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Ventiquattro
Il momento più bello era quando anche l’ultimo tecnico sgattaiolava via
e tutte le luci si spegnevano
Il momento più bello era quando anche l’ultimo tecnico sgattaiolava via e tutte le
luci si spegnevano. Certe volte riuscivi a intravvedere le sagome prendere posto, infilarsi
dietro una selva di piatti e tamburi o mettersi una chitarra a tracolla, e magari anche a cogliere quel cenno da cui tutto prendeva vita. All’improvviso i riflettori facevano esplodere
luce e colore sul palco nello stesso momento in cui il suono, incredibilmente forte, pieno,
avresti potuto dire solido, s’impossessava delle tue orecchie e della tua pancia, provocandoti un brivido di puro piacere. E loro erano lì per davvero, proprio in quel momento,
vivi, vicini, con i loro vestiti balordi e i capelli lunghi come li avresti voluti anche tu. Cazzo, erano proprio loro! Erano lì a suonare per te e tu eri semplicemente felice. Non sai cosa darei, oggi, per poter provare ancora quella stessa sensazione, quell’impagabile emozione di trovarmi nel miglior posto al mondo in cui potersi trovare in quel
preciso momento. Nonostante abbia un’età che mi consentirebbe di collezionarne parecchi, i rimpianti che provo per le cose della gioventù non sono ancora molti, per mia fortuna. Ma questo pezzo del giovane che ero mi manca tantissimo, e da quando mi manca
io mi sento molto più povero.
Io e la musica siamo da svariati decenni una coppia di quelle che fanno una tremenda fatica a ritrovare la passione di un tempo, quando si rotolava sul letto divorandosi
senza mai sfamarsi. Da anni ormai, per rivivere qualcosa che appena ricordi le emozioni
che ci regalavamo siamo costretti a malinconici viaggi nel passato, perché il presente è un
luogo desolato.
Di tanto in tanto lei ci prova, ad eccitarmi. Sa dove toccarmi ma questo non è sufficiente: io sono sempre più esigente e lei non ha più l’energia e la fantasia di un tempo.
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Come succede a chiunque, siamo cambiati. E come succede in ogni coppia nelle stesse
condizioni uno dei due accusa l’altro di essere cambiato in peggio, di essere diventato un
altro. In questo caso l’accusatore sono io e so quel che dico. Ne ho le prove.
Chissà se qualcuno vissuto durante il massimo splendore del Rinascimento avrà
mai avuto modo di rendersi conto di essere stato in qualche modo un privilegiato. Chissà
se qualcuno, cresciuto tra i Leonardi, i Raffaelli, i Michelangeli e compagnia bella, una
volta davanti alle opere dei loro mediocri figli e nipoti avrà pensato di aver già visto qualcosa di migliore e si sarà sorpreso per i gusti facili del presente. Vai a saperlo. Certo è che
so di aver vissuto in prima fila, insieme ai miei giovani e fortunati coetanei, uno dei periodi
più floridi e generosi di cui la musica leggera abbia mai goduto e con cui abbia fatto godere
l’umanità. Mi sono imposto di scrivere uno dei per un’ipocrita forma di tolleranza, ma
la verità vera è che penso che quello sia stato semplicemente il periodo.
Quando mi capita di esternare questa opinione mi sento spesso ribattere che ognuno di noi s’innamora perdutamente della musica che ha fatto da soundtrack alla sua gioventù, qualunque sia stato il calibro degli autori. È vero, ma è altrettanto vero che l’amore,
per quanto cieco possa essere, alla lunga dovrebbe concedere alla sua vittima quell’onestà
di giudizio sufficiente per riconoscere se il proprio personale cupido l’abbia trafitta per
qualcuno di veramente speciale o no.
Il cupido musicale di tuo padre e dei suoi coetanei aveva soltanto l’imbarazzo della scelta
in una folta schiera di bersagli straordinari. Ti auguro di tutto cuore di poter dire lo stesso
tra una trentina d’anni. Ma senza mentire a te stessa, mi raccomando.
