Letturae - Cregrest

un morso di letteratura
A cura di Maria Albini
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letturae
cre-grest 2015 | letturae
uando manca il gusto del cibo…
Adesso, invece… Ormai era quasi un riflesso automatico, indolore e facile da controllare. Ora il
vomito non la coglieva più di sorpresa in un luogo poco adatto o in un momento inopportuno.
Era lei a dominarlo. E la cosa le dava una soddisfazione che assomigliava al benessere. Dopo,
infatti, si sentiva come liberata, leggera. Al punto da concedersi di pensare che anche lei era
capace di vivere come tutti gli altri, che anche lei era degna di stare al mondo, dal momento che la
linea del suo corpo, vista di profilo, era quasi diritta, priva di sgradevoli e vergognosi rigonfiamenti.
Se solo non fosse stata perseguitata da quel senso di vuoto, da quel buco nello stomaco che continuamente reclamava di essere riempito, colmato, messo a tacere.
A volte riusciva a tenerlo a bada per ore, anche per tutto il giorno. Ma di notte… Di notte si svegliava con una fame addirittura dolorosa. Allora si alzava e andava in cucina. Cominciava con una
zuppa di latte e biscotti e, mentre la ingoiava, sentiva gli spigoli del mondo arrotondarsi, i vuoti del
cuore colmarsi. E quando latte e biscotti le avevano riempito lo stomaco al punto che ormai avrebbe dovuto vomitare per forza, apriva il frigorifero e ingurgitava di tutto, attenta solo a non lasciare
tracce troppo vistose per non insospettire la madre. Sottaceti, pezzi di formaggio, fette di salame,
eventuali avanzi, ditate di salse in vasetto, yogurt.
Mangiare non la rendeva felice. Però la placava, cancellava l’angoscia.
Solo vomitare la faceva stare bene quanto mangiare.
(da Giusi Quarenghi, Niente mi basta, Salani, 2012)
Melania Gaspara non si piace: tutto di lei la rende insoddisfatta ad iniziare dal suo nome, che il fratello maggiore ha “simpaticamente” abbreviato in Gasp, al suo aspetto fisico incapace di attirare
una minima attenzione. In particolare la rendono infelice il confronto con la madre, donna ai suoi
occhi bellissima e perfetta a suo agio in tutte le situazioni, e l’anonimato scolastico che la fa essere
agli occhi di tutti un’insignificante ombra.
Il dolore e la frustrazione accumulati di giorno vengono soddisfatti la notte quando, dopo avere
con mille scuse evitato di condividere i pasti con i suoi familiari, Melania può abbuffarsi indisturbata e vomitare poi il cibo accumulato. Da questa spirale di dolore e sofferenza la salvano l’invito alla
festa di compleanno di una sua compagna particolarmente popolare ed il fatto che, in una delle
sue escursioni notturne, venga casualmente scoperta dalla madre. Inizia un percorso difficile, ma
non impossibile, di recupero del gusto della vita e dei piccoli fatti quotidiani che la abitano perché,
come sa la stessa Melania, il modo con cui noi ci avviciniamo o allontaniamo dal cibo dice molto
del nostro modo di affrontare la vita.
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uando il cibo racconta chi sei
Lo stufato di ignami si fa così: tanto per cominciare ci vogliono due ignami belli grossi. Sempre
ammesso che riusciate a procurarveli. Se vi trovate in Africa nessun problema. Se invece siete
da un’altra parte, la faccenda si complica. In questo caso o lasciate perdere e vi cucinate una
frittata, o sostituite gli ignami con due patate. Ora, facendo conto che vi siate procurati gli
ignami, sbucciateli, tagliateli a cubetti e metteteli da parte. A questo punto vi serve mezzo litro
d’olio. Da noi di solito si usa quello di arachidi, voi fate un po’ come vi pare, l’importante è che lo
mettiate e scaldare dentro un casseruola. Quando l’olio è ben caldo, fateci saltare dentro due cipolle. Aggiungete cinque pomodori freschi schiacciati e una cucchiaiata di pomodoro concentrato.
Lasciate cuocere per… diciamo più o meno il tempo che ci metteva mia nonna per sfinire mio padre
con domande del tipo: “Hai mangiato abbastanza mentre eri via? E che cosa hai mangiato? E chi
te l’ha cucinato?”. Bene Adesso versate nella casseruola un po’ d’acqua, mescolate, aggiungete
gli ignami, sale e pepe quanto basta, spezie a piacere. Lasciate stufare per… grosso modo quanto
ci metteva mio padre a convincere mia nonna che gli erano mancati i suoi manicaretti. A questo
punto lo stufato dovrebbe essere pronto. Servitelo insieme ad un piatto di riso bollito.
