L`O S S E RVATOR E ROMANO

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L’OSSERVATORE ROMANO
EDIZIONE SETTIMANALE
Unicuique suum
Anno LXV, numero 6 (3.776)
IN LINGUA ITALIANA
Non praevalebunt
Città del Vaticano
Giovedì 5 febbraio 2015
Accorato appello del Papa per l’Ucraina martoriata da un’orribile violenza fratricida
L’unica parola giusta è pace
È uno scandalo che si combatta una guerra tra cristiani
Nuovo appello di Papa Francesco
per l’Ucraina, dilaniata da un’«orribile violenza fratricida» che continua a mietere vittime soprattutto tra
i civili. All’udienza generale di mercoledì 4 febbraio il Papa è tornato a
chiedere che «si faccia ogni sforzo —
anche a livello internazionale — per
la ripresa del dialogo, unica via possibile per riportare la pace e la concordia in quella martoriata terra».
Al testo già preparato il Pontefice
ha voluto aggiungere a braccio
espressioni forti e significative.
«Quando io sento le parole “vittoria” o “sconfitta” — ha confidato ai
fedeli riuniti nell’Aula Paolo VI —
sento un grande dolore, una grande
tristezza nel cuore. Non sono parole
giuste; l’unica parola giusta è “pace”.
Questa è l’unica parola giusta».
Quindi, rivolgendosi direttamente
alla popolazione del Paese, ha detto:
«Io penso a voi, fratelli e sorelle
ucraini... Pensate, questa è una guerra fra cristiani! Voi tutti avete lo
stesso battesimo! State lottando fra
cristiani. Pensate a questo scandalo.
E preghiamo tutti, perché la preghiera è la nostra protesta davanti a
Dio in tempo di guerra».
In precedenza, proseguendo nelle
catechesi dedicate alla famiglia, Francesco aveva ripreso la riflessione sul
Oggi il mensile
«donne
chiesa mondo»
IN
ALLEGATO
Messa per la giornata
della vita consacrata
Con il bambino
in braccio
PAGINA 2
ruolo dei padri già avviata nella precedente udienza. Un ruolo che il Papa ha rilanciato richiamando l’esperienza di san Giuseppe e descrivendo
la figura di un padre sempre «presente nella famiglia» per condividere
con la moglie «gioie e dolori, fatiche
e speranze», e per accompagnare i figli nel cammino della crescita. Per il
Pontefice il padre deve essere soprattutto paziente e saper «attendere e
perdonare dal profondo del cuore».
Questo, ha precisato, non significa
mostrarsi «debole, arrendevole, sentimentale», ma diventare capaci di
«correggere con fermezza», perché
«il padre che sa correggere senza avvilire è lo stesso che sa proteggere
senza risparmiarsi». Da qui l’invito a
trovare ispirazione nella preghiera
del Padre Nostro, perché tutti i padri siano per i giovani «custodi e
mediatori insostituibili della fede
nella bontà, nella giustizia e nella
protezione di Dio».
PAGINE 8-9
Gli auguri del Pontefice al presidente della Repubblica italiana
Per l’unità e la concordia del Paese
Al nuovo presidente della Repubblica italiana Sergio
Mattarella, eletto con 665 voti dal Parlamento riunito in
seduta comune sabato mattina, 31 gennaio, Papa Francesco ha inviato un messaggio di augurio. «Mi è gradito
rivolgerle — scrive Papa Francesco — deferenti espressioni augurali per la sua elezione alla suprema magistratura
dello Stato italiano e, mentre auspico che ella possa
esercitare il suo alto compito specialmente al servizio
dell’unità e della concordia del Paese, invoco sulla sua
persona la costante assistenza divina per una illuminata
azione di promozione del bene comune nel solco degli
autentici valori umani e spirituali del popolo italiano.
Con questi voti invio a lei e all’intera Nazione la benedizione apostolica».
Nella prima dichiarazione pubblica, dopo aver ricevuto formalmente la notizia dell’elezione da parte della
presidente della Camera, Laura Boldrini, e della vicepresidente del Senato, Valeria Fedeli, il capo dello Stato ha
spiegato che il suo pensiero va «alle difficoltà e alle speranze dei nostri concittadini».
Nato a Palermo il 23 luglio 1941 e fino a oggi giudice
della Corte costituzionale, il nuovo presidente fu eletto
per la prima volta deputato nel 1983 nelle fila della Democrazia cristiana (Dc), tre anni dopo l’assassinio per
mano mafiosa del fratello Piersanti, presidente della Regione Sicilia, avvenuto il 6 gennaio 1980. Dal 1961 al
1964 Sergio Mattarella aveva militato in Azione cattolica
e poi nella Federazione universitaria cattolica italiana.
Rieletto deputato nel 1987, nello stesso anno fu nomina-
Il presidente Sergio Mattarella (Afp)
to ministro per i Rapporti con il Parlamento nel Governo guidato da Giovanni Goria, incarico nel quale fu
confermato anche l’anno seguente per l’Esecutivo guidato da Ciriaco De Mita. Nel 1989 divenne ministro della
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L’OSSERVATORE ROMANO
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giovedì 5 febbraio 2015, numero 6
Messa per la giornata della vita consacrata
Con il bambino in braccio
Prendere in braccio Gesù per lasciarsi
guidare da lui sulla strada dell’amore
e del servizio: è la consegna affidata
da Papa Francesco ai religiosi e
alle religiose che hanno partecipato
alla messa celebrata nella basilica
vaticana lunedì pomeriggio, 2 febbraio,
festa della presentazione del Signore
e diciannovesima giornata mondiale
della vita consacrata.
Teniamo davanti agli occhi della
mente l’icona della Madre Maria che
cammina col Bambino Gesù in braccio. Lo introduce nel tempio, lo introduce nel popolo, lo porta ad incontrare il suo popolo.
Le braccia della Madre sono come
la “scala” sulla quale il Figlio di Dio
scende verso di noi, la scala dell’accondiscendenza di Dio. Lo abbiamo
ascoltato nella prima Lettura, dalla
Lettera agli Ebrei: Cristo si è reso
«in tutto simile ai fratelli, per diventare un sommo sacerdote misericordioso e degno di fede» (2, 17). È la
duplice via di Gesù: Egli è sceso, si è
fatto come noi, per ascendere al Padre insieme con noi, facendoci come
Lui.
Possiamo contemplare nel cuore
questo movimento immaginando la
scena evangelica di Maria che entra
nel tempio con il Bambino in braccio. La Madonna cammina, ma è il
Figlio che cammina prima di Lei. Lei
lo porta, ma è Lui che porta Lei in
questo cammino di Dio che viene a
noi affinché noi possiamo andare a
Lui.
Gesù ha fatto la nostra stessa strada per indicare a noi il cammino
nuovo, cioè la «via nuova e vivente»
(cfr. Eb 10, 20) che è Lui stesso. E
per noi, consacrati, questa è l’unica
strada che, in concreto e senza alternative, dobbiamo percorrere con gioia e
perseveranza.
Il Vangelo insiste ben cinque volte
sull’obbedienza di Maria e Giuseppe
alla “Legge del Signore” (cfr. Lc 2, 22.
23. 24. 27. 39). Gesù non è venuto a
fare la sua volontà, ma la volontà
del Padre; e questo — ha detto — era
il suo “cibo” (cfr. Gv 4, 34). Così chi
segue Gesù si mette nella via
dell’obbedienza, imitando l’“accondiscendenza” del Signore; abbassandosi e facendo propria la volontà del
Padre, anche fino all’annientamento
e all’umiliazione di sé stesso (cfr. Fil
2, 7-8). Per un religioso, progredire
significa abbassarsi nel servizio, cioè
fare lo stesso cammino di Gesù, che
«non ritenne un privilegio l’essere
come Dio» (Fil 2, 6). Abbassarsi facendosi servo per servire.
E questa via prende la forma della
regola, improntata al carisma del fondatore, senza dimenticare che la regola insostituibile, per tutti, è sempre il Vangelo. Lo Spirito Santo,
poi, nella sua creatività infinita, lo
traduce anche nelle diverse regole di
vita consacrata che nascono tutte
dalla sequela Christi, e cioè da questo
cammino di abbassarsi servendo.
Attraverso questa “legge” i consacrati possono raggiungere la sapienza, che non è un’attitudine astratta
ma è opera e dono dello Spirito
Santo. E segno evidente di tale sapienza è la gioia. Sì, la letizia evangelica del religioso è conseguenza
del cammino di abbassamento con
Gesù... E, quando siamo tristi, ci farà bene domandarci: «Come stiamo
vivendo questa dimensione kenotica?».
Nel racconto della Presentazione
di Gesù al Tempio la sapienza è rappresentata dai due anziani, Simeone
e Anna: persone docili allo Spirito
Santo (lo si nomina 3 volte), guidati
da Lui, animati da Lui. Il Signore
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ha dato loro la sapienza attraverso
un lungo cammino nella via dell’obbedienza alla sua legge. Obbedienza
che, da una parte, umilia e annienta,
però, dall’altra accende e custodisce
la speranza, facendoli creativi, perché erano pieni di Spirito Santo. Essi celebrano anche una sorta di liturgia attorno al Bambino che entra nel
Tempio: Simeone loda il Signore e
Anna “predica” la salvezza (cfr. Lc 2,
28-32.38). Come nel caso di Maria,
anche l’anziano Simeone prende il
bambino tra le sue braccia, ma, in
realtà, è il bambino che lo afferra e
lo conduce. La liturgia dei primi Vespri della Festa odierna lo esprime
in modo chiaro e bello: «Senex puerum portabat, puer autem senem regebat». Tanto Maria, giovane madre,
quanto Simeone, anziano “nonno”,
coordinatore
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don Sergio Pellini S.D.B.
direttore generale
portano il bambino in braccio, ma è
il bambino stesso che li conduce entrambi.
È curioso notare che in questa vicenda i creativi non sono i giovani,
ma gli anziani. I giovani, come Maria e Giuseppe, seguono la legge del
Signore sulla via dell’obbedienza; gli
anziani, come Simeone e Anna, vedono nel bambino il compimento
della Legge e delle promesse di Dio.
E sono capaci di fare festa: sono
creativi nella gioia, nella saggezza.
Tuttavia, il Signore trasforma l’obbedienza in sapienza, con l’azione del
suo Santo Spirito.
A volte Dio può elargire il dono
della sapienza anche a un giovane
inesperto, basta che sia disponibile a
percorrere la via dell’obbedienza e
della docilità allo Spirito. Questa
obbedienza e questa docilità non sono un fatto teorico, ma sottostanno
alla logica dell’incarnazione del Verbo: docilità e obbedienza a un fondatore, docilità e obbedienza a una
regola concreta, docilità e obbedienza a un superiore, docilità e obbedienza alla Chiesa. Si tratta di docilità e obbedienza concrete.
Attraverso il cammino perseverante nell’obbedienza, matura la sapienza personale e comunitaria, e così
diventa possibile anche rapportare le
regole ai tempi: il vero “aggiornamento”, infatti, è opera della sapienza,
forgiata nella docilità e obbedienza.
Il rinvigorimento e il rinnovamento
della vita consacrata avvengono attraverso un amore grande alla regola,
e anche attraverso la capacità di contemplare e ascoltare gli anziani della
Congregazione. Così il “deposito”, il
carisma di ogni famiglia religiosa
viene custodito insieme dall’obbedienza
e dalla saggezza. E, attraverso questo
cammino, siamo preservati dal vivere
la nostra consacrazione in maniera
light, in maniera disincarnata, come
fosse una gnosi, che ridurrebbe la vita religiosa ad una “caricatura”, una
caricatura nella quale si attua una
sequela senza rinuncia, una preghiera senza incontro, una vita fraterna
senza comunione, un’obbedienza
senza fiducia e una carità senza trascendenza.
Anche noi, oggi, come Maria e
come Simeone, vogliamo prendere
in braccio Gesù perché Egli incontri
il suo popolo, e certamente lo otterremo soltanto se ci lasciamo afferrare
dal mistero di Cristo. Guidiamo il
popolo a Gesù lasciandoci a nostra
volta guidare da Lui. Questo è ciò
che dobbiamo essere: guide guidate.
Il Signore, per intercessione di
Maria nostra Madre, di San Giuseppe e dei Santi Simeone e Anna, ci
conceda quanto gli abbiamo domandato nell’Orazione di Colletta: di
«essere presentati [a Lui] pienamente rinnovati nello spirito». Così sia.
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numero 6, giovedì 5 febbraio 2015
L’OSSERVATORE ROMANO
pagina 3
L’annuncio del viaggio del prossimo 6 giugno
A Sarajevo nel segno della pace
Papa Francesco andrà a Sarajevo
il prossimo 6 giugno. È stato lui stesso
ad annunciarlo durante l’Angelus
di domenica 1° febbraio, in piazza
San Pietro, dopo aver ricordato
ai fedeli che il compito dei cristiani
è «diffondere ovunque la forza
redentrice» del Vangelo, diventando
«missionari e araldi della parola
di Dio».
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Il brano evangelico di questa domenica (cfr. Mc 1, 21-28) presenta Gesù
che, con la sua piccola comunità di
discepoli, entra a Cafarnao, la città
dove viveva Pietro e che in quei
tempi era la più grande della Galilea. E Gesù entra in quella città.
L’evangelista Marco racconta che
Gesù, essendo quel giorno un sabato, si recò subito nella sinagoga e si
mise a insegnare (cfr. v. 21). Questo
fa pensare al primato della Parola di
Dio, Parola da ascoltare, Parola da
accogliere, Parola da annunciare. Arrivando a Cafarnao, Gesù non rimanda l’annuncio del Vangelo, non
pensa prima alla sistemazione logistica, certamente necessaria, della
sua piccola comunità, non indugia
nell’organizzazione. La sua preoccupazione principale è quella di comunicare la Parola di Dio con la forza
dello Spirito Santo. E la gente nella
sinagoga rimane colpita, perché Gesù «insegnava loro come uno che ha
autorità, e non come gli scribi» (v.
22).
Che cosa significa “con autorità”?
Vuol dire che nelle parole umane di
Gesù si sentiva tutta la forza della
Parola di Dio, si sentiva l’autorevolezza stessa di Dio, ispiratore delle
Sacre Scritture. E una delle caratteristiche della Parola di Dio è che realizza ciò che dice. Perché la Parola
di Dio corrisponde alla sua volontà.
Invece noi, spesso, pronunciamo parole vuote, senza radice o parole su-
perflue, parole che non corrispondono alla verità. Invece la Parola di
Dio corrisponde alla verità, è unità
con la sua volontà e realizza quello
che dice. Infatti Gesù, dopo aver
predicato, dimostra subito la sua autorità liberando un uomo, presente
nella sinagoga, che era posseduto
dal demonio (cfr. Mc 1, 23-26). Proprio l’autorità divina di Cristo aveva
suscitato la reazione di satana, nascosto in quell’uomo; Gesù, a sua
volta, riconobbe subito la voce del
maligno e «ordinò severamente: “Taci! Esci da lui!”» (v. 25). Con la sola
forza della sua parola, Gesù libera la
persona dal maligno. E ancora una
volta i presenti rimangono stupiti:
«Comanda persino agli spiriti impuri e gli obbediscono!» (v. 27). La Parola di Dio crea in noi lo stupore.
Possiede la forza di farci stupire.
Il Vangelo è parola di vita: non
opprime le persone, al contrario, libera quanti sono schiavi di tanti spiriti malvagi di questo mondo: lo spirito della vanità, l’attaccamento al
denaro, l’orgoglio, la sensualità... Il
Vangelo cambia il cuore, cambia la
vita, trasforma le inclinazioni al male
in propositi di bene. Il Vangelo è
capace di cambiare le persone! Pertanto è compito dei cristiani diffonderne ovunque la forza redentrice,
diventando missionari e araldi della
Parola di Dio. Ce lo suggerisce anche lo stesso brano odierno che si
chiude con un’apertura missionaria e
dice così: «La sua fama — la fama di
Gesù — si diffuse subito dovunque,
in tutta la regione della Galilea» (v.
28). La nuova dottrina insegnata
con autorità da Gesù è quella che la
Chiesa porta nel mondo, insieme
con i segni efficaci della sua presenza: l’insegnamento autorevole e
l’azione liberatrice del Figlio di Dio
diventano le parole di salvezza e i
gesti di amore della Chiesa missionaria. Ricordatevi sempre che il Van-
gelo ha la forza di cambiare la vita!