Il primo concerto della mia vita fu pomeridiano e completamente gratuito: due
condizioni a dir poco ideali per uno studente delle medie. Non ricordo in che modo venni
a conoscenza dell’evento, come si usa dire oggi per qualunque fatto non esattamente quotidiano che coinvolga almeno una ventina di persone. So solo che la notizia che i Canned
Heat avrebbero suonato gratuitamente al Teatro Nazionale mi raggiunse in tempo utile.
Chi fossero esattamente i Canned Heat non ero in grado di dirlo, avendoli solo sentiti
nominare e neanche troppe volte. Pensavo che il loro nome avesse a che vedere con il presidente Kennedy, anche se a orecchio sembrava avanzare una misteriosa “t”. Avevano suonato a Woodstock, una referenza più che sufficiente per approfondire la loro conoscenza.
Prova a indovinare con chi mi ritrovai quel pomeriggio in piazza Piemonte, davanti
al Teatro Nazionale. Con l’immancabile Daniele, è ovvio. Ci unimmo alla fiumana che
premeva all’ingresso e malgrado fossimo due pirlini circondati da ragazzoni ci riuscì persino di arraffare un paio dei poster che venivano distribuiti in numero insufficiente alla
calca come i sacchetti di riso ai profughi affamati. Una volta riversati in sala ci accapar205
rammo due buoni posti, e guardandoci intorno soddisfatti cominciammo a pregustarci
ciò che le nostre giovani budella non conoscevano ancora.
Lascio la cronaca dettagliata di quel concerto alla storia periferica del blues rock, ma
voglio dirti che quando sul palco, insieme alle spie rosse degli amplificatori Marshall, si
accese un sound poderoso che nulla aveva a che vedere con il gracchiare fesso del mangiadischi di casa, tuo padre scoprì improvvisamente l’esistenza di una musica suonata capace di
drizzarti i peli sulle braccia, non solo per il suo volume inaudito.
Per la prima volta in vita mia potevo vedere i suoni uscire dai rispettivi strumenti
prima di mischiarsi tra loro. Potevo vedere chi faceva cosa e come lo faceva davanti alle
oleose proiezioni psichedeliche che si muovevano sullo sfondo: agitando la testa in continuazione, andando avanti e indietro sul palco oppure restandosene immobile con gli
occhi chiusi. Potevo scoprire che in quella magia persino un orso da almeno un quintale e
mezzo di peso, tale Bob Hite detto per l’appunto “The Bear”, tutto pancia, barba e capelli
come una versione giovanile di babbo natale, può sembrarti lieve e affascinante più di una
ballerina, anche se ogni tanto, quando si china troppo, dai pantaloni fa capolino la riga
delle sue enormi chiappe. La sua voce roca squassa l’aria e la sua armonica la strazia. E
tutto questo lo senti non soltanto con le orecchie.
Il giorno seguente cominciai a raccogliere le lire necessarie per comprarmi il mio
primo 33, altresì detto long-playing, lp per gli habitué, padellone per gli spiritosi. L’unico
modo in cui non ci saremmo mai sognati di chiamarlo è vinile, come invece si usa adesso.
Conteneva la bellezza di undici pezzi dei Canned Heat e s’intitolava Hallelujah, e mi piace
pensare che non fosse per caso.
In quei tempi remoti l’acquisto di un lp segnava un netto salto di qualità del tuo
status di consumatore di musica. Mentre un 45 giri lo compravi d’impulso, per quella canzone e magari poi più, un 33 giri comportava un acquisto ben più ragionato, non solo per
questioni prettamente economiche. Di un 33 non poteva piacerti soltanto una canzone:
in tal caso non solo avresti buttato via i tuoi soldi pagandone inutilmente una decina, ma
ti saresti pure complicato la vita obbligandoti a sollevare ogni volta il pick-up (che allora
non era un automezzo) per riascoltare l’unico pezzo che t’interessava. Per l’ascolto singolo
ripetuto era molto più comodo ricacciare per l’ennesima volta il piccolo 45 nella fessura
del mangiadischi. Ma i mangiadischi, per quanto ingordi, non avevano una bocca abbastanza larga da accogliere anche un 33, per cui il salto di qualità di cui parlavo coinvolgeva
anche il mezzo riproduttore. A meno che in casa non fosse ancora in funzione una vetusta fonovaligia, per ascoltare un lp ti occorreva un giradischi vero e proprio, possibilmente
stereofonico, ovvero dotato di quella recente trovata tecnologica che ti faceva sentire i suoni
non più completamente mescolati insieme da un solo altoparlante ma sorprendentemente
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divisi tra due. Proprio come se stessero suonando lì, diceva qualcuno.
