TORQUATO TASSO - ArteMitoPoesia - La tradizione classica nella

TORQUATO TASSO
alle soglie della follia
GERARDO MILANI
TORQUATO TASSO
alle soglie della follia
GERARDO MILANI
Capitoli 1-3
In copertina: Eugène Delacroix, Tasso nell’ospedale di Sant’Anna
(Web Gallery of Art, pubblico dominio)
L’idea che l’infelicità di Tasso sia generata dallo scontro con l’ambiente
cortigiano appare un’amplificazione romantica tesa a ingigantire la sua figura
di poeta-martire. Le ombre che si annidano nel chiuso della sua mente sono un
fatto individuale e privato che cambia il suo conflittuale rapporto col mondo ed
è all’origine delle sue emozioni...
Sommario
1. La vita .............................................................................................................................................. 5
2. L’età dell’oro e dei pastori ............................................................................................................... 8
L’innamoramento di Aminta ........................................................................................................ 9
Coro dell’atto I ........................................................................................................................... 12
3. Le Rime .......................................................................................................................................... 17
3.1 Raccordo della poesia con la musica ................................................................................... 17
3.2 Al Metauro ........................................................................................................................... 20
3.3 A le gatte de lo spedale di S. Anna ...................................................................................... 24
4 La Gerusalemme liberata ............................................................................................................... 26
4.1 La poetica: il vero condito in molli versi ............................................................................. 26
4.2 Il proemio della Gerusalemme ............................................................................................. 27
4.3 I temi e l’intreccio ................................................................................................................ 28
4.4 Lo stile e il linguaggio ......................................................................................................... 30
4.5 Ares e Afrodite ..................................................................................................................... 32
4.6 Il sentimento religioso .......................................................................................................... 32
4.7 I personaggi .......................................................................................................................... 33
4.8 Il meraviglioso ..................................................................................................................... 35
4.9 La natura e il paesaggio ....................................................................................................... 36
4.10 Le letture della Gerusalemme ............................................................................................ 37
Canto II - Olindo e Sofronia ..................................................................................................... 39
Canto VII - Erminia fra i pastori ................................................................................................ 45
Canto XII - Il duello di Clorinda e Tancredi .............................................................................. 50
Dalle parole alle immagini: La pittura di Iacopo Tintoretto ................................................... 56
E ai suoni: Lo stile concitato di Claudio Monteverdi ................................................................ 57
Canto XIII - Tancredi nella selva incantata ............................................................................... 57
Canto XVI - Il giardino d’Armida .............................................................................................. 66
Canto XX - Gildippe e Odoardo, morte di Solimano ................................................................ 70
5 Le Lettere ....................................................................................................................................... 76
6 I Dialoghi ....................................................................................................................................... 78
7 Le ultime opere .............................................................................................................................. 80
Nota critica ......................................................................................................................................... 83
3
Scrissi di vera impresa e d’eroi veri,
ma li accrebbi ed ornai, quasi pittore
che finga altrui di quel ch’egli è maggiore1,
di più vaghi sembianti e di più alteri:
poscia con occhi rimirai severi
l’opra, e la forma a me spiacque e ’l colore,
e s’altra ne formai, mastro migliore,
non so se colorirla in carte io speri2:
ch’egro e stanco da gli anni, ove più rare
tenti le rime far, men piaccion elle,
e ’n minor pregio io son che già non era3:
pur non langue la mente, e prigioniera
esce dal carcer suo: né quel che pare,
ma l’orme scorge e vere e pure e belle4.
[Al signor Raffaello Gualterotti, risposta]
(dalle Rime, CCXLII)
Nella tormentata esistenza di Torquato Tasso, turbata fin dagli anni della
fanciullezza e dell’adolescenza da dolorose vicende familiari, la
letteratura, e nient’altro, diviene in età precoce la sua passione e la sua
ragione di vita, la sua precaria risorsa contro i colpi dell’ “avversa
fortuna”. La storia della sua vita è iscritta nella Gerusalemme liberata,
specchio del suo dramma interiore e delle insanabili lacerazioni della sua
epoca.
1
ho narrato una vera storia, la Crociata, e ho descritto eroi veri, ma li resi più grandi e più belli, come un pittore che
immagini alcuno più grande di quanto egli è, d’aspetto più leggiadro e dignitoso
2
e se immaginai di scrivere un’altra opera, essendo migliore artefice, non so se posso sperare di raffigurarla nelle mie
carte
3
reso malato e stanco dagli anni, quando mi accingo a comporre più rare rime, tanto meno esse piacciono e io mi trovo
in condizione di minor stima di quanto già non ero
4
eppure la mia mente non vien meno e libera esce dal carcere dei sensi: e scorge non quel che appare, ma le vere
impronte della bellezza ideale
4
1. La vita
Torquato Tasso nacque a Sorrento, in Campania, nel 1544 da Porzia de’ Rossi, gentildonna
napoletana. Suo padre Bernardo, discendente da un’antica e nobile famiglia bergamasca, era un
letterato al servizio di Ferrante Sanseverino, principe di Salerno, schierato dalla parte della Francia
al tempo della guerra di Francesco I contro Carlo V d’Asburgo. Essendo il Sanseverino caduto in
disgrazia del viceré di Napoli don Pedro de Toledo, Bernardo fu costretto a seguire il suo signore in
esilio in Francia. Nel 1554 egli si trovava a Roma e da qui chiamò presso di sé il piccolo Torquato,
che dovette lasciare la madre, morta due anni dopo, senza più rivederla. Da allora il fanciullo visse
senza famiglia e senza stabile dimora, in compagnia (ma solo per brevi periodi) del padre, col quale
ebbe un rapporto di profonda e struggente intimità, accompagnato da oscuri sensi di colpa:
esperienze che contribuirono a rendere fragile il suo carattere, a instillare nel suo animo un senso di
smarrimento accompagnato negli anni successivi dalla memoria degli affetti domestici, evocati con
lo straziante rimpianto di una felicità perduta. Presto le peripezie del genitore lo costrinsero ad
abbandonarlo e a rifugiarsi a Bergamo sotto la guida affettuosa del precettore don Giovanni
Angeluccio. Nel 1557 si ricongiunse col padre, insieme con il quale visse a Pesaro e a Urbino nel
palazzo dei duchi celebrato da Castiglione nel suo Cortegiano. Sono questi gli anni in cui iniziò il
suo noviziato nelle corti e in cui compose i primi versi. In seguito, per volontà del padre, dopo un
breve soggiorno a Venezia, si trasferì a Padova per studiare legge, ma qui Torquato preferì dedicarsi
alla letteratura e frequentare la casa di Sperone Speroni, dove si discuteva di questioni di estetica e
di retorica. Si iscrisse ai corsi di filosofia e ascoltò le lezioni di Carlo Sigonio sulla Poetica di
Aristotele. Nel 1559 compose il primo libro del Gierusalemme, ma lo interruppe per dedicarsi alla
composizione di un poemetto cavalleresco in dodici canti sul modello ariostesco, il Rinaldo, poi
pubblicato nel 1562 e dedicato al cardinale Luigi d’Este. Nel frattempo aveva aiutato il padre nella
correzione e nella stampa dell’Amadigi e iniziato la scrittura dei Discorsi dell’arte poetica. A questi
anni risalgono le prime liriche d’amore ispirate da due gentildonne, Lucrezia Bendidio e Laura
Peperara. Nel 1565 da Padova si trasferì a Ferrara, alla corte degli Estensi 5 , preceduto dalla
notorietà conquistata con la pubblicazione del Rinaldo. Qui ottenne la stima e la protezione delle
principesse Lucrezia ed Eleonora. Dapprima fu al servizio di Luigi d’Este e poi, dal 1572, di
Alfonso II con il titolo di gentiluomo di corte, con un compenso fisso e con il solo obbligo di
scrivere poesie in onore della casa ottenendo in cambio il riconoscimento del suo prestigio
intellettuale. È questo il periodo in cui decise di riprendere il progetto, da sempre sognato, di un
poema epico sulla prima Crociata. Sono gli anni migliori, turbati tuttavia nel 1569 dalla morte del
padre. Anni nei quali si consuma il definitivo matrimonio con la letteratura: la gloria letteraria è la
strada obbligata da percorrere come rivincita contro la fortuna avversa.
Il 1573 fu l’anno in cui Torquato rappresentò a corte l’Aminta, dramma pastorale dai toni patetici e
voluttuosi. Ammirato e invidiato per il suo ingegno brillante, la destrezza nei duelli, la piacevolezza
del suo conversare, sembrò incarnare a perfezione il tipo rinascimentale del cortigiano aristocratico,
dell’artista eletto, amante del lusso e disprezzatore delle occupazioni del mondo e della “plebe”.
Incantato dalle meraviglie della corte e sedotto dai suoi stessi successi coltivò la sua illusione di
grandezza con infantile e indifesa ingenuità fino a quando i suoi sogni cessarono di coincidere con
le sue anacronistiche aspettative. Cominciò a insinuarsi, o meglio, a risvegliarsi nel suo animo una
traccia inquietante di malinconia, il senso latente del proprio fallimento. L’immaginazione,
consumata da uno spossante impegno creativo, esaurì tutte le sue risorse. Il confronto sempre più
duro con la realtà della corte, fatto di compromessi, di umiliazioni e di emarginazioni divenne via
via più gravoso e insostenibile tanto che cominciò a farsi strada tra mille turbamenti un desiderio di
fuga, la ricerca vana di un altrove accompagnata da un confuso e contraddittorio sentimento di
rivolta contro la soffocante gerarchia delle istituzioni incarnate dal potere accademico, politico e
5
Ferrara fu un ambiente ideale. In questa città G:B. Giraldi Cinzio aveva promosso studi sul poema epico, sul teatro e
su un nuovo genere letterario, il dramma pastorale.
