N. 10/2014 Ottobre

N. 10/2014 Ottobre
Attribuzione di mansioni superiori:
necessaria l’indicazione della scadenza nell’atto d’incarico
Corte dei conti, sez. giurisdizionale Lazio, sentenza 665/2014
Società: è lo statuto che determina se è qualificabile come
in house e quindi assoggettata alla Corte dei Conti
Corte di Cassazione, S.U. civili, sentenza 24 ottobre n. 22609
Concessioni demaniali al 2020: il Tar ha chiesto l’intervento
della Corte di Giustizia dell'Ue
Tar Lombardia, sentenza n. 2401/2014
N. 10/2014 Ottobre
INDICE
Consigliere - progettista: obbligo di astensione in materia
di piani urbanistici
Consiglio di stato, sentenza n. 4806/2014
Pag. 1
Rendiconto illegittimo in caso di documentazione
presentata in ritardo al Consiglio
Tar Puglia, sezione Bari, sentenza 1058/2014
Pag. 3
La sanzione per mancata pubblicazione degli incarichi è
subordinata alla prova del danno
Corte dei conti, sez. giurisdizionale Calabria, sentenza 192/2014
Pag. 4
Attribuzione di mansioni superiori: necessaria l’indicazione
della scadenza nell’atto d’incarico
Corte dei conti, sez. giurisdizionale Lazio, sentenza 665/2014
Pag. 6
Stabilizzazioni: ai fini della partecipazione non rilevano
i periodi prestati come servizio civile
TAR Veneto, sezione II, sentenza 1196/2014
Pag. 9
Servizio trasporto disabili: spetta all’ente fissare le condizioni di accesso
Tar Piemonte, sez. II, sentenza n. 1456/2014
Tar Marche, sez. I, sentenza 667/2014
Tar Lombardia, sez. II, sentenza 918/2014
Pag. 11
Notifica atti sensibili: necessarie particolari cautele
Cassazione, sentenza 5 settembre 2014 n. 18812
Pag. 13
Concessioni demaniali al 2020: il Tar ha chiesto l’intervento
della Corte di Giustizia dell'Ue
Tar Lombardia, sentenza n. 2401/2014
Pag. 15
Gare: come si calcola il “taglio delle ali”
Tar Toscana, sentenza n. 1422/2014
Consiglio di stato, sentenza n. 4429/2014
Pag. 19
N. 10/2014 Ottobre
Società: è lo statuto che determina se è qualificabile come in house
e quindi assoggettata alla Corte dei Conti
Corte di Cassazione, S.U. civili, sentenza 24 ottobre n. 22609
La riscossione dei tributi è un servizio pubblico locale
Consiglio di Stato, sez. V, sentenza n. 5284 del 27 ottobre 2014
Pag. 23
Pag. 26
N. 10/2014 Ottobre
Consigliere - progettista: obbligo di astensione in materia di piani urbanistici
Consiglio di stato, sentenza n. 4806/2014
di Manuela Ricoveri
Ai consiglieri comunali – progettisti è consentito continuare l’attività professionale in materia
edilizia, ma ciò li obbliga ad astenersi dalla partecipazione ai lavori consiliari quando questi
abbiano ad oggetto materie direttamente connesse all’attività professionale.
Questo il principio espresso dal Consiglio di Stato, con la sentenza in commento, con la quale è
stata confermata l’invalidità di una deliberazione di rigetto di un piano di lottizzazione alla quale
aveva partecipato un consigliere che era anche progettista di interventi di lottizzazione.
Nel caso di specie i soggetti interessati avevano impugnato, dinanzi al Tar, la deliberazione con la
quale il consiglio comunale aveva opposto diniego alla loro istanza di lottizzazione edilizia.
In particolare, gli interessati avevano contestato la mancata astensione del consigliere comunale,
presidente della commissione consiliare, che aveva istruito il dibattito circa la proposta e che
risultava progettista di altri interventi di lottizzazione favorevolmente esitati dal consiglio
comunale nel medesimo periodo.
L’articolo 78 del Tuel, dopo aver premesso la regola generale secondo cui “il comportamento degli
amministratori, nell'esercizio delle proprie funzioni, deve essere improntato all'imparzialità e al principio di
buona amministrazione” (comma 1), specifica, al secondo comma, che “gli amministratori di cui all'art.
77, comma 2 (ovvero gli amministratori elettivi), devono astenersi dal prendere parte alla discussione ed alla
votazione di delibere riguardanti interessi propri o di loro parenti o affini sino al quarto grado. L'obbligo di
astensione non si applica ai provvedimenti normativi o di carattere generale, quali i piani urbanistici, se non
nei casi in cui sussista una correlazione immediata e diretta fra il contenuto della deliberazione e specifici
interessi dell'amministratore o di parenti o affini fino al quarto grado”.
La giurisprudenza ha precisato che l'obbligo di astensione degli amministratori locali costituisce
principio di carattere generale che non ammette deroghe o eccezioni, ricorrendo ogni qualvolta
sussista una correlazione immediata e diretta fra la posizione dell’amministratore e l’oggetto della
deliberazione.
Ne consegue che il consigliere è tenuto ad astenersi dalle deliberazioni assunte dall’organo
collegiale in tutti i casi in cui si trovi in una situazione che, avuto riguardo al particolare oggetto
della decisione da assumere, appaia - anche solo potenzialmente - idonea a minare la sua
imparzialità (Tar Campobasso Molise, sez. I, sent. 718/2011).
La regola generale, secondo cui l’amministratore è obbligato ad astenersi al minimo sentore di
confitto di interessi, reale o potenziale, è applicabile anche nel caso di adozione di piano attuativo
qualora sussista un interesse immediato e diretto fra il contenuto della deliberazione e specifici
interessi del consigliere o del congiunto (Consiglio di Stato, sez. IV, sent. 693/2011).
Sempre l’articolo 78 del Tuel, al comma 3, precisa ulteriori aspetti che disciplinano
l’incompatibilità tra gli amministratori componenti la giunta, titolari di competenze in materia
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N. 10/2014 Ottobre
urbanistica, edilizia e lavori pubblici, e l’attività professionale in materia di edilizia privata e
pubblica nel territorio da essi amministrato.
Come evidenziato dai giudici amministrativi, la circostanza che solo ai componenti della Giunta e
non anche ai consiglieri comunali è interdetta l’attività professionale in materia di edilizia non
equivale ad una indistinta “autorizzazione” a che questi ultimi si occupino dei progetti edilizi di
privati nel territorio amministrato senza riflessi sull’esercizio del mandato.
Tale norma, infatti, deve essere correlata con l’obbligo di astensione che, dall’esercizio consentito
di attività professionale, scaturisce in ordine alla partecipazione ai lavori consiliari quando questi
abbiano ad oggetto materie direttamente connesse all’attività professionale.
In altri termini, ai consiglieri comunali - professionisti è consentito continuare l’attività
professionale in materia di edilizia, ma ciò li obbliga ad astenersi, ex ante, ogniqualvolta sussista
un potenziale conflitto di interessi, tale da pregiudicare il prestigio e l’indipendenza
dell’istituzione comunale.
In tal caso vi è un contrasto tra due interessi facenti capo alla stessa persona, uno dei quali di tipo
“istituzionale” ed un altro di tipo personale, che va risolto con l’astensione dal partecipare alla
discussione e alla votazione sulla deliberazione.
E ciò a prescindere dai vantaggi o svantaggi in concreto conseguiti.
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N. 10/2014 Ottobre
Rendiconto illegittimo in caso di documentazione presentata in ritardo al Consiglio
Tar Puglia, sezione Bari, sentenza 1058/2014
di Alessio Tavanti
E’ illegittima la delibera consiliare di approvazione del rendiconto nel caso in cui la
documentazione a supporto della decisione sia stata messa a disposizione dei consiglieri troppo
tardi, nei venti giorni precedenti la seduta del consiglio.
E’ quanto affermato dal Tar Puglia nella sentenza in commento, con la quale ha accolto il ricorso di
un consigliere comunale avverso la deliberazione di Consiglio relativa all’approvazione del
rendiconto consuntivo per violazione delle prerogative consiliari.
Nel caso di specie, il Presidente del Consiglio comunale aveva convocato il Consiglio nel termine
di 7 giorni antecedenti la seduta e, con nota in pari data, il Responsabile del Settore economicofinanziario aveva messo a diposizione dei consiglieri la documentazione utile.
Tale convocazione era stata disposta su sollecitazione del Prefetto che aveva riscontrato
l’inosservanza del termine del 30 aprile previsto dall’articolo 227, comma 2, del Tuel.
A fronte della procedura seguita dall’Amministrazione un consigliere comunale ha impugnato
dinanzi al Tar la delibera di approvazione del rendiconto lamentando la violazione del termine
entro il quale avrebbe dovuto essere messa a disposizione la documentazione utile, che ai sensi
della citata disposizione deve avvenire “entro un termine, non inferiore a venti giorni, stabilito dal
regolamento”.
