«Fossimo almeno rimasti fermi alla dagherrotipia classica, colle sue

Smartphone e fotografia
Ipermediazione e crisi della memoria
Nell’attuale panorama critico è diventato imbarazzante parlare di fotografia,
giacché i New Media tenderebbero a rendere obsoleta la distinzione tra scrittura,
immagine, suono, che sempre più spesso convergono nel realizzare quell’ibridazione
semiotica che è un tratto caratteristico della comunicazione contemporanea. Gli
Smartphone rappresentano ormai la tecnologia che ha maggiormente condizionato la
nostra vita quotidiana, e di conseguenza l’intera iconosfera che la fotografia aveva per
prima contribuito a definire. Le strade sono piene di fotografi, professionisti, amatori,
dilettanti, che contribuiscono concretamente all’incremento del flusso iconico. Le
riviste, così come i quotidiani, si avvalgono spesso del contributo fornito loro da
comuni cittadini, che per una ragione o per l’altra si sono trovati al posto giusto nel
momento giusto, e guarda caso, con in mano un dispositivo fotografico. «Fossimo
almeno rimasti fermi alla dagherrotipia classica, colle sue immagini incerte e
fuggevoli, co’ suoi procedimenti difficili e lunghi, che richiedevano un tirocinio
penoso, un’abilità eccezionale, e una spesa viva non accessibile a tutte le borse! […]
Ma hanno siffattamente moltiplicato le invenzioni, facilitato le operazioni, trasformato
i materiali, centuplicato le macchine, gli ordigni e i sistemi, abbreviato le
manipolazioni, spiegato i metodi, e abbassato i prezzi d’ogni cosa, che oggidì fra la
statistica dei fotografi e il censimento della popolazione ci deve correre poca
differenza» [Coccoluto-Ferrigni, cit. in Zannier, 2009], lamentava P. CoccolutoFerrigni durante una conferenza del 1889, sollecitando i presenti a riflettere sulle
conseguenze sociali derivabili dall’inflazione del mezzo fotografico. Chiaramente, il
suo allarme non aveva nulla a che vedere con la difesa acritica di un intero settore
professionale da un’esagerata concorrenza, ma con la preoccupazione, del tutto
legittima, che il tessuto sociale potesse venir scosso da un eccesso di visibilità. Del
resto, prima di rappresentare un’attività commerciale, o un fenomeno artistico, la
fotografia rappresenta una svolta culturale che coinvolge da vicino le abitudini
quotidiane, e quindi la rappresentazione della vita sociale.
Oggi è difficile pensare alla funzione archivistica prescindendo dal contributo
iconografico che la fotografia cede, ed è altrettanto laborioso ignorare la funzione
documentale della fotografia facendo del mezzo uno strumento esclusivamente
estetico. Le immagini tecniche non soltanto fanno parte della nostra vista quotidiana,
ma sempre più spesso la definiscono, circoscrivendo per noi la soglia oltre cui la
realtà affoga nel suo occultamento. È oltremodo interessante notare che la rete
informatica, a cui costantemente siamo connessi, sollecita la compartecipazione,
richiamando i soggetti a rinunciare al proprio ruolo di spettatori. Ciò comporta un
incremento esponenziale delle fonti, e perciò dei percorsi storicamente praticabili,
poiché è evidente che la storia si costruisce in itinere, e che dunque l’eterogenea
circolazione delle notizie, degli accadimenti, dei fatti, amplia l’orizzonte di ciò che
presto diverrà la nostra coscienza storica. I poteri forti e centralizzati di un tempo, non
sarebbero perciò più in grado di direzionarne il flusso presso le proprie precognizioni,
ponendo fine per tanto all’idea che il ricordo debba essere soltanto memoria dei
vincitori. I professionisti sono oggi costantemente supervisionati e sostenuti da un
pubblico che non è più passivo, e che contribuisce attivamente alla costruzione
dell’informazione, perciò del sapere. Nella Repubblica elettronica vige una forma
politica che si fonda sulla democrazia diretta, pertanto è lecito cominciare a chiedersi
se quest’alleanza critica planetaria possa davvero rappresentare, e in che misura, una
svolta antropologica. In altri termini, se diventiamo tutti reporter, avrà ancora un ruolo
sociale il reportage?