5
religioso.
La fase più drammatica ebbe inizio intorno al 1575, quando il poema sulla Crociata (il titolo era
ancora incerto) giunse al suo compimento. La coincidenza non era casuale: la gioia del successo ben
presto lo abbandonò e subentrò un senso profondo di smarrimento, la percezione di un vuoto
incolmabile insieme con la fine inevitabile del sogno, ormai realizzato, della sua vita. Una fine, un
compimento che Torquato non ebbe la forza interiore di accettare poiché esso non riguardava solo
un capitolo chiuso della sua esistenza, ma coincideva interamente con essa, con la sostanza
profonda del suo essere, con la costruzione del senso della sua identità. Di qui, per tutto il resto
della vita, la sua ossessione di continuare, il suo accanimento tormentoso nella correzione e nella
revisione del testo, i dubbi, gli interni contrasti, le discussioni stizzose con i suoi interlocutori, fino
all’inevitabile conclusione: il rinnegamento e la riscrittura del poema con il nuovo titolo di
Gerusalemme conquistata. Siamo nel 1593, a due anni dalla morte. Il patetico tentativo di ridefinire
la propria esistenza, di riscrivere una “poststoria” di se stesso fallisce: ormai Torquato ha voltato
definitivamente le spalle al Rinascimento. Ad aggravare la situazione, a trasformare il malessere in
dramma contribuirono anche le preoccupazioni moralistiche, gli scrupoli religiosi, le pressioni
oggettive del clima controriformistico, le invidie dei cortigiani. Su questi aspetti si è molto insistito,
ma in realtà le circostanze esterne incidono in misura marginale, l’idea che l’infelicità di Torquato
sia generata dallo scontro con l’ambiente cortigiano appare un’amplificazione romantica tesa a
ingigantire la sua figura di poeta-martire. Le ombre che si annidano nel chiuso della sua mente sono
un fatto individuale e privato che cambia il suo conflittuale rapporto col mondo ed è all’origine
delle sue emozioni negative intense e intermittenti: l’ansia, la depressione, l’ira, i vaneggiamenti.
Convinto di essere in pericolo di eresia e di aver peccato per eccesso in “amori” e “incanti”,
Torquato decise di affidare il suo poema a una commissione di revisori, tra cui Scipione Gonzaga e
Sperone Speroni. Poi, nel 1577, si presentò all’Inquisitore di Ferrara per essere esaminato. Venne
assolto, ma non soddisfatto volle appellarsi a Bologna e a Roma. Intanto, col titolo provvisorio di
Goffredo il suo poema comincia a suscitare l’attenzione dei lettori, fino a quando nel 1581, contro la
sua volontà, venne pubblicato in due edizioni, a Parma e a Casalmaggiore, da Angelo Ingegneri col
titolo di Gerusalemme liberata. Nel frattempo i rapporti a corte sono ormai deteriorati. Dopo vari
episodi imbarazzanti (tra cui l’aggressione subìta da parte di un cortigiano) Torquato nel giugno del
1577, in preda all’ira, in presenza di Lucrezia lanciò un coltello contro un servitore da cui si credeva
spiato. Rinchiuso, su ordine del duca, nel convento di san Francesco per essere curato del suo
“umor malinconico”, ne fuggì, solo e senza mezzi, e iniziò un penoso peregrinare in varie città, tra
cui Sorrento, dove, travestito da pastore, si presentò alla sorella Cornelia annunciandole la propria
morte. Cornelia, sopraffatta dal dolore, svenne e Torquato, rasserenato, le si svelò. Nel 1578 tornò a
Ferrara, ma da qui presto si allontanò, sempre incalzato dal suo bisogno di fuggire altrove. Dopo
vari soggiorni (tra cui ad Urbino presso il suo amico Francesco Maria della Rovere) nel 1579 tornò
a Ferrara, e qui, in occasione delle nozze del duca con Margherita Gonzaga, ebbe accessi d’ira nei
confronti dei cortigiani e dello stesso duca, che reagì allo scalpore suscitato dal comportamento del
poeta facendolo rinchiudere come “frenetico” nell’ospedale di sant’Anna a tragico corollario del
suo isolamento spirituale. Vi restò dal 1579 al 1586 e dopo quattordici mesi di dura segregazione gli
fu permesso di scrivere e uscire per brevi passeggiate. In questi anni terribili alternò lunghi periodi
di lucidità a fasi di ottundimento dell’attività psichica. Lo terrorizzò lo spettro dell’eresia. Subì
allucinazioni, inquiete visioni di misteriosi folletti, ombre di topi. Lo tormentarono sofferenze
fisiche, dolori d’intestino, di fianco, di cosce, vomiti, fischi, tintinnii negli orecchi e nella testa. I
suoi sensi di colpa, le sue manie di persecuzione si accentuarono. Come testimoniano le sue
numerose lettere, tentò inutilmente di invocare un aiuto, un conforto alla sua solitudine spirituale a
questo e quello. Nel 1581, come s’è accennato, lo turbò profondamente la notizia della
pubblicazione, a sua insaputa, della Gerusalemme, un evento “luttuoso” che egli considerò
probabilmente come una sorta di perdita irrimediabile e che certamente considerò come
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un’intollerabile violazione del suo rapporto, geloso ed esclusivo, con la sua creatura6.
A questo periodo di carcerazione risalgono la maggior parte delle Lettere, delle Rime, l’Apologia in
difesa del suo poema, e i Dialoghi, documento sconcertante delle sue drammatiche esperienze. Una
volta tornato libero per intercessione di Vincenzo Gonzaga, si rifugiò sotto la sua protezione a
Mantova portando a termine gli abbozzi di una sua tragedia, il Galealto re di Norvegia, col nuovo
titolo di Re Torrismondo. Il soggiorno a Mantova costituisce uno degli ultimi e brevi contatti con
l’ambiente cortigiano. Riprendono poco dopo le sue disperate peregrinazioni, aggravate anche da
preoccupazioni economiche, da un’interminabile causa relativa alla dote materna e dal problema
dell’eredità paterna incamerata dal fisco. Torquato fu a Modena, Bologna, Macerata, Loreto, Napoli,
Roma. Scrivere significò per lui sentirsi ancora vivo: condusse a termine, oltre al rifacimento della
Liberata, il Mondo creato, epopea religiosa della creazione degli astri e degli esseri viventi. La
forza consolatoria della religione ispirò le tarde Rime e i poemetti, tra cui le Lagrime di Maria
Vergine, le Lagrime di Cristo, il Monte Oliveto. A Roma, dove Clemente VIII gli aveva assegnato
una pensione, si ritirò nel convento di sant’Onofrio sul Gianicolo. Lì morì, in seguito a una violenta
febbre, il 25 aprile 1595.
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Qualche mese più tardi, nel giugno dello stesso 1581, Torquato diede la sua approvazione a una nuova edizione,
offerta al duca Alfonso, condotta, come scritto nella prefazione, sul testo “che questo eccellentissimo Poeta ultimamente
ricorresse ed emendò”. Ciò non valse a spegnere la sua inquietudine e a farlo recedere dal disegno di riscrivere il suo
poema, come risulta anche dal sonetto che abbiamo sopra riportato.
7
2. L’età dell’oro e dei pastori
Il primo capolavoro di Tasso, l’Aminta, rappresentato nei giardini dell’isoletta di Belvedere a
Ferrara nel 1573, s’inserisce nell’atmosfera cortigiana del tardo Rinascimento, di cui evoca gli
ultimi bagliori nell’aura incantata del locus amoenus, nel paradiso dei pastori dove regnano
incontrastati la natura e l’amore. L’azione scenica del dramma pastorale (Tasso la chiamò “favola
boschereccia”), in cinque atti, è sviluppata sul modello dei carmi dialogati, gli Idilli e le Bucoliche,
rispettivamente di Teocrito e di Virgilio, legati al genere della poesia bucolico-pastorale. Un genere
che sceglie le trame e i personaggi tra i pastori e i contadini e che ha per argomento la vita agreste
sullo sfondo di una natura idealizzata, luogo immaginario di evasione, di serenità e armonia. Si
tratta di una tradizione originata tra le popolazioni greche della Sicilia, che l’umanesimo e il
rinascimento assorbono a un livello di raffinata sofisticazione. Ad essa si aggiungono come
antecedenti letterari il Ninfale fiesolano di Boccaccio, le Stanze di Poliziano, l’Arcadia di
Sannazzaro e il teatro cortigiano cinquecentesco.
Il plot, ossia l’intreccio, è semplice e lineare, senza le complicazioni narrative che si possono
rintracciare, ad esempio, nel Pastor fido di Guarini. La vicenda, incentrata su una storia d’amore,
dopo una serie di peripezie si conclude nel lieto fine. Le azioni, piuttosto che rappresentate sulla
scena, vengono narrate nei dialoghi tra i vari personaggi, dando così agli spettatori, nell’atmosfera
complice del racconto, la suggestione del fiabesco esistere di un altrove (il bosco). Silvia, una ninfa
dedita alla caccia, disdegna l’amore di Aminta, un pastore dall’animo appassionato. Dopo il prologo
di Amore, entrano in scena il pastore Tirsi e la ninfa Dafne. Mentre Dafne esorta la ritrosa Silvia a
cedere alle gioie della seduzione amorosa, Tirsi ascolta, commosso, le confidenze di Aminta. I due
suggeriscono al giovane di recarsi alla fonte dove Silvia è solita bagnarsi e di confessarle il suo
amore. Aminta segue il consiglio e, giunto alle acque, scorge Silvia aggredita da un satiro e legata
nuda a un albero. La libera, ma Silvia, vergognosa della propria nudità, fugge senza dire una parola.