Per ragionare a dovere sull’acquisto di un 33 si andava in centro a chiudersi dentro
le cabine insonorizzate de La Voce del Padrone, di Ricordi o delle Messaggerie Musicali.
Dopo aver scartabellato a lungo nei raccoglitori, si selezionavano due, al massimo tre lp (di
più le commesse non te ne concedevano) e si incominciava a bivaccare in una delle cabine
del negozio.
Erano poco più grandi di quelle telefoniche, ma dentro ci si doveva stare in due per
potersi scambiare occhiate significative nei passaggi migliori o peggiori. Si schiattava dal
caldo e mancava l’aria, ma ne valeva la pena: si disponeva gratuitamente di un giradischi
stereo di tutto rispetto che si poteva spingere a un volume ben più elevato di quello tollerato
a casa dai genitori. In virtù di queste ed altre doti, le cabine erano mete apprezzate nelle
bigiate liceali, soprattutto in caso di pioggia.
Ben presto gli lp diventarono un accessorio fondamentale della nostra vita di liceali.
Ce li portavamo a scuola sottobraccio per prestarceli o scambiarceli per sempre, per far
colpo sulle ragazze o anche solo per darci un tono. Non dovrei dirtelo, ma imparammo
anche a rubarli dove la logistica poteva consentirlo e dovunque si potesse cogliere l’attimo
fuggente di una commessa distratta e approfittarne senza esitazioni. Di nasconderli non
c’era modo, troppo grandi. Per quanto azzardata, la tecnica più efficace per trafugarli era
una sola: una volta che li avevi selezionati e radunati nel raccoglitore te li mettevi rapidamente sotto il braccio e, come se niente fosse, ti avviavi sfacciatamente verso l’uscita. Davanti alle porte non c’erano ancora i sensori, ma mentre percorrevi a passi lesti i metri che
ti separavano dal marciapiede sentivi le pulsazioni accelerare fin nelle orecchie. Qualcuno
tra i più sgamati occasionalmente li rubava anche su commissione, aggiungendo al brivido
dell’azione un guadagno di solito pari alla metà del prezzo intero.
Ai 45 giri rimanevano fedeli più facilmente le ragazze, pronte a innamorarsi della
prima hit di passaggio e a comprarla subito nel reparto dischi della Standa, dopo averla
ascoltata nelle apposite cornette messe a disposizione della gentile clientela per un assaggio.
Se non era la Standa, era il negozietto di dischi vicino a casa: in ogni quartiere ne trovavi
almeno uno, certe volte era lo stesso che vendeva materiale elettrico e piccoli elettrodomestici. In mezzo ai tostapane, ai ferri da stiro e alle radioline c’erano sempre un paio
di raccoglitori in cui potevi trovare, allineate in ordine alfabetico, le canzoni di maggior
successo del momento, a cominciare da quelle italiane.
Le ragazze amavano i 45 anche perché erano insostituibili nelle feste, e nessuno
amava le feste più delle ragazze. Nelle feste si doveva ballare, mica ascoltare. E per ballare
era necessario saltare in continuazione da un successo all’altro, per di più alternando, già
te lo dissi, pezzi lenti a pezzi veloci. E non esisteva al mondo un 33 capace di assolvere a
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questa funzione fondamentale. Tra i vari compiti di chi organizzava la festa c’era quello di
rastrellare una quantità di 45 giri sufficiente ad alimentarla senza dover esagerare con le ripetizioni. Se consideri che a ogni disco corrispondevano due canzoni e che parecchi lati b
non venivano nemmeno considerati, puoi immaginarti quanto potesse essere voluminosa
la massa di musica solida necessaria e quanto facilmente si sparpagliasse ovunque durante
la festa a furia di essere smanacciata da tutti i presenti, sempre in cerca di quella canzone
che non si trova.
