LEZIONE DI DIRITTO AMMINISTRATIVO 2

LEZIONE DI DIRITTO AMMINISTRATIVO 2
FONTI DEL DIRITTO E INTERESSE LEGITTIMO (II PARTE)
a cura di Massimiliano Di Pirro
1. Le fonti del diritto amministrativo (II parte)
1.1. Principio di gerarchica delle fonti e disapplicazione del regolamento contrastante
con la legge in materia di accesso agli atti. Nell’actio ad exhibendum di cui all’art. 25 L.
241/1990, la disciplina regolamentare interna in materia di accesso, ove si riveli in contrasto
con la suddetta legge e col suo regolamento attuativo (approvato con d.P.R. 352/92), deve
essere disapplicata senza che occorra una formale impugnazione del regolamento interno,
giacché, alla stregua dei principi generali sulla gerarchia delle fonti, nel conflitto di due
norme diverse, occorre dare preminenza a quella legislativa, di livello superiore rispetto alla
disposizione regolamentare ogni volta che quest’ultima preclude l’esercizio di un diritto
soggettivo; pertanto, se è ben vero che ai fini di evitare, nell’interesse sia pubblico che dei
concorrenti, intralcio allo spedito andamento delle operazioni concorsuali e condizionamenti
alla serena valutazione della commissione esaminatrice, non può essere consentito ai
concorrenti stessi di accedere agli elaborati scritti ed ai relativi verbali di valutazione fin
tanto che non siano ultimate le rispettive operazioni, è del pari evidente come, specie in
assenza di qualsiasi motivazione, la conoscenza degli elaborati e dei verbali relativi alla
valutazione dei medesimi non possa impedire o ostacolare o comunque compromettere
l’attività della stessa commissione, una volta che le operazioni di correzione ed attribuzione
di tutti gli elaborati si siano concluse e sia in corso la successiva fase concernente
l’effettuazione delle prove orali dei candidati a queste ammessi.
In tema di trasparenza dell’azione amministrativa, va ricordato che l’accesso ai documenti
amministrativi, regolato dagli artt. 22 e 25 L. 241/1990, è esercitabile da chiunque vi abbia
interesse, indipendentemente da ogni giudizio sull'ammissibilità o fondatezza della domanda
giudiziale proponibile sulla base dei documenti acquisiti proprio mediante l'accesso.
La disciplina positiva, e in particolare l’art. 24 L. 241/1990, esclude l'accesso per i
documenti coperti dal segreto di Stato, ai sensi dell'art. 12 L. 801/1977, e per gli altri casi di
segreto o di divieto previsti dall'ordinamento (comma 1).
Al fine di precisare analiticamente l’ambito di eccezione alla disciplina generale, la norma
autorizza il Governo ad adottare uno o più regolamenti volti a disciplinare le modalità di
esercizio del diritto di accesso, in relazione all'esigenza di salvaguardare la sicurezza, la
difesa nazionale e le relazioni internazionali, la politica monetaria e valutaria, l'ordine
pubblico e la prevenzione e repressione della criminalità, nonché la riservatezza dei terzi,
garantendo tuttavia in quest'ultimo caso agli interessati la visione degli atti relativi ai
procedimenti amministrativi necessari alla cura e alla difesa dei loro interessi giuridici
(comma 2).
Ancora più a valle, lo stesso articolo, al comma 4, impone alle singole amministrazioni di
individuare, con uno o più decreti, le categorie di atti da essi formati o comunque rientranti
nella loro disponibilità, sottratti all'accesso per le esigenze indicate nel precedente comma 2.
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In adempimento alla disciplina di rango primario, l'art. 8 d.P.R. 352/1992 contiene il
regolamento per la disciplina delle modalità di esercizio e dei casi di esclusione del diritto di
accesso ai documenti amministrativi, prevedendo, all’art. 8, proprio in attuazione dell'art. 24,
co. 2, i documenti (comma 5, lett. a), b) c) e d) che le singole amministrazioni avrebbero
potuto sottrarre all'accesso, previa emanazione di appositi regolamenti (comma 1), tenendo
presente alcuni criteri generali (fissati nei commi 2, 3 e 4).
Ancora, in attuazione del comma 4 dell’art. 24 della legge il Ministro della giustizia ha
adottato il regolamento n. 115/1996, individuando le categorie di documenti, formati o
comunque rientranti nell'ambito della disponibilità del Ministero stesso e degli organi
periferici dipendenti, sottratti all’accesso.
Occorre, in particolare, prestare attenzione all’art. 4 del decreto ministeriale, che contempla
le “categorie di documenti inaccessibili per motivi di riservatezza di terzi, persone, gruppi ed
imprese”. In particolare, il comma 1, lett. e), dispone che “in relazione all'esigenza di
salvaguardare la riservatezza di terzi, persone, gruppi e imprese, garantendo peraltro ai
medesimi la visione degli atti relativi ai procedimenti amministrativi, la cui conoscenza sia
necessaria per curare o per difendere i loro interessi giuridici, sono sottratte all'accesso le
seguenti categorie di documenti: … e) documentazione attinente ai lavori delle commissioni
giudicatrici di concorso, fino all'esaurimento delle procedure concorsuali”.
Seguendo i principi consolidati dalla giurisprudenza, deve ricordarsi come, nell’actio ad
exhibendum di cui all’art. 25 della legge n. 241 del 1990, la disciplina regolamentare interna
in materia di accesso, qualora sia in contrasto con la suddetta legge e con il suo regolamento
governativo attuativo approvato con il d.P.R. 352/1992, non sia inidonea a impedire
l’accesso e deve essere disapplicata senza che occorra una formale impugnazione del
regolamento interno, poiché - alla stregua dei principi generali sulla gerarchia delle fonti nel conflitto di due norme diverse occorre dare preminenza a quella legislativa, di livello
superiore rispetto alla disposizione regolamentare ogni volta che preclude l'esercizio di un
diritto soggettivo (Cons. Stato, IV, 59/1999, 498/1998,).