In seguito viene scoperto il velo di Silvia macchiato di sangue. Aminta viene a sapere dalla ninfa
Nerina che Silvia è stata sbranata dai lupi. Disperato, tenta di uccidersi gettandosi da una rupe. In
realtà Silvia è ancora viva (ha perso il velo inseguendo un lupo). Ella è profondamente commossa
dal gesto del pastore, che crede morto, e piangendo si getta sul suo corpo. È il momento più
drammatico:
Ma, come Silvia il riconobbe, e vide
le belle guancie tenere d’Aminta
iscolorite in sí leggiadri modi
che vïola non è che impallidisca
sí dolcemente, e lui languir sí fatto
che parea già ne gli ultimi sospiri
essalar l’alma: in guisa di baccante7
gridando e percotendosi il bel petto,
lasciò cadersi in su ’l giacente corpo:
e giunse viso a viso e bocca a bocca.
(Atto V, sc. I, vv. 1934-1943)
Dal pastore Elpino sappiamo in realtà che Aminta è solo svenuto: un provvidenziale cespuglio ha
scongiurato la catastrofe. Quando riprende conoscenza si trova tra le braccia della sua amata,
finalmente innamorata e pronta alle nozze. Venere nell’epilogo cercherà Amore tra il pubblico dei
cortigiani per celebrare il trionfo sul desiderio di morte e la gioia dei sensi. L’espediente, suggerito
da un carme di Mosco, rivela il proposito di Tasso di coinvolgere gli spettatori nella
7
baccante: nome delle donne che, in preda a furiosa passione, nelle feste di Bacco danzavano gridando e cantando.
L’abbandono sensuale dell’ombrosa Silvia scandisce il trionfo dell’amore sulla morte. Tutta la vicenda, ribaltandone il
finale in senso lieto, evoca il racconto mitico di Venere, dea dell’amore, che grida la sua disperazione sopra il corpo
esanime di Adone, il giovinetto da lei amato, straziato da un cinghiale.
8
rappresentazione scenica con un singolare effetto di teatro nel teatro.
L’opera in versi endecasillabi e settenari (simile nella sua struttura metrica a un lungo madrigale) è
un capolavoro di perfezione tecnica, intriso di una sensualità venata di malinconia. Il dissidio tra le
lusinghe della natura e i limiti imposti all’uomo dai condizionamenti del mondo reale segna il
distacco dalla visione antropocentrica propria del rinascimento. La spiritualità controriformistica
contrappone all’ardore dei sensi il sentimento del peccato. Il contrasto non si risolve nell’ascesi,
come accadrà al Tasso maturo, ma piuttosto nel rimpianto nostalgico di una mitica età dell’oro, di
un Paradiso dell’innocenza perduta.
Un aspetto drammatico e inquietante della favola è costituito dal problema del male, incarnato dalla
figura antagonista del Satiro innamorato. L’eros, con questo personaggio, si converte in violenza, il
desiderio amoroso in volontà di stupro. Il gesto estremo del Satiro trova un’autogiustificazione nella
sua condizione di escluso, nella sua orgogliosa contrapposizione alle mollezze effeminate dei
pastori-poeti, che è come dire il mondo cortigiano. Emerge nell’episodio un’arcaica concezione
della donna come preda, su cui “scaricare la componente violenta del desiderio” (G. M. Anselmi).
Così recita nella sua autodifesa il Satiro brutale:
Ma perché in van mi lagno? Usa ciascuno
quell’armi che gli ha date la natura
per sua salute: il cervo adopra il corno,
il leone gli artigli, ed il bavoso
cinghiale il dente; e son potenza ed armi
de la donna bellezza e leggiadria;
io, perché non per mia salute adopro
la violenza, se mi fe’ Natura
atto a far violenza ed a rapire?
(Atto II, sc. I, vv. 795-803)
L’innamoramento di Aminta
Il giovane Aminta, personaggio timido, schivo ed infelice, confida al maturo Tirsi (forse il poeta stesso) le
vicissitudini del suo non corrisposto innamoramento. Prima di confessargli il bacio ottenuto da Silvia con un
“gentile” inganno, in una parte precedente dell’episodio, che qui non riportiamo, egli evoca con nostalgia la
sua fanciullezza vissuta in mezzo a una natura in fiore, la sua amicale intimità con Silvia (la più vaga e cara
verginella/ che mai spiegasse al vento chioma d’oro) e l’inquieto insorgere nel suo animo del sentimento
amoroso: un’estranea dolcezza/ che lasciava nel fine/ un non so che d’amaro.
(da “Parnaso Italiano”, TorquatoTasso, Giulio Einaudi ed. Torino, 1961)
AMINTA
A l’ombra d’un bel faggio Silvia e Filli
sedean un giorno, ed io con loro insieme,
quando un’ape ingegnosa, che cogliendo
sen’ giva il mèl per que’ prati fioriti8,
a le guancie di Fillide volando,
a le guancie vermiglie come rosa,
le morse e le rimorse avidamente:
ch’a la similitudine ingannata9
forse un fior le credette. Allora Filli
cominciò lamentarsi, impazïente
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Che…prati fioriti: se ne andava cogliendo il miele per quei prati fioriti. La storia dell’ape è ispirata dal romanzo grecoalessandrino di Achille Tazio (II sec. d. C.), Gli Amori di Clitofonte e di Leucippe. Il motivo è presente anche nella
poesia di Ronsard e nella pittura di Lucas Cranach il Vecchio. Filli o Fillide è la compagna di Silvia e Aminta
9
la similitudine ingannata: l’ape è ingannata dal fatto che le guance di Fillide sembravano rose
9
de l’acuta puntura:
ma la mia bella Silvia disse: – Taci,
taci, non ti lagnar, Filli, perch’io
con parole d’incanti leverotti
il dolor de la picciola ferita.
A me insegnò già questo secreto
10
la saggia Aresia , e n’ebbe per mercede
11
quel mio corno d’avolio ornato d’oro – .
Così dicendo, avvicinò le labra
12
de la sua bella e dolcissima bocca
a la guancia rimorsa, e con soave
susurro mormorò non so che versi.
Oh mirabili effetti! Sentí tosto
cessar la doglia, o fosse la virtute
di que’ magici detti, o, com’io credo,
la virtú de la bocca,
che sana ciò che tocca13.
Io, che sino a quel punto altro non volsi14
che ’l soave splendor degli occhi belli,
e le dolci parole, assai più dolci
che ’l mormorar d’un lento fiumicello
che rompa il corso fra minuti sassi,
15
o che ’l garrir de l’aura infra le frondi ,
allor sentii nel cor novo desire
d’appressare a la sua questa mia bocca;
e fatto non so come astuto e scaltro
più de l’usato (guarda quanto Amore
aguzza l’intelletto!) mi sovvenne
16
d’un inganno gentile co ’l qual io
recar potessi a fine il mio talento17:
che, fingendo ch’un’ape avesse morso
il mio labro di sotto, incominciai
a lamentarmi di cotal maniera,
che quella medicina, che la lingua
non richiedeva, il volto richiedeva.
La semplicetta18 Silvia,
pietosa del mio male,
s’offrí di dar aita
a la finta ferita, ahi lasso, e fece
più cupa e più mortale
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Aresia: una ninfa
e n’ebbe…d’oro: ed ebbe per ricompensa quel mio corno d’avorio ornato d’oro
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L’accenno alla “bella e dolcissima bocca” esprime un desiderio struggente. L’ardore sensuale di Aminta ora si nutre
solo del ricordo di un bacio.
13
.o fosse…tocca: o fosse per il potere di quelle parolette magiche o, come io credo, per il potere di quella bocca che
guarisce tutto ciò che sfiora con le sue labbra.
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volsi: volli
15
assai più dolci…frondi: assai più dolci del mormorio di un lento fiumicello che interrompe il suo corso urtando i
piccoli sassi o del frusciare del vento tra le fronde.
16
inganno gentile: l’espressione, pressoché intraducibile, assume quasi il valore di un ossimoro. L’inganno non è
premeditato, è piuttosto un’intuizione suggerita da Amore (e dunque “gentile”), un impulso irresistibile che s’impone
alla mente confusa e turbata di Aminta. Si noti l’aggettivo “gentile”, che evoca atmosfere stinovistiche.
17
recar…talento: potessi soddisfare il mio desiderio
18
semplicetta: ingenua, innocente. L’aggettivo ci dà tutta la misura della grazia e della tenerezza con cui Tasso racconta
la storia d’amore
11
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la mia piaga verace,
quando le labra sue
giunse a le labra mie.
Né l’api d’alcun fiore
còglion sí dolce il mèl ch’allora io colsi
da quelle fresche rose,
se ben gli ardenti baci,
che spingeva il desire a inumidirsi,
raffrenò la temenza
e la vergogna, o felli
19
più lenti e meno audaci .
Ma mentre al cor scendeva
quella dolcezza mista
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d’un secreto veleno ,
tal diletto n’avea
che, fingendo ch’ancor non mi passasse
il dolor di quel morso,
fei21 sí ch’ella più volte
vi replicò l'incanto.
Da indi in qua andò in guisa crescendo
il desire e l’affanno impazïente
22
che, non potendo più capir nel petto,
fu forza che scoppiasse; ed una volta
che in cerchio sedevam ninfe e pastori,
23
e facevamo alcuni nostri giuochi ,
che ciascun ne l’orecchio del vicino
mormorando diceva un suo secreto,
– Silvia, – le dissi, – io per te ardo, e certo
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morrò, se non m’aiti –. A quel parlare
chinò ella il bel volto, e fuor le venne
un improviso, insolito rossore
che diede segno di vergogna e d’ira25;
né ebbi altra risposta che un silenzio,
un silenzio turbato e pien di dure
minaccie. Indi si tolse, e più non volle
né vedermi né udirmi.