Chiaramente la fotografia rappresentava un fenomeno di massa già alle soglie
del ‘900, ma nonostante ogni individuo fosse provvisto di un dispositivo fotografico,
la presenza di questa tecnologia era decisamente meno invasiva. Soltanto venti anni
fa, la macchina fotografica esordiva nella vita quotidiana affacciandosi in ambienti
preliminarmente definiti fotografabili, e ci accompagnava durante le cerimonie, le
vacanze, i compleanni, operando perciò all’interno di un’etica visuale ben definita che
era parte integrante delle strategie antropopoietiche messe in atto dalla comunità per
definire se stessa. Ciò che se ne ricava non è semplicemente il racconto visivo di una
famiglia, o la testimonianza di un avvenimento di pubblico interesse, ma il senso che
un’intera comunità attribuisce al proprio profilo d’umanità. Tra i primi ad accorgersi
che l’invenzione di Daguerre riguardava anzitutto la riconfigurazione del tessuto
sociale, è stato certamente il sociologo francese P. Bourdieu, che definendo la
fotografia un’arte media, affermò ch’essa «fornisce il mezzo di solennizzare quei
momenti culminanti della vita sociale in cui il gruppo riafferma solennemente la
propria unità» [Bourdieu, 1965].
Nelle case, custodite in preziosi album, le fotografie favorivano l’unità
parentale svolgendo una funzione di custodia che si è rivelata importantissima per la
borghesia di allora, e similmente fuori dalle abitazioni, tra le pagine dei quotidiani o
dei settimanali, il flusso iconico s’imponeva anzitutto come costruzione
dell’espositività sociale. I redattori a cui era dato il compito di gestire il materiale
iconico, nonché scritturale, lavoravano non tanto alla costruzione dei racconti visivi,
ma mediante loro all’edificazione di un vedere socialmente coordinato, senza cui la
ricezione dei testi non poteva che uscirne disorientata. In altri termini, l’iconosfera
presupponeva uno sbarramento, e molto del materiale visuale che era possibile
raccogliere, non riusciva superare la soglia d’interesse che una simile occlusione
difendeva. L’immagine era un’insegna di cui non tutti potevano fregiarsi, ed esordiva
pertanto al suo pubblico quale ravvisata autorità.
Se ad un certo punto abbiamo inteso lo strumento fotografico quale tecnologia
della memoria, è perché gli abbiamo attribuito il compito di sottrarre al tempo ciò che
si è creduto lecito consegnare ai postumi, e perché dunque lo si è inserito
preliminarmente nei meccanismi di storicizzazione adoperati da ogni singola cultura
per legittimare la propria identità. Chiaramente questo processo non è affatto lineare,
poiché la vita nel suo insieme non si dota di una processualità determinata o solo
determinabile, e se un’epoca può comunque vantare una propria storia, è perché la
frammentarietà dell’esistenza è stata deliberatamente organizzata sui vettori forniti al
tempo dalla cultura dei vincitori. Per quanto possa suonare imbarazzante, l’uomo non
ha sempre avuto alle sue spalle una storia, nonostante il tempo lo abbia di certo
preceduto, e neppure la coscienza della storicità, o del concetto di storia, sono sempre
esistiti. Già Marx ed Engels parlavano di popoli storici distinguendoli da quelli
astorici, e nel corso di due secoli la filosofia della storia ha più volte sostenuto,
certamente con qualche rettifica, la tesi secondo cui la storia, come insieme
processuale, non è affatto un dato di realtà, quanto una conquista del pensiero
moderno. Il fatto che il tempo scorra – almeno nella percezione soggettiva che ne ha
l’uomo – non ha nulla a che vedere con la storia, perché fintanto sia ciclico, o
ideologicamente neutro, il materiale di cui si riempie non costituisce un processo
storico, ma semplicemente un meccanismo di regolamentazione dell’azione sociale o
individuale. La storia non si fonda sul richiamo al passato (memoria rerum gestarum),
ma sull’orientamento verso un futuro oggetto di speranza che è notoriamente un
prodotto del chiliasmo protocristiano.
Perché ci sia storia è necessaria una linea retta su cui si proporzionino, e si
susseguano, eventi tra loro interconnessi secondo il noto principio di causa-effetto, ed
è necessario, perciò, che l’esistenza venga intesa quale svolgimento di un progetto.