Pertanto, se è vero che, per evitare - nell'interesse pubblico e dei concorrenti - un intralcio
allo spedito andamento delle operazioni e condizionamenti alla serena valutazione della
commissione esaminatrice, non può essere consentito ai concorrenti stessi di accedere agli
elaborati scritti e ai relativi verbali di valutazione fin tanto che non siano ultimate le
rispettive operazioni, è del pari evidente che, specie in assenza di qualsiasi motivazione, la
conoscenza degli elaborati del richiedente e dei verbali relativi alla valutazione dei
medesimi non possa impedire o ostacolare o comunque compromettere l'attività della stessa
commissione, una volta che le operazioni di correzione e attribuzione di tutti gli elaborati si
siano concluse e sia in corso la successiva fase concernente l'effettuazione delle prove orali
dei candidati (Cons. Stato, IV, 332/2013; 5764/2012).
1.2. La concessione di pubblici servizi tra regole europee e nazionali. Nell'ordinamento
europeo il tratto distintivo della concessione viene individuato nelle modalità di
remunerazione del soggetto affidatario e nell’attribuzione o meno, in capo al soggetto
stesso, del rischio economico connesso alla gestione economico-funzionale dell'opera o del
servizio.
In particolare, il diritto europeo fonda la natura della concessione di servizi nel
trasferimento, in capo a un soggetto privato, dell’alea relativa a una certa attività; ciò
comporta che le modalità di remunerazione consistono nel diritto del concessionario di
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sfruttare la propria prestazione con il rischio legato alla gestione del servizio, mentre
nell’appalto di servizi l’assunzione del rischio risulta assente (Cons. Stato, V, 5068/2011).
Con riguardo alla definizione, la concessione di servizi viene definita dalla direttiva
2004/18/CE, nonché dall’art. 3, co. 1, D.Lgs. 163/2006 (Codice dei contratti pubblici) come
«il contratto che presenta le stesse caratteristiche di un appalto pubblico di servizi, ad
eccezione del fatto che il corrispettivo della fornitura di servizi consiste unicamente nel
diritto di gestire i servizi o in tale diritto accompagnato da un prezzo».
Più specificamente, l'art. 30 del Codice, al comma 2, afferma che nella concessione di
servizi la controprestazione a favore del concessionario consiste unicamente nel diritto di
gestire funzionalmente e di sfruttare economicamente il servizio. Pertanto, la distinzione
attiene alla struttura del rapporto:
- nell'appalto di servizi intercorre tra due soggetti (la prestazione è a favore
dell'amministrazione);
- nella concessione di servizi pubblici intercorre tra tre soggetti, nel senso che la
prestazione è diretta al pubblico o agli utenti.
L’affidamento delle concessioni di servizi, secondo la giurisprudenza europea e
nazionale, non può essere sottratto ai principi espressi dal Trattato in tema di
concorrenza. Tale regola è stata anche codificata dall’art. 30, co. 3, D.Lgs. 163/2006,
secondo cui “la scelta del concessionario deve avvenire nel rispetto dei principi desumibili
dal Trattato e dei principi generali relativi ai contratti pubblici”.
L’art. 30, co. 1 precisa, invece, che “ le disposizioni del codice non si applicano alle
concessioni di servizi”.
L’interprete, pertanto, deve porsi il problema della differenza tra principi (principi
desumibili dal Trattato ma anche principi generali relativi ai contratti pubblici), applicabili
anche alle concessioni di servizi, e disposizioni del codice espressamente escluse dal campo
di applicazione.
Per effettuare la distinzione tra principi generali (applicabili alle concessioni di servizi) e
disposizioni (inapplicabili alle concessioni di servizi) non può trascurarsi di rilevare che i
principi non sono soltanto quelli che il codice definisce, soprattutto nell’art. 2, come principi
generali di una data materia, nel senso di super-principi o valori o finalità teleologiche del
sistema. I principi generali di un settore sono anche i valori e i criteri di valutazione
immanenti all'ordinamento giuridico.
Secondo il comma 3 dell'art. 30, la scelta del concessionario deve avvenire, in particolare,
nel rispetto dei principi di trasparenza, adeguata pubblicità, non discriminazione, parità di
trattamento, mutuo riconoscimento, proporzionalità, previa gara informale a cui sono invitati
almeno cinque concorrenti, se sussistono in tale numero soggetti qualificati in relazione
all'oggetto della concessione, e con predeterminazione dei criteri selettivi.
Espressione dei principi di trasparenza e di parità di trattamento dell’art. 30, co. 3, D.Lgs.
163/2006 sono, tra gli altri, l’art. 84, co. 4 e 10, D.Lgs. 163/2006. L’art. 84, co. 4, riguarda
le incompatibilità dei componenti della commissione giudicatrice, mentre il comma 10 si
occupa dei tempi di nomina della commissione.
In particolare, l’art. 84, co. 4 prevede che i commissari diversi dal Presidente non devono
aver svolto né possono svolgere alcun'altra funzione o incarico tecnico o amministrativo
relativamente al contratto del cui affidamento si tratta. Il comma 10, inoltre, aggiunge che la
nomina dei commissari e la costituzione della commissione devono avvenire dopo la
scadenza del termine fissato per la presentazione delle offerte.
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Occorre ora individuare le finalità di tali disposizioni, al fine di qualificarne la natura di
principio generale, o di stretta derivazione da tali principi, oppure di mere disposizioni
procedurali che, in quanto tali, non possono applicarsi alle procedure per le concessioni di
servizi.
La tesi preferibile è nel senso dell’applicabilità di tali regole alle concessioni di servizi,
essendo riconducibili ai principi generali del codice dei contratti pubblici e ai principi
generali del procedimento amministrativo, quali l'imparzialità e trasparenza, espressamente
contemplati anche dal comma 3 dell'art. 2 del codice dei contratti.
L'art. 30, come detto, stabilisce che alle concessioni di servizi, salvo quanto disposto dallo
stesso articolo, non si applicano le disposizioni del codice.
Tuttavia, il problema consiste nel verificare se tali regole siano in qualche modo
corrispondenti o almeno riconducibili a taluno dei principi europei o nazionali ("desumibili
dal Trattato e…relativi ai contratti pubblici") o espressione di principi generali e quindi da
ritenere applicabili e da applicare anche nella specie.
Con riguardo alla funzione e agli obiettivi di tali disposizioni, deve osservarsi che il comma
4 dell’art. 84 è destinato a prevenire il pericolo concreto di possibili effetti distorsivi
derivanti dalla partecipazione alle commissioni giudicatrici di soggetti (progettisti, dirigenti
che abbiano emanato atti del procedimento di gara e così via) che siano intervenuti a diverso
titolo nella procedura concorsuale.