(Atto I, scena seconda)
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se ben…audaci: sebbene il timore e la vergogna raffrenassero gli ardenti baci, così ardenti che il desiderio spingeva a
inumidire le labbra, e li facesse meno intensi e meno audaci. Si noti l’audace anastrofe del soggetto (il timore e la
vergogna) collocato dopo il verbo e l’uso singolare del verbo (raffrenò) in presenza di due soggetti, come se il timore e
la vergogna fossero tutt’uno. Silvia ama Aminta come un fratello e non avverte nel bacio la passione amorosa
20
d’un secreto veleno: è un veleno dolce-amaro che nutre e accresce l’intensità dell’ardore
21
fei: feci
22
capir: entrare, essere accolto nel petto
23
Si accenna a un gioco di società, che consisteva nel sussurrare qualche parola all’orecchio di una donna, che doveva
rispondere ad alta voce. A sua volta un altro dei partecipanti al gioco doveva indovinare quello che era stato detto in
segreto. Ci descrive questo gioco Scipione Bargagli (1540-1612) nel suo Dialogo dei giuochi che ne le vegghie senesi si
usano di fare. Ne troviamo un accenno anche nell’Orlando furioso (VII,21). Il riferimento connota l’atmosfera galante e
“spensierata” del modello di società a cui la favola è diretta per un’estetica dell’intrattenimento
24
aiti: aiuti
25
Ira: per l’inganno subìto e per un desiderio che nel bacio ha violato la sua intimità. Tasso è uno straordinario
conoscitore dell’animo femminile, in questo caso incarnato da una donna dal cuore di pietra. Si aggiunga che l’ira,
causa di molteplici sventure, è motivo che ritorna con insistenza nella poesia tassiana
11
GUIDA ALL’ANALISI
Struttura
Metro: alternanza di endecasillabi e settenari sul modello dei madrigali.
Il racconto di Aminta interpreta, nella sua essenza profonda, il carattere idillico ed elegiaco, erotico
e nostalgico, del genere letterario che prende il nome di favola pastorale. Le azioni che essa
rappresenta sono popolate da personaggi mitologici sullo sfondo di paesaggi naturali impervi e
boscosi. Tasso definisce il dramma “favola boschereccia”.
Temi e forme
Tutta la vicenda è incentrata sulla storia di un bacio sottratto furtivamente, uno “scherzo”, insieme
malizioso e innocente, che risponde a un gusto giocoso del tempo. La love story dei due giovinetti,
volta a soddisfare le esigenze di un pubblico fatuo e raffinato, si svolge in un’atmosfera di sogno,
senza accenti forti e drammatici, evocata da versi leggeri, dolci, apparentemente spontanei, ma in
realtà frutto di una sofisticata sapienza letteraria che alterna notazioni liriche e pause narrative.
Esercizi
1) Esegui la parafrasi in prosa del testo.
2) Individua la distribuzione degli accenti ritmici nei settenari. Ricorda che nei settenari gli
accenti possono cadere sulle sillabe 1-6; 1-4-6; 2-6; 3-6; 4-6.
3) La dichiarazione d’amore, la scena dei baci, i giochi di società insieme con i motivi che
l’accompagnano, le malizie, il desiderio, il timore, il pudore ritroso e la vergogna, lasciano
trasparire sotto il velo allusivo della favola un modello di società organizzata su codici di
comportamento sui quali ti invitiamo a soffermarti con opportune riflessioni.
4) Nella scena I dell’Atto secondo compare la figura antagonista del Satiro, creatura mostruosa
che vive nella natura selvaggia, caratterizzato da aggressività e lascivia. Il Satiro incarna una
sorta di antimondo barbaro e violento che converte l’istinto erotico in istinto criminale in
antitesi al mondo dei pastori, luogo idillico di virtù e gentilezza. Leggi l’intero episodio
(vv.724-820) e trai spunto per un’analisi dei fattori che scatenano la violenza maschile sulle
donne e sulla “cultura” che la favorisce.
Coro dell’atto I
I cori furono aggiunti da Tasso in un secondo tempo, come commento lirico del poeta e con un
intento di comunicazione diretta con gli spettatori. Nel coro dell’atto I Tasso evoca con nostalgico
rimpianto la mitica età dell’oro narrata, per la prima volta, dal poeta greco Esiodo, vissuto tra l’VIII
e il VII sec. a. C. Legata a una concezione progressiva della storia umana, che contrappone alla
decadenza del presente un tempo remoto di pace e felicità, l’età dell’oro è espressione di
un’esigenza retrospettiva, frutto di un ripiegamento interiore e di un’evasione fantastica che
sostituisce al mondo reale la letteratura, l’universo incantato delle parole. Al mito esiodeo, ripreso
nel mondo romano da Ovidio, si contrappone nel Cinquecento la teoria basata sul De rerum natura
di Lucrezio, secondo cui il processo di civilizzazione avrebbe reso più accettabile, attraverso il
lavoro, la condizione di vita degli esseri umani.
CORO
26
27
O bella età de l’oro,
non già perché di latte
26
sen’ corse il fiume e stillò mèle il bosco;
non perché i frutti loro
dier da l’aratro intatte
le terre, e gli angui errâr senz’ira o tòsco27;
non perché nuvol fosco
656
660
non già…il fiume: non già perché corsero fiumi di latte: l’immagine è tratta dalle Metamorfosi di Ovidio
angui…tòsco: le serpi erravano senza ira o veleno
12
non spiegò allor suo velo,
ma in primavera eterna,
ch’ora s’accende e verna,
rise di luce e di sereno il cielo;
né portò peregrino
o guerra o merce agli altrui lidi il pino28;
ma sol perché29 quel vano
nome senza soggetto,
quell’idolo d’errori, idol d’inganno,
quel che dal volgo insano
onor poscia fu detto,
che di nostra natura ’l feo tiranno30,
non mischiava il suo affanno
fra le liete dolcezze
31
de l’amoroso gregge ;
né fu sua dura legge32
nota a quell’alme in libertate avvezze,
ma legge aurea e felice
che natura scolpì: S'ei piace, ei lice33.
Allor tra fiori e linfe34
traèn dolci carole35
36
gli Amoretti senz’archi e senza faci ;
sedean pastori e ninfe
meschiando a le parole
vezzi e susurri, ed ai susurri i baci
strettamente tenaci;
la verginella ignude
37
scopria sue fresche rose ,
ch’or tien nel velo ascose,
e le poma del seno acerbe e crude;
e spesso in fonte o in lago
38
scherzar si vide con l’amata il vago .
665
670
675
680
685
690
28
non perché nuvol fosco…il pino: non perché il cielo che ora si accende e brilla (verna, da ver, “primavera”), non si
velò allora di nuvoli foschi e rise luminoso e sereno, né la nave (il pino) viaggiando in lontani mari (peregrino) portò o
merce o guerra ai lidi altrui. Il passo può anche essere inteso diversamente attribuendo a verna il significato di “fare
inverno”, dal lat. hibernare:: il cielo che ora passa dal calore estivo al freddo invernale s’iirradiava di luce e di sereno in
un’eterna primavera
29
ma sol perché…: dopo una serie di proposizioni causali negative, con le quali si respingono le tradizionali
interpretazioni dell’antica età dell’oro, una proposizione causale positiva, preceduta dalla congiunzione avversativa,
rivendica la novità dell’assunto tassesco: al tempo antico non c’era l’Onore a contrapporsi al Piacere. Si noti come
l’elaborata struttura sintattica e l’accumulazione delle subordinate denotino un gusto tipicamente manieristico
30
quel vano…feo tiranno: quel nome vuoto, senza sostanza, di cui gli uomini fanno un idolo, che è per loro causa di
errori e di inganni, quel nome che dalla moltitudine stolta fu detto Onore, che lo rese tiranno della nostra natura umana.
31
amoroso gregge: schiera degli innamorati
32
né fu sua dura legge…: né a quelle anime, abituate alla libertà, fu nota la dura legge dell’onore
33
S’ei piace, ei lice: è lecito tutto ciò che piace. L’edonismo rinascimentale, fondato sul principio della libertà amorosa
senza divieti e costrizioni, trova qui una compiuta affermazione e chiude una lunga stagione avviata da Boccaccio. Ma
dove questa concezione era accompagnata dal trionfante vitalismo dell’autore del Decameron, ora ritroviamo una
struggente nostalgia per un’età immaginata e perduta, congiunta a un vivo senso del limite d’imperfezione della natura
umana
34
linfe: acque
35
traèn dolci carole: eseguivano dolci danze. Il quadretto idillico anticipa temi e toni della poesia arcadica
36
Amoretti senz’archi e senza faci: piccoli Amori privi di armi di offesa, le frecce e le fiaccole. Nessuno rifiutava le
profferte d’amore
37
Rose: le bellezze del suo giovane corpo dalla pelle rosata
13
Tu prima, Onor, velasti
695
la fonte dei diletti,
negando l’onde a l’amorosa sete;
tu a’ begli occhi insegnasti
di starne in sé ristretti,
e tener lor bellezze altrui secrete39;
700
tu raccogliesti in rete
le chiome a l’aura sparte;
tu i dolci atti lascivi
fêsti ritrosi e schivi;
40
a i detti il fren ponesti, a i passi l’arte ;
705
opra è tua sola, o Onore,
che furto sia41 quel che fu don d’Amore.
E son tuoi fatti egregi
le pene e i pianti nostri.
42
Ma tu, d’Amore e di Natura donno ,
710
tu domator de’ Regi,
che fai tra questi chiostri,
che la grandezza tua capir non pònno?43
Vattene, e turba il sonno
a gl’illustri e potenti44:
715
noi qui, negletta e bassa
turba, senza te lassa45
viver ne l’uso de l’antiche genti.
Amiam, che non ha tregua
con gli anni umana vita, e si dilegua.