Il Tar ha ritenuto fondate le ragioni del consigliere circa la mancata tempestiva acquisizione della
documentazione utile nel termine espressamente previsto ex lege.
Irrilevante nella fattispecie, risultava la circostanza, sostenuta dall’amministrazione, secondo cui
versandosi nell’eccezionale ipotesi di approvazione del rendiconto consuntivo oltre la scadenza
prevista dalla legge, su diffida del Prefetto, il termine di deposito della documentazione utile
avrebbe potuto non essere osservato.
Ciò trova conferma nel combinato disposto degli articoli 227, comma 2 bis e 142, comma 2 del Tuel,
che disciplina la procedura straordinaria di approvazione del rendiconto di gestione in ipotesi
patologica, il quale non prevede alcuna deroga al termine contestato.
Secondo il Giudice amministrativo, detto termine deve essere sempre rispettato e la relativa
violazione determina la nullità della delibera consiliare, sia nel caso di approvazione del
rendiconto nei termini di legge che, come nella fattispecie, nell’ipotesi di approvazione fuori
termine su diffida del Prefetto.
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N. 10/2014 Ottobre
La sanzione per mancata pubblicazione degli incarichi è subordinata alla prova del danno
Corte dei conti, sez. giurisdizionale Calabria, sentenza 192/2014
di Alessio Tavanti
L’omessa pubblicazione sul sito web di incarichi conferiti a soggetti esterni non può essere
sanzionata se non viene provato il danno.
E’ quanto affermato dalla Corte dei Conti nella sentenza in commento, con la quale ha ritenuto
infondate le contestazioni mosse nei confronti del segretario e dei dirigenti di un comune
relativamente alle responsabilità connesse alla mancata comunicazione all’anagrafe delle
prestazioni degli incarichi conferiti o autorizzati ai propri dipendenti e all’inadempimento
dell’obbligo di pubblicazione sul sito web degli incarichi di collaborazione esterna e di consulenza.
Secondo la procura tali violazioni ai sensi della normativa allora vigente, contenuta nell’articolo 1
comma 127 della legge 662/1996, come modificato dall’articolo 3, comma 54 della legge 244/2007,
costituiscono illecito disciplinare e sono fonti di responsabilità erariale del dirigente preposto.
Le contestazioni mosse dalla procura sono fondate, in particolare, sul presupposto che le norme
violate configurano una responsabilità a carico di chi abbia omesso gli obblighi di pubblicazione e
comunicazione dei dati in esse previste e che tale responsabilità, di tipo sanzionatorio, prescinde
dall’accertamento di un danno concreto ed attuale.
La Corte dei Conti chiamata a pronunciarsi in merito ha ritenuto non fondate le ragioni
evidenziate dalla procura a fondamento della responsabilità dei dirigenti convenuti per due ordini
di motivi.
In primo luogo, la norma violata (nel testo vigente fino all’entrata in vigore dell’articolo 53 comma
1 lett. B del d.lgs. 33/2013, successivo ai fatti di causa) individua il fatto costitutivo della
responsabilità erariale non nell’omessa comunicazione o pubblicazione bensì nell’aver proceduto,
da parte del dirigente preposto, alla liquidazione del corrispettivo in caso di omessa pubblicazione.
In tal senso depongono i precedenti giurisprudenziali che riconoscono la responsabilità erariale del
solo soggetto che ha liquidato la spesa (Corte dei Conti, sezione Trentino Alto Adige, sentenza
59/2009; sezione Molise, sentenza 48/2009).
Presupposto mancante, nel caso di specie, in quanto i convenuti erano stati citati esclusivamente
con riferimento alle condotte omissive rispetto ai relativi obblighi di comunicazione e
pubblicazione inerenti gli incarichi conferiti dall’ente.
A conferma di tale interpretazione, la corte richiama l’attuale formulazione dell’articolo 15 del
d.lgs. 33/2013 “Riordino della disciplina riguardante gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di
informazioni da parte di pubbliche amministrazioni”, il quale, ferma restando l’individuazione della
condotta illegittima nel pagamento del corrispettivo in assenza della pubblicazione sul sito web,
quantifica espressamente la sanzione in una somma pari a quella corrisposta e fa salvo il
risarcimento del danno del destinatario ove ricorrano le condizioni di cui al decreto legislativo
104/2010.
Tale norma prevede anche che responsabilità debba essere accertata all’esito del procedimento
disciplinare, il che potrebbe legittimare la configurazione della fattispecie come responsabilità
disciplinare anziché amministrativa contabile.
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N. 10/2014 Ottobre
In secondo luogo, la corte non condivide la tesi della procura circa la configurabilità, nel caso di
specie, di un’ipotesi di responsabilità sanzionatoria, sussistente per il solo fatto della violazione
della norma, indipendentemente dalla dimostrazione di un danno all’erario.
Per la Corte la responsabilità erariale va individuata nell'aver proceduto alla liquidazione del
corrispettivo in caso di omessa comunicazione o pubblicazione, e ritiene che la previsione
contenuta nell’articolo 1 comma 127 legge 662/1996 (ora d.lgs. 33//2013) configuri una fattispecie
“tipizzata” di responsabilità erariale per la cui sussistenza è necessaria la dimostrazione di tutti gli
elementi, oggettivi e soggettivi, ed in primis il danno erariale.
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N. 10/2014 Ottobre
Attribuzione di mansioni superiori: necessaria l’indicazione della scadenza nell’atto d’incarico
Corte dei conti, sez. giurisdizionale Lazio, sentenza 665/2014
di Alessio Tavanti
L’attribuzione di mansioni superiori deve essere effettuata con predeterminazione del termine di
scadenza da indicare nella determina di affidamento.
E’ quanto affermato dalla Corte dei conti, sez. giurisdizionale Lazio, con la sentenza in commento
con la quale ha condannato due dirigenti per il danno erariale, causato all’Amministrazione di
appartenenza, derivante dal pagamento, disposto dal giudice del lavoro, delle differenze
retributive spettanti ad alcuni lavoratori per superiori mansioni dirigenziali espletate in esecuzione
del conferimento di incarichi di reggenza.
Nel caso di specie, i dirigenti convenuti in giudizio, al fine di rispondere alle esigenze di
riorganizzazione dell’istituto a seguito di vari trasferimenti di personale e funzioni, avevano
attribuito a dipendenti di categoria C incarichi di reggenza di profili dirigenziali senza procedere
alla determinazione del periodo di durata degli stessi il quale, di fatto, si era protratto ben oltre il
termine di 12 mesi tassativamente fissato dalla legge.
L’articolo 52 del d.lgs. 165/2001 consente, per i pubblici dipendenti, l’assegnazione a mansioni
superiori solo temporaneamente, se necessitata da obiettive esigenze di servizio, nel caso di
vacanza del posto in organico e per un periodo non superiore a sei mesi, prorogabile di ulteriori
sei mesi, a condizione che nel frattempo siano state bandite le procedure selettive per la copertura
del posto vacante.
La stessa disposizione, al comma 5, prevede che in caso di violazione dei predetti limiti
nell’assegnazione del dipendente a mansioni proprie della qualifica superiore, l’assegnazione è
nulla ma al lavoratore è corrisposta la differenza di trattamento economico con la qualifica
superiore, e la violazione costituisce causa di responsabilità amministrativa a carico del
funzionario che ha disposto l’assegnazione nulla.
Secondo la procura, nella fattispecie, assumevano rilievo determinante, ai fini del danno erariale
provocato all’Amministrazione dai dirigenti citati, le circostanze per cui gli incarichi conferiti non
avessero alcuna previsione di scadenza nel provvedimento di attribuzione e che comunque non
fossero stati revocati una volta scaduto il termine previsto dall’articolo 52 del d.lgs. n. 165/2001.
La Corte dei Conti ha affermato che l’illiceità contestata ai dirigenti convenuti, ritenuti parimenti
responsabili sia sotto il profilo causale che con riferimento all’elemento soggettivo, trova
fondamento nel fatto che le rispettive condotte avessero determinato una situazione di fatto tale da
integrare il diritto dei dipendenti incaricati di mansioni dirigenziali a percepire somme a fronte di
incarichi conferiti oltre i termini di legge.
Ciò risulta evidente già con riferimento al dettato normativo, in quanto detti incarichi erano
perdurati oltre il termine massimo di 12 mesi previsto dall’articolo 52, senza che né nel primo
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N. 10/2014 Ottobre
semestre, né durante l’ulteriore periodo di proroga semestrale, sussistesse la condizione, ex lege
necessaria ai fini di prorogare legittimamente gli incarichi, della indizione delle procedure
concorsuali per il reclutamento del personale carente in organico.
La violazione del termine ex articolo 52 del d.lgs. 165/2001 determina, come detto, l’illiceità degli
stessi.
Il meccanismo previsto dalla legge ha carattere intrinsecamente temporaneo in quanto preordinato
alla copertura di carenze di organico per il periodo strettamente necessario all’espletamento delle
procedure ordinarie.