Non dimenticatevi di questo. Esso è
la Buona Novella, che ci trasforma
solo quando ci lasciamo trasformare
da essa. Ecco perché vi chiedo sempre di avere un quotidiano contatto
col Vangelo, di leggerlo ogni giorno,
un brano, un passo, di meditarlo e
anche portarlo con voi ovunque: in
tasca, nella borsa... Cioè di nutrirsi
ogni giorno da questa fonte inesauribile di salvezza. Non dimenticatevi!
Leggete un passo del Vangelo ogni
giorno. È la forza che ci cambia, che
ci trasforma: cambia la vita, cambia
il cuore.
Invochiamo la materna intercessione della Vergine Maria, Colei che
ha accolto la Parola e l’ha generata
per il mondo, per tutti gli uomini.
Ci insegni Lei ad essere ascoltatori
assidui e annunciatori autorevoli del
Vangelo di Gesù.
Al termine della preghiera mariana,
dopo l’annuncio del viaggio a Sarajevo,
il Pontefice ha ricordato la celebrazione
della giornata per la vita, unendosi ai
vescovi italiani nel chiedere la difesa di
ogni esistenza umana, dal concepimento
alla morte naturale.
Cari fratelli e sorelle,
desidero annunciare che sabato 6
giugno, a Dio piacendo, mi recherò
a Sarajevo, capitale della Bosnia ed
Erzegovina. Vi chiedo fin d’ora di
pregare affinché la mia visita a quelle care popolazioni sia di incoraggiamento per i fedeli cattolici, susciti
fermenti di bene e contribuisca al
consolidamento della fraternità, del-
la pace, del dialogo interreligioso e
dell’amicizia.
Saluto i presenti convenuti per
partecipare al IV Congresso mondiale organizzato da Scholas Occurrentes, che si terrà in Vaticano dal 2 al 5
febbraio sul tema: «Responsabilità
di tutti nell’educazione per una cultura dell’incontro». Saluto le famiglie, le parrocchie, le associazioni e
tutti quanti sono venuti dall’Italia e
da tante parti del mondo. In particolare, i pellegrini del Libano e
dell’Egitto, gli studenti di Zafra e di
Badajoz (Spagna); i fedeli di Sassari,
Salerno, Verona, Modena, Scano
Montiferro e Taranto.
Oggi si celebra in Italia la Giornata per la Vita, che ha come tema
«Solidali per la vita». Rivolgo il mio
apprezzamento alle associazioni, ai
movimenti e a tutti coloro che difendono la vita umana. Mi unisco ai
Vescovi italiani nel sollecitare «un
rinnovato riconoscimento della persona umana e una cura più adeguata
della vita, dal concepimento al suo
naturale termine» (Messaggio per la
37ª Giornata nazionale per la Vita).
Quando ci si apre alla vita e si serve
la vita, si sperimenta la forza rivoluzionaria dell’amore e della tenerezza
(cfr. Esort. ap. Evangelii gaudium,
288), inaugurando un nuovo umanesimo: l’umanesimo della solidarietà,
l’umanesimo della vita.
Saluto il Cardinale Vicario, i docenti universitari di Roma e quanti
sono impegnati a promuovere la cultura della vita.
A tutti auguro buona domenica.
Per favore non dimenticate di
pregare per me. Buon pranzo e arrivederci!
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giovedì 5 febbraio 2015, numero 6
Francesco torna a denunciare lo spreco del cibo e chiede di ripensare il sistema di produzione e distribuzione
Sorella e madre terra
La sfida di realizzare un’agricoltura a basso impatto ambientale
Un invito a «ritrovare l’amore della terra come “madre”» è stato rivolto sabato
31 gennaio dal Papa a duecento rappresentanti della Confederazione nazionale
italiana dei coltivatori diretti, ricevuti in udienza nella Sala Clementina.
Il presidente Roberto Moncalvo, nel suo saluto, ha rinnovato l’impegno per
un rapporto con la terra fatto di rispetto e dedizione, e ha ricordato che «il cibo
non può essere riconducibile a una merce qualsiasi». Approfondendo questi temi,
nel suo discorso Francesco ha lanciato ai presenti la sfida di realizzare
un’agricoltura a basso impatto ambientale.
Cari fratelli e sorelle, buongiorno.
Vi do il benvenuto in occasione del
settantesimo anniversario di fondazione della Confederazione Nazionale dei Coltivatori Diretti. Ringrazio
il vostro Presidente per le cortesi parole che mi ha rivolto a nome di tutti. Estendo il mio saluto al Consigliere ecclesiastico nazionale e a
quelli regionali qui presenti, segno
della speciale attenzione che la Chiesa riserva alla vostra attività.
Il nome “coltivatori diretti” fa riferimento al “coltivare”, che è un’attività tipicamente umana e fondamentale.
Nel lavoro degli agricoltori c’è, infatti, l’accoglienza del prezioso dono
della terra che ci viene da Dio, ma
c’è anche la sua valorizzazione
nell’operare altrettanto prezioso di
uomini e donne, chiamati a rispondere con audacia e creatività al mandato consegnato da sempre all’uomo, quello di coltivare e custodire la
terra (cfr. Gen 2, 15). Il verbo
“coltivare” richiama alla mente la cura che l’agricoltore ha per la sua terra perché dia frutto ed esso sia condiviso: quanta passione, quanta attenzione, quanta dedizione in tutto
questo! Si crea quel rapporto familiare e la terra diventa la “sorella”
terra.
Davvero non c’è umanità senza
coltivazione della terra; non c’è vita
buona senza il cibo che essa
produce per gli uomini e le donne
di ogni continente. L’agricoltura
mostra, dunque, il proprio ruolo
centrale.
L’opera di quanti coltivano la terra, dedicando generosamente tempo
ed energie, si presenta come una vera e propria vocazione. Essa merita
di venire riconosciuta e adeguatamente valorizzata, anche nelle concrete scelte politiche ed economiche.
Si tratta di eliminare quegli ostacoli
che penalizzano un’attività così preziosa e che spesso la fanno apparire
poco appetibile alle nuove generazioni, anche se le statistiche registrano una crescita del numero di studenti nelle scuole e negli istituti di
Agraria, che lascia prevedere un aumento degli occupati nel settore
agricolo. Nello stesso tempo occorre
prestare la dovuta attenzione alla fin
già troppo diffusa sottrazione di terra all’agricoltura per destinarla ad
altre attività, magari apparentemente
più redditizie (cfr. Messaggio per la
Giornata del Ringraziamento, 9 novembre 2014). Anche qui domina il
dio denaro! È come di quelle persone che non hanno sentimenti, che
vendono la famiglia, vendono la madre, ma qui è la tentazione di vendere la madre terra.
Tale riflessione sulla centralità del
lavoro agricolo porta il nostro sguardo su due aree critiche: la prima è
quella della povertà e della fame, che
ancora interessa purtroppo una vasta
parte dell’umanità. Il Concilio Vaticano II ha ricordato la destinazione
universale dei beni della terra (cfr.
Cost. past. Gaudium et spes, 69), ma
in realtà il sistema economico dominante esclude molti dalla loro giusta
fruizione. L’assolutizzazione delle regole del mercato, una cultura dello
scarto e dello spreco che nel caso del
cibo ha proporzioni inaccettabili, insieme con altri fattori, determinano
miseria e sofferenza per tante famiglie. Va quindi ripensato a fondo il
sistema di produzione e distribuzione del cibo. Come ci hanno insegnato i nostri nonni, con il pane non si
scherza! Io ricordo che, da bambino,
quando cadeva il pane, ci insegnavano a prenderlo e baciarlo e a riportarlo sul tavolo. Il pane partecipa in
qualche modo della sacralità della
vita umana, e perciò non può essere
trattato soltanto come una merce
(cfr. Esort. ap. Evangelii gaudium,
52-60).
Ma — per venire alla seconda area
critica — altrettanto importante è ricordare che nel libro della Genesi,
Marcello Piacentini «Agricoltori»
(XX secolo)
capitolo 2, versetto 15, si parla della
chiamata dell’uomo non solo a coltivare la terra, ma anche a custodirla.
Le due cose sono del resto strettamente collegate: ogni agricoltore sa
bene quanto sia diventato più difficile coltivare la terra in un tempo di
accelerati mutamenti climatici e di
eventi meteorologici estremi sempre
più diffusi. Come continuare a produrre buon cibo per la vita di tutti
quando la stabilità climatica è a rischio, quando l’aria, l’acqua e il suolo stesso perdono la loro purezza a
causa dell’inquinamento? Davvero ci
accorgiamo dell’importanza di una
puntuale azione di custodia del creato; davvero è urgente che le Nazioni
riescano a collaborare per questo
scopo fondamentale.
La sfida è: come realizzare
un’agricoltura a basso impatto ambientale? Come fare in modo che il
nostro coltivare la terra sia al tempo
stesso anche un custodirla? Solo così,
infatti, le future generazioni potranno continuare ad abitarla e a coltivarla.
Di fronte a questi interrogativi,
vorrei rivolgere un invito e una proposta. L’invito è quello di ritrovare
l’amore per la terra come “madre” —
direbbe san Francesco — dalla quale
siamo tratti e a cui siamo chiamati a
tornare costantemente. E da qui viene anche la proposta: custodire la
terra, facendo alleanza con essa,
affinché possa continuare ad essere,
come Dio la vuole, fonte di vita per
l’intera famiglia umana. Questo va
contro lo sfruttamento della terra,
come se fosse una cosa senza rapporto con noi — non più la madre —,
e poi lasciarla indebolire e abbandonarla perché non serve a
niente.
È proprio la storia di questa alleanza che la vostra tradizione incarna quotidianamente: la storia di
un’agricoltura sociale dal volto umano, fatta di relazioni solide e vitali
tra l’uomo e la terra: relazioni vitali:
la terra ci dà il frutto ma anche la
terra ha una qualità per noi: la terra
custodisce la nostra salute, la terra è
sorella e madre che cura e che sana.
L’ispirazione etica, che motiva e sostiene la vostra azione alla luce della
dottrina sociale cattolica, avvicina
fin dalle origini la missione della
Coldiretti a quella della Chiesa, e la
loro collaborazione ha portato tanti
buoni
frutti
all’intera
società
italiana.
Cari amici, auspico che il vostro
lavoro per coltivare e custodire la
terra sia adeguatamente considerato
e valorizzato; e vi invito a dare
sempre il primato alle istanze etiche
con cui da cristiani affrontate i
problemi e le sfide delle vostre attività.
E, per favore, vi chiedo di pregare
per me e di cuore vi benedico.
L’OSSERVATORE ROMANO
numero 6, giovedì 5 febbraio 2015
pagina 5
Costernazione e dolore del Papa per il perdurare del conflitto in Medio oriente
Immensa tragedia
Prego ogni giorno affinché si trovi presto una soluzione negoziata
«Costernazione» e «dolore» per
il perdurare del conflitto nella regione
mediorientale, in particolare in Iraq
e in Siria, sono stati espressi dal Papa
venerdì mattina, 30 gennaio, durante
l’udienza alla Commissione mista
internazionale per il dialogo teologico
tra la Chiesa cattolica e le Chiese
ortodosse orientali. Di seguito
il discorso pronunciato dal Pontefice
nella Sala del Concistoro.
Cari fratelli in Cristo,
con gioia do il benvenuto a voi,
membri della Commissione mista
internazionale per il dialogo teologico tra la Chiesa Cattolica e le Chiese
Ortodosse Orientali. Attraverso di
voi, estendo il saluto ai miei
venerabili fratelli, i Capi delle
Chiese Ortodosse Orientali. Ringrazio in particolare Sua Eminenza
Anba Bishoy, Co-Presidente della
Commissione, per le sue gentili parole.
È motivo di gratitudine riflettere
sul lavoro della vostra Commissione,
che cominciò nel gennaio del 2003
come una iniziativa congiunta di autorità ecclesiastiche della famiglia
delle Chiese Ortodosse Orientali e
del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani.
Negli ultimi dieci anni essa, seguendo una prospettiva storica, ha
Il 7 marzo Francesco nella chiesa romana di Ognissanti
E Paolo
VI
celebrò in italiano
Nell’edizione del 10 marzo 1965 «L’Osservatore Romano» pubblicò il testo dell’omelia tenuta da Montini nella chiesa di via Appia
Sabato 7 marzo alle ore 18, Papa
Francesco celebrerà la messa
nella parrocchia romana di
Ognissanti sulla via Appia Nuova.
Il Pontefice ricorderà, nella stessa
chiesa e a cinquant’anni esatti
di distanza, la messa che Paolo VI
celebrò per la prima volta in italiano
secondo le rinnovate norme liturgiche
stabilite dal concilio Vaticano II.
Di seguito uno stralcio dell’omelia
che il Pontefice tenne il 7 marzo 1965.
Che cosa stiamo facendo? Questo è
il momento delle riflessioni e si inserisce nel sacro Rito per suscitare i
pensieri che lo devono accompagnare. Noi stiamo attuando una realtà,
la quale, già di per sé, si presenta
solenne ed ha due aspetti: l’uno
straordinario; l’altro consueto e ordinario. Straordinaria è l’odierna nuova maniera di pregare, di celebrare
la Santa Messa. Si inaugura, oggi, la
nuova forma della Liturgia in tutte
le parrocchie e chiese del mondo,
per tutte le Messe seguite dal popolo. È un grande avvenimento che si
dovrà ricordare come principio di rigogliosa vita spirituale, come un impegno nuovo nel corrispondere al
grande dialogo tra Dio e l’uomo.
Norma fondamentale è, d’ora in
avanti, quella di pregare comprendendo le singole frasi e parole, di
completarle con i nostri sentimenti
personali, e di uniformare questi
all’anima della comunità, che fa coro
con noi.
V’è poi un’altra circostanza che
rende singolare l’odierna solennità:
la presenza del Papa, che, di per sé,
autorizza a porre in risalto tutto
quanto può divenire utile alla nostra
vita cristiana.
Del resto, anche a voler considerare il secondo aspetto, cioè quello
che è consueto in queste adunanze,
tutto — lo sappiamo — presenta un
carattere prezioso e degno della nostra riflessione.
E dapprima: che cosa è il Rito
che stiamo celebrando? È un incontro di chi offre il Divin Sacrificio
con il popolo che vi assiste. Tale incontro deve essere, perciò, pieno e
cordiale. Non è pertanto fuori luogo
che il celebrante — in questo caso il
Papa — rivolga molte volte agli
astanti il saluto caratteristico: Il Signore sia con voi!
Ecco: il Papa ripete il grande augurio non solo rivolgendosi con affettuoso gesto ai presenti, ma esprimendo il proposito di raggiungere
l’intera popolazione cristiana di questa città, della santa Diocesi di Pietro e Paolo, la Diocesi di Roma.
Perciò, con tutto il cuore, con tutta
la forza che Iddio pone nella sua
voce, nel suo ministero, il Santo Padre esclama verso il popolo romano:
Che Dio sia con te!
esaminato le strade attraverso cui le
Chiese hanno espresso la loro
comunione nei primi secoli, e che
cosa questo significhi per la nostra
ricerca della comunione oggi. Durante l’incontro di questa settimana,
voi avete avviato anche un approfondimento del vostro studio sulla natura dei Sacramenti, in particolare del
Battesimo. Auspico che il lavoro
compiuto possa portare frutti abbondanti per la comune ricerca teologica e aiutarci a vivere in maniera
sempre più profonda la nostra fraterna amicizia.
Ricordo con vivo apprezzamento
l’impegno ispiratore per il dialogo di
Sua Santità Ignazio Zakka Iwas, Patriarca della Chiesa Siro Ortodossa
di Antiochia e di tutto l’Oriente, che
lo scorso anno ha lasciato questo
mondo. Mi unisco alla preghiera di
voi tutti, del clero e dei fedeli di
questo zelante servitore di Dio, chiedendo per la sua anima l’eterna
gioia.
In questo momento, in maniera
particolare, noi condividiamo la costernazione e il dolore per quanto
accade in Medio Oriente, specialmente in Iraq e in Siria. Ricordo
tutti gli abitanti della regione,
compresi i nostri fratelli cristiani e
molte minoranze, che vivono le
conseguenze di un estenuante
conflitto. Insieme a voi prego ogni
giorno affinché si trovi presto una
soluzione negoziata, supplicando la
bontà e la pietà di Dio per quanti
sono colpiti da questa immensa tragedia. Tutti i cristiani sono chiamati
a lavorare insieme in mutua accettazione e fiducia per servire la causa
della pace e della giustizia. Possano
l’intercessione e l’esempio di molti
martiri e santi, che hanno dato coraggiosa testimonianza di Cristo in
tutte le nostre Chiese, sostenere e
rafforzare voi e le vostre comunità
cristiane.
