17-02-2014 Assetto Economico e Finanziario Europeo prof. Prota 11

Percorso regionale di formazione
Rete Licei Scienze Umane “opzione Economico- Sociale”
Assetto economico e finanziario europeo
Francesco Prota
Dipartimento di Scienze Economiche e Metodi Matematici
Università di Bari “Aldo Moro”
Bari, 11 febbraio 2014
L’Unione Europea
 UNIONE DOGANALE (dal 1957): area di libero
scambio di beni e servizi e adozione di una
tariffa commerciale comune verso i paesi
terzi
 UNIONE ECONOMICA (dal 1993): libertà di
circolazione dei fattori produttivi (capitale e
lavoro)
 UNIONE MONETARIA (dal 1999): abbandono
delle monete (e politiche monetarie)
nazionali, e adozione dell’euro, sotto la
politica monetaria comune della BCE
I Tre Elementi Fondamentali
dell’UEM
A. La stabilità dei prezzi è l’obiettivo principale
della politica monetaria
B.La Banca centrale europea è pienamente
indipendente
C.Il carattere costituzionale dello statuto della
Banca centrale e della moneta
Perché una moneta unica?
Unione Europea inizio anni ’90:
 Le fluttuazioni del tasso di cambio hanno una serie
di conseguenze macroeconomiche: sia le
esportazioni che le importazioni sono influenzate
dal tasso di cambio nominale.
 Instabilità del cambio può provocare:
- ampie fluttuazioni della domanda aggregata e
quindi della produzione/reddito
- effetti sull’inflazione importata (se la domanda di
importazioni è rigida: vedi petrolio)
- effetti sull’occupazione (per settori export-oriented;
vedi apprezzamento dell’euro)
- incertezza per investimenti
Questi effetti erano amplificati all’interno
dell’UE all’inizio degli anni 90, a causa della:
- forte integrazione commerciale (caratteristica
dell’Unione
Doganale)
- libertà di movimento di capitale (caratteristica
dell’Unione Economica)
L’INSTABILITA’ STRUTTURALE DEI TASSI DI
CAMBIO FINIVA PER METTERE IN DUBBIO I
BENEFICI DEL MERCATO UNICO, LA CUI
COSTRUZIONE AVEVA RICHIESTO DECENNI DI
INTEGRAZIONE EUROPEA.
 MA DI COSA C’E’ BISOGNO PER POTER USARE TUTTI
LA STESSA MONETA?
 OCCORRE LA CONVERGENZA DI ALCUNE VARIABILI
MACROECONOMICHE.
 NASCONO I PARAMETRI DI MAASTRICHT.
Gli Indicatori di Convergenza
di Maastricht (1)
Gli Stati membri debbano rispettare i
seguenti parametri per partecipare all’UEM

Tasso di inflazione non superiore dell’1,5%
(che corrisponde alla media dei tre paesi
meno inflazionistici)

Disavanzo pubblico non superiore al 3% del
PIL
Gli Indicatori di Convergenza
di Maastricht (2)

Debito pubblico non superiore al 60% del PIL

Tassi di interesse nominali a lungo termine
non superiori al 2% (che corrisponde alla
media dei tre paesi coni tassi più bassi)

Rispetto per almeno due anni della banda
stretta di fluttuazione per il tasso di cambio
delle monete
Regole fiscali per costruire l’euro:
i parametri di Maastricht

Per poter essere ammesso nell’euro, un paese
doveva (e deve) rispettare i seguenti criteri di
convergenza:
1)
Tasso di cambio stabile negli ultimi due anni
Tasso di inflazione simile a quello dei paesi
membri
Tasso di interesse simile a quello dei paesi
membri
2)
3)
Perché questi tre criteri?
Perché sono i tre “prezzi” della
moneta: a cosa rinuncio per averla in
tasca?
Al rendimento che otterrei investendola nei
mercati finanziari. Tasso di interesse: prezzo
della moneta nei confronti di se stessa
2) A poter comprarci qualcosa di reale. Tasso di
inflazione: prezzo della moneta nei confronti dei
beni e servizi
3) Ad avere un’altra valuta in tasca. Tasso di
cambio: prezzo della moneta nei confronti di
quelle estere
1)
sono tutte facce di una stessa medaglia: regolarne
una implica la regolazione delle altre due.