Invero, laddove la suddetta temporaneità non venisse rispettata si verrebbe a creare un
consolidamento di fatto di posizioni conferite in violazione delle leggi di attribuzione degli
incarichi e delle generali regole sull’organizzazione amministrativa, in primis quella relativa alla
necessaria indizione di concorsi pubblici per assunzione di specifici profili professionali, a
garanzia della quale è posto il divieto di cui all’art. 52 del d.lgs. 165/2001.
“Di tale garanzia è fatto carico ai soggetti che, per le loro competenze, sono in grado di incidere sull’esistenza
e sulla protrazione degli incarichi in questione, i quali devono porre in essere le condizioni affinché gli
incarichi conferiti rimangano entro i limiti di legge”.
Da ciò discende, secondo la Corte, la responsabilità dei dirigenti convenuti cui era assegnata la
suddetta funzione di garanzia e che nel caso di specie non era stata svolta, dando luogo ad una
responsabilità quanto meno colposa degli stessi: di tipo commissivo per il dirigente che ha
conferito l’incarico; omissiva per il suo successore che non ha provveduto alla rimozione dello
stesso.
Infatti, il dirigente conferente gli incarichi, non avendo apposto alcun termine massimo di durata
agli stessi nelle relative determinazioni, ha fatto sì che continuassero a rimanere efficaci anche oltre
il termine di legge, determinando l’ultrattività dei loro effetti ben oltre le necessità alle quali la
legge ne consente l’espletamento, nonché una situazione di fatto stabile la cui rimozione
necessitava l’adozione di un’ulteriore determinazione.
Tale violazione, ad avviso della Corte, è da imputare a colpa grave del dirigente conferente che,
per il bagaglio di esperienze professionali e per il ruolo rivestito, doveva necessariamente esserne a
conoscenza.
Allo stesso modo è da ritenere responsabile il dirigente succeduto in quanto, secondo la Corte,
rientrava certamente nell’ambito delle proprie competenze e funzioni quella di compiere
un’autonoma valutazione delle condizioni di fatto sussistenti al momento della presa in carico
dell’ufficio e successivamente, per tutto il tempo in cui gli incarichi hanno avuto espletamento,
senza che possa avere rilievo scusante che tali condizioni fossero state valutate come idonei
presupposti per il conferimento degli incarichi da parte del precedente dirigente.
Nel caso di specie, la remunerazione delle funzioni dirigenziali affidate ai dipendenti in questione
può dirsi lecita solo con riferimento al primo semestre di durata dell’incarico, in presenza degli
altri presupposti ai quali la legge condiziona la possibilità di conferimento di mansioni superiori,
ma non per il semestre successivo, non essendosi verificata la condizione dell’indizione delle
procedure per la copertura dei posti in organico, e per il periodo ancora successivo, sino alla
restituzione dei dipendenti alle proprie funzioni.
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Per tali successivi periodi, pertanto, la corresponsione di tale emolumento costituisce danno
erariale, non corrispondendo l’esercizio di mansioni ad una situazione che l’ordinamento qualifica
come legittima.
In tal caso, peraltro, non può essere fatta valere, ai fini di un’eventuale riduzione del danno,
l’utilitas derivante dalle prestazioni effettuate dai dipendenti incaricati di funzioni dirigenziali.
Infatti, secondo quanto pacificamente affermato dalla giurisprudenza contabile, in considerazione
dei più stringenti requisiti richiesti per l’attribuzione delle funzioni dirigenziali, non sarebbe
possibile una valutazione dell’utilità derivante dall’effettiva prestazione dell’attività prestata dai
dipendenti incaricati. Tale valutazione, infatti, è subordinata all’esistenza di una previsione
legislativa che indichi i suddetti requisiti dovendosi, pertanto negare rilevanza alle assegnazioni
di mansioni superiori disposte oltre i casi previsti dalle citate disposizioni, al punto da sancirne la
nullità.
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N. 10/2014 Ottobre
Stabilizzazioni: ai fini della partecipazione non rilevano i periodi prestati come servizio civile
TAR Veneto, sezione II, sentenza 1196/2014
di Alessio Tavanti
E’ legittimo il bando di concorso laddove esclude dal conteggio temporale utile ai fini della
partecipazione alle procedure di “stabilizzazione” ex articolo 4, comma 6, del d.l. 101/2013, i
periodi di servizio civile prestati presso il comune.
Questo è quanto ha affermato il Tar Veneto con la sentenza in commento, con la quale ha respinto
il ricorso proposto da un concorrente avverso un bando di concorso riservato al personale che
aveva prestato servizio presso il comune ai sensi della speciale procedura prevista dall’articolo 4,
comma 6, del d.l. 101/2013.
Nel caso di specie il concorrente lamentava l’erroneità di una specifica clausola del bando la quale
aveva previsto l’esclusione dal conteggio del periodo di servizio utile ai fini del raggiungimento
dei requisiti minimi per l’accesso al concorso delle prestazioni rese come Servizio civile ai sensi
della legge 64/2001 e dell’articolo 13 del d.l.gs. 77/2002.
Secondo il giudice amministrativo la tesi del ricorrente non risulta condivisibile a partire dal dato
letterale della norma prevista dall’articolo 4, comma 6, del d.l. 101/2013 con la quale il Legislatore,
al fine procedere ad una “stabilizzazione” di determinate categorie di lavoratori, ha inteso
attribuire alle Amministrazioni la facoltà di bandire concorsi per titoli ed esami, “per assunzioni a
tempo indeterminato di personale non dirigenziale riservate esclusivamente a coloro che sono in possesso dei
requisiti di cui all'articolo 1, commi 519 e 558, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, e all'articolo 3, comma
90, della legge 24 dicembre 2007, n. 244, nonché a favore di coloro che alla data di pubblicazione della legge
di conversione del presente decreto hanno maturato, negli ultimi cinque anni, almeno tre anni di servizio con
contratto di lavoro subordinato a tempo determinato alle dipendenze dell'amministrazione che emana il
bando”.
L’espresso riferimento, contenuto nella suddetta disposizione, al presupposto della esclusiva
riconducibilità ad un contratto di lavoro subordinato, del precedente rapporto di servizio,
comporta il venir meno di quelle fattispecie lavorative, come il Servizio civile, svolte con differenti
tipologie di contratti, nel caso di specie con contratto a progetto.
Tale tipologia contrattuale per le specifiche caratteristiche regolanti il rapporto di lavoro (presenza
di un preciso progetto, allegato al testo contrattuale, i cui obbiettivi costituiscono l’oggetto della
prestazione lavorativa) si sostanzia in una prestazione di lavoro “atipica” priva dei connotati tipici
del contratto di lavoro subordinato tra, i quali, il rapporto di subordinazione, di direzione, di
vigilanza del datore di lavoro.
Il carattere restrittivo della disposizione sopra citata deve essere altresì valutato con riferimento
alla natura eccezionale di tale norma, sia per il circoscritto periodo di tempo nell’ambito del quale i
concorsi in questione possono essere banditi (precisamente fino al 31 dicembre 2016) sia, ancora,
per le finalità perseguite dalla disposizione in esame, volte a “favorire una maggiore e più ampia
valorizzazione della professionalità acquisita dal personale con contratto di lavoro a tempo determinato e, al
contempo, ridurre il numero dei contratti a termine..”.
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In tale contesto il riferimento del ricorrente al fatto che l’articolo 13, comma 2, del d.lgs. 77/2002,
qualifichi la partecipazione al progetto di servizio civile come equipollente al rapporto di pubblico
impiego, deve ritenersi affermazione di principio applicabile alla fase di valutazione dei titoli e,
comunque, espressione di una previsione di carattere generale, destinata a cedere di fronte alla
disciplina eccezionale sancita dal d.l. 101/2013.
In ragione del carattere di eccezionalità di tale disciplina legislativa, pertanto, risulta inammissibile
una qualunque interpretazione estensiva o analogica, diretta a ricomprendere fattispecie
contrattuali del tutto differenti, con la conseguenza che in mancanza degli specifici presupposti per
accedere alla procedura in questione, è legittima l’esclusione dalla selezione bandita
dall’Amministrazione ai fini della stabilizzazione.
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N. 10/2014 Ottobre
Servizio trasporto disabili: spetta all’ente fissare le condizioni di accesso
Tar Piemonte, sez. II, sentenza n. 1456/2014
Tar Marche, sez. I, sentenza 667/2014
Tar Lombardia, sez. II, sentenza 918/2014
di Manuela Ricoveri
L’ordinamento attribuisce agli enti locali ampia discrezionalità per l’organizzazione del servizio di
trasporto per disabili e per la disciplina dei requisiti soggettivi e reddituali di accesso.
Ne consegue che non è contestabile l’operato dell’amministrazione comunale che abbia
regolamentato in senso più restrittivo l’accesso gratuito dei disabili ai mezzi alternativi di trasporto
(minibus e taxi), a causa della scarsezza delle risorse finanziarie disponibili.