Era un continuo togli e metti, e per questo i giradischi tecnologicamente più avanzati (per dirla con la lingua di oggi) si erano dotati di un accessorio teoricamente molto
utile: una sorta di caricatore in grado di permettere la riproduzione automatica di quattro
o cinque 45 in sequenza. Si trattava di un cilindro da fissare come centro del piatto sul
quale venivano impilati i dischi che sarebbero poi stati fatti scendere uno alla volta grazie alla pressione di un braccio metallico. Teoricamente. Il più delle volte l’aggeggio non
funzionava per molto. Bene che andasse, terminato l’ascolto di un disco il successivo non
riusciva a scendere, per cui il pick-up tornava nuovamente a posarsi sul precedente. Nei
casi peggiori, invece, un disco non completamente sceso sopra gli altri innescava una reazione a catena che si concludeva con una sonora galoppata della puntina non nei solchi
del disco ma direttamente sulla gomma del piatto. Capisci perché il geniale dispositivo
non riscuoteva un grande successo e il togli e metti manuale rimaneva l’unico sistema
affidabile.
Esisteva poi un terzo tipo di supporto musicale, quello di più recente invenzione:
l’audiocassetta, che tutti chiamavamo musicassetta. Un nastrino inscatolato registrabile che
nel giro di qualche anno sarebbe diventato indispensabile per duplicare i dischi altrui
e per sentire la musica in macchina. Ma comprare un album appena uscito sotto quella
forma anziché in 33 giri era una scelta discutibile: se i dischi, a furia di ascoltarli, aggiungevano alla musica un sottofondo di cric e crac (click, pop e crakle per i collezionisti di
oggi), le cassette le assicuravano invece un fruscio costante (hiss) capace di soffocare anche
più brillante dei pezzi. E poi vuoi mettere come ti godevi fotografie e testi nei 30 x 30
centimetri della copertina di un 33 rispetto alla sua versione miniaturizzata in foglietto
che trovavi nel guscio di plastica della cassetta? La sua illeggibile miseria anticipava quella
che avremmo dovuto accettare in seguito e per sempre con l’avvento del compact disc, che
chiudeva per sempre il discorso dei cric, dei crac e fruscii vari ma anche quello del piacere
di guardare, leggere e toccare il disco mentre lo ascolti.
Il concerto dei Canned Heat segnò l’inizio di una stagione così generosa da permetterci di essere vergognosamente selettivi. Dall’imbarazzo della scelta ne uscivi elegantemente rinunciando senza grossi problemi alle esibizioni di quelli che non erano proprio
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ai vertici del tuo gradimento. Potevi permetterti di snobbare concerti che oggi, stante la desolazione del panorama musicale attuale, verrebbero preannunciati come l’evento musicale
dell’anno già dal precedente, rigorosamente sold out dopo i primi due minuti dall’apertura
della prevendita online dei biglietti a prezzi scandalosi. Tu non hai avuto ancora modo di
rendertene conto, ma in questi anni l’esumazione di gruppi e musicisti di quell’epoca sembrerebbe diventata un buon affare. Scarseggiando la qualità del prodotto fresco, si guarda
al surgelato. Talvolta anche all’affumicato. Invece allora era tutto molto più semplice. Non
eri costretto ad aspettare come un deficiente davanti al computer che una biglietteria virtuale si aprisse davanti a un’orda virtuale capace di calpestarti come neanche nel peggior
reale prima ancora che tu possa accennare a un clic. Potevi decidere di comprarti il biglietto per il primo concerto italiano dei (ebbene sì, lo si considerava un gruppo) Santana
anche soltanto qualche giorno prima. Ma potevi anche aspettare che aprisse la biglietteria
la sera stessa del concerto. Nel caso i biglietti fossero stati esauriti, ti rimaneva la speranza
abbastanza concreta di sfondare in compagnia di qualcuno nella tua stessa condizione, perché la parola d’ordine era Musica gratis!, e si trattava di quella dal vivo, mica di fregare le
canzoni dalla rete. Anche senza cattiveria, l’unione faceva la forza, e la forza, dai e dai, fa
spostare chiunque e aprire ogni porta. Basta che tutto succeda in fretta, basta che nasca e
finisca lì, prima che la polizia decida di occuparsene con la sua consueta grazia. In tal caso
poteva finire in battaglia, soprattutto se il concerto si teneva al Vigorelli. Prova a chiedere
ai Led Zeppelin, se ti capita.