(da Antonella Ossario- Adama Zoungrama, Se entri nel cerchio sei libero, Rizzoli, 2009)
Il percorso di vita di Adama Zoungrana, bambino del Bourkina Faso uno dei paesi poveri dell’Africa,
è contrassegnato dall’incontro con cibi diversi che appartengono ai paesi in cui, per un colpo di
fortuna, si trova ad abitare e diventano simbolo delle diverse esperienze che vive. All’infanzia è
inscindibilmente legato lo stufato di ignami, di cui Adama è golosissimo e che la nonna paterna
prepara tutti i giorni, perché sa che è il piatto preferito del padre del ragazzo. Addirittura diventa
un piatto capace di qualificare l’appartenenza ad un popolo, perché, secondo la donna, soltanto
un’etnia del Burkina – i Mossi – lo sanno cucinare bene. Il profumo ed il sapore di questo piatto
ricorrono spesso nella memoria di Adama e nelle sue molte avventure: la violenza del padre, le difficoltà nell’andare a scuola, il lavoro in miniera… finché un giorno si presenta il colpo di fortuna che
lo rende protagonista di un documentario sul suo paese. Per il ragazzo iniziano nuove esperienze
in Europa, fra cui l’incontro con nuovi piatti e sapori, fino al ritorno temporaneo nel proprio paese
di origine per un progetto umanitario che vuole garantire a tutti i bambini e bambine la possibilità
di andare a scuola. Una bellissima storia vera che racconta, anche attraverso il cibo, uno sguardo
buono, capace di attraversare con gratitudine situazioni belle e brutte della vita.
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uando il cibo è un’avventura quotidiana
Mi guardai di nuovo intorno. Spostai un vecchio baule e spinsi un’asse che pareva staccata. Trovato!
Dietro c’era un piccolo ripostiglio vuoto con mezzo sacco di patate. Ma cosa potevo farne? Si possono
mangiare le patate crude? Ne assaggiai una. Pensai che in fondo si poteva. E poi trovai un ripiano
nascosto con un sacco pieno di gallette. E delle scatolette che potevano contenere sardine. E del latte
condensato. E marmellata. E due barattoli di grasso di pollo. E un sacco di farina. E zucchero. Me ne ficcai
in bocca una manciata. Poi mi sedetti e cominciai a banchettare. Neve mi si era addormentato in tasca.
Stava venendo qualcuno. Quelli che si nascondevano qui? Rimasi paralizzato dov’ero. Lentamente si avvicinarono. Erano in due. Sentii bisbigliare. Forse anche in tre. Le voci erano di un uomo e di una donna.
Ma sentivo anche dei passi leggeri che potevano essere di un bambino. La donna disse: “Ti dico che c’è
qualcuno qui!”.
“Siediti e non muoverti, Marta” fece l’uomo.
“E tu tieni le orecchie tese se qualcuno dovesse venir dalle scale”.
Avevo fatto un brutto sbaglio a non rimettere a posto l’asse e il baule.
(Da Uri Orlev, L’isola in via degli Uccelli, Salani, 2011)
C’è stato un tempo in cui, anche nella ricca Europa, era difficile avere del cibo. È stata l’epoca, ormai lontana per fortuna, della guerra, quando il cibo era poco e bisognava lottare per sopravvivere. Alex, tredici
anni, si ritrova a vivere in un quartiere abbandonato della città e deve aspettare il ritorno di suo padre che
doveva stare via poco tempo e, invece, sembra non tornare più. Il ragazzo deve sopravvivere per molti
mesi nascosto, senza acqua e cibo a portata di mano, ma da cercare ogni volta a proprio rischio e pericolo
perchè qualche nemico può sparare o qualcuno può picchiarlo per rubargli le cose che ha trovato. Armato
soltanto di una pistola, Alex si aggira circospetto per i ruderi di case, cercando ogni giorno quanto gli serve
per sopravvivere con l’unica compagnia del coniglio Neve, che non può essere di molto aiuto… Come un
naufrago che cerca di trovare ogni giorno il necessario il ragazzo resiste per mesi, aiutato anche da una
buona dose di fortuna, fino al ritorno del papà incontrando persone egoiste e altre che lo aiutano, anche
con poco. Un libro che racconta situazioni passate, ma ci ricorda il valore del cibo perché forse qualcuno
oggi vive ancora così anche nelle nostre ricche città.