720
Amiam, che ’l Sol si muore e poi rinasce:
a noi sua breve luce
46
s’asconde, e ’l sonno eterna notte adduce . (Atto I, scena seconda)
GUIDA ALL’ANALISI
Struttura
Metro: il coro dell’atto I ha lo schema metrico della canzone e riproduce il ritmo languido e cadenzato
della canzone di Petrarca, Chiare, fresche et dolci acque con strofe di settenari e endecasillabi. Il
congedo ripropone lo schema degli ultimi tre versi delle cinque stanze (rime: XyY) composte
ciascuna da tredici versi. Schema metrico delle stanze: abCabC (fronte), c (chiave), deeDfF (sirima).
Le lettere maiuscole indicano gli endecasillabi, le minuscole i settenari.
38
il vago: l’amante
Tu prima…secrete: Tu, dapprima, o Onore, celasti la fonte dei piaceri negando le fresche acque (le membra nude)
alla sete d’amore degli innamorati, tu insegnasti ai begli occhi a starsene abbassati e a tenere segrete le loro bellezze agli
occhi altrui
40
A i detti…arte: un freno alle parole, ai passi l’arte d’incedere con modestia
41
che furto sia…: che ciò che l’Amore naturale aveva donato agli esseri umani, ora sia goduto furtivamente
42
donno: tiranno
43
che fai…ponno: che fai tra queste chiuse selve che non possono contenere la tua grandezza?
44
potenti: si avverte una nota polemica, dichiarata dall’umile schiera dei cantori, nei confronti dell’ambiente cortigiano
corrotto dai suoi “civili” costumi. Tasso avverte l’irrimediabile frattura tra natura e civiltà: un tema che sarà
ampiamente approfondito nel Settecento
45
lassa: lascia
46
Le ultime parole del coro traducono alcuni versi del carme V di Catullo: “i soli possono tramontare e risorgere;
quando per noi la breve luce è spenta, dormiamo un’unica eterna notte”. Al rimpianto nostalgico del paradiso perduto
s’accompagnano la malinconia per il tempo che fugge e il pensiero della morte. Tasso celebra un mito millenario che tra
breve Cervantes sottoporrà a una feroce dissacrazione celebrandone, per così dire, il de profundis
39
14
L’argomento ripropone il motivo cortese dell’aspirazione alla bellezza, alla grazia e alle gioie
dell’amore. Nella concisa enunciazione dantesca, S’ei piace, ei lice (cfr. Che libito fe’ licito in sua
legge, Dante, Inferno, V, 56) si riassume tutto il messaggio della favola.
Temi e forme
Alla celebrazione edonistica del piacere e all’appassionata invocazione all’età dell’oro il poeta
contrappone il tempo presente, con il suo codice di comportamento sociale. Un tempo in cui la libertà
degli istinti naturali è frenata e controllata dall’ “Onore”. Che cosa intende Tasso con questo termine?
È difficile da definire: il pudore, le convenzioni, il falso decoro e la falsa dignità delle corti, la stessa
etica imposta dalla Controriforma con i suoi pregiudizi e i suoi formalismi. Potremmo dire che
l’Onore, emblematicamente, contrappone alla gioia di vivere i guasti della civiltà. Giovan Battista
Guarini nel Pastor fido, in un coro analogo, dedicato all’età dell’oro, sostituisce all’Onore l’Onestà,
accentuando l’intonazione moralistica e controriformista.
L’abbandono ai moti della fantasia, il tentativo di evasione in un mondo di sogno è venato di
malinconia. Il coro si conclude con un accorato invito all’amore, turbato dal consapevole
riconoscimento della caducità della vita e dal presentimento della morte.
I versi sono intessuti di artifici retorici (metafore, sineddochi, anastrofi, inversioni, parallelismi ecc.).
Il virtuosismo stilistico non compromette la limpidezza e la grazia musicale, lieve e sognante.
Esercizi e temi di ricerca
1) Individua le principali figure retoriche e i nessi di confronto con la canzone di Petrarca, Chiare,
fresche et dolci acque.
2) L’uso degli endecasillabi e dei settenari non è indifferente rispetto al tono, all’intensità lirica dei
versi e al variare delle emozioni acustico-musicali.
3) Tasso proietta in un mondo fantastico la sua aspirazione a un’umanità integrale, in grado di vivere
con pienezza di sensi l’esperienza fondamentale dell’amore inteso come conoscenza dell’altro.
Leggi in proposito il seguente passo delle Opere e i giorni del poeta greco Esiodo.
(Esiodo, Le opere e i giorni, trad. G. Arrighetti, Milano, Garzanti, 1985)
Prima una stirpe aurea di uomini mortali
fecero gli immortali che hanno le olimpie dimore.
Erano ai tempi di Crono, quand’egli regnava nel cielo;
come dèi vivevano, senza affanni nel cuore,
lungi e al riparo da pene e miseria, né per loro arrivava
la triste vecchiaia, ma sempre ugualmente forti di gambe e di braccia,
nei conviti gioivano lontano da tutti i malanni;
morivano come vinti dal sonno, e ogni sorta di beni
c’era per loro; il suo frutto dava la fertile terra
senza lavoro, ricco e abbondante, e loro, contenti,
sereni, si spartivano le loro opere in mezzo a beni infiniti,
ricchi d’armenti, cari agli dèi beati.
La narrazione di Esiodo è il primo riferimento nella storia della letteratura occidentale a una mitica
età dell’oro, collocata all’inizio dei tempi, nell’era di Crono, prima dell’avvento di Zeus, che nella
religione greca era considerato il dio garante della convivenza civile e della giustizia. Per il poeta
greco il lavoro umano, che ha un fondamento etico, è un obbligo impartito agli uomini dagli dèi. E
tuttavia, prima che Prometeo avesse sottratto a Zeus il fuoco per darlo agli uomini, questi vivevano
in pace e attingevano frutti spontanei dalla terra, liberi dalle fatiche, dalle miserie e dai dolori. Dopo
che Zeus, per vendicarsi di Prometeo, donò al genere umano la bellissima Pandora, costei schiuse il
vaso che portava con sé diffondendo nel mondo tutti i mali e lasciando nel fondo solo la speranza. Il
dono della donna segnò la caduta dell’uomo e l’inizio di una lenta e irrimediabile decadenza della
razza umana. All’età dell’oro, nella quale gli uomini vivevano felici come gli dèi, fecero seguito
quattro età: l’età dell’argento, del bronzo (dominate dall’empietà, dalla violenza e dalla guerra),
degli eroi, celebrati nella tradizione epica, e degli uomini. Venuta meno ogni regola di giustizia e di
15
pietas umana, Zeus porrà fine anche all’età degli uomini e tutti gli dèi abbandoneranno la terra.
Il mito venne accolto da Platone, che ne trasse ispirazione per la sua idea del mondo. Nella
tradizione latina venne cantato da Virgilio e da Ovidio, per essere poi ripreso e sviluppato in campo
artistico e filosofico fino all’età moderna, dove, come s’è accennato, trova una feroce e sarcastica
dissacrazione nel capolavoro di Cervantes. Segnali di demistificazione si colgono anche nell’Aminta.
Nella prima scena dell’Atto primo alla sdegnosa Silvia che disprezza le dolcezze d’amore e ama
inseguire le fiere nei boschi così replica Dafne:
Insipidi diporti veramente,
ed insipida vita: e, s’a te piace,
è sol perché non hai provata l’altra47.
Così la gente prima, che già visse
nel mondo ancora semplice ed infante,
stimò dolce bevanda e dolce cibo
l’acqua e le ghiande, ed or l’acqua e le ghiande
sono cibo e bevanda d’animali,
poi che s’è posto in uso il grano e l’uva.
(108-116)
47
Insipidi…l’altra: insipidi svaghi (la caccia) e insipida vita, e se a te piace, è sol perché non hai provato l’altra (la vita
amorosa)
16
3. Le Rime
Le oltre duemila liriche di Tasso furono composte nell’intero arco della sua attività poetica. A
differenza del Canzoniere di Petrarca esse non hanno un’unità tematica. Si possono distinguere in
tre gruppi: 1) le Rime che precedono il periodo ferrarese; 2) Rime risalenti alla stagione dell’Aminta
e della Gerusalemme liberata; 3) Rime composte negli ultimi anni della vita. Ai primi due
appartengono rime d’amore, d’occasione e d’encomio, al terzo gruppo rime d’intonazione morale e
religiosa. Dal canto suo Tasso pervenne solo a raccolte parziali con le edizioni del 1591 e del 1593,
sulle quali poi intervenne, com’era suo costume, con una serie infinita di correzioni.
La fama conquistata con la Gerusalemme ha in qualche modo distolto l’attenzione del grande
pubblico dei lettori dalla produzione lirica del nostro poeta. In realtà, anche se Tasso non avesse
composto la Gerusalemme, egli sarebbe rimasto comunque il più grande poeta del Cinquecento. A
limitare l’interesse ha anche contribuito l’idea che le liriche debbano essere comunque confinate
entro i rigidi schemi della tradizione petrarchesca, e il fondo romantico della nostra concezione
della poesia come assoluta individualità e originalità ci impedisce di apprezzare in pieno la perizia
stilistica e la sapiente rielaborazione della tradizione classica e volgare realizzata attraverso un
“processo di interna corrosione degli schemi cinquecenteschi” (L. Caretti). Da queste intrinseche
peculiarità, lungi dall’apparire inautentiche, scaturisce la “spontaneità” e la naturalezza del suo
poetare. La funzione poetica e la funzione espressiva coincidono, nel senso che tra l’io lirico, ossia
il soggetto che parla, e la figura storica dell’autore ogni distanza è annullata. Le parole,
manieristicamente cariche di significati connotativi, di musicalità sentimentale e di vago patetismo,
ci parlano del poeta, della sua vita, dei moti dell’animo, della sua esperienza del dolore, della sua
“sensualità acuta e sottile” (M. Fubini), ci offrono squarci di paesaggi crepuscolari, contemplazioni
fantastiche, atmosfere musicali e incantate, sguardi furtivi, gesti di amoroso affetto, allusive
corrispondenze, notazioni tragicamente personali: un’intera esistenza dispersa in una somma di
frammenti.