Questo il principio espresso dal Tar Piemonte con la sentenza il commento, con la quale ha
respinto il ricorso presentato da alcune associazioni avverso la deliberazione del consiglio
comunale con la quale era stato modificato il previgente regolamento avente ad oggetto il servizio
di trasporto destinato a persone assolutamente impedite all’accesso e alla salita sui mezzi pubblici
di trasporto.
Nel caso di specie l’ente aveva ridefinito le condizioni di erogazione del servizio e le tariffe poste a
carico degli utenti disabili, parametrandole al reddito ed agli indicatori della situazione economica
individuale (ISEE).
Al riguardo, l’articolo 26 della legge 104/1992, che reca disposizioni relative alla mobilità ed ai
trasporti collettivi delle persone disabili, prevede, al secondo comma, che i Comuni assicurano
“nell’ambito delle proprie ordinarie risorse di bilancio” modalità di trasporto individuali per le persone
disabili che non sono in grado di servirsi autonomamente dei mezzi pubblici.
Il servizio pubblico di trasporto dei disabili, pertanto, viene erogato nei limiti delle disponibilità
finanziarie dell’ente locale (Tar Piemonte, sent. 1023/2013).
In merito alla obbligatorietà del trasporto dei disabili, le sezioni unite della Corte di Cassazione
hanno affermato che il disabile è titolare solo di un interesse legittimo e non di un diritto
soggettivo al trasporto, trattandosi di un servizio che viene erogato sulla base della compatibilità
con le risorse del bilancio da valutarsi discrezionalmente da parte dell’amministrazione
competente (Cass. Civ., sez. un., sentenza n. 3848/2007).
Ne consegue che non è possibile esigere dagli enti locali puntuali obblighi di risultato negli
standard di prestazioni sociali in favore dei disabili motori.
Pertanto risultano legittime le modifiche regolamentari approvate dall’amministrazione e motivate
dalla limitata disponibilità di risorse economiche.
Il generale servizio di trasporto dei disabili rappresenta una particolare species del servizio di
trasporto pubblico locale caratterizzato dalla qualificante natura socio-assistenziale (Tar PugliaBari, sent. 464/2012).
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Per quanto riguarda, in modo specifico, il trasporto scolastico dei disabili, le funzioni e gli oneri
sono ripartiti tra comune e provincia in base alla scuola frequentata.
In assenza di apposita norma regionale che disponga espressamente sulla questione individuando
l’ente competente, l’articolo 139 del d.lgs. 112/1998 attribuisce ai comuni solo il trasporto
scolastico dei disabili della scuola dell’infanzia e della scuola dell’obbligo.
Spetta, invece, alla Provincia, attivare i servizi di trasporto scolastico in favore degli studenti
disabili che frequentano istituti di istruzione secondaria di secondo grado (Corte dei conti, sez.
contr. Marche, del. n. 48/2013).
Con specifico riguardo al servizio di trasporto scolastico nella Regione Marche, è la stessa legge
18/1996 (recante attuazione a livello regionale della L. n. 104/1992) a riconoscere, sia pure in via
subordinata, la competenza degli Ambiti Territoriali Sociali o dei comuni (in tal senso, Tar Marche,
sez. I, sent. 667/2014).
Sempre in materia di trasporto scolastico, recentemente il Tar Lombardia, con la sentenza n.
918/2014 ha ribadito che non sussiste nell’ordinamento un obbligo generalizzato e specifico di
predisporre il servizio scuolabus, salva la necessità di esplorare modalità alternative che agevolino
comunque lo spostamento degli studenti dalla propria abitazione alla struttura scolastica (e
viceversa).
I giudici amministrativi hanno ritenuto legittima la scelta di un comune di sopprimere il servizio
di scuolabus in una frazione di un comune montano, a causa del numero limitato di utenti, in
ragione della sostenibilità economica dello stesso, prevedendo, in alternativa, l’erogazione di un
contributo (a titolo di rimborso spese) per il trasporto autonomo.
Ciò in considerazione del fatto che l’amministrazione aveva dato conto del consistente risparmio
di spesa annuo conseguito con la soppressione del servizio scuolabus presso la frazione e che
aveva compiuto il dovuto approfondimento istruttorio, con l’analisi della condizione delle famiglie
coinvolte e della loro possibilità di gestire “in proprio” il trasporto.
Inoltre l’ente, in accordo con la scuola, aveva previsto la possibilità di armonizzare l’orario di
ingresso e uscita dei due bambini interessati con le esigenze delle famiglie.
In definitiva, l’istituzione del servizio scuolabus, tipica modalità idonea a garantire l’effettività del
diritto alla studio in assenza di collegamenti con mezzi pubblici, non può essere disallineato dal
canone costituzionale di buona amministrazione e dai suoi precipitati di ragionevolezza e di
sostenibilità.
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N. 10/2014 Ottobre
Notifica atti sensibili: necessarie particolari cautele
Cassazione, sentenza 5 settembre 2014 n. 18812
di Manuela Ricoveri
Il comune che notifica un atto sensibile è tenuto ad adottare tutte le misure necessarie per evitare la
violazione del diritto alla privacy.
In caso contrario, l’ente è responsabile per i danni cagionati per effetto del trattamento illegittimo
dei dati personali ai sensi dell’art. 2050 c.c., cioè ai sensi della norma del codice civile sulla
responsabilità per l’esercizio di attività pericolose.
Questo il principio espresso dalla Cassazione civile, sezione VI, con la sentenza in commento.
Nel caso di specie l’ente aveva notificato, a mezzo posta, un’ordinanza-ingiunzione di pagamento
relativa ad una violazione amministrativa legata al fenomeno della prostituzione.
L’ordinanza-ingiunzione era stata emessa ai sensi dell’articolo 18 della legge n. 689/1981, a seguito
dell’esame della memoria difensiva che il destinatario del provvedimento aveva presentato a
mezzo del proprio legale di fiducia, presso il cui studio aveva altresì eletto domicilio.
Fallito il primo tentativo di notifica, l’ente si era avvalso dei messi comunali che avevano
consegnato il plico, in busta non chiusa, alla residenza del destinatario, a mani della madre del
medesimo.
Il destinatario del provvedimento aveva pertanto contestato la violazione della propria privacy,
chiedendo il risarcimento dei danni.
In caso di lesione della riservatezza e dell’identità personale, il d.lgs. 196/2003 prevede una forma
di tutela successiva, rimessa al risarcimento del danno.
In particolare l’articolo 15 del Testo Unico sulla privacy stabilisce che “chiunque cagiona danno ad
altri per effetto del trattamento di dati personali è tenuto al risarcimento ai sensi dell'articolo 2050 del codice
civile”.
Com’è noto, l’articolo 2050 c.c. consente di sottrarsi all’obbligo risarcitorio soltanto provando di
avere adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno.
Quindi, mentre incombe al danneggiato dimostrare la sussistenza del nesso di causalità, al
danneggiante incombe l’onere di provare l’adozione di tutte le misure idonee ad evitare il danno.
La Corte ha evidenziato come il comune avrebbe potuto, al fine di evitare il danno derivante dal
trattamento dei dati sensibili, esperire la notificazione presso il domicilio eletto dal trasgressore
presso il proprio legale, prima di ricorrere alla notificazione tramite i messi.
La comunicazione al difensore, anche se non obbligatoria, ma pur sempre possibile e pienamente
lecita, certamente avrebbe rappresentato massima garanzia di riservatezza.
Soprattutto in considerazione della preferenza manifestata dal destinatario, l’ente avrebbe dovuto
preferire, in prima battuta, la notifica nel domicilio eletto, ossia quello scelto dal trasgressore.
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N. 10/2014 Ottobre
Di conseguenza, la Corte ha ravvisato nel comportamento del Comune una condotta riconducibile
ad un illecito trattamento di dati personali, come tale riconducibile alla fattispecie risarcitoria di
cui all'articolo 15 del d.lgs. 163/2006.
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N. 10/2014 Ottobre
Concessioni demaniali al 2020: il Tar ha chiesto l’intervento della Corte di Giustizia dell'Ue
Tar Lombardia, sentenza n. 2401/2014
di Manuela Ricoveri
Il Tar della Lombardia, con la sentenza n. 2401 del 26 settembre 2014, ritiene che le disposizioni
nazionali che hanno prorogato fino al 2020 la durata delle concessioni del demanio marittimo
lacuale e fluviale contrastino con la normativa comunitaria, pertanto, ha chiesto l’intervento della
Corte di Giustizia dell'Ue.
Le concessioni demaniali marittime sono concessioni amministrative aventi ad oggetto
l’occupazione e l’uso, anche esclusivo, di beni facenti parte del demanio necessario dello Stato (ex
art. 822, comma 1, c.c.), dietro la corresponsione di un canone.
La disciplina dell’occupazione e dell’uso del demanio marittimo sono stati recentemente oggetto di
diversi interventi del legislatore statale e regionale.
