Copia € 1,00. Copia arretrata € 2,00 L’OSSERVATORE ROMANO EDIZIONE SETTIMANALE Unicuique suum Anno LXV, numero 6 (3.776) IN LINGUA ITALIANA Non praevalebunt Città del Vaticano Giovedì 5 febbraio 2015 Accorato appello del Papa per l’Ucraina martoriata da un’orribile violenza fratricida L’unica parola giusta è pace È uno scandalo che si combatta una guerra tra cristiani Nuovo appello di Papa Francesco per l’Ucraina, dilaniata da un’«orribile violenza fratricida» che continua a mietere vittime soprattutto tra i civili. All’udienza generale di mercoledì 4 febbraio il Papa è tornato a chiedere che «si faccia ogni sforzo — anche a livello internazionale — per la ripresa del dialogo, unica via possibile per riportare la pace e la concordia in quella martoriata terra». Al testo già preparato il Pontefice ha voluto aggiungere a braccio espressioni forti e significative. «Quando io sento le parole “vittoria” o “sconfitta” — ha confidato ai fedeli riuniti nell’Aula Paolo VI — sento un grande dolore, una grande tristezza nel cuore. Non sono parole giuste; l’unica parola giusta è “pace”. Questa è l’unica parola giusta». Quindi, rivolgendosi direttamente alla popolazione del Paese, ha detto: «Io penso a voi, fratelli e sorelle ucraini... Pensate, questa è una guerra fra cristiani! Voi tutti avete lo stesso battesimo! State lottando fra cristiani. Pensate a questo scandalo. E preghiamo tutti, perché la preghiera è la nostra protesta davanti a Dio in tempo di guerra». In precedenza, proseguendo nelle catechesi dedicate alla famiglia, Francesco aveva ripreso la riflessione sul Oggi il mensile «donne chiesa mondo» IN ALLEGATO Messa per la giornata della vita consacrata Con il bambino in braccio PAGINA 2 ruolo dei padri già avviata nella precedente udienza. Un ruolo che il Papa ha rilanciato richiamando l’esperienza di san Giuseppe e descrivendo la figura di un padre sempre «presente nella famiglia» per condividere con la moglie «gioie e dolori, fatiche e speranze», e per accompagnare i figli nel cammino della crescita. Per il Pontefice il padre deve essere soprattutto paziente e saper «attendere e perdonare dal profondo del cuore». Questo, ha precisato, non significa mostrarsi «debole, arrendevole, sentimentale», ma diventare capaci di «correggere con fermezza», perché «il padre che sa correggere senza avvilire è lo stesso che sa proteggere senza risparmiarsi». Da qui l’invito a trovare ispirazione nella preghiera del Padre Nostro, perché tutti i padri siano per i giovani «custodi e mediatori insostituibili della fede nella bontà, nella giustizia e nella protezione di Dio». PAGINE 8-9 Gli auguri del Pontefice al presidente della Repubblica italiana Per l’unità e la concordia del Paese Al nuovo presidente della Repubblica italiana Sergio Mattarella, eletto con 665 voti dal Parlamento riunito in seduta comune sabato mattina, 31 gennaio, Papa Francesco ha inviato un messaggio di augurio. «Mi è gradito rivolgerle — scrive Papa Francesco — deferenti espressioni augurali per la sua elezione alla suprema magistratura dello Stato italiano e, mentre auspico che ella possa esercitare il suo alto compito specialmente al servizio dell’unità e della concordia del Paese, invoco sulla sua persona la costante assistenza divina per una illuminata azione di promozione del bene comune nel solco degli autentici valori umani e spirituali del popolo italiano. Con questi voti invio a lei e all’intera Nazione la benedizione apostolica». Nella prima dichiarazione pubblica, dopo aver ricevuto formalmente la notizia dell’elezione da parte della presidente della Camera, Laura Boldrini, e della vicepresidente del Senato, Valeria Fedeli, il capo dello Stato ha spiegato che il suo pensiero va «alle difficoltà e alle speranze dei nostri concittadini». Nato a Palermo il 23 luglio 1941 e fino a oggi giudice della Corte costituzionale, il nuovo presidente fu eletto per la prima volta deputato nel 1983 nelle fila della Democrazia cristiana (Dc), tre anni dopo l’assassinio per mano mafiosa del fratello Piersanti, presidente della Regione Sicilia, avvenuto il 6 gennaio 1980. Dal 1961 al 1964 Sergio Mattarella aveva militato in Azione cattolica e poi nella Federazione universitaria cattolica italiana. Rieletto deputato nel 1987, nello stesso anno fu nomina- Il presidente Sergio Mattarella (Afp) to ministro per i Rapporti con il Parlamento nel Governo guidato da Giovanni Goria, incarico nel quale fu confermato anche l’anno seguente per l’Esecutivo guidato da Ciriaco De Mita. Nel 1989 divenne ministro della CONTINUA A PAGINA 16 L’OSSERVATORE ROMANO pagina 2 giovedì 5 febbraio 2015, numero 6 Messa per la giornata della vita consacrata Con il bambino in braccio Prendere in braccio Gesù per lasciarsi guidare da lui sulla strada dell’amore e del servizio: è la consegna affidata da Papa Francesco ai religiosi e alle religiose che hanno partecipato alla messa celebrata nella basilica vaticana lunedì pomeriggio, 2 febbraio, festa della presentazione del Signore e diciannovesima giornata mondiale della vita consacrata. Teniamo davanti agli occhi della mente l’icona della Madre Maria che cammina col Bambino Gesù in braccio. Lo introduce nel tempio, lo introduce nel popolo, lo porta ad incontrare il suo popolo. Le braccia della Madre sono come la “scala” sulla quale il Figlio di Dio scende verso di noi, la scala dell’accondiscendenza di Dio. Lo abbiamo ascoltato nella prima Lettura, dalla Lettera agli Ebrei: Cristo si è reso «in tutto simile ai fratelli, per diventare un sommo sacerdote misericordioso e degno di fede» (2, 17). È la duplice via di Gesù: Egli è sceso, si è fatto come noi, per ascendere al Padre insieme con noi, facendoci come Lui. Possiamo contemplare nel cuore questo movimento immaginando la scena evangelica di Maria che entra nel tempio con il Bambino in braccio. La Madonna cammina, ma è il Figlio che cammina prima di Lei. Lei lo porta, ma è Lui che porta Lei in questo cammino di Dio che viene a noi affinché noi possiamo andare a Lui. Gesù ha fatto la nostra stessa strada per indicare a noi il cammino nuovo, cioè la «via nuova e vivente» (cfr. Eb 10, 20) che è Lui stesso. E per noi, consacrati, questa è l’unica strada che, in concreto e senza alternative, dobbiamo percorrere con gioia e perseveranza. Il Vangelo insiste ben cinque volte sull’obbedienza di Maria e Giuseppe alla “Legge del Signore” (cfr. Lc 2, 22. 23. 24. 27. 39). Gesù non è venuto a fare la sua volontà, ma la volontà del Padre; e questo — ha detto — era il suo “cibo” (cfr. Gv 4, 34). Così chi segue Gesù si mette nella via dell’obbedienza, imitando l’“accondiscendenza” del Signore; abbassandosi e facendo propria la volontà del Padre, anche fino all’annientamento e all’umiliazione di sé stesso (cfr. Fil 2, 7-8). Per un religioso, progredire significa abbassarsi nel servizio, cioè fare lo stesso cammino di Gesù, che «non ritenne un privilegio l’essere come Dio» (Fil 2, 6). Abbassarsi facendosi servo per servire. E questa via prende la forma della regola, improntata al carisma del fondatore, senza dimenticare che la regola insostituibile, per tutti, è sempre il Vangelo. Lo Spirito Santo, poi, nella sua creatività infinita, lo traduce anche nelle diverse regole di vita consacrata che nascono tutte dalla sequela Christi, e cioè da questo cammino di abbassarsi servendo. Attraverso questa “legge” i consacrati possono raggiungere la sapienza, che non è un’attitudine astratta ma è opera e dono dello Spirito Santo. E segno evidente di tale sapienza è la gioia. Sì, la letizia evangelica del religioso è conseguenza del cammino di abbassamento con Gesù... E, quando siamo tristi, ci farà bene domandarci: «Come stiamo vivendo questa dimensione kenotica?». Nel racconto della Presentazione di Gesù al Tempio la sapienza è rappresentata dai due anziani, Simeone e Anna: persone docili allo Spirito Santo (lo si nomina 3 volte), guidati da Lui, animati da Lui. Il Signore L’OSSERVATORE ROMANO EDIZIONE SETTIMANALE Unicuique suum IN LINGUA ITALIANA Non praevalebunt GIOVANNI MARIA VIAN direttore Giuseppe Fiorentino Servizio fotografico telefono 06 698 84797 fax 06 698 84998 [email protected] www.photo.va vicedirettore Gianluca Biccini Città del Vaticano [email protected] www.osservatoreromano.va ha dato loro la sapienza attraverso un lungo cammino nella via dell’obbedienza alla sua legge. Obbedienza che, da una parte, umilia e annienta, però, dall’altra accende e custodisce la speranza, facendoli creativi, perché erano pieni di Spirito Santo. Essi celebrano anche una sorta di liturgia attorno al Bambino che entra nel Tempio: Simeone loda il Signore e Anna “predica” la salvezza (cfr. Lc 2, 28-32.38). Come nel caso di Maria, anche l’anziano Simeone prende il bambino tra le sue braccia, ma, in realtà, è il bambino che lo afferra e lo conduce. La liturgia dei primi Vespri della Festa odierna lo esprime in modo chiaro e bello: «Senex puerum portabat, puer autem senem regebat». Tanto Maria, giovane madre, quanto Simeone, anziano “nonno”, coordinatore TIPO GRAFIA VATICANA EDITRICE L’OSSERVATORE ROMANO Redazione via del Pellegrino, 00120 Città del Vaticano fax +39 06 698 83 675 don Sergio Pellini S.D.B. direttore generale portano il bambino in braccio, ma è il bambino stesso che li conduce entrambi. È curioso notare che in questa vicenda i creativi non sono i giovani, ma gli anziani. I giovani, come Maria e Giuseppe, seguono la legge del Signore sulla via dell’obbedienza; gli anziani, come Simeone e Anna, vedono nel bambino il compimento della Legge e delle promesse di Dio. E sono capaci di fare festa: sono creativi nella gioia, nella saggezza. Tuttavia, il Signore trasforma l’obbedienza in sapienza, con l’azione del suo Santo Spirito. A volte Dio può elargire il dono della sapienza anche a un giovane inesperto, basta che sia disponibile a percorrere la via dell’obbedienza e della docilità allo Spirito. Questa obbedienza e questa docilità non sono un fatto teorico, ma sottostanno alla logica dell’incarnazione del Verbo: docilità e obbedienza a un fondatore, docilità e obbedienza a una regola concreta, docilità e obbedienza a un superiore, docilità e obbedienza alla Chiesa. Si tratta di docilità e obbedienza concrete. Attraverso il cammino perseverante nell’obbedienza, matura la sapienza personale e comunitaria, e così diventa possibile anche rapportare le regole ai tempi: il vero “aggiornamento”, infatti, è opera della sapienza, forgiata nella docilità e obbedienza. Il rinvigorimento e il rinnovamento della vita consacrata avvengono attraverso un amore grande alla regola, e anche attraverso la capacità di contemplare e ascoltare gli anziani della Congregazione. Così il “deposito”, il carisma di ogni famiglia religiosa viene custodito insieme dall’obbedienza e dalla saggezza. E, attraverso questo cammino, siamo preservati dal vivere la nostra consacrazione in maniera light, in maniera disincarnata, come fosse una gnosi, che ridurrebbe la vita religiosa ad una “caricatura”, una caricatura nella quale si attua una sequela senza rinuncia, una preghiera senza incontro, una vita fraterna senza comunione, un’obbedienza senza fiducia e una carità senza trascendenza. Anche noi, oggi, come Maria e come Simeone, vogliamo prendere in braccio Gesù perché Egli incontri il suo popolo, e certamente lo otterremo soltanto se ci lasciamo afferrare dal mistero di Cristo. Guidiamo il popolo a Gesù lasciandoci a nostra volta guidare da Lui. Questo è ciò che dobbiamo essere: guide guidate. Il Signore, per intercessione di Maria nostra Madre, di San Giuseppe e dei Santi Simeone e Anna, ci conceda quanto gli abbiamo domandato nell’Orazione di Colletta: di «essere presentati [a Lui] pienamente rinnovati nello spirito». Così sia. Abbonamenti: Italia, Vaticano: € 58,00 (6 mesi € 29,00); Europa: € 100,00 - $ 148.00 U.S.; America Latina, Africa, Asia: € 110,00 - $ 160.00 U.S.; America del Nord, Oceania: € 162,00 - $ 240.00 U.S. Per informazioni, sottoscrizioni e rinnovi: telefono 06 698 99 480; fax 06 698 85 164; [email protected] Pubblicità Il Sole 24 Ore S.p.A. System Comunicazione Pubblicitaria Via Monte Rosa 91, 20149 Milano telefono 02.30221/3003, fax 02.30223214 [email protected] numero 6, giovedì 5 febbraio 2015 L’OSSERVATORE ROMANO pagina 3 L’annuncio del viaggio del prossimo 6 giugno A Sarajevo nel segno della pace Papa Francesco andrà a Sarajevo il prossimo 6 giugno. È stato lui stesso ad annunciarlo durante l’Angelus di domenica 1° febbraio, in piazza San Pietro, dopo aver ricordato ai fedeli che il compito dei cristiani è «diffondere ovunque la forza redentrice» del Vangelo, diventando «missionari e araldi della parola di Dio». Cari fratelli e sorelle, buongiorno! Il brano evangelico di questa domenica (cfr. Mc 1, 21-28) presenta Gesù che, con la sua piccola comunità di discepoli, entra a Cafarnao, la città dove viveva Pietro e che in quei tempi era la più grande della Galilea. E Gesù entra in quella città. L’evangelista Marco racconta che Gesù, essendo quel giorno un sabato, si recò subito nella sinagoga e si mise a insegnare (cfr. v. 21). Questo fa pensare al primato della Parola di Dio, Parola da ascoltare, Parola da accogliere, Parola da annunciare. Arrivando a Cafarnao, Gesù non rimanda l’annuncio del Vangelo, non pensa prima alla sistemazione logistica, certamente necessaria, della sua piccola comunità, non indugia nell’organizzazione. La sua preoccupazione principale è quella di comunicare la Parola di Dio con la forza dello Spirito Santo. E la gente nella sinagoga rimane colpita, perché Gesù «insegnava loro come uno che ha autorità, e non come gli scribi» (v. 22). Che cosa significa “con autorità”? Vuol dire che nelle parole umane di Gesù si sentiva tutta la forza della Parola di Dio, si sentiva l’autorevolezza stessa di Dio, ispiratore delle Sacre Scritture. E una delle caratteristiche della Parola di Dio è che realizza ciò che dice. Perché la Parola di Dio corrisponde alla sua volontà. Invece noi, spesso, pronunciamo parole vuote, senza radice o parole su- perflue, parole che non corrispondono alla verità. Invece la Parola di Dio corrisponde alla verità, è unità con la sua volontà e realizza quello che dice. Infatti Gesù, dopo aver predicato, dimostra subito la sua autorità liberando un uomo, presente nella sinagoga, che era posseduto dal demonio (cfr. Mc 1, 23-26). Proprio l’autorità divina di Cristo aveva suscitato la reazione di satana, nascosto in quell’uomo; Gesù, a sua volta, riconobbe subito la voce del maligno e «ordinò severamente: “Taci! Esci da lui!”» (v. 25). Con la sola forza della sua parola, Gesù libera la persona dal maligno. E ancora una volta i presenti rimangono stupiti: «Comanda persino agli spiriti impuri e gli obbediscono!» (v. 27). La Parola di Dio crea in noi lo stupore. Possiede la forza di farci stupire. Il Vangelo è parola di vita: non opprime le persone, al contrario, libera quanti sono schiavi di tanti spiriti malvagi di questo mondo: lo spirito della vanità, l’attaccamento al denaro, l’orgoglio, la sensualità... Il Vangelo cambia il cuore, cambia la vita, trasforma le inclinazioni al male in propositi di bene. Il Vangelo è capace di cambiare le persone! Pertanto è compito dei cristiani