PAOLO RESMINI ARCHITETTO

PAOLO RESMINI: L’ARCHITETTURA DELL’OSSIMORO
Esplorò costantemente l’armonica fusione dei linguaggi razionalista e organico
Non mi è facile scrivere di Paolo Resmini, consapevole della sua assenza. Eppure,
proprio al cospetto dell’ineluttabilità, occorre forzare la soglia della riservatezza e osare,
pur sapendo che a lui non è più dato il diritto di replica per gli errori di percezione o di
interpretazione.
Paolo ha costellato il territorio piacentino - e non solo, dal momento che ha operato
a livello nazionale e internazionale - di architetture riconoscibili e riconosciute; ha tracciato
con linguaggio personale, distante da modi e mode, un percorso molteplice e sensibile,
che arricchisce e segna in modo indelebile la storia dell’architettura, in particolare quella
piacentina, alla quale ha fornito un impulso costante, sapiente e soprattutto passionale.
Il suo percorso si snoda dai primi anni ’60, quando, studiando alla Facoltà di
Architettura del Politecnico di Milano, fu ammaliato dall’insegnamento di Ernesto Nathan
Rogers, al quale si richiamava spesso quale riferimento costante e irrinunciabile nel
tempo. Eppure dei princìpi progettuali del Maestro, intrisi di razionalismo e funzionalismo,
Paolo fece solo la base per un’esplorazione più complessa, che mirava a ricongiungere i
cartesiani assiomi europei al senso di appartenenza di un edificio alla natura e al territorio,
tipico di Wright e dell’organicismo americano. La direzione gli fu indicata da Giandomenico
Belotti, presso il quale esperì la pratica professionale a Milano dopo la laurea nel 1965. Al
secondo Maestro diretto vanno ascritti: la tendenza all’uso dei materiali a vista; il gusto del
disegno rigoroso, ma fantasioso, di ogni partitura architettonica, come se fosse una
partitura musicale; il gusto delle forti contrapposizioni, fra pieni e vuoti, fra luce e ombra,
fra leggero e pesante; la cura meticolosa dei dettagli; il senso di responsabilità per l’azione
professionale, della quale comprendeva la portata dell’impatto sulla realtà, anche nelle
occasioni minime.
Negli anni del mio volontario “esilio” bolognese, invitato da Benito Dodi a
collaborare alla nascente rivista Architetture Parma e Piacenza, stilai un programma
minimo di lavoro, a causa delle scarse forze disponibili e della perduta passione per
l’architettura, ma non mancai di esordire, sul primo numero, con una rapida analisi della
Casa del padre di Paolo, forse la sua opera minima in assoluto – quantitativamente - ma
straordinariamente ricca di qualità. Silente, riposta, come si addice alla natura piacentina,
è lì, sotto gli occhi di tutti, eppure così radicata nel tessuto della città da “non apparire”.
Merito anche della ridotta, ma ormai rigogliosa vegetazione che ne integra l’essenza,
creando un filtro che consenta di vivere gli spazi, interni ed esterni, in perfetta intimità. Per
chi voglia vederla, si trova in fondo a Via Sforza Pallavicino, a destra, col fianco
prospiciente all’ingresso della Clinica S. Antonino e il prospetto posteriore difeso da un alto
muro di recinzione dal parcheggio di Viale Malta.
Le case unifamiliari costituiscono, nel percorso di ogni architetto, un’eccellente
banco di prova per sperimentare e Paolo Resmini non ha certo sperperato le sue
occasioni.
