io rispondo come se recitassi:
"Macché! Non mi annoierai
con questi canali; guarda un po' il
viso lungo della signorina; è più
buffo".
"Che ne pensa del contegno
della
signorina
Aimée
Lanthenay?"
"Penso che se la stia spassando
con l'ispettore, verificatore di
fessure."
"Che cos'è una "fessura"?"
"E' una crepa che abitualmente
dovrebbe trovarsi in un muro, ma
che talora si trova altrove, e
persino nei luoghi più al riparo dal
sole."
"Che cos'è una "fidanzata"?"
"E' un'ipocrita sgualdrinella
che fa brutti tiri a un maestrucolo
innamorato di lei."
"Che cosa fareste nei panni del
suddetto maestro?"
"Tirerei un calcio nella parte
posteriore dell'ispettore e darei un
paio di ceffoni alla piccina che lo
accompagna a verificare
le
fessure."
"Che cosa succederebbe dopo?"
"Succederebbero
un
altro
maestro e un'altra maestra."
Anaïs la lunga alza ogni tanto
l'atlante per scoppiare a ridere
dietro a questo. Ma ne ho
abbastanza. Voglio andare fuori,
per fare in modo di vederli
tornare. Adoperiamo il solito
mezzo.
"Signorina?"
Nessuna risposta.
"Signorina, per piacere, mi
permette di uscire?"
"Sì, vada e non stia troppo
tempo fuori."
Ha detto queste parole senza
espressione,
senza
pensarci;
evidentemente ha tutto il cuore
laggiù, nella camera dove il muro
potrebbe
fendersi.
Esco
bruscamente, corro dalla parte dei
gabinetti
"provvisori"
(anche
quelli!), e resto vicino alla porta,
che ha un'apertura a forma di
rombo, pronta a rifugiarmi nello
schifoso
casotto
se
sopraggiungesse qualcuno. Nel
momento in cui sto per rientrare
desolata nell'aula - perché il
tempo ammissibile è trascorso,
ahimè! - vedo Dutertre che esce
(solo soletto) dalla nuova scuola,
infilandosi i guanti con aria
soddisfatta. Non viene qui, e se ne
va direttamente in paese. Aimée
non è con lui, ma non me ne
importa, ho visto abbastanza. Mi
volto per ritornare in classe, ma
indietreggio spaventata: a venti
passi da me - dietro un muretto
nuovo alto sei piedi che ripara la
piccola "edicola" dei maschi
(simile alla nostra e provvisoria
anche quella) - appare la testa di
Armand. Il povero Duplessis,
pallido e sconvolto, guarda in
direzione della nuova scuola; lo
vedo per cinque secondi, e poi
sparisce, infilando a gambe levate
il sentiero che mena ai boschi.
Non rido più. Che cosa succederà?
Rientriamo
presto,
senza
gironzolare più!
La classe è sempre in
fermento: Marie Belhomme ha
tracciato sul banco un quadrato
intersecato da due diagonali e da
due rette che s'incrociano al
centro del quadrato, la "caillotte",
e gioca seriamente a questo gioco
delizioso con la nuova arrivata, la
piccola Lanthenay - povera piccola
Luce! - che deve trovare assurda
questa scuola. E la signorina
Sergent continua a guardare fuori
dalla finestra.
Anaïs, intenta a colorire con
una matita "Conté" i ritratti dei
grandi uomini più orrendi della
Storia di Francia, mi accoglie con
un: "Che cosa hai visto?".
"Cara mia, non scherzare più!
Armand Duplessis li spiava al di
sopra del muro dei gabinetti;
Dutertre è tornato in paese, e
Richelieu se n'è andato correndo
come un pazzo!"
"Via, scommetto che mi stai
raccontando delle frottole!"
"No, ti dico, non è il momento,
l'ho visto, parola d'onore! Ho il
batticuore!"
La speranza di un possibile
dramma ci fa stare zitte un
momento.
Anaïs domanda:
"Lo racconterai alle altre?".
"No, parola d'onore, quelle
stupide lo andrebbero a riferire.
Solo a Marie Belhomme, to'."
Racconto tutto a Marie, i cui
occhi si spalancano ancor più, e
che predice: "Tutto ciò finirà
male!".
Si apre la porta, noi ci voltiamo
con perfetto sincronismo: è la
signorina Aimée, col colorito
acceso, un po' ansante. La
signorina Sergent le corre incontro
e trattiene appena in tempo il
gesto di abbracciarla che aveva
abbozzato. Rinasce, la direttrice,
trascina quella piccola svergognata
accanto alla finestra e la interroga
avidamente. (E la nostra lezione di
geografia?)
Il
figliol
prodigo, senza
eccessiva emozione, proferisce
brevi frasi che sembra non
soddisfino la curiosità della degna
superiora. A una domanda più
ansiosa,
risponde:
"No",
scrollando il capo, con un sospiro
malizioso; la rossa, allora, tira un
sospiro di sollievo. Noi tre, nel
primo banco, osserviamo nella
tensione dell'attesa. Ho un certo
timore
per
quella
piccina
immorale, e l'avvertirò che diffidi
di Armand, ma forse l'altra, la sua
despota, sosterrebbe subito che
sono andata a denunciare la sua
condotta a Richelieu con lettere
anonime. Mi astengo dal farlo.
Mi irritano con quel loro
parlottare. Finiamola. Lancio un
richiamo a mezza voce per attirare
l'attenzione delle mie compagne, e
cominciamo
il
sussurrìo.
Dapprima non è che un ronzìo
continuo di api; si gonfia, cresce, e
finisce
per
penetrare
nelle
orecchie delle nostre folli maestre,
che si scambiano uno sguardo
inquieto; ma la signorina Sergent,
coraggiosa, prende l'offensiva.
"Silenzio! Se sento borbottare,
privo tutta la classe della
ricreazione sino alle sei. Credete
che
possiamo farvi lezione
regolarmente finché la nuova
scuola non è finita? Siete
abbastanza grandi per sapere che
dovete studiare da sole, quando
una di noi non può farvi lezione.
Datemi un atlante. Le scolare che
non sapranno la lezione senza
sbagli faranno compiti in più per
otto giorni!"
Ha
temperamento,
però,
questa donna brutta, ardente e
gelosa, e tutte ammutoliscono
appena lei alza la voce. La lezione
viene detta senza indugio, e
nessuno ha voglia di scherzare,
perché si sente soffiare un vento
minaccioso di sospensioni e di
castighi. Nel frattempo penso che
non mi darò pace, se non assisterò
all'incontro di Armand e di Aimée;
preferisco farmi scacciare (per
quello che mi costa) e vedere
quello che succederà.
Alle quattro e cinque, quando
risuona alle nostre orecchie il
quotidiano richiamo: "Chiudete i
quaderni e mettetevi in fila", io me
ne vado molto a malincuore.
Suvvia, non è ancora per oggi la
deprecata
tragedia!
Domani
arriverò a scuola presto per non
perdere nulla di quello che
succederà.
L'indomani mattina, arrivata
molto prima dell'ora prescritta,
per ammazzare il tempo, inizio
una conversazione qualsiasi con la
timida e triste signorina Griset,
sempre pallida e timorosa.
"Le piace stare qui, signorina?"
Si guarda intorno prima di
rispondere:
"Oh, non molto, non conosco
nessuno, mi annoio un pochino".
"Ma la sua collega è gentile con
lei e così pure la signorina
Sergent?"
"Non... non lo so; no,
veramente, non so se sono gentili;
non si occupano mai di me."
"Questo poi!..."
"Sì... a tavola mi rivolgono
qualche parola; ma, appena
corretti i quaderni, se ne vanno e
io resto sola soletta con la madre
della signorina Sergent, che
sparecchia e si rinchiude in
cucina."
"E dove vanno tutte e due?"
"Caspita, in camera loro."
Ha voluto dire nella "loro
camera" o nelle "loro camere"?
Che disgraziata! Se li merita i suoi
settantacinque franchi al mese!
"Vuole che le presti qualche
libro, signorina, se si annoia la
sera?"
(Che gioia! Diventa quasi
rosea!)
"Oh, volentieri... Oh, lei è
molto gentile; crede che la
direttrice non andrà in collera?"
"La signorina Sergent? Se lei
crede che se ne accorga, ha ancora
illusioni sull'interesse che le
dimostra quella rossa!"
Sorride, quasi fiduciosa, e mi
domanda se le posso prestare il
Romanzo di un giovane povero,
che ha tanta voglia di leggere!
Certamente, lo avrà domani, il
suo romantico Feuillet; mi fa
pena, questa derelitta. La eleverei
al rango di alleata, ma come
contare su questa povera ragazza
clorotica e troppo paurosa?
A passi silenziosi si avanza la
sorella della favorita, la piccola
Luce Lanthenay, contenta e anche
spaventata di chiacchierare con
me.
"Buongiorno,
scimmietta;
dimmi: "Buongiorno, Altezza",
dillo subito. Hai dormito bene?"
Le accarezzo bruscamente i
capelli, cosa che pare non le
dispiaccia, e ride con quegli occhi
verdi, del tutto simili agli occhi di
Fanchette, la mia bella gattina.
"Sì, Altezza, ho dormito bene."
"Dove dormi?"
"Lassù."
"Con tua sorella Aimée,
s'intende?"
"No, lei ha un letto nella stanza
della signorina Sergent."
"Un letto? L'hai visto?"
"No... sì... è un divano; pare che
si apra a forma di letto; me lo ha
detto lei."
"Te lo ha detto? Scema,
citrulla, bastarda, feccia schifosa,
rifiuto della società!"
Fugge
spaventata,
perché
scandisco gli insulti con i colpi
della mia cinghia dei libri (oh, non
colpi molto forti!), e, quando
sparisce nella scala, le lancio
questo supremo insulto: "Brutta
razza di femmina, meriti di
assomigliare a tua sorella!".
Un divano che si apre!
Piuttosto aprirei questo muro!
Non vedono nulla quegli esseri là,
parola d'onore! Tuttavia ha l'aria
abbastanza viziosa, quella lì, con
gli occhi tirati verso le tempie...
Anaïs la lunga giunge mentre
sbuffo ancora, e mi domanda che
cosa ho.
"Niente, ho soltanto picchiato
la piccola Luce per scaltrirla un
po'."
"Non c'è nulla di nuovo?"
"Niente, non è ancora sceso
nessuno. Vuoi giocare a palline?"
"A che gioco? Non ho nove
palline."
"Ma io ho quelle che ti ho
vinto. Vieni: faremo una partita."
E' una partita molto animata;
le palline ricevono certi colpi da
farle a pezzi. Mentre prendo a
lungo la mira per un colpo
difficile:
"Attenzione!"
fa
Anaïs.
"Guarda!"
Entra nel cortile Rabastens: è
così presto che possiamo esserne
stupiti. D'altronde, il più bello
degli Antonin è già azzimato e
lustro - troppo lustro. Il viso gli si
illumina nel vedermi, e viene
dritto verso di noi.
"Signorine!... Che
colorito
luminoso le dà l'animazione del
gioco, signorina Claudine!"
Com'è
ridicolo
questo
grassone! Tuttavia, per dar fastidio
ad Anaïs la lunga, lo guardo con
compiacenza e dimeno i fianchi
battendo le ciglia.
"Signor maestro, chi l'attira
così presto qui? Le signorine sono
ancora in camera loro."
"Appunto, non so bene che
cosa vengo a dire, se non che il
fidanzato della signorina Aimée
non ha pranzato con noi ieri sera;
qualcuno che l'ha incontrato
assicura
che
aveva
l'aria
sofferente; comunque non è
ancora tornato; credo che stia
passando un brutto guaio, e vorrei
avvertire la signorina Lanthenay
dello stato cagionevole del suo
fidanzato."
"Lo stato cagionevole del suo
fidanzato...", si esprime con
eleganza, questo marsigliese!
Dovrebbe
sistemarsi
come
"annunciatore di morti e di gravi
incidenti". Suvvia, la crisi si
avvicina; ma io, che ieri pensavo di
mettere in guardia la colpevole
Aimée, ora non voglio più che lui
vada ad avvertirla. Peggio per lei!
Mi sento cattiva e avida di
emozioni, questa mattina, e faccio
in modo di trattenere Antonin
accanto a me. E' molto semplice:
basta
sgranare
gli
occhi
ingenuamente e chinare il capo
perché i capelli mi cadano liberi
lungo il volto. Morde subito
all'amo.
"Signor maestro, mi dica un po'
se è vero che lei fa bellissimi
versi? L'ho sentito dire in paese."
E' una bugia, s'intende. Ma
inventerei qualunque cosa per
impedirgli di andare su dalle
maestre. Arrossisce e balbetta,
turbato dalla gioia e dalla
sorpresa:
"Chi ha potuto dirle?... Ma no,
ma io non merito di certo. E'
strano, non credevo di averne
parlato a nessuno!".
"Vede, la fama tradisce la sua
modestia!" (parlerò come lui da
qui a poco). "Sarebbe indiscreto
chiederle..."
"La prego, signorina... lei mi
vede confuso... Non potrei farle
leggere
che
poveri
versi
appassionati...
ma
casti!"
(balbetta).
"Naturalmente non avrei mai...
osato permettermi..."
"Signor maestro, la campana
non sta suonando l'inizio delle
lezioni, dalla loro parte?"
Se ne vada, se ne vada dunque!
Fra poco scende Aimée, lui
l'avverte, lei starà in guardia e non
vedremo nulla!
"Sì... Ma non è l'ora, sono quei
diavoli di monelli che si attaccano
alla corda, non si può lasciarli un
secondo. E il mio collega non è
ancora arrivato. Ah, è faticoso
badare a tutto da solo!"
Che ingenuo, però! Questo
modo di "badare a tutto" che
consiste nel venire a fare la corte
alle ragazze grandi, non deve
spossarlo eccessivamente.
"Vede, signorina, devo andare a
castigarli severamente. Ma la
signorina Lanthenay..."
"Oh, potrà sempre avvertirla
alle undici, se il suo collega sarà
ancora assente, cosa che mi
stupirebbe. Forse tornerà da un
momento all'altro."
Va' a castigare, va' dunque a
castigare, gran babbeo. Hai
salutato abbastanza, hai sorriso
abbastanza; fila via, sparisci!
Finalmente!
Anaïs la lunga, un po' seccata
del disinteresse del maestro per
lei, mi rivela che lui è innamorato
di me. Io scrollo le spalle:
"Finiamo la nostra partita,
dunque, sarà meglio piuttosto che
dire sciocchezze".
La partita finisce mentre
giungono le altre, e le maestre
scendono all'ultimo momento.
Non si allontanano di un passo!
Quel piccolo mostro di Aimée
prodiga alla rossa certi scherzi da
ragazzina.
Entriamo in classe, e la
signorina Sergent ci affida alla
favorita che ci domanda le
soluzioni dei problemi del giorno
prima.
"Anaïs, alla lavagna. Legga
l'enunciato."
E' un problema abbastanza
complicato, ma Anaïs la lunga, che
ha il talento dell'aritmetica, se la
sbriga fra operai che piantano pali,
lancette d'orologio e divisioni
proporzionali
con
notevole
disinvoltura. Ahi, tocca a me.
"Claudine,
alla
lavagna.
Estragga la radice quadrata di
duemilionisessantatremilaseicentov
Nutro
un
orrore
insormontabile per queste cosucce
che bisogna estrarre. E poi,
siccome non c'è la signorina
Sergent, mi decido bruscamente a
fare uno scherzo all'ex amica.
L'hai
voluto,
traditrice!
Inalberiamo il vessillo della
ribellione! Davanti alla lavagna,
faccio segno di no, pian piano,
scrollando il capo.
"Come no?"
"No, non voglio estrarre radici,
oggi. Non mi va."
"Claudine,
sta
diventando
pazza?"
"Non lo so, signorina. Ma sento
che mi ammalerei se estraessi
questa radice o qualsiasi altra del
genere."
"Vuole un castigo, Claudine?"
"Accetto qualunque cosa, ma
niente
radici. Non
è
per
disobbedienza; perché non posso
estrarre le radici. Mi dispiace
molto, le assicuro."
La scolaresca pesta i piedi dalla
gioia;
la
signorina
Aimée
s'impazientisce e s'infuria.
"Insomma, vuole obbedirmi?
Farò un rapporto alla signorina
Sergent, e vedremo."
"Le ripeto che ne sono
dolentissima."
In cuor mio le grido:
"Canaglietta, non ho da aver
riguardi per te, e anzi ti procurerò
tutte le noie possibili".
Scende i due gradini della
cattedra e si dirige verso di me,
con
la
vaga
speranza
d'intimidirmi. Io faccio molta
fatica a trattenere le risa, e
continuo
ad
avere
un'aria
rispettosamente desolata. Questa
piccina! Mi arriva al mento, parola
d'onore! La scolaresca si diverte
follemente; Anaïs mastica una
matita, legno e mina, a grandi
bocconi.
"Signorina Claudine, vuole
obbedire, sì o no?"
Con una soavità pungente,
ricomincio. E' vicinissima a me e
io abbasso un po' il tono:
"Ancora una volta, signorina,
mi faccia quello che vuole, mi dia
frazioni da ridurre allo stesso
denominatore, triangoli uguali da
costruire... fessure da verificare...
tutto, sì, tutto: ma non questo, oh,
no, niente radici quadrate!".
Le compagne, tranne Anaïs,
non hanno compreso, perché ho
proferito l'insulto rapidamente e
senza sottolinearlo; si divertono
soltanto per la mia ribellione; ma
la signorina Lanthenay ne ha
ricevuto una scossa. Rossa di
fuoco, ha perso la testa, grida:
"E' troppo grossa! Vado a
chiamare la signorina Sergent...
Ah, è troppo grossa!".
Si slancia verso la porta. Le
corro dietro e la raggiungo nel
corridoio, mentre le scolare ridono
a crepapelle, urlano per la gioia e
salgono in piedi sui banchi.
Trattengo Aimée per il braccio,
mentre essa tenta, con tutte le sue
deboli forze, di svincolarmisi dalle
mani, senza dire nulla, senza
guardarmi, a denti stretti.
"Mi ascolti dunque quando le
parlo! Fra noi non siamo più al
punto di fare questi scherzetti; le
giuro che se lei mi denuncia alla
signorina Sergent, io corro a
raccontare al suo fidanzato la
storia della fessura. Andrà ancora
dalla direttrice, adesso?"
Si è fermata di colpo, sempre
senza dire nulla, con gli occhi
ostinatamente abbassati, le labbra
strette.
"Andiamo, parli! Ritorna in
classe con me? Se non vi torna
subito, non ci torno neanch'io;
vado ad avvertire il suo Richelieu.
Si sbrighi a scegliere."
Lei schiude finalmente le
labbra per mormorare senza
guardarmi:
"Non dirò nulla. Mi lasci, non
dirò nulla".
"Sul serio? Lei sa che se lo
racconta alla rossa, non sarà
capace di tenerlo nascosto più di
cinque minuti e io lo saprò subito.
Sul serio? Lo... promette?"
"Non dirò niente, mi lasci.
Tornerò subito in classe."
Smetto di stringerle il braccio e
rientriamo senza dire nulla. Il
cicaleccio, simile al ronzare delle
api
in
un
alveare,
cessa
bruscamente. La mia vittima, in
cattedra, ci ordina in poche parole
di copiare in bella i problemi.
Anaïs mi domanda sottovoce: "E'
andata su a riferire?".
"No, le ho fatto qualche
semplice scusa. Mi capisci, non
volevo spingere oltre uno scherzo
simile."
La signorina Sergent non
ritorna. La sua piccola aiutante
serba sino alla fine della lezione il
volto impenetrabile e gli occhi
severi. Alle dieci e mezzo,
pensiamo
già
all'imminenza
dell'uscita; io prendo un po' di
brace nella stufa per ficcarmela
negli zoccoli, un ottimo mezzo per
scaldarli, formalmente proibito,
s'intende;
ma
la
signorina
Lanthenay pensa proprio alla
brace e agli zoccoli! Rimugina
sordamente la collera, e i suoi
occhi dorati sono due freddi
topazi.
Non me ne importa. E anzi ne
sono felice.
Che cos'è? Drizziamo le
orecchie: delle grida, una voce
d'uomo
che
insolentisce,
mescolata a un'altra voce che
cerca di sopraffarla... muratori che
si picchiano? Non lo credo,
subodoro qualcos'altro. La piccola
Aimée è in piedi, pallidissima,
sente anch'essa che si avvicina
qualcos'altro. Improvvisamente si
precipita in classe la signorina
Sergent, il colore acceso delle
guance le è sparito:
"Signorine,
uscite
immediatamente, non è suonata
l'ora, ma non importa... Uscite,
uscite, non mettetevi in fila, avete
capito, andatevene!".
"Che cosa c'è?" grida la
signorina Lanthenay.
"Niente, niente... Ma le faccia
dunque uscire e non si muova di
qui, piuttosto bisogna chiudere a
chiave la porta... Non ve ne siete
ancora andate, impiastri!"
Non è più il caso di avere
riguardi, decisamente! Piuttosto
che lasciare la scuola in un
momento
simile,
mi
farei
scorticare! Esco fra lo scompiglio
delle compagne sbalordite. Fuori,
si sente chiaramente la voce che
urla... Mio Dio! E' Armand, più
livido di un annegato, con gli occhi
cerchiati e smarriti, verde di
muschio, con qualche fuscello nei
capelli - certo ha dormito nel
bosco... Folle di rabbia, dopo
questa
notte
trascorsa
a
rimuginare il proprio dolore, vuole
scagliarsi nell'aula, urlando con i
pugni tesi: Rabastens lo trattiene
con tutta la forza delle braccia e
volge intorno degli sguardi
smarriti. Che affare, che affare!
Marie
Belhomme
scappa,
atterrita; la seconda sezione le va
dietro; Luce sparisce, e ho il
tempo di sorprendere il suo
sorrisetto cattivo; le Jaubert sono
corse alla porta del cortile senza
voltare il capo. Non vedo Anaïs,
ma giurerei che, nascosta in un
angolo, non perde nulla dello
spettacolo!
La prima parola che sento
distintamente è: "Donnacce!".
Armand ha trascinato il collega
ansimante fin nella classe, dove le
nostre maestre si stringono, mute,
l'una
all'altra.
Ora
grida:
"Sgualdrine!
non
voglio
andarmene senza dirvi quello che
siete, anche a costo di perdere il
posto! Pezzo di... ti fai carezzare
per denaro da quel porco
dell'ispettore! Sei peggio di una
ragazza di strada; ma questa qui
vale ancora meno di te, questa
maledetta rossa che ti fa diventare
simile a lei. Due donnacce, due
donnacce, siete due donnacce, e
questa casa è...". Non ho sentito
che cosa. Rabastens, che deve
avere
muscoli
doppi
come
Tartarin, riesce a trascinare via
quel disgraziato che si soffoca a
furia d'insulti. La signorina Griset,
che perde la testa, ricaccia in
classe le scolarette che ne escono,
e io scappo, col cuore un po'
agitato. Ma sono contenta che
Duplessis sia scoppiato senza
attendere oltre, perché Aimée non
potrà
accusarmi
di
averlo
avvertito.
Tornando
nel
pomeriggio
troviamo la signorina Griset, unica
e sola, che ripete la stessa frase a
ogni nuova arrivata: "La signorina
Sergent è malata, e la signorina
Lanthenay va a casa sua: non
dovrete tornare se non fra una
settimana".
Va bene, ce ne andiamo; ma, è
proprio vero: questa scuola non è
come tutte le altre!
Nella settimana di vacanze
impreviste che questa chiassata ci
procurò, presi il morbillo, il che mi
costrinse a stare tre settimane a
letto, poi a quindici giorni di
convalescenza; e mi tennero in
quarantena altri quindici giorni
con la scusa delle "misure
preventive". Senza libri e senza
Fanchette, che ne sarebbe stato di
me? Questo non è gentile per
papà, e tuttavia mi ha curata come
una lumaca rara; convinto che
bisogna dare a una piccina malata
tutto quello che chiede, mi portava
i marrons glacés per farmi calare
la temperatura! Fanchette si è
leccata dalle orecchie alla coda,
durante una settimana, sul mio
letto, giocando coi miei piedi
attraverso la coperta e annidata
nella cavità della mia spalla
appena ero sfebbrata. Torno a
scuola, un po' dimagrita e pallida,
molto curiosa di ritrovare quello
straordinario
"corpo
degli
insegnanti". Ne ho avuto così
scarse notizie durante la malattia!
Nessuno veniva a trovarmi, né
Anaïs né Marie Belhomme, a
causa del possibile contagio.
Suonano le sette e mezzo
quando entro nel cortile della
ricreazione, in questa fine di
febbraio
mite
come
una
primavera.
Accorrono, mi fanno festa; le
due Jaubert, prima di avvicinarsi,
mi domandano premurosamente
se sono ben guarita. Sono un po'
stordita da questo chiasso.
Finalmente mi lasciano respirare e
domando subito ad Anaïs le
ultime notizie.
"Ecco; prima di tutto Armand
Duplessis se n'è andato."
"Scacciato o trasferito, quel
povero Richelieu?"
"Soltanto trasferito. Dutertre si
è adoperato per trovargli un altro
posto."
"Dutertre?"
"Caspita, sì; se Richelieu
avesse chiacchierato, avrebbe
impedito all'ispettore di essere
eletto deputato. Dutertre ha detto
seriamente in paese che quel
disgraziato giovanotto aveva avuto
un accesso molto pericoloso di
febbre con delirio, e che avevano
chiamato in tempo lui, il medico
scolastico."
"Ah, lo hanno chiamato in
tempo? La provvidenza aveva
messo il rimedio accanto al male...
E la signorina Aimée è stata
trasferita anche lei?"
"Ma no! Oh, non c'è pericolo!
In capo a otto giorni non appariva
più traccia di quello che era
accaduto; rideva con la signorina
Sergent come prima."
E'
troppo!
Che
strana
creaturina, che non ha né cuore né
cervello, che vive senza ricordi,
senza rimorsi, e che ricomincerà a
sedurre un maestro, a folleggiare
con l'ispettore mandamentale,
finché ci sarà una nuova rottura, e
che vivrà contenta con questa
donna gelosa e violenta che si
guasta il cervello in simili
avventure. Sento appena Anaïs
mentre m'informa che Rabastens
è ancora qui e che domanda
spesso mie notizie. Lo avevo
dimenticato quel povero grosso
Antonin!
Suonano, ma ora andiamo
nella nuova scuola, e l'edificio
centrale che unisce le due ali sarà
presto terminato.
La signorina Sergent si installa
in cattedra, tutta lustra. Addio
vecchi
banchi
traballanti,
tagliuzzati, scomodi! Ci sediamo
davanti alle
belle
scrivanie
inclinate, nei banchi con schienali,
con scrittoio ribaltabile, e siamo
soltanto in due in ogni banco;
invece di Anaïs la lunga, ora ho
per vicina... la piccola Luce
Lanthenay.
Per fortuna, i banchi sono
molto vicini, e Anaïs sta accanto a
me su un sedile parallelo al mio,
cosicché potremo chiacchierare
insieme
comodamente
come
prima; le hanno messo accanto
Marie Belhomme; ché la signorina
Sergent ha collocato apposta due
"svelte" (Anaïs e me) vicino a due
"tarde" (Luce e Marie), per fare in
modo che le scuotiamo un po'.
Certo che le sveglieremo! Io per lo
meno, perché sento bollire in me
uno
spirito
d'indisciplina
compresso durante la malattia.
Passo in rassegna i posti nuovi,
metto in ordine libri e quaderni,
mentre Luce si siede e mi guarda
di traverso timidamente.
Ma io non mi degno ancora di
parlarle, scambio soltanto qualche
considerazione
sulla
vecchia
scuola con Anaïs che mangiucchia
avidamente non so che cosa:
germogli verdi, mi sembra.
"Che cosa stai mangiando?
Vecchie mele selvatiche?"
"Germogli di tiglio, cara mia.
Non c'è niente di meglio, è il
momento buono, verso il mese di
marzo."
"Me
ne
dài un po'?...
Veramente
è
buonissimo,
assomiglia alla gomma degli alberi
da frutto. Ne prenderò dai tigli del
cortile. E che altra novità stai
mangiando?"
"Oh, niente di speciale. Non
posso più mangiare neppure le
matite
"Conté":
quelle
di
quest'anno sono sabbiose, cattive,
roba di scarto.
In
compenso
la
carta
assorbente è squisita. C'è anche
una cosa buona da masticare, ma
non da mandar giù: i campioni di
tela da fazzoletti che mandano il
Bon Marché e il Louvre."
"Uh, non mi attira... Senti,
piccola Luce, vuoi provarti a
essere buona e ubbidiente vicino a
me? Altrimenti, bada, ti prometto
scapaccioni e pizzicotti!"
"Sì, signorina" risponde la
piccola, non troppo rassicurata,
con le ciglia abbassate sulle
guance.
"Puoi darmi del tu. Guardami,
mi fai vedere gli occhi? Va bene. E
poi sai che sono pazza, te lo
avranno detto di sicuro; ebbene,
quando mi si contraddice, divento
furiosa e mordo e graffio,
soprattutto dopo la malattia.
Dammi la mano: to', ecco come
faccio."
Le affondo le unghie nella
mano, lei non grida e stringe le
labbra.
"Non hai gridato, va bene. Ti
interrogherò
durante
la
ricreazione."
Nella classe inferiore, la cui
porta resta aperta, ho visto entrare
la signorina Aimée, fresca, riccia e
rosea, con gli occhi più vellutati e
dorati che mai, con la solita aria
maliziosa
e
carezzevole.
Sgualdrinella! Fa un sorriso
radioso alla signorina Sergent, che
si
distrae
un
minuto
a
contemplarla, ed esce dall'estasi
per dirci bruscamente:
"I quaderni! Compito di storia:
"La guerra del '70". Claudine,"
aggiunge, in tono più dolce "può
svolgere questo tema pur non
avendo seguito le lezioni degli
ultimi due mesi?".
"Proverò, signorina; farò il
compito con meno ampiezza, ecco
tutto."
Infatti mi sbrigo a fare un
compitino brevissimo, e quando
sono arrivata quasi alla fine, mi
attardo e mi applico a tirare in
lungo le ultime quindici righe per
poter spiare e guardarmi attorno
comodamente.
La
direttrice,
sempre la stessa, serba la solita
espressione di ardore concentrato
e fierezza gelosa. La sua Aimée,
che sta dettando svogliatamente
problemi
nell'altra
classe,
gironzola e si avvicina parlando.
Non
aveva,
però,
questo
atteggiamento sicuro e civettuolo
di gatta viziata, l'inverno scorso!
Ora è la bestiola adorata,
vezzeggiata,
e
che
diventa
tirannica, poiché sorprendo certi
sguardi della signorina Sergent
che la supplicano di trovare una
scusa per venirle vicino, ai quali
quella scervellata risponde con
cenni del capo capricciosi e
sguardi divertiti che dicono di no.
La rossa, che decisamente è
diventata la sua schiava, non
resiste più e va a trovarla,
domandando a voce molto alta:
"Signorina Lanthenay, non ha qui
il registro delle presenze?". Ecco:
se n'è andata; ciarlano a bassa
voce.
Approfitto
di
questa
solitudine
per
intervistare
duramente la piccola Luce.
"Ah, ah! Lascia un po' stare
codesto quaderno e rispondimi.
C'è un dormitorio lassù?"
"Certamente, ora vi dormiamo
le convittrici e io."
"Va bene, sei una scema."
"Perché?"
"Non ti riguarda. Continuate ad
avere lezione di canto il giovedì e
la domenica?"
"Oh, abbiamo provato a farne
una senza di lei... senza di te,
voglio dire, ma non andava: il
maestro Rabas-tens non sa
insegnare."
"Bene.
E'
venuto
quel
palpeggiatore mentre ero malata?"
"Chi?"
"Dutertre."
"Non ricordo più... Sì, è venuto
una volta, ma non nelle aule, e
non si è trattenuto che pochi
minuti a chiacchierare in cortile
con mia sorella e la signorina
Sergent."
"E' gentile con te la rossa?"
Gli occhi obliqui le si
rabbuiano.
"No... mi dice che non sono
intelligente, che sono pigra... che
dunque mia sorella si è presa tutta
l'intelligenza della famiglia, come
ne ha preso la bellezza...
D'altronde è sempre stata la stessa
storia dovunque mi trovassi con
Aimée; non badavano che a lei, e
in quanto a me, mi tenevano a
distanza..."
Luce sta quasi per piangere,
furente contro questa sorella più
"gentile", come dicono qui, che la
fa relegare in un cantuccio e la
mette in ombra. Del resto non la
credo migliore di Aimée; soltanto
più timorosa e più scontrosa,
perché abituata a starsene sola e
taciturna.
"Povera ragazzina, hai lasciato
qualche amica, là dov'eri?"
"No, non avevo amiche: erano
troppo
violente
e
mi
canzonavano."
"Troppo violente? Allora ti
dispiace, quando ti picchio,
quando ti maltratto?"
Ride, senza alzare gli occhi:
"No, perché vedo bene che lei...
che tu non lo fai per cattiveria, per
brutalità...
insomma
che
è
qualcosa come una burletta, e non
sul serio; è come quando mi dài
della "scema", so che lo fai per
scherzo.
Anzi, mi piace molto provare
un po' di paura, quando non c'è
davvero pericolo".
Ecco, tutt'e due uguali queste
piccole Lanthenay, vili, perverse
per istinto, egoiste e così
sprovviste di ogni senso morale
che è divertente osservarle. Non
importa. Questa odia sua sorella, e
credo
che
potrò
strapparle
un'infinità di rivelazioni su Aimée,
occupandomi di lei, rimpinzandola
di confetti, e picchiandola.
"Hai finito il compito?"
"Sì, ho finito... ma non sapevo
nulla, certamente mi prenderò un
brutto voto."
"Dammi il quaderno."
Leggo il suo compito, molto
sciatto, e le detto alcune cose
dimenticate; le correggo un po' le
frasi; essa è piena di gioia e di
stupore,
e
mi
guarda
sornionamente con certi sguardi
stupiti e rapiti.
"Ecco, vedi, così è meglio...
Dimmi un po', i convittori hanno il
dormitorio in faccia al vostro?"
Gli occhi le si illuminano di
malizia:
"Sì, e la sera vanno a letto
apposta quando ci andiamo noi, e
tu sai che non ci sono persiane
alle finestre; allora i ragazzi
cercano di vederci quando siamo
in camicia; noi solleviamo gli
angoli delle tende per guardarli, e
la signorina Griset ha un bel
sorvegliarci finché la luce è
spenta, troviamo sempre il mezzo
di alzare completamente una
tenda, all'improvviso, e così i
ragazzi tornano a spiare tutte le
sere".
"Be', è allegra su da voi l'ora in
cui vi spogliate!"
"Lo credo bene!"
Si anima e prende confidenza.
La signorina Sergent e la signorina
Lanthenay sono ancora insieme
nella classe inferiore. Aimée fa
vedere una lettera alla rossa, e
ridono
a
crepapelle,
ma
sommessamente.
"Sai dove sia andato a covare il
suo dolore l'ex Armand di tua
sorella, piccola Luce?"
"Non lo so. Aimée non mi parla
quasi mai delle cose che la
riguardano."
"Ne dubitavo. Anche lei ha la
camera su?"
"Sì, la stanza più comoda e più
graziosa di quelle delle maestre,
molto più bella e più calda di
quella della signorina Griset. La
direttrice vi ha fatto mettere le
tende con fiori rosa e il linoleum
per terra, cara mia, e una pelle di
capra, e hanno ridipinto il letto di
bianco. Aimée ha persino voluto
farmi credere di aver comperato
quelle belle cose coi suoi risparmi.
Le ho risposto: "Domanderò alla
mamma se è vero". Allora mi ha
detto: "Se ne parli alla mamma, ti
farò rispedire a casa con la scusa
che non studi". Allora, capirai, non
ho potuto far altro che tacere."
"Zitta, ritorna la signorina."
Infatti si avvicina a noi la
signorina Sergent, che cambia
l'espressione tenera e sorridente
con quella di maestra:
"Avete finito, signorine? Vi
detterò
un
problema
di
geometria".
Si levano proteste lamentose,
imploranti ancora cinque minuti
di grazia. Ma la signorina Sergent
non si commuove per questa
supplica, che si rinnova tre volte al
giorno,
e
comincia
tranquillamente a dettare il
problema. Al diavolo i triangoli
uguali!
Ho cura di portarle spesso
confetti
per
sedurre
completamente la piccola Luce. Li
prende senza quasi dire grazie, si
riempie le manine e li nasconde in
un vecchio astuccio da rosario di
madreperla. Per dieci soldi di
pasticche di menta inglese, troppo
piccanti, venderebbe la sorella
maggiore e anche un fratello per
giunta. Apre la bocca, aspira l'aria
per sentire il freddo della menta e
dice: "Mi gela la lingua, mi gela la
lingua" con uno sguardo di estasi.
Anaïs mendica sfacciatamente
qualche pasticca, se ne gonfia le
guance,
e
ne
richiede
precipitosamente,
con
una
irresistibile smorfia di finta
ripugnanza:
"Presto, presto, dammene
altre, per togliermi il gusto di
queste: erano ammuffite!".
Mentre giochiamo alla "gru",
Rabas-tens entra in cortile, come
per caso, portando non so quali
quaderni - scusa. Finge una
piacevole sorpresa nel rivedermi, e
approfitta
dell'occasione
per
mettermi sotto gli occhi una
romanza della quale legge le
parole appassionate con voce
svenevole.
Povero
sciocco
Antonin, non puoi più servirmi a
nulla ora, e non mi sei mai servito
molto. Al massimo servirai ancora
a divertirmi per qualche tempo, e
soprattutto a eccitare la gelosia
delle mie compagne. Se te ne
andassi...
"Signor maestro, lei troverà le
signorine nella classe in fondo; mi
sembra di averle viste scendere,
non è vero, Anaïs?"
Crede che lo mandi via a causa
degli sguardi maliziosi delle mie
compagne, mi lancia un'occhiata
eloquente e si allontana. Io alzo le
spalle alle esclamazioni d'intesa di
Anaïs la lunga e di Marie
Belhomme,
e
riprendiamo
un'emozionante partita di tournecouteau, nel corso della quale la
principiante Luce fa sbagli su
sbagli. E' giovane, non sa come si
fa. Suona la campana che
annuncia l'inizio della scuola.
Lezione di lavoro, prova
d'esame; cioè ci fanno eseguire in
un'ora i campioni dei punti
richiesti
all'esame.
Ci
distribuiscono certi quadratini di
tela, e la signorina Sergent scrive
alla lavagna, con la sua calligrafia
chiara, piena di tratti molto grossi:
"Occhiello - Dieci centimetri di
sopraggitto. Iniziale "G" col punto
di cifra. Dieci centimetri di orlo a
punto avanti". Io borbotto di
fronte a questa lista, perché in
quanto all'occhiello, al sopraggitto,
riesco ancora a cavarmela, ma
l'orlo a punto avanti e l'iniziale col
punto per cifrare la biancheria non
so "farli a dovere", come osserva a
malincuore la signorina Aimée.
Per fortuna ricorro a un
espediente ingegnoso e semplice:
do qualche pasticca alla piccola
Luce che sa cucire divinamente, e
lei
mi
esegue
una
"G"
meravigliosa. "Bisogna aiutarsi
l'un l'altro" (abbiamo appunto
commentato, non più tardi di ieri,
questo caritatevole aforisma).
Marie Belhomme esegue una
"G" che sembra una scimmia
accoccolata, e, da quella pazzerella
che è, scoppia dalle risa davanti
alla propria opera. Le convittrici, a
testa china e coi gomiti stretti,
cuciono
chiacchierando
pianissimo, e di quando in quando
scambiano con Luce degli sguardi
d'intesa in direzione della scuola
maschile.
Ho il sospetto che, la sera,
spiino
spettacoli
divertenti
dall'alto del loro bianco e pacifico
dormitorio.
La signorina Lanthenay e la
signorina
Sergent
si
sono
scambiate la cattedra; qui Aimée
sorveglia la lezione di cucito,
mentre la direttrice fa leggere le
scolare della classe inferiore. La
favorita è intenta a scrivere, in bel
carattere rotondo, il titolo di un
registro delle presenze, quando la
sua rossa la interpella da lontano:
"Signorina Lanthenay!".
"Che cosa vuoi?" grida Aimée
sbadatamente.
Silenzio pieno di stupore. Ci
guardiamo tutte: Anaïs la lunga
comincia a stringersi nelle spalle
per ridere meglio; le due Jaubert
chinano il capo sul cucito; le
convittrici si danno gomitate,
sornionamente; Marie Belhomme
scoppia in una risata compressa
che suona come uno starnuto; e
io, davanti al viso costernato di
Aimée, esclamo ad alta voce:
"Ah, questa è buona!".