Il Velodromo Vigorelli era, per l’appunto, un velodromo, ovvero un posto appositamente costruito durante il fascismo per le corse in bicicletta su pista, uno sport di cui
immagino non sospetti nemmeno l’esistenza ma che una volta richiamava un discreto
pubblico, soprattutto durante la “Sei Giorni”, una kermesse, come la definivano i cinegiornali, durante la quale le gare si succedevano per quasi una settimana filata. C’era persino
il ristorante, in cui mangiare mentre i ciclisti sfrecciavano in pista. Oggi ci fanno le partite
di football americano.
Dopo aver occasionalmente ospitato, nel 1965, l’unico concerto dei Beatles in Italia, il Vigorelli degli anni settanta diventò, insieme al più piccolo Palalido, lo scenario dei
concerti estivi di maggior richiamo. Immagina un piccolo stadio con il prato al centro,
circondato da una pista ovale di legno con le curve paraboliche, a sua volta circondata dalle tribune coperte da una tettoia. Il palco, molto più piccolo di quelle portaerei sulle quali
amano perdersi le rock star di oggi, veniva montato a un’estremità del prato, che per il
resto rimaneva a disposizione del pubblico insieme alle tribune, usate soltanto dai vecchi
che volevano sedersi comodi o da chi voleva limonare e strofinarsi in assoluta tranquillità.
Al Vigorelli c’era posto per tutti e per tutti i modi di godersi lo spettacolo. Via via
che ci si allontanava dal palco, il coinvolgimento nella musica assumeva forme più rilas209
sate. Dove il diradarsi dei corpi lo permetteva, si formavano gruppetti di gente seduta in
circolo nell’erba intenta a produrre e consumare grandi e succulenti cannoni, il cui fumo
denso e profumato s’alzava in pesanti volute come se dovesse comunicare qualcosa all’esterno. Forse alla Celere ancora schierata da qualche parte là fuori. Dove il prato finiva
cominciava il parquet della pista, che a qualcuno, aiutato dai fumi di cui sopra, immancabilmente ispirava un irresistibile gioco: prendere la rincorsa e cercare di risalire la curva
parabolica nel suo punto più ripido, fino a riuscire ad agganciarsi con le dita alla rete che
la separava dalle tribune. Qualcuno ce la faceva, qualcuno perdeva lo slancio a metà strada
e scivolava giù come una pelle d’orso, ma continuava a riprovarci divertentosi come un
pazzo.
Ne vidi un bel po’ di concerti, al Vigorelli. Da Joe Cocker a Santana, da Emerson,
Lake & Palmer al più grande di tutti, Frank Zappa. In una sera di luglio del 1971, convinto
da non mi ricordo più chi, ci andai a sentire i Grand Funk Railroad. Un paio d’ore di
puro hard rock a una quindicina di metri dal palco a svariate decine di migliaia di watt
sottoposero i miei timpani a un trattamento dal quale credo non si siano mai ripresi del
tutto. Mi fischiarono le orecchie per almeno tutto il giorno seguente, e quindi anche durante la ripetizione di matematica prevista nel pomeriggio. Alla mia già scarsa comprensione della materia si aggiunse quella delle parole che l’insegnante sussurrava al di là di
una parete di ovatta. Prima che mi pensasse cretino del tutto decisi di confessarle il mio
handicap e fortunatamente la prese bene.
Che proponesse hard rock, country rock, glam rock, pop rock, prog rock, acid rock o blues
rock, l’offerta era così generosa da permettere a chiunque di scegliersi agevolmente la propria confessione, la propria parrocchia e, all’interno di questa, anche il sacerdote preferito.
Si creavano schieramenti capaci di fronteggiarsi per tutto l’anno scolastico con discussioni
accese quanto inutili, alimentate dalle classifiche di Melody Maker, che giudicavano i
nostri idoli strumento per strumento. Io, come tutti, mi trovai a snobbare per pura faziosità gruppi che avrei riscoperto e apprezzato solo partire da una quindicina d’anni dopo,
in piena carestia. Come altri tristi reduci, mi sorprendevo a comprare in versione cd nice
price quegli stessi album che avrei fatto ingoiare al mio compagno di banco, e ascoltandoli
pensavo però...
