Francesco Devescovi - Dipartimento di Comunicazione e Ricerca

La Pallacorda del giornalismo
Dipartimento di comunicazione e ricerca sociale
Sapienza – Università di Roma
22 ottobre 2014
L’informazione è servizio pubblico
(Francesco Devescovi)
La storia della Rai degli ultimi venticinque anni è incentrata su accesi contrasti
sull’informazione, con le opposizioni che parlano di attentato alle libertà, mentre
i partiti di governo sono tendenzialmente favorevoli. La presenza del conflitto
d’interessi ha alimentato ancor più le polemiche. Sono contese spesso
strumentali, ma certamente la Rai ha fatto poco per attenuarle. Nel frattempo i
programmi d’informazione hanno avuto in genere alti ascolti, che si sono
attenuati solo in questi ultimi mesi. Rimane confermato che fra Tv e politica il
legame è sempre ben saldo; al punto che l’appeal di un leader politico continua a
essere misurato dal successo in Tv, più nel talk di intrattenimento piuttosto che
in quelli prettamente d’informazione.
La Rai trasmette, nelle tre reti generaliste, informazione (più l’approfondimento
e lo sport) per il 32% dei generi trasmessi: quindi circa un terzo della
programmazione giornaliera è dedicata in media all’informazione. Se è vero che
l’informazione è il mezzo per la conoscenza, va dato atto che tale mezzo è
piuttosto capiente.
Mediaset non è da meno. Il genere informazione ha una quota pari al 21%.
Ricordo che alla nascita dell’emittenza privata, si dovette imporre per legge che
le Tv commerciali facessero un proprio telegiornale poiché vi era scarso
interesse a investire su un genere poco profittevole, per gli alti costi e i bassi
ritorni di ascolto e di pubblicità (il Tg non può essere interrotto dalla pubblicità).
Il Tg1 e il Tg2 hanno 10 edizioni giornaliere, 7 per il Tg3 e 3 per la TGR (più il
programma “Buongiorno Regione” alle 7:30). Nell’arco delle 24ore giornaliere,
la Rai nell’insieme delle tre reti generaliste trasmette un Tg in media ogni
40minuti. C’è poi il canale dedicato solo all’informazione, Rai News, che ottiene
però scarsi risultati di ascolto (0,6% di share e 59mila ascoltatori in media
nell’intera giornata).
Il rischio di rimanere senza informazione non ce n’è.
La Rai ha 10-11 testate giornalistiche nel settore Tv. Sicuramente tante, e una
razionalizzazione, in particolare dal punto di vista della gestione, sarebbe
auspicabile se non altro al fine del contenimento dei costi. Il progetto però di
ridurre a solo una o due le testate lascia perplessi. In Rai ultimamente c’è una
certa tendenza al pensiero unico, giustificato con la spending, operazione
sacrosanta (considerando che la Rai ha circa 2mila giornalisti e che i conti sono
deficitari) ma che potrebbe intaccare la pluralità e la qualità dell’informazione.
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Ogni rete ha una propria identità, chiamiamola linea editoriale. E’ vero che vi è la
libertà di scegliere i programmi da guardare, ma sempre scatta quasi
automaticamente la scelta della rete. Si apre la serata televisiva premendo il
tasto della “propria” Tv, perché in quella emittente ci s’identifica. Dovessimo
arrivare a non distinguere più il Tg1 dal Tg2 o dal Tg3, se si avesse un
telegiornale unico a reti unificate, sarebbe proprio deleterio oltre che noioso. Il
pluralismo vuol dire dare voce a tutti! Il costo aggiuntivo del pluralismo ha
peraltro un sicuro ritorno nei maggiori ascolti poiché il pluralismo ha il
vantaggio di coprire pubblici diversi per propensione politica. In Rai si è sempre
accettato che il Tg1 fosse filogovernativo, che il Tg2 propendesse per la destra e
che il Tg3 fosse della sinistra. Sarebbe auspicabile che una maggiore attenzione
fosse rivolta ai problemi del paese e ai movimenti sociali più che agli stessi
partiti, ma è giusto che ogni Tg abbia una propria caratterizzazione.