La piccola Luce ride appena; si
vede che le è già capitato di sentire
che si danno del tu; ma osserva la
sorella con occhi beffardi.
La signorina Aimée si volta
furente verso di me:
"Può capitare a tutti di
sbagliare, signorina Claudine! E
faccio le mie scuse alla signorina
Sergent per la disattenzione".
Ma questa, rimessa dal colpo,
capisce bene che non accettiamo
questa spiegazione e alza le spalle
in segno di scoraggiamento
davanti
a
questa
topica
irrimediabile.
Si
conclude
allegramente la noiosa lezione di
cucito. Avevo bisogno di questo
scherzoso incidente.
Dopo l'uscita, alle quattro,
invece di andarmene, dimentico
astutamente un quaderno e torno
indietro, perché so che all'ora della
pulizia le convittrici portano su
l'acqua a turno in dormitorio; io
non l'ho ancora visto, voglio
visitarlo, e Luce mi ha detto:
"Oggi, sono di "turno per l'acqua"".
A passi furtivi, portando una
brocca piena, nel caso di un brutto
incontro, salgo fin lassù. Il
dormitorio ha le pareti e il soffitto
bianchi, ed è ammobiliato con otto
letti bianchi; Luce mi indica il
proprio; me ne infischio del suo
letto!
Corro subito alle finestre che,
infatti, permettono di vedere il
dormitorio dei ragazzi. Due o tre
grandi, dai quattordici ai quindici
anni, vi gironzolano e guardano
dalla nostra parte; appena ci
scorgono, ridono, fanno gesti e
indicano i letti. Branco di
mascalzoni!
Sono
proprio
seducenti! Luce, impaurita o che
fa finta di esserlo, chiude
precipitosamente la finestra, ma io
sono convinta che la sera, all'ora
di coricarsi, ostenti meno quelle
arie da santerellina. Il nono letto,
all'estremità del dormitorio, è
collocato sotto una specie di
baldacchino che lo avviluppa con
tende bianche.
"Questo" mi spiega Luce "è il
letto
della sorvegliante. Le
maestre di turno si danno il
cambio per passare la notte nel
dormitorio."
"Ah, dunque, ora tocca a tua
sorella Aimée, ora alla signorina
Griset?"
"Sfido... dovrebbe essere così;
ma sinora è sempre la signorina
Griset... Non so perché."
"Ah, non sai perché? Ipocrita!"
Le do un colpo sulla spalla;
essa si lamenta senza convinzione.
Povera signorina Griset!
Luce continua a informarmi:
"Non
puoi
immaginarti,
Claudine, come ci si diverte la
sera, quando si va a letto.
Ridiamo, corriamo in camicia,
facciamo la lotta a colpi di cuscino.
Certune si nascondono dietro alle
tende per spogliarsi, perché dicono
che si vergognano; la maggiore,
Rose Raguenot, è così sporca che
ha la biancheria grigia dopo tre
giorni che la indossa. Ieri, mi
hanno nascosto la camicia da
notte, e ho corso il rischio di
rimanere completamente nuda nel
gabinetto. Per fortuna è venuta la
signorina Griset! E poi prendiamo
in giro una tanto grassa che è
costretta a cospargersi di amido
un po' dappertutto per non
tagliarsi. E la Poisson (me la
dimenticavo) che si mette un
berretto da notte che la fa
sembrare una vecchia, e non vuole
spogliarsi se non dopo di noi nel
gabinetto. Ah, ridiamo molto, ti
assicuro!".
Il gabinetto è sommariamente
arredato con una grande tavola
rivestita di zinco sulla quale sono
allineati otto catini, otto saponi,
otto paia di asciugamani, otto
spugne, tutti uguali, la biancheria
segnata con inchiostro indelebile.
E' molto ben tenuto.
Le domando:
"Fate il bagno?".
"Sì, e anche questa è una cosa
molto buffa, ti assicuro! Nella
nuova lavanderia fanno scaldare
tanta acqua da riempire un tino da
vendemmia, grande come una
camera. Ci spogliamo tutte e ci
ficchiamo dentro per insaponarci."
"Completamente nude?"
"Sfido,
come
faremmo
altrimenti
per
insaponarci?
Naturalmente Rose Raguenot non
voleva, perché è troppo magra. Se
la
vedessi"
aggiunge
Luce,
abbassando la voce "non ha quasi
carne
sulle
ossa,
ed
è
completamente piatta sul petto
come un maschio. La Jousse,
invece, è come una balia: sono
grosse così! E quella che mette un
berretto da notte da vecchia, sai, la
Poisson, è pelosa dappertutto
come un orso, e ha le cosce
azzurre."
"Come, azzurre?"
"Sì, azzurre come quando gela
e si ha la pelle azzurra dal freddo."
"Dev'essere seducente."
"No di certo, se fossi un
maschio non mi ecciterebbe molto
fare il bagno con lei!"
"Ma forse a lei farebbe più
effetto fare il bagno con un
ragazzo."
Scoppiamo a ridere; ma io
faccio un salto sentendo il passo e
la voce della signorina Sergent nel
corridoio.
Per
non
farmi
sorprendere, mi nascondo sotto il
baldacchino riservato soltanto alla
signorina Griset; poi, passato il
pericolo; scappo e sgattaiolo giù,
dicendo sottovoce: "Arrivederci".
Questa mattina, come si sta
bene in questo caro paese! Come
si scalda allegramente la mia bella
Montigny in questa primavera
precoce e calda! Domenica e
giovedì sono già corsa lungo il
delizioso bosco, tutto pieno di
violette, con la compagna della
prima comunione, la mia dolce
Claire, che mi raccontava le sue
passioncelle... il suo "moroso" le
dà gli appuntamenti all'angolo
dell'abetaia, la sera, da quando il
tempo è mite. Chi sa se non finirà
col fare sciocchezze! Ma non è
questo che la tenta: purché le si
dicano paroline scelte, che lei non
capisce molto bene, purché la
bacino, purché le si gettino alle
ginocchia, che tutto si svolga
"come nei libri", insomma, le
basta assolutamente.
Nell'aula trovo la piccola Luce
accasciata su un banco che
singhiozza
tanto
forte
da
strozzarsi. Le sollevo il capo a
forza e vedo gli occhi grossi come
uova, tanto se li è stropicciati.
"Oh, davvero! Non sei bella
così! Che cosa c'è, piccina? Perché
piagnucoli?"
"Mi... ha... Mi... ha picchiata!"
"Tua sorella, scommetto?"
"Sììì!"
"Che cosa le avevi fatto?"
Si calma un po' e racconta:
"Ecco, non avevo capito i
problemi, e quindi non li avevo
risolti; questo l'ha fatta andare in
bestia; allora mi ha detto che sono
una cretina, che non val la pena
che la nostra famiglia paghi la mia
pensione, che le do fastidio, e roba
simile... Allora le ho risposto:
"Mi annoi, alla fine"; allora mi
ha picchiata, mi ha schiaffeggiata,
è una peste, la odio...".
Un nuovo diluvio di lacrime.
"Povera Luce, sei un'oca; non
dovevi lasciarti picchiare, dovevi
rinfacciarle il suo ex Armand..."
Gli
occhi
subitamente
spaventati della piccola mi fanno
voltare; vedo la signorina Sergent
che ci ascolta sulla soglia.
Patatrac! Che cosa dirà?
"Mi
rallegro,
signorina
Claudine, lei dà bei consigli
davvero a questa bambina."
"E lei, begli esempi!"
Luce è terrorizzata dalla mia
risposta. Ma io me ne infischio, gli
occhi di brace della direttrice
scintillano di collera e d'emozione!
Ma questa volta, troppo astuta
per eccitarsi, scrolla il capo e dice
semplicemente:
"E' una fortuna che si avvicini
il mese di luglio, signorina
Claudine; lei capisce, non è vero,
che mi è sempre più impossibile di
tenerla qui?".
"Mi pare di sì. Ma, lei lo sa, è
per mancanza di comprensione: i
nostri rapporti sono stati male
impostati."
"Vada a fare ricreazione, Luce"
dice senza rispondermi. La piccola
non se lo fa ripetere due volte, se
ne va correndo e soffiandosi il
naso. La signorina Sergent
continua:
"E'
proprio
colpa
sua,
gliel'assicuro. Lei si è dimostrata
piena di malevolenza verso di me,
al mio arrivo, e ha respinto i miei
approcci, perché gliene avevo fatti,
benché non toccasse a me.
Tuttavia lei mi era sembrata
intelligente e abbastanza bella per
interessare me, che non ho né una
sorella, né una figlia".
(Il diavolo mi porti se avrei
mai pensato... Non avrebbe potuto
dichiararmi più esplicitamente che
sarei stata "la sua piccola Aimée",
se avessi voluto. Ebbene, no! Non
mi
attira,
neppure
retrospettivamente.
Tuttavia,
adesso sarei io la persona della
quale la signorina Lanthenay
dovrebbe essere gelosa... Che
commedia!)
"E' vero, signorina. Ma,
fatalmente, sarebbe finita male lo
stesso, a causa della signorina
Aimée Lanthenay; lei ha messo
tanto impegno a conquistare... la
sua amicizia e a distruggere quella
che poteva nutrire per me!"
Volge gli occhi:
"Non ho cercato, come lei
sostiene, di distruggere... La
signorina Aimée avrebbe potuto
continuare le lezioni d'inglese
senza che io glielo impedissi...".
"Ma non lo dica! Io non sono
ancora diventata scema, e qui
siamo noi due sole! Per molto
tempo ne sono stata furente,
persino desolata, perché sono
gelosa quasi quanto lei... Perché
me l'ha presa? Ne ho avuto tanto
dispiacere: sì, ecco, ne goda, ho
avuto un gran dispiacere! Ma ho
visto che non mi voleva bene. E a
chi ne vuole? Ho anche visto che
francamente non valeva molto; mi
è bastato.
Ho pensato che avrei fatto
abbastanza sciocchezze, senza
commettere quella di volerla
spuntare su di lei. Ecco. Ora tutto
quel che desidero è che non
diventi un po' troppo la reginetta
di questa scuola, e che non
tormenti esageratamente questa
piccina, sua sorella, che, in fondo,
non vale né più né meno di lei,
gliel'assicuro... Io non racconto
nulla a casa mia di quello che mi
capita di vedere qui; non ritornerò
più dopo le vacanze, e mi
presenterò agli esami, perché papà
crede di tenerci, e Anaïs sarebbe
troppo felice se non passassi agli
esami... Può lasciarmi in pace sino
a quel giorno, io non le do molto
fastidio adesso..."
Potrei parlare a lungo, credo,
lei non mi ascolta più. Non le
contenderò la sua piccina: è tutto
quello che ha sentito; guarda
entro se stessa, segue un'idea, e si
risveglia per dirmi, ridiventando
improvvisamente la direttrice, alla
fine di questa chiacchierata fatta
in una condizione di parità: "Vada
presto in cortile, Claudine, sono le
otto passate, deve mettersi in fila".
"Di che cosa hai parlato così a
lungo là dentro con la signorina?"
mi domanda Anaïs la lunga. "Sei
dunque in buoni rapporti con lei,
ora?"
"Due amicone, cara mia!"
In classe, la piccola Luce si
stringe a me, mi lancia occhiate
affettuose e mi prende le mani,
ma le sue carezze mi irritano; mi
piace
soltanto
picchiarla,
tormentarla, e proteggerla quando
le altre la seccano.
La signorina Aimée entra come
un fulmine nell'aula gridando con
voce
soffocata:
"L'ispettore,
l'ispettore!". Si leva un mormorìo.
Qui tutto serve di pretesto per far
confusione: con la scusa di
disporre
i
libri
in
modo
irreprensibile, abbiamo aperto
tutte le scrivanie e chiacchieriamo
svelte, dietro i coperchi. Anaïs la
lunga fa saltare in aria i quaderni
di Marie Belhomme, del tutto
scombussolata,
e
s'infila
prudentemente in tasca un Gil
Blas illustré, che aveva nascosto
fra due fogli della Storia di
Francia. Io nascondo certe storie
di
bestie
meravigliosamente
narrate da Rudyard Kipling (ecco
uno che conosceva gli animali!),
anche se non sono letture molto
riprovevoli. Si sente un brusìo; ci
alziamo, raccogliamo le carte,
tiriamo fuori i confetti nascosti
nei banchi, perché questo papà
Blanchot, l'ispettore, ha gli occhi
loschi, ma che spiano dappertutto.
La signorina Lanthenay, nella
sua aula, strapazza le ragazzine,
mette in ordine la cattedra, urla e
gira intorno; ed ecco che dalla
terza classe esce la povera Griset,
sgomenta, chiedendo aiuto e
protezione: "Signorina Sergent, il
signor ispettore mi chiederà i
quaderni delle piccole: sono molto
sporchi, le più piccine fanno solo
le aste...". La cattiva Aimée le ride
in faccia; la direttrice risponde
alzando le spalle: "Gli farà vedere
quello che le chiederà, ma se crede
che si occupi dei quaderni delle
sue ragazzine!". E la triste
fanciulla, sgomenta, rientra nella
propria classe, dove le sue bestiole
fanno un chiasso indiavolato,
perché lei non ha un briciolo di
autorità.
Siamo pronte, o poco ci manca.
La signorina Sergent esclama:
"Presto, prendete l'antologia!
Anaïs, sputi immediatamente la
mina che ha in bocca! Parola
d'onore, la scaccio e davanti al
signor Blanchot, se mangia ancora
di queste porcherie! Claudine, non
potrebbe smetterla un minuto di
pizzicare Luce Lanthenay? Marie
Belhomme, smetta di tenere quei
tre scialli sul capo e intorno al
collo;
e
smetta
di
avere
quell'espressione sciocca. Siete
peggio delle piccole della terza
classe (13) e non valete neppure la
corda che ci vorrebbe per
impiccarvi.
Bisogna pure che sfoghi la sua
eccitazione. Le visite dell'ispettore
la infastidiscono sempre perché
Blanchot è in buoni rapporti col
deputato che odia a morte il suo
eventuale sostituto, Dutertre, il
quale protegge la signorina
Sergent.
(Mio
Dio,
com'è
complicata la vita!) Finalmente
tutto è quasi in ordine; Anaïs la
lunga si alza, imbarazzante per
l'altezza, con la bocca ancora
sporca della matita grigia che
stava masticando, e incomincia Il
vestito del piagnucoloso Manuel
(14)
Nell'angusta soffitta ove poca è
la luce/ il marito e la moglie
stavano litigando/ ...
Era tempo! Una grande ombra
passa sui vetri del corridoio, tutta
la classe freme e si alza - per
rispetto - nel momento in cui la
porta si apre davanti a papà
Blanchot. Ha un viso solenne fra
due grandi basette pepe e sale, e
uno spaventoso accento della
Franca Contea.
Pontifica, mastica le parole con
lo stesso piacere con cui Anaïs
mastica la gomma da cancellare; è
sempre vestito con una correttezza
rigida e antiquata, quel vecchio
barbogio! Ne abbiamo per un'ora.
Ci farà domande cretine e ci
dimostrerà che dovremmo tutte
"abbracciare
la
carriera
dell'insegnamento".
Preferirei
persino questo, piuttosto che
abbracciare lui.
"Signorine!...
Figlie
mie,
sedetevi."
Le "sue figlie" si siedono,
modeste e quiete. Io me ne andrei
volentieri. La signorina Sergent si
è affrettata ad andargli incontro
con aria rispettosa e malevolente,
mentre la sua aiutante, la virtuosa
Lanthenay, si è rinchiusa nella
propria aula.
L'ispettore Blanchot posa in un
angolo il bastone con la gruccia
d'argento, e comincia col far
rizzare i capelli alla direttrice (ben
fatto!) trascinandola vicino alla
finestra, per parlare di programmi,
di
diplomi,
zelo,
assiduità,
eccetera! Essa lo ascolta, risponde:
"Sì, signor ispettore". I suoi
occhi si allontanano da lui e si
socchiudono: certamente ha voglia
di picchiarlo. L'altro ha finito di
seccarla, ora tocca a noi.
"Che cosa leggeva questa
giovinetta, quando sono entrato?"
La giovinetta, Anaïs, nasconde
la carta assorbente rosa che stava
masticando e interrompe la storia,
evidentemente
oscena,
che
sussurrava all'orecchio di Marie
Belhomme,
la
quale,
scandalizzata,
paonazza,
ma
attenta, straluna gli occhi da
uccello con un imbarazzo pudico.
Quella sudiciona di Anaïs! Che
cosa mai potranno essere quelle
storie?
"Vediamo, figlia mia, mi dica, a
proposito, quello che leggeva."
"Il vestito, signor ispettore."
"Favorisca ricominciare."
Essa ricomincia con smancerie
di
finta
timidezza,
mentre
Blanchot ci scruta con gli occhi di
un verde sporco. Egli biasima ogni
civetteria, e aggrotta le ciglia
quando vede un nastro di velluto
nero sul collo bianco, o dei
ricciolini che svolazzano sulla
fronte e sulle tempie. Se la prende
con me, a ogni visita, per i miei
capelli sempre sciolti e ricci, e
anche per i grandi colletti bianchi,
pieghettati, che porto sugli abiti
scuri. Sono tuttavia di una
semplicità che mi piace, ma
abbastanza attraente perché lui
giudichi terribilmente riprovevole
il mio modo di vestire. Anaïs la
lunga ha finito Il vestito e lui
gliene fa fare l'analisi logica
(ohibò!) di cinque o sei versi. Poi
le domanda:
"Figlia mia, perché si è legata
quel nastro di velluto nero accanto
(sic) al collo?".
(Eccoci! Che cosa dicevo?
Anaïs,
confusa,
risponde
stupidamente che "le tiene caldo".
Citrulla senza coraggio!)
"Perché le tiene caldo, dice?
Ma non crede che una sciarpa
compirebbe
meglio
codesto
ufficio?"
(Una sciarpa! Perché non un
passamontagna,
vecchio
scocciatore?
Non
posso
trattenermi dal ridere, cosa che
attira la sua attenzione su di me.)
"E lei, figlia mia, perché è così
spettinata e coi capelli sciolti,
invece di tenerli annodati sul capo,
e puntati con forcine?"
"Signor ispettore, mi fa venire
l'emicrania."
"Ma potrebbe almeno portare
le trecce, mi pare?"
"Sì, potrei, ma papà non vuole."
Mi annoia, vi assicuro! Dopo
aver fatto un leggero schiocco con
le
labbra
in
segno
di
disapprovazione, va a sedersi e
tormenta Marie con la guerra di
Secessione; una delle Jaubert, con
le coste della Spagna; e l'altra, coi
triangoli rettangoli. Poi mi chiama
alla lavagna e mi ordina di
tracciare un cerchio. Obbedisco. E'
un cerchio... con un po' di buona
volontà.
"Vi iscriva un rosone a cinque
foglie.
Supponga
che
sia
rischiarato da sinistra, e indichi
con un forte tratteggio le ombre
che le foglie ricevono."
Questo non mi dispiace. Se
avesse voluto farmi scrivere delle
cifre, non me la sarei cavata; ma di
rosoni e ombre me ne intendo. Me
la cavo abbastanza bene, con gran
dispetto delle Jaubert che, chete
chete, speravano di sentirmi
sgridare.
"Va... bene. Sì, va abbastanza
bene. Quest'anno lei fa l'esame di
licenza?"
"Sì, signor ispettore, in luglio."
"Dopo non vuole andare alla
scuola normale?"
"No, signor ispettore, starò a
casa."
"Ah? Credo infatti che lei non
abbia
affatto
la
vocazione
dell'insegnamento. E' peccato."
Me lo dice con lo stesso tono
col quale direbbe: "Credo che lei
sia una infanticida". Pover'uomo,
lasciamogli le sue illusioni! Ma
avrei voluto soltanto che avesse
potuto assistere alla scena di
Armand Duplessis, o anche
all'abbandono in cui ci lasciano
per ore e ore, quando le nostre due
maestre
sono
lassù
a
sbaciucchiarsi...
"Mi faccia vedere la seconda
classe, la prego, signorina."
La signorina Sergent lo
accompagna in seconda, dove
resta con lui per proteggere la sua
piccola favorita dalla severità
dell'ispettore.
Approfittando
dell'assenza,
schizzo alla lavagna una caricatura
di papà Blanchot e delle sue grandi
basette, che rallegra le ragazzine;
vi aggiungo un paio di orecchie
d'asino, poi lo cancello subito e
riprendo il posto, dove la piccola
Luce infila il suo braccio nel mio,
affettuosamente, e tenta di
baciarmi. La allontano con uno
scappellotto, e lei dichiara che
sono "molto cattiva".
"Molto cattiva? Ti insegnerò a
prenderti simili confidenze con
me!
Cerca di imbrigliare i tuoi
sentimenti e dimmi se è sempre la
signorina Griset che passa la notte
nel dormitorio."
"No, Aimée vi ha dormito due
volte due giorni di fila."
"Fa quattro volte. Sei una
stupida; neanche una stupida, una
idiota! Le convittrici stanno più
tranquille quando tua sorella
dorme sotto il baldacchino?"
"Niente affatto. E anzi, una
notte, una scolara si è sentita
male, ci siamo alzate, abbiamo
aperto una finestra, ho persino
chiamato mia sorella perché mi
desse i fiammiferi, che non
riuscivamo a trovare.
Lei non si è mossa, non ha
fiatato, come se non ci fosse stato
nessuno nel letto. Bisogna proprio
che abbia il sonno ben duro, eh?"
"Il sonno duro, il sonno duro!
Che oca! Mio Dio, perché hai
permesso che ci siano su questa
terra
esseri
così
sprovvisti
d'intelligenza? Mi fa piangere
lacrime di sangue!"
"Ma che cos'altro ho fatto di
male?"
"Niente, oh, niente, eccoti
soltanto qualche botta sulle spalle
per educarti il cuore e la mente, e
per insegnarti a non credere agli
alibi della virtuosa Aimée."
Luce si rotola sul banco con un
dolore simulato, felice di venir
strapazzata e percossa. Ma mi
viene in mente una cosa:
"Anaïs, che cosa stavi dunque
raccontando a Marie Belhomme
per farla arrossire in tal modo che
il rosso della Bastiglia è pallido in
confronto?".
"Che Bastiglia?"
"Non
importa.
Dimmelo
subito."
"Avvicinati un po'."
Ha la faccia viziosa e fremente:
devono essere gran brutte cose.
"Ebbene, ecco. Non lo sai? Per
la cena di Natale, l'anno scorso, il
sindaco aveva a casa sua l'amante,
la bella Julotte, e poi il suo
segretario aveva accompagnato
una parigina; alla frutta le hanno
fatte spogliare tutte e due, senza
camicia, e loro hanno fatto lo
stesso, e si sono messi a ballare
così una quadriglia, cara mia!"
"Non c'è male! Chi te l'ha
detto?"
"L'ha raccontato papà alla
mamma; io ero a letto, però
lasciano sempre aperta la porta
della camera, perché faccio finta di
avere paura e allora sento tutto."
"Non ti annoi. Ne racconta
spesso tuo padre di storie di
questo genere?"
"No, non sempre così belle; ma
qualche volta mi sbellico dalle risa
nel letto."
Mi racconta anche
altri
pettegolezzi piuttosto sporchi di
tutto il mandamento; suo padre,
impiegato al municipio, conosce a
fondo la cronaca scandalosa del
paese. Io l'ascolto e il tempo passa.
Torna la signorina Sergent;
abbiamo appena il tempo di
riaprire i libri a caso; ma lei viene
dritta verso di me, senza guardare
quello che facciamo:
"Claudine,
potrebbe
fare
cantare le compagne davanti
all'ispettore Blanchot? Ora sanno
quel bel coro a due voci: In questo
dolce asilo".
"Va bene; però l'ispettore è così
disgustato di vedermi coi capelli
sciolti che non mi ascolterà!"
"Non dica sciocchezze, non è il
momento; le disponga subito.
L'ispettore Blanchot sembra
poco soddisfatto della seconda
classe; conto sulla musica per
fargli passare il malumore."
Non stento a credere che deve
essere molto poco soddisfatto
della seconda classe: la signorina
Lanthenay se ne occupa tutte le
volte che non ha nient'altro da
fare: carica le bambine di compiti
scritti per poter chiacchierare
tranquillamente con la cara
direttrice,
mentre
quelle
scribacchiano. Io sono disposta a
fare cantare le scolare. Per quello
che mi costa!
La
signorina
Sergent
riaccompagna in classe l'odioso
Blanchot;
io
dispongo
a
semicerchio le mie compagne e la
prima sezione della seconda;
affido le prime ad Anaïs, le
seconde a Marie Belhomme (che
disgraziate le seconde!). E io
canterò insieme le due parti, cioè
cambierò subito quando sentirò
indebolirsi uno dei lati. Avanti!
Una battuta a vuoto: uno, due, tre.
In questo dolce asilo/ i savi
son coronati./ Venite!/ Ai piaceri
tranquilli/ questi bei luoghi son
destinati/ ...
Che
fortuna!
Questo
rinsecchito ex studente della
scuola normale segna col capo il
ritmo della musica di Rameau
(d'altronde sbagliando), e sembra
rapito. E' la solita storia del
compositore
Orfeo
che
addomestica le fiere.
"E' ben cantato. Di chi è? Di
Gounod, credo?"
(Perché pronuncia Gounode?)
"Sì, signor ispettore." (Non
contraddiciamolo.)
"Mi sembrava che andasse
bene. E' un bellissimo coro."
(Bellissimo coro sarai tu!)
Sentendo questa inaspettata
attribuzione di un'aria di Rameau
all'autore del Faust, la signorina
Sergent si morde le labbra per non
ridere. In quanto a Blanchot,
rasserenato, si lascia sfuggire
qualche parola gentile, e se ne va,
dopo averci dettato - la freccia del
parto! - il seguente schema di
componimento:
"Spiegate e commentate questo
pensiero di Franklin: "L'ozio è
come la ruggine, consuma più del
lavoro"".
Coraggio! Alla chiave lustra,
dai contorni arrotondati, che la
mano leviga e gira tante volte al
giorno,
nella
serratura,
contrapponiamo la chiave corrosa
dalla ruggine rossastra. Il bravo
operaio che lavora allegramente,
alzato sin dall'alba, i cui forti
muscoli eccetera... facciamone un
parallelo
con
l'ozioso
che,
languidamente sdraiato sui divani
orientali, vede sfilare sulla tavola
sontuosa eccetera... i cibi rari...
eccetera... che tentano invano di
risvegliargli l'appetito... eccetera.
Oh, oh, è presto fatto!
Come se non fosse bello oziare
in una poltrona! Come se gli
operai che lavorano tutta la vita
non morissero giovani e sfiniti!
Macché, non bisogna dirlo. Nel
"programma degli esami" le cose
non vanno come nella vita.
La piccola Luce è povera d'idee
e geme sommessamente perché
gliene
fornisca.
La
lascio
generosamente leggere quello che
ho scritto, non mi ruberà un gran
che.
Finalmente le quattro. Ce ne
andiamo. Le convittrici salgono a
prendere la merenda preparata
dalla madre della signorina
Sergent; io me ne vado con Anaïs e
Marie Belhomme, dopo essermi
guardata nei vetri per vedere se
non mi sono messa il cappello di
traverso.
Per strada diciamo male di
Blanchot. Mi annoia quel vecchio,
che ci vorrebbe sempre vestite di
tela di sacco e coi capelli tirati!
"Credo che comunque non
sarebbe molto soddisfatto della
seconda classe," osserva Marie
Belhomme "e se tu non l'avessi
conquistato con la musica!"
"Sfido," fa Anaïs "la signorina
Lanthenay
prende
un
po'
sottogamba la sua classe."
"Hai certe espressioni! Non
può far tutto, andiamo! La
signorina Sergent l'ha legata alla
sua persona, la veste lei al
mattino."
"Questa è una frottola!"
esclamano insieme Anaïs e Marie.
"Niente affatto! Se mai andrete
nel dormitorio e nella camera
delle maestre (è facilissimo, non
c'è che da portarvi l'acqua con le
convittrici), passate la mano sul
fondo del catino della signorina
Aimée e non temete di bagnarvi,
non c'è che polvere."
"No, è troppo grossa però"
dichiara Marie Belhomme.
Anaïs la lunga non aggiunge
nulla e se ne va pensierosa; senza
dubbio racconterà questi piacevoli
particolari al giovanotto col quale
civetta questa settimana. So
pochissimo delle sue scappatelle:
rimane impenetrabile e beffarda
quando le tasto il polso su questo
argomento.
Mi annoio a scuola, brutto
segno, e sintomo completamente
nuovo.
Tuttavia non sono innamorata
di nessuno (anzi è forse per
questo).
Faccio
i
compiti
quasi
diligentemente, tanta è la mia
apatia, e vedo tranquillamente le
nostre maestre che si carezzano, si
sbaciucchiano, litigano per il
piacere di amarsi ancora di più,
dopo. Ora hanno gesti e parole
così liberi l'una con l'altra che
Rabastens, nonostante la sua
faccia tosta, se ne spaventa e
balbetta a più non posso. Allora gli
occhi di Aimée sprizzano scintille
dalla gioia, come quelli di una
gatta maliziosa, e la signorina
Sergent ride vedendola ridere.
Sono sorprendenti, parola d'onore!
Non ci si può immaginare come
sia diventata esigente la piccola!
L'altra muta espressione a un suo
cenno, a un aggrottarsi delle sue
ciglia vellutate.
Attenta dinanzi a questa tenera
intimità, la piccola Luce spia,
intuisce, impara. Impara anche
troppo, perché coglie tutte le
occasioni di stare sola con me, mi
si strofina addosso, mi vezzeggia,
quasi chiude gli occhi verdi e
schiude la boccuccia fresca; no,
non mi tenta. Perché non si
rivolge ad Anaïs la lunga, che
s'interessa anche lei dei giochi
delle due colombelle che ci fanno
da maestre a tempo perso, e che se
ne stupisce molto, perché ha certi
lati
d'ingenuità
abbastanza
curiosi!
Questa mattina l'ho picchiata
sodo, la piccola Luce, perché
voleva abbracciarmi nella rimessa
dove si mettono gli innaffiatoi:
non ha gridato e si è messa a
piangere, finché l'ho consolata
accarezzandole i capelli. Le ho
detto:
"Cretina, avrai bene il tempo di
effondere il tuo eccesso di
tenerezza più tardi, quando
entrerai alla scuola normale!".
"Sì, ma non ci verrai anche tu!"
"No, certamente! Ma tu non ci
sarai neppure da un paio di giorni
che due del terzo anno avranno già
litigato per colpa tua, schifosa
bestiolina!"
Si lascia insolentire con voluttà
e mi lancia occhiate riconoscenti.
Forse è perché mi hanno
cambiato la vecchia scuola che mi
annoio in questa? Non ho più
quegli "angolini" dove ci si
nascondeva fra la polvere, né i
corridoi di quel vecchio edificio
complicato, nel quale non si
sapeva mai se ci si trovava dalla
parte dei maestri o nella nostra, e
dove si sbucava tanto facilmente
nella camera di un maestro che
non era quasi necessario scusarsi
rientrando in classe.
E' forse perché invecchio?
Risento forse i sedici anni che
compio?
Ecco davvero una cosa stupida.
E' forse la primavera? E' anche
troppo
bella,
è
persino
sconveniente! Il giovedì e la
domenica me ne vado sola soletta
a trovare la mia compagna della
prima comunione, la piccola
Claire, seriamente imbarcata in
una
stupida
avventura
col
segretario comunale che non
vuole sposarla. Perbacco, ne
sarebbe gravemente impedito;
sembra
che
abbia
subito
un'operazione, mentre era ancora
in collegio, in seguito a una strana
malattia, una di quelle di cui non
si nomina mai la "posizione"; e
affermano che, pur desiderando
ancora le donne, non può
"soddisfare molto i loro desideri".
Non capisco molto bene, capisco
anzi piuttosto male, ma mi
affanno a riferire a Claire ciò che
ho appreso confusamente. Essa
alza al cielo gli occhi scialbi,
scrolla il capo, e risponde con
moine estatiche: "Ah, che cosa
importa, che cosa importa? E' così
bello, ha un paio di baffi così
sottili, e poi, le cose che dice mi
rendono tanto felice! E poi mi
bacia sul collo, mi parla della
poesia, dei tramonti, che cos'altro
vuoi che chieda?". Infatti, poiché
le basta...
Quando sono stufa delle sue
divagazioni, le dico, perché mi
lasci sola, che torno da papà, e non
ci torno. Resto nei boschi, cerco
un cantuccio più delizioso degli
altri, e mi ci sdraio. Intere legioni
di bestiole corrono per terra, sotto
il mio naso (anzi talvolta si
comportano molto male, ma sono
così piccine!) e si sentono
un'infinità di profumi; c'è l'odore
delle piante fresche che si
scaldano... O miei cari boschi!
A scuola, dove arrivo in ritardo
(stento ad addormentarmi, le idee
mi ballano davanti appena ho
spento la lampada), trovo in
cattedra la signorina Sergent,
dignitosa e corrucciata; e tutte le
ragazzine assumono i visi di
circostanza,
sostenuti
e
cerimoniosi. Che cos'è?
Ah, Anaïs la lunga, accasciata
sul banco, fa tali sforzi per
singhiozzare che le orecchie le
sono diventate viola. Ci sarà da
divertirsi! Sgattaiolo accanto alla
piccola Luce che mi bisbiglia
all'orecchio: "Cara mia, hanno
trovato nel banco di un ragazzo
tutte le lettere di Anaïs; il maestro
le ha portate qui perché le legga la
direttrice".
Essa, infatti, le legge, ma
sommessamente, solo per sé. Che
disgrazia, mio Dio, che disgrazia!
Darei volentieri tre anni della vita
di Rabas-tens (Antonin), per
sfogliare quella corrispondenza.
Oh, chi ispirerà alla rossa di
leggercene ad alta voce due o tre
brani ben scelti! Ohimè, la
signorina Sergent ha finito... Senza
dire nulla ad Anaïs sempre
accasciata sul banco, s'alza
solennemente, si dirige, a passi
misurati, verso la stufa, accanto a
me; l'apre, vi depone i fogli
scandalosi, piegati in quattro,
accende un fiammifero e vi dà
fuoco, poi richiude lo sportello.
Drizzandosi, dice alla colpevole:
"I miei rallegramenti, Anaïs, lei
la sa più lunga di tanti adulti.
Io la tengo sino all'esame,
perché è iscritta, ma dichiarerò ai
suoi genitori che declino ogni
responsabilità a suo riguardo.
Copiate i problemi, signorine, e
non occupatevi più di costei che
non se lo merita".
Incapace di sopportare il
tormento di sentire bruciare la
letteratura di Anaïs, ho preso,
mentre la direttrice si esprimeva
solennemente, la riga piatta che
mi serve per il disegno: l'ho
infilata sotto il banco e, a rischio
di farmi sorprendere, me ne sono
servita per spingere la piccola
maniglia che smuove la valvola del
tiraggio. Non hanno visto nulla;
forse la fiamma, così soffocata,
non brucerà tutto; lo saprò dopo la
scuola. Ascolto; la stufa smette di
crepitare in capo a qualche
secondo. Non suoneranno presto
le undici?
Come penso poco a quello che
copio, alle "2 pezze di tela che,
dopo il bucato, si restringono di
1/19 in lunghezza e di 1/22 in
larghezza"!
Potrebbero
restringersi ancora molto di più
senza interessarmi.
La signorina Sergent ci lascia e
va nella classe di Aimée, senza
dubbio per raccontarle la bella
storia e riderne con lei. Appena è
sparita, Anaïs alza il capo, noi la
osserviamo avidamente, ha le
guance chiazzate, gli occhi gonfi a
forza di fregarli, e guarda
ostinatamente
il
proprio
quaderno. Marie Belhomme si
china verso di lei e le dice, con una
tumultuosa simpatia: "Bene, cara
mia, credo che ti picchieranno, a
casa. Dicevi tante cose nelle tue
lettere?".
Essa non alza gli occhi e
risponde ad alta voce perché
sentiamo tutte: "Non me ne
importa, le lettere non le ho scritte
io". Le ragazzine si scambiano
occhiate piene d'indignazione:
"Puoi ben crederlo, cara mia! Cara
mia, che bugiarda!".
Finalmente suona l'ora. Mai è
stata così lenta a venire l'ora
dell'uscita! Mi attardo a mettere in
ordine il banco per rimanere
ultima.
Fuori,
dopo
aver
camminato per una cinquantina di
metri, faccio finta di aver
dimenticato l'atlante e lascio Anaïs
per volare a scuola: "Mi aspetti,
vuoi?".
Mi precipito silenziosamente
nella classe vuota e apro la stufa;
vi trovo una manciata di carte
mezzo bruciate che tolgo con
circospezione
materna.
Che
fortuna! La parte superiore e
quella inferiore sono andate
perdute, ma lo strato di mezzo è
quasi intatto; è proprio la
calligrafia di Anaïs. mi porto via il
pacco nella cartella per leggere le
lettere a casa comodamente, e
raggiungo Anaïs, calma, che
gironzola in attesa; riprendiamo la
strada insieme; essa mi sbircia di
sotto in su. A un tratto si ferma di
colpo e sospira per l'angoscia...
Vedo i suoi sguardi fissi sulle mie
mani, ansiosamente, e mi accorgo
che sono annerite dalla carta
bruciata che ho toccato. Non le
dirò certo una bugia. Prendo
l'offensiva:
"Ebbene, che c'è?".
"Ci sei andata, eh, a frugare
nella stufa?"
"Certo che ci sono andata! Non
c'è pericolo che lasci perdere
un'occasione simile di leggere le
tue lettere!"
"Sono bruciate?"
"Fortunatamente
no;
to',
guarda qui dentro."
Le faccio vedere le lettere,
tenendole strette. Mi saetta
addosso
sguardi
veramente
omicidi, ma non osa avventarsi
sulla mia cartella, sapendo bene
che la picchierei! La consolerò un
poco; mi fa quasi pena.
"Senti, leggerò quanto non è
bruciato, perché mi fa troppo
voglia; e poi ti riporterò tutto
questa sera. Non sono poi tanto
cattiva?"
E' molto diffidente.
"Parola
d'onore,
te
le
consegnerò durante la ricreazione
prima di rientrare in classe."
Se ne va sconvolta, inquieta,
più gialla e più lunga del solito.
A casa, spulcio finalmente
queste
lettere. Una grande
delusione!
Non sono quello che credevo.
Un miscuglio di sentimentalismi
sciocchi e d'informazioni pratiche:
"Penso sempre a te quando c'è il
chiaro di luna... Bada di riportare
giovedì al campo di Vrimes il sacco
di grano che avevi preso l'ultima
volta; se la mamma mi vedesse il
vestito macchiato di verde, farebbe
un gran chiasso!". E poi qualche
allusione poco chiara, che deve
rammentare al giovane Gangneau
certi episodi lascivi... Insomma, sì,
una delusione. Le restituirò le sue
lettere, molto meno divertenti di
lei che è fantasiosa, fredda e buffa.
Gliele ho restituite, non
credeva ai propri occhi. Tutta
pervasa dalla gioia di rivederle,
non le importa affatto che io le
abbia lette; è corsa a gettarle nei
gabinetti, e ora ha ripreso la sua
espressione
chiusa
e
impenetrabile, molto umiliata.
Felice carattere!
Ahimè, mi sono buscata un
raffreddore! Me ne sto nella
biblioteca di papà, a leggere la
stravagante Storia di Francia del
Michelet,
scritta
in
versi
alessandrini (forse esagero un
po'?). Non mi annoio affatto, bene
installata in questa grande
poltrona, circondata di libri, con la
mia bella Fanchette, questa gatta
più intelligente di tutte le gatte,
che mi ama con tanto disinteresse
nonostante i dispetti che le faccio,
i morsi che le do sulle orecchie
rosee
e
il
complicato
addestramento che la costringo a
subire.
Mi ama al punto di capire
quello che dico, e di venirmi a
carezzare la bocca quando sente il
suono della mia voce. Ama anche i
libri come un vecchio sapiente,
questa Fanchette, e mi tormenta
tutte le sere dopo pranzo perché io
tolga dallo scaffale due o tre grossi
Larousse di papà: il vuoto che
lasciano forma una specie di
cameretta
quadrata
dove
Fanchette s'installa per lavarsi;
richiudo il vetro su lei, e il ronfare
della prigioniera vibra incessante
come un rullo di tamburo velato.
Di tratto in tratto la guardo, allora
mi fa segno con le sopracciglia,
che alza come un essere umano.