3.1 Raccordo della poesia con la musica
Un aspetto importante della lirica tassesca è costituito dal raccordo della poesia con la musica. La
fluidità del verso obbedisce a un ritmo interiore, a un senso squisito dell’armonia, e trova la sua
misura nel madrigale, una struttura poetica, come si diceva allora “facile, gentile e
compassionevole”, congeniale alla sensibilità estetica del Cinquecento e destinata a diventare nei
secoli successivi la più alta forma poetico-musicale di carattere profano. I madrigali di Tasso
ispirarono famosi musicisti dell’epoca, come Luca Marenzio, Carlo Gesualdo da Venosa e
Claudio Monteverdi.
Come esempi riportiamo cinque autentici capolavori, veri gioielli del genere: un ritmo cantabile in
cui si esprime con una facile vena musicale il tormento d’amore (Io non posso gioire), una
composizione ispirata a una languida e delicata sensualità (Soavissimo bacio), l’evocazione lirica di
un paesaggio (Qual rugiada o qual pianto) e un epitaffio funebre (O vaga tortorella).
(Ne la lontananza de la sua donna dice di non poter avere alcun piacer lontano da lei se non quello
ch’egli sente nel patir per lei)
Io non posso gioire
lunge da voi che sete il mio desire;
ma ’l mio pensier fallace48
passa monti e campagne e mari e fiumi:
e m’avvicina e sface49
48
49
pensier fallace: fantasticare ingannevole
sface: liquefa, come cera
17
al dolce foco de’ be’ vostri lumi:
e ’l languir50 sì mi piace
ch’infinito diletto ho nel martire.
GUIDA ALL’ANALISI
Struttura
Metro: madrigale di settenari e endecasillabi a versi alterni.
Schema: aAb CbC bA (le lettere minuscole indicano i settenari)
Temi e forme
Il tema provenzale della lontananza è accompagnato da uno struggimento d’amore che spegne la
gioia e si consuma: nel “martirio” del suo consumarsi consiste il suo “diletto”. Non un’impressione
fuggevole racchiusa in pochi versi, ma una lenta agonia, un dolce naufragare. La desolata
constatazione iniziale (“io non posso gioire”) denuncia una malattia dell’anima, una solitudine
esistenziale che si dispone a riconoscere la propria incapacità di vivere, pur nella suggestione del
dolce foco de’ be’ vostri lumi.
***
Soavissimo bacio,
del mio lungo servir con tanta fede
dolcissima mercede!
Felicissimo ardire
de la man che vi tocca
tutta tremante il delicato seno,
mentre di bocca in bocca
l’anima per dolcezza allor vien meno!
GUIDA ALL’ANALISI
Struttura
Metro: madrigale di endecasillabi e settenari a versi alterni.
Schema: aBb cdE dE (le lettere minuscole indicano i settenari)
Temi e forme
Il motivo “gentile” del bacio tradisce nell’espressione tutta tremante l’ispirazione dantesca, dal
celebre verso del canto V dell’Inferno. Ma qui si accentuano la “voce epicurea” del rinascimento e
la sensualità languida e un po’ morbosa del poeta (la mano che sfiora il delicato seno). Si noti anche
l’eredità cortese nell’espressione lungo servir con tanta fede, trasferita nell’ambiente erotico e
galante della corte ferrarese.
***
Qual rugiada o qual pianto,
quai lagrime eran quelle
che sparger vidi dal notturno manto
e dal candido volto de le stelle?
e perché seminò la bianca luna
di cristalline stelle51 un puro nembo
a l’erba fresca in grembo?
perché ne l’aria bruna
50
languir: venir meno. Si noti la disposizione ossimorica degli ultimi due versi
Stelle: secondo un’altra lezione stille. Stelle è metafora per indicare le stille luminose della rugiada. Si noti la
duplicazione di significato della parola “stella”, usata prima in senso letterale e poi in senso metaforico
51
18
s’udian, quasi dolendo, intorno intorno
gir52 l’aure insino al giorno?
fûr53 segni forse de la tua partita,
vita de la mia vita?
Struttura
Metro: madrigale di endecasillabi e settenari.
Schema: abAb CDd cEe (i settenari sono indicati con lettera minuscola)
Temi e forme
Il poeta nella contemplazione di un paesaggio notturno rivive la propria segreta malinconia. Nel suo
interrogarsi è il segno dolente del suo distacco dall’amata. Nella notte cupa le gocce di rugiada
brillano di una bianca luce lunare e sul manto erboso si distende una coltre di stelle. La musica
tenue delle parole stravolge e dissolve i significati tradizionali. Secondo il mito, cui forse allude il
poeta, la rugiada è il pianto di Aurora per la morte del figlio suo Mèmnone, ucciso nella guerra di
Troia. Si noti inoltre nel finale del componimento l’inserzione di quell’avverbio forse con tutta la
sua enigmatica e inquieta indeterminatezza.
L’anafora nei versi iniziali e la ripetizione delle interrogazioni retoriche contribuiscono a delineare
l’andamento melodico di questo stupendo componimento disegnando una trama di corrispondenze
sonore e musicali in un universo concentrato in gocce di rugiada.
***
O vaga tortorella,
tu la tua compagnia54
ed io piango colei che non fu mia.
Misera vedovella,
tu 55sovra il nudo ramo,
a piè del secco tronco io la richiamo:
ma l’aura solo e ’l vento
risponde mormorando al mio lamento.
Struttura:
Metro: madrigale composto da endecasillabi e settenari.
Schema: abB acC dD con frequenza di rime baciate e prevalenza di settenari
Madrigale, insieme ad altri, composto su richiesta di Giulio Mosti per la morte della signora
Flaminia
Temi e forme
In un quadretto idillico, intriso di affetto e tenerezza, è racchiuso il destino di una tortorella e di una
creatura umana, ambedue rimaste prive della loro compagna. Solo il mormorio del vento fa eco al
lamento del poeta.
Si noti la dittologia del penultimo verso: ma l’aura solo e ’l vento. La coppia di significato identico
mira a conseguire un effetto ritmico melodico.
Esercizi
1) Esegui la parafrasi in prosa dei madrigali che abbiamo riportato e di altri che affidiamo alle
tue scelte personali.
2) Tasso esprime nei suoi madrigali i segreti turbamenti del suo animo raffigurandoli, con
sottili corrispondenze, in paesaggi naturali delicatamente tratteggiati. La lettura delle
52
gir: muoversi i soffi del vento quasi lamentandosi anch’essi fino allo spuntare del giorno
fûr: furono
54
compagnia: compagna: “o cara tortorella, tu piangi la tua compagna ed io piango la compagna che non mi
appartenne”
55
tu: “tu la richiami sopra il nudo ramo ed io la invoco ai piedi del secco tronco”.
53
19
composizioni che abbiamo riportato, e di altre che eventualmente vorrai leggere, può
spingerti a dimostrare le tue potenzialità espressive e a scrivere qualche madrigale di tua
ispirazione.
3) Ti proponiamo, per un confronto, un madrigale composto da un poeta contemporaneo,
Franco Fortini. Il titolo, Imitazione dal Tasso, rende esplicito l’omaggio al grande poeta.
Con accenti lirici e meditativi Fortini ripercorre nella sua memoria un amore vissuto come
amara esperienza di un’illusione delusa. La parola poetica nasce da un fermo, virile
distacco: Ora penso, e non tremo…
Fummo un tempo felici.
Io credendo di amarvi
E voi d’essere amata,
Se sperare altra in voi
Era amore, se accanto
A voi mentiva ogni mia pena e il canto.
Ora penso, e non tremo
All’errore che volsi
Lungo, in me stesso; e posano i rimorsi.
Posa anche il vento, brilla
Cadendo il giorno; e un ramo appena oscilla.
(Franco Fortini, Una volta per sempre, Einaudi, 1978)
3.2 Al Metauro
La canzone fu composta probabilmente nel 1578 quando il poeta, in preda a un’insopportabile
angoscia, durante una delle sue fughe da Ferrara aveva trovato rifugio nella villa di Fermig nano
(non lontano da Urbino, presso il fiume Metauro), ospite di Federico Bonaventura, filosofo e
giureconsulto. Nell’occasione egli tentò di porsi in contatto con il duca Francesco Maria II
Della Rovere con la speranza di trovare protezione. Nacque in questo contesto la canzone al
Metauro, fiumicello famoso per la sconfitta che i due consoli romani Claudio Nerone e
Livio Salinatore inflissero ad Asdrubale, fratello di Annibale, nel 207 a. C. In seguito, fallito
il suo progetto, riprese a girovagare per l’Italia, lasciando la canzone incompiuta. L’acuta
introspezione, di stampo manieristico, va ben oltre i tradizional i moduli espressivi del
petrarchismo quattro-cinquecentesco.
Metro: canzone composta da tre strofe di venti endecasillabi e settenari, senza congedo.
Schema: ABC aBC (aCB nella prima strofe) Cde DFGG DFGG FII. Le lettere minuscole indicano
i settenari.
vv. 1-20: Il poeta, fugace peregrino, è in cerca di
sicurezza e riposo. La quercia, simbolo di forza e
di resistenza contro le avversità dell’atmosfera,
con la sua ombra offre un riparo, a lui negato da
una sorte infelice.
56
O del grand'Apennino
figlio pícciolo sí, ma glorïoso
e di nome più chiaro assai che d’onde56,
fugace peregrino57
a queste tue cortesi amiche sponde
per sicurezza vengo e per riposo.