Cari fratelli, vi ringrazio per la vostra visita e invoco per ciascuno di
voi e il suo ministero la benedizione
del Signore e la materna protezione
di Maria Santissima. Per favore, pregate per me.
L’OSSERVATORE ROMANO
pagina 6
giovedì 5 febbraio 2015, numero 6
Ivo Dulčić
«Piazza con persone. Concilio»
(1962-1965)
Messe a Santa Marta
Salvezza privatizzata
Giovedì 29 gennaio
Dio ci salva «personalmente», ci salva «con nome e cognome» ma sempre inseriti in un «popolo». Nella
messa celebrata a Santa Marta giovedì 29 gennaio, Papa Francesco ha
messo in guardia dal rischio di «privatizzare la salvezza»: infatti «ci sono
forme, ci sono condotte che sono
sbagliate e modelli sbagliati di condurre la vita cristiana». Rileggendo il
brano della Lettera agli Ebrei proposto dalla liturgia (10, 19-25), il Pontefice ha messo in evidenza che se è vero che Gesù «ha inaugurato una via
nuova e viva» e «noi dobbiamo seguirla», è anche vero che «dobbiamo
seguirla come il Signore vuole, secondo la forma che lui vuole». E un modello sbagliato è proprio quello di chi
tende a «privatizzare la salvezza».
Gesù infatti, ha spiegato il Papa,
«ci ha salvati tutti, ma non genericamente. Tutti, ognuno, con nome e
cognome. E questa è la salvezza personale»: ognuno di noi può dire
«per me», perché «il Signore mi ha
guardato, ha dato la sua vita per me,
ha aperto questa porta, questa via
nuova per me». C’è tuttavia il «peri-
colo di dimenticare che lui ci ha salvato singolarmente, ma in un popolo», perché «sempre il Signore salva
nel popolo». Quando il Signore
«chiama Abramo, gli promette di fare un popolo». E per questo nella
Lettera agli Ebrei si legge: «Prestiamo attenzione gli uni agli altri». Se,
ha ribadito Francesco, io interpreto
la salvezza come «salvezza soltanto
per me» allora «sbaglio strada: la
privatizzazione della salvezza è una
strada sbagliata».
Ma allora «quali sono i criteri per
non privatizzare la salvezza?». Si ritrovano proprio nel brano della lettera. «Prima di tutto, il criterio della
fede» ha spiegato il Papa. «La fede
in Gesù ci purifica»; e allora «accostiamoci con cuore sincero, nella pienezza della fede, con i cuori purificati da ogni cattiva coscienza». Il primo criterio è dunque «il segno della
fede, il cammino della fede». C’è poi
un altro criterio che risiede in «una
virtù tanto dimenticata: la speranza».
Dobbiamo infatti mantenere «senza
vacillare la professione della nostra
speranza», che è «come l’ancella: è
quella che ci porta avanti, ci fa guardare le promesse e andare avanti».
Infine, un terzo criterio è quello della
«carità»: dobbiamo cioè verificare se
«prestiamo attenzione gli uni agli altri, per stimolarci a vicenda nella carità e nelle opere buone».
Un esempio concreto, ha detto il
Pontefice, può venire dalla vita in
una parrocchia o in una comunità:
quando «io sono lì, io posso privatizzare la salvezza» ed «essere lì un
po’ socialmente soltanto». Per evitare questo rischio, «devo chiedere a
me stesso se io parlo, comunico la
fede; parlo, comunico la speranza;
parlo, faccio e comunico la carità».
Perché «se in una comunità non si
parla, non si dà coraggio l’uno l’altro in queste tre virtù, i componenti
di quella comunità hanno privatizzato la fede».
Ecco l’errore: «Ognuno cerca la
sua propria salvezza, non la salvezza
di tutti, la salvezza del popolo». Eppure «Gesù ha salvato ognuno, ma
in un popolo, in una Chiesa». A
quel punto accade che «tu sei salvo,
ma non come il Signore ti ha salvato». Al riguardo l’autore della Lettera agli Ebrei «dà un consiglio tanto
importante: non disertiamo le nostre
Il primo amore
Venerdì 30 gennaio
«Non perdere la memoria del primo amore» — cioè «la gioia del primo incontro con Gesù» — significa
alimentare di continuo la speranza.
E questi «due parametri», memoria
e speranza, sono l’unica «cornice»
in cui il cristiano può vivere «la salvezza, che è sempre dono di Dio»,
senza cadere nella tentazione della
«tiepidezza», propria di chi ha perduto con la memoria anche speranza ed entusiasmo. È dunque un in-
vito a non restare «a metà strada»
quello formulato da Francesco nella
messa celebrata venerdì mattina, 30
gennaio, nella cappella della Casa
Santa Marta.
«La salvezza dei giusti viene dal
Signore»: il verso del salmo 36 ricorda, ha fatto notare il Papa, la verità che «la salvezza è un dono che
ci dà il Signore»: non si compra né
si può ottenere con lo studio, perché è sempre «un dono, un rega-
Caravaggio (attr.), «La chiamata di Pietro e Andrea» (1603-1606)
lo». Ma la vera domanda, a questo
punto, è: «Come custodire questa
salvezza? Come fare perché questa
salvezza rimanga in noi e dia frutto,
come spiega Gesù, come il seme o
come il granello di senape?» ha
detto il Papa riferendosi al brano liturgico del Vangelo di Marco (4,
26-34).
Proprio nel passo della Lettera
agli Ebrei (10, 32-39) «che abbiamo
letto e sentito adesso — ha sottolineato — ci sono i criteri per custodire questo dono, questo regalo
della salvezza; per permettere che
questa salvezza vada avanti e dia i
suoi frutti in noi».
Il «primo criterio», ha spiegato il
Papa, «è quello della memoria». Si
legge infatti nel testo: «Fratelli, richiamate alla memoria quei primi
giorni: dopo aver ricevuto la luce di
Cristo». Sono quelli «i giorni del
primo amore», come dicono i profeti: è «il giorno dell’incontro con
Gesù». Perché, ha rimarcato Francesco, «quando abbiamo incontrato
Gesù» — o meglio, ha precisato,
quando «lui si è lasciato incontrare
da noi, perché è lui che fa tutto» —
CONTINUA A PAGINA 7
riunioni». Un consiglio «pratico»
che il Papa si è soffermato a spiegare: succede infatti che «quando noi
siamo in una riunione — nella parrocchia, nel gruppo — e giudichiamo
gli altri» dicendo: «Questo non mi
piace... io vengo perché devo venire,
ma non mi piace...», finisce che «disertiamo». Emerge cioè «una sorta
di disprezzo verso gli altri. E questa
non è la porta, la via nuova e vivente che il Signore ha aperto, ha inaugurato».
Ciò avveniva anche nei primi anni
di vita della Chiesa. Paolo, per
esempio, «rimprovera quelli che vanno alle riunioni per servire l’Eucaristia e pure portano il pranzo, ma fra
loro, e lasciano gli altri lì. Disprezzano gli altri; disertano dalla comunità totale; disertano dal popolo di
Dio». In pratica «hanno privatizzato
la salvezza» pensando: «la salvezza
è per me e per il mio gruppetto, ma
non per tutto il popolo di Dio».
Questo, ha ricordato il Pontefice,
«è uno sbaglio molto grande. È
quello che chiamiamo e che vediamo: le elite ecclesiali». Accade quando «nel popolo di Dio si creano
questi gruppetti» che «pensano di
essere buoni cristiani» e forse hanno
anche «buona volontà, ma sono
gruppetti che hanno privatizzato la
salvezza».
Perciò, ha sintetizzato Francesco, i
criteri per riconoscere «se io sono
nella mia parrocchia, nel mio gruppo, nella mia famiglia, se sono un
vero figlio della Chiesa, figlio di
Dio, salvato da Gesù, nel suo popolo sono: se parlo della fede, se parlo
della speranza, se parlo della carità».
Ma attenzione: «Quando in un
gruppo si parla di tante cose e non
ci si dà forza mutuamente, non si
fanno le opere buone, si finisce per
disertare dal gruppo grande per fare
dei piccoli gruppetti di elite». Invece
Dio «ci salva in un popolo, non nelle elite, che noi con le nostre filosofie
o il nostro modo di capire la fede
abbiamo fatto».
Dobbiamo perciò chiederci: «Ho
la tendenza a privatizzare la salvezza
per me, per il mio gruppetto, per la
mia elite o non diserto da tutto il popolo di Dio, non mi allontano dal
popolo di Dio e sempre sono in comunità, in famiglia, con il linguaggio della fede, della speranza e il
linguaggio delle opere di carità?». Il
Papa ha concluso con l’auspicio
«che il Signore ci dia la grazia di
sentirci sempre popolo di Dio, salvati personalmente». Perché la verità è
che «lui ci salva con nome e cognome», ma «in un popolo, non nel
gruppetto che io faccio per me».
numero 6, giovedì 5 febbraio 2015
L’OSSERVATORE ROMANO
pagina 7
Il Vangelo a portata di mano
Martedì 3 febbraio
Leggere ogni giorno una pagina del
Vangelo per «dieci, quindici minuti
e non di più», tenendo «fisso lo
sguardo su Gesù» per «immaginarmi nella scena e parlare con lui, come mi viene dal cuore»: queste sono
le caratteristiche della «preghiera di
contemplazione», vera sorgente di
speranza per la nostra vita. È il suggerimento lanciato dal Papa durante
la messa celebrata martedì mattina, 3
febbraio, nella cappella della Casa
Santa Marta.
Nella prima lettura, ha fatto notare Francesco, «l’autore della Lettera
agli Ebrei (12, 1-4) richiama la memoria dei primi giorni dopo la conversione, dopo l’incontro con Gesù,
e richiama anche la memoria dei nostri padri: “Quanto hanno sofferto,
quando in cammino sono andati”».
Proprio «guardando questi padri dice: “Anche noi circondati da tale
moltitudine di testimoni”». Dunque
è «la testimonianza dei nostri antenati» che «lui richiama alla memoria». E «richiama anche la nostra
esperienza, quando eravamo tanto
felici nel primo incontro con Gesù».
Questa «è la memoria, della quale
abbiamo parlato come un riferimento della vita cristiana».
Ma oggi, ha rimarcato il Papa,
«l’autore della Lettera parla dell’al-
tro riferimento, cioè della speranza».
E «ci dice che dobbiamo avere coraggio di andare avanti: “Corriamo
con perseveranza nella corsa che ci
sta davanti”». Poi «dice qual è proprio il nocciolo della speranza: “tenendo fisso lo sguardo su Gesù”».
Ecco il punto: «Se noi non abbiamo
il nostro sguardo fisso su Gesù difficilmente possiamo avere speranza».
Magari «possiamo avere ottimismo,
essere positivi, ma la speranza?».
Del resto, ha spiegato Francesco,
«la speranza si impara soltanto guardando Gesù, contemplando Gesù;
s’impara con la preghiera di contemplazione». E «di questo voglio parlare oggi» ha confidato, alimentando
la sua riflessione attraverso una domanda: «Io posso chiedere a voi:
come pregate?». Qualcuno, ha detto, potrebbe rispondere: «Io, padre,
prego le preghiere che ho imparato
da bambino». E ha commentato:
«Va bene, quello è buono». Qualche
altro potrebbe aggiungere: «Prego
anche il rosario, ma tutti i giorni!».
E il Papa: «È buono pregare il rosario tutti i giorni». Infine c’è chi potrebbe dire: «Parlo anche col Signore, quando ho una difficoltà, o con
la Madonna o con i santi...». E anche «questo è buono».
Di fronte a tutto ciò, tuttavia, il
Pontefice ha rilanciato con un’altra
domanda: «Ma tu fai la preghiera di
contemplazione?». Un interrogativo,
forse, un po’ spiazzante, tanto che
qualcuno potrebbe dire: «Cosa è
questo, padre? Com’è questa preghiera? Dove si compra? Come si
fa?». La risposta di Francesco è
chiara: «Si può fare soltanto col
Vangelo in mano». In pratica, ha
suggerito, «tu prendi il Vangelo, scegli un passo, lo leggi una volta, lo
leggi due volte; immagina, come se
tu vedessi quello che succede e contempla Gesù».
Per dare un’indicazione pratica, il
Papa ha preso come esempio proprio
il passo del Vangelo di Marco (5, 2143) proposto dalla liturgia, che «c’insegna tante cose belle». Partendo da
questa pagina, ha chiesto: «Come
faccio la contemplazione col Vangelo
di oggi?». E nel condividere la sua
esperienza personale, ha proposto
una prima riflessione: «Vedo che Gesù era in mezzo alla folla, attorno a
lui era molta folla. Cinque volte dice
questo brano la parola “folla”. Ma
Gesù non si riposava? Io posso pensare: sempre con la folla! La maggior
parte della vita di Gesù è passata sulla strada, con la folla. Ma non riposava? Sì, una volta: il Vangelo dice
che dormiva sulla barca, ma è venuta
la tempesta e i discepoli lo hanno
svegliato. Gesù era continuamente tra
la gente». Perciò, ha suggerito il Papa, «si guarda Gesù così, contemplo
Gesù così, m’immagino Gesù così. E
dico a Gesù quello che mi viene in
mente di dirgli».
Francesco ha proseguito la sua
meditazione con queste parole: «Poi,
in mezzo alla folla, c’era quella don-
na malata e Gesù se ne accorse. Ma
come fa Gesù, in mezzo a tanta gente, ad accorgersi che una donna lo
ha toccato?». È lui stesso infatti a
fare la domanda diretta: «Chi mi ha
toccato?». Da parte loro, i discepoli
fanno notare a Gesù: «Tu vedi la
folla che si stringe intorno a te e dici: “Chi mi ha toccato?”». La questione, ha puntualizzato il Papa, è
che «Gesù non solo capisce la folla,
sente la folla, ma sente il battere del
cuore di ognuno di noi, di ognuno:
ha cura di tutti e di ciascuno, sempre!».
Il Papa, continuando a rileggere il
brano di Marco, ha spiegato che la
stessa situazione si ripetere anche
quando si avvicina a Gesù «il capo
della sinagoga, a raccontargli della
figliuola ammalata gravemente. E lui
lascia tutto e si occupa di questo:
Gesù nel grande e nel piccolo, sempre!». Poi, ha proseguito, «possiamo
andare avanti e vedere come arriva
alla casa, vede quel trambusto, quelle donne sono chiamate per piangere
quando si fa la veglia del morto: grida, pianti». Ma Gesù dice: «State
tranquilli: dorme!». A queste parole,
c’è stato chi ha persino iniziato a deriderlo. Però «lui sta zitto» e con la
sua «pazienza» riesce a sopportare
questa situazione, a non rispondere
a quelli che lo deridono.
Il racconto evangelico culmina
con «la risurrezione della bambina».
CONTINUA A PAGINA 10
Venerdì 30 gennaio
CONTINUAZIONE DALLA PAGINA 6
«è stata una gioia grande, una voglia di fare cose grandi», come spiega appunto lo stesso autore della lettera. Dunque il primo criterio per
custodire il dono della salvezza è
«non perdere la memoria di quei
primi giorni» segnati da «un certo
entusiasmo»: soprattutto «non perdere la memoria» del «primo amore».
L’autore della Lettera agli Ebrei
poi «va avanti», facendo presente
che quella «gioia vi ha lasciato sopportare tutto», a tal punto che «tutto sembrava poco nei primi tempi, e
si andava avanti con entusiasmo».
Proseguendo ancora, «ci esorta a
non abbandonare quel coraggio —
dice “questa franchezza” — quella
parresìa di quei primi tempi». È infatti proprio il «primo amore» che
«ha fatto crescere in noi quel coraggio, quel “ma, andiamo avanti!”,
quell’entusiasmo».
L’invito, perciò, è a «non abbandonare la franchezza». Di più: «abbandonare» non è neppure «la parola giusta», ha fatto notare Francesco,
aggiungendo che se «noi andiamo al
testo originale» troviamo un’espressione molto forte: «Non cacciate via,
non sprecate, non rifiutate la franchezza». È proprio «come un rifiuto: non cacciare via questa franchezza, questo coraggio, il coraggio dei
primi tempi».
