TORQUATO TASSO alle soglie della follia GERARDO MILANI TORQUATO TASSO alle soglie della follia GERARDO MILANI Capitoli 1-3 In copertina: Eugène Delacroix, Tasso nell’ospedale di Sant’Anna (Web Gallery of Art, pubblico dominio) L’idea che l’infelicità di Tasso sia generata dallo scontro con l’ambiente cortigiano appare un’amplificazione romantica tesa a ingigantire la sua figura di poeta-martire. Le ombre che si annidano nel chiuso della sua mente sono un fatto individuale e privato che cambia il suo conflittuale rapporto col mondo ed è all’origine delle sue emozioni... Sommario 1. La vita .............................................................................................................................................. 5 2. L’età dell’oro e dei pastori ............................................................................................................... 8 L’innamoramento di Aminta ........................................................................................................ 9 Coro dell’atto I ........................................................................................................................... 12 3. Le Rime .......................................................................................................................................... 17 3.1 Raccordo della poesia con la musica ................................................................................... 17 3.2 Al Metauro ........................................................................................................................... 20 3.3 A le gatte de lo spedale di S. Anna ...................................................................................... 24 4 La Gerusalemme liberata ............................................................................................................... 26 4.1 La poetica: il vero condito in molli versi ............................................................................. 26 4.2 Il proemio della Gerusalemme ............................................................................................. 27 4.3 I temi e l’intreccio ................................................................................................................ 28 4.4 Lo stile e il linguaggio ......................................................................................................... 30 4.5 Ares e Afrodite ..................................................................................................................... 32 4.6 Il sentimento religioso .......................................................................................................... 32 4.7 I personaggi .......................................................................................................................... 33 4.8 Il meraviglioso ..................................................................................................................... 35 4.9 La natura e il paesaggio ....................................................................................................... 36 4.10 Le letture della Gerusalemme ............................................................................................ 37 Canto II - Olindo e Sofronia ..................................................................................................... 39 Canto VII - Erminia fra i pastori ................................................................................................ 45 Canto XII - Il duello di Clorinda e Tancredi .............................................................................. 50 Dalle parole alle immagini: La pittura di Iacopo Tintoretto ................................................... 56 E ai suoni: Lo stile concitato di Claudio Monteverdi ................................................................ 57 Canto XIII - Tancredi nella selva incantata ............................................................................... 57 Canto XVI - Il giardino d’Armida .............................................................................................. 66 Canto XX - Gildippe e Odoardo, morte di Solimano ................................................................ 70 5 Le Lettere ....................................................................................................................................... 76 6 I Dialoghi ....................................................................................................................................... 78 7 Le ultime opere .............................................................................................................................. 80 Nota critica ......................................................................................................................................... 83 3 Scrissi di vera impresa e d’eroi veri, ma li accrebbi ed ornai, quasi pittore che finga altrui di quel ch’egli è maggiore1, di più vaghi sembianti e di più alteri: poscia con occhi rimirai severi l’opra, e la forma a me spiacque e ’l colore, e s’altra ne formai, mastro migliore, non so se colorirla in carte io speri2: ch’egro e stanco da gli anni, ove più rare tenti le rime far, men piaccion elle, e ’n minor pregio io son che già non era3: pur non langue la mente, e prigioniera esce dal carcer suo: né quel che pare, ma l’orme scorge e vere e pure e belle4. [Al signor Raffaello Gualterotti, risposta] (dalle Rime, CCXLII) Nella tormentata esistenza di Torquato Tasso, turbata fin dagli anni della fanciullezza e dell’adolescenza da dolorose vicende familiari, la letteratura, e nient’altro, diviene in età precoce la sua passione e la sua ragione di vita, la sua precaria risorsa contro i colpi dell’ “avversa fortuna”. La storia della sua vita è iscritta nella Gerusalemme liberata, specchio del suo dramma interiore e delle insanabili lacerazioni della sua epoca. 1 ho narrato una vera storia, la Crociata, e ho descritto eroi veri, ma li resi più grandi e più belli, come un pittore che immagini alcuno più grande di quanto egli è, d’aspetto più leggiadro e dignitoso 2 e se immaginai di scrivere un’altra opera, essendo migliore artefice, non so se posso sperare di raffigurarla nelle mie carte 3 reso malato e stanco dagli anni, quando mi accingo a comporre più rare rime, tanto meno esse piacciono e io mi trovo in condizione di minor stima di quanto già non ero 4 eppure la mia mente non vien meno e libera esce dal carcere dei sensi: e scorge non quel che appare, ma le vere impronte della bellezza ideale 4 1. La vita Torquato Tasso nacque a Sorrento, in Campania, nel 1544 da Porzia de’ Rossi, gentildonna napoletana. Suo padre Bernardo, discendente da un’antica e nobile famiglia bergamasca, era un letterato al servizio di Ferrante Sanseverino, principe di Salerno, schierato dalla parte della Francia al tempo della guerra di Francesco I contro Carlo V d’Asburgo. Essendo il Sanseverino caduto in disgrazia del viceré di Napoli don Pedro de Toledo, Bernardo fu costretto a seguire il suo signore in esilio in Francia. Nel 1554 egli si trovava a Roma e da qui chiamò presso di sé il piccolo Torquato, che dovette lasciare la madre, morta due anni dopo, senza più rivederla. Da allora il fanciullo visse senza famiglia e senza stabile dimora, in compagnia (ma solo per brevi periodi) del padre, col quale ebbe un rapporto di profonda e struggente intimità, accompagnato da oscuri sensi di colpa: esperienze che contribuirono a rendere fragile il suo carattere, a instillare nel suo animo un senso di smarrimento accompagnato negli anni successivi dalla memoria degli affetti domestici, evocati con lo straziante rimpianto di una felicità perduta. Presto le peripezie del genitore lo costrinsero ad abbandonarlo e a rifugiarsi a Bergamo sotto la guida affettuosa del precettore don Giovanni Angeluccio. Nel 1557 si ricongiunse col padre, insieme con il quale visse a Pesaro e a Urbino nel palazzo dei duchi celebrato da Castiglione nel suo Cortegiano. Sono questi gli anni in cui iniziò il suo noviziato nelle corti e in cui compose i primi versi. In seguito, per volontà del padre, dopo un breve soggiorno a Venezia, si trasferì a Padova per studiare legge, ma qui Torquato preferì dedicarsi alla letteratura e frequentare la casa di Sperone Speroni, dove si discuteva di questioni di estetica e di retorica. Si iscrisse ai corsi di filosofia e ascoltò le lezioni di Carlo Sigonio sulla Poetica di Aristotele. Nel 1559 compose il primo libro del Gierusalemme, ma lo interruppe per dedicarsi alla composizione di un poemetto cavalleresco in dodici canti sul modello ariostesco, il Rinaldo, poi pubblicato nel 1562 e dedicato al cardinale Luigi d’Este. Nel frattempo aveva aiutato il padre nella correzione e nella stampa dell’Amadigi e iniziato la scrittura dei Discorsi dell’arte poetica. A questi anni risalgono le prime liriche d’amore ispirate da due gentildonne, Lucrezia Bendidio e Laura Peperara. Nel 1565 da Padova si trasferì a Ferrara, alla corte degli Estensi 5 , preceduto dalla notorietà conquistata con la pubblicazione del Rinaldo. Qui ottenne la stima e la protezione delle principesse