Il quarto parametro di Maastricht:
convergenza di deficit e debito
Rapporto deficit/Pil = 3%
Rapporto debito/Pil = 60%
Ora ci chiediamo:
1) Che c’entrano le regole fiscali per poter
costruire la moneta unica?
2) Perché sono stati scelti quei particolari
numeri e non altri?
Perché servono?
Sul debito:
 Eccessivo debito pubblico provoca pressioni al rialzo su:
a) Tasso di interesse: il governo deve prendere a prestito per
finanziare il suo debito e spinge verso l’alto i tassi di
interesse.
b) Tasso di inflazione: un governo molto indebitato ha
incentivo a NON combattere l’inflazione, perché essa
diminuisce il valore reale dei debiti, favorendo chi è
indebitato.
Perché servono?
Sul deficit:
a) Perché, l’unico modo concreto per controllare il
debito è mettere un freno al deficit
b) Di per sé, un aumento del deficit crea pressioni al
rialzo su tasso di interesse e tasso di inflazione.
Benefici dell'adesione (il
“dividendo di Maastricht”)
 L'adozione
della moneta unica annulla il
rischio di cambio. Il differenziale fra i tassi di
interesse italiani e quelli tedeschi si riduce
(non
ha
più
motivo
di
esistere,
apparentemente … vedi Grecia 2010…).
 I tassi si riducono molto in Italia: questo aiuta
moltissimo finanza pubblica e riduce debito.
Con l’euro l’Italia
scambia:
autonomia (perde la politica monetaria, deve
rigidamente controllare l'inflazione, ha
vincoli per la politica fiscale) . . .
con stabilità (ha cambio fisso con partner
europei, assenza di rischi di cambio, tassi di
interesse molto bassi).
È cambiamento epocale.
- si rinuncia a svalutazioni competitive verso i partner euro; - si ha cambio molto più forte (rispetto alla lira) verso i partner non-euro (dollaro in primis); - si deve rigidamente controllare l'inflazione.
Il Sistema delle Banche
Centrali
 Una moneta, un cambio, un tasso di interesse, =>
una sola Banca Centrale.
 Le Banche degli Stati Membri non vengono fuse, ma
federate come negli Stati Uniti in un Sistema di
Banche Centrali
Che significa “stabilità dei
prezzi”?
 Per BCE è un aumento annuale del 2%, nel medio
periodo. Indicazione imprecisa ma chiara.
 Gli strumenti sono quelli delle Banche Centrali: BCE
governa tassi di interesse a breve e quindi offerta
di moneta.
 BCE è rigorosamente indipendente (art. 107) dal
potere politico; fa una relazione al Parlamento
Europeo.
L’adesione all’unione monetaria comporta sempre dei benefici sotto il profilo dell’efficienza, ma può comportare anche dei costi, che derivano dal fatto che il paese rinuncia ad uno strumento di politica economica: il tasso di cambio I Benefici dell’Integrazione
Monetaria
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Guadagni che derivano dall’eliminazione di costi di
transazione:
 eliminazione delle spese di cambio delle
valute: stimato essere pari negli anni
novanta a circa lo 0,5% del Pil
 minori opportunità per le imprese di
segmentazione
dei
mercati
e
di
discriminazione dei prezzi: il cambio,
insieme ad altre barriere, aiuta le imprese
a stabilire prezzi diversi sui vari mercati
dell’UE
I guadagni che derivano
dall’eliminazione dell’incertezza del
cambio:
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
gli individui preferiscono operare in un clima
di certezza sui prezzi dei beni stranieri;
maggiore certezza comporta maggior
benessere degli individui
 gli imprenditori in condizioni di incertezza
produrranno di meno, con una perdita di
benessere per la società
 in un ambiente incerto gli operatori possono
formarsi aspettative sbagliate sul livello dei
cambi → maggiori rischi associati ai profitti
attesi
→
aumenta
il
rischio
degli
investimenti → maggiori tassi di interesse e
minore crescita economica
I guadagni che derivano dalla stabilità
e dal contenimento della crescita dei
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prezzi:
 aderire ad un’area monetaria in cui ci sono
prezzi stabili (e c’e’ un’autorità monetaria
determinata
a combattere l’inflazione)
aiuta il paese aderente a contenere
l’inflazione
 tanto minore è l’inflazione, tanto minori
sono le perdite di efficienza nell’economia:
in presenza di elevata inflazione il sistema
dei prezzi diventa meno affidabile nel dare
i giusti segnali agli operatori, che possono
più facilmente compiere scelte non ottimali
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Infine, una valuta
comune consente un
aumento del potere di mercato della valuta
comune nei mercati finanziari internazionali
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I benefici dell’integrazione monetaria sono
tanto maggiori quanto maggiore è il grado di
apertura commerciale dei paesi che formano
l’unione monetaria
I costi di adesione ad un’unione
monetaria
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 i costi derivano dal fatto che aderendo
all’unione monetaria un paese perde la
possibilità
di
usare
un
importante
strumento di politica economica: il tasso di
cambio
 ciò comporta la rinuncia ad usare uno
strumento di politica economica utile per
stabilizzare l’occupazione e la produzione
a seguito di shock esterni
Perché un tasso di cambio flessibile
consente di stabilizzare l’economia quando
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ci sono degli shock esterni?
