Intervento del Direttore della Scuola di Diritto Giuseppe Zizzo ()

INAUGURAZIONE
ANNO ACCADEMICO 2014/15
INTERVENTO DEL PROF. GIUSEPPE ZIZZO
DIRETTORE DELLA SCUOLA DI DIRITTO
Castellanza, 10 novembre 2014
I tributi sui grassi… Ovvero come dimagrire con le imposte
Siamo a ridosso, tanto sotto il profilo temporale quanto sotto quello spaziale,
dell’EXPO 2015, il cui tema è “Nutrire il pianeta”.
Ho pensato quindi di dedicare questa prolusione alla relazione tra alimenti e
fiscalità.
Una relazione duratura, ma che nel tempo ha assunto varie forme.
Una volta c’erano i tributi sul consumo di alimenti di base (ad esempio, del
pane, del macinato, del sale, del caffè, del tè).
Il loro obiettivo era quello tipico dei tributi, procurare entrate pubbliche.
Erano assai diffusi, perché costituivano uno strumento di gettito semplice e
sicuro, per la centralità di questi consumi, e per la rigidità che ne connota la
domanda.
Ma erano anche, intuitivamente, piuttosto impopolari, tanto che la loro
introduzione o il loro aumento ha in molti casi provocato sommosse. Come la
rivolta del macinato nel 1869 e il Boston Tea Party nel 1773.
Poi si sono affacciati i tributi sul consumo di alimenti ritenuti superflui (ad
esempio, dell’alcol).
Anche questi tributi avevano, almeno in una prima fase, lo scopo tipico dei
tributi, quello di procurare entrate pubbliche.
Anch’essi hanno avuto grande diffusione, perché costituivano uno strumento di
gettito semplice e sicuro, grazie alla rigidità che connota la domanda anche di
questi beni.
Erano inoltre assai meno impopolari dei primi, perché colpivano consumi
giudicati voluttuari, spesso disapprovati dalla società.
Adesso è il tempo dei tributi che mirano a colpire il consumo di alimenti ritenuti
poco salutari (ad esempio, le bevande zuccherate, i dolciumi).
Si parla sempre più insistentemente di junk food tax, di soda tax, di fat tax. Di
tributi sui grassi, di tributi, cioè, applicati al consumo di cibi, di bevande o di
singoli componenti di cibi o bevande che sono ritenuti idonei a provocare
l’ingrassamento.
Si parla molto, ma in effetti si fa poco.
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Negli Stati Uniti, considerati pionieri in questo campo, solo quattro Stati
applicano imposte selettive sulle bibite, in altri i progetti di legge presentati per
la loro istituzione come per l’istituzione di un’imposta selettiva sui dolciumi non
sono stati approvati. Dei 45 Stati che hanno un’imposta generale sui consumi,
31 considerano gli alimenti esenti e 7 tassano gli stessi prodotti con un’aliquota
inferiore a quella ordinaria. In 17 degli Stati che esentano i prodotti alimentari i
dolciumi da banco sono però soggetti all’aliquota ordinaria. In 22 Stati sono
soggetti all’aliquota ordinaria anche le bibite.
In Europa, un’imposta sui grassi è stata in vigore in Danimarca dal 2011 al
2013. Dal 2011 l’Ungheria applica un’imposta su prodotti contenenti alte
quantità di sale, zucchero o caffeina, nota come “tassa sulle patatine”. La
Francia dal 2012 applica un’imposta sulle bibite zuccherate. In Italia la proposta
di istituire un’imposta sulle bibite zuccherate e sui superalcolici, presentata nel
2012 dal ministro Balduzzi, è stata ritirata.
Due sono i fattori che muovono questo dibattito:
-
da un lato, la sete di risorse del settore pubblico e la difficoltà a
soddisfarla mediante gli strumenti impositivi tradizionali;
dall’altro, l’allarme destato dalla dimensione assunta a livello mondiale
dal fenomeno dell’obesità.
Cito dal sito del Ministero della salute:
“L’obesità è una condizione caratterizzata da un eccessivo accumulo di grasso
corporeo, condizione che determina gravi danni alla salute. E’ causata nella
maggior parte dei casi da stili di vita scorretti: da una parte, un’alimentazione
scorretta ipercalorica e dall’altra un ridotto dispendio energetico a causa di
inattività fisica. L’obesità è quindi una condizione ampiamente prevenibile.