«Per questo la memoria è tanto
importante per ricordare la grazia ricevuta» ha rimarcato il Papa. Difatti
«se noi cacciamo via questo entusiasmo che viene dalla memoria del
primo amore, questo entusiasmo che
viene dal primo amore, viene quel
pericolo tanto grande per i cristiani:
il tepore». E «i cristiani tiepidi stanno lì, fermi; e sì, sono cristiani, ma
hanno perso la memoria del primo
amore, hanno perso l’entusiasmo».
In più «i cristiani tiepidi hanno anche perso la pazienza, quel “tollerare” le cose della vita con lo spirito
dell’amore di Gesù; quel “tollerare”,
quel “portare sulle spalle” le difficoltà». Ecco perché, ha commentato il
vescovo di Roma, «i cristiani tiepidi,
poverini, sono in grave pericolo».
A questo proposito, ha suggerito
Francesco, «ci sono due immagini
che mi colpiscono tanto» e che valgono a mettere in guardia ciascuno:
«Ma tu sei tiepido, ma stai attento!». San Pietro, nella sua seconda
Lettera, usa «l’immagine del cane
che torna al suo vomito». Ed «è
brutta questa immagine» — ha riconosciuto il Papa — però rappresenta
bene «un cristiano tiepido» che
«torna oltre il primo amore, come se
quell’amore non fosse mai stato».
«La seconda immagine, anch’essa
brutta — ha avvertito — è quella che
Gesù dice della persona che vuole
seguirlo, e lo segue, e poi ha cacciato via il demonio». Questo demo-
nio, uscito dall’uomo, «va per il deserto» con il proposito di tornare
«da quell’uomo, da quella donna»
da cui era uscito. E quando «torna,
trova la casa tutta in ordine, pulita,
bella». Così «si arrabbia, va, cerca
sette demoni peggiori di lui e torna»
per prendere «possesso di quella casa». E così facendo «non ferisce la
persona», perché si tratta di «demoni “educati”: bussano anche alla porta per entrare, ma entrano». Capita
lo stesso a «un cristiano tiepido»,
che «non sa chi è che bussa alla
porta e la apre», dicendo pure
«avanti!». Ma Gesù dice che in conclusione «la fine di quell’anima» è
persino «peggiore di prima».
«Queste due immagini del tepore
del cristiano ci fanno pensare» ha
confidato il Pontefice. Per questo
non bisogna mai «dimenticare il primo amore»; anzi, occorre sempre
«richiamare alla memoria quel primo
amore». Perciò alla domanda «come
vado avanti?», la risposta è: «con la
speranza». È quello che la Lettera
agli Ebrei dice a ogni cristiano:
«Ancora un poco, un poco appena,
e colui che deve venire, verrà e non
tarderà».
Ecco allora «i due parametri» a
disposizione del cristiano: «la memoria e la speranza». Si tratta, in fin
dei conti, di «richiamare la memoria
per non perdere quella esperienza
tanto bella del primo amore che alimenta la speranza». Tante volte, ha
ammesso il Papa, «è buia la speranza» ma il cristiano «va avanti: crede,
va, perché sa che la speranza non
delude, per trovare Gesù».
«Questi due parametri — ha proseguito ancora — sono proprio la
cornice nella quale possiamo custodire questa salvezza dei giusti che
viene dal Signore, questo regalo che
ci fa il Signore». Bisogna «custodire
questa salvezza perché il piccolo grano di senape cresca e dia il suo frutto». Invece, ha insistito Francesco,
«danno pena, fanno male al cuore
tanti cristiani — tanti cristiani! — a
metà cammino, tanti cristiani falliti
in questa strada verso l’incontro con
Gesù». E pur «partendo dall’incontro con Gesù», nel mezzo della strada «hanno perso la memoria del primo amore e non hanno la speranza:
sono lì...».
Al Signore il Papa ha chiesto «la
grazia di custodire il regalo, il dono
della salvezza»: un dono che ogni
cristiano deve custodire «in questo
cammino che sempre richiama la
memoria e la speranza». Ma, ha
concluso, «solo lui può darci questa
grazia: che lui ci invii lo Spirito
Santo per camminare su questa
strada».
L’OSSERVATORE ROMANO
numero 6, giovedì 5 febbraio 2015
mentale. Il padre che sa correggere senza
avvilire è lo stesso che sa proteggere
senza risparmiarsi. Una volta ho sentito
in una riunione di matrimonio un papà
dire: “Io alcune volte devo picchiare un
po’ i figli... ma mai in faccia per non
avvilirli”. Che bello! Ha senso della dignità. Deve punire, lo fa in modo giusto, e va avanti.
Se dunque c’è qualcuno che può
spiegare fino in fondo la preghiera del
“Padre nostro”, insegnata da Gesù,
questi è proprio chi vive in prima persona la paternità. Senza la grazia che
viene dal Padre che sta nei cieli, i padri
perdono coraggio, e abbandonano il
campo. Ma i figli hanno bisogno di
trovare un padre che li aspetta quando
ritornano dai loro fallimenti. Faranno
di tutto per non ammetterlo, per non
darlo a vedere, ma ne hanno bisogno; e
il non trovarlo apre in loro ferite difficili da rimarginare.
La Chiesa, nostra madre, è impegnata a sostenere con tutte le sue forze la
presenza buona e generosa dei padri
nelle famiglie, perché essi sono per le
nuove generazioni custodi e mediatori
insostituibili della fede nella bontà, della fede nella giustizia e nella protezione
di Dio, come san Giuseppe.
Nell’udienza generale il Papa torna a parlare di una presenza fondamentale in ogni famiglia
Cosa insegna un padre
Una nuova riflessione sulla figura del padre in famiglia è stata svolta da Papa
Francesco durante l’udienza generale di mercoledì 4 febbraio, nell’aula Paolo VI.
Dopo aver parlato nella precedente catechesi «del pericolo dei padri “assenti”»,
il Pontefice ha voluto «guardare piuttosto all’aspetto positivo» e ha indicato
in san Giuseppe la figura esemplare per ogni padre cristiano.
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Oggi vorrei svolgere la seconda parte
della riflessione sulla figura del padre
nella famiglia. La volta scorsa ho
parlato del pericolo dei padri “assenti”,
oggi
voglio
guardare
piuttosto
all’aspetto positivo. Anche san Giuseppe fu tentato di lasciare Maria, quando
scoprì che era incinta; ma intervenne
l’angelo del Signore che gli rivelò il disegno di Dio e la sua missione di padre
putativo; e Giuseppe, uomo giusto,
«prese con sé la sua sposa» (Mt 1, 24)
e divenne il padre della famiglia di Nazaret.
Ogni famiglia ha bisogno del padre.
Oggi ci soffermiamo sul valore del suo
ruolo, e vorrei partire da alcune espressioni che si trovano nel Libro dei Proverbi, parole che un padre rivolge al
proprio figlio, e dice così: «Figlio mio,
se il tuo cuore sarà saggio, anche il mio
sarà colmo di gioia. Esulterò dentro di
me, quando le tue labbra diranno parole rette» (Pr 23, 15-16). Non si potrebbe
esprimere meglio l’orgoglio e la commozione di un padre che riconosce di
avere trasmesso al figlio quel che conta
davvero nella vita, ossia un cuore saggio. Questo padre non dice: “Sono fiero di te perché sei proprio uguale a me,
perché ripeti le cose che dico e che faccio io”. No, non gli dice semplicemente
qualcosa. Gli dice qualcosa di ben più
importante, che potremmo interpretare
così: “Sarò felice ogni volta che ti vedrò agire con saggezza, e sarò commosso ogni volta che ti sentirò parlare con
rettitudine. Questo è ciò che ho voluto
lasciarti, perché diventasse una cosa
tua: l’attitudine a sentire e agire, a parlare e giudicare con saggezza e rettitudine. E perché tu potessi essere così, ti
ho insegnato cose che non sapevi, ho
corretto errori che non vedevi. Ti ho
fatto sentire un affetto profondo e insieme discreto, che forse non hai riconosciuto pienamente quando eri giovane e incerto. Ti ho dato una testimonianza di rigore e di fermezza che forse
non capivi, quando avresti voluto soltanto complicità e protezione. Ho dovuto io stesso, per primo, mettermi alla
prova della saggezza del cuore, e vigilare sugli eccessi del sentimento e del risentimento, per portare il peso delle
inevitabili incomprensioni e trovare le
parole giuste per farmi capire. Adesso
— continua il padre —, quando vedo
che tu cerchi di essere così con i tuoi
figli, e con tutti, mi commuovo. Sono
felice di essere tuo padre”. È così ciò
che dice un padre saggio, un padre maturo.
Un padre sa bene quanto costa trasmettere questa eredità: quanta vici
nanza, quanta dolcezza e quanta fermezza. Però, quale consolazione e quale ricompensa si riceve, quando i figli
rendono onore a questa eredità! È una
gioia che riscatta ogni fatica, che supera ogni incomprensione e guarisce ogni
ferita.
La prima necessità, dunque, è proprio questa: che il padre sia presente
nella famiglia. Che sia vicino alla moglie, per condividere tutto, gioie e dolori, fatiche e speranze. E che sia vicino
ai figli nella loro crescita: quando
giocano e quando si impegnano, quando sono spensierati e quando sono
angosciati, quando si esprimono e
quando sono taciturni, quando osano e
quando hanno paura, quando fanno un
passo sbagliato e quando ritrovano la
strada; padre presente, sempre. Dire
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presente non è lo stesso che dire controllore! Perché i padri troppo controllori annullano i figli, non li lasciano
crescere.
Il Vangelo ci parla dell’esemplarità
del Padre che sta nei cieli — il solo, dice Gesù, che può essere chiamato veramente “Padre buono” (cfr. Mc 10, 18).
Tutti conoscono quella straordinaria
parabola chiamata del “figlio prodigo”,
o meglio del “padre misericordioso”,
che si trova nel Vangelo di Luca al capitolo 15 (cfr. 15, 11-32). Quanta dignità
e quanta tenerezza nell’attesa di quel
padre che sta sulla porta di casa aspettando che il figlio ritorni! I padri devono essere pazienti. Tante volte non c’è
altra cosa da fare che aspettare; pregare
e aspettare con pazienza, dolcezza, magnanimità, misericordia.
Un buon padre sa attendere e sa perdonare, dal profondo del cuore. Certo,
sa anche correggere con fermezza: non
è un padre debole, arrendevole, senti-
Vescovi in mezzo ai poveri
A Roma settanta vescovi, venuti
dalle periferie del mondo, stanno
prestando servizio a emarginati e
poveri nelle carceri, nelle stazioni
ferroviarie e della metropolitana e
nelle mense della Caritas.
L’iniziativa, promossa dalla
Comunità di sant’Egidio, è stata
presentata stamani a Francesco
durante l’udienza nell’aula Paolo VI.
«Stiamo facendo insieme un
cammino di comunione e, appunto,
di servizio per essere concretamente
Chiesa “in uscita” verso le periferie
esistenziali, come insegna il Papa»
spiega l’arcivescovo Vincenzo Paglia.
«È un’esperienza di servizio ai
poveri che ti tocca e ti cambia»
aggiunge il vescovo greco-cattolico
romeno di Oradea Mare, monsignor
Virgil Bercea.
A parlare di servizio erano anche
molti rappresentanti di Scholas
occurrentes, la rete educativa voluta
da Papa Francesco. Quasi come
anteprima del concerto tenuto nel
pomeriggio, sempre nell’aula Paolo
VI, in occasione del quarto congresso
mondiale, alcuni fra i più noti artisti
Nei saluti ai gruppi di fedeli un nuovo accorato appello per l’Ucraina
L’unica parola giusta è pace
«Quando io sento le parole “vittoria” o “sconfitta” sento un grande dolore,
una grande tristezza nel cuore. Non sono parole giuste; l’unica parola giusta
è “pace”»: con queste parole il Papa, durante i saluti rivolti ai vari gruppi
linguistici dopo la catechesi, ha lanciato un nuovo appello per l’Ucraina,
invitando tutti a pregare perché «cessi al più presto questa orribile violenza
fratricida». E, rivolgendosi direttamente ai «fratelli e sorelle ucraini», ha detto:
«Pensate, questa è una guerra fra cristiani! Voi tutti avete lo stesso battesimo!
State lottando fra cristiani. Pensate a questo scandalo».
Saluto cordialmente i pellegrini di
lingua francese, in particolare il Seminario di Parigi, accompagnato dal
Cardinal André Vingt-Trois, Arcivescovo di Parigi e dai suoi tre Ausiliari. La mia preghiera accompagna i
seminaristi nel loro cammino verso il
sacerdozio.
Affido le vostre famiglie all’intercessione di San Giuseppe, e in particolare tutti i padri, affinché siano
per le nuove generazioni custodi e
mediatori della fede, nella bontà e
nella giustizia, e sotto la protezione
di Dio.
Che Dio vi benedica!
Saluto i pellegrini di lingua inglese presenti all’odierna Udienza, specialmente quelli provenienti da Inghilterra, Galles, Finlandia, Sri Lanka e Stati Uniti d’America. Su voi e
sulle vostre famiglie invoco la gioia
e la pace nel Signore Gesù. Dio vi
benedica!
Con affetto saluto i pellegrini di
lingua tedesca presenti a quest’Udienza. I padri nelle famiglie
non possono essere sostituiti. Accompagniamo con la preghiera il loro ruolo importante affinché possano sempre custodire e mediare per le
nuove generazioni la fede, nella
bontà e giustizia del Padre celeste,
come San Giuseppe. Il Signore benedica voi e le vostre famiglie.
Saluto con affetto i pellegrini di
lingua spagnola, in particolare quelli
venuti da Spagna, Argentina, Messico e altri Paesi latinomaericani.
Chiediamo al Signore che non manchi mai nelle famiglie la presenza di
un buon padre, che sia mediatore e
custode della fede nella bontà, nella
giustizia e nella protezione di Dio,
come fu san Giuseppe. Molte grazie.
Carissimi pellegrini di lingua portoghese, vi saluto cordialmente tutti.
Questa visita a Roma vi aiuti ad essere pronti, come Abramo, per uscire
ogni giorno verso la terra di Dio e
dell’uomo, rivelandovi una benedizione e un segno dell’amore di Dio
per tutti i suoi figli. La Vergine Santa vi guidi e protegga!
Rivolgo un cordiale benvenuto ai
pellegrini di lingua araba, in particolare a quelli provenienti dal Libano,
dall’Egitto e dal Medio Oriente. La
paternità buona significa avere la capacità di offrire tutto senza risparmiarsi; di assicurare protezione senza
soffocare; di dare perdono senza
chiedere nulla in cambio. È la volontà di aspettare con pazienza e fiducia; è l’adesione nel seguire
l’esempio del “Padre Buono e Misericordioso” che è nei cieli e di San
Giuseppe che ha vissuto la volontà
di Dio con obbedienza fiduciosa, offrendo a Maria e al Bambino Gesù
la protezione, l’affetto, la sicurezza e
l’esempio. Il Signore benedica tutti i
padri buoni e rialzi i negligenti e vi
protegga tutti dal maligno!
Saluto i pellegrini polacchi venuti
a quest’udienza. L’altro ieri abbiamo
celebrato la festa della Presentazione
del Signore e la Giornata della Vita
Consacrata. Affido alle vostre preghiere tutti coloro che sono stati
chiamati alla vita secondo i consigli
evangelici. Guidati da Cristo servano
fedelmente Dio e i fratelli. Con le
loro preghiere, i digiuni e le rinunce
ottengano per tutti la grazia della
conversione, la pace per il mondo, la
misericordia divina e la prosperità.
Sia lodato Gesù Cristo.
Saluto i pellegrini slovacchi e, tramite loro, desidero esprimere il mio
apprezzamento all’intera Chiesa slovacca, incoraggiando tutti a proseguire nell’impegno in difesa della famiglia, cellula vitale della società.
Ancora una volta il mio pensiero
va all’amato popolo ucraino. Purtroppo la situazione sta peggiorando
e si aggrava la contrapposizione tra
le parti. Preghiamo anzitutto per le
vittime, tra cui moltissimi civili, e
per le loro famiglie, e chiediamo al
Signore che cessi al più presto questa orribile violenza fratricida. Rinnovo l’accorato appello affinché si
faccia ogni sforzo — anche a livello
internazionale — per la ripresa del
dialogo, unica via possibile per riportare la pace e la concordia in
quella martoriata terra. Fratelli e sorelle, quando io sento le parole “vit-
toria” o “sconfitta” sento un grande
dolore, una grande tristezza nel cuore. Non sono parole giuste; l’unica
parola giusta è “pace”. Questa è
l’unica parola giusta. Io penso a voi,
fratelli e sorelle ucraini ... Pensate,
questa è una guerra fra cristiani! Voi
tutti avete lo stesso battesimo! State
lottando fra cristiani. Pensate a questo scandalo. E preghiamo tutti, perché la preghiera è la nostra protesta
davanti a Dio in tempo di guerra.