Un esempio
Due paesi, Francia e Germania:

nella situazione di partenza, piena occupazione delle
risorse in entrambi i paesi;

uno shock esterno (ad esempio: una modifica delle
preferenze dei consumatori) fa ridurre la domanda
aggregata di beni francesi ed aumentare la domanda
aggregata di beni tedeschi.
È uno shock asimmetrico, che cioè colpisce un
paese e non l’altro
Due possibili meccanismi di
aggiustamento automatico delle
economie: Facoltà di Scienze Politiche - Università di Bari
 flessibilità
del salario: se in Francia il
salario è flessibile, esso scenderà (eccesso
di offerta di lavoro) e in Germania
aumenterà (eccesso di domanda di lavoro);
i costi di produzione si riducono in Francia
e aumentano in Germania, e ciò comporta
un aumento della competitività dei prodotti
francesi rispetto a quelli tedeschi
 se i lavoratori sono liberi di spostarsi da un
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paese all’altro,
allora la disoccupazione in
Francia spinge i lavoratori francesi ad emigrare
in Germania  i salari si riequilibrano e, di
conseguenza, anche i prezzi
se i salari sono flessibili, o il lavoro è mobile, allora gli
effetti di uno shock asimmetrico saranno assorbiti
attraverso un aggiustamento automatico delle due
economie
Ma se il salari sono
rigidi e il lavoro non è mobile tra
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i paesi, non si hanno aggiustamenti automatici e, in
assenza di interventi di politica economica, i paesi
sono condannati a rimanere in una situazione di
instabilità: la Francia con disoccupazione e la
Germania con inflazione.
Le politiche Facoltà di Scienze Politiche - Università di Bari
del tasso di cambio servono a
ripristinare l’equilibrio in questi casi.
La Francia svaluta la sua moneta rispetto a
quella
della
Germania
e
recupera
competitività all’export
Facoltà di Scienze Politiche - Università di Bari
Se i salari sono rigidi e il lavoro non è mobile, i
paesi che entrano in una unione monetaria
sostengono dei costi molto elevati realizzando
un’unione monetaria, perché rinunciare a
politiche del tasso di cambio significa rischiare
di perdere la stabilità economica.
Il Bilancio Comunitario
 La dimensione del Bilancio Comunitario è molto
contenuta; infinitamente più piccola del bilancio
federale americano o del bilancio pubblico degli
Stati Uniti.
 Il
bilancio dell’Unione Europea ammonta
complessivamente, nel 2008, a 129,1 miliardi di
euro di “stanziamenti d’impegno”, ossia l’1,03 %
dell’PIL dell’UE.
 Esiste un massimale di spesa. Il «massimale
delle risorse proprie» è fissato attualmente
all’1,24 % del reddito nazionale lordo (RNL)
dell’Unione per i pagamenti effettuati a partire
dal bilancio UE.
Evoluzione del Bilancio UE (in % del RNL)
Agriculture
Structural Funds
Internal Policies
External Actions
Pre-accession aid
Administration
1,4%
1,2%
1,0%
0,8%
0,6%
0,4%
0,2%
0,0%
1962
1967
1972
1977
1982
1987
1992
1997
2002
2006
 L’Unione europea dispone di «risorse
proprie» per finanziare la sua spesa.

Giuridicamente
appartengono
queste
all’Unione
e
risorse
gli
Stati
membri le riscuotono a suo nome e le
trasferiscono al bilancio comunitario.