Tale regola mira, cioè, a impedire la partecipazione alla Commissione di soggetti che,
nell'interesse proprio o in quello privato di alcuna delle imprese concorrenti, abbiano assunto
o possano avere assunto compiti di progettazione, di esecuzione o di direzione di lavori
oggetto della procedura di gara, e ciò a tutela del diritto delle parti del procedimento a una
decisione amministrativa adottata da un organo terzo e imparziale.
La ratio consiste nella volontà di conservare, almeno in parte, la distinzione tra i soggetti
che hanno definito i contenuti e le regole della procedura e quelli che ne fanno applicazione
nella fase di valutazione delle offerte.
L'interesse pubblico rilevante diventa, quindi, non solo quello dell’imparzialità, cui è in ogni
caso riconducibile, ma anche la volontà di assicurare che la valutazione sia il più possibile
oggettiva, e cioè non influenzata dalle scelte che l’hanno preceduta, se non per ciò che è
stato dedotto formalmente negli atti di gara.
A sua volta la regola della posteriorità della nomina della commissione rispetto alla
scadenza del termine di presentazione delle offerte risponde alla convinzione diffusa che tale
vincolo temporale sia posto a presidio della trasparenza (intesa in senso più lato rispetto al
senso della generale accessibilità alla attività amministrativa) e dell’imparzialità della
procedura, tanto che l'orientamento più rigoroso ne fa discendere, in caso di inosservanza,
l’annullabilità degli atti successivi alla nomina (Cons. Stato, V, 2738/2009).
In pratica, la posticipazione della nomina dovrebbe evitare situazioni in cui le offerte siano
influenzate dalle preferenze, anche solo presunte o supposte, dei commissari, o da loro
suggerimenti e che vi possano essere tentativi di collusione o anche solo di contatti con
imprese "amiche".
Tale regola deve essere ritenuta, dunque, anch’essa espressione di un principio generale
della materia dei contratti pubblici, inerente al corretto funzionamento delle procedure
selettive di scelta dell'affidatario.
Esaminate la ragione e la funzione di tali precetti normativi, non può non concludersi che, in
quanto tese a evitare il pericolo concreto di violazione dell’imparzialità della commissione e,
quindi, poste a tutela della correttezza del procedimento, della trasparenza e imparzialità
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dell'azione amministrativa, tali regole hanno natura imperativa e quindi inderogabile,
applicabili, perché implicitamente richiamate, anche per la disciplina delle concessioni di
servizi, sulla base di canoni di interpretazione sistematica e logica.
Il principio generale nel quale sussumere le disposizioni interessate è quindi quello della
trasparenza e imparzialità, a maggior ragione considerando che l'art. 2, comma 3, del
Codice dei contratti pubblici prevede che devono essere rispettate “anche le disposizioni sul
procedimento amministrativo di cui alla L. 241/1990”, a sua volta contenente all'art. 1 i
principi generali dell'azione amministrativa, tra i quali rientrano i criteri di economicità, di
efficacia, di imparzialità, di pubblicità e di trasparenza.
Pertanto, l'imparzialità, sicuramente principio generale, non richiamato espressamente
dall'art. 2 del codice contratti pubblici ma richiamato a mezzo del rinvio alla L.
241/1990, deve ritenersi vincolante, unitamente alla sua declinazione immediata (lo stesso
principio di imparzialità è invece compreso nei principi enunciati dall'articolo 27 del codice,
tra i principi relativi ai contratti esclusi).
L'art. 30 si inserisce quindi nell'ottica di una progressiva assimilazione delle concessioni
agli appalti, con l'obiettivo, di matrice europea, di vincolare i soggetti aggiudicatori a
rispettare anche nelle procedure di affidamento delle prime i principi dell'evidenza pubblica
comunitaria, tra i quali i canoni di trasparenza invalsi nelle seconde attraverso una procedura
tipica di gara, nella quale si impone l'esigenza che il confronto competitivo sia effettivo e
leale, pena altrimenti la vanificazione delle finalità stesse del procedimento selettivo di
stampo concorsuale.
Deve ritenersi, quindi, che le regole, quali quelle contenute nell'art. 84 sui tempi della
formazione e sulla regolare composizione di un organo amministrativo sono un predicato dei
principi di trasparenza e di imparzialità, per cui le disposizioni di cui ai commi 4 e 10 di tale
norma devono ritenersi espressione di principio generale del codice applicabile, ai sensi
dello stesso art. 30, anche alle concessioni di servizi pubblici.
Inoltre, poiché il principio generale di giustizia impone di trattare giuridicamente in modo
eguale situazioni equivalenti, sarebbe irragionevole trattare diversamente situazioni tutto
sommato sostanzialmente assimilabili e che sotto il profilo esaminato (cioè delle regole sulla
nomina della commissione) non presentano significative differenze.
Secondo i principi generali, la caducazione della nomina effettuata in violazione delle regole
di cui all'art. 84, co. 4 e 10, comporta il travolgimento, per illegittimità derivata, di tutti gli
atti successivi della procedura di gara fino all'affidamento del servizio e impone, quindi, la
rinnovazione dell'intero procedimento.
Si tratta cioè di un’ipotesi in cui il vizio dell'aggiudicazione comporta l'obbligo di rinnovare
la gara integralmente (arg. ex art. 122 c.p.a.) e non potrebbe essere altrimenti.
2. L’interesse legittimo
2.1. L’interesse al corretto svolgimento del procedimento elettorale. L’atto di indizione
delle elezioni non è un atto politico, insindacabile in sede giurisdizionale, ma un atto di alta
amministrazione, soggetto alla giurisdizione amministrativa, in quanto contempla
l’esercizio di potestà pubbliche e di poteri organizzativi mediante attività dovute e vincolate
non sussumibile nel novero dei provvedimenti adottati emanati dal governo nell’esercizio
del potere politico ai sensi dell’art. 7, co. 1, D.Lgs. 104/2010.
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L’elettore, quindi, può agire (ex art. 130 D.Lgs. 104/2010) contro qualsiasi condotta che
illegittimamente impedisca o ritardi l’avvio del procedimento elettorale, nonché nei
confronti delle illegittimità riscontrabili nello svolgimento del relativo procedimento (Cons.