Bella
Fanchette,
come
sei
interessante e comprensiva (molto
più di Luce Lanthenay, quella
gatta inferiore!). Tu mi diverti, da
quando sei venuta al mondo; non
avevi che un solo occhio aperto, e
già cercavi di avanzare a passi
bellicosi nella tua cesta, ancora
incapace di reggerti, sui tuoi
quattro stecchi; poi, tu vivi
allegramente, e mi fai ridere, con
le tue danze del ventre in onore
dei maggiolini e delle farfalle, coi
goffi richiami agli uccellini che
aspetti al varco, per il modo che
hai di litigare con me e di darmi
colpi secchi che mi risuonano
duramente sulle mani. Hai una
condotta molto vergognosa: due o
tre volte all'anno, ti trovo in
giardino, sui muri, con un'aria
pazza, ridicola, circondata da una
folla di gatti. Conosco persino il
tuo favorito, perversa Fanchette: è
un micione grigio sporco, lungo,
magro, spelacchiato, con le
orecchie da coniglio e le zampe
volgari.
Come
puoi
unirti
vergognosamente
con
questa
bestia di abbietta origine, e così
spesso? Ma persino in questi
periodi di follia, quando mi vedi,
riprendi
per
un
momento
l'espressione naturale, mi miagoli
in tono amichevole qualcosa
come: "Vedi, sono ridotta così;
non disprezzarmi troppo, la natura
ha le sue esigenze, ma tornerò
presto e mi leccherò a lungo per
purificarmi di questa esistenza
vergognosa". O bella Fanchette
bianca, come ti si addice di
comportarti male!
Quando mi è passato il
raffreddore, mi accorgo che a
scuola ci si comincia ad agitare
molto per i prossimi esami. Siamo
alla fine di maggio e le prove
incominciano
il
5
luglio!
Rimpiango di non essere più
emozionata, ma le altre lo sono
abbastanza
anche
per
me,
soprattutto la piccola Luce
Lanthenay che ha vere crisi di
lacrime quando prende un brutto
voto. In quanto alla signorina
Sergent, si occupa di tutto, ma più
di tutto della piccola dai begli
occhi che le fa girare la testa.
Questa Aimée è fiorita in modo
sorprendente! La sua meravigliosa
carnagione, la pelle vellutata, gli
occhi
"da
coniarne
delle
medaglie", come dice Anaïs, la
rendono una creaturina maligna e
trionfante. E' tanto più bella
dell'anno
scorso!
Non
si
noterebbe, ora, che ha il viso
leggermente
schiacciato, che,
quando sorride, il labbro sinistro
ha una piccola sporgenza; e
comunque, ha i denti aguzzi così
bianchi! La sua rossa innamorata
viene meno solo a guardarla, e
non resiste quasi più davanti a noi
al folle desiderio di abbracciare
ogni momento la favorita...
In questo pomeriggio caldo, la
scolaresca ripete con un mormorìo
il brano di antologia che dobbiamo
recitare alle tre; quasi sonnecchio,
spossata da una pigrizia nervosa.
Non ne posso più, e, a un tratto,
ho voglia di graffiare, di stirarmi
violentemente e di schiacciare le
mani a qualcuno; capita che
questo qualcuno sia Luce, la mia
vicina.
Le ho afferrato la nuca, e vi ho
affondato le unghie; per fortuna
non ha detto nulla. Ricado nel mio
languore irritato...
Si apre la porta senza che
nessuno abbia neppure bussato: è
Dutertre, con una cravatta chiara, i
capelli
sparsi
al
vento,
ringiovanito e battagliero. La
signorina Sergent, alzatasi, lo
saluta appena e lo ammira
appassionatamente; il ricamo le è
caduto per terra. (Lo ama più di
Aimée? O Aimée più di lui? Che
donna strana!)
La scolaresca si è alzata. Per
malignità resto seduta in modo
che Dutertre, quando si volta
verso di noi, mi osserva subito.
"Buongiorno,
signorina.
Buongiorno, piccine. Come sei
deperita!"
"Sono fiacca. Non mi sento più
le ossa."
"Sei malata?"
"No, non credo. E' il tempo,
l'apatia."
"Vieni qui, voglio vederti."
Stanno per ricominciare queste
scuse mediche per fare esami
prolungati? La direttrice mi lancia
sguardi
infiammati
d'indignazione, per il mio modo di
comportarmi, di parlare col suo
caro ispettore. No, non mi metterò
certo in soggezione! D'altronde gli
piacciono enormemente questi
modi sconvenienti. Mi trascino
pigramente sino alla finestra.
"Non ci si vede, qui, a causa di
questa ombra verde degli alberi.
Vieni nel corridoio, c'è il sole.
Hai una cera orribile, piccina mia."
(Triplice bugia! Ho una bella
cera, me ne intendo; se mi crede
malata per gli occhi pesti, sbaglia:
è buon segno, io sto bene quando
ho gli occhi cerchiati. Per fortuna
sono le tre del pomeriggio,
altrimenti non mi sentirei troppo
sicura andando, sia pure nel
corridoio a vetri, con questo
individuo del quale diffido come
del fuoco.)
Appena ha richiuso la porta
alle nostre spalle, mi volto verso di
lui e gli dico:
"Ma no, andiamo, non ho l'aria
malata; perché lo dice?".
"No? E quegli occhi cerchiati
sino alle labbra?"
"Ebbene, è il colore della mia
pelle, ecco!"
Si è seduto sul banco e mi
tiene in piedi davanti a lui, contro
le ginocchia.
"Sta' zitta, dici sciocchezze.
Perché hai sempre l'aria di essere
in collera con me?"
"...?"
"Sì, tu mi capisci. Hai un
visino, sai, che frulla nel cervello,
quando lo si è visto."
(Io rido stupidamente. O
eterno Padre, mandami un po' di
spirito, e risposte sottili, perché
sento di esserne completamente
priva!)
"E' vero che vai sempre sola a
passeggiare nei boschi?"
"Sì, è vero. Perché?"
"Perché, canaglia, vai a trovare
un innamorato, forse? Sei così ben
sorvegliata!"
Alzo le spalle:
"Lei conosce bene come me
tutta la gente di qui; mi ci vede un
innamorato fra questi?".
"E' vero. Ma saresti abbastanza
viziosa..."
Mi stringe le braccia, brillano
gli occhi e i denti. Che caldo qui!
Preferirei che mi lasciasse
tornare in classe.
"Se non stai bene, perché non
vieni a consultarmi in casa mia?"
Rispondo troppo presto: "No!
Non ci verrò..." e cerco di liberare
le braccia, ma mi tiene stretta e
alza verso di me degli occhi
ardenti e cattivi... ma anche belli, è
vero.
"O piccina, piccola seduttrice,
perché hai paura? Hai proprio
torto ad avere paura di me! Credi
che sia un mascalzone? Non
avresti nulla da temere, nulla. O
piccola Claudine, mi piaci tanto,
con quegli occhi di un bruno caldo
e i riccioli folli! Sei fatta come una
adorabile statuina, ne sono
sicuro..."
Si drizza bruscamente, mi
stringe fra le braccia e mi bacia;
non ho avuto il tempo di scappare,
è troppo forte e troppo nervoso, e
ho una confusione nel cervello...
Che razza di avventura! Non so
più quel che dico, mi gira la testa...
Tuttavia non posso rientrare in
classe, rossa e sconvolta come
sono, e lo sento dietro a me: vorrà
abbracciarmi ancora, di certo...
Apro la porta del pianerottolo,
scendo nel cortile sino alla pompa
dove bevo una ciotola d'acqua.
Uff!... Bisogna tornare su... Ma
deve
essersi
nascosto
nel
corridoio.
Ah, e poi via! Griderò se
cercherà di riafferrarmi... Mi ha
baciata all'angolo della bocca, non
potendo
fare
di
meglio,
quell'animale!
No, non e più nel corridoio, che
fortuna! Rientro nell'aula, e lo
vedo in piedi, vicino alla cattedra,
che chiacchiera tranquillamente
con la signorina Sergent. Mi siedo
al posto, mi squadra e domanda:
"Non hai bevuto troppa acqua,
almeno? Queste ragazzine buttano
giù ciotole intere di acqua fredda:
fa molto male".
Davanti a tutti sono più
coraggiosa.
"No, non ne ho bevuto che un
sorso, è quanto basta; non ne
prenderò più."
Ride con aria contenta:
"Sei buffa, e non sei troppo
sciocca".
La signorina Sergent non
capisce, ma l'inquietudine che le
faceva aggrottare le ciglia sparisce
a poco a poco; non ha più che
disprezzo
per
il
contegno
deplorevole che affetto davanti al
suo idolo.
Ho caldo, io: è stupido! Anaïs
la lunga ha subodorato qualcosa di
sospetto e non può trattenersi dal
domandarmi: "Ti ha dunque
ascoltata molto da vicino, che sei
così sossopra?". Ma non sarà lei a
farmi parlare: "Come sei stupida!
Ti dico che vengo dalla pompa". La
piccola Luce, a sua volta, si
strofina contro di me come una
gatta irritata e si arrischia a
domandarmi: "Dimmi, Claudine
mia, ma perché ti ha condotta via
così?".
"Prima di tutto, io non sono la
"tua" Claudine; e poi ciò non ti
riguarda,
canaglia.
Doveva
consultarmi sul conguaglio delle
pensioni.
Va bene?"
"Tu non vuoi mai dirmi niente,
e io ti dico tutto!"
"Tutto che cosa? Mi è molto
utile sapere che tua sorella non
paga il suo mantenimento, né il
tuo, e che la signorina Olympe la
colma di regali, e che porta sottane
di seta, e che..."
"Zitta, taci, ti prego! Sarei
rovinata, se sapessero che ti ho
raccontato tutte queste cose!"
"Allora non domandarmi nulla.
Se sei buona, ti darò la mia bella
riga di ebano, che ha le filettature
di ottone."
"Oh, come sei gentile. Ti
abbraccerei volentieri, ma ti
dispiace..."
"Basta; te la darò domani, se ne
avrò voglia!"
Perché la passione degli
"oggetti
di
cancelleria"
va
diminuendo in me, e anche questo
è un gran brutto segno. Tutte le
mie compagne (e io ero come loro
sino a poco fa) vanno pazze per i
"rifornimenti
scolastici":
ci
roviniamo in quaderni di carta con
la filigrana e la copertina a riflessi
metallici, in matite di legno di
rosa, in astucci laccati, così lustri
da specchiarcisi, in penne di legno
d'olivo, in righe di mogano e
d'ebano come la mia che ha i
quattro spigoli di ottone, e davanti
alla quale impallidiscono d'invidia
le convittrici troppo povere per
potersene concedere d'uguali.
Abbiamo grandi cartelle da
avvocato di marocchino più o
meno del Levante, più o meno
pressato. E se le scolarette, come
strenna, non si fanno rilegare i
testi scolastici con copertine
appariscenti, se non lo faccio
neanch'io, è soltanto perché non
sono di nostra proprietà.
Appartengono al comune, che
ce li fornisce generosamente, con
l'obbligo di consegnarli alla scuola
quando la lasciamo per non
ritornarvi più. Perciò odiamo
questi libri del comune: non li
sentiamo nostri e gli facciamo
orribili scherzi; capitano loro
disgrazie impreviste e strane;
certuni hanno preso fuoco accanto
alla stufa, d'inverno; se ne sono
visti certi sui quali i calamai si
rovesciavano
con
speciale
predilezione; ma sì, attirano la
folgore. E tutte le disgrazie che
capitano agli sfortunati "libri del
comune" sono oggetto di lunghe
lamentele
della
signorina
Lanthenay e di terribili sgridate
della signorina Sergent.
Dio, come sono stupide le
donne! (Ragazzine e donne è
tutt'uno.)
Chi crederebbe che, dopo i
"colpevoli tentativi" di quel
forsennato Dutertre su di me,
provo una specie di vaga fierezza?
Questa constatazione è molto
umiliante per me. Ma lo so
perché; in fondo, mi dico:
"Siccome quell'uomo, che ha
conosciuto un'infinità di donne, a
Parigi e dappertutto, mi trova
attraente, vuol dire che non sono
molto brutta!". Ecco: è un piacere
della vanità. Dubitavo di non
essere ripugnante, ma mi piace
esserne sicura. E poi, sono
contenta di avere un segreto che
Anaïs la lunga, Marie Belhomme,
Luce Lanthenay e le altre non
sospettano.
Ora la scolaresca è ben
ammaestrata. Tutte le ragazzine,
sino alla terza sezione compresa,
sanno che non bisogna mai
entrare durante la ricreazione in
un'aula dove si siano chiuse le
maestre. Certo non abbiamo
imparato in un giorno! Siamo
entrate infinite volte, l'una o l'altra
di
noi,
nell'aula
dove
si
nascondeva l'amorosa coppia. Ma
le
sorprendevamo
così
teneramente avvinte, o tanto
assorte nel loro parlottare, oppure
la signorina Sergent teneva sulle
ginocchia la piccola Aimée con
tanto abbandono, che anche le più
stupide ne rimanevano confuse e
subito scappavano via, sentendosi
dire dalla rossa: "Ma che altro
volete?",
spaventate
dall'aggrondarsi feroce delle folte
sopracciglia di lei. Io, come le
altre, ho fatto spesso irruzione, e
talora persino non di proposito: le
prime volte, quando entravo io, ed
esse stavano troppo vicine, si
alzavano vivamente, oppure una
fingeva di annodare i capelli
disfatti dell'altra; poi hanno finito
col non avere più soggezione di
me. Allora non mi ci sono più
divertita.
Rabastens non viene più;
parecchie volte ha dichiarato di
essere "troppo intimidito da
questa intimità", e tale modo di
esprimersi gli sembrava una
specie di gioco di parole che gli
piaceva molto. Non pensano più
che a se stesse. L'una segue i passi
dell'altra, cammina nella sua
ombra; si amano in modo così
completo, che non penso più a
tormentarle e sono quasi invidiosa
del loro delizioso oblio di ogni
altra cosa.
Ecco!
Ci
siamo; doveva
accadere! Tornando a casa, trovo
una lettera della piccola Luce in
una tasca della cartella.
""Mia cara Claudine,
"Io ti amo tanto, ma tu hai
sempre l'aria di non accorgertene,
e io deperisco per il dispiacere. Sei
buona e cattiva con me: non vuoi
prendermi sul serio, mi tratti
come un cagnolino. Ne provo un
dispiacere
che
non
puoi
immaginare. Vedi tuttavia come
potremmo essere contente tutt'e
due. Guarda mia sorella Aimée e
la signorina: sono cosi felici che
non pensano più a nulla. Ti prego,
se non sei in collera per questa
lettera, di non dirmi nulla domani
mattina a scuola: lì per lì sarei
troppo
imbarazzata.
Saprò
soltanto dal tuo modo di parlarmi,
se vuoi o se non vuoi essere la mia
grande amica.
"Ti abbraccio con tutto il cuore,
cara Claudine mia, e conto anche
su te perché bruci questa lettera,
siccome so che non vorresti farla
vedere ad altri per non procurarmi
delle noie. Non è tua abitudine.
Ti abbraccio ancora molto
teneramente e aspetto domani con
tanta impazienza!
"La tua piccola Luce.""
Ebbene no, non voglio! Se mi
attirasse, lo farei con qualcuno più
forte e più intelligente di me, che
mi schiacciasse un po', a cui
potessi obbedire, e non con una
bestiolina viziosa che forse non è
priva di fascino, che graffia e
miagola solo per una carezza, ma
troppo inferiore. Non mi piacciono
le persone che domino. La sua
lettera, carina e senza malizia, l'ho
stracciata subito e ne ho messi i
pezzi
in
una
busta
per
restituirglieli.
L'indomani mattina vedo un
visetto preoccupato che mi
attende, schiacciato contro i vetri.
Povera Luce, i suoi occhi verdi
sono diventati più chiari per
l'ansia! Peggio per lei, non posso
tuttavia accontentarla, solo per
farle piacere...
Entro; per fortuna, è sola
soletta.
"To', piccola Luce, ecco i pezzi
della tua lettera; vedi che non l'ho
tenuta a lungo."
Lei non risponde nulla e
prende macchinalmente la busta.
"Però, pazzerella, che cosa
andavi a fare in quella galera...
voglio dire in quella galleria del
primo piano, (15) dietro al buco
della serratura dell'appartamento
della signorina Sergent? Ecco a
che cosa ti ha spinto! Però, io non
posso fare niente per te."
"Oh!" esclama atterrita.
"Ma sì, povera piccina mia.
Non è per virtù, te lo immagini; la
mia virtù è ancora troppo piccina,
non la tiro fuori. Ma, vedi, nella
mia prima giovinezza mi ha
infiammato una grande passione,
ho addolorato un uomo che è
spirato facendomi giurare sul letto
di morte di non..."
M'interrompe, gemendo:
"Ecco, ecco, mi prendi in giro
per giunta; io non volevo scriverti,
sei senza cuore. Oh, come sono
infelice! Oh, come sei cattiva!".
"E poi mi stordisci, alla fine!
Guarda un po' che chiassata! Vuoi
scommettere che ti allungo un po'
di scapaccioni per ricondurti sulla
via del dovere?"
"Ah, che cosa me ne importa!
Oh, ho proprio voglia di ridere!..."
"To', razzaccia di femmina!
Dammi la ricevuta."
Ha incassato un potente
schiaffo che ha per effetto di farla
tacere subito; mi guarda di sotto
in su con occhi teneri e piange, già
consolata, fregandosi la faccia. E'
straordinario come le piace essere
battuta.
"Ecco Anaïs e molte altre, cerca
quindi di assumere un'aria quasi
per bene; stiamo per entrare in
classe, scendono le due tortorelle."
Soltanto quindici giorni prima
degli esami! Il mese di giugno ci
spossa:
stiamo
arrostendo,
insonnolite, nelle aule; stiamo
zitte per pigrizia. Trascuro persino
il
diario!
E
con
questa
temperatura
da
incendio
dobbiamo per giunta giudicare la
condotta di Luigi XV, descrivere la
funzione del succo gastrico nella
digestione, disegnare foglie di
acanto, e dividere l'apparato
uditivo in orecchio interno,
orecchio medio e orecchio esterno.
Non c'è giustizia sulla terra!
Luigi XV ha fatto quello che ha
voluto, non mi riguarda; oh, Dio
mio, no, riguarda me meno di
qualsiasi altra persona!...
Il caldo è tale che si perde
l'istinto
della
civetteria,
o
piuttosto la civetteria si modifica
sensibilmente, ora: si mostra un
po' di pelle. Incomincio a portare
vestiti con scollature quadrate, un
po' medioevali, con maniche che si
fermano al gomito. Abbiamo le
braccia ancora un po' sottili, ma
tuttavia graziose, e in quanto al
collo non temo rivali! Le altre mi
imitano: Anaïs non porta le
maniche corte, ma ne approfitta
per rimboccare le sue sino alla
spalla; Marie Belhomme mostra
delle braccia imprevedibilmente
grassocce al di sopra delle mani
magre, un collo fresco e destinato
a ingrossare. Ah, Signore, che cosa
non si mostrerebbe con una
temperatura simile! In gran
segreto sostituisco le calze con i
calzini. In capo a tre giorni, lo
sanno tutte, se lo ripetono, e mi
pregano sottovoce di alzare la
sottana.
"Fa' vedere i calzini, se è vero?"
"To'!"
"Che fortunata! Comunque, io
non ne avrei il coraggio!"
"Perché, per le convenienze?"
"Sfido..."
"Lascia stare, io lo so il perché;
hai le gambe pelose!"
"Oh, gran bugiarda! Potete
guardare, non ne ho più di te;
solamente mi vergognerei di
sentire le gambe completamente
nude sotto il vestito!"
La piccola Luce
mostra
timidamente un po' di pelle, una
pelle bianca e morbida da far
meraviglia; e Anaïs la lunga
invidia questa bianchezza al punto
di punzecchiarle le braccia con
l'ago durante le lezioni di cucito.
Addio riposo! L'avvicinarsi
degli esami, l'onore che deve
riflettersi su questa bella scuola
nuova
dai
nostri
eventuali
successi, hanno finalmente tratto
le nostre maestre dal loro dolce
isolamento. Ci tengono chiuse,
noi,
le
sei
candidate,
ci
tormentano con ripetizioni, ci
obbligano ad ascoltare, a imparare
a memoria, persino a capire, ci
fanno venire un'ora prima delle
altre e andare via un'ora dopo!
Quasi tutte diventiamo pallide,
stanche e istupidite; ci sono
certune che perdono l'appetito e il
sonno a forza di studio e di ansie;
io sono rimasta quasi fresca,
perché non mi agito molto, e
perché ho la carnagione scura; e
anche la piccola Luce Lanthenay,
che, come la sorella Aimée, ha una
di quelle carnagioni bianche e
rosee inalterabili...
Sappiamo che la signorina
Sergent ci accompagnerà tutte
insieme al capoluogo, ci farà
alloggiare con lei in un albergo,
s'incaricherà di tutte le spese;
faremo i conti al ritorno. Se non
fosse per quel maledetto esame,
questo
viaggetto
ci
entusiasmerebbe.
Questi ultimi giorni sono
tremendi.
Maestre,
scolare,
terribilmente innervosite, scattano
continuamente. Aimée ha gettato
il quaderno in faccia a una
convittrice che faceva per la terza
volta lo stesso sbaglio in un
problema di aritmetica, e poi è
scappata in camera. La piccola
Luce si è presa gli schiaffi dalla
sorella ed è venuta a gettarmisi fra
le braccia perché la consoli. Ho
picchiato Anaïs che mi stuzzicava
fuor di luogo. Una delle Jaubert è
stata presa da una crisi frenetica di
singhiozzi, poi da un attacco di
nervi non meno frenetico, perché gridava - "non riuscirò mai a
essere promossa!..." (asciugamani
bagnati, acqua di fiori d'arancio,
incoraggiamenti). La signorina
Sergent, esasperata anch'essa, ha
fatto girare come una trottola
davanti alla lavagna la povera
Marie Belhomme, che disimpara
l'indomani,
immancabilmente,
quello che ha imparato il giorno
prima.
La sera, io non riesco a
riposare che sulla cima del grosso
noce, su un lungo ramo cullato dal
vento... il vento, la notte, le
foglie...
Fanchette viene a trovarmi
lassù; ogni volta sento le sue forti
unghie mentre si arrampica e con
quale sicurezza! Miagola stupita:
"Ma che cosa mai cerchi su
questo albero? Io sono fatta per
starmene
quassù,
ma
mi
scandalizza sempre un pochino
che ci venga tu!". Poi gironzola sui
piccoli
rami,
completamente
bianca nell'oscurità, e parla agli
uccellini
addormentati,
con
semplicità, sperando che vengano
gentilmente a farsi mangiare; ma
perché mai?
Vigilia della partenza; niente
studio; abbiamo portato a scuola
le valigie (un vestito e un po' di
biancheria: ci fermiamo soltanto
due giorni).
Domani
mattina,
appuntamento alle nove e mezzo e
partenza con l'omnibus puzzolente
di papà Racalin che ci trasporta
alla stazione.
E' fatta: ieri siamo tornate dal
capoluogo
trionfanti,
eccetto
(naturalmente) la povera Marie
Belhomme,
rimandata.
La
signorina Sergent è tronfia di un
tal successo. Bisogna che racconti.
La mattina della partenza, ci
ammucchiano nell'omnibus di
papà Racalin, ubriaco fradicio tanto per cambiare! - che ci porta a
rotta di collo, ondeggiando da un
fosso all'altro, domandandoci se
andiamo tutte a sposarci, ed
elogiando se stesso per la bravura
con la quale ci fa sballottare:
"Vado bene, eh?...", mentre Marie
getta strilli acuti e diventa verde
per la paura. Alla stazione ci
rinchiudono nella sala d'aspetto;
la signorina Sergent prende i
biglietti e prodiga teneri addii alla
benamata, che è venuta ad
accompagnarla sin qui. Questa,
con un vestito di tela grigio, un
gran cappello piuttosto semplice,
sotto il quale è più fresca di un
fiore (sgualdrinella di un'Aimée!)
eccita l'ammirazione
di tre
commessi viaggiatori che fumano
il sigaro, e che, divertiti da questa
partenza di un convitto, vengono
nella sala d'aspetto a ostentare
davanti a noi gli anelli e la
parlantina,
perché
trovano
divertente dirne di grosse. Do una
gomitata a Marie Belhomme per
avvertirla di ascoltare; lei tende le
orecchie e non capisce; tuttavia io
non posso disegnarle delle figure
per farle capire meglio! Anaïs la
lunga capisce benissimo, lei, e si
affanna
ad
assumere
degli
atteggiamenti graziosi con inutili
sforzi per arrossire.
Il treno sbuffa, fischia; noi
afferriamo le valigie e ci cacciamo
in
uno
scompartimento
di
seconda, surriscaldato, soffocante;
per fortuna il viaggio non dura che
tre ore! Mi sono installata in un
angolo per respirare un po', e,
durante
il
percorso,
non
chiacchieriamo
quasi
mai,
divertendoci a vedere sfilare il
paesaggio.
La piccola Luce, rincantucciata
vicino a me, infila teneramente il
braccio sotto il mio, ma io mi
svincolo: "Lasciami, fa troppo
caldo".
Comunque ho un vestito di
tussor greggio, tutto dritto,
pieghettato come quelli dei bimbi,
stretto alla vita da una cintura di
cuoio larga più di una mano, e con
la scollatura quadrata. Anaïs,
ravvivata da un vestito di tela
rossa, fa bella figura; come pure
Marie Belhomme, in mezzo lutto:
tela lilla con mazzolini neri. Luce
Lanthenay ha tenuto l'uniforme
nera, cappello nero con un nastro
rosso. Le due Jaubert continuano
a non farsi notare e si tolgono di
tasca liste di domande che la
signorina Sergent, sdegnosa di
questo zelo eccessivo, impone loro
di riporre. Rimangono sbalordite!
Camini di fabbriche, case
sparse e bianche che presto
infittiscono
e
diventano
numerose, ecco la stazione,
scendiamo. La signorina Sergent ci
spinge verso un omnibus e
corriamo sul lastricato sconnesso
e a onde, verso l'albergo della
"Posta". Nelle vie imbandierate,
stanno bighellonando degli oziosi,
perché domani è la festa di non so
quale santo - grande solennità in
questo paese - e la banda infierirà
durante la serata.
La signora Cherbay, che
gestisce l'albergo, una compaesana
della signorina Sergent, una
grassona troppo gentile, si fa in
quattro.
Delle scale, che non finiscono
più, un corridoio e... tre camere
per sei. Non ci avevo pensato! Con
chi mi metteranno? E' stupido; mi
è insopportabile dormire con altre
persone!
La signora Cherbay ci lascia
finalmente. Esplodiamo in parole,
in domande, apriamo le valigie;
Marie ha perso la chiave della sua
e si lamenta; io mi siedo già
stanca. La signorina riflette:
"Vediamo, bisogna che vi metta a
posto...". S'interrompe e cerca di
accoppiarci nel modo migliore; la
piccola
Luce
scivola
silenziosamente vicino a me e mi
stringe la mano: spera che ci
ficchino nello stesso letto. La
direttrice si decide: "Le due
Jaubert... voi dormirete insieme;
lei, Claudine, con..." (mi guarda in
modo penetrante, ma io non mi
scompongo, né batto ciglio) "con
Marie Belhomme, e Anaïs con
Luce Lanthenay. Credo che vada
abbastanza bene così". La piccola
Luce non è affatto di questo
parere! Prende il proprio bagaglio
mogia mogia e se ne va
tristemente con Anaïs la lunga
nella camera di fronte alla mia.
Marie e io c'installiamo; mi
spoglio rapidamente per levarmi la
polvere del treno, e dietro le
imposte, chiuse a causa del sole,
giriamo in camicia con voluttà.
Ecco l'abbigliamento razionale, il
solo pratico!
Nel cortile cantano; guardo e
vedo la grossa padrona seduta
all'ombra con serve, giovanotti e
ragazze; tutti insieme belano
romanze sentimentali: Manon,
ecco il sole!, confezionando rose di
carta e ghirlande di edera per
decorare la facciata l'indomani.
Per terra, nel cortile, sono sparsi
rami di pino; la tavola di ferro
dipinto è coperta di bottiglie di
birra e di bicchieri; proprio il
paradiso terrestre!
Bussano: è la signorina
Sergent; può entrare: non mi fa
soggezione.
La ricevo in camicia mentre
Marie
Belhomme
s'infila
precipitosamente una sottana, per
rispetto. D'altronde sembra che
non se ne accorga e ci invita
soltanto a sbrigarci: la colazione è
pronta. Scendiamo tutte. Luce si
lamenta della camera, rischiarata
dall'alto: non c'è nemmeno la
risorsa di mettersi alla finestra!
Una cattiva colazione da
locanda.
Siccome l'esame scritto avrà
luogo domani, la signorina
Sergent c'impone di salire in
camera e di ripassare un'ultima
volta quello che sappiamo meno.
E' inutile essere qui per farlo!
Preferirei andare dagli X, certi
amici di papà simpaticissimi,
ottimi musicisti... Essa aggiunge:
"Se siete buone, questa sera
verrete giù con me dopo pranzo e
faremo le rose con la signora
Cherbay e le figlie". Mormorii di
gioia; tutte le mie compagne
esultano. Non io! Non provo
alcuna
ebbrezza
all'idea
di
confezionare rose di carta in un
cortile d'albergo con questa obesa
padrona, ingrassata come una
pollastra. Lo lascio capire, forse,
poiché la rossa ricomincia subito,
eccitata:
"Io non obbligo nessuno,
s'intende; se la signorina Claudine
non crede di dover unirsi a noi...".
"E' vero, signorina, preferisco
restare
in
camera,
temo
veramente di non essere molto
utile!"
"Ci resti, faremo a meno di lei.
Ma sarò obbligata, in tal caso, a
portarmi via la chiave della sua
camera; sono responsabile di lei."
Non avevo pensato a questo
particolare e non so che cosa
rispondere. Ritorniamo su e
sbadigliamo tutto il pomeriggio
sui libri, snervate dall'attesa
dell'indomani.
Sarebbe
stato
meglio andare a spasso, perché
non concludiamo nulla, proprio
nulla...
E dire che questa sera sarò
chiusa a chiave, chiusa a chiave!
Tutto
quanto
somiglia alla
prigionia m'infuria; perdo la testa
appena mi rinchiudono. (Non
hanno mai potuto mettermi in
collegio da ragazzina, perché
cadevo in deliquio dalla rabbia nel
sentire che mi proibivano di
varcare la soglia. Provarono due
volte; avevo nove anni; tutt'e due
le volte, sin dalla prima sera, corsi
alle finestre come uno stupido
uccellino, gridai, morsicai, graffiai,
mi sentii soffocare.
Dovettero
rimettermi
in
libertà, e non ho potuto "resistere"
se non in questa inverosimile
scuola di Montigny, perché qui,
almeno,
non
mi
sento
"imprigionata" e dormo nel mio
letto, a casa mia.)
Certo non lo dimostrerò alle
altre, ma mi sento male per il
dispetto e l'umiliazione. Non
andrò a mendicare il perdono: ne
sarebbe troppo contenta, quella
perfida rossa! Se almeno mi
lasciasse la chiave per di dentro!
Ma non chiederò neanche questo,
non voglio!
Speriamo che la notte passi
presto...
Prima di pranzo la signorina
Sergent ci porta a spasso lungo il
fiume;
la
piccola
Luce,
impietosita, vuole consolarmi del
mio castigo:
"Senti, se tu le chiedessi di
lasciarti
venire
giù,
acconsentirebbe;
potresti
chiederglielo gentilmente...".
"Andiamo! Preferirei essere
rinchiusa con un triplice giro di
chiave per otto mesi, giorni, otto
ore, otto minuti."
"Hai proprio torto di non
volere!
Faremo
le
rose,
canteremo..."
"Piaceri puri! Io vi rovescerò
l'acqua sulla testa."
"Zitta, taci! Ma, veramente, ci
hai guastato la giornata; non sarò
più allegra questa sera perché non
ci sarai tu!"
"Non commuoverti. Dormirò,
riprenderò le forze per "la gran
giornata" di domani."
Pranziamo di nuovo alla tavola
rotonda con commessi viaggiatori
e commercianti di cavalli. Anaïs la
lunga, invasata dal desiderio di
farsi notare, è prodiga di gesti e
rovescia sulla tovaglia bianca il
bicchiere di acqua tinta di vino.
Alle nove risaliamo nelle stanze.
Le compagne si provvedono di
sciarpe per il fresco che potrebbe
calare, e io... rientro in camera
mia.
Oh,
faccio
un
viso
indifferente, ma non sento di
buon animo il suono della chiave
che la signorina Sergent fa girare
nella toppa e si porta via in tasca...
Ecco, sono sola soletta... Quasi
subito le sento nel cortile, e potrei
vederle benissimo dalla finestra,
ma per nulla al mondo confesserei
i miei rimpianti, dimostrando
d'essere curiosa. Ebbene, che fare?
Non mi resta che andare a letto.
Sto già levandomi la cintura,
quando mi fermo di fronte al
cassettone-toletta, davanti alla
porta di comunicazione che esso
sbarra. Questa porta dà nella
stanza vicina (il catenaccio è dalla
mia parte) e la camera vicina dà
sul corridoio... Riconosco in ciò la
mano della provvidenza: non si
può negarlo... Tanto peggio,
succeda quel che succeda, ma io
non voglio che la rossa possa
trionfare e dire: "L'ho rinchiusa!".
Mi allaccio di nuovo la cintura,
rimetto il cappello. Non vado in
cortile, non sono tanto sciocca,
vado dagli amici di papà, quei
signori X, ospitali e gentili, che mi
accoglieranno bene. Uf, com'è
pesante questo cassettone! Mi fa
sudare. Il catenaccio è duro da
tirare, non viene adoperato da
molto, e la porta si apre
scricchiolando; ma si apre. La
camera in cui entro, tenendo alta
la candela, è vuota, il letto senza
lenzuola; corro alla porta, la porta
benedetta, che non è chiusa, si
apre pian piano sul delizioso
corridoio... Come si respira bene
quando non si è chiusi a chiave!
Non
facciamoci
sorprendere!
Nessuno per le scale, nessuno al
bureau dell'albergo: tutti stanno
facendo rose. Brava gente, fate le
rose senza di me!
Fuori, nella notte tiepida, rido
sommessamente; ma devo andare
dagli X. il brutto è che non so la
strada, soprattutto di notte. Via!
Domanderò. Prima risalgo
risolutamente il corso del fiume,
poi mi decido, sotto un fanale, a
chiedere della "piazza del Teatro,
per piacere", a un signore che
passa. Si ferma, si china per
guardarmi:
"Ma, bella ragazza mia, mi
permetta di accompagnarla, non
saprebbe trovare la strada da sola".
Che scocciatura! Volto i tacchi e
fuggo velocemente nell'ombra.
Poi, mi rivolgo a un garzone, che
con gran chiasso sta abbassando la
saracinesca del negozio, e, di
strada in strada, spesso inseguita
da risate o da un richiamo
familiare, arrivo in piazza del
Teatro. Suono alla porta della casa
ben nota.
La mia entrata interrompe il
trio di violino, violoncello e piano,
che stanno suonando due bionde
sorelle e il padre; si alzano
rumorosamente: "E' lei? Come
mai? Sola!". "Aspettate, lasciatemi
parlare e scusatemi." Racconto
dell'imprigionamento, della fuga,
dell'esame di domani; le biondine
si divertono come matte. "Ah,
com'è buffo! Non c'è che lei per
inventare scherzi simili!" Il babbo
ride anch'egli, indulgente: "Suvvia,
non
abbia
paura,
la
riaccompagneremo, otterremo il
suo perdono". Brava gente!
E facciamo musica, senza
rimorso.
Alle
dieci,
voglio
andarmene e ottengo che mi
riaccompagni soltanto una vecchia
domestica...
Percorriamo le strade piuttosto
deserte, sotto la luna che si è
alzata... Tuttavia mi domando che
cosa mai dirà quella rossa
rabbiosa.
La domestica entra con me
nell'albergo, e posso constatare
che tutte le mie compagne sono
ancora nel cortile intente a
confezionare rose, a bere birra e
limonata. Potrei rientrare in
camera, inosservata, ma preferisco
permettermi il lusso di una scena
a effetto, e mi presento, modesta,
davanti
alla
signorina
che,
vedendomi, balza in piedi: "Da
dove salta fuori?". Con un cenno
del mento, indico la domestica che
mi accompagna e questa spiffera
docilmente
la
lezione:
"La
signorina ha passato la serata in
casa del mio padrone con le
signorine". Poi mormora un vago
"Buona sera", e sparisce. Io resto
sola con... una furia! I suoi occhi
mandano lampi, le sopracciglia, si
toccano e si uniscono, le mie
compagne, stupefatte, restano in
piedi, tenendo in mano le rose
incominciate.
Immagino, nel vedere gli
sguardi scintillanti di Luce, le
guance rosse di Marie, l'aria
febbrile di Anaïs la lunga, che
siano un po' brille; veramente non
c'è alcun male, la signorina
Sergent non dice una parola; senza
dubbio sta pensando; oppure sta
facendo sforzi per non scoppiare.
Finalmente parla; non a me:
"Saliamo, è tardi".
Esploderà di sopra? Sia pure...
Per le scale, tutte le ragazzine mi
guardano come un'appestata; la
piccola Luce m'interroga con occhi
supplichevoli.
In camera mia vi è dapprima
un silenzio solenne, poi la rossa
m'interroga con una solennità
grave:
"Dov'è stata?".
"Lo sa bene, dagli X, certi amici
di mio padre."
"Come ha osato uscire?"
"Caspita, lo vede bene, ho
spostato il cassettone che sbarrava
questa porta."
"E' di una sfacciataggine
vergognosa! Farò sapere questa
condotta stravagante al suo signor
padre; senza dubbio ne sarà molto
lieto."
"Papà? Dirà: "Mio Dio, sì,
questa ragazza ha un grande
amore della libertà" e aspetterà
con impazienza la fine del suo
discorso per immergersi di nuovo,
avidamente, nella Malacologia del
Fresnois."
Si accorge che le altre
ascoltano e gira sui tacchi:
"Andate tutte a letto! Se fra un
quarto d'ora le candele non
saranno spente, l'avrete a che fare
con me! In quanto alla signorina
Claudine, cessa di essere sotto la
mia responsabilità e può farsi
rapire questa notte stessa, se le fa
piacere!".
Oh, shocking, signorina! Le
ragazzine sono sparite come sorci
spaventati, e io resto sola con
Marie Belhomme che mi dichiara:
"E' proprio vero che non ti si
può chiudere dentro! Io non avrei
avuto l'idea di spostare il
cassettone!".
"Non mi sono annoiata. Ma
sbrigati dunque, perché lei non
torni a spegnere la candela."
Si dorme male in un letto
estraneo; e poi mi sono addossata
alla parete tutta la notte per non
sfiorare le gambe di Marie.
La
mattina
seguente
ci
svegliano alle cinque e mezzo; ci
alziamo intorpidite; mi inondo di
acqua fredda per svegliarmi un
po'. Mentre sto guazzando, Luce e
Anaïs la lunga vengono a
chiedermi in prestito il sapone
profumato, a farsi dare un
allaccia-bottoni, eccetera; Marie
mi prega d'incominciare ad
annodarle i capelli. Tutte queste
piccine, poco vestite e assonnate,
sono divertenti a vedersi.
Vi è uno scambio di vedute
sulle ingegnose precauzioni da
prendere contro gli esaminatori:
Anaïs ha copiato tutte le date della
storia, delle quali è incerta,
nell'angolo del fazzoletto (per me
ci vorrebbe una tovaglia!). Marie
Belhomme ha fatto un minuscolo
atlante che le sta nel cavo della
mano; Luce ha scritto sui polsini
bianchi le date, brani di storia,
teoremi di aritmetica, tutto un
manuale; le sorelle Jaubert hanno
ugualmente segnato un'infinità di
nozioni su strisce sottili di carta
che hanno arrotolato nella cavità
delle penne. Tutte si preoccupano
molto degli esaminatori; sento
Luce che dice:
"In
aritmetica
interroga
Lerouge; in fisica e chimica,
Roubaud, un farabutto a quanto
pare; in letteratura è papà Sallé...".
Io interrompo:
"Che Sallé? L'ex direttore del
collegio?".
"Sì, quello."
"Che fortuna!"
Sono
felice
di
essere
interrogata da questo vecchio
tanto buono, che papà e io
conosciamo benissimo: sarà certo
gentile con me.
Appare la signorina Sergent,
assorta e silenziosa in questo
momento
di
lotta.
"Non
dimenticate nulla? Andiamo." Il
nostro gruppetto passa il ponte, si
arrampica per certe vie e viuzze,
arriva finalmente davanti a un
vecchio portico in rovina, sulla cui
porta
un'iscrizione
quasi
cancellata annuncia: "Istituto
Rivoire"; è l'antico convitto
femminile, abbandonato da due o
tre anni a causa della sua vetustà.