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uando il cibo è festa
Sulla tavola rustica, ove una serie di giornali spiegati fungevano da tovaglia, si allineavano in
bell’ordine le provviste acquistate: dietro levavano le loro forme eleganti tre bottiglie piene,
tre misteriose bottiglie, soffiate a colpi di genio dai Gibus e dai Lebrac.
Una conteneva grappa, le altre vino. Sopra una specie di piedistallo l’annaffiatoio, da dove
sarebbe sgorgata l’acqua limpida e pura attinta alla fonte vicina. Sotto la cenere calda, intanto,
scoppiettava una quantità di patate. Che splendida giornata!
Il patto è che si sarebbe spartita ogni cosa, meno il pane che ciascuno aveva con sé. A lato delle
tavolette di cioccolato e della scatola di sardine s’alzò così, in breve, una pila di zollette di zucchero
che La Crique contò con cura. Tenere tutte le mele sulla tavola era impossibile. Le cose erano davvero state fatte per bene. (…)
Era inteso che si sarebbe cominciato quando fossero state pronte le patate: ne sorvegliavano la
cottura Camus e Tigibus, che toglievano la cenere, rimettevano la brace, le tiravano ogni tanto a
sé con un bastoncino per tastarle con la punta delle dita, scottandosele, scuotendole, soffiandosi
sulle unghie e riattizzando il fuoco di continuo. Nel frattempo Lebrac, Tintin, Grangibus e La Crique,
dopo avere calcolato il numero delle mele e di zollette spettanti ad ognuno, si davano a un’equa
spartizione delle tavolette di cioccolata, dei bomboncini e dei pezzi di liquirizia.
(da J. Pergaud, La guerra dei bottoni, Rizzoli, 2011)
È un momento di pausa nell’accesa lotta tra i ragazzi di Longeverne e quelli del vicinissimo villaggio di Verlans, vissuta in una natura incontaminata fatta di boschi selvaggi, acque incontaminate,
prati di un verde brillante. I ragazzi di Longeverne festeggiano una schiacciante vittoria nella quale
hanno fatto un ricco bottino e catturato ben sei prigionieri: il buon risultato della battaglia viene
solennizzato da abbondanza di cibo, un po’ di alcolici, canti, sigari e storielle. È un mondo assai
lontano da quello dei ragazzi di oggi che difficilmente hanno la possibilità di giocare all’aperto, in
bande, tra scontri fisici e avventure reali o immaginarie, però è sempre uguale il senso del gruppo,
del fare qualche cosa insieme, la disponibilità a sacrificarsi per chi è nella propria squadra, la voglia
di mettere in gioco coraggio e qualità personali. In questo caso il cibo diventa il centro di un evento
di festa caratterizzato da condivisione, gioia di stare insieme e, perché no?, venire meno di alcune
regole dettate dagli adulti, scherzo e divertimento. E tutto è così bello che ci si augura di viverlo
ancora: “È stata lo stesso una gran bella festa! Bisogna che la rifiamo il mese prossimo”, commenta
infatti uno dei ragazzi con molto gusto per quanto vissuto e poca conoscenza della grammatica!
un boccone di cinema
A cura di Daniela Previtali
Piovono polpette
Se si esagera mangiando…
Regia: Phil Lord e Chris Miller II
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cre-grest 2015 | letturae
Titolo originale: Cloudy with a chance of meatballs - Genere: Animazione - Origine:
Stati Uniti d’America - Anno: 2009 - Durata: 90’
Flint Lockwood vive a Swallow Falls (gioco di parole intraducibile che rimanda insieme
all’ingozzarsi e all’essere sommersi), cittadina di un’isola conosciuta per l’industria e
il commercio di sardine, attività ormai in crisi. Autore di strampalate invenzioni, crea
un macchinario che, finito in cielo, riesce a trasformare molecole d’acqua in cibo che
poi si riversa a terra come pioggia. La gente ne chiede sempre più e la macchina lavora a pieno ritmo producendo hamburger, hot dog e bistecche, ciambelle, pasticcini
e gelato. I concittadini, sino a quel momento costretti a mangiare solo sardine, gli
sono oltremodo grati, e fanno di Flint un eroe, dopo averlo considerato fino a quel
momento un emarginato. Ma un cataclisma gastronomico è alle porte e Flint riuscirà
a salvare la sua comunità grazie all’aiuto di Sam, giornalista che aspira a diventare una
teleannunciatrice delle previsioni del tempo.