Lucrezia ed Eleonora. Dapprima fu al servizio di Luigi d’Este e poi, dal 1572, di Alfonso II con il titolo di gentiluomo di corte, con un compenso fisso e con il solo obbligo di scrivere poesie in onore della casa ottenendo in cambio il riconoscimento del suo prestigio intellettuale. È questo il periodo in cui decise di riprendere il progetto, da sempre sognato, di un poema epico sulla prima Crociata. Sono gli anni migliori, turbati tuttavia nel 1569 dalla morte del padre. Anni nei quali si consuma il definitivo matrimonio con la letteratura: la gloria letteraria è la strada obbligata da percorrere come rivincita contro la fortuna avversa. Il 1573 fu l’anno in cui Torquato rappresentò a corte l’Aminta, dramma pastorale dai toni patetici e voluttuosi. Ammirato e invidiato per il suo ingegno brillante, la destrezza nei duelli, la piacevolezza del suo conversare, sembrò incarnare a perfezione il tipo rinascimentale del cortigiano aristocratico, dell’artista eletto, amante del lusso e disprezzatore delle occupazioni del mondo e della “plebe”. Incantato dalle meraviglie della corte e sedotto dai suoi stessi successi coltivò la sua illusione di grandezza con infantile e indifesa ingenuità fino a quando i suoi sogni cessarono di coincidere con le sue anacronistiche aspettative. Cominciò a insinuarsi, o meglio, a risvegliarsi nel suo animo una traccia inquietante di malinconia, il senso latente del proprio fallimento. L’immaginazione, consumata da uno spossante impegno creativo, esaurì tutte le sue risorse. Il confronto sempre più duro con la realtà della corte, fatto di compromessi, di umiliazioni e di emarginazioni divenne via via più gravoso e insostenibile tanto che cominciò a farsi strada tra mille turbamenti un desiderio di fuga, la ricerca vana di un altrove accompagnata da un confuso e contraddittorio sentimento di rivolta contro la soffocante gerarchia delle istituzioni incarnate dal potere accademico, politico e 5 Ferrara fu un ambiente ideale. In questa città G:B. Giraldi Cinzio aveva promosso studi sul poema epico, sul teatro e su un nuovo genere letterario, il dramma pastorale. 5 religioso. La fase più drammatica ebbe inizio intorno al 1575, quando il poema sulla Crociata (il titolo era ancora incerto) giunse al suo compimento. La coincidenza non era casuale: la gioia del successo ben presto lo abbandonò e subentrò un senso profondo di smarrimento, la percezione di un vuoto incolmabile insieme con la fine inevitabile del sogno, ormai realizzato, della sua vita. Una fine, un compimento che Torquato non ebbe la forza interiore di accettare poiché esso non riguardava solo un capitolo chiuso della sua esistenza, ma coincideva interamente con essa, con la sostanza profonda del suo essere, con la costruzione del senso della sua identità. Di qui, per tutto il resto della vita, la sua ossessione di continuare, il suo accanimento tormentoso nella correzione e nella revisione del testo, i dubbi, gli interni contrasti, le discussioni stizzose con i suoi interlocutori, fino all’inevitabile conclusione: il rinnegamento e la riscrittura del poema con il nuovo titolo di Gerusalemme conquistata. Siamo nel 1593, a due anni dalla morte. Il patetico tentativo di ridefinire la propria esistenza, di riscrivere una “poststoria” di se stesso fallisce: ormai Torquato ha voltato definitivamente le spalle al Rinascimento. Ad aggravare la situazione, a trasformare il malessere in dramma contribuirono anche le preoccupazioni moralistiche, gli scrupoli religiosi, le pressioni oggettive del clima controriformistico, le invidie dei cortigiani. Su questi aspetti si è molto insistito, ma in realtà le circostanze esterne incidono in misura marginale, l’idea che l’infelicità di Torquato sia generata dallo scontro con l’ambiente cortigiano appare un’amplificazione romantica tesa a ingigantire la sua figura di poeta-martire. Le ombre che si annidano nel chiuso della sua mente sono un fatto individuale e privato che cambia il suo conflittuale rapporto col mondo ed è all’origine delle sue emozioni negative intense e intermittenti: l’ansia, la depressione, l’ira, i vaneggiamenti. Convinto di essere in pericolo di eresia e di aver peccato per eccesso in “amori” e “incanti”, Torquato decise di affidare il suo poema a una commissione di revisori, tra cui Scipione Gonzaga e Sperone Speroni. Poi, nel 1577, si presentò all’Inquisitore di Ferrara per essere esaminato. Venne assolto, ma non soddisfatto volle appellarsi a Bologna e a Roma. Intanto, col titolo provvisorio di Goffredo il suo poema comincia a suscitare l’attenzione dei lettori, fino a quando nel 1581, contro la sua volontà, venne pubblicato in due edizioni, a Parma e a Casalmaggiore, da Angelo Ingegneri col titolo di Gerusalemme liberata. Nel frattempo i rapporti a corte sono ormai deteriorati. Dopo vari episodi imbarazzanti (tra cui l’aggressione subìta da parte di un cortigiano) Torquato nel giugno del 1577, in preda all’ira, in presenza di Lucrezia lanciò un coltello contro un servitore da cui si credeva spiato. Rinchiuso, su ordine del duca, nel convento di san Francesco per essere curato del suo “umor malinconico”, ne fuggì, solo e senza mezzi, e iniziò un penoso peregrinare in varie città, tra cui Sorrento, dove, travestito da pastore, si presentò alla sorella Cornelia annunciandole la propria morte. Cornelia, sopraffatta dal dolore, svenne e Torquato, rasserenato, le si svelò. Nel 1578 tornò a Ferrara, ma da qui presto si allontanò, sempre incalzato dal suo bisogno di fuggire altrove. Dopo vari soggiorni (tra cui ad Urbino presso il suo amico Francesco Maria della Rovere) nel 1579 tornò a Ferrara, e qui, in occasione delle nozze del duca con Margherita Gonzaga, ebbe accessi d’ira nei confronti dei cortigiani e dello stesso duca, che reagì allo scalpore suscitato dal comportamento del poeta facendolo rinchiudere come “frenetico” nell’ospedale di sant’Anna a tragico corollario del suo isolamento spirituale. Vi restò dal 1579 al 1586 e dopo quattordici mesi di dura segregazione gli fu permesso di scrivere e uscire per brevi passeggiate. In questi anni terribili alternò lunghi periodi di lucidità a fasi di ottundimento dell’attività psichica. Lo terrorizzò lo spettro dell’eresia. Subì allucinazioni, inquiete visioni di misteriosi folletti, ombre di topi. Lo tormentarono sofferenze fisiche, dolori d’intestino, di fianco, di cosce, vomiti, fischi, tintinnii negli orecchi e nella testa. I suoi sensi di colpa, le sue manie di persecuzione si accentuarono. Come testimoniano le sue numerose lettere, tentò inutilmente di invocare un aiuto, un conforto alla sua solitudine spirituale a questo e quello. Nel 1581, come s’è accennato, lo turbò profondamente la notizia della pubblicazione, a sua insaputa, della Gerusalemme, un evento “luttuoso” che egli considerò probabilmente come una sorta di perdita irrimediabile e che certamente considerò come 6 un’intollerabile violazione del suo rapporto, geloso ed esclusivo, con la sua creatura6. A questo periodo di carcerazione risalgono la maggior parte delle Lettere, delle Rime, l’Apologia in difesa del suo poema, e i Dialoghi, documento sconcertante delle sue drammatiche esperienze. Una volta tornato libero per intercessione di Vincenzo Gonzaga, si rifugiò sotto la sua protezione a Mantova portando a termine gli abbozzi di una sua tragedia, il Galealto re di Norvegia, col nuovo titolo di Re Torrismondo. Il soggiorno a Mantova costituisce uno degli ultimi e brevi contatti con l’ambiente cortigiano. Riprendono poco dopo le sue disperate peregrinazioni, aggravate anche da preoccupazioni economiche, da un’interminabile causa relativa alla dote materna e dal problema dell’eredità paterna incamerata dal fisco. Torquato fu a Modena, Bologna, Macerata, Loreto, Napoli, Roma. Scrivere significò per lui sentirsi ancora vivo: condusse a termine, oltre al rifacimento della Liberata, il Mondo creato, epopea religiosa della creazione degli astri e degli esseri viventi. La forza consolatoria della religione ispirò le tarde Rime e i poemetti, tra cui le Lagrime di Maria Vergine, le Lagrime di Cristo, il Monte Oliveto. A Roma, dove Clemente VIII gli aveva assegnato una pensione, si ritirò nel convento di sant’Onofrio sul Gianicolo. Lì morì, in seguito a una violenta febbre, il 25 aprile 1595. 6 Qualche mese più tardi, nel giugno dello stesso 1581, Torquato diede la sua approvazione a una nuova edizione, offerta al duca Alfonso, condotta, come scritto nella prefazione, sul testo “che questo eccellentissimo Poeta ultimamente ricorresse ed emendò”. Ciò non valse a spegnere la sua inquietudine e a farlo recedere dal disegno di riscrivere il suo poema, come risulta anche dal sonetto che abbiamo sopra riportato. 