L’alta Quercia58 che tu bagni e feconde
5
d’onde: per portata di acqua
57
fugace peregrino: il Tasso - che dopo la sua partenza da Ferrara aveva per breve tempo dimorato in varie città –
rivela qui la consapevolezza di quel che egli era: creatura debole e infelice, costretta a peregrinare
perennemente senza meta. L’espressione ritorna, pressoché identica, nel proemio della Gerusalemme. Si è
voluto anche riconoscere nell’uso del termine “pellegrino” un significato religioso, che richiama il concetto
cristiano della vita come esilio
58
L'alta Quercia: è lo stemma dei Della Rovere, i duchi d'Urbino. L a quercia è simbolo di forza e di
resistenza ad ogni avversità, ma qui si presenta piuttosto come luogo che accoglie e protegge ed è immagine
che evoca il grembo materno
20
con dolcissimi umori, ond’ella spiega59
i rami si’ ch’ i monti e i mari ingombra,
mi ricopra60 con l’ombra.
10
L’ombra sacra, ospital, che altrui non niega61
al suo fresco gentil riposo e sede,
entro al piú denso62 mi raccoglia e chiuda,
sí ch’io celato sia da quella cruda
e cieca dèa63, ch’è cieca e pur mi vede,
15
64
ben ch’io da lei m’appiatti in monte o ’n valle
e per solingo calle
notturno io mova e sconosciuto65 il piede:
e mi saetta sì che ne’ miei mali
mostra tanti occhi aver quant’ella ha strali66 20
Ohimè! dal dí che pria67
vv. 21-30: Si affaccia un desiderio di morte.
trassi l’aure vitali e i lumi apersi
L’esistenza del poeta è segnata sin dal giorno in questa luce68 a me non mai serena,
della sua nascita da un’esperienza di dolore, da fui de l’ingiusta e ria69
cui può liberarlo solo la quiete eterna della tomba
nel luogo natio. Affiora un senso di oppressione
e di solitudine, che Tasso tornerà ad esprimere
ritrovandolo in Erminia, uno dei personaggi
femminili a lui più cari della Gerusalemme
Liberata.
vv. 31-60: All’immagine materna della quercia si
trastullo e segno70, e di sua man soffersi
piaghe che71 lunga età risalda a pena.
Sàssel la gloriosa72 alma sirena,
appresso il cui sepolcro ebbi la cuna:
così avuto v’avessi o tomba o fossa
a la prima percossa.73
Me dal sen74 de la madre empia fortuna
pargoletto divelse. Ah! di que’ baci,
ch’ella bagnò di lagrime dolenti,
25
30
59
ond’ella spiega…ingombra .: per cui essa dispiega i suoi rami tanto da occupare i monti e i mari. I Della
Rovere, che avevano dato al pontificato papi famosi - Sisto IV. da cui venne il nome alla Cappella Sistina, e
Giulio II -, estendevano il loro dominio dall’Appennino all’Adriatico
60
mi ricopra: mi accolga sotto la sua sicura protezione. La parola “ombra” si carica di significati allusivi all’albero
materno
61
che altrui non niega: che non nega agli altri
62
entro al più denso: dove i folti rami fanno più fitta e densa quell’ombra. Il poeta ritorna con insistenza sul suo
disperato bisogno di protezione.
63
cieca dea: la Fortuna, che si rappresentava bendata, perseguita il poeta. Ciò che per gli altri è un bene per lui diventa
un male.
64
in monte o ’n valle: in qualunque luogo io cerchi di nascondermi
65
notturno... e sconosciuto: riferiscili al soggetto io (notturno: di notte; aggettivo invece dell'avverbio; sconosciuto:
senza farmi riconoscere). Risuona in questi versi un’eco petrarchesca.
66
e mi saetta.... strali: per farmi male mostra di avere tanti occhi qunte sono le saette che mi scaglia
67
dal dì che pria: dal primo giorno in cui respirai l’aria che mi mantiene in vita. Questa sofferta notazione è la chiave
che ci consente di comprendere il dramma esistenziale del poeta. Il tono delle parole che seguono, così accorato,
esercitò suggestione e ispirò la poesia di Leopardi
68
in questa luce: in questa vita, che è gioia, e fu per me continua amarezza
69
de l’ingiusta e ria: della Fortuna ingiusta e malvagia
70
trastullo e segno: zimbello e bersaglio
71
che...appena: che solo un lungo periodo di tempo potrebbe a fatica risanare
72
Sàssel la gloriosa...cuna: se lo sa; ne è testimone la gloriosa sirena Partenope, presso il cui sepolcro ebbi la culla
73
così... a la prima percossa: così io vi avessi avuto o tomba o una semplice fossa al primo duro colpo dell’avversa
fortuna. Come poi racconta, Tasso allude alla sua dolorosa separazione dalla madre: un evento destinato a incidere
profondamente sulla sua personalità, causa della sua intima fragilità, del suo essere e sentirsi inerme dinanzi al mondo
74
Me dal sen... divelse: nel divelse è l’idea della violenza brutale compiuta dallaFortuna, tanto più empia in quanto si
accaniva contro un pargoletto innocente, strappandolo agli abbracci materrni
21
associa il ricordo triste dei genitori perduti, della
madre affettuosa e del “padre errante”.
La chiusa finale distrugge ogni speranza. Il
dolore del poeta è senza scampo e senza
conforto.
con sospir mi rimembra75 e de gli ardenti
preghi76, che se ‘n portâr l’aure fugaci:
35
ch’io non dovea77 giugner piú volto a volto
fra quelle braccia accolto
con nodi cosí stretti e sí tenaci.
Lasso! e seguii con mal sicure piante78,
qual Ascanio o Camilla79, il padre errante. 40
In aspro essiglio e ’n dura
povertà crebbi in quei sí mesti errori
intempestivo senso ebbi a gli affanni 80:
ch’anzi stagion, matura 81
l’acerbità de’ casi e de dolori
45
in me rendé l’acerbità de gli anni.
L’ègra spogliata 82 sua vecchiezza e i danni
83
narrerò tutti. Or che non sono io tanto
ricco de’ propri guai che basti solo
per materia di duolo?
50
Dunque altri 84 ch’io da me dev’esser pianto?
Già scarsi al mio voler sono i sospiri,
85
e queste due d’umor sí larghe vene
ll’uso del verbo “scaldare” emerge una straordinaria
intensità emotiva e comunicativa: il calore dettato
dall’affetto paterno nel momento della perdita si
converte in autentica disperazione.
non agguaglian le lagrime a le pene.
Padre, o buon padre 86, che dal ciel rimiri,
ègro e morto ti piansi, e ben tu ’l sai,
e gemendo scaldai
la tomba e il letto or che ne gli alti giri 87
55
75
con sospir mi rimembra: è ancora una reminiscenza petrarchesca (cfr. Chiare, fresche et dolci acque)
preghi: i vòti, invano formulati, di poter presto rivedere il figlioletto e il marito
77
ch’io non dovea...tenaci: perchè era destino ch’io non dovessi più godere degli abbracci di mia madre, la quale mi
stringeva così fortemente quasi più non volesse lasciarmi. Porzia de’ Rossi morí improvvisamente due anni dopo.
Tasso porterà con sé per sempre il lacerante ricordo del pianto della madre
78
con mal sicure piante: con passi ancora incerti
79
qual Ascanio o Camilla: Ascanio seguí Enea nell’esilio; Camilla, figlia di Mètabo re dei Volsci, fu portata via
bambina dal padre fuggente da Priverno. – il padre errante: il padre costretto ad errare di città in città e di corte in
corte. La citazione letteraria non è un semplice intarsio poetico. Essa vale a testimoniare quanto l’Eneide fosse viva e
presente nel patrimonio culturale e letterario del tempo. Ariostoe Tasso, come del resto lo stesso Dante, non possono
fare a meno di misurarsi con la poesia virgiliana
80
In aspro…affanni: crebbi in doloroso esilio dalla mia casa e in dura povertà in quel triste peregrinare, ed ebbi prima
del tempo conoscenza del dolore
81
ch’anzi stagion…anni: prima del tempo il grave peso degli eventi rese in me matura l’età giovanile “La stessa parola
(acerbità) è qui usata successivamente in due significati differenti: prima di ‘fierezza’, ‘amarezza’, poi di ‘immaturità’,
il che dà all’espressione una parvenza di artificio; ma è in realtà frutto di quella elaborazione formale che è caratteristica
d’un
poeta dalla tecnica così raffinata come il Tasso” (G. Varanini)
82
L’ègra spogliata: malata e povera. Il padre era stato privato di tutti i suoi beni
83
Or che non sono…duolo: dunque non sono io cosi oppresso dal peso dei miei affanni da bastare solo come oggetto
di compianto? La disperata ironia di quel ricco de' propri guai ha il tono di una vera e propria confessione.
84
Dunque altri…pianto?: dunque non sono io abbastanza provato dal dolore, perché debba versare lacrime
anche per le sventure altrui? Il ritmo pressante degli interrogativi anticipa il verso finale con il quale Tasso
suggella la propria condizione umana
85
queste due…pene: questi occhi, che pur son divenutei fonti (vene) cosí abbondanti di pianto, non hanno lagrime
sufficienti ad esprimere l’immensità dei miei dolori
86
Padre, o buon padre: “movimento lirico di singolare efficacia: il poeta aveva poco prima detto che non poteva
parlare di altri che dì sé. Con l’inconseguenza di chi è in preda a un sentimento fervido e impetuoso, rivolge
d’improvviso al padre un’apostrofe affettuosa, che è insieme giustificazione e pietosa invocazione di aiuto” (A.