diffonderne ovunque la forza redentrice, diventando missionari e araldi della Parola di Dio. Ce lo suggerisce anche lo stesso brano odierno che si chiude con un’apertura missionaria e dice così: «La sua fama — la fama di Gesù — si diffuse subito dovunque, in tutta la regione della Galilea» (v. 28). La nuova dottrina insegnata con autorità da Gesù è quella che la Chiesa porta nel mondo, insieme con i segni efficaci della sua presenza: l’insegnamento autorevole e l’azione liberatrice del Figlio di Dio diventano le parole di salvezza e i gesti di amore della Chiesa missionaria. Ricordatevi sempre che il Van- gelo ha la forza di cambiare la vita! Non dimenticatevi di questo. Esso è la Buona Novella, che ci trasforma solo quando ci lasciamo trasformare da essa. Ecco perché vi chiedo sempre di avere un quotidiano contatto col Vangelo, di leggerlo ogni giorno, un brano, un passo, di meditarlo e anche portarlo con voi ovunque: in tasca, nella borsa... Cioè di nutrirsi ogni giorno da questa fonte inesauribile di salvezza. Non dimenticatevi! Leggete un passo del Vangelo ogni giorno. È la forza che ci cambia, che ci trasforma: cambia la vita, cambia il cuore. Invochiamo la materna intercessione della Vergine Maria, Colei che ha accolto la Parola e l’ha generata per il mondo, per tutti gli uomini. Ci insegni Lei ad essere ascoltatori assidui e annunciatori autorevoli del Vangelo di Gesù. Al termine della preghiera mariana, dopo l’annuncio del viaggio a Sarajevo, il Pontefice ha ricordato la celebrazione della giornata per la vita, unendosi ai vescovi italiani nel chiedere la difesa di ogni esistenza umana, dal concepimento alla morte naturale. Cari fratelli e sorelle, desidero annunciare che sabato 6 giugno, a Dio piacendo, mi recherò a Sarajevo, capitale della Bosnia ed Erzegovina. Vi chiedo fin d’ora di pregare affinché la mia visita a quelle care popolazioni sia di incoraggiamento per i fedeli cattolici, susciti fermenti di bene e contribuisca al consolidamento della fraternità, del- la pace, del dialogo interreligioso e dell’amicizia. Saluto i presenti convenuti per partecipare al IV Congresso mondiale organizzato da Scholas Occurrentes, che si terrà in Vaticano dal 2 al 5 febbraio sul tema: «Responsabilità di tutti nell’educazione per una cultura dell’incontro». Saluto le famiglie, le parrocchie, le associazioni e tutti quanti sono venuti dall’Italia e da tante parti del mondo. In particolare, i pellegrini del Libano e dell’Egitto, gli studenti di Zafra e di Badajoz (Spagna); i fedeli di Sassari, Salerno, Verona, Modena, Scano Montiferro e Taranto. Oggi si celebra in Italia la Giornata per la Vita, che ha come tema «Solidali per la vita». Rivolgo il mio apprezzamento alle associazioni, ai movimenti e a tutti coloro che difendono la vita umana. Mi unisco ai Vescovi italiani nel sollecitare «un rinnovato riconoscimento della persona umana e una cura più adeguata della vita, dal concepimento al suo naturale termine» (Messaggio per la 37ª Giornata nazionale per la Vita). Quando ci si apre alla vita e si serve la vita, si sperimenta la forza rivoluzionaria dell’amore e della tenerezza (cfr. Esort. ap. Evangelii gaudium, 288), inaugurando un nuovo umanesimo: l’umanesimo della solidarietà, l’umanesimo della vita. Saluto il Cardinale Vicario, i docenti universitari di Roma e quanti sono impegnati a promuovere la cultura della vita. A tutti auguro buona domenica. Per favore non dimenticate di pregare per me. Buon pranzo e arrivederci! L’OSSERVATORE ROMANO pagina 4 giovedì 5 febbraio 2015, numero 6 Francesco torna a denunciare lo spreco del cibo e chiede di ripensare il sistema di produzione e distribuzione Sorella e madre terra La sfida di realizzare un’agricoltura a basso impatto ambientale Un invito a «ritrovare l’amore della terra come “madre”» è stato rivolto sabato 31 gennaio dal Papa a duecento rappresentanti della Confederazione nazionale italiana dei coltivatori diretti, ricevuti in udienza nella Sala Clementina. Il presidente Roberto Moncalvo, nel suo saluto, ha rinnovato l’impegno per un rapporto con la terra fatto di rispetto e dedizione, e ha ricordato che «il cibo non può essere riconducibile a una merce qualsiasi». Approfondendo questi temi, nel suo discorso Francesco ha lanciato ai presenti la sfida di realizzare un’agricoltura a basso impatto ambientale. Cari fratelli e sorelle, buongiorno. Vi do il benvenuto in occasione del settantesimo anniversario di fondazione della Confederazione Nazionale dei Coltivatori Diretti. Ringrazio il vostro Presidente per le cortesi parole che mi ha rivolto a nome di tutti. Estendo il mio saluto al Consigliere ecclesiastico nazionale e a quelli regionali qui presenti, segno della speciale attenzione che la Chiesa riserva alla vostra attività. Il nome “coltivatori diretti” fa riferimento al “coltivare”, che è un’attività tipicamente umana e fondamentale. Nel lavoro degli agricoltori c’è, infatti, l’accoglienza del prezioso dono della terra che ci viene da Dio, ma c’è anche la sua valorizzazione nell’operare altrettanto prezioso di uomini e donne, chiamati a rispondere con audacia e creatività al mandato consegnato da sempre all’uomo, quello di coltivare e custodire la terra (cfr. Gen 2, 15). Il verbo “coltivare” richiama alla mente la cura che l’agricoltore ha per la sua terra perché dia frutto ed esso sia condiviso: quanta passione, quanta attenzione, quanta dedizione in tutto questo! Si crea quel rapporto familiare e la terra diventa la “sorella” terra. Davvero non c’è umanità senza coltivazione della terra; non c’è vita buona senza il cibo che essa produce per gli uomini e le donne di ogni continente. L’agricoltura mostra, dunque, il proprio ruolo centrale. L’opera di quanti coltivano la terra, dedicando generosamente tempo ed energie, si presenta come una vera e propria vocazione. Essa merita di venire riconosciuta e adeguatamente valorizzata, anche nelle concrete scelte politiche ed economiche. Si tratta di eliminare quegli ostacoli che penalizzano un’attività così preziosa e che spesso la fanno apparire poco appetibile alle nuove generazioni, anche se le statistiche registrano una crescita del numero di studenti nelle scuole e negli istituti di Agraria, che lascia prevedere un aumento degli occupati nel settore agricolo. Nello stesso tempo occorre prestare la dovuta attenzione alla fin già troppo diffusa sottrazione di terra all’agricoltura per destinarla ad altre attività, magari apparentemente più redditizie (cfr. Messaggio per la Giornata del Ringraziamento, 9 novembre 2014). Anche qui domina il dio denaro! È come di quelle persone che non hanno sentimenti, che vendono la famiglia, vendono la madre, ma qui è la tentazione di vendere la madre terra. Tale riflessione sulla centralità del lavoro agricolo porta il nostro sguardo su due aree critiche: la prima è quella della povertà e della fame, che ancora interessa purtroppo una vasta parte dell’umanità. Il Concilio Vaticano II ha ricordato la destinazione universale dei beni della terra (cfr. Cost. past. Gaudium et spes, 69), ma in realtà il sistema economico dominante esclude molti dalla loro giusta fruizione. L’assolutizzazione delle regole del mercato, una cultura dello scarto e dello spreco che nel caso del cibo ha proporzioni inaccettabili, insieme con altri fattori, determinano miseria e sofferenza per tante famiglie. Va quindi ripensato a fondo il sistema di produzione e distribuzione del cibo. Come ci hanno insegnato i nostri nonni, con il pane non si scherza! Io ricordo che, da bambino, quando cadeva il pane, ci insegnavano a prenderlo e baciarlo e a riportarlo sul tavolo. Il pane partecipa in qualche modo della sacralità della vita umana, e perciò non può essere trattato soltanto come una merce (cfr. Esort. ap. Evangelii gaudium, 52-60). Ma — per venire alla seconda area critica — altrettanto importante è ricordare che nel libro della Genesi, Marcello Piacentini «Agricoltori» (XX secolo) capitolo 2, versetto 15, si parla della chiamata dell’uomo non solo a coltivare la terra, ma anche a custodirla. Le due cose sono del resto strettamente collegate: ogni agricoltore sa bene quanto sia diventato più difficile coltivare la terra in un tempo di accelerati mutamenti climatici e di eventi meteorologici estremi sempre più diffusi. Come continuare a produrre buon cibo per la vita di tutti quando la stabilità climatica è a rischio, quando l’aria, l’acqua e il suolo stesso perdono la loro purezza a causa dell’inquinamento? Davvero ci accorgiamo dell’importanza di una puntuale azione di custodia del creato; davvero è urgente che le Nazioni riescano a collaborare per questo scopo fondamentale. La sfida è: come realizzare un’agricoltura a basso impatto ambientale? Come fare in modo che il nostro coltivare la terra sia al tempo stesso anche un custodirla? Solo così, infatti, le future generazioni potranno continuare ad abitarla e a coltivarla. Di fronte a questi interrogativi, vorrei rivolgere un invito e una proposta. L’invito è quello di ritrovare l’amore per la terra come “madre” — direbbe san Francesco — dalla quale siamo tratti e a cui siamo chiamati a tornare costantemente. E da qui viene anche la proposta: custodire la terra, facendo alleanza con essa, affinché possa continuare ad essere, come Dio la vuole, fonte di vita per l’intera famiglia umana. Questo va contro lo sfruttamento della terra, come se fosse una cosa senza rapporto con noi — non più la madre —, e poi lasciarla indebolire e abbandonarla perché non serve a niente. È proprio la storia di questa alleanza che la vostra tradizione incarna quotidianamente: la storia di un’agricoltura sociale dal volto umano, fatta di relazioni solide e vitali tra l’uomo e la terra: relazioni vitali: la terra ci dà il frutto ma anche la terra ha una qualità per noi: la terra custodisce la nostra salute, la terra è sorella e madre che cura e che sana. L’ispirazione etica, che motiva e sostiene la vostra azione alla luce della dottrina sociale cattolica, avvicina fin dalle origini la missione della Coldiretti a quella della Chiesa, e la loro collaborazione ha portato tanti buoni frutti all’intera società italiana. Cari amici, auspico che il vostro lavoro per coltivare e custodire la terra sia adeguatamente considerato e valorizzato; e vi invito a dare sempre il primato alle istanze etiche con cui da cristiani affrontate i problemi e le sfide delle vostre attività. E, per favore, vi chiedo di pregare per me e di cuore vi benedico. L’OSSERVATORE ROMANO numero 6, giovedì 5 febbraio 2015 pagina 5 Costernazione e dolore del Papa per il perdurare del conflitto in Medio oriente Immensa tragedia Prego ogni giorno affinché si trovi presto una soluzione negoziata «Costernazione» e «dolore» per il perdurare del conflitto nella regione mediorientale, in particolare in Iraq e in Siria, sono stati espressi dal Papa venerdì mattina, 30 gennaio, durante l’udienza alla Commissione mista internazionale per il dialogo teologico tra la Chiesa cattolica e le Chiese ortodosse orientali. Di seguito il discorso pronunciato dal Pontefice nella Sala del Concistoro. Cari fratelli in Cristo, con gioia do il benvenuto a voi, membri della Commissione mista internazionale per il dialogo teologico tra la Chiesa Cattolica e le Chiese Ortodosse Orientali. Attraverso di voi, estendo il saluto ai miei venerabili fratelli, i Capi delle Chiese Ortodosse Orientali. Ringrazio in particolare Sua Eminenza Anba Bishoy, Co-Presidente della Commissione, per le sue gentili parole. È motivo di gratitudine riflettere sul lavoro della vostra Commissione, che cominciò nel gennaio del 2003 come una iniziativa congiunta di autorità ecclesiastiche della famiglia delle Chiese Ortodosse Orientali e del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani. Negli ultimi dieci anni essa, seguendo una prospettiva storica, ha Il 7 marzo Francesco nella chiesa romana di Ognissanti E Paolo VI celebrò in italiano Nell’edizione del 10 marzo 1965 «L’Osservatore Romano» pubblicò il testo dell’omelia tenuta da Montini nella chiesa di via Appia Sabato 7 marzo alle ore 18, Papa Francesco celebrerà la messa nella parrocchia romana di Ognissanti sulla via Appia Nuova. Il Pontefice ricorderà, nella stessa chiesa e a cinquant’anni esatti di distanza, la messa che Paolo VI celebrò per la prima volta in italiano secondo le rinnovate norme liturgiche stabilite dal concilio Vaticano II. Di seguito uno stralcio dell’omelia che il Pontefice tenne il 7 marzo 1965. Che cosa stiamo facendo? Questo è il momento delle riflessioni e si inserisce nel sacro Rito per suscitare i pensieri che lo devono accompagnare. Noi stiamo attuando una realtà, la quale, già di per sé, si presenta solenne ed ha due aspetti: l’uno straordinario; l’altro consueto e ordinario. Straordinaria è l’odierna nuova maniera di pregare, di celebrare la Santa Messa. Si inaugura, oggi, la nuova forma della Liturgia in tutte le parrocchie e chiese del mondo, per tutte le Messe seguite dal popolo. È un grande avvenimento che si dovrà ricordare come principio di rigogliosa vita spirituale, come un impegno nuovo nel corrispondere al grande dialogo tra Dio e l’uomo. Norma fondamentale è, d’ora in avanti, quella di pregare comprendendo le singole frasi e parole, di completarle con i nostri sentimenti personali, e di uniformare questi all’anima della comunità, che fa coro con noi. V’è poi un’altra circostanza che rende singolare l’odierna solennità: la presenza del Papa, che, di per sé, autorizza a porre in risalto tutto quanto può divenire utile alla nostra vita cristiana. Del resto, anche a voler considerare il secondo aspetto, cioè quello che è consueto in queste adunanze, tutto — lo sappiamo — presenta un carattere prezioso e degno della nostra riflessione. E dapprima: che cosa è il Rito che stiamo celebrando? È un incontro di chi offre il Divin Sacrificio con il popolo che vi assiste. Tale incontro deve essere, perciò, pieno e cordiale. Non è pertanto fuori luogo che il celebrante — in questo caso il Papa — rivolga molte volte agli astanti il saluto caratteristico: Il Signore sia con voi! Ecco: il Papa ripete il grande augurio non solo rivolgendosi con affettuoso gesto ai presenti, ma esprimendo il proposito di raggiungere l’intera popolazione cristiana di questa città, della santa Diocesi di Pietro e Paolo, la Diocesi di Roma. Perciò, con tutto il cuore, con tutta la forza che Iddio pone nella sua voce, nel suo ministero, il Santo Padre esclama verso il popolo romano: Che Dio sia con te! esaminato le strade attraverso cui le Chiese hanno espresso la loro comunione nei primi secoli, e che cosa questo significhi per la nostra ricerca della comunione oggi. Durante l’incontro di questa settimana, voi avete avviato anche un approfondimento del vostro studio sulla natura dei Sacramenti, in particolare del Battesimo. Auspico che il lavoro compiuto possa portare frutti abbondanti per la comune ricerca teologica e aiutarci a vivere in maniera sempre più profonda la nostra fraterna amicizia. Ricordo con vivo apprezzamento l’impegno ispiratore per il dialogo di Sua Santità Ignazio Zakka Iwas, Patriarca della Chiesa Siro Ortodossa di Antiochia e di tutto l’Oriente, che lo scorso