7 2. L’età dell’oro e dei pastori Il primo capolavoro di Tasso, l’Aminta, rappresentato nei giardini dell’isoletta di Belvedere a Ferrara nel 1573, s’inserisce nell’atmosfera cortigiana del tardo Rinascimento, di cui evoca gli ultimi bagliori nell’aura incantata del locus amoenus, nel paradiso dei pastori dove regnano incontrastati la natura e l’amore. L’azione scenica del dramma pastorale (Tasso la chiamò “favola boschereccia”), in cinque atti, è sviluppata sul modello dei carmi dialogati, gli Idilli e le Bucoliche, rispettivamente di Teocrito e di Virgilio, legati al genere della poesia bucolico-pastorale. Un genere che sceglie le trame e i personaggi tra i pastori e i contadini e che ha per argomento la vita agreste sullo sfondo di una natura idealizzata, luogo immaginario di evasione, di serenità e armonia. Si tratta di una tradizione originata tra le popolazioni greche della Sicilia, che l’umanesimo e il rinascimento assorbono a un livello di raffinata sofisticazione. Ad essa si aggiungono come antecedenti letterari il Ninfale fiesolano di Boccaccio, le Stanze di Poliziano, l’Arcadia di Sannazzaro e il teatro cortigiano cinquecentesco. Il plot, ossia l’intreccio, è semplice e lineare, senza le complicazioni narrative che si possono rintracciare, ad esempio, nel Pastor fido di Guarini. La vicenda, incentrata su una storia d’amore, dopo una serie di peripezie si conclude nel lieto fine. Le azioni, piuttosto che rappresentate sulla scena, vengono narrate nei dialoghi tra i vari personaggi, dando così agli spettatori, nell’atmosfera complice del racconto, la suggestione del fiabesco esistere di un altrove (il bosco). Silvia, una ninfa dedita alla caccia, disdegna l’amore di Aminta, un pastore dall’animo appassionato. Dopo il prologo di Amore, entrano in scena il pastore Tirsi e la ninfa Dafne. Mentre Dafne esorta la ritrosa Silvia a cedere alle gioie della seduzione amorosa, Tirsi ascolta, commosso, le confidenze di Aminta. I due suggeriscono al giovane di recarsi alla fonte dove Silvia è solita bagnarsi e di confessarle il suo amore. Aminta segue il consiglio e, giunto alle acque, scorge Silvia aggredita da un satiro e legata nuda a un albero. La libera, ma Silvia, vergognosa della propria nudità, fugge senza dire una parola. In seguito viene scoperto il velo di Silvia macchiato di sangue. Aminta viene a sapere dalla ninfa Nerina che Silvia è stata sbranata dai lupi. Disperato, tenta di uccidersi gettandosi da una rupe. In realtà Silvia è ancora viva (ha perso il velo inseguendo un lupo). Ella è profondamente commossa dal gesto del pastore, che crede morto, e piangendo si getta sul suo corpo. È il momento più drammatico: Ma, come Silvia il riconobbe, e vide le belle guancie tenere d’Aminta iscolorite in sí leggiadri modi che vïola non è che impallidisca sí dolcemente, e lui languir sí fatto che parea già ne gli ultimi sospiri essalar l’alma: in guisa di baccante7 gridando e percotendosi il bel petto, lasciò cadersi in su ’l giacente corpo: e giunse viso a viso e bocca a bocca. (Atto V, sc. I, vv. 1934-1943) Dal pastore Elpino sappiamo in realtà che Aminta è solo svenuto: un provvidenziale cespuglio ha scongiurato la catastrofe. Quando riprende conoscenza si trova tra le braccia della sua amata, finalmente innamorata e pronta alle nozze. Venere nell’epilogo cercherà Amore tra il pubblico dei cortigiani per celebrare il trionfo sul desiderio di morte e la gioia dei sensi. L’espediente, suggerito da un carme di Mosco, rivela il proposito di Tasso di coinvolgere gli spettatori nella 7 baccante: nome delle donne che, in preda a furiosa passione, nelle feste di Bacco danzavano gridando e cantando. L’abbandono sensuale dell’ombrosa Silvia scandisce il trionfo dell’amore sulla morte. Tutta la vicenda, ribaltandone il finale in senso lieto, evoca il racconto mitico di Venere, dea dell’amore, che grida la sua disperazione sopra il corpo esanime di Adone, il giovinetto da lei amato, straziato da un cinghiale. 8 rappresentazione scenica con un singolare effetto di teatro nel teatro. L’opera in versi endecasillabi e settenari (simile nella sua struttura metrica a un lungo madrigale) è un capolavoro di perfezione tecnica, intriso di una sensualità venata di malinconia. Il dissidio tra le lusinghe della natura e i limiti imposti all’uomo dai condizionamenti del mondo reale segna il distacco dalla visione antropocentrica propria del rinascimento. La spiritualità controriformistica contrappone all’ardore dei sensi il sentimento del peccato. Il contrasto non si risolve nell’ascesi, come accadrà al Tasso maturo, ma piuttosto nel rimpianto nostalgico di una mitica età dell’oro, di un Paradiso dell’innocenza perduta. Un aspetto drammatico e inquietante della favola è costituito dal problema del male, incarnato dalla figura antagonista del Satiro innamorato. L’eros, con questo personaggio, si converte in violenza, il desiderio amoroso in volontà di stupro. Il gesto estremo del Satiro trova un’autogiustificazione nella sua condizione di escluso, nella sua orgogliosa contrapposizione alle mollezze effeminate dei pastori-poeti, che è come dire il mondo cortigiano. Emerge nell’episodio un’arcaica concezione della donna come preda, su cui “scaricare la componente violenta del desiderio” (G. M. Anselmi). Così recita nella sua autodifesa il Satiro brutale: Ma perché in van mi lagno? Usa ciascuno quell’armi che gli ha date la natura per sua salute: il cervo adopra il corno, il leone gli artigli, ed il bavoso cinghiale il dente; e son potenza ed armi de la donna bellezza e leggiadria; io, perché non per mia salute adopro la violenza, se mi fe’ Natura atto a far violenza ed a rapire? (Atto II, sc. I, vv. 795-803) L’innamoramento di Aminta Il giovane Aminta, personaggio timido, schivo ed infelice, confida al maturo Tirsi (forse il poeta stesso) le vicissitudini del suo non corrisposto innamoramento. Prima di confessargli il bacio ottenuto da Silvia con un “gentile” inganno, in una parte precedente dell’episodio, che qui non riportiamo, egli evoca con nostalgia la sua fanciullezza vissuta in mezzo a una natura in fiore, la sua amicale intimità con Silvia (la più vaga e cara verginella/ che mai spiegasse al vento chioma d’oro) e l’inquieto insorgere nel suo animo del sentimento amoroso: un’estranea dolcezza/ che lasciava nel fine/ un non so che d’amaro. (da “Parnaso Italiano”, TorquatoTasso, Giulio Einaudi ed. Torino, 1961) AMINTA A l’ombra d’un bel faggio Silvia e Filli sedean un giorno, ed io con loro insieme, quando un’ape ingegnosa, che cogliendo sen’ giva il mèl per que’ prati fioriti8, a le guancie di Fillide volando, a le guancie vermiglie come rosa, le morse e le rimorse avidamente: ch’a la similitudine ingannata9 forse un fior le credette. Allora Filli cominciò lamentarsi, impazïente 441 445 450 8 Che…prati fioriti: se ne andava cogliendo il miele per quei prati fioriti. La storia dell’ape è ispirata dal romanzo grecoalessandrino di Achille Tazio (II sec. d. C.), Gli Amori di Clitofonte e di Leucippe. Il motivo è presente anche nella poesia di Ronsard e nella pittura di Lucas Cranach il Vecchio. Filli o Fillide è la compagna di Silvia e Aminta 9 la similitudine ingannata: l’ape è ingannata dal fatto che le guance di Fillide sembravano rose 9 de l’acuta puntura: ma la mia bella Silvia disse: – Taci, taci, non ti lagnar, Filli, perch’io con parole d’incanti leverotti il dolor de la picciola ferita. A me insegnò già questo secreto 10 la saggia Aresia , e n’ebbe per mercede 11 quel mio corno d’avolio ornato d’oro – . Così dicendo, avvicinò le labra 12 de la sua bella e dolcissima bocca a la guancia rimorsa, e con soave susurro mormorò non so che versi. Oh mirabili effetti! Sentí tosto cessar la doglia, o fosse la virtute di que’ magici detti, o, com’io credo, la virtú de la bocca, che sana ciò che tocca13. Io, che sino a quel punto altro non volsi14 che ’l soave splendor degli occhi belli, e le dolci parole, assai più dolci che ’l mormorar d’un lento fiumicello che rompa il corso fra minuti sassi, 15 o che ’l garrir de l’aura infra le frondi , allor sentii nel cor novo desire d’appressare a la sua questa mia bocca; e fatto non so come astuto e scaltro più de l’usato (guarda quanto Amore aguzza l’intelletto!) mi sovvenne 16 d’un inganno gentile co ’l qual io recar potessi a fine il mio talento17: che, fingendo ch’un’ape avesse morso il mio labro di sotto, incominciai a lamentarmi di cotal maniera, che quella medicina, che la lingua non richiedeva, il volto richiedeva. La semplicetta18 Silvia, pietosa del mio male, s’offrí di dar aita a la finta ferita, ahi lasso, e fece più cupa e più mortale 455 460 465 470 475 480 485 490 10 Aresia: una ninfa e n’ebbe…d’oro: ed ebbe per ricompensa quel mio corno d’avorio ornato d’oro 12 L’accenno alla “bella e dolcissima bocca” esprime un desiderio struggente. L’ardore sensuale di Aminta ora si nutre solo del ricordo di un bacio. 13 .o fosse…tocca: o fosse per il potere di quelle parolette magiche o, come io credo, per il potere di quella bocca che guarisce tutto ciò che sfiora con le sue labbra. 14 volsi: volli 15 assai più dolci…frondi: assai più dolci del mormorio di un lento fiumicello che interrompe il suo corso urtando i piccoli sassi o del frusciare del vento tra le fronde. 16 inganno gentile: l’espressione, pressoché intraducibile, assume quasi il valore di un ossimoro. L’inganno non è premeditato, è piuttosto un’intuizione suggerita da Amore (e dunque “gentile”), un impulso irresistibile che s’impone alla mente confusa e turbata di Aminta. Si noti l’aggettivo “gentile”, che evoca atmosfere stinovistiche. 