L’obesità rappresenta uno dei principali problemi di salute pubblica a livello
mondiale sia perché la sua prevalenza è in costante e preoccupante aumento
non solo nei Paesi occidentali ma anche in quelli a basso-medio reddito sia
perché è un importante fattore di rischio per varie malattie croniche.
Secondo dati dell’OMS, la prevalenza dell’obesità a livello globale è
raddoppiata dal 1980 ad oggi; nel 2008 si contavano oltre 1,4 miliardi di adulti in
sovrappeso (il 35% della popolazione mondiale); di questi oltre 200 milioni di
uomini e oltre 300 milioni di donne erano obesi (l’11% della popolazione
mondiale). Nel frattempo, il problema ha ormai iniziato ad interessare anche le
fasce più giovani della popolazione: si stima che nel 2011 ci fossero nel mondo
oltre 40 milioni di bambini al di sotto dei 5 anni in soprappeso.
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Secondo i dati raccolti nel 2010 dal sistema di sorveglianza Passi, in Italia il
32% degli adulti è sovrappeso, mentre l’11% è obeso. In totale, oltre quattro
adulti su dieci (42%) sono cioè in eccesso ponderale in Italia”.
Tanto l’Organizzazione Mondiale della Sanità (“2008-2013 Action Plan for the
Global Strategy for the Prevention and Control of Non-Communicable
Diseases”, 2008) quanto l’Assemblea generale delle Nazioni Unite
(“Dichiarazione politica sulla prevenzione e il controllo delle malattie non
trasmissibili”, 2011) hanno indicato la fiscalità tra gli strumenti a disposizione
degli Stati per aggredire i fattori di rischio relativi alle malattie non trasmissibili, e
quindi per promuovere stili alimentari più sani.
L’obiettivo dei tributi considerati è duplice:
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un obiettivo extrafiscale, quello di scoraggiare, provocando un
innalzamento del costo degli alimenti ritenuti causa di sovrappeso e
obesità, il loro consumo;
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ed un obiettivo fiscale, quello di generare risorse, internalizzando (cioè
ponendo a carico dei consumatori) le esternalità prodotte dai consumi in
questione, da individuarsi nelle alte spese sanitarie poste a carico della
collettività dalle malattie connesse al sovrappeso e all’obesità.
Sono chiaramente obiettivi confliggenti. Maggiore è la loro efficacia sul primo
fronte, minore è ovviamente quella sul secondo. Se i consumi si riducono o si
azzerano, attingendo queste tasse il loro obiettivo extrafiscale, le entrate si
riducono o si azzerano, fallendo le stesse il loro obiettivo fiscale.
Questo conflitto non è però esclusivo dei tributi sui grassi. Costituisce un tratto
comune dei tributi con fini extrafiscali, di quei tributi cioè che, come appunto
quelli qui considerati, abbinano alla funzione tributaria l’utilizzo in qualità di
strumento di politica economica e sociale, per orientare le scelte dei consociati
(nella specie, per disincentivare il consumo di determinati alimenti).
Di solito l’extrafiscalità si manifesta nel tributo sotto forma di sgravio, e quindi di
incentivo, ma non sussiste alcuna valida ragione per escludere la sua
emersione sotto forma di aggravio, e dunque di disincentivo.
Sul versante della extrafiscalità, va rilevato che l’efficacia di questi tributi non è
affatto dimostrata. Studi empirici dimostrano infatti che il cambiamento delle
abitudini alimentari che sono in grado di determinare (mantenendo aliquote
concretamente praticabili) è marginale.
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La sensibilità dei consumatori agli incrementi dei prezzi dei cibi non risulta cioè
sufficiente a rendere questi tributi degli efficaci strumenti di contrasto al
sovrappeso e all’obesità.
Sul versante della fiscalità, che è quello che maggiormente collima con il punto
di vista del tributarista, alla formulazione di queste ipotesi di prelievo deve
anzitutto corrispondere una verifica in ordine alla loro compatibilità con i principi
costituzionali, ed in primo luogo con il principio di capacità contributiva di cui
all’art. 53 della Costituzione.