Non soltanto, perché quanto detto presuppone che il soggetto storico abbia la
possibilità concreta d’intervenire sul progetto storico, una condizione che com’è noto
non è concessa che alla classe dominante. Tutt’al più, le classi dominate possono
essere, nel migliore dei casi, soggetti costorici, in quanto partecipi di un processo
evolutivo lineare, e la loro storicità non si manifesta che attraverso la successione
cronologica delle risposte date ai soggetti storici. Abbiamo detto nel migliore dei casi
perché non tutti quelli che partecipano agli accadimenti reali del proprio tempo hanno
propriamente una storia, e nel peggiore dei casi la loro esistenza ci ritorna quale
presenza sostanzialmente inutile e inutilizzabile. Nella seconda “Considerazione
inattuale” di Nietzsche, a cui W. Benjamin si richiama esplicitamente nelle sue “Tesi
di filosofia della storia” [Benjamin, 1940], il filologo tedesco chiarisce che se in linea
di principio «è possibile vivere quasi senza ricordare, anzi vivere felicemente, come
mostra l’animale; è del tutto impossibile vivere in generale senza dimenticare»
[Nietzsche, 1874], per cui la realtà storica, quale organizzazione significante delle
esperienze umane, si ordina mediante l’esclusione di una vasta gamma di valori, idee,
possibilità, cedute all’oblio della dimenticanza. Ciò vale anche per ogni possibile
controcultura, poiché non si può redimere il passato attraverso l’affermazione
irremovibile di un diritto all’esistenza generalizzato. Non tutto ciò che è accaduto può
essere riscattato, ma soltanto ciò che s’inserisce all’interno di una prospettiva di
ricostruzione alternativa, per cui tutto quanto si recuperi non può sottrarsi dal
rappresentare l’ennesima forma di pensiero dominante (pur rivoluzionario) che
impone se stesso attraverso violenti atti d’esclusione. È il caso d’accettarlo:
rintracciare un senso vuol dire escludere le alternative chiudendo il cerchio delle
possibilità. Non si raccoglie senza cedere qualcosa, poiché ciò che si cede è proprio il
carattere contraddittorio della realtà che rischierebbe di sabotare dall’interno la
coerenza narratologica del fluire del tempo, la quale a sua volta si annichilisce quando
non vi sia più un assoluto su cui commisurare il resto. La memoria storica, alla cui
legittimità concorre anche l’armamentario fotografico, si realizza nella diffusione
arbitraria e dispotica del vocabolario dei vincitori, che a sua volta non ha alcuna
legittimità se non la forza della cultura che lo impone.
La stessa preselezione prospettica svolge principalmente una funzione di
ritaglio, appiattendo la realtà su superfici maggiormente decodificabili. L’immagine
di un accadimento non è che il risultato di una scrematura. Essa è ciò che resta dopo
che tutte le altre possibili rappresentazioni siano state occultate, e senza
quest’occultamento la realtà, per via della sua complessità, non sarebbe affatto
leggibile. Se al contrario si riuscisse a rappresentare un fenomeno nella sua
tridimensionalità, riportando alla luce ogni precedente rimozione, non si otterrebbe
altro che una replica fedele di ciò che è accaduto, dunque un insieme il cui eccesso
informazionale renderebbe impossibile qualsiasi lettura.
Se l’enorme diffusione del mezzo fotografico nasconde una terribile minaccia,
è infatti perché tenderebbe a reagire all’oblio iconico, tentando – con l’ausilio delle
reti informatiche – di riscattare il tempo, durante il suo fluire, nella sua totale
interezza. L’infinita varietà d’immagini che vengono caricate in rete, la
pluralizzazione dei punti di vista su ogni argomento, luogo, evento o persona, non ha
altro effetto che l’annientamento della loro unità, e perciò del loro senso. Abbiamo
sempre una macchina fotografica tra le mani, siamo costantemente connessi alla rete,
e nei social network – veicoli indispensabili per la quotidiana condivisione delle
esperienze – l’immagine si fonde al suo commento ed al canale delle sue condivisioni,
rinunciando implicitamente alla sua antica funzione mnemonica per concedersi quale
stimolo immediato ed aperto. Proprio per questo, oggi è sempre più difficile
individuare i territori del fotografabile, e sembra che tutto lo sia perché ogni evento,
traccia o persona, possono funzionare da input affinché si accenda una piccola, forse
persino effimera, discussione. Si postano fotografie su facebook perché gli altri utenti
possano commentarle, perché si avvii una narrazione che grazie agli Smartphone
viene costantemente costruita e seguita in tempo reale. La possibilità di taggare le
immagini, commentarle, riconnetterle ad altri profili, trasforma lo spettatore passivo
di un tempo in un regista che da sé forma la propria personale fruizione, e pertanto
non si ha più la sensazione di essere al cospetto di un’autorità, ma solamente innanzi
ad uno stimolo. La funzione informativa del testo iconico scavalca quella
performativa delle antiche stampe editoriali, ed al declino generalizzato
dell’informazione partecipa infine persino la scrittura.