17 recar…talento: potessi soddisfare il mio desiderio 18 semplicetta: ingenua, innocente. L’aggettivo ci dà tutta la misura della grazia e della tenerezza con cui Tasso racconta la storia d’amore 11 10 la mia piaga verace, quando le labra sue giunse a le labra mie. Né l’api d’alcun fiore còglion sí dolce il mèl ch’allora io colsi da quelle fresche rose, se ben gli ardenti baci, che spingeva il desire a inumidirsi, raffrenò la temenza e la vergogna, o felli 19 più lenti e meno audaci . Ma mentre al cor scendeva quella dolcezza mista 20 d’un secreto veleno , tal diletto n’avea che, fingendo ch’ancor non mi passasse il dolor di quel morso, fei21 sí ch’ella più volte vi replicò l'incanto. Da indi in qua andò in guisa crescendo il desire e l’affanno impazïente 22 che, non potendo più capir nel petto, fu forza che scoppiasse; ed una volta che in cerchio sedevam ninfe e pastori, 23 e facevamo alcuni nostri giuochi , che ciascun ne l’orecchio del vicino mormorando diceva un suo secreto, – Silvia, – le dissi, – io per te ardo, e certo 24 morrò, se non m’aiti –. A quel parlare chinò ella il bel volto, e fuor le venne un improviso, insolito rossore che diede segno di vergogna e d’ira25; né ebbi altra risposta che un silenzio, un silenzio turbato e pien di dure minaccie. Indi si tolse, e più non volle né vedermi né udirmi. (Atto I, scena seconda) 495 500 505 510 515 520 525 19 se ben…audaci: sebbene il timore e la vergogna raffrenassero gli ardenti baci, così ardenti che il desiderio spingeva a inumidire le labbra, e li facesse meno intensi e meno audaci. Si noti l’audace anastrofe del soggetto (il timore e la vergogna) collocato dopo il verbo e l’uso singolare del verbo (raffrenò) in presenza di due soggetti, come se il timore e la vergogna fossero tutt’uno. Silvia ama Aminta come un fratello e non avverte nel bacio la passione amorosa 20 d’un secreto veleno: è un veleno dolce-amaro che nutre e accresce l’intensità dell’ardore 21 fei: feci 22 capir: entrare, essere accolto nel petto 23 Si accenna a un gioco di società, che consisteva nel sussurrare qualche parola all’orecchio di una donna, che doveva rispondere ad alta voce. A sua volta un altro dei partecipanti al gioco doveva indovinare quello che era stato detto in segreto. Ci descrive questo gioco Scipione Bargagli (1540-1612) nel suo Dialogo dei giuochi che ne le vegghie senesi si usano di fare. Ne troviamo un accenno anche nell’Orlando furioso (VII,21). Il riferimento connota l’atmosfera galante e “spensierata” del modello di società a cui la favola è diretta per un’estetica dell’intrattenimento 24 aiti: aiuti 25 Ira: per l’inganno subìto e per un desiderio che nel bacio ha violato la sua intimità. Tasso è uno straordinario conoscitore dell’animo femminile, in questo caso incarnato da una donna dal cuore di pietra. Si aggiunga che l’ira, causa di molteplici sventure, è motivo che ritorna con insistenza nella poesia tassiana 11 GUIDA ALL’ANALISI Struttura Metro: alternanza di endecasillabi e settenari sul modello dei madrigali. Il racconto di Aminta interpreta, nella sua essenza profonda, il carattere idillico ed elegiaco, erotico e nostalgico, del genere letterario che prende il nome di favola pastorale. Le azioni che essa rappresenta sono popolate da personaggi mitologici sullo sfondo di paesaggi naturali impervi e boscosi. Tasso definisce il dramma “favola boschereccia”. Temi e forme Tutta la vicenda è incentrata sulla storia di un bacio sottratto furtivamente, uno “scherzo”, insieme malizioso e innocente, che risponde a un gusto giocoso del tempo. La love story dei due giovinetti, volta a soddisfare le esigenze di un pubblico fatuo e raffinato, si svolge in un’atmosfera di sogno, senza accenti forti e drammatici, evocata da versi leggeri, dolci, apparentemente spontanei, ma in realtà frutto di una sofisticata sapienza letteraria che alterna notazioni liriche e pause narrative. Esercizi 1) Esegui la parafrasi in prosa del testo. 2) Individua la distribuzione degli accenti ritmici nei settenari. Ricorda che nei settenari gli accenti possono cadere sulle sillabe 1-6; 1-4-6; 2-6; 3-6; 4-6. 3) La dichiarazione d’amore, la scena dei baci, i giochi di società insieme con i motivi che l’accompagnano, le malizie, il desiderio, il timore, il pudore ritroso e la vergogna, lasciano trasparire sotto il velo allusivo della favola un modello di società organizzata su codici di comportamento sui quali ti invitiamo a soffermarti con opportune riflessioni. 4) Nella scena I dell’Atto secondo compare la figura antagonista del Satiro, creatura mostruosa che vive nella natura selvaggia, caratterizzato da aggressività e lascivia. Il Satiro incarna una sorta di antimondo barbaro e violento che converte l’istinto erotico in istinto criminale in antitesi al mondo dei pastori, luogo idillico di virtù e gentilezza. Leggi l’intero episodio (vv.724-820) e trai spunto per un’analisi dei fattori che scatenano la violenza maschile sulle donne e sulla “cultura” che la favorisce. Coro dell’atto I I cori furono aggiunti da Tasso in un secondo tempo, come commento lirico del poeta e con un intento di comunicazione diretta con gli spettatori. Nel coro dell’atto I Tasso evoca con nostalgico rimpianto la mitica età dell’oro narrata, per la prima volta, dal poeta greco Esiodo, vissuto tra l’VIII e il VII sec. a. C. Legata a una concezione progressiva della storia umana, che contrappone alla decadenza del presente un tempo remoto di pace e felicità, l’età dell’oro è espressione di un’esigenza retrospettiva, frutto di un ripiegamento interiore e di un’evasione fantastica che sostituisce al mondo reale la letteratura, l’universo incantato delle parole. Al mito esiodeo, ripreso nel mondo romano da Ovidio, si contrappone nel Cinquecento la teoria basata sul De rerum natura di Lucrezio, secondo cui il processo di civilizzazione avrebbe reso più accettabile, attraverso il lavoro, la condizione di vita degli esseri umani. CORO 26 27 O bella età de l’oro, non già perché di latte 26 sen’ corse il fiume e stillò mèle il bosco; non perché i frutti loro dier da l’aratro intatte le terre, e gli angui errâr senz’ira o tòsco27; non perché nuvol fosco 656 660 non già…il fiume: non già perché corsero fiumi di latte: l’immagine è tratta dalle Metamorfosi di Ovidio angui…tòsco: le serpi erravano senza ira o veleno 12 non spiegò allor suo velo, ma in primavera eterna, ch’ora s’accende e verna, rise di luce e di sereno il cielo; né portò peregrino o guerra o merce agli altrui lidi il pino28; ma sol perché29 quel vano nome senza soggetto, quell’idolo d’errori, idol d’inganno, quel che dal volgo insano onor poscia fu detto, che di nostra natura ’l feo tiranno30, non mischiava il suo affanno fra le liete dolcezze 31 de l’amoroso gregge ; né fu sua dura legge32 nota a quell’alme in libertate avvezze, ma legge aurea e felice che natura scolpì: S'ei piace, ei lice33. Allor tra fiori e linfe34 traèn dolci carole35 36 gli Amoretti senz’archi e senza faci ; sedean pastori e ninfe meschiando a le parole vezzi e susurri, ed ai susurri i baci strettamente tenaci; la verginella ignude 37 scopria sue fresche rose , ch’or tien nel velo ascose, e le poma del seno acerbe e crude; e spesso in fonte o in lago 38 scherzar si vide con l’amata il vago . 665 670 675 680 685 690 28 non perché nuvol fosco…il pino: non perché il cielo che ora si accende e brilla (verna, da ver, “primavera”), non si velò allora di nuvoli foschi e rise luminoso e sereno, né la nave (il pino) viaggiando in lontani mari (peregrino) portò o merce o guerra ai lidi altrui. Il passo può anche essere inteso diversamente attribuendo a verna il significato di “fare inverno”, dal lat. hibernare:: il cielo che ora passa dal calore estivo al freddo invernale s’iirradiava di luce e di sereno in un’eterna primavera 29 ma sol perché…: dopo una serie di proposizioni causali negative, con le quali si respingono le tradizionali interpretazioni dell’antica età dell’oro, una proposizione causale positiva, preceduta dalla congiunzione avversativa, rivendica la novità dell’assunto tassesco: al tempo antico non c’era l’Onore a contrapporsi al Piacere. Si noti come l’elaborata struttura sintattica e l’accumulazione delle subordinate denotino un gusto tipicamente manieristico 30 quel vano…feo tiranno: quel nome vuoto, senza sostanza, di cui gli uomini fanno un idolo, che è per loro causa di errori e di inganni, quel nome che dalla moltitudine stolta fu detto Onore, che lo rese tiranno della nostra natura umana. 