Il comune denominatore delle modifiche legislative è ravvisabile nella necessità di adeguare
l’ordinamento interno ai principi comunitari in tema di libertà di stabilimento e tutela della
concorrenza e, in particolare, alle previsioni della cd. “Direttiva Bolkestein”.
Il rilascio di dette concessioni è attualmente disciplinato dal Codice della Navigazione che,
all’articolo 37, prevede che nel caso di più domande di concessione è preferito il richiedente che
offra maggiori garanzie di proficua utilizzazione della concessione e si proponga di avvalersi di
questa per un uso che risponda ad un più rilevante interesse pubblico.
Il comma 2 del testo originario dell’articolo, che accordava preferenza alle precedenti concessioni
rilasciate rispetto alle nuove istanze (c.d. diritto di insistenza), è stato modificato con
l’eliminazione del diritto di insistenza, dall’articolo 1, comma 18, del d.l. 194/2009, convertito dalla
legge 25/2010, a seguito della procedura di infrazione comunitaria 2008/4098 con cui la
Commissione europea aveva sollevato questioni di compatibilità con il diritto comunitario ed in
particolare con l’art. 43 (attualmente art. 49 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea)
del trattato CE, che vieta le restrizioni alla libertà di stabilimento.
Tuttavia, ancor prima dell’abrogazione del diritto di insistenza in seno all’articolo 37 del Codice
della navigazione, la giurisprudenza amministrativa aveva chiarito che l’affidamento in esclusiva,
sia pur temporaneo, di un bene pubblico suscettibile di sfruttamento economico non poteva
sottrarsi al confronto competitivo, comportando, al contrario, l’obbligo della procedura
concorsuale ai fini della selezione del concessionario (cfr. tra le altre Consiglio di Stato, sez. VI,
168/2005; 3642/2008; 5765/2009).
In particolare, è stato precisato che “alle concessioni di beni pubblici di rilevanza economica (e, tra queste,
specificamente ricomprese le concessioni demaniali marittime), poiché idonee a fornire una situazione di
guadagno a soggetti operanti nel libero mercato, devono applicarsi i principi discendenti dall’art. 81 del
Trattato UE e dalle Direttive comunitarie in materia di appalti, quali quelli della loro necessaria
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N. 10/2014 Ottobre
attribuzione mediante procedure concorsuali, trasparenti, non discriminatorie, nonché tali da assicurare la
parità di trattamento ai partecipanti (TAR Campania, Napoli, VII, 3828/2009). Infatti,
anche nell’assegnazione di un bene demaniale occorre individuare il soggetto maggiormente idoneo a
consentire il perseguimento dell’interesse pubblico, garantendo a tutti gli operatori economici una parità di
possibilità di accesso all’utilizzazione dei beni demaniali” (TAR Napoli, IV, 23 aprile 2010 n. 2085).
Sul fronte del controllo preventivo di legittimità, la Corte dei Conti, fin dal 2005 (cfr. Sezione
Centrale Controllo Legittimità Atti Stato, Deliberazione del 13.5.2005), ha ritenuto “che le
concessioni di beni pubblici siano da sottoporre ai principi di evidenza pubblica che impongono
l’espletamento di una gara formale anche in presenza di una sola domanda. Ciò nel presupposto che con la
concessione di area demaniale marittima si consente a soggetti operanti sul mercato una possibilità di lucro,
tale da imporre una procedura competitiva ispirata ai principi di trasparenza e di non discriminazione”.
Sempre a seguito della richiamata procedura di infrazione, peraltro successivamente archiviata in
data 27 febbraio 2012, con legge 217/2011 (legge comunitaria 2010), è stato abrogato il comma 2
dell’articolo 1 del d.l. 400/1993, che fissava in sei anni la durata delle concessioni demaniali
marittime e prevedeva il loro rinnovo automatico alla scadenza per la stessa durata.
Il sistema previgente, infatti, si poneva in contrasto con la c.d. direttiva Bolkestein ovvero la
direttiva comunitaria 2006/123/CE, che si pone l’obiettivo di “eliminare gli ostacoli alla libertà di
stabilimento dei prestatori negli Stati membri e alla libera circolazione dei servizi tra Stati membri nonché
garantire ai destinatari e ai prestatori la certezza giuridica necessaria all’effettivo esercizio di queste due
libertà fondamentali del trattato”.
L’articolo 11 della legge comunitaria 2010 ha, infine, delegato il Governo italiano ad emanare, nel
termine di 15 mesi dalla relativa entrata in vigore (entro aprile 2013), un decreto legislativo avente
ad oggetto la revisione e il riordino della legislazione relativa alle concessioni demaniali marittime.
Peraltro la disciplina in questione non ha ancora trovato attuazione.
Si ritiene utile evidenziare, a tal proposito, che l’articolo 1, commi 732 e 733, della legge di stabilità
2014 (legge 147/2013) ha previsto che il complessivo riordino della materia sia effettuato entro il 15
maggio 2014.
In attesa della revisione della legislazione nazionale in materia (reiteratamente annunciata e mai
concretizzata), il legislatore, oltre all’abrogazione del c.d. diritto d’insistenza, ha previsto un
meccanismo di “atterraggio” verso i nuovi canoni dell’evidenza.
L’articolo 1, comma 18, del d.l. 194/2009 ha infatti previsto che le concessioni demaniali in essere
alla data del 30 dicembre 2009 (data di entrata in vigore del d.l. 194/2009), e in scadenza entro il 31
dicembre 2015, fossero prorogate fino a tale data.
La contraddizione del rinnovo automatico fino al 2015 disposto dal d.l. 194/2009 con quanto
riconosciuto dal diritto comunitario (Direttiva Bolkestein) si coglie appieno esaminando le prime
pronunce giurisdizionali intervenute sulla questione e le procedure amministrative seguite dalle
Autorità competenti al rilascio e al rinnovo delle concessioni demaniali marittime con finalità
turistico-ricreative.
Sulla questione dell’attuale, persistente, contrasto tra la normativa interna e il diritto comunitario è
opportuno segnalare il Tar Sardegna che con ordinanza 473/2010 ha rigettato l’istanza cautelare,
(relativa alla richiesta di ottenere il rinnovo automatico fino al 31.12.2015 della concessione
demaniale marittima scaduta), in quanto la normativa statale (contenuta nel citato d.l. 194/2009),
16
N. 10/2014 Ottobre
non sarebbe coerente con i principi comunitari in materia di trasparenza, non discriminazione,
libertà di stabilimento e libera prestazione dei servizi (come riconosciuti dalla citata Direttiva
Bolkestein), e quindi deve essere disapplicata.
Il quadro legislativo è stato nuovamente modificato dall’articolo 34-duodecies del d.l. 179/2012, che
ha novellato il citato articolo 1, comma 18, del d.l. 194/2009, disponendo la proroga sino al 31
dicembre 2020 delle concessioni demaniali in essere al 30 dicembre 2009 (data di entrata in vigore
del d.l. 194/2009) e in scadenza entro il 31 dicembre 2015.
Infine, l’articolo 1, comma 547 della legge 228/2012 (legge di stabilità 2013) ha esteso le previsioni
dell’articolo 1, comma 18, del d.l. 194/2009 alle concessioni aventi ad oggetto:
 il demanio marittimo, per concessioni con finalità sportive;
 il demanio lacuale e fluviale per concessioni con finalità turistico-ricreative e sportive;
 i beni destinati a porti turistici, approdi e punti di ormeggio dedicati alla nautica da
diporto.
Pertanto, attraverso la successione tra il d.l. 194/2009 e la relativa legge di conversione n. 25/2010,
il successivo d.l. 179/2012 e la conseguente legge di conversione 221/2012, il legislatore nazionale
ha reiteratamente prorogato le concessioni in scadenza per complessivi 11 (undici) anni.
Sul punto la giurisprudenza comunitaria e nazionale giurisprudenza ha da sempre ribadito che
l’individuazione del concessionario di un bene demaniale di rilevanza economica deve essere
effettuata all’esito di una procedura ad evidenza pubblica che garantisca l’apertura al mercato e il
confronto competitivo tra gli operatori del settore.
I principi posti dal Trattato sull’Unione Europea a garanzia del buon funzionamento del mercato
unico sono di applicazione generale e devono essere osservati in relazione a qualunque tipologia
contrattuale tale da suscitare l’interesse concorrenziale delle imprese e dei professionisti, ancorché
diversa dagli appalti di lavori, servizi e forniture, disciplinati da specifiche direttive comunitarie,
come accade per le concessioni di beni pubblici di rilevanza economica, oltre che per le concessioni
di servizi e gli appalti sottosoglia comunitaria.
L’individuazione del concessionario di un bene demaniale di rilevanza economica, pertanto, deve
avvenire nel rispetto dei principi di:
 libertà di stabilimento (art. 49 TFUE ex articolo 43 del TCE),
 libertà di prestazione dei servizi (art. 56 TFUE ex articolo 49 del TCE);
 parità di trattamento e divieto di discriminazione in base alla nazionalità (artt. 49 e 56
TFUE);
 trasparenza e non discriminazione (art. 106 TFUE ex articolo 86 del TCE, che vieta le misure
di favore a vantaggio delle imprese che godono di diritti speciali o esclusivi e di quelle
pubbliche).