Porgo un cordiale benvenuto ai
pellegrini di lingua italiana. Sono
lieto di accogliere i Vescovi che
prendono parte al convegno promosso dalla Comunità di Sant’Egidio e
le religiose partecipanti al corso di
formazione promosso dal Centro Internazionale di Animazione Missionaria. Vi auguro di ravvivare la fede
nel Signore e di testimoniare con
rinnovato entusiasmo la tensione
evangelica verso le periferie e verso
gli ultimi. Saluto i sacerdoti della
Diocesi di Padova; la Pro Loco di
Avezzano e quanti sono convenuti
in occasione del centenario del devastante terremoto della Marsica, come
pure il Rotary Club di Roma, accompagnato dal Cardinale Andrea
di Montezemolo, e l’Associazione
Mani Unite di Taormina. La visita
alle Tombe degli Apostoli favorisca
in tutti una rinnovata adesione al
Vangelo, una sincera solidarietà verso i fratelli e una riscoperta della
speranza cristiana.
Rivolgo un pensiero speciale ai
giovani, agli ammalati e agli sposi
novelli. Domani celebreremo la memoria di Sant’Agata vergine e martire. La sua giovane esistenza faccia
comprendere a voi, cari giovani, il
valore della vita vissuta per Dio; la
sua fede incrollabile aiuti voi, cari
ammalati, a confidare nel Signore
nei momenti di sconforto; e la sua
fortezza nel martirio indichi a voi,
cari sposi novelli, i valori che veramente contano per la vita familiare.
Grazie.
cristiani latinoamericani hanno
cantato Sólo le pido a Dios,
accompagnando così l’ingresso di
Francesco in aula con un brano a lui
particolarmente caro. Per la prima
volta hanno cantato insieme artisti
evangelici e cattolici molto popolari,
come Alex Campos e Martín
Valverde, oltre a Lito e Baglietto,
Hilda Lizarazu, Rescate, Daniel Poli
e Sebastián Golluscio.
Un «particolare servizio agli ultimi»
è anche quello presentato al Papa da
quattro operatori fiorentini
impegnati in prima linea
nell’assistere e sostenere i tanti
giovani finiti in carcere per reati
legati alla droga, con una particolare
attenzione per gli immigrati. A
Francesco hanno consegnato una
copia del giornalino dei detenuti del
penitenziario di Sollicciano, insieme
a una lettera dei poveri che si
ritrovano la domenica per proseguire
l’esperienza della cosiddetta “messa
di San Procolo”, avviata da La Pira
a Firenze nel 1934.
«Solidarietà» è anche la parola
chiave per comprendere l’attività che
porta avanti a Taormina
l’associazione Mani Unite. «Siamo
una piccola realtà di volontariato
che sta vicino alle persone, giovani e
adulte, con ritardo mentale» spiega
Claudio Begni, religioso dei fratelli
maristi delle scuole. Altre iniziative
di solidarietà, poi, sono state
promosse dalla pro loco di
Avezzano in occasione del
centenario del terremoto nella
Marsica che provocò trentamila
vittime. Francesco ha benedetto due
stele di marmo, destinate alla
cattedrale cittadina, con i volti di
don Orione e don Guanella, tra i
primi ad accorrere in soccorso della
popolazione.
Il vescovo di Oslo, monsignor Bernt
Ivar Eidsvig, ha quindi presentato al
Papa il progetto della costruzione
della nuova cattedrale di Trondheim.
Significativo, poi, il saluto del
Pontefice a due giovani borsisti
della fondazione Nostra aetate del
Pontificio Consiglio per il dialogo
interreligioso: la musulmana kazaka
Baiturlina Assel e il buddista
Varasami, originario del Myanmar.
Tra i presenti anche il cardinale
francese André Vingt-Trois, che ha
accompagnato i seminaristi di Parigi,
e il cardinale canadese Gérald
Cyprien Lacroix, che con
l’arcivescovo di Montréal,
monsignor Christian Lépine, ha
illustrato a Francesco i progetti per
le celebrazioni del 375° anniversario
della città, previsto per il 2017, alla
presenza del sindaco Denis Coderre.
Al Papa sono stati inoltre consegnati
quattro scatoloni con gli oltre
quattromila disegni dei ragazzi delle
scuole e delle parrocchie di
Benevento, in risposta all’iniziativa
del Festival della fede. Al termine
dell’udienza, infine, Francesco ha
abbracciato Lucia Annibali, la
giovane donna sfregiata in volto con
l’acido, che confida di aver vissuto
«una forte esperienza spirituale
personale».
L’OSSERVATORE ROMANO
pagina 10
giovedì 5 febbraio 2015, numero 6
Lunedì 2 febbraio Papa Francesco
ha ricevuto in udienza i presuli
della Conferenza episcopale lituana
in visita «ad limina Apostolorum».
Nel discorso consegnato loro il Pontefice
ha ricordato il lungo periodo in cui
la Chiesa lituana «è stata oppressa
da regimi fondati su ideologie contrarie
alla dignità e alla libertà umana»,
e ha messo in guardia i vescovi
da «altre insidie, quali ad esempio
il secolarismo e il relativismo».
Cari Fratelli nell’Episcopato,
vi accolgo con gioia in occasione
della vostra visita ad limina Apostolorum; saluto cordialmente ciascuno di
voi e le Chiese particolari che il Signore ha affidato alla vostra paterna
guida.
Siete venuti a Roma con la vostra
giovinezza, ma anche con la vostra
eroicità. Infatti, tra di voi ci sono alcuni giovani confratelli, ma soprattutto Presuli che hanno attraversato
il triste periodo della persecuzione.
Grazie per la vostra testimonianza a
Gesù Cristo e per il vostro servizio
al santo popolo di Dio!
La Lituania da sempre ha avuto
Pastori vicini al proprio gregge e solidali con esso. Lungo la storia della
Nazione, essi hanno accompagnato
con premura la propria gente non
soltanto nel cammino della fede e
nell’affrontare le difficoltà materiali,
ma anche nella costruzione civile e
culturale della società, la quale trova
il proprio sostrato storico e identitario nella forza del Vangelo e
nell’amore alla Santissima Madre di
Dio. Voi siete eredi di questa storia,
di questo patrimonio di carità pasto-
Ai vescovi lituani in visita «ad limina Apostolorum»
Dialogo costruttivo con tutti
rale, e lo dimostrate con l’energia
della vostra azione, la comunione
che vi anima e la perseveranza nel
perseguire le mete che lo Spirito vi
indica.
Cari Fratelli, conosco le vostre fatiche apostoliche. Se per un lungo
periodo la Chiesa nel vostro Paese è
stata oppressa da regimi fondati su
ideologie contrarie alla dignità e alla
libertà umana, oggi dovete confrontarvi con altre insidie, quali ad esempio il secolarismo e il relativismo.
Martedì 3 febbraio
CONTINUAZIONE DALLA PAGINA 7
E Gesù, «invece di dire: “Forza
Iddio!”, dice loro: “Per favore,
datele da mangiare”». Perché Gesù, è la conclusione del Papa, «ha
sempre i piccoli dettagli davanti a
lui»
«Quello che ho fatto con questo
Vangelo — ha spiegato quindi
Francesco — è proprio la preghiera
di contemplazione: prendere il
Vangelo, leggere e immaginarmi
nella scena, immaginarmi cosa succede e parlare con Gesù, come mi
viene dal cuore». E «con questo
noi facciamo crescere la speranza,
perché teniamo fisso lo sguardo su
Gesù». Da qui la proposta: «fate
questa preghiera di contemplazione». E anche se si hanno tanti impegni, ha suggerito, si può sempre
trovare il tempo, magari quindici
minuti a casa: «Prendi il Vangelo,
un brano piccolo, immagina cosa è
successo e parla con Gesù di quello». Così «il tuo sguardo sarà fisso
su Gesù, e non tanto sulla telenovela, per esempio; il tuo udito sarà
fisso sulle parole di Gesù e non
tanto sulle chiacchiere del vicino,
della vicina».
«La preghiera di contemplazione
ci aiuta nella speranza» e ci insegna a «vivere della sostanza del
Vangelo», ha ribadito il vescovo di
Roma. E per questo bisogna «pregare sempre: pregare le preghiere,
pregare il rosario, parlare col Signore, ma anche fare questa preghiera di contemplazione per tenere il nostro sguardo fisso su Gesù».
Da qui «viene la speranza». E così
anche «la nostra vita cristiana si
muove in quella cornice, fra
memoria e speranza: memoria di
tutto il cammino passato, memoria
di tante grazie ricevute dal Signore; e speranza, guardando il Signore, che è l’unico che può darmi la
speranza». E «per guardare il Signore, per conoscere il Signore,
prendiamo il Vangelo e facciamo
questa preghiera di contemplazione».
Concludendo Francesco non ha
mancato di riproporre nuovamente
l’esperienza della preghiera di contemplazione: «Oggi per esempio —
ha suggerito — cercate dieci minuti,
quindici e non di più: leggete il
Vangelo, immaginate e dite qualcosa a Gesù. E niente di più. E così
la vostra conoscenza di Gesù sarà
più grande e la vostra speranza
crescerà. Non dimenticate, tenendo
fisso lo sguardo su Gesù». Proprio
per questo si chiama «preghiera di
contemplazione».
Per questo, accanto ad un annuncio
instancabile del Vangelo e dei valori
cristiani, non va dimenticato un dialogo costruttivo con tutti, anche con
coloro che non appartengono alla
Chiesa o sono lontani dall’esperienza religiosa. Abbiate cura che le comunità cristiane siano sempre luoghi
di accoglienza, di confronto aperto e
costruttivo, stimolo per l’intera società nel perseguimento del bene comune.
So anche del vostro incessante impegno e della sollecitudine nei confronti del clero che Dio vi ha donato. Non dimenticate che occorre soprattutto pregare per avere da Dio
preti generosi e capaci di sacrificio e
dedizione. E anche laici convinti,
che sappiano prendersi responsabilità all’interno della comunità ecclesiale e dare un valido apporto cristiano
nella società civile, il Signore ve li
darà, se pregherete per questo e se
saprete incoraggiarli ad essere presenti, con la forza di una fede adulta, in ambito civile, culturale, politico e sociale.
Come sapete, in questo periodo
tutta la Chiesa è impegnata in un
cammino di riflessione sulla famiglia, sulla sua bellezza, sul suo valore, e sulle sfide che è chiamata ad affrontare nel nostro tempo. Incoraggio anche voi, come Pastori, a dare il
vostro contributo in questa grande
opera di discernimento, e soprattutto a curare la pastorale familiare, così che i coniugi sentano la vicinanza
della comunità cristiana e siano aiutati a «non conformarsi alla mentalità di questo mondo ma a rinnovarsi
continuamente nello spirito del Vangelo» (cfr. Rm 12, 2). Infatti, anche
il vostro Paese, che ormai è entrato a
pieno titolo nell’Unione Europea, è
esposto all’influsso di ideologie che
vorrebbero introdurre elementi di
destabilizzazione delle famiglie, frutto di un mal compreso senso della
libertà personale. Le secolari tradizioni lituane al riguardo vi aiuteranno a rispondere, secondo la ragione
e secondo la fede, a tali sfide.
Vorrei poi raccomandarvi una speciale attenzione per le vocazioni al
sacerdozio e alla vita consacrata.
Non si stanchi mai la Chiesa in Lituania di continuare a pregare per le
vocazioni! Vi esorto, inoltre, a curare
un’adeguata formazione, iniziale e
permanente, dei sacerdoti, delle persone consacrate, dei seminaristi, prestando particolare attenzione alla loro vita spirituale e morale, nonché
all’educazione alla povertà evangelica e alla gestione dei beni materiali
secondo i principi della dottrina sociale della Chiesa. Amate i vostri
presbiteri, cercate di essere molto disponibili quando vi cercano, e non
aspettate sempre che siano loro a
cercarvi, non lasciateli soli nelle difficoltà. Anche per i catechisti abbiate una cura particolare, trasmettendo
loro con la vostra testimonianza la
gioia di evangelizzare.
Infine, vi esorto alla sollecitudine
per i poveri. Anche in Lituania, nonostante l’attuale sviluppo economico, ci sono tanti bisognosi, disoccupati, malati, abbandonati. Siate loro
vicini. E non dimenticate quanti, soprattutto tra i giovani, per vari motivi lasciano il Paese e cercano di trovare una nuova strada all’estero. Il
loro crescente numero e le loro esigenze richiedono attenzione e cura
pastorale da parte della Conferenza
Episcopale, affinché possano conservare la fede e le tradizioni religiose
lituane.
Cari Fratelli, vi ringrazio per la
vostra visita. Portate il mio saluto
cordiale alle vostre Chiese particolari
e a tutti i vostri connazionali. La
Vergine Maria, particolarmente venerata nella vostra Nazione quale
“Porta dell’Aurora” a Vilnius, come
pure a Šiluva e in molte altre parti,
interceda per la Chiesa in Lituania:
protegga con il suo manto i sacerdoti, i religiosi, le religiose e tutti i fedeli e ottenga per ogni comunità la
pienezza delle grazie del Signore. Vi
assicuro il mio ricordo nella preghiera e confido nel vostro, mentre di
cuore vi imparto la Benedizione
Apostolica.
L’OSSERVATORE ROMANO
numero 6, giovedì 5 febbraio 2015
pagina 11
Messaggio del cardinale Parolin all’Assemblea parlamentare del Mediterraneo
Luogo di incontro
Pubblichiamo la traduzione italiana del
messaggio del cardinale Pietro Parolin,
segretario di Stato, alla nona Sessione
Plenaria dell’Assemblea Parlamentare
del Mediterraneo tenutasi a Monaco
dal 2 al 4 febbraio 2015.
Onorevole Senatore Francesco
Maria Amoruso,
Presidente dell’Assemblea
Parlamentare del Mediterraneo,
Distinti Delegati,
Signore e Signori,
Ho l’onore, a nome di Sua Santità
Papa Francesco, di rivolgere queste
parole alla nona Sessione plenaria
dell’Assemblea Parlamentare del Mediterraneo. Sono lieto di esprimere
la gratitudine della Santa Sede per il
gentile invito a partecipare all’incontro in qualità di Osservatore, come è
già avvenuto in precedenti occasioni.
La Santa Sede, da parte sua, apprezza l’opportunità di dare il proprio
sostegno all’obiettivo primario di
questa assemblea di rappresentanti
parlamentari della regione mediterranea, ovvero la promozione di un dialogo politico basato su principi comuni a tutte le tradizioni e culture.
Negli ultimi anni la regione del
Mediterraneo ha affrontato molte
sfide sia interne che esterne. Queste
sfide non sono confinate entro l’una
o l’altra frontiera nazionale, ma sono, di fatto, di natura transnazionale
e transregionale. Nessun Paese può
rimanere estraneo alle situazioni degli altri Paesi e, allo stesso modo, la
regione mediterranea, colpita da crisi
interne, non è immune dagli effetti
delle crisi nelle regioni confinanti,
come l’Africa subsahariana e il Me-
dio Oriente. È una realtà che tutti
voi già conoscete, tuttavia è fondamentale riaffermarla per ricordare a
noi stessi l’importante obiettivo
dell’Assemblea Parlamentare del Mediterraneo e il perché della sua istituzione.
L’instabilità politica nell’Africa
settentrionale, specialmente in Libia,
e la guerra e il terrorismo in Iraq e
in Siria, continuano a porre grandissime sfide alla regione del Mediterraneo e tutti abbiamo tristemente
constatato l’immenso costo della sofferenza umana, specialmente delle
innumerevoli vite perse per via della
guerra e del terrorismo. Ha anche
spinto altri a rischiare la propria vita
di fronte alle azioni spietate e senza
scrupoli di trafficanti di esseri umani
e della migrazione clandestina. Sin
dall’inizio del suo pontificato, in numerose occasioni Papa Francesco ha
espresso la sua preoccupazione riguardo a questa particolare piaga.