31 amoroso gregge: schiera degli innamorati 32 né fu sua dura legge…: né a quelle anime, abituate alla libertà, fu nota la dura legge dell’onore 33 S’ei piace, ei lice: è lecito tutto ciò che piace. L’edonismo rinascimentale, fondato sul principio della libertà amorosa senza divieti e costrizioni, trova qui una compiuta affermazione e chiude una lunga stagione avviata da Boccaccio. Ma dove questa concezione era accompagnata dal trionfante vitalismo dell’autore del Decameron, ora ritroviamo una struggente nostalgia per un’età immaginata e perduta, congiunta a un vivo senso del limite d’imperfezione della natura umana 34 linfe: acque 35 traèn dolci carole: eseguivano dolci danze. Il quadretto idillico anticipa temi e toni della poesia arcadica 36 Amoretti senz’archi e senza faci: piccoli Amori privi di armi di offesa, le frecce e le fiaccole. Nessuno rifiutava le profferte d’amore 37 Rose: le bellezze del suo giovane corpo dalla pelle rosata 13 Tu prima, Onor, velasti 695 la fonte dei diletti, negando l’onde a l’amorosa sete; tu a’ begli occhi insegnasti di starne in sé ristretti, e tener lor bellezze altrui secrete39; 700 tu raccogliesti in rete le chiome a l’aura sparte; tu i dolci atti lascivi fêsti ritrosi e schivi; 40 a i detti il fren ponesti, a i passi l’arte ; 705 opra è tua sola, o Onore, che furto sia41 quel che fu don d’Amore. E son tuoi fatti egregi le pene e i pianti nostri. 42 Ma tu, d’Amore e di Natura donno , 710 tu domator de’ Regi, che fai tra questi chiostri, che la grandezza tua capir non pònno?43 Vattene, e turba il sonno a gl’illustri e potenti44: 715 noi qui, negletta e bassa turba, senza te lassa45 viver ne l’uso de l’antiche genti. Amiam, che non ha tregua con gli anni umana vita, e si dilegua. 720 Amiam, che ’l Sol si muore e poi rinasce: a noi sua breve luce 46 s’asconde, e ’l sonno eterna notte adduce . (Atto I, scena seconda) GUIDA ALL’ANALISI Struttura Metro: il coro dell’atto I ha lo schema metrico della canzone e riproduce il ritmo languido e cadenzato della canzone di Petrarca, Chiare, fresche et dolci acque con strofe di settenari e endecasillabi. Il congedo ripropone lo schema degli ultimi tre versi delle cinque stanze (rime: XyY) composte ciascuna da tredici versi. Schema metrico delle stanze: abCabC (fronte), c (chiave), deeDfF (sirima). Le lettere maiuscole indicano gli endecasillabi, le minuscole i settenari. 38 il vago: l’amante Tu prima…secrete: Tu, dapprima, o Onore, celasti la fonte dei piaceri negando le fresche acque (le membra nude) alla sete d’amore degli innamorati, tu insegnasti ai begli occhi a starsene abbassati e a tenere segrete le loro bellezze agli occhi altrui 40 A i detti…arte: un freno alle parole, ai passi l’arte d’incedere con modestia 41 che furto sia…: che ciò che l’Amore naturale aveva donato agli esseri umani, ora sia goduto furtivamente 42 donno: tiranno 43 che fai…ponno: che fai tra queste chiuse selve che non possono contenere la tua grandezza? 44 potenti: si avverte una nota polemica, dichiarata dall’umile schiera dei cantori, nei confronti dell’ambiente cortigiano corrotto dai suoi “civili” costumi. Tasso avverte l’irrimediabile frattura tra natura e civiltà: un tema che sarà ampiamente approfondito nel Settecento 45 lassa: lascia 46 Le ultime parole del coro traducono alcuni versi del carme V di Catullo: “i soli possono tramontare e risorgere; quando per noi la breve luce è spenta, dormiamo un’unica eterna notte”. Al rimpianto nostalgico del paradiso perduto s’accompagnano la malinconia per il tempo che fugge e il pensiero della morte. Tasso celebra un mito millenario che tra breve Cervantes sottoporrà a una feroce dissacrazione celebrandone, per così dire, il de profundis 39 14 L’argomento ripropone il motivo cortese dell’aspirazione alla bellezza, alla grazia e alle gioie dell’amore. Nella concisa enunciazione dantesca, S’ei piace, ei lice (cfr. Che libito fe’ licito in sua legge, Dante, Inferno, V, 56) si riassume tutto il messaggio della favola. Temi e forme Alla celebrazione edonistica del piacere e all’appassionata invocazione all’età dell’oro il poeta contrappone il tempo presente, con il suo codice di comportamento sociale. Un tempo in cui la libertà degli istinti naturali è frenata e controllata dall’ “Onore”. Che cosa intende Tasso con questo termine? È difficile da definire: il pudore, le convenzioni, il falso decoro e la falsa dignità delle corti, la stessa etica imposta dalla Controriforma con i suoi pregiudizi e i suoi formalismi. Potremmo dire che l’Onore, emblematicamente, contrappone alla gioia di vivere i guasti della civiltà. Giovan Battista Guarini nel Pastor fido, in un coro analogo, dedicato all’età dell’oro, sostituisce all’Onore l’Onestà, accentuando l’intonazione moralistica e controriformista. L’abbandono ai moti della fantasia, il tentativo di evasione in un mondo di sogno è venato di malinconia. Il coro si conclude con un accorato invito all’amore, turbato dal consapevole riconoscimento della caducità della vita e dal presentimento della morte. I versi sono intessuti di artifici retorici (metafore, sineddochi, anastrofi, inversioni, parallelismi ecc.). Il virtuosismo stilistico non compromette la limpidezza e la grazia musicale, lieve e sognante. Esercizi e temi di ricerca 1) Individua le principali figure retoriche e i nessi di confronto con la canzone di Petrarca, Chiare, fresche et dolci acque. 2) L’uso degli endecasillabi e dei settenari non è indifferente rispetto al tono, all’intensità lirica dei versi e al variare delle emozioni acustico-musicali. 3) Tasso proietta in un mondo fantastico la sua aspirazione a un’umanità integrale, in grado di vivere con pienezza di sensi l’esperienza fondamentale dell’amore inteso come conoscenza dell’altro. Leggi in proposito il seguente passo delle Opere e i giorni del poeta greco Esiodo. (Esiodo, Le opere e i giorni, trad. G. Arrighetti, Milano, Garzanti, 1985) Prima una stirpe aurea di uomini mortali fecero gli immortali che hanno le olimpie dimore. Erano ai tempi di Crono, quand’egli regnava nel cielo; come dèi vivevano, senza affanni nel cuore, lungi e al riparo da pene e miseria, né per loro arrivava la triste vecchiaia, ma sempre ugualmente forti di gambe e di braccia, nei conviti gioivano lontano da tutti i malanni; morivano come vinti dal sonno, e ogni sorta di beni c’era per loro; il suo frutto dava la fertile terra senza lavoro, ricco e abbondante, e loro, contenti, sereni, si spartivano le loro opere in mezzo a beni infiniti, ricchi d’armenti, cari agli dèi beati. La narrazione di Esiodo è il primo riferimento nella storia della letteratura occidentale a una mitica età dell’oro, collocata all’inizio dei tempi, nell’era di Crono, prima dell’avvento di Zeus, che nella religione greca era considerato il dio garante della convivenza civile e della giustizia. Per il poeta greco il lavoro umano, che ha un fondamento etico, è un obbligo impartito agli uomini dagli dèi. E tuttavia, prima che Prometeo avesse sottratto a Zeus il fuoco per darlo agli uomini, questi vivevano in pace e attingevano frutti spontanei dalla terra, liberi dalle fatiche, dalle miserie e dai dolori. Dopo che Zeus, per vendicarsi di Prometeo, donò al genere umano la bellissima Pandora, costei schiuse il vaso che portava con sé diffondendo nel mondo tutti i mali e lasciando nel fondo solo la speranza. Il dono della donna segnò la caduta dell’uomo e l’inizio di una lenta e irrimediabile decadenza della razza umana. All’età dell’oro, nella quale gli uomini vivevano felici come gli dèi, fecero seguito quattro età: l’età dell’argento, del bronzo (dominate dall’empietà, dalla violenza e dalla guerra), degli eroi, celebrati nella tradizione epica, e degli uomini. Venuta meno ogni regola di giustizia e di 15 pietas umana, Zeus porrà fine anche all’età degli uomini e tutti gli dèi abbandoneranno la terra. Il mito venne accolto da Platone, che ne trasse ispirazione per la sua idea del mondo. Nella tradizione latina venne cantato da Virgilio e da Ovidio, per essere poi ripreso e sviluppato in campo artistico e filosofico fino all’età moderna, dove, come s’è accennato, trova una feroce e sarcastica dissacrazione nel capolavoro di Cervantes. Segnali di demistificazione si colgono anche nell’Aminta. Nella prima scena dell’Atto primo alla sdegnosa Silvia che disprezza le dolcezze d’amore e ama inseguire le fiere nei boschi così replica Dafne: Insipidi diporti veramente, ed insipida vita: e, s’a te piace, è sol perché non hai provata l’altra47. Così la gente prima, che già visse nel mondo ancora semplice ed infante, stimò dolce bevanda e dolce cibo l’acqua e le ghiande, ed or l’acqua e le ghiande sono cibo e bevanda d’animali, poi che s’è posto in uso il grano e l’uva. (108-116) 47 Insipidi…l’altra: insipidi svaghi (la caccia) e insipida vita, e se a te piace, è sol perché non hai provato l’altra (la vita amorosa) 16 3. Le Rime Le oltre duemila liriche di Tasso furono composte nell’intero arco della sua attività poetica. A differenza del Canzoniere di Petrarca esse non hanno un’unità tematica. Si possono distinguere in tre gruppi: 1) le Rime che precedono il periodo ferrarese; 2) Rime risalenti alla stagione dell’Aminta e della Gerusalemme liberata; 3) Rime composte negli ultimi anni della vita. Ai primi due appartengono rime d’amore, d’occasione e d’encomio, al terzo gruppo rime d’intonazione morale e religiosa. Dal canto suo Tasso pervenne solo a raccolte parziali con le edizioni del 1591 e del 1593, sulle quali poi intervenne, com’era suo costume, con una serie infinita di correzioni. La fama conquistata con la Gerusalemme ha in qualche modo distolto l’attenzione del grande pubblico dei lettori dalla produzione lirica del nostro poeta. In realtà, anche se Tasso non avesse composto la Gerusalemme, egli sarebbe rimasto comunque il più grande poeta del Cinquecento. A limitare l’interesse ha anche contribuito l’idea che le liriche debbano essere comunque confinate entro i rigidi schemi della tradizione petrarchesca, e il fondo romantico della nostra concezione della poesia come assoluta individualità e originalità ci impedisce di apprezzare in pieno la perizia stilistica e la sapiente rielaborazione della tradizione classica e volgare realizzata attraverso un “processo di interna corrosione degli schemi cinquecenteschi” (L. Caretti). Da queste intrinseche peculiarità, lungi dall’apparire inautentiche, scaturisce la “spontaneità” e la naturalezza del suo poetare. La funzione poetica e la funzione espressiva coincidono, nel senso che tra l’io lirico, ossia il soggetto che parla, e la figura storica dell’autore ogni distanza è annullata. Le parole, manieristicamente cariche di significati connotativi, di musicalità sentimentale e di vago patetismo, ci parlano del poeta, della sua vita, dei moti dell’animo, della sua esperienza del dolore, della sua “sensualità acuta e sottile” (M. Fubini), ci offrono squarci di paesaggi crepuscolari, contemplazioni fantastiche, atmosfere musicali e incantate, sguardi furtivi, gesti di amoroso affetto, allusive corrispondenze, notazioni tragicamente personali: un’intera esistenza dispersa in una somma di frammenti. 