Varanini)
76
22
“La canzone rimane incisa in uno spazio di nevrosi
patetica, preludio alle tenebre della carcerazione
nello Spedale di Sant’Anna” (B. Basile)
tu godi, a te si deve onor, non lutto:
88
a me versato il mio dolor sia tutto.
60
GUIDA ALL’ANALISI
La canzone è formalmente incompiuta, ma in realtà la chiusa del verso finale, così semplice ed
essenziale, esclude ogni altra possibilità di conforto e con il suo sigillo non lascia spazio alla
speranza. L’io lirico non è un “doppio”: è il poeta stesso sotto il segno del suo destino, con il suo
tormento esistenziale che si accompagna alla memoria del padre e della madre. Ed è appunto Tasso
in persona che intende ora rivolgersi al lettore con la sua disperata confessione.
Dopo l’appassionata invocazione al fiume Metauro, Il motivo encomiastico (l’omaggio ai Della
Rovere) cede il passo a temi soggettivi e autobiografici che richiamano, nella figura del pellegrino
errante perseguitato dalla fortuna, il motivo dantesco dell’esilio. La canzone si accentra su due
nuclei tematici: la ricerca di protezione, di un rifugio sicuro, raffigurata simbolicamente
dall’immagine della quercia, stemma dei Della Rovere, i duchi d’Urbino, e la minaccia
rappresentata dalla fortuna avversa. Su questo secondo versante s’innesta il tema della sconfitta,
della resa incondizionata. Scompare ogni alternativa possibile affidata all’azione umana, alla virtù e
resta come unica risorsa il movimento regressivo verso un ventre materno.
Il ritmo
L’assoluta prevalenza degli endecasillabi sui settenari conferisce alla canzone un andamento
discorsivo, narrativo, dal ritmo concitato e drammatico. La costruzione metrica e sintattica converge
sull’io del poeta, assoluto protagonista: Me dal sen della madre empia fortuna / pargoletto divelse.
Dal punto di vista formale il pregio della poesia consiste nell’aver saputo “tradurre e comporre una
sensibilità tormentata in limpide note di uno stacco assoluto...che sorprende per la sua terribile
semplicità” (I. Viola).
Esercizi
1) Rintraccia nella canzone le diverse figure retoriche e gli enjambements.
2) Il motivo autobiografico della canzone trova un ulteriore sviluppo altrettanto intenso e
commovente in un’altra canzone indirizzata Alle signore Principesse di Ferrara, scritta
durante la relegazione in Sant’Anna. Ad esse Tasso si rivolge, accomunando con tono
confidente la sua alla dolorosa esperienza delle due sorelle del duca Alfonso, Lucrezia ed
Eleonora, separate dalla madre Renata di Francia, convertita al calvinismo e costretta
all’esilio. Te ne proponiamo i versi iniziali per un tuo confronto:
O figlie di Renata,
io non parlo a la pira
de’ fratei che né pur la morte unío89,
……..
quasi in fertil terreno
nate e nodrite90 pargolette insieme,
87
ègro e morto...giri: ti piansi ammalato e morto, e tu lo sai bene, e piangendo scaldai con la mia presenza il tuo letto e
la
tomba, ora che negli alti cieli...
88
a me versato il mio dolor sia tutto: il verso breve e intenso, che sarà rieccheggiato da Leopardi, suona come
un’epigrafe funebre
89
io non parlo…unío: “io non parlo al rogo dei fratelli che neppure la morte unì”. Tasso, per contrapposizione
all’affetto che lega le due principesse, ricorda la storia di Eteocle e Polinice, i due fratelli figli di Edipo, che si
combatterono dandosi la morte. L’odio che li divise in vita, li divise ancora sul rogo distinguendosi in una fiamma
biforcuta (cfr. Dante, Inferno, XXVI, 52 segg.)
23
quasi due belle piante
di cui serva è la terra e il cielo amante.
…….
A voi parlo, in cui fanno
sí concorde armonia
onestà, senno, onor,, bellezza e gloria;
a voi spiego il mio affanno,
e de la pena mia
narro, e ’n parte piangendo, acerba istoria91;
ed in voi la memoria
di voi, di me rinnovo92:
vostri effetti cortesi,
gli anni miei tra voi spesi,
qual son, qual fui, che chiedo, ove mi trovo,
chi mi guidò, chi chiuse,
lasso!, chi m’affidò, chi mi deluse93.
(vv. 1-3; 10-13; 27-39)
3.3 A le gatte de lo spedale di S. Anna
Tasso, ferito nell’anima e nel corpo, scruta gli occhi di una gatta, densi di mistero. Nella luce
guizzante che da essi promana balugina il chiarore del cielo e delle stelle. Il poeta sembra essere ben
conscio della chiara superiorità di queste creature dalle leggere movenze:
Sonetto a schema ABBA ABBA CDE EDC , incrociata nelle quartine e invertita nelle terzine.
A le gatte de lo spedale di S. Anna
Come ne l’oceàn, s’oscura e ’nfesta
procella il rende torbido e sonante,
a le stelle onde il polo è fiammeggiante
stanco nocchier di notte alza la testa94,
così io mi volgo, o bella gatta, in questa
fortuna avversa a le tue luci sante95,
e mi sembra due stelle aver davante
che tramontana96 sian ne la tempesta.
90
nodrite: nutrite, educate, come due piante cui la terra dona i suoi umori e che il cielo accarezza con i suoi benefici
influssi
91
narro…istoria: narro, in parte piangendo, la mia storia dolorosa. Si notino gli echi petrarcheschi (il “vario stile in
ch’io piango e ragiono”, Canzoniere, “Voi ch’ascoltate”) e danteschi (“parlare e lagrimar vedrai insieme”)
92
ed in voi…rinnovo: “e rinnovo in voi la memoria di voi e di me” Tasso ricorda i legami che un tempo lo unirono alle
due principesse. Le sue parole si accumulano in rapida successione, sempre più affannate e tumultuose
93
vostri effetti…deluse: “rinnovo alla memoria le vostre azioni cortesi, gli anni trascorsi con voi, ripenso a chi sono, a
chi fui, al mio presente e al mio passato, ripenso che cosa chiedo (la restituzione della libertà) e dove ora mi trovo, chi
mi accolse e poi m’imprigionò, chi mi diede speranza e mi deluse”. Con straordinario pathos Tasso grida tutta la sua
disperazione
94
Come…testa: il sonetto si apre con l’immagine squisitamente letteraria del nocchiero, che ripropone e duplica quella
del fugace peregrino. Sappiamo quanto la memoria poetica sia per Tasso fonte d’ispirazione. Qui si ricordi il
“celestial nocchiero” (Purgatorio, II,43), l’Angelo traghettatore del “divin poeta” o l’espressione “nave senza nocchiero
in gran tempesta”(Purgatorio, VI, 77). “Come nella notte il nocchiero ormai stanco alza la testa per mirare le stelle delle
quali il cielo s’illumina, se nell’oceano un’oscura e minacciosa tempesta lo rende gonfio e mugghiante”
95
luci sante: occhi che hanno un qualcosa di divino
96
tramontana: stella polare, la costellazione dell’Orsa
24
Veggio un’altra gattina, e veder parmi
l’Orsa maggior con la minore: o gatte,
lucerne del mio studio, o gatte amate,
97
se Dio vi guardi da le bastonate,
se ’l ciel voi pasca di carne e di latte,
fatemi luce a scriver questi carmi.
GUIDA ALL’ANALISI
Temi
La notte: Tasso è a Sant’Anna, prigione e manicomio, in condizioni durissime, isolato tra i
“forsennati”, a un passo dalla follia. Tutto il sonetto è giocato sul tema del buio notturno,
sull’immagine estremamente tragica di un uomo solo ( nocchiero/poeta) in balia di una tempesta
inquietante, il quale, impotente e inerme, può solo rivolgere lo sguardo alle rare luci delle stelle in
cielo e agli occhi luminosi delle gatte che paiono stelle in terra. Tasso amava la notte, era lo spazio
preferito per lo studio e il lavoro. Sappiamo da alcune lettere che, nel carcere-manicomio di
Sant’Anna, la notte era divenuta per lui un’angosciosa fonte di sofferenza per le urla continue che
provenivano dalle persone recluse, come lui : “ Sono strepiti – scrive in una lettera al suo amico
Maurizio Cataneo del 1581- i quali, in quest’ora che io scrivo, non sono cessati e certo tali sono
che potrebbero far diventare forsennati gli uomini più savi[…]son grida di uomini, e
particolarmente di donne e di fanciulli, e risa piene di scherni…”
Le gatte amate: quando scompare ogni fiducia in un contatto umano, quando non c’è alcuno che
tenda la mano, quando il dolore sbatte entro i muri di una cella, un che di tenero e caritatevole viene
al poeta da loro, dalle gatte che, libere, circolano al di là delle sbarre, sveglie, ché i gatti sono
animali notturni, sinuosi e morbidi, con i gialli occhi che paiono guardare al poeta prigioniero e,
senza saperlo, sono le uniche creature che lo confortano. Tasso si sente empaticamente affratellato
alle gatte e s’augura per loro una sorte di carne e latte, s’augura che nessuno le bastoni. A lui non è
stato dato di sfuggire alla fortuna avversa. Che le ‘gatte amate’, almeno loro, possano essere
risparmiate dalla sofferenza! (a c. di Giulia Alberico)
Esercizi
1) Sottolinea i termini che nel sonetto fanno riferimento al campo semantico della vista nella
opposizione buio/luce.
2) Ti proponiamo un esercizio di libera traduzione in prosa del componimento.
97
se: qui la particella “se”, come quella successiva, ha un valore desiderativo: “possa Dio proteggervi dalle bastonate”.
L’umile augurio del poeta esprime, insieme con la sua affettuosa solidarietà, tutto il suo immenso, esclusivo amore per
la poesia
25