In quei tempi di vacche grasse mi lasciai conquistare dai lirismi accademici del progressive, e tra i vari gruppi d’oltremanica che lo suonavano elessi i Van Der Graaf Generator
a miei numi. Il mio amore per loro venne ricambiato in un concerto che mi rimase nel
cuore, e non soltanto perché avevo accanto Elisa. Si tenne al Cinema Teatro Massimo, un
cinema rionale del Ticinese, uno spazio insufficiente pieno all’inverosimile. Molti infatti
non riuscirono ad entrare e fuori si scatenò la tradizionale battaglia con la polizia. Di
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tanto in tanto, dalle uscite di sicurezza che davano sull’esterno filtravano folate di gas
lacrimogeno che aggiungevano pathos a un’atmosfera già pregna. Daniele, in piena fase
reporter, riuscì a scattare un po’ di foto. Ne conservo gelosamente una di Peter Hammill
appoggiato all’asta del microfono in compagnia dei suoi balordissimi pantaloni.
La musica era una componente fondamentale della nostra vita. Musica ascoltata ma
anche suonata. Ovunque ti girassi c’era qualcuno con una chitarra con qualcun altro che
lo stava a sentire o che cantava o che gli rovinava tutto accompagnandolo con dei bongos
fuori tempo o tutte queste cose insieme. Formare un gruppo era essenziale, e non ci voleva
molto. Il difficile, una volta formato, era trovare un posto per suonare in santa pace, ovvero fare un grande casino senza che qualcuno protestasse dopo pochi minuti. Un’utopia.
Anche nella cantina più remota, non appena la batteria cominciava a pestare e il basso
muoveva il pavimento, potevi stare certo che di lì a poco qualcuno si sarebbe palesato per
porre la fatidica domanda ma siete matti?.
Rispetto a noi cittadini, per una volta erano più avvantaggiati quelli che abitavano
fuori Milano, perché riuscivano quasi sempre a rimediare senza troppe difficoltà uno
stanzone polveroso nei meandri di quelle enormi cascine isolate nel mezzo dei campi. Lì,
al massimo, a lamentarsi era qualche mucca. D’inverno, senza riscaldamento e con la nebbia che premeva contro i vetri sottili delle finestre, si gelava. Ma in compenso l’atmosfera
severamente nordica faceva molto copertina, e questo era parecchio gratificante.
Rudi certe domeniche riusciva a impossessarsi della merceria dei suoi genitori e a
trasformarla in sala prove per il suo gruppo, i Joint. La batteria occupava quasi tutto il
negozio, gli altri suonavano appollaiati sul bancone o tra le scatole di bottoni, ma il tutto
era molto suggestivo e qualche dopo avrebbe fatto molto video.
Mi capitava di suonare abbastanza spesso con Rudi, a casa sua, ma non facevo parte
dei Joint, per un motivo molto semplice: io “sapevo” suonare il flauto dolce (avrei venduto
la mia famiglia per un flauto traverso) e l’armonica a bocca, strumenti entrambi bisognosi
di un microfono personale per potersi far sentire quando gli altri sono elettrici, ma i soldi
per un microfono mio (più amplificatore) non ce li avevo. Così ero per forza di cose limitato alle jam (quanto ci piaceva questa parolina!) acustiche, oggi si direbbe all’unplugged.
Un giorno Daniele si comprò dei bongos di buona fattura, così nacque il duo Socotra, nome trovato puntando il dito a caso sull’atlante. Rigorosamente quanto obbligatoriamente acustici, i Socotra anticiparono del tutto casualmente certe interminabili lagne
di stampo etnico che ci avrebbero straziato anni dopo. Il fatto che Daniele non possedesse
il minimo senso del ritmo condannò il duo a una fine prematura quanto doverosa.
A quel punto decisi che era venuto il momento di cominciare a imparare a strimpellare la chitarra. Riuscii a farmi regalare per il mio compleanno una Eko Fiesta, la più
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economica sul mercato, e cominciai a trorturarmi i polpastrelli con il mi minore e il la del
giro iniziale di Venus degli Shocking Blue, che perlomeno non richiedeva barrè.