La casa “d’esordio” sul Fiume Trebbia a Travo (1967) evidenzia un rigore linguistico
mozzafiato e una padronanza espressiva nell’uso dei materiali capace di suggestionare
chi la percorra - fuori e dentro - con una molteplicità di emozioni che solo un vero
architetto riesce a condensare dalla lettura sensibile del luogo. Si osservi la casa dal
fiume, o alla sinistra percorrendo il ponte in accesso a Travo, e la si vede stagliarsi sopra
un alto muro in pietra di sostegno e difesa fluviale, totalmente aperta, ma scandita da un
serrato ritmo di finestre, una sorta di avamposto di avvistamento a difesa del retrostante
nucleo abitato. Verso la via d’accesso invece - Via Anguissola - la casa si presenta con
due prospetti pieni, che la annunciano di scorcio dalla Piazza attraverso le vibranti tonalità
divisioniste dei blocchetti di pietra. Pianta quadrata, con scala quadrata al vertice nord, si
espone a sud librata su un pilastro-setto-sperone in calcestruzzo a vista, singolare e
fantasiosa interpretazione - reductio ad unum - dei pilotis di Le Corbusier, per liberare il
piano terreno, oggi occupato, per semplice interposizione di una vetrata, dallo studio del
Proprietario. L’enumerazione dei dettagli che arricchiscono il semplice volume può bastare
a comprenderne la complessità nell’apparente semplicità: la sequenza delle dodici
finestre, sui lati sud-est e sud-ovest, ciascuna protetta da antoni lignei - con rinforzi a
croce di S. Andrea - i quali, se aperti o chiusi, danno vita ad una variabilità percettiva quasi
infinita; gli undici cubi in calcestruzzo che scandiscono il marcapiano sulla superficie
verticale della trave d’ambito, quale presenza affiorante in corrispondenza degli intervallipilastrini fra le finestre, che prevalgono invece nell’arretramento del marcapiano
soprastante, e gli undici doccioni che allontanano l’acqua piovana dal tetto in foggia di
aculei respingenti e protettivi; l’affiorare all’esterno dei muri divisori interni in blocchi di
calcestruzzo, che Paolo utilizzò per primo a Piacenza, non appena Giuseppe Parenti li
mise in produzione (per lui disegnò anche gli uffici aziendali in Via Caorsana, dando forma
al linguaggio che connoterà le successive opere, proprio a partire dalla matericità del
blocco); la bipartizione dei serramenti in vetro trasparente e vetro cattedrale a fondi di
bottiglia; l’irregolare inserimento, fra i blocchetti in pietra dei muri nord-est e nord-ovest, di
interposti vitrei a scandire la scala interna, ma anche a fungere da prese di luce naturale
localizzate; l’uso piramidale dei blocchetti in calcestruzzo per realizzare la cappa del
camino e il raccordo angolare del belvedere incassato fra le coperture.
Ma molto altro si potrebbe elencare e commentare: la dovizia dei suggerimenti di
lettura discende dal non aver mai avuto occasione di parlare di questa casa, perché Paolo,
dopo alcuni interventi integrativi non di sua mano, ritenne fissata alle poche foto in bianco
e nero l’immagine a lui attribuibile. Questa fu anche una delle tanti ragioni di scontro e
discussione fra noi, perché difendevo il diritto della Proprietà a modificare secondo le sue
necessità lo spazio configurato dal progettista, pur condividendo la tutela del “diritto
d’autore” per l’architetto.
Altre case unifamiliari puntualizzano originalmente il percorso della sua ricerca,
scandendo nel tempo la fatica di “essere serio, senza prendersi sul serio”, che Paolo
recitava in perfetto francese, citando Le Corbusier: la récherche patiente, toujours!
Intendendo comprendere nell’espressione la fatica per affermare il nuovo in un territorio
con vocazione più a conservare il passato, che ad esporsi al futuro, pur possedendo –
paradossalmente - le menti migliori e più creative, come hanno mostrato immancabilmente
i piacentini emigrando e raggiungendo “altrove” l’apice in ogni campo. Perciò sono
addolorato che Paolo manchi proprio ora: “ora” che “essere e fare qui”, nel territorio,
sembrano divenire finalmente la soglia di un nuovo futuro innervato di luminosa energia
positiva.