Per esempio, nel suo recente discorso al Parlamento Europeo a Strasburgo, lo scorso 25 novembre, facendo riferimento ai «barconi che
giungono quotidianamente sulle coste europee [...] pieni di uomini e
donne che necessitano di accoglienza e di aiuto», ha esortato ad «affrontare insieme la questione migratoria», affinché il Mediterraneo non
«diventi un grande cimitero!». Questa risposta comune comporta necessariamente la cooperazione dei Paesi
di entrambe le sponde del Mediterraneo per affrontare le cause fondamentali della migrazione, e quindi il
Santo Padre ha esortato ad adottare
«politiche corrette, coraggiose e con-
crete che aiutino i loro Paesi di origine nello sviluppo socio-politico e
nel superamento dei conflitti interni
— causa principale di tale fenomeno» (Papa Francesco, Discorso al
Parlamento Europeo, Strasburgo, 25
novembre 2014).
Nel suo recente discorso al Corpo
Diplomatico accreditato presso la
Santa Sede, Papa Francesco è ritornato con forza sulla tragedia umana
delle persone costrette a fuggire dalla loro patria a causa della guerra e
dei conflitti politici: «La conseguenza delle situazioni di conflitto [...] è
spesso la fuga di migliaia di persone
dalla propria terra d’origine. A volte
non si va tanto in cerca di un futuro
migliore, ma semplicemente di un
futuro, poiché rimanere nella propria
patria può significare una morte certa. Quante persone perdono la vita
in viaggi disumani, sottoposte alle
angherie di veri e propri aguzzini
avidi di denaro?» (Discorso del Santo
Padre Francesco in occasione degli auguri del Corpo Diplomatico accreditato
presso la Santa Sede, 12 gennaio
2015).
La guerra e la violenza in Siria,
membro di questa Assemblea, che
hanno coinvolto anche i Paesi limitrofi, continuano a lasciare il segno
sulla regione del Mediterraneo, non
ultimo attraverso l’arrivo di rifugiati
in fuga da tali conflitti, ma anche in
modi che toccano i valori e i principi sui quali sono fondate le società
che condividono la regione mediterranea. Purtroppo l’anno 2014 ha visto il brutto e malvagio fenomeno
dell’estremismo islamico e del terrorismo colpire diritti umani fonda-
Il sostituto della Segreteria di Stato in Burkina Faso per l’inaugurazione della nuova sede della nunziatura
Architetti di pace
«Se il Signore non costruisce la casa, invano vi faticano i costruttori»:
con una citazione del Salmo 126 il
sostituto della Segreteria di Stato,
l’arcivescovo Angelo Becciu, ha introdotto venerdì 30 gennaio il suo
discorso per l’inaugurazione della
nuova sede della nunziatura apostolica a Ouagadougou, in Burkina
Faso. Un progetto architettonico
che è espressione di un rapporto
sempre più saldo del Paese con la
Santa Sede e con la Chiesa locale.
Il presule aveva iniziato la sua visita africana la mattina di venerdì
incontrando il primo ministro del
Paese, Yacouba Isaac Zida. Nel colloquio è stato messo in evidenza
l’importante ruolo avuto dalla
Chiesa locale nella gestione pacifica
della crisi politica che ha portato
alle dimissioni del presidente. L’arcivescovo si è felicitato con il primo
Ministro per il fatto che i burkinabei siano stati capaci di evitare una
guerra civile scegliendo la via del
dialogo e della pacifica contrapposizione, e ha anche espresso apprezzamento per il clima di dialogo e di
serena coabitazione che esiste nel
Paese tra le differenti religioni.
All’inaugurazione della nuova sede della nunziatura erano presenti
il cardinale Philippe Nakellentuba
Ouédraogo e l’intero episcopato locale, con il presidente della Conferenza, l’arcivescovo Paul Yembuado
Ouédraogo. «Sappiamo tutti — ha
detto il sostituto — che questa nazione ha appena iniziato una nuova
svolta nella sua evoluzione sociopolitica» e, nel rispetto delle identità e delle autonomie, Santa Sede,
Chiesa e autorità pubbliche «continuano a cooperare e lavorare insieme per costruire una società che garantisca il bene comune, la dignità
della persona umana e la promozione della pace». L’arcivescovo Becciu ha anche ringraziato il nunzio
apostolico Vito Rallo, alla cui iniziativa si deve la realizzazione della
nuova sede.
CONTINUA A PAGINA 12
mentali: il diritto alla vita, alla libertà di religione e alla libertà di
espressione. Questo tipo di fondamentalismo ideologico non conosce
confini e rende tutti vittime, a prescindere dall’etnicità o dall’affiliazione religiosa. La Santa Sede è particolarmente preoccupata per la sopravvivenza delle minoranze cristiane in Medio Oriente poiché, insieme
con altri gruppi religiosi, esse subiscono in maniera spropositata gli effetti dell’estremismo islamico. Come
ci ricorda Papa Francesco, «un Medio Oriente senza cristiani sarebbe
un Medio Oriente sfigurato e mutilato!» (ibid.). Allo stesso tempo, la
Santa Sede riconosce che anche i
musulmani continuano a soffrire per
mano di coloro che giustificano la
violenza e la carneficina nel nome di
D io.
È deplorevole che sia necessario
constatare che la violenza in nome
di Dio non può mai essere giustificata. Ognuno di questi atti deve
quindi essere condannato in maniera
inequivocabile, e per questo motivo
Papa Francesco ha espresso l’auspicio che «i leader religiosi, politici e
intellettuali specialmente musulmani,
condannino qualsiasi interpretazione
fondamentalista ed estremista della
religione, volta a giustificare tali atti
di violenza» (ibid.).
Per millenni il Mediterraneo è stato luogo d’incontro di culture e di
popoli; in epoche più antiche i popoli del Mediterraneo si consideravano al centro del mondo. Resta la
sfida per il Mediterraneo di rinnovarsi come luogo d’incontro, di rispetto reciproco e di pacifica convivenza. Malgrado «i difetti e le mancanze di questo nostro tempo» (cfr.
ibid.), un futuro più luminoso è
sempre possibile attraverso l’apertura
verso gli altri, il dialogo e il lavoro
per il bene comune. In questa luce,
permettetemi di concludere le mie
osservazioni con la descrizione fatta
da Papa Francesco della sua visita in
Albania lo scorso settembre: «Una
eloquente testimonianza che la cultura dell’incontro è possibile, l’ho
sperimentata nel corso della mia visita in Albania, una Nazione piena
di giovani, che sono speranza per il
futuro. Nonostante le ferite sofferte
nella storia recente, il Paese è caratterizzato dalla “pacifica convivenza e
collaborazione tra gli appartenenti a
diverse religioni” in un clima di rispetto e fiducia reciproca tra cattolici, ortodossi e musulmani. È un segno importante che una fede in Dio
sincera apre all’altro, genera dialogo
e opera per il bene, mentre la violenza nasce sempre da una mistificazione della religione stessa, assunta a
pretesto di progetti ideologici che
hanno come unico scopo il dominio
dell’uomo sull’uomo» (ibid.).
Con sentimenti di stima e di rispetto, vi trasmetto i migliori auguri
di Sua Santità Papa Francesco e il
suo augurio che i dibattiti e le riflessioni di questa Assemblea possano
contribuire a una nuova cultura d’incontro tra tutti i popoli della regione
mediterranea.
Cardinale Pietro Parolin
Segretario di Stato di Sua Santità
L’OSSERVATORE ROMANO
pagina 12
giovedì 5 febbraio 2015, numero 6
Il segretario di Stato per il congedo del comandante della Guardia svizzera
Servizio generoso e competente
È stato un servizio «generoso e competente» quello svolto dal colonnello Daniel Anrig come trentaquattresimo comandante della Guardia
Svizzera Pontificia. Lo ha affermato
il cardinale segretario di Stato Pietro
Parolin, esprimendogli «gratitudine,
vicinanza e stima», oltre all’«affetto
paterno di Papa Francesco» e alla
«riconoscenza da parte di tutti i collaboratori della Santa Sede, in particolare della Segreteria di Stato». In
occasione del congedo del colonnello Anrig, che era stato nominato il
19 agosto 2008, il porporato ha celebrato la messa sabato pomeriggio, 31
gennaio, nella chiesa di Santa Maria
della Pietà in Campo Santo Teutonico. Ha fatto seguito, nel cortile
d’onore della caserma, il passaggio
del comando al vice comandante del
Corpo, tenente colonnello Christoph
Graf.
Nell’omelia, riferendosi al passo
evangelico che «ci presenta Gesù
che insegna e opera con autorità», il
cardinale Parolin ha ricordato che
«l’atto supremo» di quella «sua autorità è il dono totale di sé sulla croce». Proprio «in questa cappella degli Svizzeri — ha notato — possiamo
ammirare un affresco della crocifissione commissionato dal comandante Kaspar Röist pochi anni prima di
offrire la propria vita per difendere il
Papa durante il sacco di Roma». E
«Röist stesso è raffigurato accanto
alla croce del Signore, non solo come committente, ma quasi a indicare
il posto del comandante: un uomo
di fede, che non esita a professare
Gesù Cristo crocifisso e a servire il
successore di Pietro con tutte le forze, accettando anche la croce di ogni
giorno e — come recita la formula
del giuramento delle guardie — sacrificando, ove occorra, anche la vita
per la sua difesa».
Del resto è proprio Gesù, ha riaffermato il porporato, il centro di tutto. Tanto che «anche noi dobbiamo
chiederci: quale è la nostra reazione
di fronte all’opera di Gesù, come ci
comportiamo nei suoi confronti?
Siamo forse pronti ad ammirare le
sue parole, senza però accoglierlo
davvero come il Figlio di Dio venuto per liberarci e salvarci? Forse lo
riconosciamo con l’intelletto e lo
professiamo con le labbra, ma non
lo facciamo entrare nel nostro cuore.
Lasciamo — ha quindi suggerito —
che Gesù sia parte essenziale della
nostra vita, affidiamoci a lui e seguiamolo con tutto il nostro essere».
Architetti di pace
CONTINUAZIONE DALLA PAGINA 11
Nel richiamare le parole di Paolo
che definì la Chiesa «esperta in
umanità» e impegnata nella promozione dell’«uomo, di ogni uomo», il
presule ha sottolineato il contributo
unico portato per «uno sviluppo
solidale e armonioso». Approfittando poi della presenza di rappresentanti e leader delle diverse comunità
cristiane e di altre religioni, il sostituto ha detto: «La vostra presenza
testimonia la fraternità e il rispetto
reciproco che dobbiamo sempre coltivare».
La nunziatura apostolica in Burkina Faso estende la sua competenza anche sul Niger, Chiesa rappresentata nell’occasione dall’arcivescovo di Niamey, Laurent Lompo. A
quel popolo l’arcivescovo Becciu ha
voluto trasmettere l’«affettuosa vicinanza» del Papa anche alla luce degli eventi recenti e drammatici che
hanno scosso gran parte del Paese.
Il giorno successivo, sabato 31, il
presule ha avuto tre incontri particolari: in mattinata, nella cattedrale,
quello con i sacerdoti e i religiosi
dell’arcidiocesi, seguito dal saluto
alla Conferenza episcopale locale.
In serata, poi, ha avuto occasione
VI,
di dialogare con i seminaristi del seminario teologico di San Jean, dove
si era recato per la celebrazione dei
vespri.
Per l’ultimo giorno della sua visita in Burkina Faso, il sostituto si è
allontanato di una quindicina di
chilometri dalla capitale e si è recato al santuario di Nostra Signora di
Yagma nel quale, proprio il 1° febbraio, si è svolto il pellegrinaggio
nazionale. Qui ha assistito a una
vera e propria esplosione di fede
gioiosa, con una folla di quasi mezzo milione di persone che per circa
tre ore hanno espresso la loro devozione alla Vergine con canti e
danze.
La messa solenne è stata concelebrata da tutti i vescovi, compresi il
cardinale arcivescovo di Ouagodougou e il vescovo di Niamey. Era
presente anche il presidente del
Burkina Faso, Michel Kafando.
Nell’omelia l’arcivescovo Becciu, richiamando un tema caro a Papa
Francesco, quello della fraternità,
ha riconosciuto ai cristiani burkinabei il «ruolo vitale» che svolgono
«nella costruzione della società di
domani» e li ha invitati a «essere
artefici di riconciliazione, giustizia e
pace».
Rivolgendosi poi al colonnello
Anrig, il segretario di Stato ha avuto
nuovamente parole di ringraziamento «per il suo esempio di responsabilità e di fedeltà», con un pensiero
«ai suoi collaboratori più stretti nel
comando e a tutto il Corpo e, in
modo particolare a sua moglie e ai
suoi figli, che sono stati sempre un
grande sostegno». Inoltre, ha detto
ancora il cardinale, «non c’è compito senza difficoltà e senza sacrifici:
non li ha evitati cercando soluzioni
comode, ma li ha affrontati nello
spirito di fede». E così «ha cercato
di plasmare il Corpo della Guardia
Svizzera Pontificia sulla base degli
ideali e valori della Guardia e allo
stesso tempo con innovazioni e idee
per il futuro». Per il suo biglietto di
ringraziamento, ha fatto infine nota-
re il cardinale, il colonello Anrig ha
scelto una frase tratta dal libro del
profeta Daniele, il suo patrono, per
riaffermare come «Dio è il Signore
di tutta la storia».
Da parte sua, nel discorso di congedo, Anrig ha ricordato che «responsabilità, disciplina, onestà, lealtà
e fede» sono valori fondanti per la
vita «e non solo per la Guardia
Svizzera». In questo senso, ha spiegato, il suo «obiettivo» è stato proprio «quello di dare ai giovani carattere e vigore che rispecchino» la cinquecentesca storia di «un Corpo militare nato per difendere e proteggere il Papa».
Anrig ha poi affermato di considerare «positivo» il bilancio del suo
servizio, con «la riforma del processo di reclutamento e l’ottimizzazione
dell’organizzazione, come pure l’allargamento dei compiti presso la
Domus Sanctae Marthae e la riuscita
di numerose iniziative nell’ambito
della sicurezza nonché di progetti
culturali». Forse, ha aggiunto, «nel
mio mandato non ho avuto risposte
per tutte le domande e pronte soluzioni per tutti i problemi, ma ho
sempre cercato di fare del mio meglio e, a oggi, posso dire che se anche il mio mandato non è stato perfetto, ho fatto tutto quello che potevo» per «far maturare buoni frutti».
In conclusione il colonnello ha
avuto parole di particolare gratitudine per Benedetto XVI e Francesco,
che lo aveva ricevuto in udienza venerdì 30 gennaio. E, infine, non ha
mancato di sottolineare il sostegno
ricevuto dalla moglie Bernadett e dai
suoi quattro figli, come anche da
tutta la famiglia della Guardia Svizzera Pontificia.
L’arcivescovo Gallagher
incontra il corpo diplomatico
accreditato presso la Santa Sede
Lunedì mattina, 2 febbraio, nella biblioteca della Segreteria di Stato, l’arcivescovo Paul R. Gallagher, segretario per i Rapporti con gli Stati, ha incontrato il corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, rivolgendo
agli ambasciatori un indirizzo di saluto.
L’OSSERVATORE ROMANO
numero 6, giovedì 5 febbraio 2015
«Paolo
VI
pagina 13
Ernst Günter Hansing,
in preghiera» (1969, particolare)
Cronaca
di un malinteso
Montini e la Spagna
di RICARD O BLÁZQUEZ
l pontificato di Paolo VI è inseparabilmente legato alla celebrazione del concilio Vaticano II e
al compimento dei mandati conciliari, alcuni su riforme concrete, altri di
orientamento più ampio. Bisogna riconoscergli ed essergli grati per la
fedeltà agli orientamenti dati da
Giovanni XXIII, come anche per il
polso fermo con cui presiedette il
I
Papa del dialogo
Pubblichiamo quasi per intero il
prologo scritto dall’arcivescovo di
Valladolid e presidente della
Conferenza episcopale spagnola
al libro di Vicente Cárcel Ortí,
Beato Pablo VI: papa del diálogo
(Madrid, Bac, 2014, pagine
XXXI+487, euro 22). Il 4 febbraio
la Facoltà di teologia di Valencia
ha conferito a monsignor Cárcel
la laurea honoris causa.
concilio, e lo stile realmente conciliare, ossia il modo di trattare con ampia partecipazione dei vescovi le
questioni poste, e la ricerca di concordia nell’approvazione dei documenti. Quando c’era un alto numero
di voti negativi, lo schema veniva rimandato alla commissione competente per la revisione e la ricerca di
un accordo.