Le immagini dialogano sul web (ed il concetto di rete è parte integrante del
concetto di fotografia digitale) in maniera del tutto diversa da come lo facevano su
carta stampata, e persino attraverso i teleschermi, perché piuttosto che costruire un
discorso tessono gli estremi di una trama. Sui siti internet, su cui si sta lentamente
spostando persino l’informazione giornalistica, e dunque il più influente soggetto
storicizzante, i visitatori sono incoraggiati a partecipare al contenuto informazionale
commentandolo, correggendolo, criticandolo, tanto che il rapporto emittentedestinatario vede cedere la propria linearità. Pur con tutt’altro entusiasmo, F. Ritchin
si era già accorto che «mentre la lettura è sempre una conversazione tra lettore e
autore, la narrazione ipertestuale e non lineare è più simile alla tradizione orale. Chi
partecipa alla conversazione riprende idee diverse e le segue a seconda dei propri
interessi e della loro presunta adeguatezza» [Ritchin, 2009]. Tuttavia l’oralità
richiama al confronto, alla compartecipazione, all’istituzione di un organismo che si
avvalga di tutti i partecipanti, e un sistema in cui ogni parte funziona da soggetto
storico, non è che un insieme inevitabilmente astorico.
Nel suo intervento al XXXVIII convegno AISS, U. Eco avverte che «l’eccesso
di possibilità fotografica può ledere la nostra memoria, perché la nostra memoria
sopravvive quando, in termini fotografici, è grandangolare. Se invece andiamo in giro
col telefonino per fotografare tutto quello che pare interessarci, diventa puntuale. Cioè
del potenziale grandangolo che potevamo ricordare abbiamo ricordato solo quello che
abbiamo scelto in quel momento e ci rimane solo quel momento lì» [Eco, 2011].
Evidentemente, sollecitata dall’entusiasmo di un pubblico che ha rinunciato alla
propria passività, puntuali sono diventate anche le narrazioni editoriali, e se da ciò
deriva l’enorme proposta informazionale che caratterizza il nostro tempo, deriva
anche l’assoluta incapacità del far dei dati un insieme coerente. Questa non è
neutralità ma neutralizzazione dei contenuti, dacché nulla ferisce la cultura visuale
quanto il democratico commercio degli sguardi. Ha perfettamente ragione M.
Smargiassi quando suggerisce di smettere d’immaginare «i repertori di immagini
disponibili in rete come una versione ipertrofica del modello del museo o
dell’archivio tradizionali. Museo e archivio sono forme di deposito razionali e
selettive, governate da gatekeeper consapevoli, che esercitano sul materiale loro
affidato un potente lavoro di scelta: si sa che il mestiere vero dell’archivista è
decidere cosa scartare (sempre molto di più di quel che si sceglie di conservare)»
[Smargiassi, 2012].
L’attività archivistica serve perciò ad uniformare la molteplicità degli sguardi
sull’unica matrice loro concessa, allo scopo di formare una coscienza di massa che
quotidianamente emerge quale facoltà del vedere insieme. Così un fatto storico è
fondamentalmente un accadimento sul quale le coscienze si siano accordate e
necessita, perché si realizzi, di un’unità narrativa e di una molteplicità spettatoriale.
Oggigiorno l’universo mediatico svolge una funzione diametralmente opposta, perché
non fornisce più alle masse un nucleo narrativo, ma al singolo un’infinità di tematiche
che a sua volta può liberamente selezionare, completare, ponendosi come parte della
narrazione e non più come spettatore. Ciò significa che l’eccessiva democraticità dei
nuovi media, che chiama gli spettatori sul palco svuotando le platee, comporta un
effetto atomizzante che rende di fatto impossibile la costruzione di quel vedere
insieme senza di cui la storia non ha di che nutrirsi.