In tema di capacità contributiva oggi si confrontano due scuole di pensiero.
Per alcuni la capacità contributiva è da intendere come titolarità di situazioni
giuridiche soggettive a contenuto patrimoniale tali da consentire l’estinzione
dell’obbligazione tributaria.
Per altri richiede semplicemente che il riparto delle pubbliche spese sia
informato a criteri di ragionevolezza, coerenza e proporzionalità. Occorre che il
presupposto di imposta manifesti una posizione di vantaggio del soggetto
tassato e che tale posizione sia economicamente valutabile.
Quale che sia la ricostruzione che si adotta di questo principio, a me pare che i
tributi sui grassi risultino compatibili con esso. Assumono infatti a presupposto il
consumo, ossia un fatto economicamente valutabile, pacificamente considerato
indicatore di capacità contributiva.
Il problema è piuttosto quello della giustificazione di un concorso alle pubbliche
spese diverso da, e maggiore di, quello associato ad altri consumi del
medesimo valore (ad esempio, consumi riguardanti alimenti salutari). Dunque, il
problema della giustificazione di una diseguaglianza.
Come rilevato, sul versante della fiscalità è opinione diffusa che i tributi
considerati abbiano l’obiettivo di internalizzare le esternalità prodotte dai
consumi di determinati alimenti. La ragionevolezza dell’aggravio dovrebbe
pertanto essere ravvisata nella responsabilità che i consumatori di alimenti
dannosi portano per le alte spese sanitarie poste a carico della collettività dalle
malattie connesse al sovrappeso e all’obesità.
Pur avendo la forma delle imposte, in quanto si riferiscono a fatti (i consumi)
relativi alla sfera giuridica del contribuente, questi tributi hanno dunque una ratio
paracommutativa, sono cioè giustificati, secondo il principio del beneficio, dalla
esigenza di imputare la spesa pubblica al soggetto che l’ha causata, evitando di
farla pesare sulla collettività.
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Questa giustificazione però tiene, e può condurre a giudicare ragionevole la
disparità di trattamento indicata, se il prelievo è posto a carico dei soli soggetti
che effettivamente provocano il pregiudizio da compensare. Devono quindi
restare ad esso estranei coloro che non determinano detto pregiudizio.
I tributi considerati non osservano questa condizione. Sono caratterizzati infatti
da un evidente disallineamento tra mezzi e fini, posto che operano a
prescindere dallo stato di salute del consumatore degli alimenti reputati
dannosi. Molti consumatori di questi alimenti non sono individui sovrappeso o
obesi, molti individui sovrappeso o obesi non sono consumatori.
Si applicano cioè a tutti coloro che consumano alimenti giudicati non salutari
senza considerare che molti di questi potrebbero avere stili di vita e abitudini
alimentari estremamente sani, e non essere esposti ai rischi per la salute che
interessano i soggetti sovrappeso o obesi.
In altre parole, nei tributi considerati non si riscontra quella correlazione tra
spesa pubblica e responsabilità del contribuente richiesta dalla loro ratio. La
ragionevolezza della diseguaglianza prodotta dalla loro applicazione mi pare
dunque difficile da difendere.
Questa incoerenza si manifesta tanto più inaccettabile se considerata alla luce
del carattere fortemente regressivo dei tributi sui grassi. In effetti, i tributi sui
consumi sono tipicamente regressivi, ma questi lo sono in modo particolare,
posto che i consumi che colpiscono si concentrano nelle fasce più basse per
istruzione e per censo della popolazione.
Per internalizzare le esternalità del sovrappeso e dell’obesità occorrerebbe
tassare direttamente i soggetti sovrappeso o obesi, piuttosto che tassare il
consumo degli alimenti non salutari, consumo che, di per sé, non produce
esternalità. Tassare “i grassi” e non “il grasso”.
E allora, chiudendo con una provocazione, se davvero si vuole usare la leva
fiscale per combattere il sovrappeso e l’obesità, perché non imporre a ciascuno
di dichiarare ogni anno la misura del proprio girovita e pagare un tributo
commisurato alla eccedenza della misura dichiarata rispetto ad una misura
giudicata standard?
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