Stato, V, 6002/2012), il quale, pur essendo affidato a organi politici, è caratterizzato
dall’esercizio di potestà pubbliche vincolate da precetti legislativi puntuali; ciò esclude la
configurabilità di un atto politico (art. 7, co. 1, D.Lgs. 104/2010), contraddistinto dalla
libertà nel fine.
La presenza di un vincolo giuridico comporta, infatti, l’attrazione delle determinazioni
assunte dagli organi politici nell’alveo dell’azione amministrativa. Ne consegue che,
laddove l’ambito di estensione del pur ampio potere discrezionale che connota un’azione di
governo sia circoscritto da vincoli posti da norme giuridiche che ne segnano i confini o ne
indirizzano l’esercizio, il rispetto di tali vincoli costituisce un requisito di legittimità e di
validità dell’atto, sindacabile nelle sedi appropriate.
La previsione di norme puntuali che scandiscono l’indizione del procedimento elettorale
introduce un requisito di legittimità idoneo a limitare l’esercizio del potere di indizione delle
elezioni da parte dell’organo regionale, imponendo la soggezione a controllo
giurisdizionale delle relative determinazioni e condotte amministrative.
L’elettore può far valere il proprio interesse legittimo anche attraverso un’azione
meramente dichiarativa, volta cioè a ottenere l’accertamento dell’illegittimità delle
operazioni elettorali.
L’ammissibilità della tutela dichiarativa trova conferma nell’adunanza plenaria del
Consiglio di Stato (Cons. Stato, Ad. Plen., n. 15/2011, n. 3/2011). Secondo tale
orientamento, l’assenza di una previsione legislativa espressa non impedisce l’esperibilità di
un’azione di mero accertamento qualora tale tecnica di tutela sia l’unica idonea a garantire
una protezione adeguata e immediata dell’interesse legittimo (Cons. Stato, V, 472/2012).
Nell’ambito di un quadro normativo sensibile all’esigenza di una piena protezione
dell’interesse legittimo come posizione sostanziale correlata a un bene della vita, la mancata
previsione, nel testo finale del codice del processo amministrativo (D.Lgs. 104/2010),
dell’azione generale di accertamento, non impedisce la praticabilità di una tutela che
rinviene il suo fondamento nelle norme immediatamente precettive dettate dalla
Costituzione al fine di garantire piena e completa tutela giurisdizionale agli interessi
legittimi (artt. 24, 103, 111 e 113).
A tale risultato non può opporsi il principio di tipicità delle azioni, in quanto corollario
indefettibile dell’effettività della tutela è proprio il principio della atipicità delle forme di
tutela.
In questo quadro, la mancata previsione di una norma esplicita sull’azione generale di
accertamento non è sintomatica della volontà legislativa di sancire una preclusione, ma è
spiegabile con la considerazione che le azioni tipizzate, idonee a conseguire statuizioni
dichiarative, di condanna e costitutive, consentono di norma una tutela idonea e adeguata
che non ha bisogno di pronunce meramente dichiarative in cui la funzione di accertamento
non è strumentale all’adozione di un’altra pronuncia di cognizione ma si presenta allo stato
puro. Ne deriva, di contro, che se le azioni tipizzate non soddisfano in modo efficiente il
bisogno di tutela, l’azione di accertamento atipica, ove sorretta da un interesse ad agire
concreto ed attuale ex art. 100 c.p.c., risulta praticabile in forza delle coordinate
costituzionali e comunitarie richiamate dallo stesso art. 1 del codice.
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Discorso non dissimile può essere svolto con riguardo all’azione di condanna pubblicistica
tesa a ottenere una pronuncia che, per le attività vincolate, costringa la p.a. a indire le
elezioni entro un determinato termine.
La pronuncia dell’adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 3/2011, ribadita dalla
successiva sentenza 15/11, ha definitivamente sancito la generale esperibilità dell’azione di
condanna quale strumento di tutela attivabile dal ricorrente innanzi al giudice
amministrativo al fine di ottenere il riconoscimento del bene della vita che gli compete.
Secondo le pronunce in esame, l’ammissibilità di un’azione di condanna pubblicistica (c.d.
azione di esatto adempimento) è ricavabile dall’applicazione dei principi costituzionali ed
europei in materia di pienezza ed effettività della tutela giurisdizionale nonché dall’art. 34,
co. 1, lett. c), D.Lgs. 104/2010, alla stregua del quale «l’azione di condanna al rilascio di un
provvedimento richiesto è esercitata, nei limiti di cui all’art. 31, co. 3, contestualmente
all’azione di annullamento del provvedimento di diniego o all’azione avverso il silenzio». È
stata così codificata la domanda di condanna a un facere specifico avente ad oggetto
l’emanazione del provvedimento doveroso omesso. Infatti, la disposizione, nella misura in
cui detta i limiti processuali e sostanziali dell’azione di condanna pubblicistica, presuppone
e, quindi, riconosce la sperimentabilità di siffatta tecnica di protezione dell’interesse
legittimo pretensivo anche al di fuori del caso, già codificato dall’art. 31, della maturazione
di un silenzio-rifiuto.
La portata atipica delle azioni di accertamento e di condanna fuga ogni dubbio in merito alla
relativa proponibilità anche in materia elettorale. Si deve, infatti, ritenere che l’elettore,
legittimato, ex art. 130 D.Lgs. 104/2010, a dedurre l’illegittimità degli atti del procedimento
elettorale, sia legittimato- secondo un’interpretazione costituzionalmente orientata sensibile
ai principi di pienezza, effettività e tempestività della tutela giurisdizionale - a contrastare le
condotte che illegittimamente impediscono o ritardano l’avvio del procedimento elettorale.
2.2. Immediata impugnabilità di tutti gli atti preparatori lesivi del diritto di
partecipare al procedimento elettorale. Il D.Lgs. 160/2012, recante disposizioni correttive
e integrative del codice del processo amministrativo, ha innovato in ordine agli atti
impugnabili della fase preparatoria delle elezioni.
Tra le innovazioni che riguardano il contenzioso elettorale in relazione alla fase del
procedimento elettorale preparatorio (art. 129 c.p.a.) occorre segnalare che, mentre in base al
testo previgente erano impugnabili solo le esclusioni di alcuni soggetti nominati e solo in
relazione alle elezioni amministrative, adesso sono impugnabili, in generale, tutti i
provvedimenti immediatamente lesivi del diritto del ricorrente a partecipare al
procedimento elettorale preparatorio, senza limiti espressi di legittimazione attiva e con
estensione al contenzioso elettorale per il Parlamento europeo.