Piovono polpette si presenta come un’estrosa parodia del genere catastrofico, un’apocalisse climatico-alimentare che si sofferma su questioni legate alla sfera personale
del protagonista e sullo smodato consumismo alimentare ma anche su dinamiche più
generali: l’ostilità nei confronti del diverso, il valore eccessivo accordato alle apparenze, l’avidità dei politici.
• Ci si nutre per necessità, piacere o ingordigia? Come cambiano il loro rapporto col
cibo gli abitanti di Swallow Falls? Con quali conseguenze?
• In una società sempre più dominata dal consumo folle e dall’accumulo inutile di
risorse, la quantità conta più della qualità. Il sindaco di Swallow Falls ne è la chiara
rappresentazione: la sua ingordigia aumenta di pari passo con l’aumento del suo
peso fino all’obesità.
• Flint desidera risolvere i problemi e sfuggire all’orizzonte limitato degli abitanti
dell’isola. È Il solo ‘diverso’ della storia? Ti sei mai sentito emarginato dai/dalle tuoi
compagni/e? Quale era la causa? Hai pensato che avessero ragione o hai accettato
rinunciando a una parte di te?
• La scienza si deve porre dei limiti? In una società edonistica che vuole sempre di
più senza porsi quesiti sulle possibili conseguenze il rischio della catastrofe non è
solo ipotetico e in questo caso viene esemplificato con grande efficacia dalle enormi
e incontrollate quantità di cibo che si riversano sul mondo.
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Ratatouille
‘Se è vero che siamo ciò che mangiamo, io voglio mangiare solo cose buone’
Regia: Brad Bird
Genere: Animazione - Origine: Stati Uniti d’America - Anno: 2007 - Durata: 110’
Rémy è un sorcio dall’eccellente olfatto e dal delicatissimo palato che non vuole cibarsi di rifiuti come fa la sua colonia. Inseguendo i suoi sogni, diventerà un grande chef
grazie all’incoraggiamento dello spirito del suo mentore Auguste Gusteau (morto di
dolore a causa di una stroncatura del terribile critico Anton Ego), e aiutando il di lui
giovane e imbranatissimo figlio, Alfredo Linguini, che riesce a manovrare come un
burattino tirandogli i capelli nascosto sotto il cappello a torretta.
Il fascino del film risiede certamente nel gioco magistrale dei contrasti che lo strutturano. Il film infatti ribalta l’eterna lotta tra uomini e topi sostituendola con l’alleanza; ha
come eroe uno degli animali più repellenti per noi umani che desidera però lavorare
in cucina, uno dei luoghi più puliti che esistano; è una fiaba che si basa su un solido
lavoro di documentazione che ha tenuto per mesi il team di lavorazione del film fra
i fornelli della haute cuisine francese per carpire usi, gesti, ruoli, mentalità (e odori,
colori, sapori); è, infine, una celebrazione e insieme una presa in giro di una delle arti
al momento più celebrate nel nostro ipernutrito Occidente.
Capace di alzarsi su due zampe e comunicare con gli umani, Rémy è la metafora di un
bambino che cresce ma anche di un artista che scopre e corona la sua vocazione, che
non vuole parlare agli iniziati ma desidera conquistare le masse. Sa di avere un dono.
Riconosce ogni ingrediente. ‘Sente’ i sapori uno ad uno, in ogni sfumatura, associandoli a suoni e colori. Ma i suoi simili, poveri topastri comuni, non capiscono. ‘Mangia
la tua spazzatura e non seccare’, gli dice il padre. Ma Rémy non può accontentarsi di
snidare i bocconi avvelenati. Un artista ha bisogno di altri orizzonti, come un bambino
ha bisogno di crescere: e quando il caso lo porta proprio nel ristorante fondato dal
grande e defunto Gusteau, il suo idolo, la voce della sua coscienza, per Rémy inizia
una nuova vita.
• Cosa significa la cucina (nel senso di cucinare ma anche il cibarsi) per Rémy, Alfredo Linguini e Anton Ego?
• Quanti sensi sa coinvolgere l’atto del cucinare ma anche il gustare un piatto ben
preparato?
• Ratatouille è una grande favola sulla necessità di mantenere vivi il senso della famiglia e dell’amicizia, e insieme di far emergere il meglio da ogni singolo individuo.
Come Rémy riesce a tenere insieme tutto questo?
• Come il film illustra il tema dell’incontro col ‘diverso’?
Mangiare per vivere o vivere per mangiare?
Regia: Tim Johnson, Karey Kirkpatrick
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La gang del bosco
Titolo originale: Over the Hedge - Genere: Animazione - Origine: Stati Uniti d’America
Anno: 2006 - Durata: 90’
Risvegliandosi dal letargo a primavera, un gruppo di abitanti della foresta (due opossum, cinque porcospini, una puzzola, uno scoiattolo), la scoprono dimezzata da un’alta
siepe che delimita una nuova zona suburbana. Dove troveranno di che alimentarsi?