anno ha lasciato questo mondo. Mi unisco alla preghiera di voi tutti, del clero e dei fedeli di questo zelante servitore di Dio, chiedendo per la sua anima l’eterna gioia. In questo momento, in maniera particolare, noi condividiamo la costernazione e il dolore per quanto accade in Medio Oriente, specialmente in Iraq e in Siria. Ricordo tutti gli abitanti della regione, compresi i nostri fratelli cristiani e molte minoranze, che vivono le conseguenze di un estenuante conflitto. Insieme a voi prego ogni giorno affinché si trovi presto una soluzione negoziata, supplicando la bontà e la pietà di Dio per quanti sono colpiti da questa immensa tragedia. Tutti i cristiani sono chiamati a lavorare insieme in mutua accettazione e fiducia per servire la causa della pace e della giustizia. Possano l’intercessione e l’esempio di molti martiri e santi, che hanno dato coraggiosa testimonianza di Cristo in tutte le nostre Chiese, sostenere e rafforzare voi e le vostre comunità cristiane. Cari fratelli, vi ringrazio per la vostra visita e invoco per ciascuno di voi e il suo ministero la benedizione del Signore e la materna protezione di Maria Santissima. Per favore, pregate per me. L’OSSERVATORE ROMANO pagina 6 giovedì 5 febbraio 2015, numero 6 Ivo Dulčić «Piazza con persone. Concilio» (1962-1965) Messe a Santa Marta Salvezza privatizzata Giovedì 29 gennaio Dio ci salva «personalmente», ci salva «con nome e cognome» ma sempre inseriti in un «popolo». Nella messa celebrata a Santa Marta giovedì 29 gennaio, Papa Francesco ha messo in guardia dal rischio di «privatizzare la salvezza»: infatti «ci sono forme, ci sono condotte che sono sbagliate e modelli sbagliati di condurre la vita cristiana». Rileggendo il brano della Lettera agli Ebrei proposto dalla liturgia (10, 19-25), il Pontefice ha messo in evidenza che se è vero che Gesù «ha inaugurato una via nuova e viva» e «noi dobbiamo seguirla», è anche vero che «dobbiamo seguirla come il Signore vuole, secondo la forma che lui vuole». E un modello sbagliato è proprio quello di chi tende a «privatizzare la salvezza». Gesù infatti, ha spiegato il Papa, «ci ha salvati tutti, ma non genericamente. Tutti, ognuno, con nome e cognome. E questa è la salvezza personale»: ognuno di noi può dire «per me», perché «il Signore mi ha guardato, ha dato la sua vita per me, ha aperto questa porta, questa via nuova per me». C’è tuttavia il «peri- colo di dimenticare che lui ci ha salvato singolarmente, ma in un popolo», perché «sempre il Signore salva nel popolo». Quando il Signore «chiama Abramo, gli promette di fare un popolo». E per questo nella Lettera agli Ebrei si legge: «Prestiamo attenzione gli uni agli altri». Se, ha ribadito Francesco, io interpreto la salvezza come «salvezza soltanto per me» allora «sbaglio strada: la privatizzazione della salvezza è una strada sbagliata». Ma allora «quali sono i criteri per non privatizzare la salvezza?». Si ritrovano proprio nel brano della lettera. «Prima di tutto, il criterio della fede» ha spiegato il Papa. «La fede in Gesù ci purifica»; e allora «accostiamoci con cuore sincero, nella pienezza della fede, con i cuori purificati da ogni cattiva coscienza». Il primo criterio è dunque «il segno della fede, il cammino della fede». C’è poi un altro criterio che risiede in «una virtù tanto dimenticata: la speranza». Dobbiamo infatti mantenere «senza vacillare la professione della nostra speranza», che è «come l’ancella: è quella che ci porta avanti, ci fa guardare le promesse e andare avanti». Infine, un terzo criterio è quello della «carità»: dobbiamo cioè verificare se «prestiamo attenzione gli uni agli altri, per stimolarci a vicenda nella carità e nelle opere buone». Un esempio concreto, ha detto il Pontefice, può venire dalla vita in una parrocchia o in una comunità: quando «io sono lì, io posso privatizzare la salvezza» ed «essere lì un po’ socialmente soltanto». Per evitare questo rischio, «devo chiedere a me stesso se io parlo, comunico la fede; parlo, comunico la speranza; parlo, faccio e comunico la carità». Perché «se in una comunità non si parla, non si dà coraggio l’uno l’altro in queste tre virtù, i componenti di quella comunità hanno privatizzato la fede». Ecco l’errore: «Ognuno cerca la sua propria salvezza, non la salvezza di tutti, la salvezza del popolo». Eppure «Gesù ha salvato ognuno, ma in un popolo, in una Chiesa». A quel punto accade che «tu sei salvo, ma non come il Signore ti ha salvato». Al riguardo l’autore della Lettera agli Ebrei «dà un consiglio tanto importante: non disertiamo le nostre Il primo amore Venerdì 30 gennaio «Non perdere la memoria del primo amore» — cioè «la gioia del primo incontro con Gesù» — significa alimentare di continuo la speranza. E questi «due parametri», memoria e speranza, sono l’unica «cornice» in cui il cristiano può vivere «la salvezza, che è sempre dono di Dio», senza cadere nella tentazione della «tiepidezza», propria di chi ha perduto con la memoria anche speranza ed entusiasmo. È dunque un in- vito a non restare «a metà strada» quello formulato da Francesco nella messa celebrata venerdì mattina, 30 gennaio, nella cappella della Casa Santa Marta. «La salvezza dei giusti viene dal Signore»: il verso del salmo 36 ricorda, ha fatto notare il Papa, la verità che «la salvezza è un dono che ci dà il Signore»: non si compra né si può ottenere con lo studio, perché è sempre «un dono, un rega- Caravaggio (attr.), «La chiamata di Pietro e Andrea» (1603-1606) lo». Ma la vera domanda, a questo punto, è: «Come custodire questa salvezza? Come fare perché questa salvezza rimanga in noi e dia frutto, come spiega Gesù, come il seme o come il granello di senape?» ha detto il Papa riferendosi al brano liturgico del Vangelo di Marco (4, 26-34). Proprio nel passo della Lettera agli Ebrei (10, 32-39) «che abbiamo letto e sentito adesso — ha sottolineato — ci sono i criteri per custodire questo dono, questo regalo della salvezza; per permettere che questa salvezza vada avanti e dia i suoi frutti in noi». Il «primo criterio», ha spiegato il Papa, «è quello della memoria». Si legge infatti nel testo: «Fratelli, richiamate alla memoria quei primi giorni: dopo aver ricevuto la luce di Cristo». Sono quelli «i giorni del primo amore», come dicono i profeti: è «il giorno dell’incontro con Gesù». Perché, ha rimarcato Francesco, «quando abbiamo incontrato Gesù» — o meglio, ha precisato, quando «lui si è lasciato incontrare da noi, perché è lui che fa tutto» — CONTINUA A PAGINA 7 riunioni». Un consiglio «pratico» che il Papa si è soffermato a spiegare: succede infatti che «quando noi siamo in una riunione — nella parrocchia, nel gruppo — e giudichiamo gli altri» dicendo: «Questo non mi piace... io vengo perché devo venire, ma non mi piace...», finisce che «disertiamo». Emerge cioè «una sorta di disprezzo verso gli altri. E questa non è la porta, la via nuova e vivente che il Signore ha aperto, ha inaugurato». Ciò avveniva anche nei primi anni di vita della Chiesa. Paolo, per esempio, «rimprovera quelli che vanno alle riunioni per servire l’Eucaristia e pure portano il pranzo, ma fra loro, e lasciano gli altri lì. Disprezzano gli altri; disertano dalla comunità totale; disertano dal popolo di Dio». In pratica «hanno privatizzato la salvezza» pensando: «la salvezza è per me e per il mio gruppetto, ma non per tutto il popolo di Dio». Questo, ha ricordato il Pontefice, «è uno sbaglio molto grande. È quello che chiamiamo e che vediamo: le elite ecclesiali». Accade quando «nel popolo di Dio si creano questi gruppetti» che «pensano di essere buoni cristiani» e forse hanno anche «buona volontà, ma sono gruppetti che hanno privatizzato la salvezza». Perciò, ha sintetizzato Francesco, i criteri per riconoscere «se io sono nella mia parrocchia, nel mio gruppo, nella mia famiglia, se sono un vero figlio della Chiesa, figlio di Dio, salvato da Gesù, nel suo popolo sono: se parlo della fede, se parlo della speranza, se parlo della carità». Ma attenzione: «Quando in un gruppo si parla di tante cose e non ci si dà forza mutuamente, non si fanno le opere buone, si finisce per disertare dal gruppo grande per fare dei piccoli gruppetti di elite». Invece Dio «ci salva in un popolo, non nelle elite, che noi con le nostre filosofie o il nostro modo di capire la fede abbiamo fatto». Dobbiamo perciò chiederci: «Ho la tendenza a privatizzare la salvezza per me, per il mio gruppetto, per la mia elite o non diserto da tutto il popolo di Dio, non mi allontano dal popolo di Dio e sempre sono in comunità, in famiglia, con il linguaggio della fede, della speranza e il linguaggio delle opere di carità?». Il Papa ha concluso con l’auspicio «che il Signore ci dia la grazia di sentirci sempre popolo di Dio, salvati personalmente». Perché la verità è che «lui ci salva con nome e cognome», ma «in un popolo, non nel gruppetto che io faccio per me». numero 6, giovedì 5 febbraio 2015 L’OSSERVATORE ROMANO pagina 7 Il Vangelo a portata di mano Martedì 3 febbraio Leggere ogni giorno una pagina del Vangelo per «dieci, quindici minuti e non di più», tenendo «fisso lo sguardo su Gesù» per «immaginarmi nella scena e parlare con lui, come mi viene dal cuore»: queste sono le caratteristiche della «preghiera di contemplazione», vera sorgente di speranza per la nostra vita. È il suggerimento lanciato dal Papa durante la messa celebrata martedì mattina, 3 febbraio, nella cappella della Casa Santa Marta. Nella prima lettura, ha fatto notare Francesco, «l’autore della Lettera agli Ebrei (12, 1-4) richiama la memoria dei primi giorni dopo la conversione, dopo l’incontro con Gesù, e richiama anche la memoria dei nostri padri: “Quanto hanno sofferto, quando in cammino sono andati”». Proprio «guardando questi padri dice: “Anche noi circondati da tale moltitudine di testimoni”». Dunque è «la testimonianza dei nostri antenati» che «lui richiama alla memoria». E «richiama anche la nostra esperienza, quando eravamo tanto felici nel primo incontro con Gesù». Questa «è la memoria, della quale abbiamo parlato come un riferimento della vita cristiana». Ma oggi, ha rimarcato il Papa, «l’autore della Lettera parla dell’al- tro riferimento, cioè della speranza». E «ci dice che dobbiamo avere coraggio di andare avanti: “Corriamo con perseveranza nella corsa che ci sta davanti”». Poi «dice qual è proprio il nocciolo della speranza: “tenendo fisso lo sguardo su Gesù”». Ecco il punto: «Se noi non abbiamo il nostro sguardo fisso su Gesù difficilmente possiamo avere speranza». Magari «possiamo avere ottimismo, essere positivi, ma la speranza?». Del resto, ha spiegato Francesco, «la speranza si impara soltanto guardando Gesù, contemplando Gesù; s’impara con la preghiera di contemplazione». E «di questo voglio parlare oggi» ha confidato, alimentando la sua riflessione attraverso una domanda: «Io posso chiedere a voi: come pregate?». Qualcuno, ha detto, potrebbe rispondere: «Io, padre, prego le preghiere che ho imparato da bambino». E ha commentato: «Va bene, quello è buono». Qualche altro potrebbe aggiungere: «Prego anche il rosario, ma tutti i giorni!». E il Papa: «È buono pregare il rosario tutti i giorni». Infine c’è chi potrebbe dire: «Parlo anche col Signore, quando ho una difficoltà, o con la Madonna o con i santi...». E anche «questo è buono». Di fronte a tutto ciò, tuttavia, il Pontefice ha rilanciato con un’altra domanda: «Ma tu fai la preghiera di contemplazione?». Un interrogativo, forse, un po’ spiazzante, tanto che qualcuno potrebbe dire: «Cosa è questo, padre? Com’è questa preghiera? Dove si compra? Come si fa?». La risposta di Francesco è chiara: «Si può fare soltanto col Vangelo in mano». In pratica, ha suggerito, «tu prendi il Vangelo, scegli un passo, lo leggi una volta, lo leggi due volte; immagina, come se tu vedessi quello che succede e contempla Gesù». Per dare un’indicazione pratica, il Papa ha preso come esempio proprio il passo del Vangelo di Marco (5, 2143) proposto dalla liturgia, che «c’insegna tante cose belle». Partendo da questa pagina, ha chiesto: «Come faccio la contemplazione col Vangelo di oggi?». E nel condividere la sua esperienza personale, ha proposto una prima riflessione: «Vedo che Gesù era in mezzo alla folla, attorno a lui era molta folla. Cinque volte dice questo brano la parola “folla”. Ma Gesù non si riposava? Io posso pensare: sempre con la folla! La maggior parte della vita di Gesù è passata sulla strada, con la folla. Ma non riposava? Sì, una volta: il Vangelo dice che dormiva sulla barca, ma è venuta la tempesta e i discepoli lo hanno svegliato. Gesù era continuamente tra la gente». Perciò, ha suggerito il Papa, «si guarda Gesù così, contemplo Gesù così, m’immagino Gesù così. E dico a Gesù quello che mi viene in mente di dirgli». Francesco ha proseguito la sua meditazione con queste parole: «Poi, in mezzo alla folla, c’era quella don- na malata e Gesù se ne accorse. Ma come fa Gesù, in mezzo a tanta gente, ad accorgersi che una donna lo ha toccato?». È lui stesso infatti a fare la domanda diretta: «Chi mi ha toccato?». Da parte loro, i discepoli fanno notare a Gesù: «Tu vedi la folla che si stringe intorno a te e dici: “Chi mi ha toccato?”». La questione, ha puntualizzato il Papa, è che «Gesù non solo capisce la folla, sente la folla, ma sente il battere del cuore di ognuno di noi, di ognuno: ha cura di tutti e di ciascuno, sempre!». Il Papa, continuando a rileggere il brano di Marco, ha spiegato che la stessa situazione si ripetere anche quando si avvicina a Gesù «il capo della sinagoga, a raccontargli della figliuola ammalata gravemente. E lui lascia tutto e si occupa di questo: Gesù nel grande e nel piccolo, sempre!». Poi, ha proseguito, «possiamo andare avanti e vedere come arriva alla casa, vede quel trambusto, quelle donne sono chiamate per piangere quando si fa la veglia del morto: grida, pianti». Ma Gesù dice: «State tranquilli: dorme!». A queste parole, c’è stato chi ha persino iniziato a deriderlo. Però «lui sta zitto» e con la sua «pazienza» riesce a sopportare questa situazione, a non rispondere a quelli che lo deridono. Il racconto evangelico culmina con «la risurrezione della bambina». CONTINUA A PAGINA 10 Venerdì 30 gennaio CONTINUAZIONE DALLA PAGINA 6 «è stata una gioia grande, una voglia di fare cose grandi», come spiega appunto lo stesso autore della lettera. Dunque il primo criterio per custodire il dono della salvezza è «non perdere la memoria di quei primi giorni» segnati da «un certo entusiasmo»: soprattutto «non perdere la memoria» del «primo amore». L’autore della Lettera agli Ebrei poi «va avanti», facendo presente che quella «gioia vi ha lasciato sopportare tutto», a tal punto che «tutto sembrava poco nei primi tempi, e si andava avanti con entusiasmo». Proseguendo ancora, «ci esorta a non abbandonare quel coraggio — dice “questa franchezza” — quella parresìa di quei primi tempi». È infatti proprio il «primo amore» che «ha fatto crescere in noi quel coraggio, quel “ma, andiamo avanti!”, quell’entusiasmo». L’invito, perciò, è a «non abbandonare la franchezza». Di più: «abbandonare» non è neppure «la parola giusta», ha fatto notare Francesco, aggiungendo che se «noi andiamo al testo originale» troviamo