La ragione di tale innovazione è correlata all’esigenza di dare piena applicazione ai principi
enunciati nella decisione sopra richiamata della Corte costituzionale 236/2010, che ha
dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 83undecies d.P.R. 570/1960 nella parte in cui
esclude la possibilità di un’autonoma impugnativa degli atti del procedimento preparatorio
alle elezioni, ancorché immediatamente lesivi, anteriormente alla proclamazione degli eletti.
Sebbene la pronuncia sia stata resa con riguardo all’impugnazione di un provvedimento di
esclusione, ha tuttavia una portata generale e va intesa nel senso che tutti gli atti lesivi che
fanno parte del procedimento elettorale preparatorio sono immediatamente
impugnabili.
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L’intento perseguito era più chiaro nel testo licenziato dalla commissione speciale del
Consiglio di Stato, dove si disponeva che sono impugnabili “i provvedimenti
immediatamente lesivi relativi al procedimento elettorale preparatorio”. Il testo definitivo,
come detto, si riferisce testualmente ai “provvedimenti immediatamente lesivi del diritto del
ricorrente a partecipare al procedimento elettorale preparatorio”. Nello schema di decreto
legislativo era, invece, chiaro che si intendesse estendere l’ambito oggettivo del contenzioso
alle ammissioni, e la legittimazione attiva a tutti i cittadini elettori.
Nel testo finale il riferimento agli atti lesivi del diritto del ricorrente a partecipare al
procedimento elettorale preparatorio è imprecisa, in quanto il termine “diritto” deve
leggersi in termini di “interesse legittimo”, come rilevato da attenta dottrina, poiché c’è il
diritto a partecipare alle elezioni (e le elezioni sono il procedimento elettorale tout court, non
quello preparatorio) e c’è l’interesse legittimo al corretto svolgimento del procedimento
elettorale preparatorio, nel corso del quale le competenti commissioni elettorali decidono
sulle ammissioni ed esclusioni di liste, contrassegni, candidati.
Al di là dei dubbi teorici che solleva il novellato art. 129 c.p.a., sul piano pratico i
provvedimenti lesivi dell’interesse a partecipare al procedimento elettorale sono:
- i provvedimenti di esclusione dei candidati dalle liste;
- i provvedimenti di ammissione di candidati e liste.
Questi ultimi, se illegittimi devono ritenersi immediatamente lesivi dell’interesse del
candidato a partecipare al procedimento elettorale in un quadro di potenziali concorrenti
definito e immune da possibili contestazioni all’esito del procedimento elettorale costituito
dalla proclamazione degli eletti.
L’attuale formulazione normativa ha voluto estendere, pertanto, l’ambito oggettivo del
contenzioso elettorale preparatorio fino a includervi le ammissioni che determinano una
potenziale perturbazione della competizione elettorale a prescindere dal risultato
conseguente alla proclamazione degli eletti.
Le ammissioni o esclusioni delle liste e dei candidati non sono quindi atti
endoprocedimentali privi di potenziale lesività immediata.
Gli atti ammissivi delle liste e dei candidati definiscono fasi autonome del procedimento, e
gli atti che chiudono una fase, se immediatamente lesivi, sono suscettibili di autonoma
impugnazione.
L'interesse del candidato è quello di partecipare a una determinata consultazione elettorale in
un definito contesto politico, ambientale e temporale: ogni forma di tutela che intervenga a
elezioni concluse è inidonea a evitare che l'esecuzione del provvedimento illegittimo abbia,
nel frattempo, prodotto un pregiudizio.
In nessun altro procedimento, come quello elettorale, gli effetti dannosi di atti preparatori
illegittimi si riverberano in modo irreversibile sulla rinnovazione di quegli stessi atti a
seguito di una pronuncia di annullamento ex post, per l’indiscutibile non omogeneità tra due
procedimenti elettorali reiterati nel tempo.
L’argomentazione è comune sia per l'ipotesi di illegittima esclusione di una lista, sia per
quella di illegittima ammissione di una lista concorrente.
Peraltro, a confermare che un pregiudizio può derivare anche dall'ammissione illegittima di
una singola candidatura o di una lista assume rilevanza la natura del sistema elettorale ormai
vigente nelle elezioni comunali, provinciali e regionali, ancorato fortemente al principio
maggioritario; sicché la partecipazione alla competizione elettorale con candidature o liste
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formate e presentate in modo del tutto irregolare ha una influenza decisiva sul risultato
elettorale, determinandolo nel suo esito finale.
Da qui la lesione immediata dell'interesse di un candidato, che è quello di partecipare a una
consultazione elettorale nella situazione politico-amministrativa esistente alla data
prefissata, secondo le regole del gioco.
Va, inoltre, rilevato che la riedizione della competizione in un momento successivo non
sarebbe satisfattiva, perché influenzata dalle modificazioni, medio tempore verificatesi, del
contesto politico-ambientale, in diretta dipendenza di quegli atti di ammissione illegittimi
che hanno condizionato il risultato elettorale.
Il diniego di una tempestiva tutela giurisdizionale fin dalla fase preparatoria estesa a tutti gli
atti (di ammissione e di esclusione) è destinato a ledere l'interesse legittimo del candidato,
anche perché la rinnovazione della consultazione elettorale potrà essere direttamente
influenzata dalla funzione pubblica medio tempore esercitata da chi ha potuto giovarsi
dell'esecuzione di un provvedimento illegittimo di ammissione alla competizione stessa.
In linea generale, per i competitori politici, ottenere la ripetizione delle elezioni in un
tempo successivo della vicenda elettorale in caso di vizi della fase preparatoria non è
satisfattivo. Ciò vale per qualsiasi vizio riguardante l'ammissione o l'esclusione di una lista,
poiché il decorrere del tempo nella materia elettorale non è certamente un fattore neutrale.