(Perché
ci
chiudono
là
dentro?) Nel cortile qua e là
disselciato,
chiacchierano
vivacemente una sessantina di
ragazze, in gruppi ben separati: le
varie scuole non si mescolano. Ce
ne sono di Villeneuve, di Beaulieu,
e di una decina di capoluoghi del
mandamento; tutte ammassate in
piccoli
gruppi
attorno
alle
rispettive maestre, eccedono in
osservazioni prive di benevolenza
nei confronti delle altre scuole.
Appena
giunte,
siamo
squadrate, spogliate; osservano
me soprattutto, a causa del vestito,
bianco a righe azzurre, e del
grande cappello di pizzo che
spiccano sul nero delle uniformi;
siccome sorrido sfacciatamente
alle candidate che mi guardano, si
voltano nel modo più sprezzante.
Luce e Marie arrossiscono sotto
gli sguardi e si fanno piccine
piccine; Anaïs la lunga gode nel
sentirsi tanto osservata. Gli
esaminatori non sono ancora
giunti; le scolare pestano i piedi;
io mi annoio.
Una porticina senza spranga si
apre su un corridoio scuro,
interrotto all'estremità da una
fascia luminosa. Mentre la
signorina Sergent scambia glaciali
cortesie con le colleghe, io penetro
piano
piano
nel
corridoio:
all'estremità, c'è una porta vetrata
- o che fu tale, per lo meno; alzo la
spranga arrugginita, e mi trovo in
un cortiletto quadrato, vicino a
una rimessa. Vi sono fioriti in
abbandono gelsomini e clematidi
insieme con un piccolo susino
selvatico,
una
vegetazione
selvaggia e deliziosa: è un luogo
verde, silenzioso, in capo al
mondo. Per terra, scoperta
mirabile, sono maturate le fragole,
e mandano un profumo squisito.
Chiamo le altre per mostrare
loro queste meraviglie! Ritorno
nel
cortile
senza
attirare
l'attenzione, e annuncio alle
compagne l'esistenza di questo
frutteto sconosciuto. Dopo aver
lanciato sguardi timorosi alla
signorina Sergent che chiacchiera
con una matura maestra, e in
direzione della porta che continua
a non aprirsi per lasciar passare gli
esaminatori (dormono della bella,
quelli là), Marie Belhomme, Luce
Lanthenay e Anaïs la lunga si
decidono, le Jaubert si astengono.
Mangiamo
le
fragole,
saccheggiamo
la
clematide,
scuotiamo il susino, quando, da
un mormorìo più forte nel cortile
d'ingresso, indoviniamo che sono
giunti i nostri tormentatori.
A gambe levate, attraversiamo
di nuovo il corridoio; arriviamo in
tempo per vedere una fila di
uomini scuri, non belli, che
entrano nel vecchio edificio,
solenni e muti. Dietro di loro
saliamo la scala col chiasso di uno
squadrone,
essendo
più
di
sessanta, ma, subito al primo
piano, ci fermano sulla soglia di
un'aula abbandonata: bisogna
lasciare che si installino quei
signori. Siedono a una gran tavola,
si
asciugano
il
sudore
e
deliberano. Che cosa? Sull'utilità
di farci entrare? Ma no, sono
sicura
che
si
scambiano
impressioni sulla temperatura e
chiacchierano dei loro piccoli
interessi, mentre ci trattengono a
stento sul pianerottolo e la scala
dove straripiamo.
Dalla
prima
fila
posso
osservare questi esseri eccelsi;
uno spilungone brizzolato, con
l'aria mite e da nonnino; il buon
papà Sallé, storto e gottoso, dalle
mani simili a sarmenti; un
grassone basso, col collo stretto in
una cravatta dalle tinte cangianti,
degna di Rabastens stesso: è
Roubaud, il terribile, che domani
c'interrogherà in scienze.
Finalmente si sono decisi a
dirci di entrare. Riempiamo la
vecchia brutta sala dalle pareti di
stucco indicibilmente sporche,
deturpate da iscrizioni e da nomi
di scolare; anche i banchi sono
orribili, tagliuzzati, neri e viola a
causa dei calamai rovesciati in
passato. E' una vergogna relegarci
in una simile stamberga.
Uno di quei signori procede
alla distribuzione dei posti: tiene
in mano una lunga lista e mescola
con cura tutte le scuole, separando
il più possibile le scolare di uno
stesso mandamento, per evitare i
suggerimenti. (Non sa dunque che
si può sempre trovare il mezzo di
suggerire?) Io sono all'estremità
di un banco, vicino a una
giovinetta in lutto, dai grandi
occhi seri. Dove sono le mie
compagne? Vedo là in fondo Luce
che mi rivolge cenni e sguardi
disperati; Marie Belhomme si
agita, nel banco davanti a lei: loro
due,
così
deboli,
potranno
scambiarsi
suggerimenti...
Roubaud va in giro a distribuire
certi grandi fogli timbrati in
azzurro nell'angolo sinistro, e le
ostie per sigillare. Conosciamo
tutte queste operazioni: bisogna
scrivere nell'angolo il proprio
nome, con quello della scuola
dove abbiamo fatto gli studi, poi
piegare e sigillare quest'angolo.
(Tanto per rassicurare tutti sulla
imparzialità, dei giudizi.)
Compiuta
la
formalità,
aspettiamo che si decidano a
dettarci qualcosa. Guardo attorno
a me i visetti sconosciuti, dei quali
parecchi mi fanno pietà, tanto
sono già sconvolti e ansiosi.
Un sussulto. Roubaud ha
parlato fra il silenzio generale:
"Prova di ortografia, signorine;
scrivete: non ripeto che una sola
volta la frase che detto".
Incomincia a dettare passeggiando
per la classe.
Profondo
silenzio
di
raccoglimento. Sfido! I cinque
sesti di queste piccine giocano il
loro avvenire. E pensare che tutte
diventeranno
maestre
che
triboleranno dalle sette del
mattino alle cinque della sera e
tremeranno
davanti
a
una
direttrice, quasi sempre piena di
malevolenza,
per
guadagnare
settantacinque franchi il mese! Di
queste
sessanta
ragazzine,
quarantacinque sono figlie di
contadini o di operai; per non
lavorare la terra o la tela hanno
preferito ingiallirsi la carnagione,
scavarsi il petto e deformarsi la
spalla
destra;
si
preparano
coraggiosamente a passare tre
anni in una scuola normale
(alzarsi alle cinque, coricarsi alle
otto e mezzo, due ore di
ricreazione su ventiquattro), e a
rovinarsi lo stomaco, che resiste di
rado a tre anni di refettorio. Ma
almeno porteranno il cappello,
non cuciranno i vestiti altrui, non
custodiranno le bestie, non
tireranno su i secchi dal pozzo, e
disprezzeranno
i
rispettivi
genitori. Non chiedono di più. E
che cosa faccio qui, io, Claudine?
Sono qui perché non ho altro
da fare; perché papà, mentre
subisco le interrogazioni di questi
professori, può maneggiare in
pace le sue lumache; ci sono
anche per "l'onore della Scuola",
per ottenerle un diploma in più,
un po' di gloria in più, a questa
Scuola unica, inverosimile e
deliziosa...
Hanno ficcato in mezzo
qualche participio, teso tranelli di
plurali ambigui, in questo dettato
che non ha più nessun senso,
tanto hanno reso contorte e irte di
difficoltà tutte le frasi. E' puerile!
"Punto: è finito. Rileggo."
Credo di non avere fatto errori;
non mi resta che badare agli
accenti, perché contano come
mezzi sbagli, quarti di sbaglio per
certe velleità di accenti che a
sproposito si prolungano al di
sopra delle parole. Mentre rileggo,
mi cade sul foglio una pallina di
carta, gettata con straordinaria
abilità; la svolgo nel cavo della
mano: è Anaïs la lunga che mi
scrive: "Ci vuole una esse in
trouvés, nella seconda frase?".
Non dubita di nulla questa Anaïs!
Dovrei dirle una bugia? No,
disdegno quei mezzucci di cui lei
si serve abitualmente. Rialzando il
capo, le faccio un impercettibile
"sì",
e
lei
corregge
tranquillamente.
"Avete cinque minuti per
rileggere," annuncia la voce di
Roubaud "seguirà la prova di
calligrafia."
Seconda pallina di carta, più
grossa. Mi guardo intorno: l'ha
gettata Luce, i cui occhi ansiosi
spiano i miei. Ma domanda
quattro parole! Se rimando la
pallina,
prevedo
che
la
pescheranno;
mi
viene
un'ispirazione
semplicemente
geniale: sulla busta di cuoio nero
che contiene le matite e i
carboncini (le candidate devono
procurarsi tutto esse stesse)
scrivo, con un pezzetto di stucco,
staccatosi dalla parete, che mi
serve da gesso, le quattro parole
che preoccupano Luce, poi alzo
bruscamente la busta sopra alla
testa, col lato vergine voltato verso
gli esaminatori che, d'altronde, si
occupano ben poco di noi. Il viso
di Luce si illumina, corregge
rapidamente. La mia vicina,
vestita a lutto, che ha seguito la
scena, mi rivolge la parola:
"Non ha davvero paura, lei?".
"Non troppa, come vede.
Bisogna bene aiutarsi un poco."
"Certamente... Sì. Ma io non ne
avrei il coraggio. Lei si chiama
Claudine, non è vero?"
"Sì, come lo sa?"
"Oh, è tanto tempo che si
"chiacchiera" di lei. Io sono della
scuola di Villeneuve; le nostre
maestre dicevano di lei: "E' una
ragazza intelligente, ma troppo
sfacciata e della quale non bisogna
imitare né le maniere da
ragazzaccio, né la pettinatura.
Tuttavia
se
vorrà
mettersi
d'impegno, sarà una concorrente
temibile all'esame".
Anche a Bellevue la conoscono,
dicono che lei è un po' pazza, e
abbastanza eccentrica..."
"Sono gentili le sue maestre!
Ma si occupano di me più di
quanto io non mi occupi di loro.
Dica dunque a costoro che non
sono che un branco di zitelle
inviperite
perché
stanno
sfiorendo, non è vero? Lo dica da
parte mia!"
Tace scandalizzata. D'altronde
Roubaud passeggia fra i banchi
con la sua pancetta tondeggiante e
raccoglie i nostri compiti che porta
ai colleghi. Poi ci distribuisce altri
fogli per la prova di calligrafia e va
a modellare alla lavagna, con una
"bella scrittura", quattro versi:
Te ne ricordi, Cinna, tanta
sorte e tanta gloria./ eccetera...
"Signorine, vi prego di eseguire
una riga di corsivo grande, una di
corsivo mezzano una di corsivo
piccolo, una di rotondo grande,
una di mezzano e una di piccolo,
una di bastarda grande, una di
mezzana e una di piccola. Avete
un'ora di tempo."
Quest'ora è un riposo. Un
esercizio non faticoso, e non sono
molto esigenti in quanto alla
calligrafia. La rotonda e la
bastarda mi piacciono, perché
sono quasi un disegno; ma il mio
corsivo è orribile; le lettere ad
anello e le maiuscole stentano a
conservare la quantità richiesta di
"corpo" e di "mezzo corpo".
Pazienza!
Abbiamo fame quando è finita
l'ora!
Voliamo via da quella sala
rattristante e ammuffita, e nel
cortile ritroviamo le maestre,
inquiete, raggruppate all'ombra
che non è neppure fresca. Subito
sgorgano fiotti di parole, di
domande, di lamenti: "E' andata
bene? Che argomento di dettato?
Vi ricordate delle frasi difficili?".
"Era così e così... ho scritto
"indication" al singolare... io al
plurale...
il
participio
era
invariabile,
non
è
vero,
signorina?...
Volevo correggere, e poi l'ho
lasciato...
un
dettato
così
difficile!..."
E'
mezzogiorno
passato e l'albergo è lontano...
Sbadiglio per la fame. La
signorina Sergent ci conduce in un
ristorante
vicino,
dato
che
l'albergo è troppo lontano per
andare fin là con questo caldo
afoso. Marie Belhomme piange e
non mangia, desolata per i tre
sbagli che ha fatto (e per ogni
sbaglio levano due punti!).
Racconto alla direttrice - che pare
non pensi più alla mia scappatella
di ieri - i nostri espedienti per
metterci in comunicazione; ne
ride, contenta, e ci raccomanda
soltanto di non commettere
troppe imprudenze. In tempo di
esami c'incoraggia a fare i peggiori
imbrogli, tutto per la gloria della
scuola.
In
attesa
dell'ora
del
componimento,
sonnecchiamo
quasi tutte sulle sedie, prostrate
dal caldo. La signorina legge i
giornali illustrati, e si alza dopo
aver dato un'occhiata all'orologio:
"Suvvia, piccine, bisogna andare
via... Cercate di non mostrarvi
troppo sciocche fra poco. E lei,
Claudine, se non prende diciotto
su venti in componimento, la
getto nel fiume".
"Ci starei più fresca, almeno!"
Che
imbecilli
questi
esaminatori! Il cervello più ottuso
avrebbe capito che, con questo
tempo opprimente, al mattino
avremmo avuto il cervello più
lucido per fare il componimento.
Essi no. Che cosa possiamo fare a
quest'ora?
Benché pieno, il cortile è più
silenzioso di questa mattina, e
quei signori si fanno attendere
ancora! Me ne vado sola nel
giardinetto chiuso, mi siedo sotto
le clematidi, all'ombra, e chiudo
gli occhi, ebbra di pigrizia...
Urla, grida di richiamo:
"Claudine! Claudine!". Faccio un
balzo,
mezza
addormentata,
poiché dormivo con voluttà, e mi
trovo davanti Luce confusa che mi
scuote, mi trascina: "Ma sei pazza!
Ma non sai quello che succede!
Siamo rientrati in classe, mia cara,
da un quarto d'ora! Hanno dettato
il tema, e poi finalmente io ho
osato dire, e così pure Marie
Belhomme che tu non c'eri... ti
hanno cercata, la signorina
Sergent è in giro, e io ho pensato
che forse gironzolavi da queste
parti... Cara mia, sentirai che cosa
ti diranno di sopra!".
Mi precipito per le scale; Luce
mi viene dietro; si leva un leggero
brusìo al mio apparire, e quei
signori, rossi dopo una colazione
che si è prolungata sino a tardi, si
voltano verso di me: "Non ci
pensava più, signorina? Dov'era?".
Mi ha parlato Roubaud, gentile e
rude insieme. "Ero giù in giardino:
facevo la siesta." Un battente della
finestra aperta rispecchia la mia
immagine oscurata: ho qualche
petalo di clematide lilla nei capelli,
foglie sul vestito, una bestiolina
verde e una coccinella sulla spalla,
e
i
capelli
sono
sparsi
disordinatamente... Un insieme
non ripugnante... Bisogna ben
crederlo, almeno, poiché quei
signori si attardano a osservarmi e
Roubaud
mi
domanda
a
bruciapelo: "Lei non conosce un
quadro che s'intitola La primavera,
di Botticelli?". Paf! Me l'aspettavo:
"Sì, professore, me lo hanno già
detto". Gli ho troncato il
complimento a mezzo, ed egli si
morde le labbra, seccato; me la
farà pagare. Gli uomini neri
ridono tra loro; vado al posto,
accompagnata da questa frase
rassicurante, masticata da Sallé,
un brav'uomo che tuttavia non mi
riconosce,
povero
miope:
"D'altronde lei non è in ritardo,
copi il tema scritto alla lavagna, le
sue compagne non hanno ancora
incominciato". Oh, non abbia
paura, io non la sgrido!
Suvvia,
facciamo
il
componimento! Questo piccolo
incidente mi ha dato coraggio.
"Tema - Esponete le riflessioni
e i commenti che vi ispirano
queste parole di Crisale: "Che
importa che essa tradisca le leggi
di Vaugelas," (16) eccetera."
Per una fortuna davvero
insperata non è un argomento
troppo stupido, né troppo ingrato.
Sento attorno a me domande
ansiose e disperate, perché la
maggior parte di queste ragazzine
non sanno chi sia Crisale, né le
Donne sapienti. Combineranno
bei pasticci! Non posso fare a
meno di riderne sin da ora.
Preparo una breve dissertazione
non troppo sciocca, costellata di
citazioni varie per dimostrare che
conosco abbastanza Molière. E'
piuttosto scorrevole, finisco col
non pensare più a quello che
succede attorno a me.
Alzando il capo per cercare una
parola che non trovo, scorgo
Roubaud
occupatissimo
a
schizzare il mio ritratto su un
taccuino.
Io
acconsento;
e
riprendo la posa senza averne
l'aria.
Paf! Casca ancora un'altra
pallina. E' di Luce: "Puoi scrivermi
due o tre idee generali? Non ce la
faccio, sono desolata; ti abbraccio
da lontano". La guardo, vedo il suo
povero visetto tutto chiazzato, gli
occhi rossi, e lei risponde al mio
sguardo
con
un
disperato
tentennare
del
capo.
Le
scribacchio su un pezzo di carta
tutto quello che posso e lancio la
pallina, non in aria - è troppo
pericoloso - ma per terra, nel
corridoio che separa le due file di
banchi; e Luce vi posa il piede
sopra, lestamente.
Mi attardo con cura a scrivere
la conclusione; sviluppo certe idee
che piaceranno e che dispiacciono
a me. Uf! Ho finito! Vediamo che
cosa fanno le altre...
Anaïs scrive senza alzare il
capo, sorniona, col braccio sinistro
posato sul foglio per impedire alla
vicina di copiare. Roubaud ha
finito lo schizzo, e il tempo passa
mentre il sole incomincia appena
a calare. Sono spossata: questa
sera andrò a letto buona buona
con le altre, senza musica.
Continuiamo a osservare la
scolaresca: tutto un reggimento di
banchi su quattro file, che si
stendono sino in fondo; e
ragazzette scure, curve, delle quali
si vede soltanto il nodo dei capelli
lisci o la treccia penzolante, stretta
come una corda, pochi vestiti
chiari, soltanto quelli delle alunne
di scuole come la nostra: spiccano
i nastri verdi, al collo delle
convittrici di Villeneuve. Un gran
silenzio rotto dal leggero fruscìo
dei foglietti voltati, da un sospiro
di
stanchezza...
Finalmente
Roubaud piega il Moniteur du
Fresnois sul quale si è un po'
assopito, e tira fuori l'orologio: "E'
ora, signorine, ritiro i fogli!". Si
leva qualche debole gemito, le
ragazzine che non hanno finito si
agitano, chiedono cinque minuti
di grazia che vengono concessi;
poi quei signori ritirano i fogli e ci
lasciano. Ci alziamo tutte, ci
stiriamo,
sbadigliamo,
e
immediatamente si riformano i
gruppi prima di arrivare in fondo
alle scale; Anaïs si precipita verso
di me:
"Che cosa hai scritto? Come
hai incominciato?".
"Mi annoi, credi che abbia
imparato a memoria tutto quello
che ho scritto!"
"Ma la tua brutta copia?"
"Non l'ho fatta; ho soltanto
aggiustato qualche frase prima di
scriverla."
"Cara
mia,
come
ti
sgrideranno! Io ho portato via la
brutta copia per farla vedere alla
signorina."
Anche Marie Belhomme ha
portato via la brutta copia, e così
Luce e le altre; e d'altronde tutte;
lo si fa sempre.
Nel cortile ancora tiepido per il
sole che si è ritirato, la signorina
Sergent legge un romanzo, seduta
su un basso muretto: "Ah, eccovi
finalmente! Datemi subito le
brutte copie, vediamo se non avete
fatto troppe sciocchezze".
Le legge, e decreta: quello di
Anaïs "non c'è male", sembra;
Luce "ha buone idee" (perdinci, le
mie) "non abbastanza sviluppate";
Marie "ha sbrodolato l'argomento,
come sempre"; quelli delle Jaubert
"più che sufficienti".
"La
sua
brutta
copia,
Claudine?"
"Non l'ho fatta."
"Bimba mia, bisogna essere
pazzi! Non far la brutta copia il
giorno dell'esame! Non ho più
speranza che lei faccia mai
qualcosa
di
ragionevole...
Insomma, è brutto il suo
compito?"
"Ma no, signorina, non lo credo
brutto."
"Quanto merita: diciassette?"
"Diciassette? Oh, signorina, la
modestia
m'impedisce...
Diciassette è molto... Ma insomma
mi daranno ben diciotto!"
Le compagne mi guardano con
una
malevolenza
invidiosa:
"Questa Claudine ha la gran
fortuna di poter prevedere il suo
voto! Diciamo subito che non ha
alcun merito, una disposizione
naturale e null'altro; fa un
componimento come si fa un uovo
al tegamino... e avanti!".
Intorno a noi le candidate
cinguettano in tono acuto e
mostrano la brutta copia alle
maestre,
e
prorompono
in
esclamazioni, ed esprimono il
rimpianto di aver dimenticato
un'idea... un pigolìo di passerotti
in una uccelliera.
La sera, invece di scappare in
città, distesa sul letto accanto a
Marie Belhomme, chiacchiero con
lei di questa grande giornata.
"La mia vicina di destra" mi
racconta Marie "viene da un
collegio di monache; figurati,
Claudine, che stamattina, mentre
distribuivano i fogli prima del
dettato, si era tirata fuori di tasca
un rosario che sgranava sotto il
banco; sì, cara mia, un rosario con
certi grossi grani tondi tondi, una
specie di pallottoliere tascabile. Lo
faceva perché le portasse fortuna."
"Via! Se non fa bene, non fa
neppure male... Che cos'è questo
rumore che si sente?"
Si sente, mi pare, un gran
fracasso nella camera dirimpetto
alla nostra, quella dove dormono
Luce e Anaïs. si apre la porta con
violenza; Luce, in camicia corta, si
precipita in camera, smarrita:
"Ti prego, difendimi: Anaïs è
così cattiva!...".
"Che cosa ti ha fatto?"
"Prima mi ha rovesciato
dell'acqua negli stivaletti, e poi, a
letto, mi ha dato pedate e
pizzicotti nelle cosce, e quando mi
sono lamentata mi ha detto che
potevo dormire sullo scendiletto,
se non ero soddisfatta!"
"Perché
non
chiami
la
signorina?"
"To', chiamare la signorina!
Sono andata sino alla porta della
sua camera: non c'è; e la ragazza
che passava nel corridoio mi ha
detto che è uscita con la padrona...
Ora, che cosa devo fare?"
Piange, povera bimbetta! Così
piccolina con la camicia da giorno
che lascia vedere le braccia sottili
e le belle gambe. Completamente
nuda, e col viso velato, sarebbe di
certo molto seducente. (Due buchi
per gli occhi, forse?) Ma non è il
momento di decidere su questo
argomento: salto a terra, corro
nella camera dirimpetto. Anaïs
occupa il centro del letto, con la
coperta tirata fin sul mento; ha la
sua grinta peggiore.
"Be', che cosa ti piglia? Non
vuoi permettere a Luce di dormire
con te?"
"Non dico questo; soltanto
vuole occupare tutto il posto,
allora l'ho spinta via."
"Sono frottole! Le dài i
pizzicotti, e le hai versato l'acqua
negli stivaletti."
"Mettila a dormire con te, se
vuoi, io non ci tengo."
"Tuttavia ha la pelle più fresca
di te! E' vero che non ci vuole
molto."
"Andiamo, andiamo, si sa bene
che la piccola ti piace quanto la
grande!"
"Aspetta, bimba mia, ti farò
cambiare d'idea."
In camicia, come sono, mi
getto sul letto, strappo le lenzuola,
afferro Anaïs la lunga per i piedi, e
quantunque mi si aggrappi
silenziosamente con le unghie alle
spalle, la tiro giù dal letto, supina,
sempre tenendole le zampe con le
mani, e chiamo: "Marie, Luce,
venite a vedere!".
Accorre a piedi nudi una
piccola processione di camicie
bianche. Si affannano: "Ohi, là,
separatele!
Chiamate
la
signorina!". Anaïs non grida, agita
le gambe e mi lancia sguardi
feroci, affannata a nascondere
quello che io metto in vista,
trascinandola per terra: cosce
gialle, un deretano a pera. Ho
tanta voglia di ridere che ho paura
di lasciarla cadere. Spiego:
"Succede che Anaïs la lunga,
che tengo stretta, non vuole
permettere alla piccola Luce di
dormire con lei, le dà pizzicotti, le
versa acqua negli stivaletti, e io
voglio che stia tranquilla".
Silenzio e gelo. Le Jaubert
sono troppo prudenti per dare
torto a una di noi due. Finalmente
lascio andare le caviglie di Anaïs
che si rialza e abbassa la camicia
precipitosamente.
"Adesso va' a letto e cerca di
lasciar stare quella ragazzina,
altrimenti ti darò tante botte che ti
bruceranno la pelle."
Sempre muta e furiosa, corre
verso il letto, vi si nasconde col
naso contro la parete. E' di una
incredibile vigliaccheria e non
teme che le botte. Mentre i piccoli
fantasmi bianchi tornano nelle
varie camere, Luce si corica
timidamente
accanto
alla
persecutrice, che ora sta ferma
come un masso. (La mia protetta
mi ha detto l'indomani che Anaïs
non si era mossa tutta la notte se
non per far cadere a terra il
guanciale, dalla rabbia.)
Nessuno parla di questo
incidente alla signorina Sergent.
Eravamo
già
abbastanza
preoccupate per la giornata che
avremmo trascorso l'indomani!
Prova di aritmetica e di disegno; e,
la sera, affissione dei nomi delle
candidate ammesse all'orale.
NOTE:
(12)
Lucien
Muhlfeld:
romanziere e critico dell'écho de
Paris (1870-1902). [N.d.T.]
(13) In Francia la numerazione
delle classi è in senso inverso: si
comincia dalla terza. [N.d.T.]
(14) Eugène Manuel (18231901), poeta e letterario. [N.d.T.]
(15) Gioco di parole su una
celebre frase delle Furberie di
Scapin, commedia di Molière
(1622-1673). Scapin, per spillare
quattrini al padre del suo giovane
padrone, gli racconta che il figlio,
salito a bordo di una galera
ancorata al porto, è stato rapito da
malviventi che ne chiedono un
forte riscatto. Il padre ripete,
lamentandosi: "Ma che cosa è
andato a fare in quella maledetta
galera!". [N.d.T.]
(16) Vaugelas (1595-1650),
grammatico, fu il primo grande
codificatore della lingua francese.
Nelle Donne sapienti di Molière,
Crisale difende la cuoca Martina
che Belise voleva scacciare
sentendosi offesa dalle sue
improprietà di linguaggio. Crisale
dice: "Che importa che tradisca le
leggi di Vaugelas, se sa cucinar
bene?".
[N.d.T.]
Prendiamo rapidamente la
cioccolata
e
scappiamo
a
precipizio. Alle sette fa già caldo.
Avendo acquistato ormai una certa
familiarità, prendiamo posto da
sole e chiacchieriamo con decoro e
moderazione, in attesa di quei
signori. Ci sentiamo già più a
nostro agio, ci infiliamo, senza
urtarci, fra il sedile e il banco;
disponiamo davanti a noi la
matita, la penna, le gomme e i
temperini con aria familiare;
d'altronde è molto naturale. Quasi
quasi
affetteremmo
troppa
confidenza.
Entrano gli arbitri del nostro
destino. Hanno già perso un po'
del loro prestigio: le meno timide
li guardano tranquillamente, come
vecchie conoscenze. Roubaud, che
sfoggia un finto panama col quale
si
crede
elegantissimo,
s'impazientisce, molto agitato:
"Andiamo, signorine, andiamo!
Siamo in ritardo, questa mattina,
bisogna riguadagnare il tempo
perduto". Questa è bella! Fra poco
sarà colpa nostra se non hanno
potuto alzarsi di buon mattino.
Presto, presto, i fogli vengono
distribuiti sui banchi; presto
sigilliamo l'angolo, per nascondere
il nome; presto il frettoloso
Roubaud rompe il sigillo della
grande busta gialla, col timbro
dell'ispettorato scolastico, e ne tira
fuori i temibili problemi:
""Prima domanda - Un privato
ha comperato una rendita del 3,5%
al tasso di fr. 94.60, eccetera"".
Possa la grandine bucargli il
finto panama! Le operazioni di
borsa mi straziano: vi sono delle
mediazioni e degli 1/800%, che
faccio una gran fatica a non
dimenticare.
""Seconda domanda - La
divisibilità per 9." Avete un'ora."
Non è troppo, veramente. Per
fortuna, la divisibilità per nove
l'ho studiata tante volte che ho
finito per ricordarla. Ma bisognerà
che riordini tutte le condizioni
necessarie e sufficienti, che
scocciatura!
Le altre candidate sono già
assorte, attente; un leggero
sussurrìo di cifre, di calcoli fatti a
voce bassa, corre al di sopra delle
teste curve.
...E' finito questo problema.
Dopo aver rifatto due volte ogni
operazione (sbaglio così spesso!)
ottengo
un
risultato
di
ventiduemilaottocentocinquanta
franchi, quale utile di quel
signore: un bel guadagno! Ho
fiducia in questa cifra tonda è
rassicurante, ma tuttavia voglio
avere l'appoggio di Luce, che
maneggia le cifre in modo
magistrale. Parecchie candidate
hanno finito, e vedo che quasi
tutte hanno la faccia contenta. La
maggior parte di queste ragazzine,
figlie di contadini avidi o di abili
operaie, hanno d'altronde il dono
dell'aritmetica in modo tale che mi
ha spesso sbalordito. Potrei
interrogare la mia bruna vicina,
che ha finito anche lei, ma diffido
dei suoi occhi seri e discreti; faccio
dunque una pallina che vola e
cade sul naso di Luce, portando la
cifra
"22.850".
La
piccina,
allegramente, mi fa cenno di sì col
capo: va bene. Soddisfatta,
domando allora alla mia vicina:
"Quanto le "dà"?". Lei esita e
mormora, riservata: "Risulta più
di ventimila franchi".
"Anch'io; ma quanto in più?"
"Caspita... Più di ventimila..."
"Eh, non le chiedo di
prestarmeli! Si tenga i suoi
ventiduemilaottocentocinquanta
franchi, non è la sola ad avere la
soluzione esatta; lei assomiglia
sotto diversi aspetti a una formica
nera!"
Attorno a noi alcune ridono; la
mia interlocutrice, che non si è
neppure offesa, incrocia le mani e
abbassa gli occhi.
"Avete finito, signorine?" grida
Roubaud. "Vi ridò la libertà, siate
puntuali per la prova di disegno."
Alle
due
meno
cinque
ritorniamo all'ex istituto "Rivoire".
Che disgusto e che voglia di
andarmene mi ispira la vista di
questo carcere in rovina!
Nel punto più illuminato della
classe, Roubaud ha disposto due
file di sedie in cerchio; nel centro
di ciascuna, un trespolo da
scultore.
Che cosa vi poseranno sopra?
Siamo tutt'occhi. L'esaminatore
^factotum sparisce e ritorna
portando due caraffe di vetro col
manico. Prima che le posi sui
trespoli,
tutte
le
scolare
borbottano:
"Cara mia, come sarà difficile
per la trasparenza!".
Roubaud parla:
"Signorine, avete la facoltà, per
la prova di disegno, di disporvi
come vi pare. Riproducete questi
due vasi," (fango sarai tu! (17))
"col tratteggio, lo schizzo a
carboncino, rifinito con la matita
"Conté", con la proibizione
formale di servirsi di una riga o di
qualunque cosa che le assomigli. I
cartoni, che dovete avere portato
tutte, vi serviranno da tavole da
disegno".
Non ha ancora finito che mi
precipito già sulla sedia che ho
adocchiato, un posto magnifico,
dal quale si vede la caraffa di
profilo, col manico da una parte;
parecchie mi imitano e mi trovo
fra Luce e Marie Belhomme.
"Proibizione formale di servirsi
della
riga
per
le
linee
fondamentali?" Macché, si sa che
cosa significa! Le mie compagne e
io abbiamo di riserva certe strisce
di carta rigida, lunghe un
decimetro e divise in centimetri,
facilissime da nascondere.
E' permesso di chiacchierare,
ma ne
approfittiamo poco;
preferiamo far smorfie, il braccio
teso, chiudendo un occhio, per
prendere le misure col porta-lapis.
Con un po' di abilità, è
semplicissimo tracciare con la riga
le linee fondamentali (due tratti
che tagliano il foglio in croce e un
rettangolo per richiudere la pancia
della brocca).
Nell'altro circolo di sedie un
mormorìo
improvviso,
esclamazioni soffocate, e la voce
severa di Roubaud: "Basta questo,
signorina, per farla escludere
dall'esame!". E' una povera
piccina, striminzita e mingherlina,
che si è lasciata pescare un doppio
decimetro fra le mani, e ora
singhiozza nel fazzoletto. Subito
Roubaud diventa molto indiscreto
e ci sorveglia da vicino; ma le
strisce di carta con le misure sono
sparite
come
per
incanto:
d'altronde non ne abbiamo più
bisogno.
La
mia
caraffa
riesce
meravigliosamente, ben panciuta.
Mentre
la
guardo
con
compiacenza,
il
nostro
sorvegliante, distratto dalla timida
entrata delle maestre che vengono
a informarsi "se in generale i
componimenti sono buoni", ci
lascia sole, e Luce mi tira pian
piano: "Dimmi, per piacere, se il
mio disegno va bene; mi sembra
che ci sia qualcosa che non va".
Dopo averlo esaminato, le
spiego:
"Perbacco, ha il manico troppo
basso; gli dà l'aspetto di un cane
frustato che abbassi la coda".
"E la mia?" domanda Marie
dall'altra parte.
"La tua ha una gobba a destra;
mettile un busto ortopedico."
"Un che cosa?"
"Dico che devi metterle un po'
d'imbottitura a sinistra, ha
"protuberanze" solo da una parte;
chiedi ad Anaïs di prestarti una
delle sue poppe finte." (Anaïs la
lunga si mette due fazzoletti nella
cavità del busto, e tutti i nostri
frizzi non sono serviti a deciderla a
tralasciare questa imbottitura
puerile.)
Questo chiacchierìo suscita
nelle mie vicine una ilarità
smodata: Luce si rovescia sulla
sedia, ridendo e mettendo in
mostra tutti i denti candidi della
boccuccia felina. Marie gonfia le
guance
come
sacchi
da
cornamuse; poi tutt'e due si
fermano impietrite nel bel mezzo
della loro allegria, perché il
terribile
paio
di
occhi
fiammeggianti della signorina
Sergent le fa restare di sasso,
guardandole dal fondo della sala.
E la seduta finisce in un silenzio
assoluto.
Ci mandano fuori, febbricitanti
e chiassose all'idea che questa sera
verremo a leggere, su un grande
cartello inchiodato alla porta, i
nomi delle candidate ammesse
agli orali di domani. La signorina
Sergent ci trattiene a stento;
chiacchieriamo
in
modo
insopportabile.
"Verrai a vedere i nomi,
Marie?"
"No, perbacco! Se non ci fosse
il mio, le altre riderebbero di me."
"Io" dice Anaïs "ci verrò! Voglio
vedere le facce di quelle che non
saranno ammesse."
"E se tu fossi una di quelle?"
"Be', non porto il nome scritto
sulla fronte e saprei fare una
faccia contenta perché le altre non
assumessero
un'aria
compassionevole."
"Basta! Mi fate venire male alla
testa," interviene bruscamente la
signorina Sergent "vedrete quello
che vedrete, e state attente che
non venga io sola, questa sera, a
leggere i nomi sulla porta. Prima
di
tutto,
non
rientriamo
all'albergo, non ho voglia di fare
due
volte
in
più
questa
camminata:
pranziamo
in
trattoria."
Chiede una sala riservata. In
quella specie di gabinetto da
bagno che ci assegnano, dove la
luce filtra tristemente dall'alto, la
nostra effervescenza si spegne;
mangiamo
come
altrettanti
lupacchiotti, senza parlare quasi
mai. E, calmata la fame,
domandiamo, ora l'una ora l'altra,
ogni dieci minuti che ore sono. La
signorina tenta invano di calmare
il nostro nervosismo, assicurando
che le candidate sono troppo
numerose perché quei signori
abbiano potuto leggere tutti i
componimenti prima delle nove;
fremiamo ugualmente.
Non si sa più che cosa fare in
questa cantina! La signorina
Sergent non vuole accompagnarci
fuori; lo so perché: la guarnigione
è in libera uscita a quest'ora, e
quei bellimbusti in calzoni rossi
non hanno soggezione. Già,
mentre venivamo a pranzare, il
nostro piccolo gruppo era scortato
da sorrisi, scoppiettii di lingua e
schiocchi
di
baci;
queste
manifestazioni
esasperano
la
direttrice, che fulmina con gli
sguardi gli audaci fantaccini; ma ci
vorrebbe altro per farli stare a
posto!
Il sole che cala e la nostra
impazienza ci rendono scontrose e
cattive; Anaïs e Marie si sono già
scambiate rispostacce pungenti
con gesti aspri da galline che
lottano; le due Jaubert sembrano
meditare sulle rovine di Cartagine,
e io ho respinto con una rude
gomitata la piccola Luce che
voleva farsi carezzare. Per fortuna,
la signorina, irritata quasi quanto
noi, suona il campanello e chiede
la luce e due mazzi di carte. Che
buona idea!
Il chiarore dei due becchi a gas
ci rialza un po' il morale, e i mazzi
di carte ci fanno sorridere.
"Suvvia, un "trentuno"!"
Macché! Le due Jaubert non
sanno giocare! Ebbene, continuino
a riflettere sulla fragilità del
destino
umano;
giocheremo
disperatamente, noi altre, mentre
la signorina legge i giornali.
Ci divertiamo, giochiamo male.
Anaïs bara. E alle volte ci
fermiamo a metà della partita, coi
gomiti sulla tavola, il viso
sconvolto, per domandare: "Che
ora sarà?".
Marie esprime il parere che,
siccome è buio, non si potranno
leggere i nomi. Bisognerebbe
portare dei fiammiferi.
"Cretina, ci saranno i fanali."
"Ah, sì... Ma se non ce ne
fossero proprio in quel punto?"
"Be'," dico a bassa voce "ruberò
una candela dai candelabri del
caminetto, e tu porterai i
fiammiferi. Giochiamo... Il fante
di fiori e due assi!"
La signorina Sergent tira fuori
l'orologio; non le togliamo gli
occhi di dosso. Si alza; noi la
imitiamo così bruscamente che
cade qualche sedia. Riafferrate
dall'entusiasmo,
andiamo
a
prendere i cappelli a passo di
danza, e, guardandomi nello
specchio per mettermi il mio, rubo
una candela.
La signorina Sergent si dà un
gran da fare per impedirci di
correre; i passanti ridono di questa
fila di ragazze che si sforzano di
non galoppare, e noi ridiamo loro
in faccia. Finalmente la porta
risplende ai nostri occhi. Dicendo
che
risplende,
faccio
della
letteratura... Eppure è vero che
non c'è fanale. Davanti a questa
porta chiusa, un'infinità di ombre
si agitano, gridano, saltano dalla
gioia o si lamentano: sono le
nostre concorrenti delle altre
scuole; un brusco e rapido
accendersi di fiammiferi subito
spenti, fiamme vacillanti di
candele rischiarano un gran foglio
bianco, inchiodato sulla porta. Noi
ci
precipitiamo,
scatenate,
spingendo
violentemente
a
gomitate le piccole ombre che si
muovono. Nessuno bada a noi.
Tenendo la candela rubata più
dritta che posso, leggo, indovino,
guidata dalle iniziali in ordine
alfabetico: Anaïs, Belhomme,
Claudine, Jaubert, Lanthenay.
"Tutte, tutte!" Che gioia! E ora
verifichiamo i punti. Il minimo di
punti richiesto è quarantacinque;
il totale è scritto a fianco dei nomi,
fra parentesi i singoli voti.
La
signorina
Sergent,
entusiasta, si copia sul taccuino:
"Anaïs, 65; Claudine, 68; quanto
alle Jaubert? 63 e 64. Luce, 49;
Marie Belhomme, 44 1/2. Come
44 1/2? Ma allora lei non è
ammessa? Che cosa mi state a
raccontare?"
"No, signorina," osserva Luce
che è andata a verificare "è 44 3/4:
è ammessa con un quarto di punto
in meno: è una gentilezza di quei
signori."
La povera Marie, molto
affannata per la terribile paura che
ha provato, tira un gran sospiro.
Hanno fatto bene quelli là a
concederle un quarto di punto, ma
ho paura che si confonda all'orale.
Anaïs,
quella
cattivaccia,
passato il primo istante di gioia, fa
luce, caritatevolmente, alle nuove
arrivate, innaffiandole di cera
liquefatta.
La signorina non riesce a
calmarci, neppure dandoci la
doccia fredda di questa sinistra
profezia: "Le vostre pene non sono
ancora finite, vorrei vedervi
domani sera dopo l'orale".