La prima casa a Roncovero di Bettola (1972) accoglie a monte con un fronte a
dimensione umana e si espande a valle, a cuneo, con un’ampia facciata totalmente lignea,
che consente di “spalancare” sul paesaggio tutti gli ambienti, particolarità che le è valsa il
nomignolo di televisore. Ebbi modo di precisare, pubblicandola sulla rivista diretta da
Bruno Zevi, L’architettura, cronache e storia, che tale abitudine popolare - di attribuire un
“nomignolo” - premia in genere gli edifici che smuovono fantasia ed emozioni.
E che Paolo Resmini smuovesse le coscienze è certo: prova ne sono le molte
discussioni, sia fra amici e colleghi, che fra i “non addetti ai lavori”, intorno al suo ampio
operare e molte leggende metropolitane che tutt’ora circolano su di lui e che continuano a
testimoniare la sua presenza carismatica e stimolatrice sul territorio. La pubblicazione
della casa bettolese fu anche occasione d’incontro fra persone libere e indipendenti nel
panorama editoriale italiano: una proprietaria che accolse il fotografo mostrando il proprio
spazio vitale com’era, senza camuffamenti di ufficialità, desiderando che fosse ritratto
“com’era”; un fotografo d’eccezione, dotato della capacità di rendere “l’atmosfera” spaziale
della casa, Sergio Anelli, e uno storico e critico “operativo” dell’architettura, Bruno Zevi,
legato più che alle idee “non sue” che professava, alla capacità di concretizzarle ed alla
realtà “costruita”, il quale si appassionò ad un’opera che esprimeva uno spazio eclatante,
pensato in sezione, “radicato” nella terra e contemporaneamente slanciato nel vuoto,
nell’aria, col camino, col fuoco al centro e l’acqua convogliata a monte e quindi scorrente
tutt’attorno.
La seconda casa di Roncovero (1998), per la stessa Committenza, evidenzia il
perdurare della fiducia nell’architetto e l’attesa della nuova espressione che avrebbe
fornito alle variate esigenze, partendo dalla soddisfazione d’uso dello spazio già abitato.
Questa volta il cuneo si apre in orizzontale, fra due muri d’ambito - uno in pietra a vista,
ben visibile dalla Strada Provinciale della Val Nure; uno rivestito di pianelle in laterizio a
monte - per arrivare a spaziare sul paesaggio, a sud-ovest, con le ampie vetrate degli
ambienti di soggiorno. Le bucature triangolari, le porte-finestre e la pensilina d’ingresso
puntute, contrapposte alle curve del vano scala emicilindrico e al comignolo, costituiscono
un elenco di “emergenze” che animano un volume semplice e silenzioso. La copertura
messa a verde, in linea coi principi bioclimatici, restituisce dall’alto al territorio il terreno
occupato, rendendola meno impattante visivamente. All’interno lo spazio fluisce
liberamente in ogni direzione, configurando “anfratti” per ogni funzione, e moltiplicando
virtualmente le dimensioni dello spazio reale percepito. Prevale, ancora una volta, come
nella casa precedente, un senso domestico caldo e ricco di storia familiare, ospitale ante
litteram, saturo di mobili e libri, di oggetti della memoria disseminati su pareti dalle
molteplici essenze: intonacate e dipinte di bianco o di blu, in nordico mattone bianco, in
calcestruzzo a vista, in blocchi splittati di calcestruzzo rosa, fino a un bell’“affresco” di
natura, su un setto murario incurvato, opera di Natalia, figlia di Paolo.
Resmini però non è stato solo architetto, nel senso ristretto che si può attribuire al
termine, ma designer, urbanista, esteta, cultore d’arte e di storia, curioso viaggiatore,
“automobilista” (amava automobili e motociclette e fu a lungo Presidente dell’A.C.I.
piacentino) e chissà quant’altro che anche a me sia sfuggito, ma si sconfinerebbe inseguendo le sue ampie attitudini e attività - nel tratteggiare un Resmini uomo, che
richiederebbe altrettante parole, se non molte di più, per lo spirito futurista (anche nel
senso artistico del termine), nietchiano e finanche dannunziano, che la sorte astrologica gli
aveva assegnato col suo venire alla luce il 20 aprile, cuspide fra il segno di fuoco cui
apparteneva - l’ariete - e il toro, segno di terra, connaturato nella sua capacità di
concretizzare ogni sua passione, vivendola fino agli estremi.