3.1 Raccordo della poesia con la musica Un aspetto importante della lirica tassesca è costituito dal raccordo della poesia con la musica. La fluidità del verso obbedisce a un ritmo interiore, a un senso squisito dell’armonia, e trova la sua misura nel madrigale, una struttura poetica, come si diceva allora “facile, gentile e compassionevole”, congeniale alla sensibilità estetica del Cinquecento e destinata a diventare nei secoli successivi la più alta forma poetico-musicale di carattere profano. I madrigali di Tasso ispirarono famosi musicisti dell’epoca, come Luca Marenzio, Carlo Gesualdo da Venosa e Claudio Monteverdi. Come esempi riportiamo cinque autentici capolavori, veri gioielli del genere: un ritmo cantabile in cui si esprime con una facile vena musicale il tormento d’amore (Io non posso gioire), una composizione ispirata a una languida e delicata sensualità (Soavissimo bacio), l’evocazione lirica di un paesaggio (Qual rugiada o qual pianto) e un epitaffio funebre (O vaga tortorella). (Ne la lontananza de la sua donna dice di non poter avere alcun piacer lontano da lei se non quello ch’egli sente nel patir per lei) Io non posso gioire lunge da voi che sete il mio desire; ma ’l mio pensier fallace48 passa monti e campagne e mari e fiumi: e m’avvicina e sface49 48 49 pensier fallace: fantasticare ingannevole sface: liquefa, come cera 17 al dolce foco de’ be’ vostri lumi: e ’l languir50 sì mi piace ch’infinito diletto ho nel martire. GUIDA ALL’ANALISI Struttura Metro: madrigale di settenari e endecasillabi a versi alterni. Schema: aAb CbC bA (le lettere minuscole indicano i settenari) Temi e forme Il tema provenzale della lontananza è accompagnato da uno struggimento d’amore che spegne la gioia e si consuma: nel “martirio” del suo consumarsi consiste il suo “diletto”. Non un’impressione fuggevole racchiusa in pochi versi, ma una lenta agonia, un dolce naufragare. La desolata constatazione iniziale (“io non posso gioire”) denuncia una malattia dell’anima, una solitudine esistenziale che si dispone a riconoscere la propria incapacità di vivere, pur nella suggestione del dolce foco de’ be’ vostri lumi. *** Soavissimo bacio, del mio lungo servir con tanta fede dolcissima mercede! Felicissimo ardire de la man che vi tocca tutta tremante il delicato seno, mentre di bocca in bocca l’anima per dolcezza allor vien meno! GUIDA ALL’ANALISI Struttura Metro: madrigale di endecasillabi e settenari a versi alterni. Schema: aBb cdE dE (le lettere minuscole indicano i settenari) Temi e forme Il motivo “gentile” del bacio tradisce nell’espressione tutta tremante l’ispirazione dantesca, dal celebre verso del canto V dell’Inferno. Ma qui si accentuano la “voce epicurea” del rinascimento e la sensualità languida e un po’ morbosa del poeta (la mano che sfiora il delicato seno). Si noti anche l’eredità cortese nell’espressione lungo servir con tanta fede, trasferita nell’ambiente erotico e galante della corte ferrarese. *** Qual rugiada o qual pianto, quai lagrime eran quelle che sparger vidi dal notturno manto e dal candido volto de le stelle? e perché seminò la bianca luna di cristalline stelle51 un puro nembo a l’erba fresca in grembo? perché ne l’aria bruna 50 languir: venir meno. Si noti la disposizione ossimorica degli ultimi due versi Stelle: secondo un’altra lezione stille. Stelle è metafora per indicare le stille luminose della rugiada. Si noti la duplicazione di significato della parola “stella”, usata prima in senso letterale e poi in senso metaforico 51 18 s’udian, quasi dolendo, intorno intorno gir52 l’aure insino al giorno? fûr53 segni forse de la tua partita, vita de la mia vita? Struttura Metro: madrigale di endecasillabi e settenari. Schema: abAb CDd cEe (i settenari sono indicati con lettera minuscola) Temi e forme Il poeta nella contemplazione di un paesaggio notturno rivive la propria segreta malinconia. Nel suo interrogarsi è il segno dolente del suo distacco dall’amata. Nella notte cupa le gocce di rugiada brillano di una bianca luce lunare e sul manto erboso si distende una coltre di stelle. La musica tenue delle parole stravolge e dissolve i significati tradizionali. Secondo il mito, cui forse allude il poeta, la rugiada è il pianto di Aurora per la morte del figlio suo Mèmnone, ucciso nella guerra di Troia. Si noti inoltre nel finale del componimento l’inserzione di quell’avverbio forse con tutta la sua enigmatica e inquieta indeterminatezza. L’anafora nei versi iniziali e la ripetizione delle interrogazioni retoriche contribuiscono a delineare l’andamento melodico di questo stupendo componimento disegnando una trama di corrispondenze sonore e musicali in un universo concentrato in gocce di rugiada. *** O vaga tortorella, tu la tua compagnia54 ed io piango colei che non fu mia. Misera vedovella, tu 55sovra il nudo ramo, a piè del secco tronco io la richiamo: ma l’aura solo e ’l vento risponde mormorando al mio lamento. Struttura: Metro: madrigale composto da endecasillabi e settenari. Schema: abB acC dD con frequenza di rime baciate e prevalenza di settenari Madrigale, insieme ad altri, composto su richiesta di Giulio Mosti per la morte della signora Flaminia Temi e forme In un quadretto idillico, intriso di affetto e tenerezza, è racchiuso il destino di una tortorella e di una creatura umana, ambedue rimaste prive della loro compagna. Solo il mormorio del vento fa eco al lamento del poeta. Si noti la dittologia del penultimo verso: ma l’aura solo e ’l vento. La coppia di significato identico mira a conseguire un effetto ritmico melodico. Esercizi 1) Esegui la parafrasi in prosa dei madrigali che abbiamo riportato e di altri che affidiamo alle tue scelte personali. 2) Tasso esprime nei suoi madrigali i segreti turbamenti del suo animo raffigurandoli, con sottili corrispondenze, in paesaggi naturali delicatamente tratteggiati. La lettura delle 52 gir: muoversi i soffi del vento quasi lamentandosi anch’essi fino allo spuntare del giorno fûr: furono 54 compagnia: compagna: “o cara tortorella, tu piangi la tua compagna ed io piango la compagna che non mi appartenne” 55 tu: “tu la richiami sopra il nudo ramo ed io la invoco ai piedi del secco tronco”. 53 19 composizioni che abbiamo riportato, e di altre che eventualmente vorrai leggere, può spingerti a dimostrare le tue potenzialità espressive e a scrivere qualche madrigale di tua ispirazione. 3) Ti proponiamo, per un confronto, un madrigale composto da un poeta contemporaneo, Franco Fortini. Il titolo, Imitazione dal Tasso, rende esplicito l’omaggio al grande poeta. Con accenti lirici e meditativi Fortini ripercorre nella sua memoria un amore vissuto come amara esperienza di un’illusione delusa. La parola poetica nasce da un fermo, virile distacco: Ora penso, e non tremo… Fummo un tempo felici. Io credendo di amarvi E voi d’essere amata, Se sperare altra in voi Era amore, se accanto A voi mentiva ogni mia pena e il canto. Ora penso, e non tremo All’errore che volsi Lungo, in me stesso; e posano i rimorsi. Posa anche il vento, brilla Cadendo il giorno; e un ramo appena oscilla. (Franco Fortini, Una volta per sempre, Einaudi, 1978) 3.2 Al Metauro La canzone fu composta probabilmente nel 1578 quando il poeta, in preda a un’insopportabile angoscia, durante una delle sue fughe da Ferrara aveva trovato rifugio nella villa di Fermig nano (non lontano da Urbino, presso il fiume Metauro), ospite di Federico Bonaventura, filosofo e giureconsulto. Nell’occasione egli tentò di porsi in contatto con il duca Francesco Maria II Della Rovere con la speranza di trovare protezione. Nacque in questo contesto la canzone al Metauro, fiumicello famoso per la sconfitta che i due consoli romani Claudio Nerone e Livio Salinatore inflissero ad Asdrubale, fratello di Annibale, nel 207 a. C. In seguito, fallito il suo progetto, riprese a girovagare per l’Italia, lasciando la canzone incompiuta. L’acuta introspezione, di stampo manieristico, va ben oltre i tradizional i moduli espressivi del petrarchismo quattro-cinquecentesco. Metro: canzone composta da tre strofe di venti endecasillabi e settenari, senza congedo. Schema: ABC aBC (aCB nella prima strofe) Cde DFGG DFGG FII. Le lettere minuscole indicano i settenari. vv. 1-20: Il poeta, fugace peregrino, è in cerca di sicurezza e riposo. La quercia, simbolo di forza e di resistenza contro le avversità dell’atmosfera, con la sua ombra offre un riparo, a lui negato da una sorte infelice. 