un’espressione molto forte: «Non cacciate via, non sprecate, non rifiutate la franchezza». È proprio «come un rifiuto: non cacciare via questa franchezza, questo coraggio, il coraggio dei primi tempi». «Per questo la memoria è tanto importante per ricordare la grazia ricevuta» ha rimarcato il Papa. Difatti «se noi cacciamo via questo entusiasmo che viene dalla memoria del primo amore, questo entusiasmo che viene dal primo amore, viene quel pericolo tanto grande per i cristiani: il tepore». E «i cristiani tiepidi stanno lì, fermi; e sì, sono cristiani, ma hanno perso la memoria del primo amore, hanno perso l’entusiasmo». In più «i cristiani tiepidi hanno anche perso la pazienza, quel “tollerare” le cose della vita con lo spirito dell’amore di Gesù; quel “tollerare”, quel “portare sulle spalle” le difficoltà». Ecco perché, ha commentato il vescovo di Roma, «i cristiani tiepidi, poverini, sono in grave pericolo». A questo proposito, ha suggerito Francesco, «ci sono due immagini che mi colpiscono tanto» e che valgono a mettere in guardia ciascuno: «Ma tu sei tiepido, ma stai attento!». San Pietro, nella sua seconda Lettera, usa «l’immagine del cane che torna al suo vomito». Ed «è brutta questa immagine» — ha riconosciuto il Papa — però rappresenta bene «un cristiano tiepido» che «torna oltre il primo amore, come se quell’amore non fosse mai stato». «La seconda immagine, anch’essa brutta — ha avvertito — è quella che Gesù dice della persona che vuole seguirlo, e lo segue, e poi ha cacciato via il demonio». Questo demo- nio, uscito dall’uomo, «va per il deserto» con il proposito di tornare «da quell’uomo, da quella donna» da cui era uscito. E quando «torna, trova la casa tutta in ordine, pulita, bella». Così «si arrabbia, va, cerca sette demoni peggiori di lui e torna» per prendere «possesso di quella casa». E così facendo «non ferisce la persona», perché si tratta di «demoni “educati”: bussano anche alla porta per entrare, ma entrano». Capita lo stesso a «un cristiano tiepido», che «non sa chi è che bussa alla porta e la apre», dicendo pure «avanti!». Ma Gesù dice che in conclusione «la fine di quell’anima» è persino «peggiore di prima». «Queste due immagini del tepore del cristiano ci fanno pensare» ha confidato il Pontefice. Per questo non bisogna mai «dimenticare il primo amore»; anzi, occorre sempre «richiamare alla memoria quel primo amore». Perciò alla domanda «come vado avanti?», la risposta è: «con la speranza». È quello che la Lettera agli Ebrei dice a ogni cristiano: «Ancora un poco, un poco appena, e colui che deve venire, verrà e non tarderà». Ecco allora «i due parametri» a disposizione del cristiano: «la memoria e la speranza». Si tratta, in fin dei conti, di «richiamare la memoria per non perdere quella esperienza tanto bella del primo amore che alimenta la speranza». Tante volte, ha ammesso il Papa, «è buia la speranza» ma il cristiano «va avanti: crede, va, perché sa che la speranza non delude, per trovare Gesù». «Questi due parametri — ha proseguito ancora — sono proprio la cornice nella quale possiamo custodire questa salvezza dei giusti che viene dal Signore, questo regalo che ci fa il Signore». Bisogna «custodire questa salvezza perché il piccolo grano di senape cresca e dia il suo frutto». Invece, ha insistito Francesco, «danno pena, fanno male al cuore tanti cristiani — tanti cristiani! — a metà cammino, tanti cristiani falliti in questa strada verso l’incontro con Gesù». E pur «partendo dall’incontro con Gesù», nel mezzo della strada «hanno perso la memoria del primo amore e non hanno la speranza: sono lì...». Al Signore il Papa ha chiesto «la grazia di custodire il regalo, il dono della salvezza»: un dono che ogni cristiano deve custodire «in questo cammino che sempre richiama la memoria e la speranza». Ma, ha concluso, «solo lui può darci questa grazia: che lui ci invii lo Spirito Santo per camminare su questa strada». L’OSSERVATORE ROMANO numero 6, giovedì 5 febbraio 2015 mentale. Il padre che sa correggere senza avvilire è lo stesso che sa proteggere senza risparmiarsi. Una volta ho sentito in una riunione di matrimonio un papà dire: “Io alcune volte devo picchiare un po’ i figli... ma mai in faccia per non avvilirli”. Che bello! Ha senso della dignità. Deve punire, lo fa in modo giusto, e va avanti. Se dunque c’è qualcuno che può spiegare fino in fondo la preghiera del “Padre nostro”, insegnata da Gesù, questi è proprio chi vive in prima persona la paternità. Senza la grazia che viene dal Padre che sta nei cieli, i padri perdono coraggio, e abbandonano il campo. Ma i figli hanno bisogno di trovare un padre che li aspetta quando ritornano dai loro fallimenti. Faranno di tutto per non ammetterlo, per non darlo a vedere, ma ne hanno bisogno; e il non trovarlo apre in loro ferite difficili da rimarginare. La Chiesa, nostra madre, è impegnata a sostenere con tutte le sue forze la presenza buona e generosa dei padri nelle famiglie, perché essi sono per le nuove generazioni custodi e mediatori insostituibili della fede nella bontà, della fede nella giustizia e nella protezione di Dio, come san Giuseppe. Nell’udienza generale il Papa torna a parlare di una presenza fondamentale in ogni famiglia Cosa insegna un padre Una nuova riflessione sulla figura del padre in famiglia è stata svolta da Papa Francesco durante l’udienza generale di mercoledì 4 febbraio, nell’aula Paolo VI. Dopo aver parlato nella precedente catechesi «del pericolo dei padri “assenti”», il Pontefice ha voluto «guardare piuttosto all’aspetto positivo» e ha indicato in san Giuseppe la figura esemplare per ogni padre cristiano. Cari fratelli e sorelle, buongiorno! Oggi vorrei svolgere la seconda parte della riflessione sulla figura del padre nella famiglia. La volta scorsa ho parlato del pericolo dei padri “assenti”, oggi voglio guardare piuttosto all’aspetto positivo. Anche san Giuseppe fu tentato di lasciare Maria, quando scoprì che era incinta; ma intervenne l’angelo del Signore che gli rivelò il disegno di Dio e la sua missione di padre putativo; e Giuseppe, uomo giusto, «prese con sé la sua sposa» (Mt 1, 24) e divenne il padre della famiglia di Nazaret. Ogni famiglia ha bisogno del padre. Oggi ci soffermiamo sul valore del suo ruolo, e vorrei partire da alcune espressioni che si trovano nel Libro dei Proverbi, parole che un padre rivolge al proprio figlio, e dice così: «Figlio mio, se il tuo cuore sarà saggio, anche il mio sarà colmo di gioia. Esulterò dentro di me, quando le tue labbra diranno parole rette» (Pr 23, 15-16). Non si potrebbe esprimere meglio l’orgoglio e la commozione di un padre che riconosce di avere trasmesso al figlio quel che conta davvero nella vita, ossia un cuore saggio. Questo padre non dice: “Sono fiero di te perché sei proprio uguale a me, perché ripeti le cose che dico e che faccio io”. No, non gli dice semplicemente qualcosa. Gli dice qualcosa di ben più importante, che potremmo interpretare così: “Sarò felice ogni volta che ti vedrò agire con saggezza, e sarò commosso ogni volta che ti sentirò parlare con rettitudine. Questo è ciò che ho voluto lasciarti, perché diventasse una cosa tua: l’attitudine a sentire e agire, a parlare e giudicare con saggezza e rettitudine. E perché tu potessi essere così, ti ho insegnato cose che non sapevi, ho corretto errori che non vedevi. Ti ho fatto sentire un affetto profondo e insieme discreto, che forse non hai riconosciuto pienamente quando eri giovane e incerto. Ti ho dato una testimonianza di rigore e di fermezza che forse non capivi, quando avresti voluto soltanto complicità e protezione. Ho dovuto io stesso, per primo, mettermi alla prova della saggezza del cuore, e vigilare sugli eccessi del sentimento e del risentimento, per portare il peso delle inevitabili incomprensioni e trovare le parole giuste per farmi capire. Adesso — continua il padre —, quando vedo che tu cerchi di essere così con i tuoi figli, e con tutti, mi commuovo. Sono felice di essere tuo padre”. È così ciò che dice un padre saggio, un padre maturo. Un padre sa bene quanto costa trasmettere questa eredità: quanta vici nanza, quanta dolcezza e quanta fermezza. Però, quale consolazione e quale ricompensa si riceve, quando i figli rendono onore a questa eredità! È una gioia che riscatta ogni fatica, che supera ogni incomprensione e guarisce ogni ferita. La prima necessità, dunque, è proprio questa: che il padre sia presente nella famiglia. Che sia vicino alla moglie, per condividere tutto, gioie e dolori, fatiche e speranze. E che sia vicino ai figli nella loro crescita: quando giocano e quando si impegnano, quando sono spensierati e quando sono angosciati, quando si esprimono e quando sono taciturni, quando osano e quando hanno paura, quando fanno un passo sbagliato e quando ritrovano la strada; padre presente, sempre. Dire pagina 8/9 presente non è lo stesso che dire controllore! Perché i padri troppo controllori annullano i figli, non li lasciano crescere. Il Vangelo ci parla dell’esemplarità del Padre che sta nei cieli — il solo, dice Gesù, che può essere chiamato veramente “Padre buono” (cfr. Mc 10, 18). Tutti conoscono quella straordinaria parabola chiamata del “figlio prodigo”, o meglio del “padre misericordioso”, che si trova nel Vangelo di Luca al capitolo 15 (cfr. 15, 11-32). Quanta dignità e quanta tenerezza nell’attesa di quel padre che sta sulla porta di casa aspettando che il figlio ritorni! I padri devono essere pazienti. Tante volte non c’è altra cosa da fare che aspettare; pregare e aspettare con pazienza, dolcezza, magnanimità, misericordia. Un buon padre sa attendere e sa perdonare, dal profondo del cuore. Certo, sa anche correggere con fermezza: non è un padre debole, arrendevole, senti- Vescovi in mezzo ai poveri A Roma settanta vescovi, venuti dalle periferie del mondo, stanno prestando servizio a emarginati e poveri nelle carceri, nelle stazioni ferroviarie e della metropolitana e nelle mense della Caritas. L’iniziativa, promossa dalla Comunità di sant’Egidio, è stata presentata stamani a Francesco durante l’udienza nell’aula Paolo VI. «Stiamo facendo insieme un cammino di comunione e, appunto, di servizio per essere concretamente Chiesa “in uscita” verso le periferie esistenziali, come insegna il Papa» spiega l’arcivescovo Vincenzo Paglia. «È un’esperienza di servizio ai poveri che ti tocca e ti cambia» aggiunge il vescovo greco-cattolico romeno di Oradea Mare, monsignor Virgil Bercea. A parlare di servizio erano anche molti rappresentanti di Scholas occurrentes, la rete educativa voluta da Papa Francesco. Quasi come anteprima del concerto tenuto nel pomeriggio, sempre nell’aula Paolo VI, in occasione del quarto congresso mondiale, alcuni fra i più noti artisti Nei saluti ai gruppi di fedeli un nuovo accorato appello per l’Ucraina L’unica parola giusta è pace «Quando io sento le parole “vittoria” o “sconfitta” sento un grande dolore, una grande tristezza nel cuore. Non sono parole giuste; l’unica parola giusta è “pace”»: con queste parole il Papa, durante i saluti rivolti ai vari gruppi linguistici dopo la catechesi, ha lanciato un nuovo appello per l’Ucraina, invitando tutti a pregare perché «cessi al più presto questa orribile violenza fratricida». E, rivolgendosi direttamente ai «fratelli e sorelle ucraini», ha detto: «Pensate, questa è una guerra fra cristiani! Voi tutti avete lo stesso battesimo! State lottando fra cristiani. Pensate a questo scandalo». Saluto cordialmente i pellegrini di lingua francese, in particolare il Seminario di Parigi, accompagnato dal Cardinal André Vingt-Trois, Arcivescovo di Parigi e dai suoi tre Ausiliari. La mia preghiera accompagna i seminaristi nel loro cammino verso il sacerdozio. Affido le vostre famiglie all’intercessione di San Giuseppe, e in particolare tutti i padri, affinché siano per le nuove generazioni custodi e mediatori della fede, nella bontà e nella giustizia, e sotto la protezione di Dio. Che Dio vi benedica! Saluto i pellegrini di lingua inglese presenti all’odierna Udienza, specialmente quelli provenienti da Inghilterra, Galles, Finlandia, Sri Lanka e Stati Uniti d’America. Su voi e sulle vostre famiglie invoco la gioia e la pace nel Signore Gesù. Dio vi benedica! Con affetto saluto i pellegrini di lingua tedesca presenti a quest’Udienza. I padri nelle famiglie non possono essere sostituiti. Accompagniamo con la preghiera il loro ruolo importante affinché possano sempre custodire e mediare per le nuove generazioni la fede, nella bontà e giustizia del Padre celeste, come San Giuseppe. Il Signore benedica voi e le vostre famiglie. Saluto con affetto i pellegrini di lingua spagnola, in particolare quelli venuti da Spagna, Argentina, Messico e altri Paesi latinomaericani. Chiediamo al Signore che non manchi mai nelle famiglie la presenza di un buon padre, che sia mediatore e custode della fede nella bontà, nella giustizia e nella protezione di Dio, come fu san Giuseppe. Molte grazie. Carissimi pellegrini di lingua portoghese, vi saluto cordialmente tutti. Questa visita a Roma vi aiuti ad essere pronti, come Abramo, per uscire ogni giorno verso la terra di Dio e dell’uomo, rivelandovi una benedizione e un segno dell’amore di Dio per tutti i suoi figli. La Vergine Santa vi guidi e protegga! Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua araba, in particolare a quelli provenienti dal Libano, dall’Egitto e dal Medio Oriente. La paternità buona significa avere la capacità di offrire tutto senza risparmiarsi; di assicurare protezione senza soffocare; di dare perdono senza chiedere nulla in cambio. È la volontà di aspettare con pazienza e fiducia; è l’adesione nel seguire l’esempio del “Padre Buono e Misericordioso” che è nei cieli e di San Giuseppe che ha vissuto la volontà di Dio con obbedienza fiduciosa, offrendo a Maria e al Bambino Gesù la protezione, l’affetto, la sicurezza e l’esempio. Il Signore benedica tutti i padri buoni e rialzi i negligenti e vi protegga tutti dal maligno! Saluto i pellegrini polacchi venuti a quest’udienza. L’altro ieri abbiamo celebrato la festa della Presentazione del Signore e la Giornata della Vita Consacrata. Affido alle vostre preghiere tutti coloro che sono stati chiamati alla vita secondo i consigli evangelici. Guidati da Cristo servano fedelmente Dio e i fratelli. Con le loro preghiere, i digiuni e le rinunce ottengano per tutti la grazia della conversione, la pace per il mondo, la misericordia divina e la prosperità. Sia lodato Gesù Cristo. Saluto i pellegrini slovacchi e, tramite loro, desidero esprimere il mio apprezzamento all’intera Chiesa slovacca, incoraggiando tutti a proseguire nell’impegno in difesa della famiglia, cellula vitale della società. Ancora una volta il mio pensiero va all’amato popolo ucraino. Purtroppo la situazione sta peggiorando e si aggrava la contrapposizione tra le parti. Preghiamo anzitutto per le vittime, tra cui moltissimi civili, e per le loro famiglie, e chiediamo al Signore che cessi al più presto questa orribile violenza fratricida. Rinnovo l’accorato appello affinché si faccia ogni sforzo — anche a livello internazionale — per la ripresa del dialogo, unica via possibile per riportare la pace e la concordia in quella martoriata terra. Fratelli e sorelle, quando io sento le parole “vit- toria” o “sconfitta” sento un grande dolore, una grande tristezza nel cuore. Non sono parole giuste; l’unica parola giusta è “pace”. Questa è l’unica parola giusta. Io penso a voi, fratelli e sorelle ucraini ... Pensate, questa è una guerra fra cristiani! Voi tutti avete lo stesso battesimo! State lottando fra cristiani. Pensate a questo scandalo. E preghiamo tutti, perché la preghiera è la nostra protesta davanti a Dio in tempo di guerra. Porgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. Sono lieto di accogliere i Vescovi che prendono parte al convegno promosso dalla Comunità di Sant’Egidio e le religiose partecipanti al corso di formazione promosso dal Centro Internazionale di Animazione Missionaria. Vi auguro di ravvivare la fede nel Signore e di testimoniare con rinnovato entusiasmo la tensione evangelica verso le periferie e verso gli ultimi. Saluto i sacerdoti della Diocesi di Padova; la Pro Loco di Avezzano e quanti sono convenuti in occasione del centenario del devastante terremoto della Marsica, come pure il Rotary Club di Roma, accompagnato dal Cardinale Andrea di Montezemolo, e l’Associazione Mani Unite di Taormina. La visita alle Tombe degli Apostoli favorisca in tutti una rinnovata adesione al Vangelo, una sincera solidarietà verso i fratelli e una riscoperta della speranza cristiana. Rivolgo un pensiero speciale ai giovani, agli ammalati e agli sposi novelli. Domani celebreremo la memoria di Sant’Agata vergine e martire. La sua giovane esistenza faccia comprendere a voi, cari giovani, il valore della vita vissuta per Dio; la sua fede incrollabile aiuti voi, cari ammalati, a confidare nel Signore nei momenti di sconforto; e la sua fortezza nel martirio indichi a voi, cari sposi novelli, i valori che veramente contano per la vita familiare. Grazie. cristiani latinoamericani hanno cantato Sólo le pido a Dios, accompagnando così l’ingresso di Francesco in aula con un brano a lui particolarmente caro. Per la prima volta hanno cantato insieme artisti evangelici e cattolici molto popolari, come Alex Campos e Martín Valverde, oltre a Lito e Baglietto, Hilda Lizarazu, Rescate, Daniel Poli e Sebastián Golluscio. Un «particolare servizio agli ultimi» è anche quello presentato al Papa da quattro operatori fiorentini impegnati in prima linea nell’assistere e sostenere i tanti giovani finiti in carcere per reati legati alla droga, con una particolare attenzione per gli immigrati. A Francesco hanno consegnato una copia del giornalino dei detenuti del penitenziario di Sollicciano, insieme a una lettera dei poveri che si ritrovano la domenica per proseguire l’esperienza della cosiddetta “messa di San Procolo”, avviata da La Pira a Firenze nel 1934. «Solidarietà» è anche la parola chiave per comprendere l’attività che porta avanti a Taormina l’associazione Mani Unite. «Siamo una piccola realtà di volontariato che sta vicino alle persone, giovani e adulte, con ritardo mentale» spiega Claudio Begni, religioso dei fratelli maristi delle scuole. Altre iniziative di solidarietà, poi, sono state promosse dalla pro loco di Avezzano in occasione del centenario del terremoto nella Marsica che provocò trentamila vittime. Francesco ha benedetto due stele di marmo, destinate alla cattedrale cittadina, con i volti di don Orione e don Guanella, tra i primi ad accorrere in soccorso della popolazione. Il vescovo di Oslo, monsignor Bernt Ivar Eidsvig, ha quindi presentato al Papa il progetto della costruzione della nuova cattedrale di Trondheim. Significativo, poi, il saluto del Pontefice a due giovani borsisti della fondazione Nostra aetate del Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso: la musulmana kazaka Baiturlina Assel e il buddista Varasami, originario del Myanmar. Tra i presenti anche il cardinale francese André Vingt-Trois, che ha accompagnato i seminaristi di Parigi, e il cardinale canadese Gérald Cyprien Lacroix, che con l’arcivescovo di Montréal, monsignor Christian Lépine, ha illustrato a Francesco i progetti per le celebrazioni del 375° anniversario della città, previsto per il 2017, alla presenza del sindaco Denis Coderre. Al Papa sono stati inoltre consegnati quattro scatoloni con gli oltre quattromila disegni dei ragazzi delle scuole e delle parrocchie di Benevento, in risposta all’iniziativa del Festival della fede. Al termine dell’udienza, infine, Francesco ha abbracciato Lucia Annibali, la giovane donna sfregiata in volto con l’acido, che confida di aver vissuto «una forte esperienza spirituale personale». L’OSSERVATORE ROMANO pagina 10 giovedì 5 febbraio 2015, numero 6 Lunedì 2 febbraio Papa Francesco ha ricevuto in udienza i presuli della Conferenza episcopale lituana in visita «ad limina Apostolorum». Nel discorso consegnato loro il Pontefice ha ricordato il lungo periodo in cui la Chiesa lituana «è stata oppressa da regimi fondati su ideologie contrarie alla dignità e alla libertà umana», e ha messo in guardia i vescovi da «altre insidie, quali ad esempio il secolarismo e il relativismo». Cari Fratelli nell’Episcopato, vi accolgo con gioia in occasione della vostra visita ad limina Apostolorum; saluto cordialmente ciascuno di voi e le Chiese particolari che il Signore ha affidato alla vostra paterna guida. Siete venuti a Roma con la vostra giovinezza, ma anche con la vostra eroicità. Infatti, tra di voi ci sono alcuni giovani confratelli, ma soprattutto Presuli che hanno attraversato il triste periodo della persecuzione. Grazie per la vostra testimonianza a Gesù Cristo e per il vostro servizio al santo popolo di Dio! La Lituania da sempre ha avuto Pastori vicini al proprio gregge e solidali con esso. Lungo la storia della Nazione, essi hanno accompagnato con premura la propria gente non soltanto nel cammino della fede e nell’affrontare le difficoltà materiali, ma anche nella costruzione civile e culturale della società, la quale trova il proprio sostrato storico e identitario nella forza del Vangelo e nell’amore alla Santissima Madre di Dio. Voi siete eredi di questa storia, di questo patrimonio di carità pasto- Ai vescovi lituani in visita «ad limina Apostolorum» Dialogo costruttivo con tutti rale, e lo dimostrate con l’energia della vostra azione, la comunione che vi anima e la perseveranza nel perseguire le mete che lo Spirito vi indica. Cari Fratelli, conosco le vostre fatiche apostoliche. Se per un lungo periodo la Chiesa nel vostro Paese è stata oppressa da regimi fondati su ideologie contrarie alla dignità e alla libertà umana, oggi dovete confrontarvi con altre insidie, quali ad esempio il secolarismo e il relativismo. Martedì 3 febbraio CONTINUAZIONE DALLA PAGINA 7 E Gesù, «invece di dire: “Forza Iddio!”, dice loro: “Per favore, datele da mangiare”». Perché Gesù, è la conclusione del Papa, «ha sempre i piccoli dettagli davanti a lui» «Quello che ho fatto con questo Vangelo — ha spiegato quindi Francesco — è proprio la preghiera di contemplazione: prendere il Vangelo, leggere e immaginarmi nella scena, immaginarmi cosa succede e parlare con Gesù, come mi viene dal cuore». E «con questo noi facciamo crescere la speranza, perché teniamo fisso lo sguardo su Gesù». Da qui la proposta: «fate questa preghiera di contemplazione». E anche se si hanno tanti impegni, ha suggerito, si può sempre trovare il tempo, magari quindici minuti a casa: «Prendi il Vangelo, un brano piccolo, immagina cosa è successo e parla con Gesù di quello». Così «il tuo sguardo sarà fisso su Gesù, e non tanto sulla telenovela, per esempio; il tuo udito sarà fisso sulle parole di Gesù e non tanto sulle chiacchiere del vicino, della vicina». «La preghiera di contemplazione ci aiuta nella speranza» e ci insegna a «vivere della sostanza del Vangelo», ha ribadito il vescovo di Roma. E per questo bisogna «pregare sempre: pregare le preghiere, pregare il rosario, parlare col Signore, ma anche fare questa preghiera di contemplazione per tenere il nostro sguardo fisso su Gesù». Da qui «viene la speranza». E così anche «la nostra vita cristiana si muove in quella cornice, fra memoria e speranza: memoria di tutto il cammino passato, memoria di tante grazie ricevute dal Signore; e speranza, guardando il Signore, che è l’unico che può darmi la speranza». E «per guardare il Signore, per conoscere il Signore, prendiamo il Vangelo e facciamo questa preghiera di contemplazione». Concludendo Francesco non ha mancato di riproporre nuovamente l’esperienza della preghiera di contemplazione: «Oggi per esempio — ha suggerito — cercate dieci minuti, quindici e non di più: leggete il Vangelo, immaginate e dite qualcosa a Gesù. E niente di più. E così la vostra conoscenza di Gesù sarà più grande e la vostra speranza crescerà. Non dimenticate, tenendo fisso lo sguardo su Gesù». Proprio per questo si chiama «preghiera di contemplazione». Per questo, accanto ad un annuncio instancabile del Vangelo e dei valori cristiani, non va dimenticato un dialogo costruttivo con tutti, anche con coloro che non appartengono alla Chiesa o sono lontani dall’esperienza religiosa. Abbiate cura che le comunità cristiane siano sempre luoghi di accoglienza, di confronto aperto e costruttivo, stimolo per l’intera società nel perseguimento del bene comune. So anche del vostro incessante impegno e della sollecitudine nei confronti del clero che Dio vi ha donato. Non dimenticate che occorre soprattutto pregare per avere da Dio preti generosi e capaci di sacrificio e dedizione. E anche laici convinti, che sappiano prendersi responsabilità all’interno della comunità ecclesiale e dare un valido apporto cristiano nella società civile, il Signore ve li darà, se pregherete per questo e se saprete incoraggiarli ad essere presenti, con la forza di una fede adulta, in ambito civile, culturale, politico e sociale. Come sapete, in questo periodo tutta la Chiesa è impegnata in un cammino di riflessione sulla famiglia, sulla sua bellezza, sul suo valore, e sulle sfide che è chiamata ad affrontare nel nostro tempo. Incoraggio anche voi, come Pastori, a dare il vostro contributo in questa grande opera di discernimento, e soprattutto a curare la pastorale familiare, così che i coniugi sentano la vicinanza della comunità cristiana e siano aiutati a «non conformarsi alla mentalità di questo mondo ma a rinnovarsi continuamente nello spirito del Vangelo» (cfr. Rm 12, 2). Infatti, anche il vostro Paese, che ormai è entrato a pieno titolo nell’Unione Europea, è esposto all’influsso di ideologie che vorrebbero introdurre elementi di destabilizzazione delle famiglie, frutto di un mal compreso senso della libertà personale. Le secolari tradizioni lituane al riguardo vi aiuteranno a rispondere, secondo la ragione e secondo la fede, a tali sfide. Vorrei poi raccomandarvi una speciale attenzione per le vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata. Non si stanchi mai la Chiesa in Lituania di continuare a pregare per le vocazioni! Vi esorto, inoltre, a curare un’adeguata formazione, iniziale e permanente, dei sacerdoti, delle persone consacrate, dei seminaristi, prestando particolare attenzione alla loro vita spirituale e morale, nonché all’educazione alla povertà evangelica e alla gestione dei beni materiali secondo i principi della dottrina sociale della Chiesa. Amate i vostri presbiteri, cercate di essere molto disponibili quando vi cercano, e non aspettate sempre che siano loro a cercarvi, non lasciateli soli nelle difficoltà. Anche per i catechisti abbiate una cura particolare, trasmettendo loro con la vostra testimonianza la gioia di evangelizzare. Infine, vi esorto alla sollecitudine per i poveri. Anche in Lituania, nonostante l’attuale sviluppo economico, ci sono tanti bisognosi, disoccupati, malati, abbandonati. Siate loro vicini. E non dimenticate quanti, soprattutto tra i giovani, per vari motivi lasciano il Paese e cercano di trovare una nuova strada all’estero. Il loro crescente numero e le loro esigenze richiedono attenzione e cura pastorale da parte della Conferenza Episcopale, affinché possano conservare la fede e le tradizioni religiose lituane. Cari Fratelli, vi ringrazio per la vostra visita. Portate il mio saluto cordiale alle vostre Chiese particolari e a tutti i vostri connazionali. La Vergine Maria, particolarmente venerata nella vostra Nazione quale “Porta dell’Aurora” a Vilnius, come pure a Šiluva e in molte altre parti, interceda per la Chiesa in Lituania: protegga con il suo manto i sacerdoti, i religiosi, le religiose e tutti i fedeli e ottenga per ogni comunità la pienezza delle grazie del Signore. Vi assicuro il mio ricordo nella preghiera e confido nel vostro, mentre di cuore vi imparto la Benedizione Apostolica. L’OSSERVATORE ROMANO numero 6, giovedì 5 febbraio 2015 pagina 11 Messaggio del cardinale Parolin all’Assemblea parlamentare del Mediterraneo Luogo di incontro Pubblichiamo la traduzione italiana del messaggio del cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato, alla nona Sessione Plenaria dell’Assemblea Parlamentare del Mediterraneo tenutasi a Monaco dal 2 al 4 febbraio 2015. Onorevole Senatore Francesco Maria Amoruso, Presidente dell’Assemblea Parlamentare del Mediterraneo, Distinti Delegati, Signore e Signori, Ho l’onore, a nome di Sua Santità Papa Francesco, di rivolgere queste parole alla nona Sessione plenaria dell’Assemblea Parlamentare del Mediterraneo. Sono lieto di esprimere la gratitudine della Santa Sede per il gentile invito a partecipare all’incontro in qualità di Osservatore, come è già avvenuto in precedenti occasioni. La Santa Sede, da parte sua, apprezza l’opportunità di dare il proprio sostegno all’obiettivo primario di questa assemblea di rappresentanti parlamentari della regione mediterranea, ovvero la promozione di un dialogo politico basato su principi comuni a tutte le tradizioni e culture. Negli ultimi anni la regione del Mediterraneo ha affrontato molte sfide sia interne che esterne. Queste sfide non sono confinate entro l’una o l’altra frontiera nazionale, ma sono, di fatto, di natura transnazionale e transregionale. Nessun Paese può rimanere estraneo alle situazioni degli altri Paesi e, allo stesso modo, la regione mediterranea, colpita da crisi interne, non è immune dagli effetti delle crisi nelle regioni confinanti, come l’Africa subsahariana e il Me- dio Oriente. È una realtà che tutti voi già conoscete, tuttavia è fondamentale riaffermarla per ricordare a noi stessi l’importante obiettivo dell’Assemblea Parlamentare del Mediterraneo e il perché della sua istituzione. L’instabilità politica nell’Africa settentrionale, specialmente in Libia, e la guerra e il terrorismo in Iraq e in Siria, continuano a porre grandissime sfide alla regione del Mediterraneo e tutti abbiamo tristemente constatato l’immenso costo della sofferenza umana, specialmente delle innumerevoli vite perse per via della guerra e del terrorismo. Ha anche spinto altri a rischiare la propria vita di fronte alle azioni spietate e senza scrupoli di trafficanti di esseri umani e della migrazione clandestina. Sin dall’inizio del suo pontificato, in numerose occasioni Papa Francesco ha espresso la sua preoccupazione riguardo a questa particolare piaga. Per