L’attività di designer contrassegna l’intero percorso professionale di Paolo e
culmina, mirabilmente, con l’approdo all’azienda i cui prodotti ha sempre collezionato con
sconfinata ammirazione, amore e cura: Thonet, per la quale disegnò varie sedute, in
particolare una sedia, che mi chiese di commentare criticamente in occasione della
presentazione del prototipo.
I ferròtipi, del 1968/1979, eleganti già nella nomenclatura, sono una serie di mobili,
in tubo d’acciaio slabbrato e incurvato, che coprono un’intera gamma di attrezzature per
interni: “appendi abiti”, tavoli da pranzo e da studio, “poltroncina” dinette, “poltrona alta”,
“mobile libreria”, “poltrona”, “tavolo basso” da conversazione, “divano a tre posti”, “tavolo
rotondo” da conversazione, fino all’elegantissimo “dondolo”. La base comune è il musicale
design della struttura-scultura in tubo; le sedute sono tessute in filo tubolare plastico; i
rivestimenti imbottiti in spessori e tessuti personalizzati; i piani in legno, granito, marmo; i
volumi in legno naturale o dipinto.
Nel progettare la ristrutturazione della nuova casa di un comune amico, del quale la
precedente era stata disegnata da Paolo, dimensionai appositamente una parete del
soggiorno in modo che potesse accogliere, nella sua originale consistenza, il mobile
sospeso che Paolo aveva configurato esteso all’intera parete, in modo che incominciasse
ad essere visibile di scorcio - nella nuova collocazione - già salendo la scala. Una scelta
rispettosa della qualità del suo design e desiderosa di creare continuità, sia nella vita della
famiglia dell’amico, che nel nostro susseguirci professionale.
Ancora al campo del design industriale attengono poltroncine per sala conferenze e
per casa/ufficio, disegnate e realizzate per e con la Frau di Tolentino, azienda con la quale
Paolo Resmini realizzò anche molti importanti interventi in Italia e all’estero che si possono
solo elencare, senza poter commentare per ragioni di spazio. Dai restauri dei: Teatro di
San Gregoriuccio alla Sinagoga a Spoleto (1983); Teatro di Palazzo De Simone a
Benevento (1987/88); Ridotto Sala Frau a Spoleto (1988); Teatro Comunale di Benevento
(1989); Teatro Petit Odeon a Parigi (1990); Sala Rondò di Bacco a Palazzo Pitti a Firenze
(1992); Teatro Caio Melisso a Spoleto (1992); Teatro Giacosa a Ivrea (1994); alla
realizzazione degli auditorium: del Credito Emiliano a Reggio Emilia (1989); del Centro
Congressi S. Eufemia di Piacenza (1991); del Palazzo della Marineria di Trieste (1991);
della Carispa Cassa di Risparmio di Ascoli Piceno (1991); S. Domenico a Foligno (1992);
ancora del Credito Emiliano (ampliamento) a Reggio Emilia (1993/94); della “Casa de
America” nel Palacio Linares a Madrid (1996/97); dei Musei Vaticani (1998/99) e
dell’Accademia Pontificia delle Scienze nella Città del Vaticano (2000); Enzo Ferrari a
Maranello (2000); Piacenza Fiere a Piacenza (2000/2001); Orchestra Sinfonica RAI a
Torino (2002); oltre ed infine al restauro dell’Oratorio della Passione (sala convegni) a
Spoleto (1989).
Grande rilevanza hanno assunto anche gli interventi per Enti Pubblici. Per limitarci
al piacentino, Paolo Resmini è autore: a Piacenza della Scuola Media “Don Milani”
(1975/76) e degli Impianti sportivi di Via Anguissola (1987); a Roveleto di Cadeo delle
Scuole Media e Materna (1979/80); a Podenzano del Day Hospital e della sala polivalente
comunale (1978/79) oltreché del restauro degli Uffici Comunali nel Castello Anguissola.