A fatica ci riaccompagna
all'albergo:
saltelliamo
e
canticchiamo sotto la luna.
E la sera, quando la direttrice è
coricata e addormentata, Anaïs,
Luce, Marie e io (senza le Jaubert,
s'intende) scendiamo dal letto per
ballare pazzamente, coi capelli che
rimbalzano sulle spalle, tirando su
la camicia come per un minuetto.
Poi, in seguito a un rumore
immaginario proveniente dalla
camera dove riposa la signorina, le
ballerine di questa sconveniente
quadriglia scappano con fruscii di
zampette nude e risa soffocate.
L'indomani
mattina,
svegliatami troppo presto, corro a
"far paura" alla coppia Anaïs-Luce,
che dorme con un'espressione
assorta e coscienziosa: faccio il
solletico coi miei capelli sul naso
di Luce, che starnuta prima di
aprire gli occhi, e la sua agitazione
sveglia Anaïs che brontola e si
siede mandandomi al diavolo. Io
esclamo con gran serietà: "Ma non
sai che ore sono? Le sette, cara
mia, e l'orale è alle sette e mezzo".
Lascio che si precipitino giù dal
letto, che s'infilino le scarpe, e
aspetto
che
queste
siano
abbottonate per dire che sono
soltanto le sei, che avevo visto
male. Non sono tanto seccate
quanto avevo sperato.
Alle sette meno un quarto, la
signorina Sergent ci sprona,
affretta la colazione a base di
cioccolata, ci consiglia di dare
un'occhiata ai riassunti di storia,
mentre mangiamo le tartine, ci
spinge ancora stordite nella via
soleggiata: Luce munita dei
polsini scribacchiati a lapis, Marie
col tubetto di carta arrotolata,
Anaïs col minuscolo atlante. Si
aggrappano a queste piccole tavole
di salvezza, più ancora di ieri,
perché oggi bisognerà parlare,
parlare a quei signori che non
conosciamo, parlare davanti a
trenta paia di orecchie malevole.
Solo Anaïs ha un contegno sicuro;
non sa che cosa sia essere timida.
Nel
vecchio
cortile,
le
candidate sono oggi molto meno
numerose: ne sono rimaste tante
per strada fra lo scritto e l'orale!
(E' un bene: quando ne passano
molte agli scritti, ne bocciano
molte agli orali.)
La maggior parte, palliducce,
sbadigliano nervosamente e si
lamentano,
come
Marie
Belhomme, di sentirsi contrarre lo
stomaco... che brutta tremarella!
Si apre la porta davanti agli
"uomini neri"; noi li seguiamo in
silenzio sin dentro la sala
superiore, oggi sgombrata da tutte
le sedie; ai quattro angoli, dietro le
lavagne, o ex lavagne, siede un
esaminatore, serio, quasi lugubre.
Mentre osserviamo questa messa
in scena, curiose e timorose,
ammassate all'entrata, intimidite
dalla
grande
distanza
da
percorrere, la signorina ci spinge:
"Andate, andate dunque! Mettete
le radici qui?". Il nostro gruppo si
fa avanti più coraggioso, in un
plotone; papà Sallé, gottoso e
rattrappito, ci guarda senza
vederci, inverosimilmente miope;
Roubaud, gli occhi distratti, si
gingilla con la catena dell'orologio;
il
vecchio
Lerouge
attende
pazientemente e consulta la lista
dei nomi; e nel vano di una
finestra spicca una donna grassa e
bonacciona, che d'altronde è
zitella, la signorina Michelot, con i
solfeggi davanti a lei. Stavo per
dimenticarne
un
altro,
lo
scontroso Lacroix, che brontola,
alza le spalle, furente, sfogliando i
suoi libri, e sembra che litighi con
se stesso; le piccole, spaventate,
dicono fra sé che deve essere
"terribilmente cattivo". E' lui che
si decide a borbottare un nome:
"La signorina Aubert!".
Colei che risponde al nome di
Aubert, una ragazza troppo alta,
flessuosa e curva, s'impenna come
un cavallo, guarda con occhi loschi
e subito diventa cretina per l'ansia
di fare bella figura, si slancia
avanti, strillando con voce da
trombetta e un forte accento
campagnolo: "Sson qua, segnor!".
Scoppiamo tutte a ridere, e questo
riso, che non abbiamo pensato di
trattenere, ci rianima e ci
incoraggia.
Quel bulldog di Lacroix ha
aggrottato le ciglia, quando quella
disgraziata ha pronunciato il suo
"Sson qua!" di disperazione, e le
ha risposto: "Chi le dice il
contrario?". Quindi lei è in uno
stato da fare pietà.
"Signorina Vigoureux!" chiama
Roubaud, che prende l'alfabeto per
la coda. Si precipita una ragazza
piccola e grassa; ha il cappello
bianco,
inghirlandato
di
margherite, della scuola di
Villeneuve.
"Signorina Mariblom!" strilla
papà
Sallé,
che
crede
di
incominciare l'alfabeto dal mezzo
e legge a rovescio. Marie
Belhomme si avanza rossa rossa, e
siede sulla sedia in faccia a papà
Sallé; egli la guarda fisso e le
domanda se sa che cosa sia
l'Iliade. Luce, dietro a me, sospira:
"Almeno lei ha cominciato, tutto
sta a incominciare".
Le candidate in attesa, fra le
quali
ci
sono
anch'io,
si
disperdono
timidamente,
si
sparpagliano e vanno ad ascoltare
le
compagne
che
vengono
interrogate. Io vado ad assistere
all'esame della piccola Aubert, per
mettermi di buon umore. Nel
momento in cui mi avvicino, papà
Lacroix le domanda: "Allora lei
non sa chi aveva sposato Filippo il
Bello?".
Essa ha gli occhi fuori dalla
testa, il viso rosso e lustro di
sudore; i mezzi guanti lasciano
passare certe dita grosse come
salsicce: "Aveva sposato... no, non
si era sposato. Segnore, segnor
professore," grida a un tratto "ho
dimenticato tutto!". Trema, grosse
lacrime le rigano il volto. Lacroix
la guarda, cattivo come un
demonio: "Ha dimenticato tutto?
Con quello che le resta, si prende
un bello zero".
"Sì, sì," balbetta "ma non
importa, preferisco tornarmene a
casa mia, non importa..."
La portano via, che ha il
singhiozzo a furia di piangere
dirottamente, e dalla finestra la
sento dire, fuori, alla propria
maestra mortificata: "Ma sì che
preferisco custodire le vacche a
casa mia, e mai più che prenderò il
treno delle due".
Nell'aula le sue compagne
parlano
dello
"spiacevole
incidente", serie e sprezzanti:
"Cara mia, non ti pare che sia una
gran cretina?...
Cara mia, se mi avessero fatto
una domanda così facile, sarei
stata ben felice, cara!".
"Signorina Claudine!"
Mi chiama il vecchio Lerouge.
Ahimè! L'aritmetica... E' una
fortuna
che
abbia
un'aria
paterna... Vedo subito che non mi
nuocerà.
"Vediamo, figlia mia, mi dirà
ben
qualcosa
sui
triangoli
rettangoli?"
"Sì, professore, sebbene loro
non mi dicano un gran che."
"Via, via! Li vuol far passare
per più cattivi di quanto siano.
Vediamo, mi costruisca un
triangolo rettangolo su questa
lavagna e gli dia le dimensioni; poi
mi farà il piacere di parlarmi del
quadrato dell'ipotenusa..."
Bisognerebbe tenerci proprio,
per riuscire a farsi bocciare da un
uomo come questo! Quindi sono
più mansueta di un agnellino dal
collare rosa, e dico tutto quello
che so. E' presto fatto d'altronde.
"Ma va benissimo! Mi dica
anche come si riconosce che un
numero è divisibile per nove, e la
lascio libera."
Io spiattello: "La somma delle
cifre... condizione necessaria...
sufficiente".
"Se ne vada, figlia mia, basta."
Mi alzo respirando di sollievo,
trovo dietro di me Luce che dice:
"Sei
fortunata, ne
sono
contenta per te". Ha detto queste
parole gentilmente: per la prima
volta le accarezzo il collo senza
malizia.
Bene, ancora io! Non si ha il
tempo di respirare!
"Signorina Claudine!"
E' quel porcospino di Lacroix,
l'atmosfera si scalda! Prendo
posto, ed egli mi guarda al di sopra
delle lenti e dice: "Ah, mi parli
della guerra delle Due Rose!".
Patatrac! Sono spacciata sin dal
primo colpo! Non so dire quindici
parole sulla guerra delle Due
Rose. Dopo i nomi dei capi dei due
partiti, mi fermo.
"E poi? E poi? E poi?"
Mi irrita, sbotto a dire:
"E poi hanno combattuto come
forsennati per molto tempo, ma il
resto mi è sfuggito dalla
memoria".
(Mi guarda stupefatto. Di certo
mi tirerà qualcosa addosso!)
"E' così che impara la storia,
lei?"
"Puro sciovinismo, professore!
M'interessa soltanto la storia di
Francia."
Fortuna insperata: ride!
"Preferisco avere a che fare con
le impertinenti che con le cretine.
Mi parli di Luigi XV (1742)."
"Ecco. Era il tempo in cui la
signora de la Tournelle esercitava
su
di
lui
un'influenza
deplorevole..."
"Perdinci, non le domando
questo!"
"Scusi, professore, non è una
mia invenzione, è la pura verità... I
migliori storici..."
"Come? I migliori storici?..."
"Sì, professore, l'ho letto in
Michelet con tutti i particolari!"
"Michelet! Ma è una pazzia!
Michelet, capisce bene, ha scritto
un romanzo storico in venti
volumi e ha osato chiamarlo La
storia di Francia! E lei viene a
parlarmi di Michelet!..."
E' infuriato, picchia sulla
tavola; gli tengo testa; le giovani
candidate sono impietrite attorno
a noi, stentano a credere alle
proprie orecchie; la signorina
Sergent si è avvicinata ansante,
pronta a intervenire. Quando mi
sente dichiarare:
"Michelet
è
però
meno
scocciatore di Duruy!...".
Si butta addosso alla tavola e
protesta angosciosamente:
"Professore, la prego di
perdonare... questa ragazza ha
perso la testa: si ritirerà subito...".
Egli la interrompe, si asciuga la
fronte e sbuffa:
"Lasci, signorina, non importa:
ci tengo alle mie opinioni, ma mi
piace che gli altri tengano alle
loro; questa ragazza ha idee false e
ha fatto cattive letture, ma non
difetta di personalità... si vedono
tante oche!... Solamente lei,
lettrice di Michelet, cerchi di dirmi
come andrebbe, in battello, da
Amiens a Marsiglia, o le affibbio
un due del quale si accorgerà!".
"Partita
da
Amiens,
imbarcandomi
sulla
Somme,
risalgo... eccetera... i canali...
eccetera... e arrivo a Marsiglia;
solamente, dopo un periodo di
tempo che varia dai sei mesi ai
due anni."
"Questo non è affar suo.
Sistema orografico della Russia, e
presto."
(Ahimè! Non posso dire di
brillare particolarmente per la
conoscenza del sistema orografico
della Russia, ma me la cavo
abbastanza bene, eccetto per
qualche lacuna che sembra
deplorevole all'esaminatore.)
"E i Balcani, lei li sopprime,
allora?"
(Quest'uomo parla con la
velocità di un razzo.)
"Ma no, professore, li serbavo
per ultimi."
"Va bene, se ne vada."
Fanno ala al mio passaggio con
un po' d'indignazione. Quelle care
piccine!
Mi riposo, non mi chiamano, e
sento
con
spavento
Marie
Belhomme
che
risponde
a
Roubaud che, "per preparare
l'acido solforico, si versa l'acqua
sulla calce che si mette a ribollire;
allora si raccoglie il gas in un
pallone". Ha l'espressione di
quando prende le più grosse
cantonate e fa le stupidaggini più
irreparabili: le mani enormi,
lunghe e strette, si appoggiano
sulla tavola; gli occhi di stupido
uccello brillano e ruotano; sta
sciorinando, con straordinaria
volubilità, idiozie mostruose. Non
c'è nulla da fare, anche se le si
suggerisse
all'orecchio,
non
sentirebbe!
Anaïs
l'ascolta
anch'essa, e si diverte con tutto il
suo buon animo. Le domando:
"Che esami hai già fatto?".
"Canto, storia, geografia..."
"E' cattivo, il vecchio Lacroix?"
"Sì, com'è esigente! Ma mi ha
fatto un mucchio di domande
facili: la guerra dei Trent'anni, i
trattati... Dimmi un po', Marie sta
perdendo la bussola!"
"Perdere
la
bussola
è
un'espressione che mi sembra
insufficiente."
La piccola Luce, commossa e
scapigliata, viene verso di noi:
"Ho fatto l'esame di geografia e
di storia, ho risposto bene. Ah,
come sono contenta!".
"Sei qui, buona a nulla? Io
vado a bere alla pompa, non
resisto più, chi viene con me?"
Nessuna; non hanno sete o
hanno paura di mancare a un
appello. In una specie di
parlatorio, giù, trovo la scolara
Aubert, con le guance ancora
chiazzate
del
rossore
della
disperazione di poco prima e gli
occhi gonfi; scrive alla famiglia su
un tavolino, tranquilla e contenta,
ora, di tornare nella fattoria. Le
dico:
"Ebbene, non ha proprio voluto
sapere nulla poco fa?".
Alza su di me degli occhi da
vitello:
"A me tutte 'ste cose fan paura
e me rimescolano 'l sangue.
Mamma m'ha messa in collegio,
papà non voleva, diceva ch'ero
bbona a bbadà alla casa come le
sorelle e da fa' 'l bucato e zappà in
giardino, ma mamma non ha
voluto, ed è lei che l'ha vinta.
M'hanno fatto ammalà, a forza di
farme studiare e vede quel ch'è
successo oggi. L'avevo indovinato!
Adesso me crederanno!".
E si rimette a scrivere
tranquilla.
Lassù, nella sala, fa un caldo da
morire; quelle ragazzine, quasi
tutte rosse e lustre (è una fortuna
che io non abbia la pelle rossa per
natura!), hanno perso la testa, coi
nervi tesi, aspettano di essere
chiamate, con l'ossessione di
rispondere
sciocchezze.
Non
suonerà presto mezzogiorno, sì
che possiamo andarcene?
Anaïs ritorna dall'esame di
fisica e chimica; non è rossa, come
potrebbe esserlo? Credo che in
una caldaia bollente resterebbe
gialla e fredda.
"Allora, va bene?"
"Se Dio vuole, ho finito. Sai che
per giunta Roubaud interroga in
inglese; mi ha fatto leggere frasi e
tradurre; non so perché si
sbellicava dalle risa quando
leggevo in inglese. Che cretino!"
E' la pronuncia! Sfido, ho il
dubbio che la signorina Aimée
Lanthenay, che ce lo insegna, non
parli l'inglese con eccessiva
purezza. Cosicché, fra poco,
quell'imbecille del professore mi
prenderà in giro perché non
pronuncio meglio di lei! Eccone
un'altra di bella! Sono furente al
pensiero che quell'idiota riderà di
me.
Mezzogiorno. Quei signori si
alzano, e noi ci abbandoniamo al
solito strepito di quando si lascia
l'aula. Lacroix, spinoso e con gli
occhi fuori dalla testa, annuncia
che
questo
divertimento
ricomincerà alle due e mezzo. La
signorina ci pesca a stento fra il
turbinìo
delle
ragazzine
chiacchierone e ci conduce al
ristorante. Mi tiene ancora il
broncio per la "riprovevole
condotta con papà Lacroix; ma
non me ne importa! Il caldo è
opprimente, sono stanca e senza
voce...
Ah, i boschi, i cari boschi di
Montigny! A quest'ora so bene
come mormorano: le vespe e le
mosche che succhiano i fiori dei
tigli e dei sambuchi fanno vibrare
tutta la foresta come un organo; e
gli uccelli non cantano, perché a
mezzogiorno stanno ritti sui rami,
cercano l'ombra, si lisciano le
penne e guardano il sottobosco
con occhi mobili e lucenti. Me ne
starei
coricata,
sull'orlo
dell'abetaia donde si vede tutto il
paese in basso, sotto di noi, col
vento caldo che mi soffia in faccia,
mezza sfinita di benessere e di
pigrizia.
...Luce mi vede distratta,
completamente assorta, e mi tira
per la manica col sorriso più
provocante. La signorina sta
leggendo il giornale; le compagne,
piuttosto
insonnolite,
si
scambiano mezze frasi. Io gemo e
Luce protesta sommessamente:
"Però non mi rivolgi più la
parola! Tutto il giorno facciamo gli
esami, la sera andiamo a letto, e a
tavola sei così di cattivo umore
che non so più quando posso
venire a cercarti!".
"E' molto semplice: non
cercarmi!"
"Oh, come sei scortese! Non ti
accorgi neppure di tutta la mia
pazienza
di
aspettarti,
di
sopportare quel tuo modo di
respingermi sempre..."
Anaïs la lunga ride come una
porta non unta, e la piccina
s'interrompe molto intimidita. E'
vero, però, che ha una pazienza
tenace. E pensare che tanta
costanza non le servirà a nulla, è
triste, triste!
Anaïs continua a seguire il
proprio
pensiero;
non
ha
dimenticato le risposte incoerenti
di Maria Belhomme, e, da quella
birbona
che
è,
domanda
gentilmente
alla
disgraziata,
inebetita e immobile:
"Che domanda ti hanno fatto
in fisica e in chimica?".
"Non ha importanza," borbotta
la signorina, stizzosa "comunque
avrà
risposto
qualche
sciocchezza."
"Non lo so più," fa la povera
Marie Belhomme, sconcertata
"l'acido solforico, credo..."
"E che cosa gli è andata a
dire?"
"Oh, per fortuna sapevo
qualcosa, signorina; ho detto che
si versava l'acqua sulla calce, che
le bolle di gas che si formavano
erano acido solforico..."
"Ha detto questo?" chiede la
signorina con la voglia di
mordere...
Anaïs si mangia le unghie dalla
gioia. Marie, folgorata, non apre
più la bocca, e la direttrice ci
conduce via impettita, rossa,
camminando con passo accelerato;
le trotterelliamo dietro come
cagnolini, e quasi quasi tiriamo
fuori la lingua anche noi sotto
questo sole opprimente.
Non badiamo più alle nostre
concorrenti
forestiere,
che
neppure ci guardano a loro volta.
Il caldo e il nervosismo ci tolgono
ogni civetteria, ogni animosità. Le
alunne della scuola superiore di
Villeneuve - le "mele verdi", come
le chiamano per il nastro verde
che portano al collo, quell'orribile
verde sfacciato, del quale i collegi
hanno la specialità - affettano
ancora
atteggiamenti
da
santarelline
e
di
disgusto,
passando vicino a noi (perché?
Non lo sapremo mai); ma tutto ciò
si acquieta, si placa; pensiamo alla
partenza dell'indomani, pensiamo
con gioia che daremo la baia alle
compagne bocciate, a quelle che
non hanno potuto presentarsi agli
esami a causa di una "debolezza
generale". Come si pavoneggerà
Anaïs la lunga, e parlerà della
scuola normale come se fosse una
sua proprietà! Puh, mi sembra di
non
poter
mai
dimostrare
abbastanza il mio disprezzo.
Finalmente ricompaiono gli
esaminatori, si asciugano il
sudore, sono brutti e lustri. Dio
mio, non mi piacerebbe essere
sposata in una stagione simile!
Solo l'idea di andare a letto con un
uomo che soffrisse il caldo come
loro... (D'altronde, d'estate, avrei
due letti...) E poi, in questa sala
surriscaldata, c'è una puzza
spaventosa; molte di queste
ragazzine sono sporche sotto, di
certo.
Me ne andrei volentieri.
Accasciata su una sedia,
ascolto
vagamente
le
altre
aspettando il mio turno; vedo la
scolara più fortunata di tutte che
ha "finito" per prima. Ha subìto
tutte le interrogazioni, respira,
attraversa la sala, seguita dai
rallegramenti, dall'invidia, da
esclamazioni come questa: "Sei
proprio fortunata, tu!". Ben presto
la segue un'altra, la raggiunge nel
cortile, dove le "liberate" si
riposano e scambiano le loro
impressioni.
Papà Sallé, un po' sollevato con
questo sole che gli riscalda la gotta
e i reumatismi, si riposa,
forzatamente, perché la scolara
ch'egli sta aspettando è occupata
altrove;
se
arrischiassi
un
attentato alla sua virtù? Mi
avvicino pian piano e mi siedo
sulla sedia davanti a lui.
"Buongiorno, professor Sallé."
Mi guarda, si accomoda gli
occhiali, ammicca e non mi vede.
"Claudine, non ricorda?"
"Ah!...
Ma
come
no!
Buongiorno, cara; suo padre sta
bene?"
"Benissimo, grazie."
"Dunque va bene l'esame? E'
soddisfatta? Ha quasi finito?"
"Ahimè, magari! Ma devo
ancora fare l'esame di fisica e di
chimica, quello di letteratura con
lei, d'inglese e di musica. La
signora Sallé sta bene?"
"Mia moglie sta facendo un
giro nel Poitou; farebbe meglio a
curarmi, ma..."
"Senta, professor Sallé, dato
che sono qui, mi "liberi" dalla
letteratura."
"Ma non sono arrivato al suo
nome, tutt'altro! Torni fra poco..."
"Professor Sallé, che cosa
importa?"
"Importa, importa che mi stavo
godendo un momento di riposo e
me lo ero ben meritato. E poi non
è nel regolamento: non si deve
interrompere l'ordine alfabetico."
"Professor Sallé, sia buono.
Non mi domandi quasi nulla. Lei
sa che ne so più di quanto esiga il
programma, in fatto di libri di
letteratura. Sono un topo della
biblioteca di papà."
"Eh... sì, è vero. Posso ben farlo
per lei. Avevo l'intenzione di
domandarle che cosa erano gli
aedi e i trovadori e il Romanzo
della rosa, eccetera..."
"Stia tranquillo, professor
Sallé. I trovadori li conosco: li
vedo tutti sotto l'aspetto del
piccolo
"cantore
fiorentino",
così..."
Mi alzo e ne imito la posa: col
corpo appoggiato sulla gamba
destra, mentre il parasole verde di
papà Sallé mi serve da mandolino.
Per fortuna siamo soli in
questo angolo! Luce mi guarda da
lontano e sta a bocca aperta dalla
sorpresa. Questo povero gottoso si
distrae un po', ride.
"...Hanno un berretto di
velluto, i capelli ricciuti, spesso
anche un costume bipartito (color
azzurro e giallo sta benissimo); col
mandolino appeso a un cordone di
seta, cantano quel piccolo brano
del Passante: "Mia cara, ecco
l'aprile...". E' così, professor Sallé,
che
immagino
i
trovadori.
Abbiamo anche i trovadori del
primo impero."
"Figlia mia, lei è un po' pazza,
ma mi distraggo con lei. Che cosa
saranno mai quelli che lei chiama
i trovadori del primo impero,
santo cielo? Parli piano, piccola
Claudine mia, se quei signori ci
vedessero..."
"Zitto, i trovadori del primo
impero li conosco da certe canzoni
che cantava papà. Stia a sentire."
Canticchio sottovoce:
D'amore ardente, pronto per la
guerra,/ con l'elmo in capo e con
la lira in mano,/ un trovadore alla
sua pastorella/ partendo ripeteva
il ritornello:/ Il mio braccio alla
patria,/ Il mio cuore all'amata;/
lieto morir per la gloria e l'amore:/
e il ritornel del gaio trovadore!/
Papà Sallé ride di tutto cuore:
"Dio mio, com'era ridicola
quella gente! So benissimo che
anche noi lo saremo altrettanto fra
vent'anni, ma l'idea di un
trovadore con l'elmo e la lira!...
Scappi in fretta, figlia mia, se ne
vada, avrà un bel voto, tanti saluti
a suo padre, gli dica che ho molta
simpatia per lui, e che insegna
canzoni proprio belle a sua figlia!".
"Grazie,
professor
Sallé,
arrivederci; grazie ancora una
volta di non avermi interrogata,
non dirò nulla, stia tranquillo!"
Ecco un brav'uomo! Mi ha
ridato un po' di coraggio e ho
un'aria così allegra che Luce mi
domanda: "Dunque hai risposto
bene? Che cosa ti ha domandato?
Perché prendevi il suo parasole?".
"Ah, ecco! Mi ha domandato
cose molto difficili sui trovadori,
sulla forma degli strumenti di cui
si servivano; è una fortuna che
sapessi tutti quei particolari!"
"La forma degli strumenti... no
veramente, tremo pensando che
avrebbe potuto domandarlo a me!
La forma degli... ma non è nel
programma!
Lo
dirò
alla
signorina!"
"Benissimo,
faremo
una
protesta. Hai "finito" tu?"
"Sì, grazie, ho finito. Ho un
quintale di meno sullo stomaco, te
lo assicuro; credo che solo Marie
debba ancora far esami."
"Signorina Claudine!" esclama
una voce dietro a noi. Ah, ah, è
Roubaud. Mi siedo davanti a lui,
riservata e seria; si mostra gentile,
è il professore mondano di questo
ambiente; io parlo, ma mi tiene
ancora il broncio, quell'astioso,
perché ho respinto troppo in fretta
il suo madrigale botticelliano. Con
voce un po' irritata mi domanda:
"Oggi non si è addormentata
sotto le fronde, signorina?".
"E' una domanda che fa parte
del programma, professore?"
(Tossicchia. Ho fatto una
grossa corbelleria per tormentarlo.
Pazienza!)
"Mi vuol dire come farebbe per
procurarsi un po' d'inchiostro?"
"Dio mio, professore, ci sono
tanti modi; il più semplice sarebbe
ancora quello di andare a
chiederlo
dal
cartolaio
all'angolo..."
"Questa
spiritosaggine
è
divertente, ma non basterebbe a
farle avere un bellissimo voto...
Cerchi di dirmi con quali
ingredienti farebbe l'inchiostro."
"Noce di galla... tannino...
ossido di ferro... gomma..."
"Non sa le proporzioni?"
"No."
"Peggio per lei! Può parlarmi
della mica?"
"Non ne ho mai vista, se non
nei portelli delle stufe."
"Davvero? Peggio per lei
ancora una volta! Di che cosa è
fatta la mina delle matite?"
"Di grafite, un minerale tenero
che si sega a bacchettine e che si
rinchiude nelle due metà di un
cilindro di legno."
"E' il solo uso della grafite?"
"Non ne conosco altri."
"Peggio per lei, sempre! Se ne
fanno soltanto matite?"
"Sì, ma se ne fanno molte; ve
ne sono miniere in Russia, credo.
In tutto il mondo si consuma una
quantità straordinaria di matite,
soprattutto gli esaminatori che
schizzano
il
ritratto
delle
candidate sul loro taccuino..."
(Arrossisce e si agita.)
"Passiamo all'inglese."
E aprendo una piccola raccolta
di racconti di miss Edgeworth:
"Mi traduca qualche frase".
"Tradurre, sì, ma leggere... è
un'altra cosa!"
"Perché?"
"Perché la nostra insegnante
d'inglese ha una pronuncia
ridicola; io non so pronunciare
altrimenti."
"Via, che cosa importa?"
"Importa che non mi piace
essere ridicola."
"Legga un po', la farò smettere
subito."
Leggo, ma a voce bassissima,
abbozzando appena le sillabe, e
traduco le frasi prima di aver
articolato le
ultime
parole.
Roubaud, suo malgrado, scoppia
dalle risa per la mia gran
sollecitudine
di
non
voler
dimostrare
l'insufficienza
in
inglese, e ho voglia di graffiarlo.
Come se fosse colpa mia!
"Va bene. Vuol dirmi qualche
verbo irregolare con le forme
dell'imperfetto e del participio
passato?"
"To see, vedere, saw, seen; to
be, essere, was, been; to drink,
bere, drank, drunk; to..."
"Basta, grazie. Buona fortuna,
signorina."
"Lei
è
troppo
gentile,
professore."
Ho saputo l'indomani che
quell'elegante ipocrita mi aveva
affibbiato un bruttissimo voto, tre
punti sotto la media, di che farmi
bocciare, se i voti degli scritti,
soprattutto il componimento, non
avessero perorato in mio favore.
Va' a fidarti di quei sornioni vestiti
pretenziosamente, che si lisciano i
baffi e ti fanno il ritratto
lanciandoti occhiate! E' vero che lo
avevo irritato, ma fa lo stesso; i
bulldogs franchi, come papà
Lacroix, valgono cento volte di
più!
Liberata dalla fisica e dalla
chimica come pure dall'inglese, mi
siedo e mi accingo a mettere un
po' di arte nel disordine dei miei
capelli. Luce mi viene vicino, si
arrotola con compiacenza i miei
riccioli attorno al dito; è sempre
una gatta che si strofina. Ha un
bel
coraggio,
con
questa
temperatura.
"Dove sono le altre, piccina?"
"Le altre? Hanno finito tutte,
sono giù nel cortile con la
signorina, e ci sono anche quelle
delle altre scuole che hanno
finito."
Il fatto è che la sala si sta
vuotando rapidamente.
Quella grassa bonacciona della
signorina Michelot finalmente mi
chiama. E' rossa e stanca da far
pietà ad Anaïs stessa. Mi siedo;
essa mi contempla senza dire
nulla, con grandi occhi perplessi e
bonari.
"Lei... sa suonare, mi ha detto
la signorina Sergent."
"Sì, signorina, suono il piano."
Esclama, alzando le braccia:
"Ma allora ne sa molto più di
me".
(Le è uscito dal cuore; non
posso fare a meno di ridere.)
"Allora, senta, le farò leggere a
prima vista e basta. Le cercherò
qualcosa di difficile: riuscirà
sempre a cavarsela."
Il pezzo difficile che ha trovato
è
un
esercizio
abbastanza
semplice, che, tutto in semicrome,
con sette bemolli in chiave, le è
sembrato "ostico" e pauroso. Io lo
canto allegro vivace, circondata da
un cerchio di ragazzine che mi
ammirano,
che
sospirano
d'invidia.
La signorina Michelot dondola
il capo e mi dà, senza insistere
ulteriormente, un venti che fa
stralunare l'uditorio.
Uff,
è
dunque
finita!
Ritorneremo
a
Montigny,
ritorneremo a scuola, correremo
nei boschi, assisteremo ai sollazzi
delle nostre maestre (povera
piccola Aimée, deve languire sola
soletta!). Scendo in cortile, la
signorina Sergent non aspettava
che me, e, vedendomi, si alza.
"Ebbene! E' finita?"
"Sì, grazie a Dio! Ho preso 20
in musica."
"Venti in musica!"
Lo hanno gridato in coro le
compagne che non vogliono
credere alle loro orecchie.
"Non ci mancherebbe altro che
lei non avesse venti in musica"
dice la signorina con aria
distaccata ma in fondo lusingata.
"Però,"
soggiunge
Anaïs,
seccata e gelosa, "venti in musica,
diciannove in componimento... se
hai molti voti come questi!"
"Sta' tranquilla, cara la mia
figliola, l'elegante Roubaud mi
avrà dato voti molto scarsi!"
"Perché?" chiede la signorina,
subito inquieta.
"Perché non gli ho detto un
gran che. Mi ha domandato con
che legno si fanno i flauti, no, le
matite, qualcosa di questo genere,
e poi certe storie sull'inchiostro...
e
Botticelli,
insomma
non
riuscivamo a intenderci, noi due."
La direttrice si è rabbuiata.
"Mi stupirebbe se lei non
avesse fatto qualche corbelleria!
Dovrà prendersela solo con se
stessa, se sarà bocciata."
"Eh, chi lo sa? Me la prenderò
col maestro Antonin Rabastens;
mi aveva ispirato una violenta
passione e i miei studi ne hanno
sofferto straordinariamente."
Dopo questo Marie Belhomme
dichiara, unendo le mani da
levatrice, che se avesse un
innamorato non lo direbbe così
sfacciatamente. Anaïs mi guarda
di sottecchi per capire se scherzo o
no, e la signorina, alzando le
spalle, ci riaccompagna all'albergo,
fiacche, disperse, così lente che
deve sempre attenderne qualcuna
all'angolo delle vie.
Si pranza, si sbadiglia; alle
nove ci riprende la febbre di
andare a leggere il nome delle
elette, alla porta di quel laido
paradiso.
"Non
accompagno
nessuno," dichiara la signorina;
"andrò sola: voi aspetterete." Ma si
leva un tal concerto di gemiti
ch'essa si intenerisce e ci permette
di seguirla.
Di nuovo ci siamo premunite
di candele, inutili questa volta,
dato che una mano benevola ha
appeso una grossa lanterna al di
sopra del cartello bianco dove
sono scritti i nostri nomi... Eh,
piano! Corro un po' troppo
dicendo i "nostri"... se il mio non
si trovasse nella lista? Anaïs
cadrebbe in deliquio per la gioia!
Fra
esclamazioni,
spinte,
battimani, leggo, per fortuna:
"Anaïs, Claudine", eccetera...
Tutte dunque! Ahimè no, non
Marie. "Marie è rimandata"
mormora Luce.
"Marie non c'è" sussurra Anaïs,
che stenta a nascondere la perfida
gioia. La povera Marie Belhomme
resta piantata lì, pallidissima,
davanti al brutto foglio ch'essa
contempla con gli occhi lucenti da
uccello, sgranati e rotondi; poi le
si tirano gli angoli della bocca e
scoppia in un pianto rumoroso.
"Su, su, bimba mia," interviene
la
signorina
"lei
non
sa
rassegnarsi. Sarà per ottobre, avrà
più fortuna... Ma che cos'è
dunque? Ha altri due mesi di
studio..."
"Uh!" si lamenta l'altra,
inconsolabile.
"Sarà promossa, glielo dico io!
Guardi, le prometto che sarà
promossa! E' contenta?"
Effettivamente
questa
affermazione produce un ottimo
effetto. Marie emette soltanto
piccoli guaiti, come quelli di un
cucciolo di un mese al quale si
impedisce di succhiare il latte, e
cammina fregandosi gli occhi.
Il suo fazzoletto è da torcere, e
lei lo torce ingenuamente, nel
momento in cui passa sul ponte.
Quella cattivaccia di Anaïs dice a
mezza
voce:
"I
giornali
annunciano una grande piena
della Lisse...".
Marie, che sente, sbotta in una
risata irrefrenabile, mescolata agli
ultimi singhiozzi, e anche noi
scoppiamo tutte. Ecco, la testolina
volubile della bocciata ha girato
dalla parte della gioia; pensa che
sarà promossa in ottobre, si
rallegra, e non troviamo nulla di
più opportuno, in quella sera
afosa, che saltare alla corda nella
piazza (tutte, sì, persino le
Jaubert!) sino alle dieci, sotto la
luna.
L'indomani la signorina viene a
scuoterci dal letto già alle sei;
tuttavia il treno non parte che alle
dieci!
"Andiamo,
andiamo,
pigrone, bisogna rifare le valigie, e
c'è la colazione, non avete tempo
d'avanzo!" Vibra in uno stato di
eccezionale trepidazione: i suoi
occhi
penetranti
brillano
e
sprizzano scintille, ride, urta Luce
che casca dal sonno, strapazza
Marie Belhomme che si frega gli
occhi, in camicia, coi piedi infilati
nelle pantofole, senza riprendere
chiaramente la coscienza della
realtà. Siamo tutte sfibrate, noi,
ma chi riconoscerebbe nella
signorina la sorvegliante che ci ha
accompagnate in questi tre giorni?
La felicità la trasfigura, non fa che
sorridere fra sé nell'omnibus che
ci riconduce alla stazione.
Marie
sembra
un
po'
malinconica per lo scacco subito,
ma penso che ostenti per dovere
un'aria
contrita.
E
noi
chiacchieriamo
disperatamente,
tutte insieme: ciascuna racconta il
suo esame ad altre cinque che non
ascoltano.
"Vecchia mia!" esclama Anaïs
"Quando ho sentito che mi
domandava le date dei..."
"Vi ho proibito cento volte di
chiamarvi
"vecchia
mia""
interrompe la signorina.
"Vecchia
mia,"
ricomincia
sottovoce Anaïs "non ho avuto che
il tempo di aprire il piccolo
taccuino che avevo in mano; il
bello è che lo ha visto, parola
d'onore, e non ha detto niente!"
"Sei una gran bugiarda!" grida
l'onesta Marie Belhomme, con gli
occhi fuori dalla testa. "C'ero io,
guardavo, non ho visto niente; te
lo avrebbe levato; hanno pur
levato il decimetro a una di
Villeneuve."
"Ti consiglio proprio di aprir
bocca! Va' dunque a raccontare a
Roubaud che la grotta del Cane è
piena di acido solforico!"
Marie abbassa il capo, diventa
rossa, e ricomincia a piangere al
ricordo delle sue disgrazie; io
faccio il gesto di aprire un
ombrello e la signorina si strappa
ancora una volta all'"affascinante
aspettativa":
"Anaïs, lei è perfida! Se dà
fastidio
a una sola delle
compagne, la faccio viaggiare sola
in uno scompartimento riservato".
"Quello
dei
fumatori;
benissimo" affermo.
"In quanto a lei, nessuno la
interroga. Prendete le valigie, i
mantelli, non siate sempre i soliti
impiastri!"
Quando siamo in treno, non si
occupa di noi, proprio come se
non
esistessimo;
Luce
si
addormenta con la testa sulla mia
spalla; le Jaubert si sprofondano
nella contemplazione dei campi
che sfilano, del cielo a pecorelle e
bianco; Anaïs si rosicchia le
unghie; Marie si assopisce e
contemporaneamente le si placa il
dispiacere.
A Bresles, l'ultima stazione
prima di Montigny, cominciamo
ad agitarci un po'; ancora dieci
minuti, e ci siamo. La signorina
tira fuori lo specchietto tascabile e
verifica l'equilibrio del cappello, il
disordine dei ruvidi e crespi capelli
rossi, la porpora crudele delle
labbra, assorta, palpitante e con
un'aria quasi folle; Anaïs si pizzica
le guance nella irragionevole
speranza di farvi affluire un'ombra
rosea, io mi metto il mio
appariscente e immenso cappello.
Per chi facciamo tanto sfoggio?
Non per la signorina Aimée, noi
altre, certamente... Be', per
nessuno, per gli impiegati della
stazione, per il conducente
dell'omnibus, papà Racalin, un
ubriacone sessantenne, per quel
cretino che vende i giornali, per i
cani che correranno sulla strada.
Ecco l'abetaia e il bosco del Bel
Air, e poi il prato comunale, e lo
scalo-merci, e finalmente stridono
i freni! Saltiamo a terra, dietro alla
signorina che è già corsa verso la
sua piccola Aimée, allegra e
saltellante sulla banchina. L'ha
stretta in un abbraccio così
vigoroso che la fragile aiutante,
soffocata, arrossisce bruscamente.
Noi le corriamo incontro e le
diamo il benvenuto con l'aria di
buone scolarette: "...Buongiorno,
signorina!... Sta bene, signorina?".
Siccome il tempo è bello,
siccome non c'è fretta, ficchiamo
le
valigie
nell'omnibus
e
ritorniamo a piedi, gironzolando
lungo la strada fra le alte siepi in
cui fioriscono le poligale azzurre e
di un rosa che tende al color vino,
e le "Ave Marie", che hanno fiori
simili a piccole croci bianche.
Felici di essere libere, di non avere
la storia di Francia da ripassare, né
carte geografiche da colorire,
corriamo davanti e dietro alle
signorine, che camminano a
braccetto, ritmando insieme il
passo. Aimée ha abbracciato la
sorella, le ha dato un buffetto
sulla guancia, dicendole: "Vedi
bene, sciocchina, che si riesce pure
a cavarsela?". E ora non ha occhi,
né orecchi che per la sua grande
amica.
Delusa ancora una volta, la
povera Luce si attacca a me e mi
segue
come
un'ombra,
mormorando parole di scherno e
minacce: "Val proprio la pena di
rompersi il cervello per ricevere
complimenti simili!...
Hanno un bel modo di
presentarsi tutt'e due; mia sorella
appesa
all'altra,
come
un
paniere!... Davanti a tutti quelli
che passano, domando io se non fa
rabbia!". Se ne infischiano della
gente che passa.
Ritorno trionfante. Tutti sanno
da dove veniamo e l'esito degli
esami, telegrafato dalla signorina;
la gente sta sulla porta e ci fa
cenni affettuosi... Marie sente
crescere l'avvilimento e cerca di
nascondersi più che può.