Per esempio, la politica occupa in media il 40% dei servizi del TgLa7, il 33% del
Tg3 e solo il 17% per il Tg1 e il Tg2. La cronaca occupa il 34% nel Tg5, e solo il
24% per il TgLa7, Tg3 e Tg2. Gli esteri hanno un’incidenza del 19% per il Tg1 e
Tg2, mentre è bassa per le altre testate (solo l’11% per il TgLa7 e il 14% per il
Tg5).
Ricordiamo questi 5 eventi, tratti dalla classifica dei primi cinque programmi più
visti dalla nascita dell’Auditel:
o Nel 2006, il confronto su Rai1 fra Prodi e Berlusconi ottenne 16milioni
ascoltatori e il 52% di share. Un successo di ascolto che è un record in
Europa (livelli simili di ascolto si raggiungono negli USA quando c’è il
confronto fra i due candidati alle presidenziali).
o Nel 2013, il programma Servizio Pubblico, su La7, con la presenza da
Santoro di Silvio Berlusconi, ottenne 8,7milioni ascoltatori e uno share
pari al 33%. Per diversi analisti è stata proprio questa performance a
rilanciare Berlusconi, che era dato in calo di consensi.
o Il Fatto, il programma di Enzo Biagi, ottenne nel 1995 12,6milioni
ascoltatori con il 43% di share. Biagi è sempre stato nel mirino della
destra perché considerato troppo orientato a sinistra, e anche perché il
suo programma otteneva buoni ascolti.
o Striscia la Notizia, un programma informativo seppur di satira, è entrato
bel 12 volte nella classifica delle top five nei 27 anni dell’Auditel.
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o Nel 1997, la telecronaca dei funerali di Lady Diana arrivarono al 76% di
share con 10,3milioni ascoltatori (evento che ha il record degli ascolti a
livello mondiale).
Con l’avvento della seconda Repubblica e del conflitto d’interessi, sulla Rai si
sono avuti i maggiori contrasti fra i partiti. Per anni è sembrato che la Rai fosse il
problema primario del Paese. Eppure è noto che chi governa la Rai, perda le
elezioni politiche. Così è avvenuto nelle cinque elezioni politiche che si sono
avute nell’ultimo ventennio. Evidentemente l’attrazione della Rai è così elevata
che i vincitori delle elezioni non possono fare a meno di considerarla una “cosa
propria”. In effetti, la Tv è necessaria nei periodi non elettorali per far accettare
nell’opinione pubblica le scelte di governo.
Si dimentica che l’eccesso di sostegno a un leader può suscitare una reazione
contraria: la Tv permette ai politici di crescere nel consenso, ma con la stessa
velocità, la sovraesposizione può farli precipitare!
Povera Rai! E’ riuscita a sopravvivere nonostante fosse tirata da una parte
all’altra dalla politica e ciò le abbia fatto dimenticare la sua natura di servizio
pubblico. Questi continui contrasti hanno allentato di molto la coesione interna:
è oggi un’azienda come sfibrata, sembra vivere del glorioso passato ma è
timorosa del proprio futuro e per questo si aggrappa al potente di turno.
Qual è la mission del servizio pubblico? Ha ancora senso il servizio pubblico,
finanziato da una tassa, il canone, considerata da molti fra le più odiose?
Non si può sfuggire da questa domanda, ogniqualvolta si affronta il tema del
servizio pubblico. Senza dimenticare che “Servizio Pubblico” non è né mai potrà
essere un’”entità definita”, ma è un “modo di essere” che muta continuamente
secondo le condizioni esterne e interne all’azienda. Quando si parla di Rai è
inevitabile che si combini la coppia Kelseniana fra l’essere e il dover essere, fra
ciò che vediamo e ciò che vorremmo vedere. Va ricordato che il fattore
professionale sia in questo caso predominante. Potremmo anche disegnare il
migliore assetto alla Rai, la più efficiente governance, ma se il suo management
non fosse all’altezza, quel modello si dimostrerebbe fallimentare.
Qual è allora il servizio pubblico ideale?