Le risorse proprie sono di tre tipi:
1.Risorse proprie tradizionali (RPT),
consistenti principalmente in dazi doganali
percepiti sulle importazioni di prodotti
provenienti dai paesi terzi.
2.La risorsa basata sull’imposta sul valore
aggiunto (IVA), che è un tasso percentuale
uniforme applicato alla base imponibile IVA
armonizzata in ciascuno Stato membro.
3.La risorsa basata sul reddito nazionale
lordo (RNL), che è un tasso percentuale
uniforme (0,73%) applicato al RNL di
 La risorsa basata sul RNL è ormai
largamente prevalente.
Questo fa sì che i principali contribuenti
del bilancio comunitario siano i paesi più
grandi e ricchi dell’Unione.
Nel 2007 la Germania ha versato circa 22
miliardi; la Francia 17; l’Italia 14 (terzo
contribuente); il Regno Unito 13,4.
Le spese dell’Unione, organizzate per
politiche, ricadono all’interno del territorio dei
diversi Stati membri, che così sono “beneficiari”
delle politiche comunitarie.
Mentre, in base alle regole viste prima, le
risorse dell’Unione provengono dagli Stati membri
secondo regole fissate “ex-ante”, le spese non
sono allocate geograficamente.
Ma, sulla base delle spese effettivamente
realizzate, è possibile verificare chi sono i
I principale beneficiari, in valore assoluto, nel
2008 sono stati Francia, Spagna, Germania e Italia;
cioè i paesi più grandi.
Sono importanti beneficiari, però, anche paesi
come Grecia e Polonia, relativamente grandi e meno
avanzati.
In termini relativi (rispetto al PIL di ciascun
paese) i principali beneficiari sono i paesi meno
avanzati e relativamente piccoli.
Per la Grecia le spese dell’UE valgono circa il
3,5% del PIL; per la Bulgaria il 3% circa; per il
Contributi e spese sono del tutto
indipendenti.
Ma viene calcolato informalmente un
“saldo netto” per ciascun paese. Vi sono così
“contribuenti netti” e “beneficiari netti”.
I primi sono i paesi più ricchi dell’Unione, i
secondi i più poveri, ma il rapporto fra reddito
pro-capite e contributo/beneficio non è
lineare.
Per capita relative real balances vs. relative real income per capita in 2006
Negli anni ‘80 il Regno Unito è riuscito ad
ottenere uno “sconto” particolare (UK rebate) ai
propri contributi all’Unione proprio perché beneficia
poco delle politiche.
Tale valore è divenuto materia di trattativa nel
corso dei negoziati successivi; purtroppo non solo non
si è riusciti ad eliminarlo, ma nel 2007-13 sono stati
contabilizzati anche altri “sconti” per altri paesi
contribuenti netti.
Il “saldo netto” è un assurdo economico, dato che
il beneficio che ciascun paese riceve dall’UE non è
Il processo di definizione del bilancio
dell’Unione (Prospettive Finanziarie Settennali) è
lungo e complesso.
Inizia diversi anni prima del periodo cui si
riferisce.
E’ una complessa trattativa fra gli Stati membri
ma, con i nuovi trattati, anche il Parlamento
Europeo ha un importante potere di co-decisione.
 La Commissione, il Parlamento e il Consiglio dei
ministri concludono un accordo vincolante per
assicurare
la
programmazione
disciplina
a
di
lungo
bilancio
termine
e
e
la
per
rafforzare la cooperazione nell’ambito dei bilanci
annuali.
 Questo «accordo interistituzionale» comprende
un «quadro finanziario pluriennale» che fissa i
limiti superiori annui (noti come «massimali»)
 La responsabilità ultima dell’esecuzione del
bilancio è della Commissione europea.
 In pratica però la parte prevalente del bilancio
UE (76 % circa) è eseguita nell’ambito della
cosiddetta «gestione condivisa».
 In base a tale modalità, le spese sono gestite
dalle autorità degli Stati membri piuttosto che
dai servizi della Commissione.
Soggetti responsabili della gestione del bilancio UE
La Convergenza Economica (1)
Uno dei temi più rilevanti nell’ambito della letteratura sulla crescita economica è quello dell’analisi dei processi di
convergenza/divergenza fra unità geografiche differenti.