Dopo aver lasciato la scuola
per qualche giorno, la vediamo più
bella, ritrovandola: terminata,
rifinita, leccata, bianca, col
municipio in mezzo, fiancheggiato
dalle due scuole: quella maschile e
quella femminile, il gran cortile
del quale hanno rispettato i cedri,
per fortuna, e i piccoli cespugli
regolari, secondo il gusto francese,
e le pesanti porte di ferro - troppo
pesanti e troppo temibili - che ci
rinchiudono, e i gabinetti a sei
scomparti, tre per le grandi, tre per
le piccole (per una commovente e
pudica attenzione, i camerini delle
grandi hanno le porte intere,
quelli delle piccole le mezze
porte), i bei dormitori del primo
piano, dei quali si scorgono di
fuori i vetri chiari e le tende
bianche. I disgraziati contribuenti
avranno da pagare per un pezzo. Si
direbbe una caserma, tanto è
bella!
Le
scolare
fanno
un'accoglienza
rumorosa;
la
signorina
Aimée
aveva
semplicemente
affidato
la
sorveglianza delle proprie scolare
e di quelle della prima classe alla
clorotica signorina Griset, durante
la passeggiatina alla stazione, le
aule sono disseminate di carte,
sparse di zoccoli-proiettili, torsoli
di mele... A un aggrottarsi delle
rosse
ciglia della signorina
Sergent, tutto rientra nell'ordine:
qualche
mano
raccoglie
strisciando i torsoli di mela,
qualche piede si allunga e,
silenziosamente, si infila di nuovo
gli zoccoli sparsi.
Il mio stomaco protesta e vado
a fare colazione, felice di ritrovare
Fanchette e il giardino e papà; la
bianca Fanchette che si arrostisce
e dimagra al sole, e mi accoglie
con miagolii bruschi e stupiti; il
giardino verde, trascurato e invaso
da piante che si alzano e si
allungano per trovare il sole
nascosto dai grandi alberi, e papà
che mi accoglie dandomi un gran
colpo affettuoso sulla spalla:
"Ma che cosa ti succede? Non
ti vedo mai!".
"Ma papà, ho fatto l'esame."
"Che esame?"
Vi dico che non ce n'è un altro
come lui! Con compiacenza gli
racconto le avventure di questi
ultimi giorni, mentre egli si tira la
gran barba rossa e bianca. Sembra
contento. Senza dubbio i suoi
incroci di lumache gli avranno
dato risultati insperati.
Mi sono concessa quattro o
cinque giorni di riposo, di
vagabondaggi a Matignons, dove
trovo Claire, la compagna della
prima comunione, grondante di
lacrime perché il suo innamorato
ha lasciato Montigny, senza
nemmeno degnarsi di avvertirla.
Fra otto giorni avrà un altro
fidanzato che l'abbandonerà in
capo a tre mesi, poiché non è
abbastanza furba per trattenere i
giovani, non abbastanza esperta
per farsi sposare; e siccome si
ostina a rimanere onesta... può
continuare un pezzo.
Intanto conduce al pascolo le
sue venticinque pecore, un po'
come una pastorella da operetta,
un po' ridicola col cappellone a
campana che le protegge la
carnagione e il nodo dei capelli (il
sole fa ingiallire i capelli, cara
mia!), il grembiulino azzurro
ricamato di bianco e il romanzo
bianco col titolo rosso In festa!
che tiene nascosto nel cestino. (Le
ho prestato io le opere di Auguste
Germain per iniziarla alla grande
vita!
Ahimè,
sarò
forse
responsabile di tutte le brutture
che commetterà.) Sono sicura che
si considera poeticamente infelice,
una triste fidanzata tradita, e che
si compiace, quando è sola, di
assumere pose nostalgiche "con le
braccia abbandonate come inutili
armi", oppure con la testa china,
mezza sepolta sotto i capelli
sciolti. Mentre mi racconta le
scarse novità di questi quattro
giorni, e le sue disgrazie, mi
occupo io delle pecore e spingo
verso di loro la cagna: "Riportale
qui, Lisetta!
Accompagnale là!". Sono io che
faccio il verso per impedire che
tocchino l'avena; vi sono abituata.
"...Quando ho saputo con che
treno partiva," sospira Claire "ho
fatto in modo di lasciare le pecore
a Lisetta e sono scesa al passaggio
a livello. Alla barriera, ho
aspettato il treno che non corre
troppo in fretta in quel punto,
perché è in salita. L'ho scorto, ho
sventolato
il
fazzoletto, ho
mandato baci, credo che lui mi
abbia vista... Senti, non ne sono
sicura, ma mi è sembrato che
avesse gli occhi rossi. Forse i suoi
genitori lo hanno costretto a
tornare... Forse mi scriverà..."
Continua pure, piccola romantica,
non ti costa nulla sperare. E poi,
se cercassi di staccarti da lui, non
mi crederesti.
Dopo
cinque
giorni
di
vagabondaggi nei boschi, a
graffiarmi le braccia e le gambe
con i rovi, a riportarne delle
bracciate di garofani selvatici, di
fiordalisi e di silene, a mangiare
prugnole amare e l'uva spina, mi
riprende la curiosità e la nostalgia
della scuola. Vi ritorno.
Trovo tutte le grandi sedute sui
banchi all'ombra, nel cortile,
intente a lavorare pigramente per
preparare i lavori "da esposizione";
le piccole, sotto la tettoia, stanno
guazzando
alla
pompa;
la
signorina, in una poltrona di
vimini, e Aimée ai suoi piedi,
seduta su una cassetta di fiori
rovesciata, stanno oziando e
chiacchierando a bassa voce.
Vedendomi entrare, la signorina
Sergent fa un balzo e gira su se
stessa:
"Ah, eccola qui! Meno male! Se
la gode; la signorina Claudine
batte la campagna, senza pensare
che si avvicina la distribuzione dei
premi, e che le scolare non sanno
una nota del coro che devono
cantare!".
"Ma... la signorina Aimée non è
dunque maestra di canto? E il
maestro Rabastens (Antonin)?"
"Non dica sciocchezze! Lei sa
benissimo che la signorina
Lanthenay non può cantare, non
glielo permette la fragilità della
voce; in quanto al maestro
Rabastens, a quanto pare ci sono
state chiacchiere in paese a
proposito delle sue visite e delle
lezioni di canto. Ah, Dio, il vostro
sporco paese di pettegolezzi!
Insomma non tornerà più.
Lei è indispensabile per i cori e
ne approfitta. Questa sera, alle
quattro, divideremo le parti e lei
farà copiare alla lavagna le strofe."
"Va bene. Com'è il coro di
quest'anno?"
"Inno alla natura. Marie, vada
a prendermelo sulla cattedra:
Claudine incomincerà a ripeterlo."
E' un coro a tre voci, proprio
un coro da collegio. I soprani
pigolano con convinzione:
Laggiù
lontano/
l'inno
mattutino/ si leva in dolce
mormorìo/ ...
Mentre le voci di mezzo,
facendo eco alle rime in "tin"
ripetono: "tin tin tin" per imitare
la campana dell'Ave Maria. Piacerà
moltissimo.
Sta per incominciare questa
dolce vita che consiste nello
sgolarsi, cantare trecento volte la
stessa aria, rientrare afona a casa,
arrabbiarsi con queste piccine
refrattarie a ogni ritmo. Se almeno
mi facessero un regalo!
Per fortuna, Anaïs, Luce e
qualche altra hanno buona
memoria e mi seguono con la voce
sin dalla terza volta. Smettiamo
perché la signorina ha detto:
"Basta per oggi" e sarebbe troppo
crudele farci cantare a lungo con
questa temperatura da Senegal.
"E poi lo sapete," aggiunge la
signorina
"è
proibito
di
canticchiare l'Inno alla natura fra
una lezione e l'altra! Altrimenti lo
storpierete, lo deformerete e non
sarete
capaci
di
cantarlo
decentemente alla distribuzione
dei premi. Ora lavorate e che io
non senta parlare troppo forte."
Noi grandi stiamo fuori per
eseguire più comodamente i
meravigliosi
ricami
destinati
all'esposizione dei "lavori a mano"
(forse che i lavori possono essere
fatti altrimenti che "a mano"? Non
ne conosco di fatti "a piede") che
segue la distribuzione dei premi,
quando tutto il paese viene ad
ammirare l'esposizione dei nostri
lavori che riempiono due aule:
pizzi, arazzi, ricami, biancheria
infiocchettata, disposti sui banchi.
I muri sono tappezzati di tende
con l'orlo a giorno, di coperte da
letto all'uncinetto su trasparenti di
colore, di scendiletti in mussola di
lana verde (maglia disfatta)
trapunta di fiori finti rossi e rosa,
anche quelli di lana; ornamenti
per caminetto in felpa ricamata...
Queste ragazze ormai grandi,
vanitose della biancheria intima
che mettono in mostra, espongono
soprattutto un'infinità di capi
sontuosi: camicie di batista di
cotone a fiorellini, meravigliose
applicazioni, mutande a forma di
zoccolo, con legacci di nastro,
copribusti con festoni in alto e in
basso, tutto ciò su un trasparente
di carta azzurra, rossa e lilla con
cartellini sui quali spicca in bella
calligrafia rotonda il nome
dell'esecutrice. Lungo le pareti
sono allineati panchettini a punto
in croce, sui quali riposa sia
l'orribile gatto i cui occhi sono
fatti di quattro punti verdi, con
uno nero in mezzo, sia il cane con
la schiena rossa e le zampe
violacee, che lascia penzolare una
lingua rosso fiamma.
S'intende che la biancheria, più
di ogni altra cosa, interessa i
giovanotti che vengono a visitare
l'esposizione come tutti quanti; si
attardano davanti alle camicie a
fiorellini, alle mutande dai nastri,
si danno spintoni e sussurrano
frasi sboccate.
Bisogna dire che anche la
scuola maschile ha la sua
esposizione, rivale della nostra. Se
non
offrono
all'ammirazione
biancheria eccitante, mostrano
altre meraviglie: gambe di tavolo
abilmente tornite, colonne a
spirale (cara mia, è la cosa più
difficile), un'accozzaglia di lavori
in legno a "coda di rondine",
rilegature gocciolanti di colla e
soprattutto calchi in creta - gioia
del maestro, che modestamente
ha battezzato questa sala "sezione
di scultura" - dico, che hanno la
pretesa di riprodurre i fregi del
Partenone e altri bassorilievi,
indecisi, pasticciati, pietosi. La
"sezione di disegno" non è più
confortante: le teste dei briganti
degli Abruzzi hanno gli occhi
loschi, il re di Roma ha una gota
gonfia, Nerone fa una orribile
smorfia, e il presidente Loubet, in
una cornice tricolore, lavoro di
legno e cartone combinati, ha
voglia di vomitare (è perché pensa
al suo ministero, spiega Dutertre,
sempre furente di non essere
deputato). Alle pareti vi sono
acquerelli
slavati,
piani
di
architettura e la Veduta generale
anticipata (sic) dell'Esposizione
del 1900, acquerello che merita il
primo premio.
Durante i giorni che ancora ci
separano dalle vacanze lasceremo
da parte tutti i libri, lavoreremo
pigramente all'ombra dei muri,
lavandoci continuamente le mani una scusa per andare in giro - sì da
non macchiare di sudore le lane
chiare e le stoffe bianche. Io
espongo soltanto tre camicie di
tela di lino rosa del modello per
bimbi, con le mutande uguali,
chiuse, particolare che scandalizza
le mie compagne, tutte concordi
nel trovare ciò "sconveniente",
parola d'onore!
Mi siedo fra Luce e Anaïs, che
a sua volta sta accanto a Marie
Belhomme, perché noi formiamo
di solito un gruppetto. Povera
Marie!
Deve ristudiare per l'esame di
ottobre... Siccome si annoiava
mortalmente
nell'aula,
la
signorina, per pietà, la lascia
venire con noi; consulta l'atlante,
la storia di Francia; quando dico
che consulta... tiene il libro aperto
sulle ginocchia, china il capo,
lancia furtivamente occhiate verso
di noi, tendendo l'orecchio per
sentire quello che diciamo.
Prevedo il risultato dell'esame di
ottobre!
"Muoio di sete! Hai la
bottiglia?" mi domanda Anaïs.
"No, non mi sono ricordata di
portarla, ma Marie deve avere la
sua."
Ecco un'altra nostra abitudine
immutabile e ridicola: queste
bottiglie. Sin dai primi giorni di
afa, siamo tutte d'accordo che
l'acqua della pompa non è più
potabile (non lo è mai) e portiamo
tutte in fondo al cestino - talvolta
nella busta di cuoio o nel
sacchetto di tela - una bottiglia
piena di una bibita fresca. E' una
gara a chi riuscirà a combinare la
miscela più bizzarra, i liquidi più
strani. Niente cocco: è roba per la
classe inferiore! Per noi l'acqua
con aceto che scolora le labbra e fa
male allo stomaco, le limonate
agre, la menta fatta da noi stesse
con le foglie fresche della pianta,
l'acquavite rubata a casa e
mescolata con zucchero, il sugo
del ribes verde che allega i denti.
Anaïs
la
lunga
rimpiange
amaramente la partenza della
figlia del farmacista, che in
passato ci forniva bottigliette
piene di alcool alla menta, non
troppo annacquato, o anche
l'acqua dentifricia di
Botot
zuccherata; io, che sono semplice
per indole, mi limito a bere vino
bianco allungato col seltz e
mescolato con zucchero e un po' di
limone. Anaïs abusa di aceto e
Marie di sugo di liquerizia, così
concentrato che è quasi nero.
Siccome è proibito l'uso delle
bottiglie, ciascuna di noi, ripeto,
porta la sua, chiusa con un
turacciolo forato dalla cannuccia
di una penna, il che ci permette,
chinandoci con la scusa di
raccogliere un rocchetto, di bere
senza
muovere
la
bottiglia
adagiata nel cesto col collo fuori.
Durante la breve ricreazione di un
quarto d'ora (alle nove e alle tre)
ci precipitiamo tutte alla pompa
per inondare le bottiglie e
rinfrescarle un po'. Tre anni fa,
una piccola cadde con la bottiglia e
si ferì a un occhio: ora l'occhio è
tutto bianco. In seguito a questo
incidente, confiscarono tutte le
bottiglie,
tutte,
per
una
settimana... e poi qualcuna
ricominciò a portare la sua,
esempio che fu imitato da un'altra
il giorno seguente: un mese dopo
le
bottiglie
funzionavano
regolarmente. Forse la signorina
ignora questo incidente avvenuto
prima del suo arrivo, oppure
preferisce chiudere gli occhi
perché la lasciamo in pace.
Non accade proprio nulla. Il
caldo ci toglie ogni slancio: Luce
mi assedia meno con le sue moine
importune; qualche velleità di
litigare si sveglia un istante,
pronta a spegnersi subito; è
l'apatia, to', e i temporali
improvvisi di luglio, che ci
sorprendono
nel
cortile, ci
spazzano
sotto
trombe
di
grandine; un'ora dopo il cielo è
sereno.
Abbiamo fatto un brutto
scherzo a Marie Belhomme, che si
era vantata di venire a scuola
senza mutande, per il caldo.
Eravamo in quattro, un
pomeriggio, sedute su un banco
nel seguente ordine:
Marie-Anaïs-Luce-Claudine.
Dopo essersi fatte spiegare
debitamente
il
mio
piano,
sottovoce, le due vicine si alzano
per lavarsi le mani, e il centro del
banco resta vuoto, mentre Marie è
a una estremità e io all'altra. Lei
sonnecchia sul testo di aritmetica.
Io mi alzo bruscamente; il banco
oscilla:
Marie,
svegliata
di
soprassalto, cade con le gambe in
aria, facendo uno di quegli strilli
di gallina che stanno sgozzando, di
cui ha il segreto, e ci fa vedere...
che effettivamente non ha le
mutande.
Si
levano
fischi,
scoppiano risate fragorose; la
direttrice vuole sgridarci e non ci
riesce, presa anch'essa da una
voglia matta di ridere; e Aimée
Lanthenay preferisce andarsene
per non offrire alle scolare lo
spettacolo dei suoi contorcimenti
di gatta avvelenata.
Dutertre non viene più da
molto tempo. Si dice che sia ai
bagni di mare, in qualche luogo
dove ozia e amoreggia (ma dove
prende i denari?). Lo immagino
vestito di flanella bianca, con le
camicie flosce, cinghie troppo
larghe e scarpe troppo gialle; ha la
passione per certe fogge un po'
pacchiane, essendo lui stesso
molto pacchiano con quei colori
chiari, troppo abbronzato e con gli
occhi troppo scintillanti, i denti
aguzzi e i baffi di un nero arsiccio
come se li avessero bruciacchiati.
Non ho più pensato al suo brusco
attacco nel corridoio a vetri:
l'impressione è stata viva, ma
rapida - e poi, con lui, si sa
benissimo che non ha importanza!
Sarò la trecentesima ragazzina che
egli ha tentato di attirare a casa
sua: questo incidente non ha
interesse né per lui, né per me. Ne
avrebbe se il colpo fosse riuscito,
ecco tutto.
Pensiamo già molto agli abiti
che
indosseremo
per
la
distribuzione dei premi. La
signorina si fa ricamare un vestito
di seta nera dalla madre, abile nei
lavori d'ago, che disegna in rilievo
grandi mazzi di fiori, sottili
ghirlande che seguono il fondo
della sottana, ramoscelli che si
arrampicano sul busto, tutto ciò in
diverse gradazioni di viola,
sfumate: una cosa molto distinta,
un po' da "signora anziana", forse,
ma di taglio impeccabile; è sempre
vestita di scuro e semplicemente,
l'eleganza delle sue vesti eclissa
quella di tutte le mogli dei notai,
degli esattori, dei commercianti e
dei possidenti di qui! E' la sua
piccola vendetta di donna brutta e
ben fatta.
La signorina Sergent pensa
anche a vestire bene la sua piccola
Aimée per quel gran giorno.
Hanno fatto venire i campioni dai
magazzini del "Louvre", del "Bon
Marché", e le due amiche scelgono
insieme, assorte, davanti a noi, nel
cortile dove lavoriamo, all'ombra.
Penso che sarà un vestito che non
costerà caro alla signorina Aimée;
avrebbe proprio torto ad agire
altrimenti: non è con i suoi
settantacinque franchi al mese dai quali bisogna detrarre trenta
franchi per la pensione (ch'essa
non paga), altrettanti per quella
della sorella (che risparmia) e
venti franchi che manda ai
genitori; lo so da Luce - non è con
simili stipendi, dico, che lei
potrebbe pagare il grazioso vestito
di moire bianco, di cui ho visto il
campione.
Fra le scolare è molto raffinato
aver l'aria di non occuparsi del
vestito che indosseremo il giorno
della distribuzione dei premi.
Tutte vi pensano un mese
prima, tormentano le mamme per
ottenere
nastri, merletti, o
soltanto certe modifiche che
rinnoveranno il vestito dell'anno
scorso, ma è di buon gusto non
parlarne; ci si domanda con una
curiosità distaccata, come per
gentilezza: "Come sarà il tuo
vestito?". E si ha l'aria di ascoltare
appena la risposta, fatta con lo
stesso
tono
noncurante
e
sdegnoso.
Anaïs la lunga mi ha fatto la
solita domanda, con gli occhi
rivolti altrove, il viso distratto.
Con lo sguardo smarrito, una voce
indifferente, ho spiegato: "Oh,
nulla di straordinario: mussola
bianca... il busto a fisciù
incrociato, scollato a punta... e le
maniche Luigi XV con una
guarnizione di mussola, fermate al
gomito.
Nient'altro".
Siamo tutte in bianco per la
premiazione; ma i vestiti sono
guarniti di nastri chiari, fiocchi,
nodi, cinture, il cui colore (che noi
ci teniamo a cambiare tutti gli
anni) ci preoccupa molto.
"I nastri?" domanda Anaïs a
fior di labbra.
(Me lo aspettavo.)
"Bianchi anche quelli."
"Cara mia, allora una vera
sposa! Lo sai, ce ne sono molte
che in mezzo a tutto quel bianco
sembrerebbero nere come pulci
sopra una stoffa."
"E' vero. Per fortuna il bianco
mi sta abbastanza bene."
(Roditi, cara figliola. Sappiamo
che con quella tua pelle gialla sei
obbligata a metterti nastri rossi o
arancione per non sembrare un
limone.)
"E tu? Nastri arancione?"
"Ma no, via: li avevo l'anno
scorso! Nastri Luigi XV, a strisce,
in faglia e raso, avorio e rosso
papavero. Il mio vestito è di
lanetta crema."
"Il mio," annuncia Marie
Belhomme, alla
quale
non
domandiamo nulla "è di mussola
bianca, e i nastri sono color
pervinca, di un azzurro lilla, molto
bello!"
"Io" interviene Luce, sempre
attaccata alle mie sottane, o
annidata nella mia ombra, "ho il
vestito, soltanto non so che nastri
metterci; Aimée li vorrebbe
azzurri..."
"Azzurri? Tua sorella è una
cretina, salvo il rispetto che le
devo.
Con gli occhi verdi come i tuoi,
non si scelgono dei nastri azzurri,
fa rabbrividire. La modista del
paese vende nastri molto belli:
lucidi, verde e bianco... è bianco il
tuo vestito?"
"Sì, di mussola."
"Bene! Ora insisti con tua
sorella perché ti comperi i nastri
verdi."
"Non c'è bisogno, li compero
io."
"E' ancora meglio. Vedrai che
sarai carina; non ce ne saranno
neppure tre che oseranno portare
nastri verdi: sono troppo difficili
da portare."
Questa povera ragazzina! Per la
minima gentilezza che le dico,
senza farlo apposta, si illumina...
La signorina Sergent, alla quale
la prossima esposizione ispira una
certa inquietudine, ci strapazza, ci
sprona; piovono i castighi, castighi
che consistono nel fare dopo la
scuola
venti
centimetri
di
merletto, un metro di orlo o venti
righe di lavoro a maglia. Lavora
anch'essa per fare un paio di
bellissime tende di mussola che
ricama molto bene, quando la sua
Aimée gliene lascia il tempo.
Quella
graziosa
fannullona
dell'aiutante, pigra da quella gatta
che è, dopo cinquanta punti di
ricamo sospira e si stira le
membra davanti a tutte le scolare,
e la signorina dice, senza osare di
sgridarla, che "è un esempio
deplorevole per noi". Subito
quell'insubordinata getta all'aria il
lavoro, guarda l'amica con occhi
scintillanti, e si slancia su di lei
per morsicarle le mani. Le grandi
sorridono e si danno gomitate, le
piccole non battono ciglio.
Un gran foglio di carta, col
bollo della prefettura e il timbro
del municipio, trovato dalla
signorina nella cassetta delle
lettere,
ha
turbato
straordinariamente
questa
mattina, che per caso era fresca;
lavorano tutti i cervelli e tutte le
lingue. La direttrice apre il plico,
lo legge, lo rilegge e non dice
niente. Quella pazzerella della
compagna, impaziente perché non
sa nulla, vi mette sopra le sue
zampette vivaci ed esigenti e
lancia degli "Ah!" e dei "Ci darà
delle noie!" così forti che noi,
vivamente incuriosite, ci agitiamo.
"Sì," le risponde la signorina
"ero avvertita, ma aspettavo
l'annuncio ufficiale; è un amico
del dottor Dutertre..."
"Ma non è tutto qui, bisogna
dirlo alle scolare, perché dovremo
imbandierare, illuminare, ché ci
sarà un banchetto... Le guardi
dunque: ardono dall'impazienza!"
Altro
che,
se
ardiamo
dall'impazienza!
"Sì, bisogna annunciarlo...
Signorine, cercate di ascoltarmi e
di
capire!
Il
ministro
dell'Agricoltura, Jeam Dupuy,
verrà nel capoluogo in occasione
del prossimo comizio agricolo, e
ne approfitterà per inaugurare le
nuove scuole; la città sarà
imbandierata, illuminata, vi sarà
un ricevimento alla stazione... e
poi mi annoiate, saprete tutto
perché lo annuncerà il banditore
del paese, cercate soltanto di
sbrigarvi un po' di più, in modo
che i vostri lavori siano pronti."
Silenzio profondo. E poi
scattiamo!
Prorompono
esclamazioni, si fondono, e cresce
il chiasso, rotto da una vocetta
penetrante:
"Il
ministro
ci
interrogherà?". Fischiamo Marie
Belhomme, la cretina che ha fatto
questa domanda.
La signorina ci fa mettere in
fila, benché non sia ancora
suonata l'ora, e ci lascia andare,
rumorose e chiacchierone, per
poter chiarire le proprie idee e
prendere le disposizioni per
l'avvenimento inaudito che si
prepara.
"Cara mia, che ne dici?" mi
domanda Anaïs per la strada.
"Dico
che
le
vacanze
cominceranno otto giorni prima,
questo non mi rallegra: mi annoio
quando non posso venire a
scuola."
"Ma ci saranno feste, balli,
giochi nelle piazze."
"Sì, e molta gente davanti alla
quale potremo fare bella mostra, ti
capisco! Sai, saremo molto in
vista; Dutertre, che è amico
personale del nuovo ministro (è
per lui che questa Eccellenza di
fresca data si avventura in un buco
come Montigny), ci metterà
davanti..."
"No? Lo credi?"
"Sicuro! E' un tiro che ha
preparato per scalzare la posizione
del deputato!"
Se ne va raggiante, sognando
feste ufficiali in cui diecimila paia
di occhi la contempleranno!
Il banditore della città ha
gridato la notizia; ci promettono
gioie infinite: l'arrivo del treno
ministeriale alle nove, le autorità
municipali, gli alunni delle due
scuole, infine il fior fiore della
popolazione
di
Montigny
attenderà il ministro vicino alla
stazione, all'entrata del paese, e lo
accompagnerà, attraverso le vie
imbandierate, dentro alle scuole.
Qui, su un palco, egli farà un
discorso! E nel salone del
municipio siederà a banchetto in
numerosa
compagnia.
Poi,
distribuzione dei premi agli adulti
(poiché Jeam Dupuy porta alcuni
nastrini viola e verdi ai fedeli
dell'amico Dutertre, che azzecca
così un colpo da maestro). La sera,
gran ballo nella sala del banchetto.
La fanfara del capoluogo (proprio
bella!) presterà la sua gentile
cooperazione. Infine il sindaco
invita gli abitanti a imbandierare
le case e a decorarle di verde. Uff,
che onore per noi!
Questa mattina, in classe, la
signorina
ci
annuncia
solennemente - si vede subito che
si preparano grandi cose - la visita
del suo caro Dutertre, che, con la
solita compiacenza, ci darà ampi
particolari sul modo di regolare la
cerimonia.
E poi non viene.
Soltanto nel pomeriggio, verso
le quattro, nel momento in cui
pieghiamo nei cestini lavori a
maglia, merletti e ricami, entra
Dutertre precipitosamente, come
sempre, senza bussare. Non
l'avevo rivisto dopo il suo
"attentato"; non è cambiato:
vestito con la solita trascuratezza
ricercata - camicia di colore, abiti
quasi bianchi, una grande cravatta
chiara infilata nella fascia che gli
serve da panciotto -, la signorina
Sergent, come pure Anaïs, come
Aimée Lanthenay, come tutte,
trovano che si veste in un modo
sommamente raffinato.
Parlando con le signorine, si
permette di volgere gli occhi verso
di me: occhi obliqui, tirati verso le
tempie, occhi da animale cattivo,
ch'egli sa rendere dolci. Non mi
becca più a lasciarmi trascinare
nel corridoio, sono finiti quei
tempi!
"Ebbene, piccine," esclama
"siete contente di vedere un
ministro?"
Rispondiamo con mormorii
indistinti e rispettosi.
"Attente! Alla stazione gli
farete una riguardosa accoglienza,
tutte in bianco! Non è tutto,
bisogna che gli offrano mazzi di
fiori tre scolare grandi, delle quali
una reciterà un breve discorso. Ah,
sicuro!"
Ci scambiamo sguardi di finta
timidezza e di spavento simulato.
"Non fate le ochette! Ce ne
vuole una tutta in bianco, una in
bianco con nastri azzurri, una in
bianco con nastri rossi per
rappresentare la bandiera in suo
onore. Eh, eh, una bandierina
niente affatto brutta! Si intende
che tu fai parte della bandiera, tu,"
(questa sono io!) "tu sei
decorativa, e poi mi piace che ti
vedano.
Come sono i tuoi nastri per la
distribuzione dei premi?"
"Caspita, quest'anno sono tutta
in bianco."
"Va bene, tipo di verginella,
formerai il centro della bandiera.
E pronuncerai un discorso davanti
al mio amico ministro; non si
annoierà a guardarti, lo sai?"
(E' completamente pazzo a
lasciarsi scappare qui frasi simili!
La signorina Sergent mi ucciderà!)
"Chi ha i nastri rossi?"
"Io" grida Anaïs, palpitante di
speranza.
"Bene, ti accetto."
E' una mezza bugia di quella
forsennata, perché i suoi nastri
sono a strisce.
"Chi li ha azzurri?"
"Io, dot...tore" balbetta Marie
Belhomme, con voce strozzata
dalla paura.
"Va bene, tutte e tre non sarete
ripugnanti... E poi, lo sapete, per i
nastri, fate pure le cose per bene,
fate pure pazzie: pago io!"
(Uhm!) "Che ci siano belle
cinture, nodi svolazzanti, e vi
ordinerò mazzi di fiori con le
vostre tinte!"
"Così presto!" dico. "Avranno il
tempo di avvizzirsi."
"Taci, monella, non avrai mai il
bernoccolo del rispetto. Spero che
tu ne possegga già qualche altro
situato in una posizione più
attraente!"
Tutta la classe scoppia a ridere
con entusiasmo; la signorina ha
un riso sforzato. In quanto a
Dutertre, giurerei che è ubriaco.
Ci mettono alla porta prima
che se ne vada. Da quante mi
sento dichiarare: "Cara mia, si può
ben dire che sei fortunata! Per te
tutti gli onori, eh! Non poteva
toccare a un'altra, non c'era
pericolo!". Io non rispondo nulla,
me ne vado a consolare quella
povera
piccola
Luce,
tanto
addolorata di non essere stata
scelta per la bandiera. "Andiamo, il
verde ti starà meglio di tutto... e
poi è colpa tua, perché non ti sei
fatta avanti come Anaïs?"
"Oh!" sospira la piccola "Non
importa. Io perdo la testa davanti
alla gente e avrei fatto qualche
sciocchezza. Ma sono contenta che
sia tu a fare il discorso e non Anaïs
la lunga."
Papà,
avvertito
della
parte
gloriosa che avrò all'inaugurazione
delle scuole, ha arricciato il naso
borbonico per domandarmi: "Dio
mio, sarà necessario che mi ci
faccia vedere anch'io?".
"Niente affatto, papà, tu resti
nell'ombra!"
"Allora benissimo, non ho da
occuparmi di te?"
"No di certo, papà, non
cambiare le tue abitudini!"
Il paese e la scuola sono
sottosopra. Se continua così, non
avrò più il tempo di raccontare
nulla. Al mattino giungiamo a
scuola già alle sette, e non certo
per studiare. La direttrice ha fatto
venire dal capoluogo certi enormi
pacchi di carta velina rosa,
azzurra, rossa, gialla, bianca; li
apriamo nell'aula centrale - le
scolare più grandi diventano le
commesse principali - e dàgli,
dàgli a contare i grandi fogli
leggeri, a piegarli in sei per il verso
della lunghezza, a tagliarli in sei
strisce, e a riunire quelle strisce in
mucchietti che portiamo sulla
cattedra della signorina. Lei li
taglia tutto in giro, con uno
stampo dentellato, poi la signorina
Aimée li distribuisce a tutta la
prima classe, a tutta la seconda.
Viviamo allegramente! Libri e
quaderni dormono sotto le
scrivanie chiuse, e facciamo a gara
a chi si alzerà prima per correre
subito alla scuola, trasformata in
un laboratorio di fioraia.
Io non poltrisco più a letto, no,
e mi affretto tanto per arrivare
presto che mi infilo la cintura per
la strada. Qualche volta siamo già
tutte riunite nelle aule quando le
signorine scendono finalmente, e
anche loro se la prendono comoda
in quanto a toletta! La signorina
Sergent si mostra in vestaglia di
batista rossa (orgogliosamente
senza busto); la sua vezzosa
aiutante la segue, in pantofole,
con occhi assonnati e teneri.
Siamo in famiglia; l'altra mattina
la signorina Aimée, essendosi
lavata la testa, scese coi capelli
sciolti e ancora umidi: capelli
dorati, morbidi come la seta,
piuttosto
corti,
mollemente
inanellati all'estremità. Sembrava
un paggetto scostumato, e la
direttrice, la sua buona direttrice,
se la mangiava con gli occhi.
Il cortile è disertato; le tende di
sargia, tirate, ci avvolgono in una
fantasmagorica atmosfera azzurra.
Facciamo i nostri comodi: Anaïs si
leva il grembiule e si rimbocca le
maniche come una pasticciera; la
piccola Luce, che salta e mi corre
dietro tutto il santo giorno, ha
rialzato come una sguattera il
vestito e la sottana, una scusa per
mostrare i polpacci tondi e le
fragili caviglie. La signorina,
impietosita, ha permesso a Marie
Belhomme di chiudere i libri; in
camicetta di tela a righe bianche e
nere, sempre con una certa aria da
Pierrot, gironzola con noi, taglia le
strisce per traverso, sbaglia,
inciampa nel filo di ferro, si
dispera e si bea d'entusiasmo nello
stesso istante, inoffensiva e tanto
buona che non le facciamo
neppure i dispetti.
La signorina Sergent si alza e
tira la tenda con un gesto brusco,
dalla parte del cortile dei ragazzi.
Si
sentono,
nella
scuola
dirimpetto, ragli di voci giovanili
rozze e mal impostate: è il signor
Rabastens che insegna agli scolari
un
coro
repubblicano.
La
signorina attende un momento,
poi fa un segno col braccio, le voci
tacciono laggiù e il compiacente
Antonin accorre, senza cappello,
con
una
rosa
di
Francia
all'occhiello.
"La prego di mandare due
scolari nel laboratorio; faccia
tagliare questo filo di ferro in
pezzi da venticinque centimetri."
"Subito, signorina. Sta sempre
lavorando per preparare i fiori?"
"Non finiremo tanto presto; ci
vogliono cinquemila rose soltanto
per la scuola, e per giunta abbiamo
l'incarico di decorare la sala del
banchetto!"
Rabastens se ne va, correndo a
capo scoperto sotto il sole feroce.
Un quarto d'ora dopo bussano
alla porta, che si apre e lascia
passare due grandi grulli dai
quattordici ai quindici anni;
riportano il filo di ferro, non
sanno che fare dei loro lunghi
corpi, rossi e stupidi, eccitati nel
trovarsi
in
mezzo
a
una
cinquantina di ragazzine che, con
le braccia nude, il collo nudo, il
busto
aperto,
ridono
malignamente dei due ragazzi.
Anaïs li sfiora passando, e pian
piano gli attacca alle tasche code
di carta. Essi scappano finalmente,
soddisfatti e malcontenti, mentre
la signorina si affanna per fare
stare zitte le scolare che non
l'ascoltano.
Io piego e taglio insieme con
Anaïs; Luce fa il pacco e lo porta
alla direttrice, Marie ammucchia.
Alle undici del mattino piantiamo
tutto e ci riuniamo per ripetere
l'Inno alla natura. Verso le cinque
ci agghindiamo un poco, tiriamo
fuori di tasca lo specchietto; certe
ragazzine
compiacenti
della
seconda classe
stendono
il
grembiule nero dietro ai vetri di
una finestra aperta; davanti a
questo
specchio
scuro
ci
rimettiamo il cappello, e io mi
scompiglio i riccioli, Anaïs si tira
su il nodo dei capelli, cascante, e
ce ne andiamo.
Il paese comincia ad agitarsi
quanto noi. Pensate un po': Jean
Dupuy arriva fra sei giorni! I
ragazzi se ne vanno al mattino in
tanti carretti, cantando a voce
spiegata e frustando con tutta la
forza delle braccia il ronzino che li
tira; vanno nel bosco del comune,
e anche nei boschi privati, ne sono
certa, a scegliere alberi e a
segnarli; soprattutto abeti, olmi,
pioppi dalle foglie vellutate
moriranno a centinaia: bisogna
bene onorare questo ministro di
nuova nomina! La sera, sulla
piazza, sui marciapiedi, le ragazze
preparano rose di carta e cantano
per attirare i ragazzi che vengano
ad aiutarle. Dio mio, come
affretteranno il lavoro, quelli!
Immagino già che ci si metteranno
di gran lena.
Alcuni falegnami levano i
tramezzi mobili del salone del
municipio dove si terrà il
banchetto; sta sorgendo un gran
palco nel cortile.
Il medico-ispettore Dutertre fa
brevi e frequenti apparizioni,
approva tutto quello che si sta
architettando, batte sulla spalla
degli uomini, pizzica il mento
delle donne, paga da bere e
sparisce per ritornare subito dopo.
Felice paese! In questo frattempo
si devastano i boschi, si va giorno
e notte a cacciare di frodo, ci si
picchia all'osteria, e una pastora di
Chêne-Fendu ha dato in pasto ai
maiali il suo neonato. (Dopo
qualche giorno hanno rinunciato a
procedere contro di lei, poiché
Dutertre è riuscito a dimostrare
l'irresponsabilità
di
quella
ragazza... Non ci si occupa già più
di questa faccenda.) Con questo
sistema corrompe il paese, ma, di
duecento furfanti, si è fatto
altrettante anime dannate che
ammazzerebbero e morirebbero
per lui. Sarà eletto deputato. Il
resto che importa!
Noi, Dio mio, facciamo rose.
Cinque o seimila rose non sono
una cosa da poco. Tutta la classe
delle piccine si dedica a fare
ghirlande di carta pieghettata, dai
colori delicati, che ondeggeranno
un po' dappertutto in balìa della
brezza. La signorina teme che
questi preparativi non siano finiti
in tempo, e ogni sera ci dà da
portare a casa una provvista di
carta velina e di fil di ferro;
lavoriamo a casa dopo pranzo,
prima di pranzo, senza tregua; in
tutte le case, le tavole sono
ingombre di rose bianche, azzurre,
rosse, rosa e gialle, gonfie, dritte e
fresche all'estremità del gambo.
Occupano tanto posto che non
si sa dove metterle; traboccano
dappertutto, fioriscono in mucchi
multicolori e al mattino le
riportiamo a fasci, come se
andassimo a fare gli auguri ai
parenti.
La direttrice, il cui cervello
ribolle d'idee, vuole per giunta far
costruire un arco di trionfo
all'entrata delle scuole; le colonne
saranno ingrossate da rami di
pino,
da
fronde
disposte
disordinatamente e guarnite di
rose. Il frontone porterà questa
iscrizione, formata di rose rosa, su
un fondo di muschio:
Benvenuti!
E' grazioso, non è vero?
Anch'io ho avuto una trovata,
ho suggerito l'idea di coronare di
fiori la bandiera, cioè noi.
"Oh, sì" hanno gridato Anaïs e
Marie Belhomme.
"Va bene." (Per quello che ci
costa!) "Anaïs, tu sarai incoronata
di papaveri; Marie, tu avrai un
diadema di fiordalisi, e io,
biancore,
candore,
purezza,
metterò..."
"Che cosa? Fiori d'arancio?"
"Li merito ancora, signorina!
Più di lei senza dubbio!"
"I gigli ti sembrano abbastanza
immacolati?"
"Mi
secchi!
Prenderò
margherite; sai benissimo che il
mazzo tricolore è composto di
margherite, papaveri e fiordalisi.
Andiamo dalla modista."
Scegliamo con aria sprezzante
e altezzosa; la modista ci prende la
misura del giro della testa e ci
promette "quello che di meglio si
può fare". L'indomani riceviamo
tre corone che mi affliggono:
diademi rigonfi nel mezzo come
quelli delle spose di campagna;
come si fa a essere belle con roba
simile! Marie e Anaïs, rapite, si
provano la rispettiva corona fra un
cerchio
di
ragazzine
in
ammirazione; io non dico niente,
mi porto via il mio arnese a casa,
dove lo disfo comodamente. Poi,
sullo stesso fusto di filo di ferro,
ricostruisco una corona fragile,
delicata, le grandi margherite
stellate, disposte come a caso,
pronte a staccarsi; due o tre fiori
penzolano a grappoli vicino alle
orecchie, alcuni scivolano dietro
fra i capelli; mi provo sul capo la
mia opera. Non vi dico una parola
di più! Non c'è pericolo che
avverta le altre due!