Né va sottaciuta l’esigenza di garantire il bilanciamento degli interessi dei soggetti coinvolti
nel procedimento elettorale con quelli dell’Amministrazione ed in primo luogo a quello di
evitare la rinnovazione della procedura elettorale che comporta costi a fronte di vizi che se
rilevati tempestivamente nel corso di un rito dai tempi di definizione strettissimi, quale
quello dell’art. 129 c.p.a., avviano il procedimento elettorale verso un percorso indenne da
contestazioni.
Detti argomenti consentono di risolvere la questione della facoltatività o obbligatorietà del
rito dell’art. 129 c.p.a., ovvero alla possibilità di dedurre vizi della fase preparatoria con
riguardo all’atto di proclamazione degli eletti con il rito del successivo ex art. 130 c.p.a.
Nella versione originaria del c.p.a. l’impugnazione immediata dei provvedimenti di
esclusione appariva non doverosa: l’art. 129, co. 1, versione originaria, c.p.a. usava la
locuzione “possono essere immediatamente impugnati”, e l’art. 129, co. 2, c.p.a. versione
originaria lasciava intendere che se l’interessato non si avvaleva di tale facoltà, restava la
possibilità di contestare l’esclusione dopo la proclamazione degli eletti, con l’altro rito
elettorale.
Questa conclusione è da ritenersi esclusa dall’art. 130 c.p.a., che al comma 1 recita: “contro
tutti gli atti del procedimento elettorale successivi all'emanazione dei comizi elettorali è
ammesso ricorso soltanto alla conclusione del procedimento elettorale, unitamente
all'impugnazione dell'atto di proclamazione degli eletti”. Con la norma novellata dal D.Lgs.
160/2012 il rito disciplinato dall’art. 129 ormai sembra essere, anche sotto il profilo testuale,
obbligatorio, dal momento che il comma 1 dispone che gli atti ivi menzionati “sono
impugnabili”, e l’art. 129, co. 2, come novellato, dispone che solo gli atti diversi da quelli di
cui al comma 1 sono impugnati alla conclusione del procedimento elettorale unitamente
all’atto di proclamazione degli eletti.
Il testo normativo novellato rafforza la finalità di separare nettamente gli effetti lesivi
derivanti dagli atti conclusivi della procedura di ammissione delle liste e dei candidati da
quella successiva della competizione elettorale che si conclude con la proclamazione degli
eletti e che è tenuta indenne dai vizi della fase preparatoria sia attraverso la inoppugnabilità
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Manuale di Diritto Amministrativo
Vol. 4 – Ed. 30°
degli atti che attraverso la formazione del giudicato correlato alla particolarità del rito
caratterizzato dalla accelerazione dei termini per la definizione delle controversie.
Non sono, pertanto, ammissibili, in sede di impugnazione degli atti di proclamazione degli
eletti, censure riferibili alla fase di ammissione delle liste e dei candidati i cui atti conclusivi
siano divenuti inoppugnabili.
Occorre soffermarsi, ora, sulla individuazione dei destinatari necessari della notifica del
ricorso elettorale ex art. 129 c.p.a.
Nessuna perplessità applicativa suscita l’indicazione dell’ufficio elettorale (che ha emanato
l’atto di esclusione della lista oggetto del giudizio) e della prefettura (in quanto
amministrazione preposta all’organizzazione della contesa elettorale).
Per quanto riguarda i controinteressati, la norma prevede la notificazione del ricorso nei
loro confronti alla duplice condizione che essi siano effettivamente rintracciabili e solo «ove
possibile».
La prima condizione presuppone una deroga ai principi giurisprudenziali in materia di
inconfigurabilità di controinteressati nei giudizi aventi ad oggetto atti di esclusione; si tratta
di una precisa opzione del legislatore che ha imposto l’evocazione obbligatoria anticipata
dei controinteressati nel contenzioso elettorale preparatorio.
Il carattere eventuale della notificazione, che potrebbe apparire incoerente con tale opzione,
si giustifica, invece, alla luce della possibilità pratica che la lista esclusa risulti l’unica
partecipante alla competizione (in assoluto o in relazione al momento dell’esclusione e della
successiva impugnazione).
Per quanto riguarda la concreta individuazione dei litisconsorti necessari, la sezione ritiene
che siano tali, in virtù di una presunzione ex lege, tutti i candidati delle liste fino a quel
momento ammesse che potrebbero subire un pregiudizio dalla presenza nella
competizione elettorale di una ulteriore lista.
Simmetricamente, nel contenzioso instaurato a valle della proclamazione degli eletti i
candidati della lista esclusa e i cittadini elettori (dunque anche i presentatori della lista),
secondo consolidati principi, devono notificare il ricorso ai candidati eletti delle liste
contrapposte.
Viceversa, sono prive di soggettività giuridica e dunque non sono legittimate passive della
domanda di annullamento delle operazioni elettorali, le liste in quanto tali e i loro delegati
(Cons. Stato, V, 496/2008); questo principio, affermato nel contenzioso elettorale ordinario,
va confermato anche nel contenzioso sugli atti preparatori; pertanto, mentre la
legittimazione attiva spetta ex lege esclusivamente ai candidati ricusati o ai delegati della
lista esclusa (art. 129, co. 1, c.p.a.), quella passiva compete esclusivamente ai candidati
delle altre liste ammesse.
In sintesi, nello speciale rito elettorale preparatorio disciplinato dall’art. 129 c.p.a.:
− assumono la veste di litisconsorti necessari i soli candidati delle liste eventualmente
ammesse;
− la notificazione diretta ai singoli controinteressati è rimessa alla facoltà del ricorrente;
− il ricorso può essere impersonalmente rivolto ai candidati delle eventuali liste ammesse e
può essere notificato utilmente seguendo la speciale procedura sancita dall’art. 129, co. 3,
lett. a), secondo periodo, c.p.a. senza necessità della specifica indicazione nominativa dei
candidati;
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− i candidati delle liste ammesse (essendo parti necessarie del rapporto processuale),
laddove non si siano costituiti nel giudizio di primo grado, pur essendo stati ritualmente
evocati, sono legittimati ad impugnare la sentenza sfavorevole ma non sono legittimati a
proporre opposizione di terzo non rivestendo la qualità di litisconsorti necessari
pretermessi.
In materia elettorale, e in particolare in tema di giudizio anticipato sulla esclusione delle
liste, il giudicato produce effetti erga omnes.