esempio, nel suo recente discorso al Parlamento Europeo a Strasburgo, lo scorso 25 novembre, facendo riferimento ai «barconi che giungono quotidianamente sulle coste europee [...] pieni di uomini e donne che necessitano di accoglienza e di aiuto», ha esortato ad «affrontare insieme la questione migratoria», affinché il Mediterraneo non «diventi un grande cimitero!». Questa risposta comune comporta necessariamente la cooperazione dei Paesi di entrambe le sponde del Mediterraneo per affrontare le cause fondamentali della migrazione, e quindi il Santo Padre ha esortato ad adottare «politiche corrette, coraggiose e con- crete che aiutino i loro Paesi di origine nello sviluppo socio-politico e nel superamento dei conflitti interni — causa principale di tale fenomeno» (Papa Francesco, Discorso al Parlamento Europeo, Strasburgo, 25 novembre 2014). Nel suo recente discorso al Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede, Papa Francesco è ritornato con forza sulla tragedia umana delle persone costrette a fuggire dalla loro patria a causa della guerra e dei conflitti politici: «La conseguenza delle situazioni di conflitto [...] è spesso la fuga di migliaia di persone dalla propria terra d’origine. A volte non si va tanto in cerca di un futuro migliore, ma semplicemente di un futuro, poiché rimanere nella propria patria può significare una morte certa. Quante persone perdono la vita in viaggi disumani, sottoposte alle angherie di veri e propri aguzzini avidi di denaro?» (Discorso del Santo Padre Francesco in occasione degli auguri del Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede, 12 gennaio 2015). La guerra e la violenza in Siria, membro di questa Assemblea, che hanno coinvolto anche i Paesi limitrofi, continuano a lasciare il segno sulla regione del Mediterraneo, non ultimo attraverso l’arrivo di rifugiati in fuga da tali conflitti, ma anche in modi che toccano i valori e i principi sui quali sono fondate le società che condividono la regione mediterranea. Purtroppo l’anno 2014 ha visto il brutto e malvagio fenomeno dell’estremismo islamico e del terrorismo colpire diritti umani fonda- Il sostituto della Segreteria di Stato in Burkina Faso per l’inaugurazione della nuova sede della nunziatura Architetti di pace «Se il Signore non costruisce la casa, invano vi faticano i costruttori»: con una citazione del Salmo 126 il sostituto della Segreteria di Stato, l’arcivescovo Angelo Becciu, ha introdotto venerdì 30 gennaio il suo discorso per l’inaugurazione della nuova sede della nunziatura apostolica a Ouagadougou, in Burkina Faso. Un progetto architettonico che è espressione di un rapporto sempre più saldo del Paese con la Santa Sede e con la Chiesa locale. Il presule aveva iniziato la sua visita africana la mattina di venerdì incontrando il primo ministro del Paese, Yacouba Isaac Zida. Nel colloquio è stato messo in evidenza l’importante ruolo avuto dalla Chiesa locale nella gestione pacifica della crisi politica che ha portato alle dimissioni del presidente. L’arcivescovo si è felicitato con il primo Ministro per il fatto che i burkinabei siano stati capaci di evitare una guerra civile scegliendo la via del dialogo e della pacifica contrapposizione, e ha anche espresso apprezzamento per il clima di dialogo e di serena coabitazione che esiste nel Paese tra le differenti religioni. All’inaugurazione della nuova sede della nunziatura erano presenti il cardinale Philippe Nakellentuba Ouédraogo e l’intero episcopato locale, con il presidente della Conferenza, l’arcivescovo Paul Yembuado Ouédraogo. «Sappiamo tutti — ha detto il sostituto — che questa nazione ha appena iniziato una nuova svolta nella sua evoluzione sociopolitica» e, nel rispetto delle identità e delle autonomie, Santa Sede, Chiesa e autorità pubbliche «continuano a cooperare e lavorare insieme per costruire una società che garantisca il bene comune, la dignità della persona umana e la promozione della pace». L’arcivescovo Becciu ha anche ringraziato il nunzio apostolico Vito Rallo, alla cui iniziativa si deve la realizzazione della nuova sede. CONTINUA A PAGINA 12 mentali: il diritto alla vita, alla libertà di religione e alla libertà di espressione. Questo tipo di fondamentalismo ideologico non conosce confini e rende tutti vittime, a prescindere dall’etnicità o dall’affiliazione religiosa. La Santa Sede è particolarmente preoccupata per la sopravvivenza delle minoranze cristiane in Medio Oriente poiché, insieme con altri gruppi religiosi, esse subiscono in maniera spropositata gli effetti dell’estremismo islamico. Come ci ricorda Papa Francesco, «un Medio Oriente senza cristiani sarebbe un Medio Oriente sfigurato e mutilato!» (ibid.). Allo stesso tempo, la Santa Sede riconosce che anche i musulmani continuano a soffrire per mano di coloro che giustificano la violenza e la carneficina nel nome di D io. È deplorevole che sia necessario constatare che la violenza in nome di Dio non può mai essere giustificata. Ognuno di questi atti deve quindi essere condannato in maniera inequivocabile, e per questo motivo Papa Francesco ha espresso l’auspicio che «i leader religiosi, politici e intellettuali specialmente musulmani, condannino qualsiasi interpretazione fondamentalista ed estremista della religione, volta a giustificare tali atti di violenza» (ibid.). Per millenni il Mediterraneo è stato luogo d’incontro di culture e di popoli; in epoche più antiche i popoli del Mediterraneo si consideravano al centro del mondo. Resta la sfida per il Mediterraneo di rinnovarsi come luogo d’incontro, di rispetto reciproco e di pacifica convivenza. Malgrado «i difetti e le mancanze di questo nostro tempo» (cfr. ibid.), un futuro più luminoso è sempre possibile attraverso l’apertura verso gli altri, il dialogo e il lavoro per il bene comune. In questa luce, permettetemi di concludere le mie osservazioni con la descrizione fatta da Papa Francesco della sua visita in Albania lo scorso settembre: «Una eloquente testimonianza che la cultura dell’incontro è possibile, l’ho sperimentata nel corso della mia visita in Albania, una Nazione piena di giovani, che sono speranza per il futuro. Nonostante le ferite sofferte nella storia recente, il Paese è caratterizzato dalla “pacifica convivenza e collaborazione tra gli appartenenti a diverse religioni” in un clima di rispetto e fiducia reciproca tra cattolici, ortodossi e musulmani. È un segno importante che una fede in Dio sincera apre all’altro, genera dialogo e opera per il bene, mentre la violenza nasce sempre da una mistificazione della religione stessa, assunta a pretesto di progetti ideologici che hanno come unico scopo il dominio dell’uomo sull’uomo» (ibid.). Con sentimenti di stima e di rispetto, vi trasmetto i migliori auguri di Sua Santità Papa Francesco e il suo augurio che i dibattiti e le riflessioni di questa Assemblea possano contribuire a una nuova cultura d’incontro tra tutti i popoli della regione mediterranea. Cardinale Pietro Parolin Segretario di Stato di Sua Santità L’OSSERVATORE ROMANO pagina 12 giovedì 5 febbraio 2015, numero 6 Il segretario di Stato per il congedo del comandante della Guardia svizzera Servizio generoso e competente È stato un servizio «generoso e competente» quello svolto dal colonnello Daniel Anrig come trentaquattresimo comandante della Guardia Svizzera Pontificia. Lo ha affermato il cardinale segretario di Stato Pietro Parolin, esprimendogli «gratitudine, vicinanza e stima», oltre all’«affetto paterno di Papa Francesco» e alla «riconoscenza da parte di tutti i collaboratori della Santa Sede, in particolare della Segreteria di Stato». In occasione del congedo del colonnello Anrig, che era stato nominato il 19 agosto 2008, il porporato ha celebrato la messa sabato pomeriggio, 31 gennaio, nella chiesa di Santa Maria della Pietà in Campo Santo Teutonico. Ha fatto seguito, nel cortile d’onore della caserma, il passaggio del comando al vice comandante del Corpo, tenente colonnello Christoph Graf. Nell’omelia, riferendosi al passo evangelico che «ci presenta Gesù che insegna e opera con autorità», il cardinale Parolin ha ricordato che «l’atto supremo» di quella «sua autorità è il dono totale di sé sulla croce». Proprio «in questa cappella degli Svizzeri — ha notato — possiamo ammirare un affresco della crocifissione commissionato dal comandante Kaspar Röist pochi anni prima di offrire la propria vita per difendere il Papa durante il sacco di Roma». E «Röist stesso è raffigurato accanto alla croce del Signore, non solo come committente, ma quasi a indicare il posto del comandante: un uomo di fede, che non esita a professare Gesù Cristo crocifisso e a servire il successore di Pietro con tutte le forze, accettando anche la croce di ogni giorno e — come recita la formula del giuramento delle guardie — sacrificando, ove occorra, anche la vita per la sua difesa». Del resto è proprio Gesù, ha riaffermato il porporato, il centro di tutto. Tanto che «anche noi dobbiamo chiederci: quale è la nostra reazione di fronte all’opera di Gesù, come ci comportiamo nei suoi confronti? Siamo forse pronti ad ammirare le sue parole, senza però accoglierlo davvero come il Figlio di Dio venuto per liberarci e salvarci? Forse lo riconosciamo con l’intelletto e lo professiamo con le labbra, ma non lo facciamo entrare nel nostro cuore. Lasciamo — ha quindi suggerito — che Gesù sia parte essenziale della nostra vita, affidiamoci a lui e seguiamolo con tutto il nostro essere». Architetti di pace CONTINUAZIONE DALLA PAGINA 11 Nel richiamare le parole di Paolo che definì la Chiesa «esperta in umanità» e impegnata nella promozione dell’«uomo, di ogni uomo», il presule ha sottolineato il contributo unico portato per «uno sviluppo solidale e armonioso». Approfittando poi della presenza di rappresentanti e leader delle diverse comunità cristiane e di altre religioni, il sostituto ha detto: «La vostra presenza testimonia la fraternità e il rispetto reciproco che dobbiamo sempre coltivare». La nunziatura apostolica in Burkina Faso estende la sua competenza anche sul Niger, Chiesa rappresentata nell’occasione dall’arcivescovo di Niamey, Laurent Lompo. A quel popolo l’arcivescovo Becciu ha voluto trasmettere l’«affettuosa vicinanza» del Papa anche alla luce degli eventi recenti e drammatici che hanno scosso gran parte del Paese. Il giorno successivo, sabato 31, il presule ha avuto tre incontri particolari: in mattinata, nella cattedrale, quello con i sacerdoti e i religiosi dell’arcidiocesi, seguito dal saluto alla Conferenza episcopale locale. In serata, poi, ha avuto occasione VI, di dialogare con i seminaristi del seminario teologico di San Jean, dove si era recato per la celebrazione dei vespri. Per l’ultimo giorno della sua visita in Burkina Faso, il sostituto si è allontanato di una quindicina di chilometri dalla capitale e si è recato al santuario di Nostra Signora di Yagma nel quale, proprio il 1° febbraio, si è svolto il pellegrinaggio nazionale. Qui ha assistito a una vera e propria esplosione di fede gioiosa, con una folla di quasi mezzo milione di persone che per circa tre ore hanno espresso la loro devozione alla Vergine con canti e danze. La messa solenne è stata concelebrata da tutti i vescovi, compresi il cardinale arcivescovo di Ouagodougou e il vescovo di Niamey. Era presente anche il presidente del Burkina Faso, Michel Kafando. Nell’omelia l’arcivescovo Becciu, richiamando un tema caro a Papa Francesco, quello della fraternità, ha riconosciuto ai cristiani burkinabei il «ruolo vitale» che svolgono «nella costruzione della società di domani» e li ha invitati a «essere artefici di riconciliazione, giustizia e pace». Rivolgendosi poi al colonnello Anrig, il segretario di Stato ha avuto nuovamente parole di ringraziamento «per il suo esempio di responsabilità e di fedeltà», con un pensiero «ai suoi collaboratori più stretti nel comando e a tutto il Corpo e, in modo particolare a sua moglie e ai suoi figli, che sono stati sempre un grande sostegno». Inoltre, ha detto ancora il cardinale, «non c’è compito senza difficoltà e senza sacrifici: non li ha evitati cercando soluzioni comode, ma li ha affrontati nello spirito di fede». E così «ha cercato di plasmare il Corpo della Guardia Svizzera Pontificia sulla base degli ideali e valori della Guardia e allo stesso tempo con innovazioni e idee per il futuro». Per il suo biglietto di ringraziamento, ha fatto infine nota- re il cardinale, il colonello Anrig ha scelto una frase tratta dal libro del profeta Daniele, il suo patrono, per riaffermare come «Dio è il Signore di tutta la storia». Da parte sua, nel discorso di congedo, Anrig ha ricordato che «responsabilità, disciplina, onestà, lealtà e fede» sono valori fondanti per la vita «e non solo per la Guardia Svizzera». In questo senso, ha spiegato, il suo «obiettivo» è stato proprio «quello di dare ai giovani carattere e vigore che rispecchino» la cinquecentesca storia di «un Corpo militare nato per difendere e proteggere il Papa». Anrig ha poi affermato di considerare «positivo» il bilancio del suo servizio, con «la riforma del processo di reclutamento e l’ottimizzazione dell’organizzazione, come pure l’allargamento dei compiti presso la Domus Sanctae Marthae e la riuscita di numerose iniziative nell’ambito della sicurezza nonché di progetti culturali». Forse, ha aggiunto, «nel mio mandato non ho avuto risposte per tutte le domande e pronte soluzioni per tutti i problemi, ma ho sempre cercato di fare del mio meglio e, a oggi, posso dire che se anche il mio mandato non è stato perfetto, ho fatto tutto quello che potevo» per «far maturare buoni frutti». In conclusione il colonnello ha avuto parole di particolare gratitudine per Benedetto XVI e Francesco, che lo aveva ricevuto in udienza venerdì 30 gennaio. E, infine, non ha mancato di sottolineare il sostegno ricevuto dalla moglie Bernadett e dai suoi quattro figli, come anche da tutta la famiglia della Guardia Svizzera Pontificia. L’arcivescovo Gallagher incontra il corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede Lunedì mattina, 2 febbraio, nella biblioteca della Segreteria di Stato, l’arcivescovo Paul R. Gallagher, segretario per i Rapporti con gli Stati, ha incontrato il corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, rivolgendo agli ambasciatori un indirizzo di saluto. L’OSSERVATORE ROMANO numero 6, giovedì 5 febbraio 2015 «Paolo VI pagina 13 Ernst Günter Hansing, in preghiera» (1969, particolare) Cronaca di un malinteso Montini e la Spagna di RICARD O BLÁZQUEZ l pontificato di Paolo VI è inseparabilmente legato alla celebrazione del concilio Vaticano II e al compimento dei mandati conciliari, alcuni su riforme concrete, altri di orientamento più ampio. Bisogna riconoscergli ed essergli grati per la fedeltà agli orientamenti dati da Giovanni XXIII, come anche per il polso fermo con cui presiedette il I Papa del dialogo Pubblichiamo quasi per intero il prologo scritto dall’arcivescovo di Valladolid e presidente della Conferenza episcopale spagnola al libro di Vicente Cárcel Ortí, Beato Pablo VI: papa del diálogo (Madrid, Bac, 2014, pagine XXXI+487, euro 22). Il 4 febbraio la Facoltà di teologia di Valencia ha conferito a