Oggi più che mai abbiamo bisogno di soggetti consapevoli, scrupolosi, che
selezionino attentamente il materiale visivo per costruire un universo iconico coerente
e perciò significante. La pluralizzazione incontrastata dei punti di vista ha distrutto la
linearità del testo visivo, facendolo diventare un insieme di stimoli privi di sfondo,
cioè un costrutto semiotico dove la somma dei significanti produce una totale
insignificanza. In altri termini, tante piccole verità che insieme non significano nulla,
e che a ben vedere costituiscono l’immagine più autentica di ciò che è falso, mendace,
perché non vi è nulla di più fittizio che l’equiparazione e l’appiattimento di ogni cosa
alla sua ragione espositiva. Quando tutto è equamente carico di senso allora è il
concetto stesso di senso a diventare superfluo. La sovraesposizione di tutti gli aspetti
dell’esistenza (che non discerne più neppure la sfera pubblica da quella privata) pone
fine all’ordine del visibile quale organizzazione scenica, finché ad un certo punto non
c’è più scena che si possa ricavare da un punto cieco, da una non-scena, e dove essa
regni come tropo totale, dove tutto è messo in mostra e pretende di raccontare
qualcosa, di farsi in qualche modo vicenda, non si può che parlare di spazio dell’osceno come rappresentante della fine d’ogni visibilità. È infatti il sentimento dell’osceno che colpisce maggiormente, perché tale è anzitutto ciò che è privo di un
retroscena, di un nascondimento, di un’ombra. Oscena è la volontà illusoria e
delirante della trasparenza, della spontaneità assoluta, del diritto di replica
incondizionato. Il pluralismo, nella sua declinazione mediatica, non ha portato ad
altro che ad uno sterile sincretismo ideologico che ha svuotato la realtà sociale, e
storica, del proprio contenuto, perciò se la tecnologia digitale ha infine minato la
credibilità del testo fotografico, non è perché abbia interrotto la continuità tra segno e
referente, ma perché ha contribuito in modo sostanziale alla pluralizzazione dei punti
di vista rendendo così discontinuo non tanto il segno, quanto i processi di
semantizzazione. Tutto è fotografabile, tutti sono fotografi, tutto è infine fotografia,
anche al realtà, ed al termine di questo vortice ciò che resta è la frustrazione di chi la
fotografia l’ha vissuta quale occasione per portare il proprio tempo all’eredità dei
posteri.
La spinta epistemofilica che muove le grandi masse a concorrere con i media
istituzionali, o più generalmente coi professionisti, benché contribuisca alla
circolazione delle informazioni, contiene un inquietante interrogativo, e per quanto
ciò possa risultare antipatico, sono convinto che se ne uscisse dominante il pericolo di
venir privati della propria storia diverrebbe verosimile. Accecati dal desiderio di
libertà – notevolmente sollecitato, nella sua rielaborazione acritica, dai movimenti
consumistici – abbiamo confuso «l’autoritarismo con l’autorevolezza, per cui risulta
molto difficile oggi far capire che occorre ristabilire un qualche rapporto tra sapere e
potere, tra il merito e il suo riconoscimento» [Perniola, 2009]. Se la massa, alleata con
la tecnologia informatica, diventerà in un futuro il soggetto storico dominante, allora
essa sarà l’ultimo soggetto storico, la cui escatologia realizzata sarà la fine stessa del
concetto di storia. In un mondo così ipermediato verrà frustrata ogni possibile
mediazione, e la sovraesposizione dei contenuti, come un tempo accadeva per le
matrici fotografiche, riporterà tutto al bianco assoluto. Al nulla.
Mirko Orlando
Bibliografia
Benjamin W.
1940 “Tesi di filosofia della storia” Milano; Mimesis, 2012.
Bourdieu P. (a cura di)
1965 “Un art moyen: essais sur les usages sociaux de la photographie” trad. it.
“La fotografia: usi e funzioni sociali di un’arte media” Rimini; Guaraldi, 2004.
Eco U.
2011 “Ero troppo occupato a fotografare e non ho visto” in “La fotografia. Oggetto
teorico e pratica sociale” a cura di V. Del Marco, I. Pezzini, Roma; Nuova cultura.
Nietzsche F.
1874 “Unzeitgemässe Betrachtungen, Zweiterstü, Vom Nutzen und Nachteil der
Historie für das Leben” trad. it. “Considerazioni inattuali (II): sull’utilità e il danno
della storia per la vita” Roma; Newton, 1997.
Perniola M.
2009 “Miracoli e traumi della comunicazione” Torino; Einaudi.
Ritchin F.
2009 “After Photography” trad. it. “Dopo la fotografia” Torino; Einaudi, 2012.
Smargiassi M.
2012 “L’entropia delle immagini” in “Fotocrazia, 10 Aprile” Blog di Repubblica.
Zannier I.
2009 “Storia e tecnica della fotografia” Milano; Hoepli.