Questa caratteristica si spiega, storicamente, proprio in ragione del fatto che la compresenza
di interessi individuali e pubblici ha improntato il sistema legale alla previsione di una
legitimatio ad causam straordinaria, diffusa e fungibile, accordata in funzione di tutela
dell’interesse pubblico alla regolare composizione ed al retto funzionamento degli organi
collegiali degli enti territoriali, che trova la sua ragion d’essere nell’opportunità di utilizzare
l’iniziativa di qualsiasi cittadino elettore, diretta ad eliminare eventuali illegittimità in
materia di operazioni elettorali ed elettorato attivo e passivo (ineleggibilità, decadenza,
incompatibilità); logico corollario di tali premesse è che il giudicato formatosi in tali giudizi
acquista autorità ed efficacia erga omnes, non essendo compatibile con la natura popolare
dell’azione, con il suo carattere fungibile e con le sue finalità, che gli effetti della pronuncia
rimangano limitati alle sole parti del primigenio giudizio e non operino nei confronti di tutti
gli altri legittimati e dell’organo collegiale cui il giudizio stesso si riferisce (Cons. Stato, VI,
9323/2010).
Assodata l’efficacia soggettiva del giudicato in questione, si tratta ora di individuarne il
contenuto precettivo, ovvero la regula iuris capace di imporsi erga omnes; in una parola,
occorre stabilire i limiti oggettivi del giudicato in materia elettorale e, in particolare, di
quello riguardante l’annullamento di un provvedimento di esclusione di una lista dalla
competizione elettorale.
La concreta definizione del perimetro oggettivo del giudicato sconta l’applicazione di un
elastico criterio integrativo di matrice giurisprudenziale (costituente diritto vivente), secondo
cui il giudicato copre il dedotto e il deducibile nei limiti delle statuizioni indispensabili
per giungere alla decisione; il criterio va inteso nel senso che il giudicato copre l’azione
concretamente esercitata sul fondamento dei fatti costitutivi allegati e di tutti quei fatti che,
sia perché semplici o secondari e sia perché convergenti nel costituire un unico diritto o nel
produrre il medesimo effetto giuridico, devono intendersi implicitamente inclusi nella
medesima causa petendi (Cass. 15093/2009).
Sotto il profilo oggettivo, pertanto, la vis espansiva del giudicato sulle procedure elettorali
preparatorie trova un limite nella corretta applicazione del principio del «dedotto e
deducibile»: il giudicato di rigetto (anche per insopprimibili esigenze di tutela della
stabilità della compagine politica dell’ente) impedisce alla lista esclusa (ai suoi candidati,
delegati e a qualsiasi altro attore popolare) di proporre un nuovo ricorso successivamente
alla proclamazione degli eletti, mentre il giudicato di accoglimento del ricorso non
impedisce, successivamente alla proclamazione degli eletti, l’impugnativa dell’ammissione
per vizi diversi.
Il principio è stato analogamente declinato nel contenzioso sui diritti di elettorato (passivo),
dove si è affermato che un giudicato negativo formatosi in relazione a uno specifico motivo
di incompatibilità dell’eletto, rispetto alla carica, non impedisce altri possibili giudizi nei
quali venga dedotto un (diverso) motivo di ineleggibilità (Cons. Stato, V, 1058/2012).
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Dispensa giurisprudenziale
La tutela dell’interesse legittimo di fronte al Tribunale superiore delle acque
pubbliche
Cass. S.U. 19-4-2013, n. 9534
“Secondo la più recente giurisprudenza di queste sezioni unite (n. 9149 del 17 aprile 2009;
n. 23070 del 27 ottobre 2006) «sono devoluti alla giurisdizione in unico grado del Tribunale
superiore delle acque pubbliche, ai sensi dell’art. 143, 1° comma, lett. a), r.d. 11
dicembre 1933 n. 1775, i ricorsi avverso provvedimenti amministrativi che, sebbene non
costituiscano esercizio di un potere propriamente attinente alla materia delle acque
pubbliche, pure riguardino l’utilizzazione del demanio idrico, incidendo in maniera diretta e
immediata sul regime delle acque».
La giurisdizione in unico grado del Tribunale superiore delle acque pubbliche,
pertanto, oltre a riguardare i ricorsi avverso i provvedimenti amministrativi di delimitazione
degli ambiti territoriali ottimali, dai quali discendono provvedimenti di organizzazione e
conduzione del sistema idrico integrato, e le cause in materia di revoca dell’adesione a un
consorzio e di annullamento della sua convenzione istitutiva, deve ritenersi estesa ai
provvedimenti «destinati a influire sull’organizzazione e lo svolgimento del servizio idrico
integrato da parte del relativo gestore» (Cass. 4461/11).
Va, anzitutto, osservato che l’art. 143 t.u. sulle acque non ha inteso limitare la giurisdizione
di legittimità del Tribunale superiore delle acque pubbliche ai soli giudizi impugnatori
(«ricorsi contro i provvedimenti definitivi») escludendo le azioni di accertamento e quelle di
condanna al risarcimento del danno. La norma ha, invece, inteso definire l’ambito di detta
giurisdizione
del
giudice
specializzato
circoscrivendola
ai
provvedimenti
dell’amministrazione caratterizzati da incidenza diretta sulla materia delle acque pubbliche,
nel senso che concorrano in concreto a disciplinare la gestione, l’esercizio delle opere
idrauliche, i rapporti con i concessionari, oppure a determinare i modi di acquisto dei beni
necessari all’esercizio e alla realizzazione delle opere stesse; o a stabilire o modificare la
localizzazione di esse, o ad influire nella loro realizzazione mediante sospensione o revoca
dei relativi provvedimenti (Cass., sez. un., 337/03; 493/00).
La giurisdizione del Tribunale superiore delle acque pubbliche è contrapposta, per un
verso, a quella del tribunale regionale delle acque, che è un organo (in primo grado) della
giurisdizione ordinaria, cui il precedente art. 140, lett. c), attribuisce le controversie in cui si
discuta in via diretta di diritti correlati alle derivazioni e utilizzazioni di acque pubbliche (a
cominciare da quelli di utilizzazione di acque pubbliche, collegati alla gestione di opere
idrauliche, nonché i criteri di ripartizione degli oneri economici) e, per altro verso, alla
giurisdizione del complesso Tar-Consiglio di Stato, ricorrente per tutte le controversie che
abbiano ad oggetto atti soltanto strumentalmente inseriti in procedimenti finalizzati ad
incidere sul regime delle acque pubbliche, quali esemplificativamente quelli compresi nei
procedimenti ad evidenza pubblica volti alla concessione in appalto di opere relative alle
acque pubbliche (Cass., sez. un., 14195/05), alle relative aggiudicazioni (Cass. 10826/93)
e, in genere, concernenti la selezione degli aspiranti all’aggiudicazione dell’appalto o
all’affidamento della concessione (sent. 10934/97).