monsignor Cárcel la laurea honoris causa. concilio, e lo stile realmente conciliare, ossia il modo di trattare con ampia partecipazione dei vescovi le questioni poste, e la ricerca di concordia nell’approvazione dei documenti. Quando c’era un alto numero di voti negativi, lo schema veniva rimandato alla commissione competente per la revisione e la ricerca di un accordo. In tal modo, il concilio è modello di lavoro condiviso e di approvazione dei documenti con unanimità morale, poiché un concilio non ricerca la maggioranza democratica, ma la maggiore coincidenza possibile. Lo Spirito Santo agisce sempre nel reciproco ascolto e nella generosità, per coincidere su ciò che si sta ponderando e che può contribuire meglio alla missione della Chiesa. L’ubbidienza al Signore e al Vangelo fu l’atteggiamento fondamentale di tutti i partecipanti. Paolo VI, al termine del primo periodo conciliare, pronunciò nell’aula uno straordinario discorso, che, insieme a quelli dei cardinali Suenes, Lercaro e altri, aprì l’orizzonte dei lavori conciliari. In obbedienza allo Spirito Santo, fece propria la finalità pastorale che Papa Giovanni XXIII aveva indicato al concilio. Nel primo discorso come Papa pronunciò le seguenti parole orientatrici: «È fuori dubbio essere desiderio, bisogno, dovere della Chiesa di dare finalmente di sé una più meditata definizione». Non si tratta di discutere alcuni punti importanti della dottrina della Chiesa, ma di cercare conciliarmente come annunciare il Vangelo nella congiuntura presente dell’umanità. Perciò, la nuova evangelizzazione ha il suo punto di partenza nel concilio Vaticano II. L’introspezione nel mistero della Chiesa implica anche la prospettiva missionaria. Con che vigore e bellezza rivendicò che Gesù Cristo, luce del mondo, fosse il punto di riferimento del concilio! L’assemblea professa la propria fede nel suo Signore e desidera annunciarlo al mondo. «Cristo! Cristo, nostro principio! Cristo, nostra via e nostra guida! Cristo, nostra speranza e nostro termine! (...) Nessuna altra luce sia librata su questa adunanza, che non sia Cristo, luce del mondo; nessuna altra verità interessi gli animi nostri, che non siano le parole del Signore, unico nostro maestro; nessuna altra aspirazione ci guidi, che non sia il desiderio d’esser a lui assolutamente fedeli; nessuna altra fiducia ci sostenga, se non quella che fiancheggia, mediante la parola di lui, la nostra desolata debolezza: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo” (Matteo, 28, 20)». Permettetemi una confidenza. Tra le persone che mi hanno più vivamente colpito nel sentirle parlare di La prima pagina dell’Osservatore Romano del 28 settembre 1975 Gesù Cristo posso ricordare il rettore del Seminario di Ávila, monsignor Ancel e Paolo VI, quando lasciò i fogli del discorso e parlò dal cuore ai sacerdoti del Collegio Spagnolo di Roma ordinati nel 1968. Le sue parole trasmettevano la forza, la convinzione e la gioia di un incontro personale con il Signore. Il dialogo, sviluppato ampiamente nell’enciclica Ecclesiam suam (6 agosto 1964), caratterizzò la vita, l’atteggiamento e il ministero di Paolo VI. Questo modo di affrontare le questioni pendenti con altre persone e gruppi appare spesso nei documenti del concilio. La costituzione Gaudium et spes al n. 92 ricorda i quattro circoli di interlocutori identificati dall’enciclica (nn. 200-208). Il dialogo, che unisce la verità e l’amore, fu anche per il Papa una qualità dello spirito. Per questo possiamo capire quanta sofferenza gli causarono la famosa contestazione cominciata nel 1968 e altri fatti del post-concilio. I primi anni postconciliari furono di grande speranza, di attuazione delle riforme raccomandate dal concilio, d’intensa effervescenza e anche di contestazione. Vista a distanza, quest’ultima ci sembra dovuta alla fretta di rinnovare la Chiesa, a un preteso aggiornamento teologico che, a volte, metteva in pericolo la fede stessa, alle possibilità che offrivano i mezzi di comunicazione, allo straripare di iniziative personali che non tenevano conto degli orientamenti dell’autorità nella Chiesa e del ragionevole ritmo di assimilazione. In molti casi provocò frustrazione, logorio nella vitalità della Chiesa, dissensi interni. Si può capire che per Papa Paolo VI, sensibile com’era, la contestazione, a volte con maggior spessore a altre con minore incidenza, fosse una fonte di sofferenza. La contestazione e lo straripamento teologico, liturgico e disciplinare furono come la rottura delle dighe di contenimento dell’acqua raccolta? Molti anni del suo pontificato furono segnati da questo fardello e da questo dolore. Si può situare qui il così chiamato Credo del Popolo di Dio, pronunciato davanti alla basilica di San Pietro il 30 giugno 1968. Quel pomeriggio ero presente in piazza e, man mano che lo pronun- ciava, mi colpirono sia il tono solenne sia il contenuto e le dimensioni della professione di fede. Innanzitutto, come Pietro a Cesarea di Filippo, egli voleva professare autorevolmente la fede della Chiesa in mezzo alle turbolenze e alla confusione. Con quella professione chiedeva caldamente che tutta la Chiesa accogliesse e rispettasse la rivelazione che abbiamo ricevuto dal Signore. Il Papa emerito Benedetto XVI ha ricordato, nella lettera apostolica Porta fidei, con la quale ha indetto un Anno della fede a cinquant’anni dall’inizio del concilio Vaticano II, come Paolo VI proclamò un Anno della fede per commemorare il XIX anniversario del martirio degli apostoli Pietro e Paolo. Pensava che in tal modo la Chiesa avrebbe potuto acquisire un’«esatta coscienza della sua fede, per ravvivarla, per purificarla, per confermarla, per confessarla». La solenne professione di fede del 30 giugno 1968 era la conclusione di quell’Anno della fede. Paolo VI fu un autentico confessore della fede, rendendo a Dio una sublime testimonianza e pronunciando i contenuti essenziali che, da secoli, costituiscono il patrimonio di tutti i credenti. Esercitando la sua autorità apostolica sia nel concilio sia nel post-concilio, fu un testimone del Signore, addossandosi le prove, le incomprensioni e le critiche che il fedele compimento del suo ministero esigeva da lui. Mi è sembrato bene che la presente biografia, oltre a una prima parte dedicata all’operato di Papa Paolo VI nella Chiesa e nella storia del suo tempo, ne contenesse una seconda che sviluppasse il rapporto tra Paolo VI e la Spagna. Questa mi sembra particolarmente opportuna per i lettori spagnoli, poiché molti suoi gesti non furono ben compresi; il passare del tempo politico ci offre una prospettiva più confacente, e la situazione attuale della Chiesa ha portato quella serenità necessaria per valutare i fatti dell’ingente opera conciliare e la fine di un regime lungo e autoritario. Ci furono molte incomprensioni, suscettibilità, tergiversazioni, resistenze, e anche semplicemente l’accettazione leaCONTINUA A PAGINA 14 L’OSSERVATORE ROMANO pagina 14 giovedì 5 febbraio 2015, numero 6 Congregazione delle Cause dei santi Dopo il riconoscimento del martirio dell’arcivescovo di San Salvador Promulgazione di decreti È stata aperta una strada Sarà beatificato monsignor Romero L’arcivescovo Romero nel particolare di un murale di Adolfo Pérez Esquivel Lunedì 3 febbraio, il Santo Padre Francesco ha ricevuto in udienza privata sua Eminenza reverendissima il signor cardinale Angelo Amato, S.D.B., Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi. Nel corso dell’udienza il Santo Padre ha autorizzato la Congregazione a promulgare i decreti riguardanti: — il martirio del servo di Dio Oscar Arnolfo Romero Galdámez, arcivescovo di San Salvador; nato il 15 agosto 1917 a Ciudad Barrios (El Salvador) e ucciso, in odio alla fede, il 24 marzo 1980, a San Salvador (El Salvador); — il martirio dei servi di Dio Michele Tomaszek e Sbigneo Strzałkowski, sacerdoti professi dell’ordine dei Frati minori conventuali, nonché Alessandro Dordi, sacerdote diocesano; uccisi, in odio alla fede, il 9 e il 25 agosto 1991, a Pariacoto e in località Rinconada, nei pressi di Santa (Perú); — le virtù eroiche del servo di Dio Giovanni Bacile, arciprete decano di Bisacquino; nato a Bisacquino (Italia) il 12 agosto 1880 ed ivi morto il 20 agosto 1941. Un “protomartire”. Primo della lunga schiera dei nuovi martiri contemporanei, Oscar Arnulfo Romero sarà beatificato a San Salvador entro l’anno. Lo ha annunciato mercoledì 4 febbraio, nel corso di una conferenza nella Sala stampa della Santa Sede, l’arcivescovo Vincenzo Paglia, presidente del Pontificio Consiglio per la famiglia e postulatore della causa di beatificazione dell’arcivescovo ucciso il 24 marzo 1980 mentre stava celebrando la messa a San Salvador. «È un fatto provvidenziale — ha detto il presule — che questa beatificazione giunga con il pontificato del primo Papa latinoamericano», un Papa che ha affermato di volere una «Chiesa povera per i poveri»: un fatto che apre una strada, che «allarga l’orizzonte dell’America latina», un continente che, a partire dalla testimonianza di Romero, «ha qualcosa di importante da dire a tutto il mondo». Ad approfondire la figura dell’arcivescovo martire c’erano — moderati dal direttore della Sala stampa della Santa Sede, padre Federico Lombardi — monsignor Jesus Delgado, che è stato il segretario personale di Romero nei tre anni, dal 1977 al 1980, in cui guidò l’arcidiocesi di San Salvador, e lo storico Roberto Morozzo della Rocca, che ha collaborato alla stesura della positio nella causa di beatificazione. «Quel 24 marzo — ha ricordato monsignor Delgado — avevo proposto all’arcivescovo di prendersi un giorno di riposo»: l’agenda di Romero aveva sei appuntamenti di cui uno, alle 18, era proprio la celebrazione della messa. «Se arrivo tardi celebra tu», gli disse il presule. Ma poi telefonò al segretario: «Meglio di no. Io celebrerò la messa, non voglio coinvolgere nessuno in questo». Furono le ultime parole scambiate con monsignor Delgado. Romero, ha sottolineato l’arcivescovo Paglia, sapeva bene di essere in pericolo. Dopo aver vegliato una notte intera davanti al corpo di padre Rutilio Grande, l’amico gesuita ucciso il 12 marzo 1977, capì che in quel momento i campesinos erano rimasti orfani del loro padre e che ora toccava a lui prenderne il posto, ben consapevole che pure lui si sarebbe «giocato la vita». E anche di padre Rutilio è stato da pochi mesi aperto a San Salvador il processo di beatificazione. Ma perché Romero fu ucciso? È questo un punto fondamentale nella ricostruzione della vicenda dell’arcivescovo, perché è alla base del riconoscimento del martirio in odium fidei. Un riconoscimento che, ha sottolineato il postulatore, «è giunto con l’unanimità dei pareri sia della commissione cardinalizia che della commissione dei teologi». C’era, ha spiegato l’arcivescovo Paglia, un clima di persecuzione contro un pastore che, a seguito dell’ispiCONTINUA A PAGINA 15 Cronaca di un malinteso CONTINUAZIONE DALLA PAGINA 13 le e obbediente di decisioni della superiore autorità ecclesiastica con le quali c’era scarsa sintonia interiore. Furono anni difficili per il Papa e il nunzio, per la Conferenza episcopale e la Chiesa, per il governo e la società in generale. Si passò in pochi anni da una convivenza forse troppo stretta a un clamoroso dissidio. Persone cattoliche da sempre in poco tempo si sentirono incomprese e disorientate. Il modo in cui molti reagirono all’elezione del cardinale Montini a Papa Paolo VI fu l’espressione sintomatica di quel malessere, nonostante fosse lui il candidato più accreditato. Quel giorno, 21 giugno 1963, mi trovavo ad Ávila ed ero in attesa di sostenere un esame di teologia morale. Quando giunse la notizia che il cardinale Montini era stato eletto Papa, potei constatare che non tutte le reazioni furono di esaltazione. Rattristò Paolo VI il fatto che si confondessero negativamente la sua disaffezione personale e culturale verso un regime non-democratico con il suo amore per il popolo spagnolo, la stima per la sua storia cattolica e l’obbligo pastorale dopo un concilio ecumenico che non era proprio in sintonia con il governo spagnolo per quanto riguardava la libertà religiosa, politica e sociale. Mi sembrano chiarificatrici le parole scritte dall’autore nell’introduzione alla seconda parte: «Paolo VI nutrì sempre serie riserve sul regime politico, ma manifestò pubblicamente la sua ammirazione e il suo amore al popolo spagnolo e nei suoi confronti ebbe numerosi gesti di affetto e di simpatia». L’autore ripercorre tutti gli eventi e le questioni che provocarono o rivelarono dissensi: nomine episcopali, l’Assemblea congiunta vescovi-sacerdoti, il “caso Añoveros”, visite e lettere, e così via. Risulterà utile a tutti leggere attentamente la presentazione dei diversi motivi di discordia; servirà ad alcuni per ricordare e aiuterà i più giovani a capire quegli anni difficili della Chiesa, della società e delle relazioni Stato-Chiesa in Spagna. L’autore presenta i dati storici con obiettività, citando i documenti opportuni, e li giudica con serenità e senza coinvolgimenti, e, distante dai sentimenti agitati del tempo, espone senza polemiche lo sviluppo delle relazioni. Gli anni trascorsi mostrano chiaramente come non si potevano arrestare né il dinamismo conciliare né il tramonto del regime. Si capisce anche che, quando gli animi si scaldano, si possono dire parole forti. È ovvio che il contesto storico e le limitazioni umane operano sempre e in modo particolare in simili situazioni. Ricordo un fatto accaduto proprio a me. Il 27 settem- bre 1975 furono giustiziati cinque terroristi che alcuni giorni prima erano stati condannati a morte, e per i quali Paolo VI aveva chiesto clemenza. Venutone a conoscenza, il Papa condannò subito ed energicamente il terrorismo e le esecuzioni. Pochi giorni dopo da Roma volevo recarmi a Madrid; ma solo al terzo tentativo riuscii a fare il check-in delle valigie all’aeroporto, perché a due sportelli si rifiutarono di farlo dicendomi: «Io non lavoro per un Paese fascista». Alla fine una persona che aveva assistito al mio pellegrinaggio mi offrì la dovuta assistenza. L’aneddoto è comprensibile in quella situazione tesa ed esasperata. L’autore di questo libro nel suo lavoro di storico ha unito intensa dedizione, laboriosità paziente e perseverante, informazioni di prima mano, l’esperienza del suo lungo soggiorno a Roma e un giudizio equilibrato sulle questioni trattate. Oggi mi faccio eco della gratitudine di molti lettori per la sua lunga e tanto feconda traiettoria. Ho vissuto con l’autore a palazzo Altemps, quando era la sede del Collegio spagnolo, gli ultimi tre anni, dal 1967 al 1970. Queste pagine vogliono essere memoria di quel tempo e un complimento all’autore per l’imponente opera portata a termine nel campo della storia contemporanea della Chiesa, e più concretamente per questo libro prezioso e opportuno. numero 6, giovedì 5 febbraio 2015 Per riflettere sulla Scrittura L’OSSERVATORE ROMANO NOSTRE INFORMAZIONI Il Santo Padre ha accettato la rinuncia al governo pastorale della Diocesi di Lolo (Repubblica Democratica del Congo), presentata da Sua Eccellenza Reverendissima Monsignor Ferdinand Maemba Liwoke, in conformità al