Il concetto di convergenza si riferisce ad un processo nel quale le economie meno avanzate mostrano tassi di crescita economica (riferiti, generalmente, a variabili quali il PIL pro capite o la produttività) più elevati rispetto a quelli delle economie più avanzate. La Convergenza Economica
(2)
Al contrario, il concetto di divergenza indica l’esistenza di forze che contribuiscono ad aumentare, nel corso del tempo, le disparità fra le diverse regioni (nazioni).
La Convergenza nella Teoria
Economica (1)
Sui processi di convergenza la teoria economica fornisce spiegazioni diverse. Per semplicità possiamo distinguere due scuole di pensiero. La prima è rappresentata dalle teorie neoclassiche (Solow 1956 e sue estensioni successive) che ipotizzano meccanismi di crescita automatici che portano alla convergenza del reddito pro capite nel lungo periodo, cioè tassi di crescita più alti per le economie più povere.
La Convergenza nella Teoria
Economica (2)
Le ipotesi chiave alla base dei modelli neoclassici sono: economie di scala costanti; produttività marginale del capitale decrescente; progresso tecnico determinato esogenamente; sostituibilità fra capitale e lavoro. La Convergenza nella Teoria
Economica (3)
La seconda è rappresentata dalle teorie che ipotizzano l’esistenza di forze economiche che possono produrre, attraverso un imperfetto funzionamento dei mercati e l’azione di economie di scala di diversa natura, divergenza: modelli di crescita
endogena (Romer 1986; 1990; Grossman e Helpman 1991; 1994) e new economic geography (Krugman 1991; Krugman e Venables 1995; Fujita, Krugman e Venables 1999). La Convergenza nella Teoria
Economica (4)
Tali modelli superano le ipotesi neoclassiche dei rendimenti decrescenti e del progresso tecnologico esogeno; centrale è, invece, l’esistenza di esternalità positive che generano rendimenti crescenti ed economie di agglomerazione. La Convergenza nella Teoria
Economica (5)
 Teorie neoclassiche della crescita (Solow 1956 e sue estensioni)
Convergenza
La Convergenza nella Teoria
Economica (6)
 Teorie della crescita endogenza (Romer 1986, 1990; Grossman e Helpman 1991, 1994)
Divergenza
 New economic geography (Krugman 1991; Krugman e Helpman 1991, 1994)
DIVERGENZA E POI CONVERGENZA
Le due ipotesi possono essere sequenziali nel tempo. Con lo sviluppo economico di lungo periodo si può avere prima una fase di divergenza, collegata al take-off dei paesi, e poi una fase di convergenza (Williamson 1965).
La Convergenza nella Teoria
Economica (7)
Le differenze nei paradigmi teorici appena richiamati sono rilevanti anche alla luce delle diverse implicazioni in termini di politica economica che da queste scaturiscono.
Nei modelli neoclassici la politica regionale appare poco utile, giacché non può influire sul tasso di crescita di lungo periodo. Sono le forze di mercato a garantire il pieno utilizzo delle risorse all’interno di ciascuna regione e di conseguenza la crescita. La Convergenza nella Teoria
Economica (8)
Quello che occorre è, quindi, semplicemente garantire il perfetto funzionamento dei mercati; la politica regionale può risultare perfino dannosa se rappresenta una distorsione nel loro funzionamento. La Convergenza nella Teoria
Economica (9)
Al contrario, negli altri modelli, un’attiva politica regionale può giocare un ruolo significativo: incentivando l’accumulazione di capitale sia fisico che umano e promuovendo l’innovazione e la diffusione tecnologica può influire positivamente sul tasso di crescita di lungo periodo. Che cosa è successo in Europa
nella seconda metà del XX
secolo?
a) persistenza nel lungo periodo delle distanze di sviluppo fra le regioni all’interno dei paesi (ma non fra paesi): distanze fra regioni più tenaci di distanze fra nazioni; b) rigidità nelle graduatorie regionali: pochi casi, in positivo e in negativo, di regioni che mutano la propria posizione relativa rispetto alle altre; nessuna regione “relativamente debole” negli anni ‘50 supera a distanza di mezzo secolo regioni “relativamente forti”. Unica eccezione: Belgio (Vallonia, Fiandre);
c) si alternano periodi di convergenza/stazionarietà/divergenza senza un chiaro pattern temporale (fenomeno definibile “effetto
fisarmonica”); d) il primo trentennio (fino agli shocks petroliferi) mostra maggiore convergenza; il trentennio successivo lieve divergenza o stazionarietà; e) nel periodo più recente (1995-2010) stazionarietà o aumento delle disparità. Non pare esservi una sola causa dei fenomeni di convergenza/ divergenza; ma nel tempo e nello spazio essi sembrano determinati da cause diverse e di diversa intensità:
 fenomeni di industrializzazione localizzata;
 integrazione internazionale;
 movimenti della popolazione;
 estensione dello stato sociale;
 shock di natura settoriale.