56 O del grand'Apennino figlio pícciolo sí, ma glorïoso e di nome più chiaro assai che d’onde56, fugace peregrino57 a queste tue cortesi amiche sponde per sicurezza vengo e per riposo. L’alta Quercia58 che tu bagni e feconde 5 d’onde: per portata di acqua 57 fugace peregrino: il Tasso - che dopo la sua partenza da Ferrara aveva per breve tempo dimorato in varie città – rivela qui la consapevolezza di quel che egli era: creatura debole e infelice, costretta a peregrinare perennemente senza meta. L’espressione ritorna, pressoché identica, nel proemio della Gerusalemme. Si è voluto anche riconoscere nell’uso del termine “pellegrino” un significato religioso, che richiama il concetto cristiano della vita come esilio 58 L'alta Quercia: è lo stemma dei Della Rovere, i duchi d'Urbino. L a quercia è simbolo di forza e di resistenza ad ogni avversità, ma qui si presenta piuttosto come luogo che accoglie e protegge ed è immagine che evoca il grembo materno 20 con dolcissimi umori, ond’ella spiega59 i rami si’ ch’ i monti e i mari ingombra, mi ricopra60 con l’ombra. 10 L’ombra sacra, ospital, che altrui non niega61 al suo fresco gentil riposo e sede, entro al piú denso62 mi raccoglia e chiuda, sí ch’io celato sia da quella cruda e cieca dèa63, ch’è cieca e pur mi vede, 15 64 ben ch’io da lei m’appiatti in monte o ’n valle e per solingo calle notturno io mova e sconosciuto65 il piede: e mi saetta sì che ne’ miei mali mostra tanti occhi aver quant’ella ha strali66 20 Ohimè! dal dí che pria67 vv. 21-30: Si affaccia un desiderio di morte. trassi l’aure vitali e i lumi apersi L’esistenza del poeta è segnata sin dal giorno in questa luce68 a me non mai serena, della sua nascita da un’esperienza di dolore, da fui de l’ingiusta e ria69 cui può liberarlo solo la quiete eterna della tomba nel luogo natio. Affiora un senso di oppressione e di solitudine, che Tasso tornerà ad esprimere ritrovandolo in Erminia, uno dei personaggi femminili a lui più cari della Gerusalemme Liberata. vv. 31-60: All’immagine materna della quercia si trastullo e segno70, e di sua man soffersi piaghe che71 lunga età risalda a pena. Sàssel la gloriosa72 alma sirena, appresso il cui sepolcro ebbi la cuna: così avuto v’avessi o tomba o fossa a la prima percossa.73 Me dal sen74 de la madre empia fortuna pargoletto divelse. Ah! di que’ baci, ch’ella bagnò di lagrime dolenti, 25 30 59 ond’ella spiega…ingombra .: per cui essa dispiega i suoi rami tanto da occupare i monti e i mari. I Della Rovere, che avevano dato al pontificato papi famosi - Sisto IV. da cui venne il nome alla Cappella Sistina, e Giulio II -, estendevano il loro dominio dall’Appennino all’Adriatico 60 mi ricopra: mi accolga sotto la sua sicura protezione. La parola “ombra” si carica di significati allusivi all’albero materno 61 che altrui non niega: che non nega agli altri 62 entro al più denso: dove i folti rami fanno più fitta e densa quell’ombra. Il poeta ritorna con insistenza sul suo disperato bisogno di protezione. 63 cieca dea: la Fortuna, che si rappresentava bendata, perseguita il poeta. Ciò che per gli altri è un bene per lui diventa un male. 64 in monte o ’n valle: in qualunque luogo io cerchi di nascondermi 65 notturno... e sconosciuto: riferiscili al soggetto io (notturno: di notte; aggettivo invece dell'avverbio; sconosciuto: senza farmi riconoscere). Risuona in questi versi un’eco petrarchesca. 66 e mi saetta.... strali: per farmi male mostra di avere tanti occhi qunte sono le saette che mi scaglia 67 dal dì che pria: dal primo giorno in cui respirai l’aria che mi mantiene in vita. Questa sofferta notazione è la chiave che ci consente di comprendere il dramma esistenziale del poeta. Il tono delle parole che seguono, così accorato, esercitò suggestione e ispirò la poesia di Leopardi 68 in questa luce: in questa vita, che è gioia, e fu per me continua amarezza 69 de l’ingiusta e ria: della Fortuna ingiusta e malvagia 70 trastullo e segno: zimbello e bersaglio 71 che...appena: che solo un lungo periodo di tempo potrebbe a fatica risanare 72 Sàssel la gloriosa...cuna: se lo sa; ne è testimone la gloriosa sirena Partenope, presso il cui sepolcro ebbi la culla 73 così... a la prima percossa: così io vi avessi avuto o tomba o una semplice fossa al primo duro colpo dell’avversa fortuna. Come poi racconta, Tasso allude alla sua dolorosa separazione dalla madre: un evento destinato a incidere profondamente sulla sua personalità, causa della sua intima fragilità, del suo essere e sentirsi inerme dinanzi al mondo 74 Me dal sen... divelse: nel divelse è l’idea della violenza brutale compiuta dallaFortuna, tanto più empia in quanto si accaniva contro un pargoletto innocente, strappandolo agli abbracci materrni 21 associa il ricordo triste dei genitori perduti, della madre affettuosa e del “padre errante”. La chiusa finale distrugge ogni speranza. Il dolore del poeta è senza scampo e senza conforto. con sospir mi rimembra75 e de gli ardenti preghi76, che se ‘n portâr l’aure fugaci: 35 ch’io non dovea77 giugner piú volto a volto fra quelle braccia accolto con nodi cosí stretti e sí tenaci. Lasso! e seguii con mal sicure piante78, qual Ascanio o Camilla79, il padre errante. 40 In aspro essiglio e ’n dura povertà crebbi in quei sí mesti errori intempestivo senso ebbi a gli affanni 80: ch’anzi stagion, matura 81 l’acerbità de’ casi e de dolori 45 in me rendé l’acerbità de gli anni. L’ègra spogliata 82 sua vecchiezza e i danni 83 narrerò tutti. Or che non sono io tanto ricco de’ propri guai che basti solo per materia di duolo? 50 Dunque altri 84 ch’io da me dev’esser pianto? Già scarsi al mio voler sono i sospiri, 85 e queste due d’umor sí larghe vene ll’uso del verbo “scaldare” emerge una straordinaria intensità emotiva e comunicativa: il calore dettato dall’affetto paterno nel momento della perdita si converte in autentica disperazione. non agguaglian le lagrime a le pene. Padre, o buon padre 86, che dal ciel rimiri, ègro e morto ti piansi, e ben tu ’l sai, e gemendo scaldai la tomba e il letto or che ne gli alti giri 87 55 75 con sospir mi rimembra: è ancora una reminiscenza petrarchesca (cfr. Chiare, fresche et dolci acque) preghi: i vòti, invano formulati, di poter presto rivedere il figlioletto e il marito 77 ch’io non dovea...tenaci: perchè era destino ch’io non dovessi più godere degli abbracci di mia madre, la quale mi stringeva così fortemente quasi più non volesse lasciarmi. Porzia de’ Rossi morí improvvisamente due anni dopo. Tasso porterà con sé per sempre il lacerante ricordo del pianto della madre 78 con mal sicure piante: con passi ancora incerti 79 qual Ascanio o Camilla: Ascanio seguí Enea nell’esilio; Camilla, figlia di Mètabo re dei Volsci, fu portata via bambina dal padre fuggente da Priverno. – il padre errante: il padre costretto ad errare di città in città e di corte in corte. La citazione letteraria non è un semplice intarsio poetico. Essa vale a testimoniare quanto l’Eneide fosse viva e presente nel patrimonio culturale e letterario del tempo. Ariostoe Tasso, come del resto lo stesso Dante, non possono fare a meno di misurarsi con la poesia virgiliana 80 In aspro…affanni: crebbi in doloroso esilio dalla mia casa e in dura povertà in quel triste peregrinare, ed ebbi prima del tempo conoscenza del dolore 81 ch’anzi stagion…anni: prima del tempo il grave peso degli eventi rese in me matura l’età giovanile “La stessa parola (acerbità) è qui usata successivamente in due significati differenti: prima di ‘fierezza’, ‘amarezza’, poi di ‘immaturità’, il che dà all’espressione una parvenza di artificio; ma è in realtà frutto di quella elaborazione formale che è caratteristica d’un poeta dalla tecnica così raffinata come il Tasso” (G. Varanini) 82 L’ègra spogliata: malata e povera. Il padre era stato privato di tutti i suoi beni 83 Or che non sono…duolo: dunque non sono io cosi oppresso dal peso dei miei affanni da bastare solo come oggetto di compianto? La disperata ironia di quel ricco de' propri guai ha il tono di una vera e propria confessione. 84 Dunque altri…pianto?: dunque non sono io abbastanza provato dal dolore, perché debba versare lacrime anche per le sventure altrui? Il ritmo pressante degli interrogativi anticipa il verso finale con il quale Tasso suggella la propria condizione umana 85 queste due…pene: questi occhi, che pur son divenutei fonti (vene) cosí abbondanti di pianto, non hanno lagrime sufficienti ad esprimere l’immensità dei miei dolori 86 Padre, o buon padre: “movimento lirico di singolare efficacia: il poeta aveva poco prima detto che non poteva parlare di altri che dì sé. Con l’inconseguenza di chi è in preda a un sentimento fervido e impetuoso, rivolge d’improvviso al padre un’apostrofe affettuosa, che è insieme giustificazione e pietosa invocazione di aiuto” (A. Varanini) 76 22 “La canzone rimane incisa in uno spazio di nevrosi patetica, preludio alle tenebre della carcerazione nello Spedale di Sant’Anna” (B. Basile) tu godi, a te si deve onor, non lutto: 88 a me versato il mio dolor sia tutto. 