Quello che integra il mercato e non lo sostituisce. Se si avesse la certezza che il
mercato potesse assolvere tutte le potenzialità del mezzo televisivo, il senso del
servizio pubblico verrebbe meno. Il mercato non può tutto, non fa ciò di cui non
ha interesse a fare poiché non trae un tornaconto economico. Per questo è
necessario avere le televisioni al plurale, i tre modelli di Tv (la commerciale, la
pay e il servizio pubblico) invece di un’unica televisione, la Tv al singolare. E’ il
rischio che corre il nostro paese, per via dell’omologazione della Rai alla Tv
commerciale.
Il servizio pubblico dovrebbe soddisfare queste tre condizioni.
La prima condizione, spesso sottovalutata, è che il servizio pubblico non
dovrebbe comprimere la concorrenza nel mercato pubblicitario, la principale
risorsa del sistema. Più canone (per finanziare due reti generaliste), molto meno
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pubblicità, e abbonamenti (una sorta di canone aggiuntivo) per le offerte
premium (i canali digitali): questo dovrebbe essere il modello di finanziamento.
Stanno nascendo due Tv: quella povera di contenuti, la Tv generalista, e quella
ricca, la Tv a pagamento. Non a caso nell’ultima stagione l’unica vera novità nella
programmazione è stata la serie Gomorra andata in onda su Sky. Nel corso di
quest’anno circa 800mila ascoltatori hanno abbondonato la Tv. La televisione è
sempre stata un servizio universale, c’è la possibilità che diventi dominante la Tv
a pagamento. Il servizio pubblico dovrebbe garantire che ciò non accada e
dovrebbe portare nelle case le migliori produzioni e gli eventi più attesi (cosa
che la Rai sa far bene: vedi gli alti ascolti della pallavolo femminile).
La seconda condizione è garantire la qualità della programmazione. Come in un
gioco degli specchi, tutte le Tv si riflettono nelle altre e tutte si omologano e ciò
avviene nella rincorsa dell’audience che porta spesso allo scadimento dei
programmi. La buona televisione si deve cercarla nelle pieghe della grande
massa di offerta: al momento ci sono ben 88 reti gratuite sul digitale terrestre e
in questa ampia offerta ci sono piacevoli sorprese.
La terza condizione riguarda proprio l’informazione. La Tv nacque per divertire
e informare. E quella Tv era il servizio pubblico. Sull’informazione si gioca la
credibilità dell’azienda pubblica. Il pluralismo non è la sommatoria delle diverse
opinioni, il minimo comun denominatore delle diverse idee, ma la
rappresentazione più fedele della realtà senza un giudizio preconfezionato. Gli
operatori del servizio pubblico dovrebbero offrire un’informazione obiettiva,
non presunte verità, che solleciti il raziocinio e non l’emotività.
Abbiamo visto che la quantità di offerta d’informazione è piuttosto ampia. E
proprio nel periodo in cui il confronto politico è stato più acceso, durante i
governi Berlusconi, gli ascolti hanno ampiamente premiato i programmi
d’informazione, al punto che La7, in tempi recenti, ci ha costruito il proprio
palinsesto con tre-quattro prime serate.
La forte personalità di Berlusconi che ha portato a concentrare su di sé ampie e
incondizionate adesioni così come altrettanti forti contrasti da parte della
sinistra, ha contribuito al successo negli ascolti dei programmi d’informazione.
Santoro, Vespa, Biagi e Floris sono stati i più premiati dal pubblico.
Il sistema elettorale maggioritario, ha determinato la divisione del paese in due
schieramenti, una novità per il nostro sistema politico, abituato a inglobare tutti
piuttosto che escludere metà dell’elettorato. Questa competizione spinta fino
all’inverosimile si è trasformata per la Tv in una manna nel senso che gli ascolti
dei programmi politici, divenuti sempre più schierati, hanno attirato ampie fette
di pubblico, desiderose di specchiarsi nei programmi di riferimento. Ognuno ha
il suo Tg, ognuno il suo talk, e ognuno rimane graniticamente attaccato alle sue
idee.
Un’informazione chiaramente schierata conquista gli ascolti dei suoi fans, ma fa
perdere l’anima dell’informazione pluralista; un’informazione equilibrata è più
corretta ma rischia di allontanare ascoltatori. Denigrare l’avversario, offenderlo,
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urlare, ridurre il dibattito a battute che toccano vicende personali, sono
strumenti in voga nei talk show e che, purtroppo, rendono negli ascolti.