Alcune hanno effetti univoci; altre, ambigui. Una storia stilizzata: Periodo
1
Limitate disparità prima dell’industrializzazione (Regno Unito inizio XIX secolo; Italia e Spagna fine XIX secolo). C’era una volta una nazione agricola e artigiana; la localizzazione delle produzioni (e quindi il reddito delle regioni) era influenzata dalle diverse dotazioni regionali di fattori produttivi (suolo, acqua, clima, lavoro) e dalle limitate possibilità di commercio (porti, prime ferrovie) prevalentemente nazionale o trans-frontaliero, in un periodo di elevati costi di trasporto (mercati regionali relativamente autonomi). I limitati divari nell’Italia e nella Spagna pre-moderne
Spagna 1860
Graduatoria
Indice di
regionale del specializzazione
Pil pc
di Krugman
Italia 1891
Graduatoria
regionale del
Pil pc
Madrid
Andalucia
Catalonia
Valencia
Navarra
Baleari
Murcia
Aragona
Castilla L.M.
Paesi Baschi
Rioja
Castilla Leon
Cantabria
Canarie
Estremadura
Asturia
Galizia
Liguria
Umbria
Campania
Lombardia
Emilia-Romagna
Lazio
Piemonte
Toscana
Sicilia
Sardegna
Puglia
Marche
Veneto
Basilicata
Abruzzo
Calabria
0,692
0,162
0,270
0,183
0,197
0,164
0,161
0,167
0,165
0,170
0,156
0,147
0,152
0,177
0,164
0,321
0,307
Indice
Italia=100
119,6
116
110
108,0
104,9
104,6
101,4
100,5
98,2
97,3
94,8
91,1
84,6
80,7
74
71,5
Fonte: Martinez-Gallarraga et al (2009) per la Spagna, Daniele e Malanima (2007) per l’Italia
Una storia stilizzata: Periodo
2
Aumentano fortemente le disparità fra regioni (Regno Unito nel XIX e inizio XX secolo; Italia 1870-1950; Spagna 1920-60). Arriva l’industrializzazione. Le imprese nascono/si localizzano dove c’è convenienza: esistenza di risorse energetiche (acqua/carbone), potenziale geografico di mercato di consumo sufficientemente ampio. Interventi diretti dei governi accompagnano questo processo. In un modello in cui geografia e dotazioni fattoriali sono omogenee (Losch, Christaller), sviluppo dell’industria è “ordinato”. Ma nel mondo reale non è così. Alcune regioni si industrializzano, altre no. Alcune diventano “centri”, altre “periferie”. La progressiva riduzione dei costi di trasporto favorisce commercio interregionale. Il commercio interregionale di beni industriali favorisce lo sviluppo dei centri e le periferie diventano mercati di consumo. Diversa geografia di risorse naturali, reti di trasporto e mercati di consumo provocano diverse intensità nelle disparità (fine XIX secolo-metà XX secolo, a seconda dei paesi):
- maggiori: Italia, Spagna, Finlandia, Grecia, Yugoslavia;
- minori: Francia, Regno Unito, Svezia, Germania.
Livelli di industrializzazione, circa 1950
(attivi nell'industria in % della popolazione 15-64)
Italia meridionale
Italia settentrionale
Galizia (E)
Catalogna (E)
Sud-Ovest (F)
Nord-Est (F)
Schleswig-Holstein (D)
Baden-Wuttemberg (D)
Scozia (UK)
Midland (UK)
Fonte: Fonte: UN-ECE 1954, tab. 73
130
248
73
305
139
268
212
337
317
442
Una storia stilizzata: Periodo
3
Significativa riduzione delle disparità (Regno Unito fino a anni ’70; Italia 1955-75; Spagna 1960-80).
“L’età dell’oro”. Lo sviluppo economico si diffonde nello spazio a partire dai centri lungo direttrici di contiguità geografica (in Germania Ovest dal Nordovest al Sudest; in Spagna dal Nordest verso Ovest e Sud; in Italia dal Nordovest verso Est e Sudest).