È assolutamente estranea a ciascuna di queste controversie l’esigenza di tutela del regime
delle acque pubbliche, e in esse viene in rilievo esclusivamente l’interesse legittimo al
rispetto delle norme di legge nelle procedure amministrative volte all’affidamento
della concessione o dell’appalto.
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Manuale di Diritto Amministrativo
Vol. 4 – Ed. 30°
Nessuna delle disposizioni dell’art. 143 t.u. sulle acque si riferisce, invece, ai limiti interni
della giurisdizione del Tribunale superiore delle acque pubbliche o ne limita i poteri alle
azioni di impugnazione [....]
Pertanto, allorché ricorra taluna delle ipotesi previste dall’art. 143 t.u. in tema di tutela
giurisdizionale intesa a far valere la responsabilità della pubblica amministrazione da attività
provvedimentale illegittima, la giurisdizione sulla tutela dell’interesse legittimo spetta al
Tribunale superiore delle acque pubbliche, sia quando il privato invochi la tutela di
annullamento, sia quando agisca per la tutela risarcitoria, in forma specifica o per
equivalente, non potendo tali tecniche essere oggetto di separata e distinta considerazione
ai fini della giurisdizione. E siccome deve escludersi la necessaria dipendenza del
risarcimento dal previo annullamento dell’atto illegittimo e dannoso, al giudice suddetto può
essere chiesta la tutela demolitoria e, insieme o successivamente, la tutela risarcitoria, ma
anche la sola tutela risarcitoria, senza che la parte debba in tal caso osservare il termine di
decadenza pertinente all’azione di annullamento (Cass., sez. un., 13659/06) [....].
Anche a seguito dell’entrata in vigore del d.lgs. 104/10 il Tribunale superiore delle acque
pubbliche ha conservato la sua giurisdizione esclusiva, quale giudice unico amministrativo,
nelle materie individuate a norma dell’art. 133, 1° comma, lett. b) ed f), cod. proc. amm. Ciò
comporta che l’esclusione di tali controversie dalla giurisdizione dei Tar - Consiglio di
Stato impedisce che davanti a tali giudici amministrativi possa poi proporsi la
domanda risarcitoria da lesione degli stessi interessi legittimi, rientranti, invece, nella
giurisdizione di legittimità del Tribunale superiore delle acque pubbliche.
Un’interpretazione costituzionalmente orientata e rispettosa dei principi di pienezza ed
effettività della tutela giurisdizionale di cui all’art. 24 Cost. e anche del principio di
eguaglianza di cui all’art. 3 Cost. non può portare a ritenere che le domande da
risarcimento del danno da lesioni di interessi legittimi debbano essere conosciute dal
giudice amministrativo sempre, allorché si tratti del complesso Tar - Consiglio di Stato, e
mai, allorché si tratti di materia riservata alla giurisdizione del Tribunale superiore delle
acque pubbliche, quale giudice amministrativo speciale in unico grado, nel qual caso
rimarrebbe la doppia tutela per cui quella risarcitoria sarebbe esercitata dal giudice
ordinario corrispondente e cioè il tribunale regionale delle acque pubbliche.
Va, anzitutto, ricordato che la Corte costituzionale ha ritenuto che il Tribunale superiore
delle acque pubbliche nella cognizione diretta per l’impugnazione di provvedimenti, in
materia di acque pubbliche, ha natura di giudice amministrativo speciale (Corte cost. 26
marzo 1993, n. 118).
La stessa corte ha altresì rilevato che «la specialità della materia, se può giustificare
l’attribuzione ad un giudice specializzato, quale è il Tribunale superiore delle acque
pubbliche, del sindacato giurisdizionale sugli atti amministrativi concernenti la materia
stessa, non giustifica invece una tutela giurisdizionale differenziata quanto alle modalità ed
ai contenuti, in presenza di situazioni soggettive di identica natura» (Corte cost. 31 gennaio
1991, n. 42).
Ne consegue che il solo fatto che l’art. 4 cod. proc. amm. individui i giudici amministrativi
nei Tar e nel Consiglio di Stato non esclude che anche il Tribunale superiore delle acque
pubbliche, nell’ambito della giurisdizione esclusiva di legittimità attribuitagli, sia un giudice
amministrativo, per quanto speciale, come emerge dallo stesso codice che, appunto all’art.
133, 1° comma, lett. b) ed f), fa salva la giurisdizione esclusiva del Tribunale superiore delle
acque pubbliche secondo le leggi vigenti.
Ciò comporta che l’unicità e l’unitarietà della tutela degli interessi legittimi, ed in materia di
giurisdizione esclusiva anche dei diritti soggettivi, tutela ribadita dall’art. 7, 5° e 7° comma,
d.leg. n. 104 del 2010, costituisce un principio generale della giurisdizione di ogni giudice
amministrativo (speciale e non) e quindi anche del Tribunale superiore delle acque
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pubbliche, il quale — in mancanza di una diversa disposizione espressa di legge —
conosce pure delle domande di risarcimento del danno.
Pertanto, la giurisdizione di legittimità del Tribunale superiore delle acque pubbliche, ai
sensi dell’art. 143 r.d. n. 1775 del 1933, non è limitata ai soli giudizi impugnatori, ma si
estende a quelli di accertamento e risarcitori, rientrando nella tutela giurisdizionale intesa
a far valere la responsabilità della pubblica amministrazione per attività provvedimentale
illegittima, sia l’azione con cui il privato chieda l’annullamento del provvedimento illegittimo,
sia l’azione con cui invochi il risarcimento del danno, in forma specifica e per equivalente,
con la conseguenza che al suddetto giudice può essere chiesta la tutela demolitoria e,
insieme o successivamente, la tutela risarcitoria, ma anche la sola tutela risarcitoria, senza
che la parte debba in tal caso osservare il termine di decadenza pertinente all’azione di
annullamento.
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