Infatti, anche nell’assegnazione di un bene demaniale occorre individuare il soggetto
maggiormente idoneo a consentire il perseguimento dell’interesse pubblico, garantendo a tutti gli
operatori economici una parità di possibilità di accesso all’utilizzazione dei beni demaniali (Tar
Napoli, IV, 23 aprile 2010 n. 2085).
La procedura, dunque, che l’ente pubblico deve seguire per l’affidamento di concessioni demaniali
marittime è quella dell’evidenza pubblica, mediante cioè l’emanazione di un bando che indichi i
requisiti che devono possedere i soggetti interessati, i criteri di selezione ed attribuzione, l’oggetto
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N. 10/2014 Ottobre
della concessione e le prestazioni attese dal concessionario (Tar Lazio – Latina, Sez. I, sentenza n.
66 del 2 febbraio 2012).
In tal senso, la proroga automatica delle concessioni già esistenti al 2020 contrasta con i vincoli
derivanti dall'ordinamento comunitario in tema di libertà di stabilimento e di tutela della
concorrenza, determinando, altresì, una disparità di trattamento tra operatori economici.
Parimenti, tale disciplina impedisce l’ingresso di altri potenziali operatori economici nel mercato,
ponendo barriere alla sua dilatazione tali da alterare la concorrenza, così consolidando posizione
di sostanziale monopolio nello sfruttamento economico del bene stesso.
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N. 10/2014 Ottobre
Gare: come si calcola il “taglio delle ali”
Tar Toscana, sentenza n. 1422/2014
Consiglio di stato, sentenza n. 4429/2014
di Manuela Ricoveri
Al fine del computo del 10% delle “ali da tagliare”, come previsto dall’articolo 86, comma 1, del
d.lgs. 163/2006, le offerte aventi il medesimo ribasso percentuale vanno, in generale, considerate
singolarmente e non già unitariamente come unica offerta (cd. criterio assoluto).
Unica eccezione a questa regola viene desunta per le offerte con identifico ribasso che, nel calcolo
per il taglio delle ali, vengano a trovarsi a cavallo della percentuale del 10%.
In tal caso, la presenza di più offerte che presentino la medesima percentuale di ribasso, collocate a
cavallo della soglia del 10%, devono essere considerate unitariamente come unica entità (cd.
criterio relativo), con la possibilità dunque di superare il limite del 10% delle offerte da non
considerare ai fini del calcolo della media.
Questo il principio ribadito dal Tar Toscana, sez. I, con la sentenza in commento, in merito alla
modalità di calcolo della soglia di anomalia nelle gare d’importo inferiore o pari a un milione di
euro da aggiudicare con il criterio del prezzo più basso con offerte ammesse superiore a dieci.
Nel caso di specie la stazione appaltante aveva previsto, ai sensi dell'articolo 122, comma 9, del
d.lgs. n. 163/2006, l’esclusione automatica dalla gara delle offerte con una percentuale di ribasso
pari o superiore alla soglia di anomalia individuata ai sensi dell’articolo 86.
Il procedimento amministrativo di individuazione delle offerte anomale nelle pubbliche gare
costituisce un sub-procedimento formalmente distinto, ancorché collegato, rispetto al
procedimento di scelta del contraente e collocato dopo la fase della verifica dei requisiti generali e
speciali e dell’apertura delle buste.
Il codice dei contratti pubblici disciplina l’istituto delle offerte anormalmente basse agli articoli 8689, quanto agli appalti sopra la soglia di rilievo comunitario, e agli articoli 122 (in tema di lavori) e
124 (in tema di servizi e forniture), quanto agli appalti inferiori a detta soglia.
In relazione all’individuazione della soglia di anomalia, il codice, all’art. 86, comma 1 e 2, indica
due metodologie distinte a seconda del criterio di aggiudicazione applicato (rispettivamente,
prezzo più basso e offerta economicamente più vantaggiosa). In entrambi i casi, il legislatore ha
previsto un meccanismo automatico che mira all’oggettivazione dell’operato dell’amministrazione.
Individuazione della soglia di anomalia quando il criterio di aggiudicazione è quello del prezzo
più basso
Nelle gare da aggiudicare con il criterio del prezzo più basso, il codice prevede un unico criterio
matematico (valevole sia per gli appalti di lavori, che di forniture e servizi) per l’individuazione
della cd. soglia di anomalia, al di sotto della quale le offerte presentate devono supporsi anomale e
dovranno essere verificate dalla stazione appaltante mediante la procedura disciplinata dal
successivo articolo 88.
La regola posta dall’articolo 87, comma 1, del Codice – secondo cui all’esclusione può provvedersi
solo all’esito dell’ulteriore verifica, in contraddittorio con il concorrente – incontra l’eccezione
dell’esclusione automatica che può essere prevista nel bando nel caso in cui:
19
N. 10/2014 Ottobre
-
il criterio di aggiudicazione sia quello del prezzo più basso;
le offerte presentino una percentuale di ribasso pari o superiore alla soglia di anomalia
individuata ex articolo 86, comma 1, del d.lgs. 163/2006;
- siano rispettati i limiti di importo del contratto stabiliti, per i lavori, dall’articolo 122,
comma 9 (importo inferiore o pari a 1 milione di euro) e, per i servizi e le forniture,
dall’articolo 124, comma 8 (importo inferiore o pari a 100.000 euro).
Tuttavia, l’esclusione automatica non è possibile se il numero delle offerte ammesse è inferiore a
dieci.
Sotto le soglie prima indicate, rispettivamente, per lavori e per servizi e forniture,
l’amministrazione non è comunque obbligata ad aggiudicare con l’esclusione automatica, potendo
optare per l’aggiudicazione al massimo ribasso con valutazione della congruità.
Il calcolo della soglia di anomalia, nel caso in cui il criterio di aggiudicazione sia quello del prezzo
più basso, è dato dal “ribasso pari o superiore alla media aritmetica dei ribassi percentuali di tutte le offerte
ammesse, con esclusione del dieci per cento, arrotondato all’unità superiore, rispettivamente delle offerte di
maggior ribasso e di quelle di minor ribasso, incrementata dello scarto medio aritmetico dei ribassi
percentuali che superano la predetta media” (art. 86, comma 1, del d.lgs. 163/2006).
Al riguardo, l’Avcp ha più volte chiarito (determinazione n. 6 dell’8 luglio 2009 e determinazione
n. 4 del 26 ottobre 1999) che per determinare correttamente la soglia di anomalia si devono
eseguire, nell’ordine, le seguenti operazioni:
a) si forma l’elenco delle offerte ammesse disponendole in ordine crescente dei ribassi. Le
offerte contenenti ribassi uguali vanno singolarmente inserite nell’elenco collocandole
senza l’osservanza di alcuno specifico ordine;
b) si calcola il 10% del numero delle offerte ammesse e lo si arrotonda all’unità superiore;
c) si procede all’esclusione fittizia e si accantona in via provvisoria un numero di offerte, pari
al numero di cui alla lettera b), di minor ribasso nonché un pari numero di offerte di
maggior ribasso (cosiddetto taglio delle ali);
d) si calcola la media aritmetica dei ribassi percentuali di tutte le residue offerte che restano
dopo l’operazione di accantonamento di cui alla lettera c);
e) si calcola - sempre con riguardo alle offerte che restano dopo l'operazione di
accantonamento di cui alla lettera c) - lo scarto dei ribassi superiori alla media di cui alla
lettera d) e, cioè, la differenza fra tali ribassi e la suddetta media;
f) si calcola la media aritmetica degli scarti e cioè la media delle differenze; qualora il numero
dei ribassi superiori alla media di cui alla lettera d) sia pari ad uno la media degli scarti si
ottiene dividendo l'unico scarto per il numero uno;
g) si somma la media di cui alla lettera d) con la media di cui alla lettera f); tale somma
costituisce la soglia di anomalia.
Le offerte da escludere sono tutte quelle che hanno un ribasso maggiore o uguale al valore così
determinato.
Lo stesso risultato può essere conseguito sostituendo alle operazioni di cui alle lettere e), f) e g) la
seguente unica operazione: si calcola - sempre con riguardo alle offerte che restano dopo
l’operazione di accantonamento di cui alla lettera c) - la media aritmetica dei ribassi superiori alla
media di cui alla lettera d); tale media aritmetica costituisce direttamente la soglia di anomalia.
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N. 10/2014 Ottobre
Qualora il numero delle offerte ammesse sia inferiore a cinque, il criterio matematico appena
descritto non si applica (articolo 86, comma 4, del Codice).
In tal caso le stazioni appaltanti procedono ai sensi del comma 3, ovvero “possono valutare la
congruità di ogni altra offerta che, in base ad elementi specifici, appaia anormalmente bassa”.