Crescita del reddito, sviluppo del settore pubblico, aumento delle migrazioni (interne e internazionali) e politiche regionali influenzano le disparità. Gli anni della convergenza
(coefficiente di variazione del Pil pro capite)
Italia
Spagna
Grecia
Francia
Germania Ovest
Regno Unito
Inizio anni '50
0,367
0,356
0,295
0,215
0,205
0,156
1977
0,262
0,194
0,187
0,156
0,201
0,093
Fonte: elaborazioni degli autori su Williamson (1965) per inizio anni ’50 e su Crenos per il 1977
Una storia stilizzata: Periodo
4
Termina il periodo di convergenza. Si alternano periodi di (moderata) divergenza e periodi di stabilità dei divari. Paesi europei dagli anni ’80 ad oggi. Con la fine degli anni ’70 mutano molte condizioni del periodo precedente: rallenta lo sviluppo delle economie; si assesta la dimensione dello stato sociale; si riducono flussi migratori. .
Il caso della Germania Est
1989-95: crollo immediato del reddito delle regioni orientali per collasso immediato strutture produttive, seguito da rimbalzo dovuto principalmente alla diffusione del sistema di welfare occidentale, con forte aumento del reddito medio nonostante la riduzione dell'occupazione;
1995-2007: sostanziale stazionarietà disparità. Fortissime migrazioni est-ovest con flussi di investimento (pubblico e privato, con forti incentivi) ovest-est. La Germania Est: un caso di successo?
(Pil pro capite in % sul valore della Germania occidentale)
75
70
65
60
55
50
45
40
1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007
PIL pro capite
Fonte: Statistisches Bundesamt, Arbeitskreis VGL der Länder, Erwerbstätigenrechnung der
Länder, Bundesagentur für Arbeit (tavola 1 in Burda 2008)
Il periodo più recente (dal
1995)
Aumentano le disparità regionali all’interno di tutti i paesi europei e di tutti i paesi OCSE, salvo alcuni casi di stazionarietà. Paesi convergono ma regioni, nei paesi, non convergono. Qualche miglioramento della convergenza in alcuni paesi UE-15 dopo il 2000 (Spagna; più limitatamente Germania e Italia), ma non in altri (Portogallo, Grecia)
L’Europa contemporanea (prima della crisi…). Convergenza fra paesi, non fra regioni nei paesi.
Divari nel PIL pro capite tra regioni e tra paesi europei
(coefficiente di variazione del PIL pro capite a PPA)
Fonte: DPS (2009) su dati Eurostat.
Dispersione del PIL pro capite fra regioni
all'interno di alcuni paesi europei
Italia
Germania
Spagna
Grecia
Portogallo
Polonia
Ungheria
Repubblica Ceca
1995
2000
4,1
2,7
2,3
3,0
2,4
1,4
4,0
2,5
4,0
2,7
2,6
2,4
2,9
2,5
6,4
4,5
2006
3,8
2,4
2,0
4,2
2,9
3,1
8,5
5,3
Fonte: Applica-Ismeri (2010) su dati Eurostat
Le disparità regionali nei paesi OCSE, 1995-2005
(coefficiente di variazione ponderato del Pil pro capite fra regioni TL3)
Messico
Polonia
Ungheria
Turchia
Francia
Regno Unito
Portogallo
Slovacchia
Austria
Belgio
Norvegia
Giappone
Italia
Germania
R. Ceca
Danimarca
Irlanda
Spagna
Corea
Grecia
Svezia
USA
Canada
Olanda
Australia
1995
0,58
0,50 (2000)
0,48
n.d.
0,48
0,47
0,44
0,42
0,39
0,38
0,35
0,31
0,30
0,29
0,27
0,24
0,24
0,23
0,20
0,17
0,17
0,15 (1997)
0,14
0,13
0,07
2005
0,60
0,53
0,67
0,58
0,51
0,58
0,45
0,51
0,36
0,38
0,40
0,35
0,31
0,29
0,43
0,27
0,32
0,23
0,26
0,39
0,26
0,20
0,21
0,16
0,10
(2004)
(2001)
diffe re nza
0,02
0,03
0,19
n.d.
0,03
0,11
0,01
0,09
-0,03
0,05
0,04
0,01
0,16
0,03
0,08
0,06
0,22
0,09
0,05
0,07
0,03
0,03
Fonte: OECD, Regions at a glance, 2009, tab. 15.8