Vi è un aumento di lavoro: i
diavoletti! Voi non lo sapete, non
potete esserne informati. Sappiate
che a Montigny una scolara non
assisterebbe alla premiazione, a
una qualsiasi festa solenne, senza
essere debitamente arricciata o
ondulata. Niente di strano in
questo, certamente, benché queste
rigide
spirali
e
questi
arricciamenti
eccessivi
diano
piuttosto ai capelli l'aspetto di
scope arrabbiate; ma le mamme di
tutte queste ragazzine - sarte,
giardiniere, mogli di operai e
bottegaie - non hanno il tempo, né
la voglia, né l'abilità di fare i ricci a
tutte queste teste. Indovinate a chi
tocca questo lavoro, a volte
disgustoso? Alle maestre e alle
scolare della prima classe! Sì, è
una follia, ma che volete? E'
un'abitudine, e questa parola
risponde a tutto. Una settimana
prima della distribuzione dei
premi, le piccole ci importunano e
si iscrivono sulle nostre liste.
Almeno cinque o sei per
ciascuna di noi! E per una testa
pulita di bei capelli morbidi,
quante zazzere untuose e... magari
abitate!
Oggi incominciamo a mettere i
diavoletti a queste ragazzine dagli
otto agli undici anni; accoccolate
per terra, ci affidano la testa, e,
come bigodini, adoperiamo i fogli
di vecchi quaderni. Quest'anno
non ho voluto accettare che
quattro vittime e scelte fra quelle
pulite, per giunta. Ognuna delle
altre grandi arriccia sei piccine! E'
un compito non facile, perché le
ragazze di questi paesi hanno
quasi
tutte
criniere
abbondantemente
fornite.
A
mezzogiorno chiamiamo il docile
gregge; io incomincio da una
biondina, che ha i capelli vaporosi,
lievemente inanellati per natura.
"Come? Che cosa vieni a fare
qui? Con capelli simili vuoi che te
li arricci? E' un vandalismo!"
"To', ma certo voglio che me li
arriccino! Non essere riccia il
giorno della distribuzione dei
premi, il giorno che arriva un
ministro? Non si sarebbe mai vista
una cosa simile!"
"Sarai brutta come il peccato:
avrai i capelli rigidi, una testa da
lupo..."
"Non me ne importa, almeno
avrò i capelli ricci."
Poiché ci tiene! E dire che tutte
la pensano così. Scommetto che
persino Marie Belhomme...
"Dimmi
un
po',
Marie,
immagino che resterai come sei,
tu che hai i capelli naturalmente
inanellati."
Urla indignata:
"Io? Rimanere così? Ma ti
pare! Vuoi che venga alla
premiazione con i capelli lisci!".
"Ma io non mi arriccio."
"Tu, cara mia, hai onde
piuttosto fitte e poi prendono la
piega abbastanza facilmente... e
poi si sa che tu non la pensi mai
come tutte le altre."
Mentre parla, arrotola con
vivacità - con troppa vivacità - le
lunghe ciocche color grano maturo
della ragazzina seduta davanti a lei
e sepolta sotto la propria
capigliatura: un cespuglio donde
talora escono acuti gemiti.
Anaïs sta malmenando, non
senza cattiveria, la sua paziente
che urla.
"Però ha davvero troppi capelli,
questa qui!" dice a mo' di scusa.
"Quando si crede di aver finito,
si è a metà; l'hai voluto, ci sei,
cerca di non gridare!"
Arricciamo, arricciamo... il
corridoio a vetri si riempie del
fruscìo della carta piegata che si
attorciglia sui capelli... Quando
abbiamo finito il lavoro, le
ragazzine si alzano sospirando e ci
mostrano certe teste irte di
trucioli di carta sui quali si può
ancora
leggere:
"Problemi...
Morale... duca di Richelieu...".
Durante questi quattro giorni
girano, così conciate, per le vie, in
classe, senza vergogna. Poiché vi
dico che è un'usanza.
...Viviamo non so come;
sempre fuori, correndo in qua e in
là, portando o riportando indietro
le rose. Noi quattro - Anaïs, Marie,
Luce e io -, facendo ovunque la
cerca e la requisizione di fiori veri,
questi, per ornare la sala del
banchetto, entriamo (inviate dalla
signorina che conta sui nostri
giovani visetti per disarmare le
persone riluttanti) in casa di gente
che non abbiamo mai visto. Così,
per esempio, da Paradis, il
ricevitore del registro, perché la
voce pubblica aveva rivelato che
possiede rosai nani in vasi, vere
piccole meraviglie. Perduta ogni
timidezza, gli entriamo in casa, e:
"Buongiorno, signore, ci hanno
detto che lei ha dei bei rosai;
servono per le giardiniere della
sala del banchetto, lo sa bene;
veniamo da parte di... eccetera".
Quel
pover'uomo
balbetta
qualcosa nella sua gran barba, e ci
precede armato di cesoie. Ce ne
andiamo con le braccia cariche di
vasi
di
fiori,
ridendo,
chiacchierando,
rispondendo
sfacciatamente ai ragazzi che
lavorano tutti a metter su, allo
sbocco di ogni via, l'armatura degli
archi di trionfo, e ci interpellano:
"Eh, ragazze, se avete bisogno di
qualcuno, eccoci qua... è mai
possibile! Ecco appunto che
stanno cascando! Avete perso
qualcosa, raccoglietela dunque!".
Tutti si conoscono, tutti si danno
del tu...
Ieri e oggi i giovanotti sono
partiti all'alba in carretto e
ritorneranno solo al tramonto,
sepolti sotto i rami di bosso, di
larice, di tuia, sotto montagne di
muschio verde che sa di palude; e
poi vanno a bere, com'è naturale.
Non ho mai visto in un simile
stato di effervescenza questa
popolazione di briganti che, di
solito, si infischiano di tutto,
persino della politica; escono dai
boschi, dalle stamberghe, dalle
macchie dove aspettano al varco le
pastore, per coprire di fiori Jean
Dupuy. Chi ne capisce nulla!
Le vie fanno a gara fra loro: la
via del Chiostro costruisce tre
archi di trionfo, perché la Gran Via
intendeva di farne due, uno a ogni
estremità. Ma la Gran Via si ostina
per puntiglio e costruisce una
meraviglia, un castello medioevale
tutto a rami di pino uguagliati con
le cesoie, con torri come garitte.
La via dei Fours-Banaux, proprio
vicino alla scuola, che subisce
l'influenza
artistico-campestre
della signorina Sergent, si limita a
tappezzare completamente le case
che la fiancheggiano con rami
fronzuti e scomposti, poi a
stendere delle assi da una casa
all'altra e a coprire questo tetto di
edera penzolante e aggrovigliata.
Ne risulta un viale scuro e verde,
delizioso, dove le voci si smorzano
come in una stanza tappezzata di
stoffe; la gente vi passa e ripassa
sotto con piacere. Allora, furente,
la via del Chiostro perde ogni
senso della misura e riunisce l'uno
all'altro i suoi tre archi trionfali
con fasci di ghirlande di muschio,
ornate di fiori, per avere,
anch'essa, il pergolato. A questo
punto, la Gran Via si mette
tranquillamente a togliere il
selciato dei marciapiedi, e rizza un
bosco, mio Dio, sì, un vero
boschetto dalle due parti, con
alberelli sradicati e trapiantati.
Basterebbero solo quindici giorni
di questa emulazione battagliera
perché tutti si sgozzassero tra loro.
Il capolavoro, il gioiello, è la
nostra scuola, le nostre scuole.
Quando sarà finito, non si
vedrà più trasparire un pollice
quadrato di muro sotto la verzura,
i fiori e le bandiere. La signorina
ha arruolato un esercito di
giovanotti; gli scolari più grandi, i
maestri: essa li dirige tutti,
comanda
a
bacchetta,
le
obbediscono senza aprire bocca. E'
sorto l'arco di trionfo dell'entrata;
arrampicate su scale, la signorina
e noi quattro abbiamo passato tre
ore a "scrivere" con le rose rosa:
Benvenuti!
sul
frontone,
mentre i giovanotti si distraevano
a sbirciarci i polpacci. Di lassù, dai
tetti delle finestre, da tutte le
sporgenze dei muri, viene fuori e
trabocca una tale quantità di rami,
ghirlande, stoffe tricolori, cordame
mascherato sotto l'edera, rose
penzolanti, verzura strisciante che,
alla brezza leggera, il vasto edificio
sembra ondeggiare dalla base alla
cima, dondolare pian piano. Si
entra a scuola sollevando una
tenda frusciante di edera fiorita, e
la
fantasmagoria
continua:
ghirlande di rose seguono gli
angoli,
uniscono
le
pareti,
penzolano dalle finestre. E'
delizioso.
Nonostante la nostra attività,
nonostante le audaci irruzioni
nelle case dei proprietari di
giardini, questa mattina ci siamo
viste
a
corto
di
fiori.
Costernazione generale! Le teste
coi diavoletti si chinano, si agitano
attorno alla signorina che riflette
con le sopracciglia aggrottate.
"Eppure ne ho bisogno!"
esclama. "Tutta la scansia di
sinistra è vuota, ci vorrebbero vasi
di fiori. Voi della requisizione,
venite subito qui!"
"Ecco, signorina!"
Scattiamo tutte e quattro
(Anaïs, Marie, Luce, Claudine),
scattiamo fuori dal mormorante
vortice, pronte a correre.
"Sentite. Dovete andare da
papà Caillavaut..."
"Oh!..."
Non l'abbiamo lasciata finire.
Sfido, sentite un po': papà
Caillavaut è un vecchio avaraccio,
un po' tocco, cattivo come un
demonio, smisuratamente ricco,
che ha una casa e giardini
meravigliosi, dove non entra
nessuno tranne lui e il suo
giardiniere.
E' temuto, perché molto
cattivo, odiato, perché molto
avaro, rispettato come un mistero
vivente. E la signorina vorrebbe
che noi gli chiedessimo i fiori!
Neppure pensarlo!
"...Guarda, guarda! Si direbbe
che vi mando al macello!
Riuscirete
a
intenerire
il
giardiniere, e non lo vedrete
neppure, lui, papà Caillavaut. E
poi, che cosa? In ogni caso avete
bene le gambe per scappare, no?
Filate via!"
Io trascino le altre tre che non
hanno alcun entusiasmo, perché
sento una voglia matta, mista a
una
vaga
apprensione,
di
penetrare nella casa del vecchio
maniaco.
Le
incoraggio:
"Andiamo, Luce, andiamo, Anaïs!
Vedremo
cose
strabilianti,
racconteremo tutto alle altre... lo
sapete bene, si possono contare
sulle dita le persone che sono
entrate da papà Caillavaut!".
Davanti al portone verde, dove
traboccano al di sopra del muro
certe acacie fiorite e troppo
profumate, nessuno osa tirare il
cordone del campanello. Io mi ci
appendo, scatenando così un
formidabile scampanìo; Marie ha
fatto tre passi per fuggire, e Luce,
trasalendo,
si
nasconde
coraggiosamente dietro di me.
Niente, la porta resta chiusa. Un
secondo tentativo non ha maggior
successo.
Allora sollevo il saliscendi che
cede, e, come topi, a una a una,
entriamo inquiete, lasciando la
porta socchiusa. Un gran cortile
sabbioso, molto ben tenuto,
davanti alla bella casa bianca dalle
persiane chiuse sotto il sole. Il
cortile si allarga in un giardino
verde, profondo e misterioso a
causa dei fitti boschetti... Ferme,
guardiamo senza osare muoverci;
anche lì nessuno, e nessun
rumore. A destra della casa, le
serre chiuse e piene di piante
meravigliose...
La scala di pietra scende
dolcemente svasata sino al cortile
sabbioso; ogni gradino sostiene
dei gerani fiammanti, delle
calceolarie dalle piccole corolle
tigrate, dei rosai nani costretti a
fiorire troppo.
L'evidente assenza di qualsiasi
proprietario mi ridà coraggio: "Ah,
dunque, non viene nessuno? Non
metteremo le radici nei giardini
dell'avaro-dormiente-nel-bosco!".
"Zitta!" fa Marie, spaventata.
"Come, zitta? Anzi, bisogna
chiamare!
Ohilà,
signore!
Giardiniere!"
Nessuna risposta, anche questa
volta silenzio. Mi dirigo verso le
serre, e, col naso schiacciato sui
vetri, cerco di indovinare l'interno:
una specie di foresta di una tinta
scura di smeraldo, chiazzata di
macchie appariscenti, fiori esotici
di certo...
La porta è chiusa.
"Andiamocene" sussurra Luce
che si sente a disagio.
"Andiamocene" ripete Marie
ancora più turbata. "Se il vecchio
venisse fuori da dietro un albero!"
Questa idea le fa scappare
verso la porta, io le chiamo
indietro con tutta la mia energia.
"Come siete stupide! Vedete
bene che non c'è nessuno.
Ascoltatemi: ciascuna di voi scelga
due o tre vasi dei più belli che
sono sulla scala, li porteremo a
scuola senza dire nulla e credo che
avremo un vero successo!"
Non si muovono, tentate, di
certo, ma timorose. Io mi
impadronisco di due piante di
orchidee, chiazzate come uova di
cinciallegra, e faccio segno che sto
aspettando. Anaïs si decide a
imitarmi, si carica di due gerani
doppi, Marie imita Anaïs, così
pure Luce, e tutte e quattro
camminiamo con prudenza. Vicino
alla porta ci riprende la paura,
assurda, ci pigiamo come pecorelle
nella stretta apertura della porta, e
corriamo sino alla scuola, dove la
signorina ci accoglie con grida di
gioia. Tutte insieme raccontiamo
l'odissea.
La direttrice, stupita, resta un
momento perplessa e poi conclude
con
noncuranza:
"Via,
ci
penseremo poi! Non è che un
prestito, insomma, un po' forzato".
Non ne abbiamo mai, mai sentito
parlare, ma papà Caillavaut ha
munito i muri di cocci aguzzi e di
punte di lancia (questo furto ci ha
procurato
una
certa
considerazione:
qui
se
ne
intendono
in
fatto
di
brigantaggio). I nostri fiori furono
collocati in prima fila, e poi, vi
assicuro,
nella
confusione
dell'arrivo del ministro, ci si
dimenticò
completamente
di
restituirli; i vasi andarono ad
abbellire
il
giardino
della
signorina.
Questo giardino è da parecchio
tempo l'unica causa di discordia
fra la signorina e quel donnone
della madre; questa, che è rimasta
una vera contadina, vanga, strappa
le erbacce, dà la caccia alle
chiocciole nei superstiti rifugi, e
non ha altra aspirazione se non di
coltivare riquadri di cavoli, porri,
patate, di che nutrire tutte le
pensionanti senza comperare
nulla, insomma. La figlia, che è un
tipo raffinato, sogna viali ombrosi,
fiori
a
cespugli,
pergole
inghirlandate di caprifoglio, piante
inutili, ohibò! Cosicché si può
vedere ora la vecchia Sergent che
vanga con gran disprezzo le
vernonie del Giappone, le betulle
piangenti, ora la signorina che,
irritata, calpesta le coltivazioni di
acetosella e le cipolline odorose.
Questa lotta ci fa sbellicare dalle
risa. Bisogna essere giusti, e
riconoscere pure che, in tutti gli
altri luoghi, tranne in giardino e in
cucina, la signora Sergent sa stare
completamente in disparte, non si
fa mai vedere quando ci sono
visite, non esprime un parere nelle
discussioni, e porta fieramente la
cuffia increspata.
La cosa più buffa, in queste
poche ore che mancano, è di
venire a scuola e di tornarne
attraverso le vie irriconoscibili,
trasformate in viali di foreste, in
sfondi di parchi, tutte olezzanti
dell'odore penetrante degli abeti
tagliati. Si direbbe che i boschi che
circondano Montigny l'abbiano
invasa, siano venuti quasi a
seppellirla... Non avremmo potuto
immaginare, per questo paese
sperduto fra gli alberi, una
decorazione più bella e più
adatta...
(Tuttavia non posso dire più
"adeguata": è una parola che mi fa
orrore.)
Le bandiere, che daranno un
aspetto brutto e volgare a questi
viali verdi, saranno tutte messe a
posto domani, così pure le
lanterne veneziane e i lumini
colorati. Pazienza!
Non fanno complimenti con
noi: le donne e i ragazzi ci
chiamano quando passiamo: "Eh,
voi che avete pratica, venite un po'
qui ad aiutarci a disporre le rose!".
Aiutiamo
volentieri,
ci
arrampichiamo sulle scale; le mie
compagne si lasciano - Dio mio, è
per il ministro! - fare un po' di
solletico sui fianchi e qualche
volta sui polpacci; debbo dire che
non si sono mai permessi simili
scherzi con la figlia del "signore
delle lumache". Però con questi
giovanotti che non ci pensano più
appena levata via la mano, è
inoffensivo e non è neppure
umiliante; capisco che le alunne
della
scuola
si
intonino
all'ambiente. Anaïs permette tutte
le libertà e ne desidera altre; Féfed
la porta giù dalla scala tenendola
in braccio. Touchand, detto Zéro,
le ficca sotto le sottane qualche
ramo pungente di pino; essa getta
strilli come un sorcio prigioniero
in una porta e socchiude gli occhi
estasiata, senza avere nemmeno la
forza di simulare una difesa.
La signorina ci lascia riposare
un po', perché teme che siamo
troppo stanche per il gran giorno.
D'altronde non so che cosa
resterebbe da fare: tutto è ornato
di fiori, tutto è a posto; i fiori
recisi sono a bagno in cantina nei
secchi di acqua fresca, saranno
distribuiti un po' dappertutto
all'ultimo momento. I nostri tre
mazzi sono arrivati questa mattina
in una grande e fragile cassetta; la
signorina non ha nemmeno voluto
che l'aprissimo del tutto: ha levato
una tavola, ha sollevato un po' la
carta velina che avvolgeva i fiori
patriottici e l'ovatta che esalava un
profumo umido: subito la vecchia
Sergent ha portato giù in cantina
la cassetta leggera in cui sono
sparsi granellini di un sale che
non conosco, che impedisce ai
fiori di avvizzire.
Piena di premure per le
principali aiutanti, la direttrice
manda Anaïs, Marie, Luce e me a
riposare in giardino sotto i
noccioli.
Sdraiate
all'ombra
sulla
panchina
verde, quasi
non
pensiamo; il giardino è tutto un
ronzìo. Come punta da una mosca,
Marie Belhomme fa un balzo e
improvvisamente si mette a
srotolare uno dei grossi diavoletti
che da tre giorni le tremolano sul
capo:
"...Che fai?".
"Per vedere se sono ricci, no?"
"E
se
non
lo
fossero
abbastanza?"
"Caspita, li bagnerei questa
sera, andando a letto. Ma vedi,
sono molto ricci, vanno bene!"
Luce imita l'esempio e, delusa,
fa un piccolo strillo.
"Ah, è come se non avessi fatto
nulla! Sono ricci in fondo e in
cima niente o quasi niente!"
Infatti ha di quei capelli soffici
e morbidi come la seta, che
sfuggono e scivolano sotto le dita,
sotto i nastri, e non fanno se non
quello che vogliono.
"Tanto
meglio,"
le
dico
"imparerai. Sei molto infelice di
non avere la testa come una
spazzola!"
Ma essa non si consola, e
siccome le loro voci mi annoiano,
vado più lontano a sdraiarmi sulla
sabbia, all'ombra dei castagni. Non
ho idee molto chiare: il caldo, la
fatica...
Il mio vestito è pronto, mi sta
bene... sarò bella domani, più di
Anaïs la lunga, più di Marie: non è
difficile, tuttavia fa piacere...
Lascerò la scuola, papà mi
manderà a Parigi da una zia ricca e
senza figli, farò l'ingresso in
società e insieme farò tante
gaffes... Come potrò rinunciare
alla campagna con questa fame di
verde che non mi abbandona mai?
Mi sembra assurdo pensare che
non tornerò più qui, che non
vedrò più la signorina, la sua
piccola Aimée dagli occhi d'oro,
non più Marie, la pazzerella, non
più quella cattivaccia di Anaïs, non
più Luce, avida di botte e di
carezze... mi dispiacerà di non
vivere più qui. E poi, finché me ne
resta il tempo, posso ben dirlo:
Luce, in fondo, mi piace più di
quanto non voglia confessarmelo.
Ho un bel ripetermi che non è una
gran bellezza, che i suoi vezzi sono
quelli di una bestiola traditrice,
che gli occhi sono ingannatori: ciò
non impedisce che abbia un suo
fascino, fatto di originalità, di
debolezza, di perversità ancora
ingenua... e la carnagione bianca, e
le mani sottili all'estremità delle
braccia tonde, e i piedi graziosi.
Ma non ne saprà mai nulla! Essa
soffre per colpa della sorella che la
signorina Sergent mi ha rapito a
viva
forza.
Piuttosto
che
confessarlo,
lingua!
mi
strapperei
la
Sotto i noccioli, Anaïs descrive
a Luce il vestito che metterà
domani; mi avvicino, in vena di
cattiveria, e sento:
"Il colletto? Non c'è colletto! E'
scollato a punta davanti e dietro,
con una guarnizione di mussola a
lattuga e chiuso da un fiocco di
nastro rosso...".
"I cavoli rossi richiedono un
terreno
magro
e
pietroso,
c'insegna l'ineffabile Bérillon; (18)
è proprio quello che ci vuole,
Anaïs?
Lattuga, cavoli: non è un
vestito, è un orto." (19)
"Signorina Claudine, se viene
qui per dire cose tanto spiritose,
poteva rimanere sulla sabbia, non
stavamo certo qui ad aspettare
lei."
"Non scaldarti; di', com'è fatta
la sottana, con che verdure la
condiremo? Me la immagino già:
c'è intorno una frangia di
prezzemolo!"
Luce si diverte moltissimo;
Anaïs si ammanta nella propria
dignità e si allontana; siccome il
sole sta calando, ci alziamo anche
noi.
Nel momento in cui chiudiamo
il portone del giardino, zampillano
limpide risate, si avvicinano, e la
signorina Aimée passa di corsa,
sghignazzando,
inseguita
dall'ineffabile Rabastens, che la
bombarda di fiori e di semi di
grandiflora. Questa inaugurazione
alla presenza di un ministro
giustifica piacevoli libertà per le
strade, e anche a scuola, a quanto
pare! Ma la signorina Sergent
viene dietro di loro, pallida di
gelosia e con le sopracciglie
corrugate; più in là la sentiamo
chiamare: "Signorina Lanthenay,
le ho domandato due volte se
aveva detto alle sue scolare di
trovarsi qui alle sette e mezzo".
Ma quella, pazza, felice di
scherzare con un uomo e di
irritare l'amica, corre senza
fermarsi, e i fiori purpurei le si
attaccano ai capelli, le scivolano
sul vestito... Questa sera ci sarà
una scenata.
Alle cinque, le signorine ci
radunano con gran fatica, dato che
siamo sparse in tutto l'edificio. La
direttrice decide di suonare la
campana della cena, e interrompe
così un furioso galoppo che Anaïs,
Marie, Luce e io stavamo ballando
nella sala del banchetto, sotto il
soffitto infiorato.
"Signorine," grida con la voce
delle grandi occasioni "tornate
subito a casa e andate a letto
presto! Domani mattina, alle sette
e mezzo, vi radunerete qui, vestite,
pettinate, in modo che non
dobbiamo più occuparci di voi! Vi
daremo bandierine e gagliardetti;
le signorine Claudine, Anaïs, e
Marie prenderanno i mazzi di
fiori...
Il resto, lo vedrete quando
sarete qui. Andatevene, non
sciupate i fiori, passando per le
porte, e che io non senta più
parlare di voi sino a domani
mattina!"
Aggiunge:
"Signorina Claudine, sa il
discorso?".
"Altro che! Anaïs me lo ha fatto
ripetere tre volte oggi."
"Ma... e la distribuzione dei
premi?" si arrischia a dire una
timida voce.
"Ah, la distribuzione dei premi
si farà quando si potrà! E'
probabile d'altronde che io vi dia i
libri qui, semplicemente, e che
quest'anno,
a
causa
dell'inaugurazione, non vi sia una
distribuzione pubblica."
"Ma... i cori, l'Inno alla
natura?"
"Li canterete domani, davanti
al ministro. Filate via!"
Questa
allocuzione
ha
costernato parecchie ragazzine che
aspettano la distribuzione dei
premi come la festa più bella
dell'anno; se ne vanno perplesse e
insoddisfatte sotto gli archi di
verzura ornati di fiori.
Gli abitanti di Montigny,
stanchi e orgogliosi, si riposano
seduti sulle soglie e contemplano
la loro opera; le ragazze impiegano
il resto del giorno che muore a
cucire un nastro, a mettere un
pizzo sul bordo di una scollatura
improvvisata, per il gran ballo del
municipio, cara mia!
Domani mattina, all'alba, i
giovanotti spargeranno lungo il
percorso del corteo uno strato di
erba tagliata, di foglie verdi,
mescolate con fiori e petali di rose.
E se il ministro Jean Dupuy non
sarà soddisfatto, vuol dire che è
troppo esigente; e peggio per lui!
Il mio primo impulso, aprendo
gli occhi questa mattina, è stato di
correre allo specchio; perbacco,
non si sa mai, se questa notte mi
fosse venuta una flussione di
denti? Rassicurata, mi vesto con
gran cura: giornata meravigliosa,
sono solo le sei; ho tutto il tempo
di agghindarmi. Grazie all'aria
secca, i capelli mi formano come
una nube. Ho un visetto sempre
un po' pallido e aguzzo, ma - vi
assicuro - occhi e bocca non sono
brutti.
Il
vestito
fruscia
leggermente; la sottoveste di
mussola, senza amido, ondeggia
alla cadenza del passo e accarezza
le scarpe a punta. Ora la corona.
Ah, come mi sta bene! Una piccola
Ofelia, giovanissima, con certi
occhi così stranamente cerchiati!...
Sì, quand'ero piccina, mi dicevano
che avevo gli occhi da grande; più
tardi erano gli occhi "poco per
bene"; non si può accontentare
tutti e se stessi. Preferisco
accontentare prima me...
Una bella noia è quel grosso
mazzo di fiori stretto e rotondo
che mi imbruttisce. Via, poiché lo
rifilo a Sua Eccellenza...
Tutta vestita di bianco me ne
vado a scuola, per le vie fresche; i
giovanotti, che stanno spargendo
fiori, urlano complimenti spinti,
un po' troppo spinti, alla "sposina"
che sfugge, selvatica.
Arrivo in anticipo, e tuttavia
trovo già una quindicina di
scolare, piccine delle campagne
circostanti, delle fattorie più
lontane: d'estate hanno l'abitudine
di alzarsi alle quattro. Ridicole e
commoventi, con le teste enormi,
avendo i capelli gonfiati in rigidi
ciuffi, stanno in piedi per non
spiegazzare i vestiti di mussola,
stirati con un appretto troppo
azzurrognolo, che si gonfiano,
rigidi, annodati alla vita con
cinture scarlatte o viola; e i volti
abbronzati sembrano proprio neri
in mezzo a tutto quel bianco.
Quando entro, prorompono in una
esclamazione di meraviglia subito
trattenuta, e ora tacciono molto
intimidite per i bei vestiti e
l'arricciatura dei capelli, rigirando
fra le mani, coperte di guanti di
filo bianco, un bel fazzoletto, nel
quale la mamma ha versato
qualche goccia di profumo.
Le signorine non si fanno
vedere, ma al piano superiore
sento passettini di corsa... Nel
cortile sbucano nuvole bianche
con nastri rosa, rossi, verdi e
azzurri; le ragazzine giungono
sempre più numerose, zitte per lo
più, perché molto affaccendate a
squadrarsi e a stringere le labbra
con aria sdegnosa. Sembra un
accampamento
di
donne
dell'antica Gallia con queste
chiome sciolte, inanellate, ricciute,
traboccanti, quasi tutte bionde...
Una galoppata giù per le scale:
sono le convittrici - gregge sempre
isolato e ostile - che possono
ancora portare il vestito della
prima comunione; dietro di loro
scende Luce, leggera come un
angora bianco, graziosa con i
riccioli molli e ondeggianti, la
carnagione fresca come una rosa.
Per renderla decisamente bella
non le ci vorrebbe, come ad
Aimée, un amore corrisposto?
"Come sei bella, Claudine! E la
tua corona non è affatto uguale
alle altre due. Ah, che fortuna
essere così bella!"
"Ma, gattina mia, sai che mi
sembri
proprio
piacente
e
desiderabile con i tuoi nastri
verdi?
Sei
veramente
una
bestiolina molto curiosa!
Dove sono tua sorella e la
signorina?"
"Non sono ancora pronte;
pensa che il vestito di Aimée si
abbottona sotto il braccio! Glielo
sta mettendo la signorina."
"Sì, può durare un pezzo."
Dall'alto, la voce della sorella
maggiore chiama: "Luce, vieni a
prendere le bandierine!".
Il cortile si riempie di ragazze
piccole e grandi, e tutto questo
bianco, sotto il sole, fa male agli
occhi. (D'altronde troppi bianchi
diversi si annullano.)
Ecco Lillina, col solito sorriso
inquietante di Gioconda sotto le
ondulazioni dei capelli dorati e
con gli occhi glauchi; e quella
giovane pertica di Mathilde,
coperta sino alle reni da una
cascata di capelli color del grano
maturo; la dinastia delle Vignale,
cinque femmine dagli otto ai
quattordici anni, le quali agitano
tutte criniere abbondanti, che
sembrano
tinte
all'henné;
Jeannette, una furbetta dagli occhi
maliziosi, cammina con due trecce
lunghe come lei, di un biondo
cupo, pesanti come dell'oro scuro,
e tante, tante altre; e sotto la luce
scintillante queste capigliature
sfavillano.
Arriva
Marie
Belhomme,
attraente nel vestito color crema,
con nastri azzurri, piuttosto buffa
sotto la corona di fiordalisi. Ma,
Dio mio, che mani grandi sotto i
guanti di capretto bianco!
Finalmente ecco Anaïs, e io
sospiro di sollievo vedendola così
mal pettinata, con ondulazioni
rigide; con la corona di papaveri
purpurei, troppo vicina alla fronte,
ha una tal carnagione che sembra
una morta. Con un accordo
commovente, Luce e io le
corriamo incontro, prorompiamo
in un coro di complimenti: "Cara
mia, come stai bene! Lo sai, cara,
davvero nessun colore ti va come
il rosso, stai proprio bene!".
Un po' diffidente, dapprima,
Anaïs non sta nella pelle per la
gioia, e facciamo un ingresso
trionfale nell'aula dove ora le
ragazzine, al completo, salutano
con una ovazione il tricolore vivo.
Si fa un religioso silenzio:
vediamo scendere le signorine
senza fretta, un gradino alla volta,
seguite da due o tre convittrici che
portano le bandierine fissate in
cima a grandi aste dorate. Aimée,
perbacco - sono costretta a
riconoscerlo - la si mangerebbe di
baci tanto è seducente col vestito
bianco di moire lucido (una
sottana senza cucitura dietro,
basta questo!) con un cappello di
paglia di riso e un velo bianco. Va',
piccolo mostro!
E la signorina la cova con gli
occhi, inguainata nel vestito nero,
ricamato a rami lilla, che vi ho già
descritto. Lei, la cattiva rossa, non
può esser bella, ma il vestito la
stringe come un guanto, e non si
vedono che gli occhi scintillanti
sotto le onde ardenti, coperte da
un cappello nero elegantissimo.
"Dov'è la bandiera?" domanda
subito.
La bandiera si avanza, modesta
e soddisfatta di sé.
"Va bene; va... benissimo!
Venga qui, Claudine... Sapevo bene
che avrebbe fatto bella figura. E
ora mi seduca il ministro!"
Esamina rapidamente tutto il
battaglione bianco, mette a posto
un ricciolo qui, tira un nastro là,
chiude la sottana di Luce, che era
mezzo
sbottonata,
ficca
nuovamente nella crocchia di
Aimée una forcina che scivolava
giù, e dopo aver scrutato tutto col
suo occhio temibile, prende il
fascio delle iscrizioni varie: "Viva
la Francia!", "Viva la Repubblica!",
"Viva la Libertà!", "Viva il
Ministro!" eccetera, in tutto venti
bandiere che distribuisce a Luce,
alle Jaubert, ad altre elette che
arrossiscono di orgoglio, reggono
l'asta come un cero, invidiate dalle
semplici
mortali
che
sono
furibonde.
Con gran cura togliamo
dall'ovatta, come se fossero
monili, i nostri tre mazzi annodati
con fiocchi tricolori. Dutertre ha
speso bene i denari dei fondi
segreti; io ricevo un fascio di
camelie bianche; Anaïs, uno di
camelie rosse; a Marie Belhomme
tocca il grosso mazzo di fiordalisi
grandi e vellutati, poiché la natura,
non
avendo
preveduto
i
ricevimenti
ai
ministri,
ha
trascurato di far spuntare camelie
azzurre. Le piccole si urtano per
vedere, e già si scambiano
spintoni, pur con acuti lamenti.
"Basta!" grida la signorina.
"Credete che abbia il tempo di fare
la guardia? Qui la bandiera! Marie
a sinistra, Anaïs a destra, Claudine
in mezzo; e via, scendete in cortile
un po' svelte! Sarebbe bello che
perdessimo l'arrivo del treno! Le
portatrici di gagliardetti seguano a
quattro a quattro, le più grandi in
testa..."
Scendiamo
giù
dal
pianerottolo, non sentiamo il resto
del discorso, Luce e le più grandi
camminano dietro a noi, le
banderuole dei gagliardetti ci
sbattono leggermente sulle teste;
seguite da uno scalpiccìo di
pecore, passiamo sotto l'arco di
verzura... Benvenuti!
Tutta la folla che ci attendeva
fuori, una folla vestita a festa,
entusiasta, pronta a gridare: "Viva
qualunque
cosa!", vedendoci,
prorompe
in
una
grande
esclamazione di meraviglia, come
per un fuoco d'artificio. Superbe
come pavoncelli, con gli occhi
bassi, e scoppiando di vanità,
camminiamo pian piano, col
mazzo nelle mani congiunte,
calpestando lo strato di fiori che
copre la polvere; solo dopo
qualche minuto ci scambiamo
sguardi di traverso e sorrisi
raggianti, pieni di allegria.
"E' un piacere" sospira Marie
contemplando
i
viali
verdi
attraverso i quali passiamo
lentamente, fra due ali di
spettatori a bocca aperta, sotto le
volte del fogliame che filtrano il
sole lasciando passare una luce
falsa e deliziosa da sottobosco.
"Lo credo bene che ci
divertiamo! Si direbbe che la festa
è per noi!"
Anaïs non dice parola, troppo
assorta nella propria dignità,
troppo occupata a cercare, nella
folla che fa ala al nostro passaggio,
i giovanotti che conosce e che
crede di affascinare. Non è bella,
oggi, però, in mezzo a tutto quel
bianco, non è bella! Ma gli
occhietti le scintillano ugualmente
di orgoglio. Al crocicchio del
Mercato, ci gridano: "Ferme!".
Bisogna che ci raggiunga la scuola
maschile, tutto un corteo scuro
che si fatica molto a tenere in file
regolari. Oggi i ragazzi ci
sembrano
molto
spregevoli,
abbronzati e goffi con gli abiti da
festa; le grosse mani impacciate
reggono le bandiere.
Durante la sosta, ci siamo
voltate tutte e tre, nonostante la
nostra importanza: dietro a noi,
Luce e le sue compagne si
appoggiano bellicosamente all'asta
delle bandiere; la piccola è
raggiante di vanità e sta dritta
come Fanchette quando fa la
graziosa; ride di gioia in tono
sommesso, di continuo. E sino a
perdita d'occhio, sotto gli archi
verdi, con le sottane a sbuffo e le
chiome gonfie, si stende e si perde
l'esercito delle donne della Gallia.
"In marcia!" Riprendiamo il
cammino leggere come scriccioli,
scendiamo la via del Chiostro e
varchiamo finalmente questa
muraglia verde fatta di tassi
tagliati
a
forbiciate,
che
rappresenta una roccaforte, e
siccome sulla strada il sole picchia
sodo, ci fermiamo all'ombra del
boschetto di acacie, vicino al
paese; aspettiamo le vetture
ministeriali. Ci riposiamo un po'.
"La mia corona sta su?"
domanda Anaïs.
"Sì... vedi un po' tu."
Le porgo uno specchietto
tascabile, che ho portato per
prudenza,
e
verifichiamo
l'equilibrio
delle
nostre
acconciature... La folla ci ha
seguite, ma, troppo pigiata nel
sentiero, ha rotto le siepi che la
fiancheggiano, e ha calpestato i
campi senza curarsi del raccolto
del fieno. I giovanotti deliranti
portano fasci di fiori, bandiere e
anche
bottiglie!
(Benissimo,
perché ne ho visto uno che si
fermava, rovesciava il capo e
beveva a garganella da una
bottiglia da litro.)
Le signore della "società" sono
rimaste alle porte del paese, chi
seduta sull'erba, chi su seggiolini
pieghevoli, tutte riparate da
ombrellini. Aspetteranno là, è più
di buon gusto; non conviene
mostrare troppa premura.
Lontano ondeggiano bandiere
sui tetti rossi della stazione, dove
accorre la folla; e il chiasso si
allontana. La signorina Sergent,
tutta vestita di nero, e la sua
Aimée, tutta in bianco, già ansanti
per la fatica di sorvegliarci e di
correrci accanto avanti e indietro,
siedono sul pendìo, con le sottane
rialzate per timore di macchiarle
di verde. Noi aspettiamo in piedi,
senza aver voglia di parlare, io
ripasso mentalmente il discorsetto
un po' sciocchino, opera di
Antonin Rabastens, che reciterò
fra poco:
""Signor ministro, i bimbi delle
scuole di Montigny, ornati dei fiori
del paese natale..."
(Ditemi se si sono mai visti
campi di camelie, qui!)
"...vi vengono incontro pieni di
riconoscenza...""
Pum! Una scarica di fucilate
che rimbomba alla stazione fa
balzare in piedi le maestre.
Le grida della folla ci giungono
come un rumore sordo, che subito
cresce e si avvicina con uno
strepito confuso di grida allegre, di
molteplici scalpiccìi e di cavalli al
galoppo... Con grande tensione
d'animo, fissiamo la svolta della
strada... Finalmente, finalmente
sbuca
l'avanguardia:
monelli
impolverati che trascinano rami e
sbraitano, poi ondate di folla, poi
due vetture chiuse che splendono
al sole, due o tre landò dai quali si
levano delle braccia che agitano il
cappello... Siamo tutt'occhi a
guardare...
Le
vetture
si
avvicinano
con
un
trotto
rallentato, sono qui, davanti a noi,
prima che abbiamo avuto il tempo
di rendercene conto, quando si
apre a dieci passi da noi lo
sportello della prima carrozza.
Un giovanotto in marsina salta
a terra e tende il braccio sul quale
si
appoggia
il
ministro
dell'Agricoltura. Non è per nulla
distinto l'Eccellenza, nonostante
gli sforzi che fa per apparire
imponente. Lo trovo persino un
po' ridicolo, questo burbanzoso
ometto, dal ventre di fringuello,
che
si
asciuga
la
fronte
insignificante, e gli occhi arcigni e
la barbetta rossastra, perché
gocciola di sudore. Sfido, non è
vestito di mussola bianca, lui; e il
panno nero, con questo sole...
Lo accoglie un minuto di
silenzio curioso; e subito, grida
deliranti di: "Viva il ministro! Viva
l'agricoltura! Viva la repubblica!"...
Jean Dupuy ringrazia con un gesto
parco, ma sufficiente. Un grosso
signore, con l'uniforme ricamata
d'argento, in feluca, e tenendo la
mano sull'elsa di madreperla di
uno spadino, viene a mettersi a
sinistra dell'illustre personaggio;
un vecchio generale dalla barbetta
bianca, alto e curvo, si colloca al
fianco destro. E l'imponente
terzetto si avanza serio, scortato
da una schiera di signori in
marsina, dai collari rossi e con
varie altre insegne cavalleresche.
Fra le spalle e le teste, distinguo il
viso trionfante di quella canaglia
di Dutertre, acclamato dalla folla,
che lo festeggia come amico del
ministro e come futuro deputato.
Cerco con gli occhi la
signorina, le domando con un
cenno del mento e delle
sopracciglia:
"Devo
dunque
cominciare il discorsetto?".
Annuisce, e io trascino le mie
due accolite. Si fa subito un
silenzio sorprendente. Dio mio,
come oserò parlare davanti a tutta
questa gente? Purché quella
maledetta tremarella non mi
soffochi la voce!
Prima di tutto, in perfetto
sincronismo, ci sprofondiamo
nelle sottane con un bell'inchino,
che fa frusciare i vestiti, e
incomincio (le orecchie mi
ronzano in modo tale che non
sento la mia voce):
"Signor ministro, i bimbi delle
scuole di Montigny, ornati dei fiori
del paese natale, vi vengono
incontro pieni di riconoscenza...".