In tal modo, il concilio è modello
di lavoro condiviso e di approvazione dei documenti con unanimità
morale, poiché un concilio non ricerca la maggioranza democratica,
ma la maggiore coincidenza possibile. Lo Spirito Santo agisce sempre
nel reciproco ascolto e nella generosità, per coincidere su ciò che si sta
ponderando e che può contribuire
meglio alla missione della Chiesa.
L’ubbidienza al Signore e al Vangelo
fu l’atteggiamento fondamentale di
tutti i partecipanti.
Paolo VI, al termine del primo periodo conciliare, pronunciò nell’aula
uno straordinario discorso, che, insieme a quelli dei cardinali Suenes,
Lercaro e altri, aprì l’orizzonte dei
lavori conciliari. In obbedienza allo
Spirito Santo, fece propria la finalità
pastorale che Papa Giovanni XXIII
aveva indicato al concilio.
Nel primo discorso come Papa
pronunciò le seguenti parole orientatrici: «È fuori dubbio essere desiderio, bisogno, dovere della Chiesa di
dare finalmente di sé una più meditata definizione». Non si tratta di
discutere alcuni punti importanti
della dottrina della Chiesa, ma di
cercare conciliarmente come annunciare il Vangelo nella congiuntura
presente dell’umanità. Perciò, la
nuova evangelizzazione ha il suo
punto di partenza nel concilio Vaticano II. L’introspezione nel mistero
della Chiesa implica anche la prospettiva missionaria.
Con che vigore e bellezza rivendicò che Gesù Cristo, luce del mondo,
fosse il punto di riferimento del concilio! L’assemblea professa la propria
fede nel suo Signore e desidera annunciarlo al mondo. «Cristo! Cristo,
nostro principio! Cristo, nostra via e
nostra guida! Cristo, nostra speranza
e nostro termine! (...) Nessuna altra
luce sia librata su questa adunanza,
che non sia Cristo, luce del mondo;
nessuna altra verità interessi gli animi nostri, che non siano le parole
del Signore, unico nostro maestro;
nessuna altra aspirazione ci guidi,
che non sia il desiderio d’esser a lui
assolutamente fedeli; nessuna altra
fiducia ci sostenga, se non quella
che fiancheggia, mediante la parola
di lui, la nostra desolata debolezza:
“Ecco, io sono con voi tutti i giorni
fino alla fine del mondo” (Matteo,
28, 20)».
Permettetemi una confidenza. Tra
le persone che mi hanno più vivamente colpito nel sentirle parlare di
La prima pagina dell’Osservatore Romano del 28 settembre 1975
Gesù Cristo posso ricordare il rettore del Seminario di Ávila, monsignor
Ancel e Paolo VI, quando lasciò i fogli del discorso e parlò dal cuore ai
sacerdoti del Collegio Spagnolo di
Roma ordinati nel 1968. Le sue parole trasmettevano la forza, la convinzione e la gioia di un incontro
personale con il Signore.
Il dialogo, sviluppato ampiamente
nell’enciclica Ecclesiam suam (6 agosto 1964), caratterizzò la vita, l’atteggiamento e il ministero di Paolo VI.
Questo modo di affrontare le questioni pendenti con altre persone e
gruppi appare spesso nei documenti
del concilio. La costituzione Gaudium et spes al n. 92 ricorda i quattro
circoli di interlocutori identificati
dall’enciclica (nn. 200-208). Il dialogo, che unisce la verità e l’amore, fu
anche per il Papa una qualità dello
spirito. Per questo possiamo capire
quanta sofferenza gli causarono la
famosa contestazione cominciata nel
1968 e altri fatti del post-concilio.
I primi anni postconciliari furono
di grande speranza, di attuazione
delle riforme raccomandate dal concilio, d’intensa effervescenza e anche
di contestazione. Vista a distanza,
quest’ultima ci sembra dovuta alla
fretta di rinnovare la Chiesa, a un
preteso aggiornamento teologico
che, a volte, metteva in pericolo la
fede stessa, alle possibilità che offrivano i mezzi di comunicazione, allo
straripare di iniziative personali che
non tenevano conto degli orientamenti dell’autorità nella Chiesa e del
ragionevole ritmo di assimilazione.
In molti casi provocò frustrazione,
logorio nella vitalità della Chiesa,
dissensi interni.
Si può capire che per Papa Paolo
VI, sensibile com’era, la contestazione, a volte con maggior spessore a
altre con minore incidenza, fosse
una fonte di sofferenza. La contestazione e lo straripamento teologico,
liturgico e disciplinare furono come
la rottura delle dighe di contenimento dell’acqua raccolta? Molti anni
del suo pontificato furono segnati da
questo fardello e da questo dolore.
Si può situare qui il così chiamato
Credo del Popolo di Dio, pronunciato davanti alla basilica di San Pietro il 30 giugno 1968.
Quel pomeriggio ero presente in
piazza e, man mano che lo pronun-
ciava, mi colpirono sia il tono solenne sia il contenuto e le dimensioni
della professione di fede. Innanzitutto, come Pietro a Cesarea di Filippo,
egli voleva professare autorevolmente la fede della Chiesa in mezzo alle
turbolenze e alla confusione. Con
quella professione chiedeva caldamente che tutta la Chiesa accogliesse
e rispettasse la rivelazione che abbiamo ricevuto dal Signore.
Il Papa emerito Benedetto XVI ha
ricordato, nella lettera apostolica
Porta fidei, con la quale ha indetto
un Anno della fede a cinquant’anni
dall’inizio del concilio Vaticano II,
come Paolo VI proclamò un Anno
della fede per commemorare il XIX
anniversario del martirio degli apostoli Pietro e Paolo. Pensava che in
tal modo la Chiesa avrebbe potuto
acquisire un’«esatta coscienza della
sua fede, per ravvivarla, per purificarla, per confermarla, per confessarla». La solenne professione di fede
del 30 giugno 1968 era la conclusione di quell’Anno della fede.
Paolo VI fu un autentico confessore della fede, rendendo a Dio una
sublime testimonianza e pronunciando i contenuti essenziali che, da secoli, costituiscono il patrimonio di
tutti i credenti. Esercitando la sua
autorità apostolica sia nel concilio
sia nel post-concilio, fu un testimone
del Signore, addossandosi le prove,
le incomprensioni e le critiche che il
fedele compimento del suo ministero
esigeva da lui.
Mi è sembrato bene che la presente biografia, oltre a una prima parte
dedicata all’operato di Papa Paolo VI
nella Chiesa e nella storia del suo
tempo, ne contenesse una seconda
che sviluppasse il rapporto tra Paolo
VI e la Spagna.
Questa mi sembra particolarmente
opportuna per i lettori spagnoli, poiché molti suoi gesti non furono ben
compresi; il passare del tempo politico ci offre una prospettiva più confacente, e la situazione attuale della
Chiesa ha portato quella serenità necessaria per valutare i fatti dell’ingente opera conciliare e la fine di un
regime lungo e autoritario. Ci furono molte incomprensioni, suscettibilità, tergiversazioni, resistenze, e anche semplicemente l’accettazione leaCONTINUA A PAGINA 14
L’OSSERVATORE ROMANO
pagina 14
giovedì 5 febbraio 2015, numero 6
Congregazione delle Cause dei santi
Dopo il riconoscimento del martirio dell’arcivescovo di San Salvador
Promulgazione
di decreti
È stata
aperta una strada
Sarà beatificato monsignor Romero
L’arcivescovo Romero nel particolare di un murale di Adolfo Pérez Esquivel
Lunedì 3 febbraio, il Santo Padre Francesco ha ricevuto in udienza
privata sua Eminenza reverendissima il signor cardinale Angelo Amato,
S.D.B., Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi. Nel corso
dell’udienza il Santo Padre ha autorizzato la Congregazione a promulgare i decreti riguardanti:
— il martirio del servo di Dio Oscar Arnolfo Romero Galdámez, arcivescovo di San Salvador; nato il 15 agosto 1917 a Ciudad Barrios (El
Salvador) e ucciso, in odio alla fede, il 24 marzo 1980, a San Salvador
(El Salvador);
— il martirio dei servi di Dio Michele Tomaszek e Sbigneo Strzałkowski, sacerdoti professi dell’ordine dei Frati minori conventuali, nonché Alessandro Dordi, sacerdote diocesano; uccisi, in odio alla fede, il
9 e il 25 agosto 1991, a Pariacoto e in località Rinconada, nei pressi di
Santa (Perú);
— le virtù eroiche del servo di Dio Giovanni Bacile, arciprete decano
di Bisacquino; nato a Bisacquino (Italia) il 12 agosto 1880 ed ivi morto
il 20 agosto 1941.
Un “protomartire”. Primo della lunga
schiera dei nuovi martiri contemporanei, Oscar Arnulfo Romero sarà beatificato a San Salvador entro l’anno. Lo
ha annunciato mercoledì 4 febbraio,
nel corso di una conferenza nella Sala
stampa della Santa Sede, l’arcivescovo
Vincenzo Paglia, presidente del Pontificio Consiglio per la famiglia e postulatore della causa di beatificazione
dell’arcivescovo ucciso il 24 marzo
1980 mentre stava celebrando la messa
a San Salvador. «È un fatto provvidenziale — ha detto il presule — che
questa beatificazione giunga con il
pontificato del primo Papa latinoamericano», un Papa che ha affermato di
volere una «Chiesa povera per i poveri»: un fatto che apre una strada, che
«allarga l’orizzonte dell’America latina», un continente che, a partire dalla
testimonianza di Romero, «ha qualcosa di importante da dire a tutto il
mondo».
Ad approfondire la figura dell’arcivescovo martire c’erano — moderati dal
direttore della Sala stampa della Santa
Sede, padre Federico Lombardi —
monsignor Jesus Delgado, che è stato
il segretario personale di Romero nei
tre anni, dal 1977 al 1980, in cui guidò
l’arcidiocesi di San Salvador, e lo storico Roberto Morozzo della Rocca, che
ha collaborato alla stesura della positio
nella causa di beatificazione. «Quel 24
marzo — ha ricordato monsignor Delgado — avevo proposto all’arcivescovo
di prendersi un giorno di riposo»:
l’agenda di Romero aveva sei appuntamenti di cui uno, alle 18, era proprio
la celebrazione della messa. «Se arrivo
tardi celebra tu», gli disse il presule.
Ma poi telefonò al segretario: «Meglio
di no. Io celebrerò la messa, non voglio coinvolgere nessuno in questo».
Furono le ultime parole scambiate con
monsignor Delgado.
Romero, ha sottolineato l’arcivescovo Paglia, sapeva bene di essere in pericolo. Dopo aver vegliato una notte
intera davanti al corpo di padre Rutilio Grande, l’amico gesuita ucciso il 12
marzo 1977, capì che in quel momento
i campesinos erano rimasti orfani del loro padre e che ora toccava a lui prenderne il posto, ben consapevole che
pure lui si sarebbe «giocato la vita». E
anche di padre Rutilio è stato da pochi mesi aperto a San Salvador il processo di beatificazione.
Ma perché Romero fu ucciso? È
questo un punto fondamentale nella
ricostruzione della vicenda dell’arcivescovo, perché è alla base del riconoscimento del martirio in odium fidei. Un
riconoscimento che, ha sottolineato il
postulatore, «è giunto con l’unanimità
dei pareri sia della commissione cardinalizia che della commissione dei teologi». C’era, ha spiegato l’arcivescovo
Paglia, un clima di persecuzione contro un pastore che, a seguito dell’ispiCONTINUA A PAGINA 15
Cronaca di un malinteso
CONTINUAZIONE DALLA PAGINA 13
le e obbediente di decisioni della superiore autorità ecclesiastica con le
quali c’era scarsa sintonia interiore.
Furono anni difficili per il Papa e
il nunzio, per la Conferenza episcopale e la Chiesa, per il governo e la
società in generale. Si passò in pochi
anni da una convivenza forse troppo
stretta a un clamoroso dissidio. Persone cattoliche da sempre in poco
tempo si sentirono incomprese e disorientate. Il modo in cui molti reagirono all’elezione del cardinale
Montini a Papa Paolo VI fu l’espressione sintomatica di quel malessere,
nonostante fosse lui il candidato più
accreditato.
Quel giorno, 21 giugno 1963, mi
trovavo ad Ávila ed ero in attesa di
sostenere un esame di teologia morale. Quando giunse la notizia che il
cardinale Montini era stato eletto
Papa, potei constatare che non tutte
le reazioni furono di esaltazione.
Rattristò Paolo VI il fatto che si
confondessero negativamente la sua
disaffezione personale e culturale
verso un regime non-democratico
con il suo amore per il popolo spagnolo, la stima per la sua storia cattolica e l’obbligo pastorale dopo un
concilio ecumenico che non era proprio in sintonia con il governo spagnolo per quanto riguardava la libertà religiosa, politica e sociale. Mi
sembrano chiarificatrici le parole
scritte dall’autore nell’introduzione
alla seconda parte: «Paolo VI nutrì
sempre serie riserve sul regime politico, ma manifestò pubblicamente la
sua ammirazione e il suo amore al
popolo spagnolo e nei suoi confronti
ebbe numerosi gesti di affetto e di
simpatia».
L’autore ripercorre tutti gli eventi
e le questioni che provocarono o rivelarono dissensi: nomine episcopali,
l’Assemblea congiunta vescovi-sacerdoti, il “caso Añoveros”, visite e lettere, e così via. Risulterà utile a tutti
leggere attentamente la presentazione dei diversi motivi di discordia;
servirà ad alcuni per ricordare e aiuterà i più giovani a capire quegli anni difficili della Chiesa, della società
e delle relazioni Stato-Chiesa in
Spagna.
L’autore presenta i dati storici con
obiettività, citando i documenti opportuni, e li giudica con serenità e
senza coinvolgimenti, e, distante dai
sentimenti agitati del tempo, espone
senza polemiche lo sviluppo delle
relazioni. Gli anni trascorsi mostrano
chiaramente come non si potevano
arrestare né il dinamismo conciliare
né il tramonto del regime.
Si capisce anche che, quando gli
animi si scaldano, si possono dire
parole forti. È ovvio che il contesto
storico e le limitazioni umane operano sempre e in modo particolare in
simili situazioni. Ricordo un fatto
accaduto proprio a me. Il 27 settem-
bre 1975 furono giustiziati cinque terroristi che alcuni giorni prima erano
stati condannati a morte, e per i
quali Paolo VI aveva chiesto clemenza. Venutone a conoscenza, il Papa
condannò subito ed energicamente il
terrorismo e le esecuzioni.
Pochi giorni dopo da Roma volevo
recarmi a Madrid; ma solo al terzo
tentativo riuscii a fare il check-in delle valigie all’aeroporto, perché a due
sportelli si rifiutarono di farlo dicendomi: «Io non lavoro per un Paese
fascista». Alla fine una persona che
aveva assistito al mio pellegrinaggio
mi offrì la dovuta assistenza. L’aneddoto è comprensibile in quella situazione tesa ed esasperata.
L’autore di questo libro nel suo
lavoro di storico ha unito intensa dedizione, laboriosità paziente e perseverante, informazioni di prima mano, l’esperienza del suo lungo soggiorno a Roma e un giudizio equilibrato sulle questioni trattate. Oggi
mi faccio eco della gratitudine di
molti lettori per la sua lunga e tanto
feconda traiettoria.
Ho vissuto con l’autore a palazzo
Altemps, quando era la sede del
Collegio spagnolo, gli ultimi tre anni, dal 1967 al 1970. Queste pagine
vogliono essere memoria di quel
tempo e un complimento all’autore
per l’imponente opera portata a termine nel campo della storia contemporanea della Chiesa, e più concretamente per questo libro prezioso e
opportuno.
numero 6, giovedì 5 febbraio 2015
Per riflettere
sulla Scrittura
L’OSSERVATORE ROMANO
NOSTRE INFORMAZIONI
Il Santo Padre ha accettato la rinuncia al governo pastorale della Diocesi di Lolo (Repubblica Democratica del Congo), presentata da
Sua Eccellenza Reverendissima Monsignor
Ferdinand Maemba Liwoke, in conformità al
canone 401 § 1 del Codice di Diritto Canonico.