Oggi dispongo a mio piacere di un’intera orchestra sinfonica, di pianoforti di ogni
genere, di sintetizzatori vintage, di chitarre, batterie, organi, bongos, congas, marimbe, e
anche di un container pieno di strumenti etnici di ogni parte del mondo, sitar, tambura
e tabla compresi. Posso passare dalla strumentazione di Rick Wakeman a quella degli IntiIllimani in meno di un paio di minuti. Ho decine di amplificatori delle migliori marche
e centinaia d’effetti a mia completa disposizione. Tutto questo è dentro il mio computer, e
posso suonarlo quando voglio grazie a una tastiera midi che tua madre mi regalò qualche
compleanno fa. Non mi serve nemmeno una stanza dove poter fare casino, perché nelle
cuffie mi sparo tutto il casino che voglio anche mentre tu stai dormendo.
La fantascienza è arrivata con i suoi prodigi, peccato però che non abbia nessuno
con cui condividerla, nemmeno un amico senza il minimo senso del ritmo.
Mentre nei velodromi, nei palazzetti e nei teatri il meglio del rock in tutti i suoi
suffissi o desinenze dava tutto se stesso al suo irrequieto pubblico, senza merchandising
ufficiale o ufficioso ma anche senza che nessuno si sognasse di guardarti nella borsa o
d’impedirti di fumare qualunque sostanza, la musica entrava nei licei, prendeva possesso
dell’aula magna e organizzava concerti collettivi per i gruppi di quella e d’altre scuole
sulla piazza. Dalle cantine tappezzate di polistirolo e dalle cascine sperdute arrivava di
tutto, e su quei palchi salivano personaggi increduli d’avere finalmente un pubblico da
spettinare con una pasticciata Smoke On The Water o da coinvolgere emotivamente in
un’interminabile Knockin’ On Heaven’s Door, cantata con aria ispirata dalla vergine del
primo banco. L’importante era suonare, a prescindere da tutto, a cominciare dai microfoni che fischiano e dagli amplificatori che ronzano. Ssà…ssà…prova…ssà.
La musica era politica e la politica era musica, che a sua volta era anche sesso e droga e persino amore. Non c’era attimo della nostra vita in cui, potendo, non sottolineasse
il presente con i colori fluorescenti di un evidenziatore. Era l’esaltatore di sapidità dell’esistenza che avevamo nel piatto. Se credessi in un dio, lo pregherei perché anche tu ne possa
godere altrettanto pienamente.
Da ragazzino ci fu un periodo in cui sistemai sul portapacchi del Ciao il mangiacassette, legandolo stretto con gli elastici fatti con le camere d’aria, per poter ascoltare la
musica andando in motorino. Quando nella cassetta girava Born To Be Wild il Ciao e il
Vespino di Daniele che avevo accanto si trasformavano in due chopper diretti verso l’orizzonte infinito di corso Sempione.
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Oggi, nel mio telefono, posso mettere tutta la musica che voglio e ascoltarla dove voglio
grazie a un paio di cuffie leggere e pieghevoli, senza nemmeno un fruscio. Continuo a
cambiarla, sempre alla ricerca di un’emozione che non sia l’ennesimo duplicato di se stessa. Talvolta mi addentro nel jazz, piluccando qua e là senza riuscire a saziarmi del tutto.
Talvolta mi sembra di aver capito che solo le scale di Bach possano ancora condurmi in
qualche luogo sconosciuto. I musicisti di cui vedrei volentieri un concerto se li conto non
arrivano ad occupare le dita di una mano, ma anche da loro temo di venire deluso o semplicemente annoiato.
Se fossi un software, potrei dire di me che mi manca un componente, quel piccolo
ma fondamentale plug-in che consente al programma di leggere la musica anche con il cuore o con la pancia e non soltanto con la testa. Una volta ce l’avevo, forse l’ho perso con gli
aggiornamenti che la vita ti suggerisce periodicamente di fare.
Così, privi del rovente desiderio,
gli uomini qui però vagamente ricordano com’era bello,
ma non riescono da soli a risvegliarlo,
e se incontrano qualcuno il quale può per qualche istante
risuscitare nei loro midolli il brivido, l’orgasmo, la mania
che lassù li riduceva come pazzi
gli sono grati.
(Dino Buzzati)
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