Il meccanismo delineato per il calcolo della soglia di anomalia ha dato luogo, nella pratica, a varie
incertezze interpretative.
In particolare, si è posto il problema di stabilire quale decisione debba assumere l’amministrazione
nel caso in cui, con riferimento al cd. “taglio delle ali”, vi siano più offerte che presentano la
medesima percentuale di ribasso e l’ampiezza dell’ala non consente di escluderle tutte.
Per dato letterale e logico, ad avviso della giurisprudenza, all’interno delle ali le offerte devono
essere considerate e computate nella loro individualità, indipendentemente dalla misura dei
ribassi (cd. criterio assoluto), in quanto la norma letteralmente fa riferimento alle offerte e non al
valore delle stesse.
In particolare, non vi sono elementi dai quali, come regola generale, possa desumersi che in caso di
offerte con identico ribasso le stesse vadano considerate unitariamente come unica entità.
Unica eccezione alla regola si ha nell’ipotesi in cui l’ala non sia sufficiente a comprendere tutte le
offerte con il medesimo ribasso.
In tal caso, le offerte identiche situate a cavallo della percentuale del 10% devono essere
considerate come un’unica offerta (cd. criterio relativo), con la conseguenza che nessuna di esse
deve essere considerata ai fini del calcolo della media (Cons. St., sez. V, sent. 6323/2009; Cons. St.,
sez. V, sent. 3216/2001; sez. V, sent. n. 1094/2003; sez. V, sent. 3068/2002; C.G.A., sent. 531/2005).
Ciò allo scopo di evitare contraddizioni logiche, ossia che un ribasso venga accantonato (in quanto
fuorviante) ma contemporaneamente sia utilizzato per il calcolo della media aritmetica e dello
scarto medio aritmetico perché inserito identico in un’altra offerta che fuoriesce dal numero di
quelle da accantonare.
Tale criterio interpretativo è attualmente confermato dal comma 1 dell’articolo 121, del d.p.r.
207/2010, secondo cui “ai fini dell’individuazione della soglia di anomalia di cui all’articolo 86, comma 1,
del codice, le offerte aventi un uguale valore di ribasso sono prese distintamente, nei loro singoli valori,
in considerazione sia per il calcolo della media aritmetica, sia per il calcolo dello scarto medio
aritmetico”.
Tale norma, nel secondo periodo, affronta espressamente il problema del taglio delle ali
specificando che le offerte identiche a quelle da accantonare (senza distinzione tra ribassi a cavallo
o all’interno delle ali) devono essere parimenti accantonate, il che equivale a dire che le offerte
identiche devono essere considerate, in questa fase, come un’offerta unica.
Il primo periodo, al contrario, nel disciplinare il calcolo della media aritmetica e dello scarto medio
aritmetico, precisa che le offerte identiche sono prese in considerazione distintamente nei loro
singoli valori.
In questo modo è stato chiarito che per individuare le offerte da accantonare si fa riferimento ai
valori di ribasso (accorpando i valori identici), mentre nella fase successiva, calcolando la media
aritmetica e lo scarto medio aritmetico, si utilizzano tutte le offerte, anche quelle con valori identici.
Nello stesso senso è anche la più recente giurisprudenza del Consiglio di Stato (sez. V, sentenza n.
4429 del 28 agosto 2014): ad eccezione delle offerte “a cavallo” nelle quali è ammesso il cd. “blocco
21
N. 10/2014 Ottobre
unitario”, nel calcolo per il taglio delle ali opera invece il criterio opposto, che impone la
considerazione distinta delle singole offerte pur se aventi il medesimo ribasso.
Al fine di evitare dubbi sul piano operativo in sede dello sviluppo dei calcoli, come suggerito
dall’Avcp nella determinazione n. 6/2009, è opportuno disciplinare nella lex specialis la procedura
relativa agli arrotondamenti e il numero di cifre che verranno presi in considerazione per il calcolo
della soglia di anomalia.
Ciò in quanto, in mancanza di espressa previsione in tal senso, alle stazioni appaltanti non è
consentito di procedere ad arrotondamenti (Consiglio di Stato, sez VI, sentenza n. 1277/2003;
Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza n. 7042/2009).
Individuazione della soglia di anomalia quando il criterio di aggiudicazione è quello
dell’offerta economicamente più vantaggiosa
La norma di riferimento è l’articolo 86, comma 2, del d.lgs. 163/2006 secondo cui:
“Nei contratti di cui al presente codice, quando il criterio di aggiudicazione è quello dell'offerta
economicamente più vantaggiosa, le stazioni appaltanti valutano la congruità delle offerte in relazione alle
quali sia i punti relativi al prezzo, sia la somma dei punti relativi agli altri elementi di valutazione, sono
entrambi pari o superiori ai quattro quinti dei corrispondenti punti massimi previsti dal bando di gara”.
Pertanto, la condizione di anomalia si verifica solo in presenza del contemporaneo superamento
della “DOPPIA SOGLIA” di anomalia, ovvero:
 i punti relativi al prezzo sono ≥ ai 4/5 dei corrispondenti punti massimi previsti dal bando;
 i punti relativi a tutti gli altri elementi di valutazione sono ≥ ai 4/5 dei corrispondenti punti
massimi previsti dal bando.
Ne consegue che è anomala l’offerta che ottiene un punteggio alto sul piano tecnico e,
contemporaneamente, un punteggio alto relativamente all’offerta economica in virtù del ribasso
consistente.
22
N. 10/2014 Ottobre
Società: è lo statuto che determina se è qualificabile come in house e quindi assoggettata alla
Corte dei Conti
Corte di Cassazione, S.U. civili, sentenza 24 ottobre n. 22609
di Federica Caponi
La verifica in ordine alla ricorrenza dei requisiti propri della società “in house”, da cui discende la
giurisdizione della Corte dei Conti sui componenti degli organi sociali per i danni da essi cagionati
al patrimonio della società, deve essere realizzata in base alle previsioni contenute nello statuto in
vigore al momento in cui è stata realizzata la condotta.
La società in house, infatti, non è un'entità posta al di fuori dell'ente pubblico, ma una longa manus
dello stesso, che ne dispone come di una propria articolazione interna.
L’in house non può ritenersi terzo rispetto al Comune socio, ma deve considerarsi come uno dei
servizi propri dell'amministrazione stessa.
Questo il principio ribadito dalla Corte di Cassazione nella pronuncia in commento, con la quale
ha accolto il ricorso presentato dall’amministratore di una società per azioni, partecipata
interamente da comuni, con funzioni di servizio pubblico, avverso la sentenza della prima sezione
giurisdizionale della Corte dei Conti che lo aveva condannato al pagamento di euro 50.000 per il
danno all'immagine della società causato dall'accertamento di un delitto di corruzione ex art. 319
c.p., commesso in qualità di Presidente del Consiglio di amministrazione.
La Corte dei Conti aveva ritenuto sussistente la giurisdizione della Corte dei Conti, in quanto la
società sarebbe stata un vero e proprio organo dei comuni partecipanti, attraverso la quale essi
perseguivano le loro finalità pubblicistiche, gestendo risorse pubbliche.
Pertanto, la società avrebbe avuto un fine sostanzialmente pubblico, a tutela del quale può
esercitarsi l'azione di responsabilità della Procura della Corte dei Conti.
La Corte di Cassazione ha invece ritenuto insussistente la giurisdizione contabile, perché la società
non rispetta i requisiti dell’in house.
Le sezioni unite della Corte di Cassazione, con la sentenza 26283/2013, avevano già chiarito che la
Corte dei Conti ha giurisdizione sull'azione di responsabilità quando è diretta a far valere la
responsabilità degli organi sociali per i danni da essi cagionati al patrimonio di una società in
house.
Sono qualificabili come tali le società costituite da uno o più enti pubblici per l'esercizio di pubblici
servizi, di cui esclusivamente i medesimi enti possano essere soci, che statutariamente esplichino la
propria attività prevalente in favore degli enti partecipanti e la cui gestione sia per statuto
assoggetta a forme di controllo analoghe a quello esercitato dagli enti pubblici sui propri uffici.
La società può essere definita “in house” quando vi sia contemporaneamente il rispetto di tre
requisiti:
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1. il capitale sociale sia integralmente detenuto da uno o più enti pubblici per l'esercizio di
pubblici servizi e lo statuto vieti la cessione delle partecipazioni a privati;
2. la società esplichi statutariamente la propria attività prevalente in favore degli enti partecipanti,
in modo che l'eventuale attività accessoria non implichi una significativa presenza sul mercato e
rivesta una valenza meramente strumentale;
3. la gestione sia per statuto assoggettata a forme di controllo analoghe a quelle esercitate dagli
enti pubblici sui propri uffici, con modalità e intensità dì comando non riconducibili alle facoltà
spettanti al socio ai sensi del codice civile (Cass. sent. 5491/2014).