canone 401 § 1 del Codice di Diritto Canonico. Provvista di Chiesa Il Santo Padre ha nominato Vescovo della Diocesi di Lolo (Repubblica Democratica del Congo) il Reverendo Padre Jean-Bertin Nadonye Ndongo, O.F.M. Cap., Definitore dei Frati Minori Cappuccini a Roma. (29 gennaio 2015) Provvista di Chiesa «Gesù guarisce un lebbroso» (mosaico del duomo di Monreale) Domenica 15 febbraio, VI del Tempo ordinario Il vero volto di Dio di LEONARD O SAPIENZA Qualcuno ha detto: «Non dare giudizi, se non provi compassione» (Anne McCaffrey). È quanto fa Gesù con il lebbroso. Non chiede “perché”, ma subito «mosso a compassione, stese la mano, lo toccò» e lo guarì. La compassione. Una virtù che ai giorni nostri è spesso marginalizzata. Sono tanti, oggi, i “lebbrosi” nella società: gli esclusi, i poveri, gli emarginati, gli stranieri, i rom, gli anziani... Tutte situazioni che richiedono compassione. Che richiedono, cioè, cuori che provino sentimenti di vicinanza, di comprensione, di pietà, di tenerezza, di delicatezza. In un mondo così sguaiato come il nostro, non si va troppo Levitico 13, 1-2.45-46: per il sottile, e si spaz- Il lebbroso se ne starà solo, za via ogni sentimento abiterà fuori di finezza e di atten- dall’accampamento. zione nei confronti dei Salmo 31: Tu sei deboli. il mio rifugio, mi liberi Quante volte si assi- dall’angoscia. ste all'indifferenza di 1 Corinzi 10, 31-11,1: giovani e di adulti di Diventate miei imitatori fronte agli anziani, agli come io lo sono di Cristo. ammalati... Scriveva Dostoevskij nell’Idiota: Marco 1, 40-45: La lebbra «La compassione è la scomparve da lui più importante e forse ed egli fu purificato. l’unica legge dell’umanità intera». Quante persone noi lasciamo, o addirittura cacciamo, lontano dalla società. Quanti esclusi, quanti emarginati, che richiedono un gesto, una parola di carità. C’è chi è solo per egoismo e insofferenza degli altri. C’è chi è solo perché non ha trovato un’amicizia o un amore, o perché è stato abbandonato. Soprattutto noi cristiani siamo chiamati a imitare Cristo. Come invita San Paolo nella seconda lettura: «Fatevi miei imitatoti, come io lo sono di Cristo». Impariamo ad avere compassione e a comprendere gli altri. La compassione è il vero volto di Dio. La compassione amorosa diventi volentieri il nostro comportamento abituale, che dimostri a tutti che Dio è Padre amoroso, e noi siamo tutti fratelli. pagina 15 Vice-Provincia per il Nord America della Congregazione di San Michele Arcangelo, e Parroco di St Mary, London (Ontario), assegnandogli la sede titolare vescovile di Case di Numidia. Il Santo Padre ha nominato Consultore della Congregazione per la Dottrina della Fede il Reverendo Padre Pietro Bovati, S.I., Segretario della Pontificia Commissione Biblica. (31 gennaio 2015) Provviste di Chiese Il Santo Padre ha nominato Vescovo di Orizaba (Messico) il Reverendo Francisco Eduardo Cervantes Merino, del clero della Diocesi di Tuxpan, Vicario per la Pastorale. Il Santo Padre ha nominato Vescovo di Karaganda (Kazakhstan) Sua Eccellenza Reverendissima Monsignor Adelio Dell’Oro, trasferendolo dalla sede titolare di Castulo e conservandogli, donec aliter provideatur, l’incarico di Amministratore Apostolico di Atyrau (Kazakhstan). Il Santo Padre ha nominato Vescovo di Shinyanga (Tanzania) il Reverendo Monsignore Liberatus Sangu, Officiale presso la Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli. Nomina di Vescovo Ausiliare Il Santo Padre ha nominato Vescovo di Waterford and Lismore (Irlanda) il Reverendo Sacerdote Alphonsus Cullinan, del clero della Diocesi di Limerick, finora Parroco a Rathkeale. Il Santo Padre ha nominato Vescovo Ausiliare di London (Canada) il Reverendo Padre Józef A. Dąbrowski, C.S.M.A., Superiore della (2 febbraio 2015) Dopo il riconoscimento del martirio CONTINUAZIONE DALLA PAGINA 14 razione evangelica, dei documenti del Vaticano II, di Medellín, aveva scelto di vivere per i poveri. Non c’erano motivi ideologici, di vicinanze con pensieri politici particolari. Fu ucciso semplicemente perché legato a questa prospettiva. Al riguardo è entrato nel dettaglio anche Morozzo della Rocca: «C’era una vera e propria persecuzione in atto contro la Chiesa in El Salvador. La Chiesa si preoccupava dei poveri, masse di gente disperata e senza lavoro. La classe dirigente oligarchica scambiava la sensibilità sociale cattolica per sovversione e comunismo». Romero, «straordinario predicatore», chiedeva giustizia «non in termini politici, ma spirituali». E, ha aggiunto lo storico, sapeva bene di essere un condannato a morte: «La fine gli veniva annunciata ogni giorno attraverso minacce, lettere, telefonate, attentati scampati per un soffio»; ne era anche impaurito, ma non ebbe mai dubbi: «Un pastore non se ne va, deve restare sino alla fine con i suoi». Con le facili e pretestuose accuse di comunismo, ha aggiunto l’arcivescovo Paglia, «si voleva far tacere quella Chiesa, una Chiesa che sgorgava dal Vaticano II, attenta alla pace, alla giustizia e alla verità evangelica». E oggi, ha continuato il postulatore, «dopo l’89, dopo l’11 settembre, dopo i recenti terribili attentati, Romero rappresenta il coraggio evangelico di una fede che non si ferma ai principi, ma sceglie di sporcarsi le mani con i più poveri per far capire che sta dalla parte loro». E, ha aggiunto, «per Romero stare con i più poveri era la maniera migliore per stare dalla parte dell’intero Paese». Certo — e si è molto dibattuto in conferenza stampa su questo aspetto — il processo per la beatificazione è stato complesso e controverso. L’archivio di Romero conta oltre cinquantamila cartelle. Non sono mancati gli oppositori. Il fatto è, ha spiegato l’arcivescovo Paglia, che durante quegli anni «arrivavano a Roma chili di carte contro Romero. Lo accusavano di coinvolgimenti politici, di essere seguace della teologia della liberazione, di squilibri caratteriali». C’è voluto tempo per trovare e organizzare «la montagna di testimonian- ze che avrebbero scalzato tutte quelle accuse pretestuose». Soprattutto, ha tenuto a sottolineare il presule, è trascorso molto tempo perché «abbiamo voluto un processo scrupolosissimo. Volevamo che la causa fosse giustificata fino all’ultimo millimetro». Ma alla fine, ha concluso, «la verità ha avuto la sua vittoria». Una verità che anche i precedenti Pontefici avevano colto: l’arcivescovo Paglia ha tenuto a ricordare Paolo VI «che di Romero fu ispiratore e difensore», Giovanni Paolo II che, dopo le prime titubanze dovute a una informazione distorta, comprese la verità e «nella celebrazione dei nuovi martiri durante il Giubileo del 2000 aggiunse di suo pugno il nome di Romero nell’oremus finale». E ancora Benedetto XVI che nel 2012 decise lo sblocco del processo. Oggi Romero «è un dono straordinario per tutta la Chiesa» e, ha detto l’arcivescovo Paglia, lo è «non solo per i cattolici, ma anche per tutti i cristiani e per tutti gli uomini di buona volontà nel mondo». La sua beatificazione, ha concluso monsignor Delgado, sarà un giorno di festa per tutti e «sarà l’ultimo miracolo di Romero: sancirà l’incontro fraterno dei salvadoregni. Di tutti i salvadoregni. Perché lui amava i poveri, ma non ha mai smesso di amare i ricchi. Chiedeva la conversione di tutti». L’OSSERVATORE ROMANO pagina 16 giovedì 5 febbraio 2015, numero 6 Davanti alla grande sfida del sinodo Con Pietro per la famiglia di GUALTIERO BASSETTI egli ultimi mesi molti commentatori si sono chiesti quale fosse il vero significato del sinodo straordinario sulla famiglia dell’ottobre scorso. Alcuni lo hanno raccontato, come ha detto il Papa stesso, «nello stile delle cronache sportive», mentre altri lo hanno letto e interpretato secondo le logiche degli schieramenti politici. Di sicuro, però, nel sinodo si sono riflesse una tensione e una cura che forse non hanno eguali negli anni recenti. Lo spirito sinodale, infatti, soffia sull’intera Chiesa e la riveste di nuova luce. È la stessa ispirazione che ha mosso il Vaticano II, che ha guidato Paolo VI, prima ancora che si concludesse il concilio, nella creazione del Sinodo dei vescovi e che, oggi, sta delineando una svolta pastorale per tutta la Chiesa. Come alla vigilia del Vaticano II, non c’è spazio in questo passaggio storico per i «profeti di sventura», raggomitolati su se stessi e preoccupati solo del proprio narcisismo riflesso in uno specchio. Oggi è il tempo della misericordia e della verità. Ed è il tempo di camminare insieme a Pietro, di vivere la corresponsabilità nella vita della Chiesa, cum Petro et sub Petro. Nel 1973, Giorgio La Pira, in una lettera N all’amico Mauro Barsi in cui sottolineava l’importanza di leggere attentamente i testi del magistero di Paolo VI sull’Osservatore Romano, affermava con decisione che il Papa è sempre Pietro. Il quale sta «al timone di una barca destinata ad attraversare tutti i popoli, tutte le nazioni, tutte le civiltà e tutti i secoli». Ebbene, in ogni nave, scriveva sempre il sindaco di Firenze, «il capitano tiene il giornale di bordo, in cui annota gli eventi essenziali della sua navigazione ed indica gli orientamenti essenziali di essa». Le parole del Papa, dunque, per dirla con La Pira, rappresentano il giornale di bordo di ogni cattolico. Testi che ognuno di noi è chiamato a leggere perché ci offrono un autentico sensus ecclesiae. Permettono cioè di pensare e di operare mettendoci in sintonia con l’agire del capitano della nave la cui rotta è da sempre «avviata verso i porti universali della grazia, dell’unità e della pace». Mosso dal vento dello Spirito, il sinodo ha infatti continuato a dispiegare le vele della barca di Pietro proprio verso questi porti dove poter affrontare, serenamente, le nuove drammatiche sfide della società odierna e dove poter curare le “ferite” delle donne e degli uomini di oggi. Ferite Trento Longaretti, «Famiglia del musicante» sulle quali la Chiesa è chiamata, per vocazione e non certo per un obbligo di legge, a versare «l’olio della misericordia» e, in egual misura, «la medicina della verità». Il discorso del Pontefice alla conclusione del sinodo è di grande insegnamento. È infatti fondamentale prendere le distanze tanto dall’«irrigidimento ostile» quanto dal «buonismo distruttivo», cioè dall’imporre «fardelli insopportabili» e dallo «scendere dalla croce, per accontentare la gente». L’unica realtà che conta è rimanere nella verità prendendosi cura di chi sta nella sofferenza. Questa è la grande sfida del sinodo sulla famiglia. Una sfida che si caratterizza per coraggio e libertà, trasparenza e franchezza, come forse mai era accaduto. Sfida che non è certo un vezzo intellettuale, ma un atto d’amore di Papa Francesco — di colui che è supremo servitore della Chiesa — verso la famiglia. Cioè verso la cellula fondamentale della società che, oggi, minacciata dai ripetuti tentativi di svilirne il significato più autentico «mediante il relativismo, la cultura dell’effimero e una mancanza di apertura alla vita», rischia di subire una sciagurata «colonizzazione ideologica». Un’eventualità che è da scongiurare con tutte le forze. Nel segno dell’unità e sotto la guida di Pietro. Gli auguri del Papa al presidente della Repubblica italiana CONTINUAZIONE DALLA PAGINA 1 Pubblica Istruzione, nel sesto Governo Andreotti. Nel 1990 si dimise, insieme con altri ministri della sinistra democristiana, in segno di protesta contro il disegno di legge Mammì dedicato al riassetto del sistema radiotelevisivo, un provvedimento molto contestato in quanto considerato troppo a favore del gruppo guidato da Silvio Berlusconi. Vicesegretario della Dc dallo stesso anno fino al 1992, quando gli venne affidata la direzione del quotidiano «Il Popolo», Mattarella fu relatore della legge elettorale approvata nel 1993, che introdusse il sistema maggioritario corretto da una componente proporzionale. Dopo gli eventi legati allo scandalo di Tangentopoli fu tra i promotori del processo di rinnovamento della Dc, che condusse, nel 1994, alla fondazione del Partito popolare italiano, nelle cui liste venne eletto deputato nello stesso anno e poi nel 1996. In contrasto con la linea del partito, che nel frattempo si era progressiva- mente avvicinato alle posizioni del Popolo della libertà, guidato da Berlusconi, Mattarella aderì alla coalizione di centrosinistra dell’Ulivo. Caduto il Governo Prodi, Mattarella assunse la carica di vicepresidente del Consiglio e poi di ministro della Difesa nei Governi D’Alema, incarico mantenuto anche nell’Esecutivo guidato da Amato. Nel 2001 è stato eletto deputato per La Margherita e nel 2006 nella coalizione dell’Ulivo. Nel 2008 non si è candidato e infine, nel 2011, è stato eletto dal Parlamento giudice costituzionale. La figura del nuovo capo dello Stato, come si evince dalla biografia, è quella di un politico dal percorso molto coerente. Al nuovo presidente della Repubblica vengono inoltre riconosciuti uno stile sobrio e un’adesione ferma ai principi della Costituzione. In questo senso Sergio Mattarella è un successore naturale di Giorgio Napolitano. Nel discorso con il quale, dopo aver giurato fedeltà alla Repubblica e alla Costituzione, si è rivolto martedì mattina, 3 febbraio, ai parla- mentari e ai delegati regionali riuniti a Montecitorio in seduta comune, il nuovo presidente ha sottolineato il suo ruolo richiamando la figura dell’«arbitro» che, ha detto, «deve essere e sarà imparziale: i giocatori lo aiutino con la loro correttezza». Mattarella ha evidenziato in particolare i principi che la Carta fondamentale afferma e ha ricordato cosa «significhi» metterli in pratica, giacché il modo migliore per difendere il testo messo a punto dai costituenti è la sua applicazione «giorno per giorno». Da qui l’enunciazione di tanti compiti che la politica è chiamata a svolgere, con la speranza che nelle istituzioni «possano riflettersi con fiducia i volti» dei tanti italiani in difficoltà. Mattarella ha tenuto dunque una sorta di lezione costituzionale che diventa manifesto del suo settennato. Ed è significativo — ha detto — «che il mio giuramento sia avvenuto mentre sta per completarsi il percorso di un’ampia e incisiva riforma della seconda parte della Costituzione». I termini usati dal presidente sono stati volutamente mutuati dalla Carta del 1948, ad esempio quando ha citato il compito di «rimuovere gli ostacoli che limitano la libertà e l’eguaglianza», il ripudio della guerra e la promozione della pace, l’affermazione del diritto al lavoro e allo studio, la difesa del ruolo della famiglia (pur riconoscendo i diritti civili nella sfera personale e affettiva) e dell’autonomia e pluralità dell’informazione, obiettivi classici di una democrazia occidentale. Poi Mattarella ha declinato questi principi generali sulle urgenze attuali, con una insistenza particolare sulla piaga della corruzione, a proposito della quale ha citato Papa Francesco ricordando le sue parole sui corrotti, «uomini di buone maniere ma di cattive abitudini». E ha toccato il tema della disoccupazione giovanile, dell’evasione fiscale e della lotta alla mafia, ricordando tutte le diverse categorie di «concittadini», termine usato con molta frequenza.
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