60 GUIDA ALL’ANALISI La canzone è formalmente incompiuta, ma in realtà la chiusa del verso finale, così semplice ed essenziale, esclude ogni altra possibilità di conforto e con il suo sigillo non lascia spazio alla speranza. L’io lirico non è un “doppio”: è il poeta stesso sotto il segno del suo destino, con il suo tormento esistenziale che si accompagna alla memoria del padre e della madre. Ed è appunto Tasso in persona che intende ora rivolgersi al lettore con la sua disperata confessione. Dopo l’appassionata invocazione al fiume Metauro, Il motivo encomiastico (l’omaggio ai Della Rovere) cede il passo a temi soggettivi e autobiografici che richiamano, nella figura del pellegrino errante perseguitato dalla fortuna, il motivo dantesco dell’esilio. La canzone si accentra su due nuclei tematici: la ricerca di protezione, di un rifugio sicuro, raffigurata simbolicamente dall’immagine della quercia, stemma dei Della Rovere, i duchi d’Urbino, e la minaccia rappresentata dalla fortuna avversa. Su questo secondo versante s’innesta il tema della sconfitta, della resa incondizionata. Scompare ogni alternativa possibile affidata all’azione umana, alla virtù e resta come unica risorsa il movimento regressivo verso un ventre materno. Il ritmo L’assoluta prevalenza degli endecasillabi sui settenari conferisce alla canzone un andamento discorsivo, narrativo, dal ritmo concitato e drammatico. La costruzione metrica e sintattica converge sull’io del poeta, assoluto protagonista: Me dal sen della madre empia fortuna / pargoletto divelse. Dal punto di vista formale il pregio della poesia consiste nell’aver saputo “tradurre e comporre una sensibilità tormentata in limpide note di uno stacco assoluto...che sorprende per la sua terribile semplicità” (I. Viola). Esercizi 1) Rintraccia nella canzone le diverse figure retoriche e gli enjambements. 2) Il motivo autobiografico della canzone trova un ulteriore sviluppo altrettanto intenso e commovente in un’altra canzone indirizzata Alle signore Principesse di Ferrara, scritta durante la relegazione in Sant’Anna. Ad esse Tasso si rivolge, accomunando con tono confidente la sua alla dolorosa esperienza delle due sorelle del duca Alfonso, Lucrezia ed Eleonora, separate dalla madre Renata di Francia, convertita al calvinismo e costretta all’esilio. Te ne proponiamo i versi iniziali per un tuo confronto: O figlie di Renata, io non parlo a la pira de’ fratei che né pur la morte unío89, …….. quasi in fertil terreno nate e nodrite90 pargolette insieme, 87 ègro e morto...giri: ti piansi ammalato e morto, e tu lo sai bene, e piangendo scaldai con la mia presenza il tuo letto e la tomba, ora che negli alti cieli... 88 a me versato il mio dolor sia tutto: il verso breve e intenso, che sarà rieccheggiato da Leopardi, suona come un’epigrafe funebre 89 io non parlo…unío: “io non parlo al rogo dei fratelli che neppure la morte unì”. Tasso, per contrapposizione all’affetto che lega le due principesse, ricorda la storia di Eteocle e Polinice, i due fratelli figli di Edipo, che si combatterono dandosi la morte. L’odio che li divise in vita, li divise ancora sul rogo distinguendosi in una fiamma biforcuta (cfr. Dante, Inferno, XXVI, 52 segg.) 23 quasi due belle piante di cui serva è la terra e il cielo amante. ……. A voi parlo, in cui fanno sí concorde armonia onestà, senno, onor,, bellezza e gloria; a voi spiego il mio affanno, e de la pena mia narro, e ’n parte piangendo, acerba istoria91; ed in voi la memoria di voi, di me rinnovo92: vostri effetti cortesi, gli anni miei tra voi spesi, qual son, qual fui, che chiedo, ove mi trovo, chi mi guidò, chi chiuse, lasso!, chi m’affidò, chi mi deluse93. (vv. 1-3; 10-13; 27-39) 3.3 A le gatte de lo spedale di S. Anna Tasso, ferito nell’anima e nel corpo, scruta gli occhi di una gatta, densi di mistero. Nella luce guizzante che da essi promana balugina il chiarore del cielo e delle stelle. Il poeta sembra essere ben conscio della chiara superiorità di queste creature dalle leggere movenze: Sonetto a schema ABBA ABBA CDE EDC , incrociata nelle quartine e invertita nelle terzine. A le gatte de lo spedale di S. Anna Come ne l’oceàn, s’oscura e ’nfesta procella il rende torbido e sonante, a le stelle onde il polo è fiammeggiante stanco nocchier di notte alza la testa94, così io mi volgo, o bella gatta, in questa fortuna avversa a le tue luci sante95, e mi sembra due stelle aver davante che tramontana96 sian ne la tempesta. 90 nodrite: nutrite, educate, come due piante cui la terra dona i suoi umori e che il cielo accarezza con i suoi benefici influssi 91 narro…istoria: narro, in parte piangendo, la mia storia dolorosa. Si notino gli echi petrarcheschi (il “vario stile in ch’io piango e ragiono”, Canzoniere, “Voi ch’ascoltate”) e danteschi (“parlare e lagrimar vedrai insieme”) 92 ed in voi…rinnovo: “e rinnovo in voi la memoria di voi e di me” Tasso ricorda i legami che un tempo lo unirono alle due principesse. Le sue parole si accumulano in rapida successione, sempre più affannate e tumultuose 93 vostri effetti…deluse: “rinnovo alla memoria le vostre azioni cortesi, gli anni trascorsi con voi, ripenso a chi sono, a chi fui, al mio presente e al mio passato, ripenso che cosa chiedo (la restituzione della libertà) e dove ora mi trovo, chi mi accolse e poi m’imprigionò, chi mi diede speranza e mi deluse”. Con straordinario pathos Tasso grida tutta la sua disperazione 94 Come…testa: il sonetto si apre con l’immagine squisitamente letteraria del nocchiero, che ripropone e duplica quella del fugace peregrino. Sappiamo quanto la memoria poetica sia per Tasso fonte d’ispirazione. Qui si ricordi il “celestial nocchiero” (Purgatorio, II,43), l’Angelo traghettatore del “divin poeta” o l’espressione “nave senza nocchiero in gran tempesta”(Purgatorio, VI, 77). “Come nella notte il nocchiero ormai stanco alza la testa per mirare le stelle delle quali il cielo s’illumina, se nell’oceano un’oscura e minacciosa tempesta lo rende gonfio e mugghiante” 95 luci sante: occhi che hanno un qualcosa di divino 96 tramontana: stella polare, la costellazione dell’Orsa 24 Veggio un’altra gattina, e veder parmi l’Orsa maggior con la minore: o gatte, lucerne del mio studio, o gatte amate, 97 se Dio vi guardi da le bastonate, se ’l ciel voi pasca di carne e di latte, fatemi luce a scriver questi carmi. GUIDA ALL’ANALISI Temi La notte: Tasso è a Sant’Anna, prigione e manicomio, in condizioni durissime, isolato tra i “forsennati”, a un passo dalla follia. Tutto il sonetto è giocato sul tema del buio notturno, sull’immagine estremamente tragica di un uomo solo ( nocchiero/poeta) in balia di una tempesta inquietante, il quale, impotente e inerme, può solo rivolgere lo sguardo alle rare luci delle stelle in cielo e agli occhi luminosi delle gatte che paiono stelle in terra. Tasso amava la notte, era lo spazio preferito per lo studio e il lavoro. Sappiamo da alcune lettere che, nel carcere-manicomio di Sant’Anna, la notte era divenuta per lui un’angosciosa fonte di sofferenza per le urla continue che provenivano dalle persone recluse, come lui : “ Sono strepiti – scrive in una lettera al suo amico Maurizio Cataneo del 1581- i quali, in quest’ora che io scrivo, non sono cessati e certo tali sono che potrebbero far diventare forsennati gli uomini più savi[…]son grida di uomini, e particolarmente di donne e di fanciulli, e risa piene di scherni…” Le gatte amate: quando scompare ogni fiducia in un contatto umano, quando non c’è alcuno che tenda la mano, quando il dolore sbatte entro i muri di una cella, un che di tenero e caritatevole viene al poeta da loro, dalle gatte che, libere, circolano al di là delle sbarre, sveglie, ché i gatti sono animali notturni, sinuosi e morbidi, con i gialli occhi che paiono guardare al poeta prigioniero e, senza saperlo, sono le uniche creature che lo confortano. Tasso si sente empaticamente affratellato alle gatte e s’augura per loro una sorte di carne e latte, s’augura che nessuno le bastoni. A lui non è stato dato di sfuggire alla fortuna avversa. Che le ‘gatte amate’, almeno loro, possano essere risparmiate dalla sofferenza! (a c. di Giulia Alberico) Esercizi 1) Sottolinea i termini che nel sonetto fanno riferimento al campo semantico della vista nella opposizione buio/luce. 2) Ti proponiamo un esercizio di libera traduzione in prosa del componimento. 97 se: qui la particella “se”, come quella successiva, ha un valore desiderativo: “possa Dio proteggervi dalle bastonate”. L’umile augurio del poeta esprime, insieme con la sua affettuosa solidarietà, tutto il suo immenso, esclusivo amore per la poesia 25
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