Provvista di Chiesa
Il Santo Padre ha nominato Vescovo della
Diocesi di Lolo (Repubblica Democratica del
Congo) il Reverendo Padre Jean-Bertin Nadonye Ndongo, O.F.M. Cap., Definitore dei Frati
Minori Cappuccini a Roma.
(29 gennaio 2015)
Provvista di Chiesa
«Gesù guarisce un lebbroso»
(mosaico del duomo di Monreale)
Domenica 15 febbraio,
VI
del Tempo ordinario
Il vero volto di Dio
di LEONARD O SAPIENZA
Qualcuno ha detto: «Non dare giudizi, se non provi
compassione» (Anne McCaffrey). È quanto fa Gesù
con il lebbroso. Non chiede “perché”, ma subito
«mosso a compassione, stese la mano, lo toccò» e lo
guarì.
La compassione. Una virtù che ai giorni nostri è
spesso marginalizzata. Sono tanti, oggi, i “lebbrosi”
nella società: gli esclusi, i poveri, gli emarginati, gli
stranieri, i rom, gli anziani... Tutte situazioni che richiedono compassione. Che richiedono, cioè, cuori
che provino sentimenti di vicinanza, di comprensione,
di pietà, di tenerezza, di delicatezza.
In un mondo così
sguaiato come il nostro, non si va troppo Levitico 13, 1-2.45-46:
per il sottile, e si spaz- Il lebbroso se ne starà solo,
za via ogni sentimento abiterà fuori
di finezza e di atten- dall’accampamento.
zione nei confronti dei Salmo 31: Tu sei
deboli.
il mio rifugio, mi liberi
Quante volte si assi- dall’angoscia.
ste all'indifferenza di 1 Corinzi 10, 31-11,1:
giovani e di adulti di
Diventate miei imitatori
fronte agli anziani, agli
come io lo sono di Cristo.
ammalati...
Scriveva
Dostoevskij nell’Idiota: Marco 1, 40-45: La lebbra
«La compassione è la scomparve da lui
più importante e forse ed egli fu purificato.
l’unica legge dell’umanità intera».
Quante persone noi lasciamo, o addirittura cacciamo, lontano dalla società. Quanti esclusi, quanti emarginati, che richiedono un gesto, una parola di carità.
C’è chi è solo per egoismo e insofferenza degli altri.
C’è chi è solo perché non ha trovato un’amicizia o un
amore, o perché è stato abbandonato.
Soprattutto noi cristiani siamo chiamati a imitare
Cristo. Come invita San Paolo nella seconda lettura:
«Fatevi miei imitatoti, come io lo sono di Cristo».
Impariamo ad avere compassione e a comprendere
gli altri. La compassione è il vero volto di Dio. La
compassione amorosa diventi volentieri il nostro comportamento abituale, che dimostri a tutti che Dio è
Padre amoroso, e noi siamo tutti fratelli.
pagina 15
Vice-Provincia per il Nord America della Congregazione di San Michele Arcangelo, e Parroco di St Mary, London (Ontario), assegnandogli la sede titolare vescovile di Case di Numidia.
Il Santo Padre ha nominato Consultore della Congregazione per la Dottrina della Fede il
Reverendo Padre Pietro Bovati, S.I., Segretario
della Pontificia Commissione Biblica.
(31 gennaio 2015)
Provviste di Chiese
Il Santo Padre ha nominato Vescovo di Orizaba (Messico) il Reverendo Francisco Eduardo Cervantes Merino, del clero della Diocesi
di Tuxpan, Vicario per la Pastorale.
Il Santo Padre ha nominato Vescovo di Karaganda (Kazakhstan) Sua Eccellenza Reverendissima Monsignor Adelio Dell’Oro, trasferendolo dalla sede titolare di Castulo e conservandogli, donec aliter provideatur, l’incarico
di Amministratore Apostolico di Atyrau (Kazakhstan).
Il Santo Padre ha nominato Vescovo di Shinyanga (Tanzania) il Reverendo Monsignore
Liberatus Sangu, Officiale presso la Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli.
Nomina di Vescovo Ausiliare
Il Santo Padre ha nominato Vescovo di Waterford and Lismore (Irlanda) il Reverendo
Sacerdote Alphonsus Cullinan, del clero della
Diocesi di Limerick, finora Parroco a Rathkeale.
Il Santo Padre ha nominato Vescovo Ausiliare di London (Canada) il Reverendo Padre
Józef A. Dąbrowski, C.S.M.A., Superiore della
(2 febbraio 2015)
Dopo il riconoscimento del martirio
CONTINUAZIONE DALLA PAGINA 14
razione evangelica, dei documenti del Vaticano II, di Medellín, aveva scelto di vivere per i
poveri. Non c’erano motivi ideologici, di vicinanze con pensieri politici particolari. Fu ucciso semplicemente perché legato a questa
prospettiva. Al riguardo è entrato nel dettaglio anche Morozzo della Rocca: «C’era una
vera e propria persecuzione in atto contro la
Chiesa in El Salvador. La Chiesa si preoccupava dei poveri, masse di gente disperata e
senza lavoro. La classe dirigente oligarchica
scambiava la sensibilità sociale cattolica per
sovversione e comunismo». Romero, «straordinario predicatore», chiedeva giustizia «non
in termini politici, ma spirituali». E, ha aggiunto lo storico, sapeva bene di essere un
condannato a morte: «La fine gli veniva annunciata ogni giorno attraverso minacce, lettere, telefonate, attentati scampati per un soffio»; ne era anche impaurito, ma non ebbe
mai dubbi: «Un pastore non se ne va, deve
restare sino alla fine con i suoi».
Con le facili e pretestuose accuse di comunismo, ha aggiunto l’arcivescovo Paglia, «si
voleva far tacere quella Chiesa, una Chiesa
che sgorgava dal Vaticano II, attenta alla pace,
alla giustizia e alla verità evangelica». E oggi,
ha continuato il postulatore, «dopo l’89, dopo
l’11 settembre, dopo i recenti terribili attentati,
Romero rappresenta il coraggio evangelico di
una fede che non si ferma ai principi, ma sceglie di sporcarsi le mani con i più poveri per
far capire che sta dalla parte loro». E, ha aggiunto, «per Romero stare con i più poveri
era la maniera migliore per stare dalla parte
dell’intero Paese».
Certo — e si è molto dibattuto in conferenza stampa su questo aspetto — il processo per
la beatificazione è stato complesso e controverso. L’archivio di Romero conta oltre cinquantamila cartelle. Non sono mancati gli oppositori. Il fatto è, ha spiegato l’arcivescovo
Paglia, che durante quegli anni «arrivavano a
Roma chili di carte contro Romero. Lo accusavano di coinvolgimenti politici, di essere seguace della teologia della liberazione, di squilibri caratteriali». C’è voluto tempo per trovare e organizzare «la montagna di testimonian-
ze che avrebbero scalzato tutte quelle accuse
pretestuose». Soprattutto, ha tenuto a sottolineare il presule, è trascorso molto tempo perché «abbiamo voluto un processo scrupolosissimo. Volevamo che la causa fosse giustificata
fino all’ultimo millimetro». Ma alla fine, ha
concluso, «la verità ha avuto la sua vittoria».
Una verità che anche i precedenti Pontefici
avevano colto: l’arcivescovo Paglia ha tenuto a
ricordare Paolo VI «che di Romero fu ispiratore e difensore», Giovanni Paolo II che, dopo
le prime titubanze dovute a una informazione
distorta, comprese la verità e «nella celebrazione dei nuovi martiri durante il Giubileo del
2000 aggiunse di suo pugno il nome di Romero nell’oremus finale». E ancora Benedetto
XVI che nel 2012 decise lo sblocco del processo.
Oggi Romero «è un dono straordinario per
tutta la Chiesa» e, ha detto l’arcivescovo Paglia, lo è «non solo per i cattolici, ma anche
per tutti i cristiani e per tutti gli uomini di
buona volontà nel mondo». La sua beatificazione, ha concluso monsignor Delgado, sarà
un giorno di festa per tutti e «sarà l’ultimo
miracolo di Romero: sancirà l’incontro fraterno dei salvadoregni. Di tutti i salvadoregni.
Perché lui amava i poveri, ma non ha mai
smesso di amare i ricchi. Chiedeva la conversione di tutti».
L’OSSERVATORE ROMANO
pagina 16
giovedì 5 febbraio 2015, numero 6
Davanti alla grande sfida del sinodo
Con Pietro per la famiglia
di GUALTIERO BASSETTI
egli ultimi mesi molti commentatori si sono chiesti
quale fosse il vero significato
del sinodo straordinario sulla famiglia dell’ottobre scorso. Alcuni lo
hanno raccontato, come ha detto il
Papa stesso, «nello stile delle cronache sportive», mentre altri lo hanno
letto e interpretato secondo le logiche degli schieramenti politici. Di sicuro, però, nel sinodo si sono riflesse una tensione e una cura che forse
non hanno eguali negli anni recenti.
Lo spirito sinodale, infatti, soffia
sull’intera Chiesa e la
riveste di nuova luce.
È la stessa ispirazione
che ha mosso il Vaticano II, che ha guidato
Paolo VI, prima ancora
che si concludesse il
concilio, nella creazione del Sinodo dei vescovi e che, oggi, sta
delineando una svolta
pastorale per tutta la
Chiesa.
Come alla vigilia del
Vaticano II, non c’è
spazio in questo passaggio storico per i
«profeti di sventura»,
raggomitolati su se
stessi e preoccupati solo del proprio narcisismo riflesso in uno
specchio. Oggi è il
tempo della misericordia e della verità. Ed è
il tempo di camminare
insieme a Pietro, di vivere la corresponsabilità nella vita della Chiesa, cum Petro et sub Petro.
Nel 1973, Giorgio La
Pira, in una lettera
N
all’amico Mauro Barsi in cui sottolineava l’importanza di leggere attentamente i testi del magistero di Paolo VI sull’Osservatore Romano, affermava con decisione che il Papa è
sempre Pietro. Il quale sta «al timone di una barca destinata ad attraversare tutti i popoli, tutte le nazioni, tutte le civiltà e tutti i secoli».
Ebbene, in ogni nave, scriveva sempre il sindaco di Firenze, «il capitano tiene il giornale di bordo, in cui
annota gli eventi essenziali della sua
navigazione ed indica gli orientamenti essenziali di essa».
Le parole del Papa, dunque, per
dirla con La Pira, rappresentano il
giornale di bordo di ogni cattolico.
Testi che ognuno di noi è chiamato a
leggere perché ci offrono un autentico sensus ecclesiae. Permettono cioè di
pensare e di operare mettendoci in
sintonia con l’agire del capitano della
nave la cui rotta è da sempre «avviata
verso i porti universali della grazia,
dell’unità e della pace».
Mosso dal vento dello Spirito, il
sinodo ha infatti continuato a dispiegare le vele della barca di Pietro proprio verso questi porti dove poter affrontare, serenamente, le nuove drammatiche sfide della società odierna e
dove poter curare le “ferite” delle
donne e degli uomini di oggi. Ferite
Trento Longaretti, «Famiglia del musicante»
sulle quali la Chiesa è chiamata, per
vocazione e non certo per un obbligo
di legge, a versare «l’olio della misericordia» e, in egual misura, «la medicina della verità».
Il discorso del Pontefice alla conclusione del sinodo è di grande insegnamento. È infatti fondamentale
prendere le distanze tanto dall’«irrigidimento ostile» quanto dal «buonismo distruttivo», cioè dall’imporre
«fardelli insopportabili» e dallo
«scendere dalla croce, per accontentare la gente». L’unica realtà che conta è rimanere nella verità prendendosi
cura di chi sta nella sofferenza.
Questa è la grande sfida del sinodo sulla famiglia. Una
sfida che si caratterizza
per coraggio e libertà,
trasparenza e franchezza, come forse mai era
accaduto. Sfida che
non è certo un vezzo
intellettuale, ma un atto d’amore di Papa
Francesco — di colui
che è supremo servitore della Chiesa — verso
la famiglia. Cioè verso
la cellula fondamentale
della società che, oggi,
minacciata dai ripetuti
tentativi di svilirne il
significato più autentico «mediante il relativismo,
la
cultura
dell’effimero e una
mancanza di apertura
alla vita», rischia di subire una sciagurata
«colonizzazione ideologica». Un’eventualità
che è da scongiurare
con tutte le forze. Nel
segno dell’unità e sotto
la guida di Pietro.
Gli auguri del Papa al presidente della Repubblica italiana
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Pubblica Istruzione, nel sesto Governo Andreotti.
Nel 1990 si dimise, insieme con altri ministri della sinistra democristiana, in segno di protesta contro il disegno di legge Mammì dedicato al
riassetto del sistema radiotelevisivo,
un provvedimento molto contestato
in quanto considerato troppo a favore del gruppo guidato da Silvio Berlusconi. Vicesegretario della Dc dallo stesso anno fino al 1992, quando
gli venne affidata la direzione del
quotidiano «Il Popolo», Mattarella
fu relatore della legge elettorale approvata nel 1993, che introdusse il sistema maggioritario corretto da una
componente proporzionale.
Dopo gli eventi legati allo scandalo di Tangentopoli fu tra i promotori
del processo di rinnovamento della
Dc, che condusse, nel 1994, alla fondazione del Partito popolare italiano, nelle cui liste venne eletto deputato nello stesso anno e poi nel 1996.
In contrasto con la linea del partito,
che nel frattempo si era progressiva-
mente avvicinato alle posizioni del
Popolo della libertà, guidato da Berlusconi, Mattarella aderì alla coalizione di centrosinistra dell’Ulivo.
Caduto il Governo Prodi, Mattarella
assunse la carica di vicepresidente
del Consiglio e poi di ministro della
Difesa nei Governi D’Alema, incarico mantenuto anche nell’Esecutivo
guidato da Amato. Nel 2001 è stato
eletto deputato per La Margherita e
nel 2006 nella coalizione dell’Ulivo.
Nel 2008 non si è candidato e infine, nel 2011, è stato eletto dal Parlamento giudice costituzionale.
La figura del nuovo capo dello
Stato, come si evince dalla biografia,
è quella di un politico dal percorso
molto coerente. Al nuovo presidente
della Repubblica vengono inoltre riconosciuti uno stile sobrio e un’adesione ferma ai principi della Costituzione. In questo senso Sergio Mattarella è un successore naturale di
Giorgio Napolitano.
Nel discorso con il quale, dopo
aver giurato fedeltà alla Repubblica
e alla Costituzione, si è rivolto martedì mattina, 3 febbraio, ai parla-
mentari e ai delegati regionali riuniti
a Montecitorio in seduta comune, il
nuovo presidente ha sottolineato il
suo ruolo richiamando la figura
dell’«arbitro» che, ha detto, «deve
essere e sarà imparziale: i giocatori
lo aiutino con la loro correttezza».
Mattarella ha evidenziato in particolare i principi che la Carta fondamentale afferma e ha ricordato cosa
«significhi» metterli in pratica, giacché il modo migliore per difendere il
testo messo a punto dai costituenti è
la sua applicazione «giorno per
giorno».
Da qui l’enunciazione di tanti
compiti che la politica è chiamata a
svolgere, con la speranza che nelle
istituzioni «possano riflettersi con fiducia i volti» dei tanti italiani in difficoltà. Mattarella ha tenuto dunque
una sorta di lezione costituzionale
che diventa manifesto del suo settennato. Ed è significativo — ha detto —
«che il mio giuramento sia avvenuto
mentre sta per completarsi il percorso
di un’ampia e incisiva riforma della
seconda parte della Costituzione».
I termini usati dal presidente sono
stati volutamente mutuati dalla Carta del 1948, ad esempio quando ha
citato il compito di «rimuovere gli
ostacoli che limitano la libertà e
l’eguaglianza», il ripudio della guerra e la promozione della pace, l’affermazione del diritto al lavoro e allo studio, la difesa del ruolo della famiglia (pur riconoscendo i diritti civili nella sfera personale e affettiva)
e dell’autonomia e pluralità dell’informazione, obiettivi classici di una
democrazia occidentale.
Poi Mattarella ha declinato questi
principi generali sulle urgenze attuali, con una insistenza particolare sulla piaga della corruzione, a proposito della quale ha citato Papa Francesco ricordando le sue parole sui corrotti, «uomini di buone maniere ma
di cattive abitudini». E ha toccato il
tema della disoccupazione giovanile,
dell’evasione fiscale e della lotta alla
mafia, ricordando tutte le diverse categorie di «concittadini», termine
usato con molta frequenza.