Il servizio pubblico ha l’impegnativo compito di garantire la pluralità delle
opinioni, l’equilibrio della conduzione evitando di rendere il dibattito paludato e
noioso.
Stiamo assistendo al declino della Tv generalista. Nel 2005, Rai e Mediaset
insieme erano scese nell’ascolto dal 90% di share degli anni precedenti all’85%;
nel 2010 sono scesi ancora al 79% e ora sono al 70%. In pochi anni hanno perso
venti punti percentuali, e potrebbero scendere entro pochi anni al 60-50%.
Insomma la grande Tv generalista di una volta rischia di essere sempre più
marginale nello scenario televisivo, mentre la pay si avvantaggia.
Se la televisione generalista è avviata al declino, esploderà invece il consumo di
“pezzi” di programmi, selezionati secondo un personale palinsesto, visti su uno
dei tanti device. Una partita di tennis, per esempio, può durare quattro ore.
Probabilmente l’amante di questa disciplina ne guarderà una sintesi, perché non
ha diposizione così tanto tempo per seguire l’intero match. Di un talk politico si
guaderà il giorno dopo il breve scontro verbale più interessante. Insomma la Tv
in futuro sarà sempre più “spiluccata”. La visione d’interi programmi sul
televisore si riduce, anche per mancanza di tempo, sostituita dalla visione di
parti di programmi, visti sul tablet o sul cellulare. Non a caso fra le attività
mediali dei giovani l’uso del cellulare e di Internet raggiunge il 45% del tempo
mentre quello della televisione solo il 20%.
La crisi della Tv generalista ha trascinato in basso anche gli ascolti dei Tg e dei
talk. Inoltre l’attuale fase politica caratterizzata da una sorta di normalizzazione
fra gli schieramenti allontana il pubblico dai programmi informativi. Quando
non si ha più un “nemico” da combattere, si perde l’interesse per la politica.
Il Tg1 delle ore 20, ha perso dal 2005 a oggi quasi un milione e mezzo di
spettatori, passando da 6,6milioni a 5,1 (lo share è sceso dal 30% al 23%). Il Tg5
ha perso quasi due milioni di ascoltatori e lo share è passato dal 28% al 19%. Il
TgLa7 di Enrico Mentana è passato dal 10% del 2011 all’attuale 6%. Il Tg2
rimane sostanzialmente stabile negli ascolti; il Tg3 passa da 2,4milioni del 2005
a 1,7 milioni (lo share scende dal 16% al 10%), anche la TGR scende da 3,1 a
2,4milioni di ascoltatori.
Porta a Porta è passata 1,9milioni di ascoltatori a 1,3 e lo share è diminuito dal
21% al 12%. Ballarò scende dal 15% al 7% (grazie anche all’infelice cambio del
conduttore).
Va infine rilevato, per ultimo, un’importante variabile, l’invecchiamento degli
ascoltatori della Tv pubblica. La Rai è diventata, infatti, una Tv prevalentemente
per gli anziani: il 62% di chi guarda la Rai ha in media più di 55 anni; mentre per
Mediaset il dato scende al 43% e per Sky al 29%. I giovani da 25 a 44 anni che
guardano in media la Rai sono solo il 16%, 25% per Mediaset e 33% per Sky.
Raiuno è la rete più “vecchia” in assoluto, il 69% dei suoi ascoltatori ha più di 55
anni. Su cento persone, in media solo cinque fra i giovani 25-34 anni guarda
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Raiuno. Per una giovane coppia con bambini, la Rai rischia di esistere solo per
RaiYoYo, per Tata Susina e Capitan Uncino. Chiedere a loro il pagamento del
canone potrebbe essere una forzatura: che senso ha pagare un tributo per un
servizio che si usa solo raramente! Sono in tanti in attesa, appena la rete lo
consentirà, della Tv su Internet.
L’età media degli ascoltatori del Tg1 è pari a 61 anni. Il Tg più “vecchio” è il TG3,
avendo un’età media di ascoltatori pari a 64 anni. Mentre il Tg più giovane è il
Tg5 con un’età media pari a 51 anni.
Fra i tanti problemi che ha oggi la Rai, c’è anche quello non solo di far parlare
tutti ma anche di rivolgersi a tutti, non solo agli anziani.
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