Ma per spaziare sulla quantità delle realizzazioni portate a compimento in Italia ed Europa
ci si ridurrebbe a un lungo e vacuo elenco, mentre ogni opera richiederebbe almeno
qualche parola di presentazione, capace di esprimerne l’essenza soggettiva e universale a
un tempo, caratteristica di ogni vera architettura.
Nel campo industriale Paolo Resmini ha firmato, tra le molte opere realizzate, la
nuova sede del Centro Commerciale Battisti (1990), la Ltp (1996/97) e la Master (2002)
alle Mose; i complessi industriali Spicers Italia (2002) e Allied (2007) a Castel San
Giovanni; il Complesso Direzionale del Centro “Piacenza Intermodale” (1999) e nel 2000
ha disegnato i portali/insegna del Polo Fieristico Piacentino.
Molti, anche, i lavori di restauro e risanamento conservativo, fra i quali vale la pena
ricordare, per tutti, l’intervento di Via Castello (1976/77), esemplare di una tecnica di
lettura della storia dell’edificio oggi accantonata dalla teoria del restauro architettonico, ma
ancora suggestiva ed efficace.
Pur conservando e privilegiando, in prima istanza, la facciata nella veste
ottocentesca, con le finestre ben allineate in regolare partitura, Paolo Resmini non rinuncia
a declarare brani delle murature medioevali affioranti durante i lavori e una lettura
filologica delle vicende edilizie, trattata, paradossalmente, mediante la trasformazione di
elementi tradizionali in elementi linguistici a lui congeniali e ricorrenti in molte sue opere.
Le buche pontaie (lasciate dagli antichi ponteggi in legno, laddove si appoggiavano sulle
murature in corso di esecuzione i travetti che sostenevano gli assiti) divengono quadrati
leggermente rientranti contrapposti ad una fascia marcapiano invece sporgente rispetto al
piano di facciata ed interrotta verticalmente in corrispondenza della sottostante trama di
buche. Inoltre la regolarità orizzontale delle buche è frammentata da un improvviso
ravvicinamento, che sta ad indicare come l’immobile attuale sia nato dalla congiunzione di
due case contigue, mentre la fascia marcapiano, soprastante alle finestrelle murate tipiche
da sottotetto, evidenzia il sopralzo di un piano. Un ultimo accenno merita il colore, oggi
leggermente sbiadito, ma in origine rosso mattone intenso, che, insieme ai nitidi cortili
pavimentati e al dipinto murale a sfondo, dona al restaurato edificio una intensa poeticità
di marca barraganiana (Barragàn, architetto messicano, è considerato da molti il più
grande poeta dell’architettura novecentesca, oltre che un sensibile paesaggista).
L’impossibilità di spaziare oltre rende evidente la necessità, prima o poi, di un
volume che raccolga e sistematizzi criticamente l’intera produzione di Paolo Resmini.
E ora: semplici cenni conclusivi.
Fra le opere più recenti figura il Podium (2005/07), il nuovo “baldacchino
tecnologico” del Papa.
Paolo Resmini ha vissuto intensamente e produttivamente ed è stato affiancato nel
tempo da molte persone di qualità, che, a vario titolo, hanno contribuito alla buona riuscita
dei suoi progetti: per tutti - e chiedendo scusa alla maggioranza sottaciuta Giovannantonio Malacrida, milanese, socio e amico perenne, e Maurizio Scolari,
piacentino, anima appartata e schiva, al quale si devono riconoscere meriti di non poco
conto, che lo stesso Paolo mi dichiarò in più occasioni: l’eleganza e la sapienza dialogica
con clienti e referenti pubblici; la pazienza e il metodo nell’affrontare ogni nuova avventura
architettonica; la continuità e la memoria storica dello studio Resmini Engeneering s.r.l.
Infine, last but not least, l’unica consolazione possibile per l’assenza di Paolo,
mediata da un frammento di Menandro o dalle Bacchides di Plauto: “Muore giovane chi è
amato dagli dei”.
sergio signorini