La presenza di tali condizioni fa si che la società non possa essere considerata un’entità al di fuori
dell'ente pubblico, in quanto essa non è altro che una longa manus della p.a., al punto che
l'affidamento pubblico mediante in house contract neppure consente veramente di configurare un
rapporto contrattuale intersoggettivo (Corte Cost. 46/2013).
La società in house non può ritenersi terzo rispetto all'amministrazione controllante ma deve
considerarsi come uno dei servizi propri dell'amministrazione stessa.
“L'uso del vocabolo società qui serve solo a significare che, ove manchino più specifiche disposizioni di segno
contrario, il paradigma organizzativo va desunto dal modello societario; ma di una società di capitali, intesa
come persona giuridica autonoma cui corrisponda un autonomo centro decisionale e di cui sia possibile
individuare un interesse suo proprio, non è più possibile parlare” (Cass. S.U. sent. 26283/2014).
Le società in house hanno della società solo la forma esteriore, mentre in realtà costituiscono delle
articolazioni della p.a. da cui promanano e non dei soggetti giuridici ad essa esterni e da essa
autonomi.
Gli organi di tali società, assoggettati come sono a vincoli gerarchici facenti capo alla p.a., sono
preposti ad una struttura corrispondente ad un'articolazione interna dell’ente pubblico socio, cui
sono personalmente legati da un vero e proprio rapporto di servizio, come accade per i dirigenti
preposti ai servizi erogati direttamente dall'ente pubblico.
La verifica in ordine all’esistenza di tali condizioni deve essere svolta riguardo alle previsioni
contenute nello statuto della società al momento in cui risale la condotta ipotizzata come illecita e
non a quelle, eventualmente differenti, esistenti al momento in cui risulti proposta la domanda di
responsabilità alla Corte dei Conti.
Nel caso di specie, la Cassazione ha ritenuto non sussistenti i requisiti dell’in house, in quanto
dallo statuto vigente all’epoca dei fatti contestati emerge l'assenza:
 del primo requisito, relativo al capitale interamente pubblico, poiché è previsto che i soci
fondatori, di diritto pubblico, dovessero detenere la maggioranza assoluta del capitale,
restando possibile la sottoscrizione delle azioni ordinarie da parte di persone fisiche o
giuridiche;
 della clausola dell’attività svolta prevalentemente in favore degli enti partecipanti, atteso
che l'oggetto sociale prevede la possibilità di svolgere un vastissimo spettro di attività, non
necessariamente riconducibili a servizi pubblici (quali ad esempio la commercializzazione
di acque minerali e derivati) in proprio o per conto terzi - non meglio precisati - per il
tramite di società controllate o collegate;
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
di alcuna forma di controllo analogo a quello esercitato dagli enti pubblici sui propri uffici,
in quanto l’unico controllo previsto è quello attribuito al Collegio sindacale in materia
contabile.
Alla luce di tali verifiche, la Corte ha ritenuto non sussistente il controllo della Corte dei Conti.
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La riscossione dei tributi è un servizio pubblico locale
Consiglio di Stato, sez. V, sentenza n. 5284 del 27 ottobre 2014
di Federica Caponi
La riscossione dei tributi locali costituisce svolgimento di un'attività di servizio pubblico, pertanto,
la decisione in merito alla modalità di gestione è di competenza del Consiglio Comunale, afferendo
alla materia dell’organizzazione di un servizio pubblico ex art. 42, comma 2, lett. e) del d.lgs.
267/2000.
Questo il principio sancito dal Consiglio di Stato nella pronuncia in commento, con la quale ha
respinto il ricorso presentato da un Comune avverso la decisione del Tar che aveva riconosciuto la
titolarità della società già concessionaria del servizio di riscossione alla prosecuzione diretta del
rapporto concessorio con l'ente locale.
Nel caso di specie, un Comune aveva deliberato l’esternalizzazione della gestione delle proprie
entrate mediante affidamento del servizio di riscossione a mezzo ruolo, a una società per azioni.
Dopo l’entrata in vigore della legge 248/2005, l’ente aveva preso atto del trasferimento da parte
della società del ramo d'azienda relativo alle attività svolte in regime di concessione per conto dei
comuni e del possesso in capo alla cessionaria del necessario requisito di iscrizione all'apposito
albo e aveva affidato la gestione della riscossione volontaria e coattiva delle proprie entrate a
quest'ultima.
Successivamente, con la deliberazione consiliare era stato approvato il Regolamento per la
disciplina generale delle entrate comunali, in cui era tra l'altro previsto che l'esercizio di ogni
attività organizzativa e gestionale dei tributi fosse riservato al funzionario responsabile di ciascun
tributo, designato dalla Giunta comunale.
In applicazione di tali disposizioni e in assenza di un'espressa deliberazione del Consiglio in
ordine alla modifica della modalità di gestione del servizio di accertamento e riscossione con il
passaggio al modello della gestione diretta, il funzionario responsabile del Servizio finanziario con
determinazione aveva indetto una procedura di selezione per l'affidamento del servizio triennale
di riscossione delle entrate comunali ad un soggetto terzo.
Avverso tale decisione l’uscente concessionaria aveva proposto ricorso al Tar che lo aveva accolto.
Il Comune ha quindi impugnato la pronuncia di fronte al Consiglio di Stato.
L’articolo 3, comma 24, della legge 248/2005, nel riformare il sistema di riscossione dei tributi
statali attraverso la creazione di una società a totale capitale pubblico (Riscossione s.p.a. in seguito
denominata Equitalia s.p.a.), ha disciplinato il periodo transitorio prevedendo che “fino al momento
dell'eventuale cessione (…) del proprio capitale sociale alla Riscossione s.p.a. (…) le aziende concessionarie
possono trasferire ad altre società il ramo d'azienda relativo alle attività svolte in regime di concessione per
conto degli enti locali, nonché a quelle di cui all'articolo 53, comma 1, del decreto legislativo 15 dicembre
1997 n. 446.
In questo caso:
a) fino al 31 dicembre 2010 ed in mancanza di diversa determinazione degli enti stessi, le predette attività
sono gestite dalle società cessionarie del predetto ramo d'azienda, se queste ultime possiedono i requisiti per
l'iscrizione all'albo di cui al medesimo articolo 53, comma uno, del decreto legislativo n. 446 del 1997, in
presenza dei quali tale iscrizione avviene di diritto”.
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Alla stregua di tale disciplina transitoria, quindi, nel caso di trasferimento del ramo d'azienda
relativo alle attività svolte in regime di concessione per gli enti locali o di scissione di una società
già concessionaria del servizio di riscossione, le società cessionarie o risultanti da tale scissione
societaria sono titolate ex lege alla prosecuzione diretta del rapporto concessorio con l'ente locale,
salvo che quest'ultimo non adotti al riguardo una specifica “diversa determinazione”.
Il Consiglio di Stato ha chiarito che la dizione “diversa determinazione” richiamata dalla norma
debba esplicarsi in una delibera di natura regolamentare assunta dall'organo consiliare e non in un
atto di carattere gestionale adottato da un suo organo burocratico, come sostenuto dal Comune.
Il termine “determinazione” usato dal legislatore ha una valenza oggettivamente neutra e, pertanto,
non è di per sé dirimente.
Con tale espressione vengono comunemente indicati sia gli atti propri degli organi burocratici
dell'Ente comunale, sia quelli emessi dai suoi organi elettivi.
L’articolo 42 del Tuel prevede la competenza consiliare relativamente all'adozione, tra gli altri, dei
seguenti atti:
 “organizzazione dei pubblici servizi, costituzione di istituzioni e aziende speciali, concessione dei pubblici
servizi, partecipazione dell'ente locale a società di capitali, affidamento di attività o servizi mediante
convenzione” (lett. e);
 “appalti e concessioni che non siano previsti espressamente in atti fondamentali del consiglio o che non ne
costituiscano mera esecuzione e che, comunque, non rientrino nell'ordinaria amministrazione e funzione
servizi di competenza della giunta del segretario o di altri funzionari” (lett. l).
I magistrati amministrativi hanno inoltre richiamato un consolidato orientamento della
giurisprudenza secondo cui la riscossione dei tributi locali costituisce svolgimento di un'attività di
servizio pubblico (Cons. Stato, sez. V, sent. 3672/2005).
In particolare, la decisione circa la modalità di gestione del servizio di riscossione delle entrate
comunali, nonché la conseguente determinazione di indire una procedura negoziata per la scelta
del soggetto incaricato del servizio stesso, costituiscono una scelta di organizzazione del servizio
pubblico di riscossione che rientra nell'ambito di applicazione del comma 2, lett. e), dell’art. 42 del
Tuel.
Secondo il Consiglio di Stato, quindi, il provvedimento con cui sono state effettuate scelte
organizzative del servizio avrebbe dovuto essere adottato dal Consiglio comunale e non dal
Dirigente del settore finanziario, trattandosi di atto di natura regolamentare preordinato a fissare
specifiche disposizioni organizzative dell'ente.
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