E poi subito mi faccio animo e
continuo, articolando la prosa
nella quale Rabastens si rende
garante del nostro "indefettibile
attaccamento
alle
istituzioni
repubblicane", tanto tranquilla,
ora, come se recitassi in classe il
Vestito del Manuel. D'altronde il
terzetto ufficiale non mi ascolta: il
ministro pensa che sta morendo di
sete, gli
altri
due
grandi
personaggi si scambiano sottovoce
apprezzamenti:
"Signor prefetto, da dove salta
fuori questo quadro?".
"Non ne so nulla, generale, è
un amore."
"Sembra
un
"primitivo""
(anche lui!) "Se quella sembra una
ragazza di queste parti, vorrei
essere..."
"Favorite accettare questi fiori
del suolo materno" concludo,
tendendo il mazzo a Sua
Eccellenza.
Anaïs, affettata, come tutte le
volte in cui cerca di avere l'aria
distinta, porge il proprio al
prefetto, e Marie Belhomme,
paonazza per l'emozione, lo offre
al generale.
Il ministro balbetta una
risposta di cui afferro le parole:
"Repubblica... sollecitudine del
governo...
fiducia
nella
devozione"; mi irrita. Poi resta
immobile, e io pure; tutti sono in
attesa,
quando
Dutertre,
chinandosi al suo orecchio, gli
suggerisce:
"Suvvia,
bisogna
baciarla!".
Allora mi bacia, ma goffamente
(la sua barba ispida mi punge). La
fanfara del capoluogo comincia la
Marsigliese,
e,
facendo
un
voltafaccia, andiamo verso la città,
seguite dalle portabandiera; gli
altri alunni fanno ala per lasciarci
passare, e, precedendo il corteo
maestoso, passiamo sotto la
"roccaforte", rientriamo sotto le
volte di verzura; intorno a noi
urlano in tono acuto, da
forsennati, sembra veramente che
nessuno capisca più nulla! Diritte
e coperte di fiori, noi tre siamo
acclamate quanto il ministro... Ah,
se avessi un po' di fantasia,
immaginerei subito che noi tre
siamo le figlie del re, che entrano
col padre in una qualsiasi città
fedele; le ragazzine sono le nostre
damigelle, ci conducono al torneo,
dove
i
prodi
cavalieri
si
disputeranno l'onore di... Purché
questi maledetti ragazzi non
abbiano riempito troppo di olio i
lumini colorati, sin da questa
mattina! Con le scosse che danno
ai pennoni, i monelli che vi si sono
arrampicati e urlano, saremmo
ben conciate! Non parliamo tra
noi, non abbiamo nulla da dirci,
siamo abbastanza occupate a
dimenare i fianchi per questa
gente venuta da Parigi, e a chinare
il capo in direzione del vento per
scompigliarci i capelli...
Arriviamo nel cortile delle
scuole,
ci
fermiamo,
ci
raggruppiamo, la folla affluisce da
tutte le parti, dà l'assalto ai muri e
vi si arrampica. Con aria sdegnosa
allontaniamo
piuttosto
freddamente le compagne troppo
disposte
a
circondarci,
a
sommergerci; ci scambiamo delle
acide frasi: "Ma bada, dunque!... E
tu non darti tante arie!...
Sei stata abbastanza in mostra
da questa mattina!". Anaïs la
lunga
oppone
un
silenzio
sdegnoso a queste parole di
scherno; Marie Belhomme si
irrita; io mi trattengo più che
posso dal levarmi una delle
scarpine scollate per sbatterla sul
viso della più sfacciata delle
Jaubert che mi ha urtato di
soppiatto.
Il ministro, scortato dal
generale, dal prefetto, da una
quantità di consiglieri, di segretari,
di non so bene che cosa (conosco
poco quell'ambiente) che fendono
la folla, è salito sul palco e si
installa nella bella poltrona troppo
dorata che il sindaco ha tolto
apposta
dal
salotto. Magra
consolazione per quel poveruomo,
inchiodato a casa dalla gotta in
questo giorno indimenticabile!
Jean Dupuy suda e si asciuga il
sudore; che cosa non darebbe
perché fosse domani! Del resto, lo
pagano per questo... Dietro di lui,
in semicerchi concentrici, siedono
i consiglieri generali, il consiglio
municipale di Montigny... tutta
questa gente sudata non deve
olezzare...
E allora noi? E' finita la nostra
gloria? Ci lasciano giù, senza che
nessuno ci offra una sedia? E' un
po' grossa! "Venite, voialtre,
andiamo a sederci." Non senza
fatica ci facciamo strada sino alla
pedana, noi, la bandiera, e tutte le
reggi-stendardo. Là, a testa alta,
chiamo a mezza voce Dutertre che
chiacchiera, chino sulla spalliera
della sedia del prefetto, proprio
sull'orlo del palco:
"Dottore, ehi, dottore; dottor
Dutertre, via!... dottore!". Sente
questo richiamo meglio degli altri
e si china sorridendo, mostrando
le zanne: "Sei tu! Che cosa vuoi? Il
mio cuore? Te lo do!".
Immaginavo che fosse già
ubriaco.
"No, dottore, preferirei una
sedia per me e qualche altra per le
mie
compagne.
Ci
hanno
abbandonate sole solette, con le
semplici mortali: è molto triste."
"Grida proprio vendetta! Vi
disporrete a scaglioni, sedute sui
gradini perché la gente possa
almeno riposarsi l'occhio mentre
noi l'annoieremo coi nostri
discorsi. Salite tutte!"
Non ce lo facciamo dire due
volte, Anaïs, Marie e io ci
arrampichiamo per prime con
Luce, le Jaubert e le altre
portabandiera dietro a noi,
imbarazzate perché le aste si
urtano, si aggrovigliano, ed esse le
tirano furiosamente a denti stretti
e con gli occhi bassi, pensando che
la folla si diverta alle loro spalle.
Un tale - il sacrestano s'impietosisce
e
raccoglie
gentilmente le bandierine che
porta via; di certo i vestiti bianchi,
i fiori, i gagliardetti hanno dato a
questo brav'uomo l'illusione di
assistere a una festa del Corpus
Domini, un po' più laica, e,
obbedendo a una antica abitudine,
ci porta via i ceri, voglio dire le
bandierine,
alla
fine
della
cerimonia.
Installate
nel
palco
e
troneggianti, guardiamo la folla ai
nostri piedi e le scuole davanti a
noi, queste scuole oggi bellissime
sotto le tende di verzura, sotto i
fiori,
sotto
tutta
questa
acconciatura fremente che ne
dissimula il duro aspetto di
caserma. In quanto alla vile
plebaglia delle compagne rimaste
giù in piedi, che ci osserva con
invidia, si spinge a gomitate e ride
forzatamente, noi la disdegniamo.
Sul palco muovono le sedie,
tossiscono, e noi ci voltiamo a
metà per vedere l'oratore. E'
Dutertre che, in piedi nel mezzo,
agile e nervoso, si prepara a
parlare, senza fogli, a mani vuote.
Si fa un silenzio profondo. Si
sentono, come durante la messa
solenne, gli strilli di un bambino
che vorrebbe andarsene, e, come
alla messa solenne, fa ridere. Poi:
"Signor ministro...".
Non parla più di due minuti; il
suo discorso, abile e secco, pieno
di complimenti grossolani, di
sottili birbonate (delle quali
probabilmente non ho capito che
la quarta parte), è terribile contro
il deputato e gentile per tutti gli
altri esseri umani; per il suo
glorioso ministro e caro amico devono averne fatti dei brutti tiri
insieme - per i suoi cari
concittadini, per la direttrice "di
un merito così indiscutibile che il
numero delle promozioni ottenute
dalle scolare mi dispensa da
qualsiasi altro elogio..." (la
signorina Sergent, seduta in basso,
china modestamente il capo sotto
il velo), per noi, in verità "fiori che
portano fiori, bandiera femminile,
patriottica e seducente". A questo
colpo inatteso, Marie Belhomme
perde la testa e si nasconde gli
occhi con la mano; Anaïs rinnova i
vani sforzi per arrossire, e io non
posso fare a meno di muovere i
fianchi. La folla ci guarda e ci
sorride, e Luce mi strizza
l'occhio...
"...della
Francia
e
della
repubblica!"
Gli applausi e le grida durano
cinque minuti, così fragorosi da
assordare; mentre si calmano,
Anaïs la lunga mi dice:
"Mia cara, vedi Monmond?".
"Dove?... Sì, lo vedo. Ebbene
che c'è?"
"Non fa che guardare la
Joublin."
"Ti pesta i calli?"
"No, ma veramente bisogna
avere gusti ben strani. Ma
guardalo! La fa salire su un banco
e la sostiene! Scommetto che sta
palpando per sentire se ha i
polpacci sodi."
"E'
probabile.
Povera
Jeannette, non so se sia l'arrivo
del ministro che la emoziona
tanto! E' rossa come i tuoi nastri, e
ha dei fremiti..."
"Cara mia, sai a chi fa la corte,
Rabastens?"
"No."
"Guardalo, lo saprai."
E' proprio vero che il bel
maestro
sta
guardando
ostinatamente una tale... E questa
tale è la mia incorreggibile Claire,
vestita di azzurro, i cui begli occhi
un po' malinconici si volgono con
compiacenza verso l'irresistibile
Antonin... Bene: è stata colpita
ancora una volta la compagna
della prima comunione! Fra poco
sentirò storie romantiche di
incontri, di gioie, di abbandoni...
Dio mio, che fame!
"Non hai fame, Marie?"
"Sì, un po'."
"Io muoio di fame. Ti piace il
vestito nuovo della modista?"
"No, trovo che è vistoso. Pensa
che più dà nell'occhio, più è bello.
La sindachessa ha ordinato il suo
a Parigi, lo sai?"
"Fa proprio bella figura! Lo
porta come una scimmia vestita.
L'orologiaia ha ancora il vestito
di due anni fa."
"To', vuol fare la dote alla
figlia, ha ragione quella!"
Il piccolo papà Dupuy si è
alzato e incomincia la risposta con
voce
secca,
con
un'aria
d'importanza proprio divertente.
Per fortuna non parla a lungo. Il
pubblico applaude, e anche noi, a
più non posso. E' buffo vedere
tutte queste teste che si agitano,
tutte queste mani levate che
battono in aria, ai nostri piedi,
tutte queste bocche nere che
gridano... E che bel sole in alto!
Un po' troppo caldo...
Vi è un movimento di sedie sul
palco, tutti quei signori si alzano,
ci fanno segno di scendere,
accompagniamo il ministro che va
a mangiare, andiamo a fare
colazione!
A fatica, sballottate fra la folla
che
si
spinge
in
ondate
contrastanti, riusciamo a uscire
dal cortile, sulla piazza dove la
calca si allenta un poco. Tutte le
ragazzine in bianco se ne vanno,
sole o con le mamme, molto
orgogliose, che le attendevano;
anche noi tre stiamo per separarci.
"Ti sei divertita?" domanda
Anaïs.
"Certo, è andata molto bene,
com'era bello!"
"Be', io penso... Insomma
credevo che fosse più divertente...
Mancava un po' di slancio,
ecco!"
"Taci, mi fai rabbia! So quello
che ti manca: avresti voluto
cantare qualcosa, tu sola sul palco.
La festa ti sarebbe sembrata
subito più allegra."
"Di' pure, non mi offendi; si sa
che
cosa
valgono
simili
complimenti dalla tua bocca!"
"Io" confessa Marie "non mi
sono mai divertita tanto. Oh, che
cosa ha detto di noi... Non sapevo
più dove nascondermi!... A che ora
torniamo?"
"Alle due in punto. Cioè alle
due e mezzo, capisci bene che il
banchetto non sarà finito prima.
Arrivederci fra poco."
A casa, papà mi domanda con
interesse:
"Ha parlato bene Méline?".
(20)
"Méline? Perché non Sully?
(21) E' Jean Dupuy, andiamo,
papà!"
"Sì, sì."
Ma trova bella la figlia, e si
compiace di guardarla.
Dopo aver fatto colazione, mi
ravvio di nuovo i capelli, raddrizzo
le margherite della corona, mi
scuoto via la polvere dalla sottana
di
mussola,
e
aspetto
pazientemente due ore, resistendo
alla meglio al vivo desiderio di fare
la siesta. Come farà caldo, là, mio
Dio.
Fanchette, non toccarmi la
sottana: è di mussola. No, non ti
prendo le mosche, non vedi che
devo ricevere il ministro?
Esco di nuovo; per le strade vi
è già un brusìo e risuona il rumore
dei passi, tutti in direzione della
scuola. Sono molto osservata, non
mi dispiace. Quasi tutte le
compagne sono già presenti
quando sopraggiungo: facce rosse,
sottane di mussola già gualcite e
che hanno perso le pieghe, non
hanno più l'aria fresca di questa
mattina.
Luce si stira e sbadiglia; ha
fatto colazione troppo in fretta, ha
sonno, ha troppo caldo, "si sente
spuntare gli artigli". Anaïs sola è
sempre la stessa, ugualmente
pallida, ugualmente fredda, senza
fiacchezza e senza emozione.
Le
signorine
scendono
finalmente. La signorina Sergent,
con le guance rosse, sgrida Aimée
che si è macchiata la balza della
sottana col sugo di lampone; la
piccola viziata tiene il broncio e
scuote le spalle, e si volta senza
voler accorgersi della tenera
preghiera degli occhi dell'amica.
Luce spia tutto ciò, s'infuria e si fa
beffe.
"Vediamo, ci siete tutte?"
tuona la signorina che, come
sempre, fa scoppiare sulle nostre
teste innocenti i rancori personali.
"Pazienza, andiamocene, non
ho voglia di sorbirmi questa
attesa, di aspettare un'ora qui. In
fila, e più svelte!"
Che bel vantaggio! Su questo
enorme palco, scalpicciamo a
lungo, perché il ministro non la
finisce più di prendere il caffè e il
resto. La folla, giù, rumoreggia e ci
guarda
ridendo,
con
facce
grondanti di gente che ha
mangiato molto... Le signore
hanno
portato
i
seggiolini
pieghevoli; l'albergatore di via del
Chiostro ha disposto qualche
panchina che affitta a due soldi al
posto; i giovanotti e le ragazze vi si
accatastano e vi si pigiano; tutta
questa gente brilla, volgare e
ridanciana, aspetta pazientemente
scambiandosi espressioni molto
spinte, urlate a distanza con risate
formidabili. Di tratto in tratto una
ragazzina vestita di bianco si fa
strada fino ai gradini del palco, si
arrampica, si fa strapazzare e
relegare nelle ultime file dalla
signorina, irritata da questi ritardi
e che rode il freno sotto la veletta,
ancora più furente a causa della
piccola Aimée che manovra le
lunghe ciglia e i begli occhi per un
gruppo di commessi venuti da
Villeneuve in bicicletta.
Si leva un "Ah!" di meraviglia
che sospinge la folla verso le porte
della sala del banchetto, che si
sono aperte davanti al ministro
più rosso, più sudato ancora di
questa mattina, seguito dalla sua
scorta di marsine. Facciamo ala al
suo passaggio già con più
familiarità,
con
sorrisi
di
confidenza; se restasse qui tre
giorni, la guardia campestre gli
darebbe colpetti sulla pancia,
chiedendogli uno spaccio di
tabacchi per la nuora che ha tre
bambini, povera ragazza, e non un
marito.
La signorina ci raggruppa sul
fianco destro del palco poiché il
ministro e le sue comparse si
siederanno su queste file di sedie
per
sentire
meglio
quando
canteremo. Quei
signori
si
accomodano:
Dutertre, che è del colore del
cuoio di Russia, ride e parla troppo
forte, ubriaco - tanto per
cambiare! La signorina ci minaccia
sottovoce castighi spaventosi se
stoneremo; e incominciamo l'Inno
alla natura:
Oramai l'orizzonte si colora/
dei più splendenti e vividi
bagliori./ Alziamoci, orsù: ecco
l'aurora/ ed il lavor vuole i nostri
sudori!/
(Se il lavoro non si accontenta
dei sudori del corteo ufficiale,
vuole dire che è esigente.)
Le vocine si sperdono un po'
all'aria aperta; io mi affanno a
sorvegliare insieme il secondo e il
terzo gruppo. Jean Dupuy segue
vagamente il ritmo dondolando il
capo, ha sonno, sogna il Petit
Parisien. Lo svegliano gli applausi
fragorosi; si alza, si avanza e si
congratula goffamente con la
signorina Sergent, che diventa
subito selvatica, abbassa gli occhi
e si rinchiude in se stessa... Che
strana donna!
Ci
fanno
sloggiare,
ci
sostituiscono con gli alunni della
scuola maschile che vengono a
ragliare un coro idiota:
Sursum corda! Sursum corda!/
Alti i cuori! Questo motto/ sia il
segnale d'adunata./ Rinneghiam
ciò che divide/ per andar dritti alla
meta!/ Rinneghiamo l'egoismo/
che ancor più dei traditori/ fa
annientar l'amor di patria;/
eccetera.
Dopo di loro la fanfara del
capoluogo, l'"amica del Fresnois",
viene a far chiasso. E' molto
noioso tutto ciò! Se potessi trovare
un cantuccio tranquillo... E poi,
siccome non si occupano più di
noi, perbacco, me ne vado, senza
dirlo a nessuno, torno a casa, mi
spoglio e mi sdraio sino all'ora del
pranzo. Sarò più fresca al ballo,
to'!
Alle nove, in piedi sul
pianerottolo, sto respirando la
frescura che cala finalmente. In
cima alla strada, sotto l'arco di
trionfo, sbocciano i palloni di carta
come
grossi frutti colorati.
Aspetto, pronta coi guanti, un
cappuccio bianco sotto il braccio, il
ventaglio bianco in mano, Marie e
Anaïs che verranno a prendermi...
Passi leggeri, voci note vengono
giù dalla strada: sono loro...
Protesto:
"Ma siete matte! Andar via alle
nove e mezzo per il ballo! Ma la
sala non sarà neanche illuminata:
è ridicolo!".
"Cara mia, la signorina ha
detto: "Comincerà alle otto e
mezzo, in questo paese sono così,
non si può farli aspettare, si
precipitano al ballo appena si sono
puliti la bocca!". Ecco quello che
ha detto."
"Una ragione di più per non
imitare i giovanotti e le ragazze di
qui! Se questa sera ballano le
"marsine", verranno verso le
undici come a Parigi, e noi avremo
già perso la freschezza a forza di
ballare! Venite un po' in giardino
con me."
Mi seguono a malincuore nei
viali cupi dove la mia gatta
Fanchette, in abito bianco come
noi, va a passo di danza dietro alle
farfalle notturne, acrobatica e
folle. Diffida nell'udire delle voci
di estranei e si arrampica su un
abete, donde i suoi occhi ci
seguono
come
due
piccole
lanterne
verdi.
D'altronde
Fanchette mi disprezza: l'esame,
l'inaugurazione delle scuole, non
sono mai qui, non le prendo più le
mosche, un'infinità di mosche che
infilavo allo spiedo su uno
spillone da cappello e che lei
sfilava
delicatamente
per
mangiarle, tossendo talvolta a
causa di una fastidiosa ala che le si
fermava in gola; le do solo di rado
la cioccolata e i corpi delle farfalle
che le piacciono tanto, e la sera mi
capita persino di dimenticarmi di
"farle la camera" fra due Larousse.
Pazienza, cara Fanchette! Avrò
tutto il tempo di tormentarti e di
farti saltare attraverso il cerchio,
poiché, purtroppo!, non tornerò
più a scuola...
Anaïs e Marie non resistono
più, mi rispondono soltanto con sì
e no distratti, hanno il formicolìo
alle gambe. Suvvia, andiamo,
dunque, poiché ne hanno tanta
voglia! "Ma vedrete che le
signorine non saranno neppure
scese!"
"Oh, capirai, non hanno che da
scendere la scaletta interna per
trovarsi nella sala da ballo; ogni
tanto danno un'occhiata dalla
porticina per vedere se è giunto il
momento giusto per fare il loro
ingresso."
"Appunto, se arriviamo troppo
presto,
sembreremo
delle
sciocche, sole solette con quattro
gatti in quella grande sala!"
"Oh,
come
sei
noiosa,
Claudine! Guarda, se non c'è
gente, saliremo per la scaletta a
prendere
le
convittrici
e
scenderemo
quando
saranno
giunti i ballerini!"
"Va bene così, allora."
E io che temevo che questa
grande sala fosse vuota. Più della
metà è già piena di coppie che
ballano al suono di un'orchestra
mista
(installata
sul
palco
inghirlandato, in fondo alla sala),
un'orchestra
composta
di
Trouillard e di altri strimpellatori
locali di violino, cornetta e
trombone, uniti a elementi
dell'"amica del Fresnois" col
berretto gallonato. Tutti insieme
soffiano, grattano e pestano con
poca fusione, ma con enorme
slancio.
Dobbiamo
farci
strada
attraverso la siepe di gente che
guarda e ingombra la porta di
ingresso, spalancata, poiché sapete
che qui il servizio d'ordine!... Qui
si scambiano le osservazioni
scortesi e i pettegolezzi sui vestiti
delle ragazze, sull'accoppiamento
frequente degli stessi ballerini e
ballerine:
"Cara mia, mostrare la pelle a
quel modo! E' una sgualdrinella!".
"Sì, e poi esibire che cosa?
Ossa!"
"Sono quattro volte, quattro
volte di seguito che balla con
Monmond! Se fossi sua madre, la
farei rigare dritto, la manderei a
letto, io!"
"Quei signori di Parigi non
ballano come da noi."
"E' vero! Si muovono così poco,
che si direbbe abbiano paura di
farsi male. I giovanotti di qui,
vivaddio, si divertono senza
risparmiare fatiche!"
E' vero, benché Monmond,
brillante ballerino, si trattenga dal
volteggiare con le gambe a X, data
la presenza dei signori di Parigi.
E' un bel cavaliere, Monmond,
e come se lo contendono. E'
impiegato da un notaio; con un
viso da fanciulla e i capelli neri
ricciuti, come volete che gli si
resista?
Facciamo un timido ingresso
tra due figure di quadriglia, e
attraversiamo pian piano la sala
per andare a sederci, come tre
ragazzine serie, su una panca.
Me lo immaginavo, lo vedevo
che il mio vestito mi stava bene,
che i capelli e la corona mi
facevano un visetto non certo
insignificante, ma gli sguardi
sornioni, i volti improvvisamente
fissi delle ragazze che si riposano e
si sventolano me ne danno la
certezza e mi sento ancor più
sicura di me stessa. Posso
esaminare la sala senza timore.
Le "marsine" non sono certo
numerose! Tutto il corteo ufficiale
ha preso il treno delle sei; tanti
saluti al ministro, al generale, al
prefetto e al loro seguito. Sono
rimasti soltanto cinque o sei
giovanotti, semplici segretari,
d'altronde
simpatici
e
di
bell'aspetto, che in piedi in un
angolo hanno l'aria di divertirsi
straordinariamente a questo ballo:
non ne hanno mai visto uno
simile.
Gli altri ballerini? Tutti i
garzoni e i giovanotti di Montigny
e dei dintorni, due o tre in marsina
di brutto taglio, gli altri in giacca:
meschini abbigliamenti per questa
serata che hanno voluto far
credere fosse ufficiale.
Come ballerine, solo ragazze da
marito, perché, in questo paese
primitivo, la donna cessa di ballare
appena sposata. Hanno fatto
sfoggio, questa sera, le giovani!
Vestiti di tulle azzurro, di mussola
rosa
che
fanno
sembrare
completamente
nere
queste
carnagioni
vigorose
di
contadinotte, dai capelli lisci e non
troppo ariosi, coi guanti di filo
bianco e - checché ne dicano le
comari sulla porta - non
abbastanza scollate; i busti si
fermano troppo presto là dove la
carne diventa bianca, soda e
tondeggiante.
L'orchestra dà alle coppie il
segnale di unirsi e, fra lo sventolìo
delle sottane che ci sfiorano, vedo
passare la compagna della prima
comunione, Claire, illanguidita e
graziosissima, a braccetto del bel
maestro Antonin Rabastens, che
balla con slancio e ha un garofano
bianco all'occhiello.
Le signorine non sono ancora
scese (sorveglio assiduamente la
porticina della scala segreta da
dove appariranno), quando un
signore, una delle "marsine", fa un
inchino davanti a me. Mi lascio
portare via; non è antipatico,
troppo alto per me, robusto, e
balla bene senza stringermi
troppo, guardandomi dall'alto con
aria divertita...
Come sono sciocca! Non avrei
dovuto pensare che al piacere di
ballare, alla gioia schietta di essere
invitata prima di Anaïs, che sbircia
il mio cavaliere con occhi
invidiosi; e da questo valzer non
ritraggo che dispiacere, una
tristezza, sciocca forse, ma così
acuta che trattengo le lacrime con
gran fatica... Perché? Ah, perché
no, non posso essere sincera,
completamente, sino in fondo,
posso solo accennare... mi sento
l'animo dolorante, perché, io che
non amo affatto il ballo, vorrei
ballare con uno che amassi con
tutto il cuore, perché vorrei avere
qui questo tale per sfogarmi a
dirgli tutto ciò che confido solo a
Fanchette o al mio guanciale (e
nemmeno al diario), perché sento
una terribile mancanza di costui, e
ne sono umiliata, e non mi
concederò se non a questo tale,
che amerò e che conoscerò a
fondo... sogni che non si
avvereranno mai, ohibò!
Quello spilungone del mio
ballerino
non
tralascia
di
domandarmi:
"Le piace il ballo, signorina?".
"No, signore."
"Ma allora... perché balla?"
"Perché il ballo è ancora
meglio che nulla."
Due giri in silenzio, e poi
ricomincia:
"Posso notare che le sue due
compagne servono benissimo a far
risaltare la sua grazia?".
"Oh, Dio mio, sì, lo può. Marie,
però, è piuttosto carina."
"Che cosa dice?"
"Dico che quella vestita di
azzurro non è brutta."
"Io... non apprezzo molto quel
genere di bellezza... Mi permette
di invitarla sin da ora per il
prossimo valzer?"
"Volentieri."
"Non ha il carnet?"
"Non importa; qui conosco
tutti: non me ne dimenticherò."
Mi riconduce al posto e non ha
ancora voltato le spalle che Anaïs
si congratula con un "Cara mia"
dei più stizzosi.
"Sì, è proprio simpatico, non è
vero? E poi è divertente sentirlo
parlare, se sapessi!"
"Oh, lo sappiamo che hai tutte
le fortune, oggi! Io sono invitata
per il prossimo ballo da Féfed."
"E io," dice Marie che è
raggiante "da Monmond! Ah, ecco
la signorina!"
Infatti ecco le signorine. Nella
porticina in fondo al salone, esse
si inquadrano l'una dopo l'altra:
prima la piccola Aimée, che si è
messa soltanto un corpetto da sera
tutto bianco, molto vaporoso,
donde escono due spalle delicate e
rotondette,
braccia
fini
e
grassocce; nei capelli, vicino alle
orecchie, qualche rosa bianca e
gialla ravviva ancor più gli occhi
dorati che non ne avevano bisogno
per brillare!
La signorina Sergent, sempre
in nero, ma con un abito di
lustrini pochissimo scollato su
una carne ambrata e soda, coi
capelli
vaporosi
che
fanno
un'ombra ardente sul volto
sgraziato e lasciano splendere gli
occhi, non sta per nulla male.
Dietro di lei serpeggia la fila delle
convittrici bianche, con vestiti
accollati, insignificanti; Luce corre
verso di me a raccontarmi che si è
scollata rivoltando la parte
superiore del busto, nonostante
l'opposizione della sorella. Ha
fatto bene.
Quasi nello stesso tempo entra
dalla porta principale Dutertre,
rosso, eccitato e che parla troppo
forte.
A causa delle dicerie che
circolano in paese, nella sala viene
molto
osservato
l'ingresso
simultaneo del futuro deputato e
della sua protetta. Non fa una
grinza: Dutertre va diritto dalla
signorina Sergent, la saluta, e
siccome l'orchestra attacca una
polca, la trascina sfacciatamente
con lui. Lei, rossa, con gli occhi
socchiusi, non apre bocca e balla
davvero con grazia! Si formano di
nuovo le coppie e l'attenzione si
distoglie.
L'ispettore,
dopo
aver
riaccompagnato al posto la
direttrice, viene accanto a me, ed è
una lusinghiera cortesia che viene
molto osservata. Balla la mazurca
con violenza, non col ritmo del
valzer
ma
girando
troppo,
stringendomi troppo, parlandomi
troppo fra i capelli:
"Sei
graziosa
come
un
amorino!".
"Prima di tutto, dottore, perché
mi dà del tu? Sono abbastanza
grande."
"No, dovrei avere soggezione?
Guardate
un
po'
questa
signorina!...
Oh, i tuoi capelli e questa
corona! Mi piacerebbe tanto
levartela!"
"Le giuro che non sarà lei a
levarmela."
"Taci o ti bacio davanti a tutti!"
"Nessuno si stupirebbe: gliene
hanno già viste fare tante..."
"E' vero. Ma perché non vieni a
trovarmi? Ti trattiene soltanto la
paura, hai certi occhi viziosi... Va'
là, va' là, ti riacchiapperò un
giorno o l'altro; non ridere, mi
faresti arrabbiare alla fine!"
"Via non faccia tanto il cattivo,
non le credo."
Ride mostrando i denti, e io
penso in cuor mio: "Parla pure:
l'inverno prossimo sarò a Parigi, e
tu non mi ci incontrerai!".
Dopo se ne va a ballare con la
piccola Aimée, mentre m'invita
Monmond, in giacca d'alpaca. Io
non rifiuto, no, perbacco! Purché
portino i guanti, ballo molto
volentieri con i giovanotti del
paese (quelli che conosco bene)
che sono gentili con me, a modo
loro. E poi ballo ancora una volta
con la lunga "marsina" del primo
valzer, sino al momento in cui
riprendo un po' il fiato durante
una quadriglia, per non diventare
rossa e anche perché la quadriglia
mi sembra ridicola. Claire mi
viene vicino e si siede, dolce e
languida, intenerita, questa sera,
di una malinconia che le si addice.
La interrogo:
"Dimmi un po', ci sono molte
chiacchiere sul tuo conto, a
proposito dell'assiduità del bel
maestro".
"Oh, credi?... Non si può dir
nulla, perché non c'è nulla."
"Andiamo! Non vorrai far
misteri con me?"
"Dio mio, no! Ma la verità è
che non c'è niente... To', ci siamo
incontrati due volte, questa è la
terza, lui parla in un modo...
seducente! E poco fa mi ha
domandato se qualche volta alla
sera vado a spasso dalle parti
dell'abetaia."
"Si sa che cosa vuol dire. Che
cosa risponderai?"
Sorride senza parlare, con aria
incerta e desiderosa. Ci andrà.
Sono buffe queste ragazzine!
Eccone una che dai quattordici
anni in poi, bella e buona,
sentimentale e docile, si è fatta
piantare successivamente da una
mezza dozzina di innamorati. Non
ci sa fare. E' vero che non ce la
saprei fare neppure io, che sto
costruendo ragionamenti così
belli.
Mi prende un vago senso di
vertigine, a forza di girare, e
soprattutto di veder girare. Quasi
tutte le "marsine" se ne sono
andate, ma Dutertre, che gira
vorticosamente, balla con tutte le
ragazze che trova carine, o anche
soltanto giovanissime. Le trascina,
le
fa
roteare,
le
stringe
palpeggiandole e le lascia allibite,
ma straordinariamente lusingate.
Dalla
mezzanotte
in
poi,
l'ambiente si fa sempre più
intimo; essendosene andati i
"forestieri", ci si ritrova fra amici,
il
pubblico
dell'osteria
di
Trouillard nei giorni festivi;
solamente si sta più comodi in
questa grande sala gaiamente
decorata, e il lampadario illumina
meglio delle tre lampade a petrolio
della taverna. La presenza del
dottor Dutertre non è fatta per
intimidire i giovanotti, tutt'altro, e
già Monmond non costringe più i
piedi a strisciare sul pavimento di
legno. Volano, quei piedi, si alzano
al di sopra delle teste e si
allontanano pazzamente l'uno
dall'altro in grandi balzi prodigiosi.
Le ragazze lo ammirano, soffocano
le risa nel fazzoletto profumato di
acqua di Colonia a buon mercato.
"Cara mia, fa crepare dalle risa. E'
unico!"
A un tratto questo forsennato
passa con la violenza di un ciclone,
trascinando la ballerina come un
fagotto, perché ha scommesso "un
secchio di vino bianco", pagabile
alla mescita installata nel cortile,
che avrebbe "fatto" tutta la
lunghezza della sala in sei passi di
galoppo; ci si raggruppa, lo si
ammira. Monmond ha vinto, ma
la sua ballerina - Fifine Baille, una
sgualdrinella che porta in paese il
latte e tutto quello che le si chiede
- lo lascia furente e lo insulta.
"Razza di cialtrone, avresti
potuto stracciarmi il vestito! Vieni
ancora a invitarmi che te le
canterò io!"
Il pubblico si sbellica dalle risa,
e i giovanotti approfittano della
ressa per pizzicare, fare il solletico
e accarezzare quanto trovano a
portata di mano. Diventano troppo
allegri, fra poco vado a letto. Anaïs
la lunga, che ha potuto finalmente
conquistare
una
"marsina"
ritardataria, passeggia con lui per
la sala, si sventola, ride forte
tubando, felice di vedere che il
ballo si anima e i giovani si
eccitano; ce ne sarà almeno uno
che la bacerà sul collo o altrove!
Dove
mai
sarà
andato
Dutertre? La signorina ha finito
per spingere la sua piccola Aimée
in un angolo e le fa una scena di
gelosia, ridiventata imperiosa e
tenera dopo aver lasciato il
bell'ispettore;
l'altra
ascolta
scrollando le spalle, con lo
sguardo assente e la fronte
ostinata. In quanto a Luce, balla
sfrenatamente ("Non ne perdo
uno!"), passando dalle braccia
dell'uno a quelle dell'altro, senza
perdere il fiato; i giovanotti non la
considerano bella, ma quando
l'hanno
invitata
una
volta,
tornano,
tanto
la
sentono
flessuosa, piccola e abbandonata
fra le braccia, e leggera come un
fiocco di neve.
La signorina Sergent è sparita,
ora, forse offesa nel vedere che la
favorita balla, nonostante i suoi
rimproveri, con un bellimbusto
alto, biondo, che la stringe forte,
che la sfiora coi baffi e con le
labbra, senza ch'essa neppure si
scomponga. E' l'una, oramai non
mi diverto più e vado a letto.
Durante l'interruzione di una
polca (qui la polca si balla in due
tempi, fra i quali le coppie
passeggiano in fila intorno alla
sala, a braccetto), fermo Luce,
mentre passa, e la costringo a
sedersi un minuto:
"Non sei stanca di questo
lavoro?".
"Taci, ballerei otto giorni di
seguito! Non mi sento le gambe..."
"Allora ti diverti molto?"
"Lo so forse? Non penso a
nulla, ho la testa intontita, è tanto
bello! Mi piace molto quando mi
stringono... Quando mi stringono
e si balla in fretta, fa venir voglia
di urlare!"
Ma che cosa si sente tutto a un
tratto? Scalpiccìi, strilli di una
donna schiaffeggiata, insulti che
vengono urlati... Forse che i
giovanotti se le danno? Ma no,
viene
dal
piano
superiore,
perbacco!
Gli strilli diventano subito così
acuti
che
s'interrompe
la
passeggiata
delle
coppie;
diventiamo inquieti, e un'anima
buona, il coraggioso e ridicolo
Antonin Rabastens, si precipita
verso la porta della scala interna,
l'apre...
Il
tumulto
cresce,
riconosco con stupore la voce della
vecchia Sergent, quella voce
stridula di vecchia contadina, che
urla insulti spaventosi. Tutti
ascoltano, inchiodati al loro posto,
in un silenzio perfetto, con gli
occhi fissi su quella porticina dalla
quale proviene tanto chiasso.
"Ah, razza di una sgualdrina!
Non l'hai fatta franca! Eh, gliel'ho
rotto il manico della scopa sulla
schiena, a quel porco del medico!
Eh, gliele ho date sul
groppone! Ah, era un bel pezzo
che vi sospettavo! No, no, cara
mia, non sto zitta, me ne infischio
io della gente del ballo! Sentano
pure, ne sentiranno di belle!
Domani mattina, no, non domani,
subito, faccio fagotto, non dormo,
io, in una casa simile! Spudorata!
hai approfittato che era ubriaco,
fuori di stato (sic), per portartelo
da te, quel dongiovanni! E' dunque
così che era aumentato il tuo
stipendio, svergognata! Se ti avessi
fatto mungere le vacche come ho
fatto io, non saresti arrivata a
questo punto! Ma la pagherai, lo
griderò dappertutto, voglio che ti
segnino a dito per la strada, voglio
che ridano di te! Non può farmi
proprio niente, il tuo ispettore,
anche se dà del tu al ministro, gli
ho dato un sacco tale di legnate
che è scappato: ha paura di me!
Viene a fare i suoi comodi qui,
in una camera dove rifaccio io il
letto tutte le mattine, e non si
chiude neppure dentro! Scappa
mezzo svestito, a piedi nudi, che i
suoi sporchi stivaletti sono ancora
qui! To', eccoli, i suoi stivaletti;
che tutti li vedano!"
Si sentono gettar giù dalla
scala le scarpe che rimbalzano;
una casca sino in basso, sulla
porta, in piena luce: uno stivaletto
di vernice, tutto splendente e
fine... Nessuno osa toccarlo. La
voce esasperata si affievolisce, si
allontana lungo i corridoi, fra uno
sbatacchiare di porte, si spegne.
Allora ci guardiamo in faccia:
ognuno stenta a credere alle
proprie orecchie. Le coppie ancora
unite rimangono perplesse, in
ascolto; e a poco a poco qualche
risata sorniona si disegna sulle
bocche
ironiche,
corre,
canzonatrice, fin sul palco dove i
suonatori si fanno buon sangue,
proprio come gli altri.
Cerco con gli occhi Aimée, la
vedo pallida come il suo vestito,
con gli occhi spalancati, fissi sulla
scarpa, punto di mira di tutti gli
sguardi. Un giovanotto si avvicina
a lei pietosamente, offrendole di
uscire
un
momento
per
rimettersi... Essa gira intorno degli
sguardi smarriti, scoppia in
singhiozzi e si precipita fuori
correndo.
(Piangi, piangi figlia mia,
questi
momenti
penosi
ti
renderanno più dolci le ore di
gioia.) Dopo questa fuga nessuno
si trattiene più dal divertirsi con
maggior piacere, dallo scambiarsi
delle gomitate, dicendo: "Hai visto
che razza di roba!".
Sento allora accanto a me uno
scroscio di risa, un riso pungente,
soffocante, invano represso nel
fazzoletto: è Luce che si sbellica
dalle risa su un panchettino,
piegata in due, piangendo dalla
gioia e ha nel viso una tale
espressione di felicità senz'ombra
che anch'io scoppio a ridere.
"Ma sei pazza, Luce, a ridere a
questo modo?"
"Ah, ah... Oh, lasciami... E'
troppo bello... Ah, non avrei mai
osato sperare una cosa simile. Ah,
ah, posso andarmene, mi sono
divertita per un pezzo... Dio mio,
come fa bene!..."
L'accompagno in un angolo
appartato perché si calmi un poco.
Nella sala chiacchierano forte e
nessuno balla più... Che scandalo,
quando spunterà l'alba!... Ma un
violino lancia una nota sperduta,
lo seguono le cornette e i
tromboni, una coppia abbozza
timidamente un passo di polca,
due coppie la imitano, poi tutte le
altre; qualcuno chiude la porticina
per nascondere la scandalosa
scarpa, e il ballo ricomincia più
allegro, più scapigliato, dopo che
tutti hanno assistito a uno
spettacolo
così
buffo,
così
inaspettato! Io vado a letto,
pienamente
felice
di
avere
concluso con questa serata
memorabile i miei anni di scuola.
Addio,
scuola;
signorina
Sergent e Aimée, addio; addio,
piccola Luce felina, e cattiva
Anaïs! Vi lascio per entrare in
società; e mi stupirei davvero se
non dovessi divertirmici come a
scuola.
NOTE:
(17)
Gioco
di
intraducibile: "vase"
parole
significa
"vaso" e "fango". [N.d.T.]
(18) Autore di opere di
divulgazione
agricola
e
di
economia domestica. [N.d.T.]
(19)
Gioco
di
parole
intraducibile:
chou
significa
"cavolo" e "fiocco"; chicorée
significa "cicoria" e "gorgiera" o
"lattuga". [N.d.T.]
(20) Felix Méline (1838-1925)
fu ministro dell'agricoltura dal
1883 al 1885. [N.d.T.]
(21)
Sully
(1560-1641),
ministro di Enrico IV, diede un
grande impulso all'agricoltura.
[N.d.T.]
Table of Contents
Claudine a scuola
Introduzione