Niente paura, spiega loro RJ, navigato orsetto lavatore, basta frugare nelle case degli
uomini dove ce n’è per tutti: tanto quelli non mangiano per vivere, vivono per mangiare. Osteggiato solo dalla cauta tartaruga Verne, RJ ha in realtà un suo segreto motivo
per indurre il gruppo a rubare visto che deve restituire entro breve delle provviste che
ha sottratto a un orso feroce…
Oltre alle relazioni all’interno del gruppo di animali, i temi centrali del film sono la
denuncia alla società dei consumi e il difficile rapporto fra natura e civiltà, evidenziato
da un’inarrestabile cementificazione. Il punto di vista è quello degli animali e gli umani
non fanno un gran figura: hanno perso il contatto con la natura, non hanno sensibilità
ecologica, sono guidati da un’avidità consumistica per cui la parola ‘abbastanza’ non
esiste e sono animati da vocazione guerrafondaia e distruttrice.
• Il rapporto col cibo è centrale. Merendine, patatine, bevande gasate sono presentate come un bene irrinunciabile, come il simbolo di una vita migliore. É davvero
così? Quali sono le conseguenze di un uso eccessivo di questo tipo di cibi? Si mangia
per vivere o si vive per mangiare?
• Molti sono i rimandi alla società del benessere e del consumismo tanto che RJ
illustra agli altri animali il nostro modo di vivere come scandito dal recupero, dal trasporto, dal consumo e dallo smaltimento degli alimenti. Elencali e fai un confronto
con la vita condotta dagli animali del bosco.
• Il processo di urbanizzazione ha reso sempre più limitati gli spazi in cui abitano gli
animali selvatici. Come si presenta il bosco e come invece la ‘natura’ urbanizzata’?
Come appaiono gli uomini agli occhi degli animali?
• Individualismo ed egoismo si oppongono a collettività e solidarietà. Quale funzione riveste ciascun personaggio all’interno del gruppo?
• L’inganno iniziale di RJ lo fa vivere con un senso di colpa che non lo farà sentire accettato nonostante l’amore degli altri. Anche Verne alla fine gli ricorda l’importanza
della sincerità e della solidarietà: ‘Se ci avessi detto quello che ti serviva dall’inizio,
ti avremmo aiutato comunque’.
caritas quanto basta
A cura di don Claudio Visconti
Fame nel mondo
e obiettivi di sviluppo del millennio
L’
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importanza di una profonda consapevolezza delle cause e conseguenze degli squilibri globali, nazionali e locali,
è una tematica ben presente nel Magistero della Chiesa e nell’azione degli organismi di volontariato che sulla
dottrina sociale della Chiesa poggiano la loro ispirazione. Le parole recentemente pronunziate da Papa Francesco
sulla necessità di rimuovere le cause stesse della fame e sugli ostacoli che una finanza fuori controllo e i modelli
di sviluppo economico oggi prevalenti pongono al perseguimento di giustizia e bene comune, hanno sottolineato
ancora una volta l’urgenza di una forte iniziativa di sensibilizzazione su questi temi, sia all’interno della Chiesa che
verso una platea più ampia. Il mondo attuale è segnato da elementi di crisi che attraversano profondamente sia i paesi
industrializzati – e tra questi in particolare l’Italia - che quelli a basso reddito. Cresce a livello internazionale l’esigenza
di riflettere sulle prospettive di un impegno globale verso il superamento degli squilibri e delle condizioni di povertà in
cui ancora si trova una parte importante della popolazione nel Sud come (ora sempre di più) anche nel Nord del pianeta. Con l’approssimarsi del 2015, inoltre, si avvicina il termine posto dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite al
percorso degli Obiettivi di Sviluppo del Millennio (OSM) che, negli ultimi anni, hanno costituito il punto di convergenza
globale su queste tematiche. L’impegno necessario a proporre e sperimentare un cambiamento verso un mondo più
giusto e accogliente per tutte le donne e gli uomini del pianeta deve partire dal riconoscimento della fondamentale
importanza di un profondo legame di relazione tra gli uomini: è questa l’unica alternativa al crescente individualismo
basato sull’idolatria del denaro e del potere. Il nostro mondo è frutto di relazioni: tra le persone, con la natura, tra le
istituzioni create dall’uomo. E le relazioni possono generare sfruttamento oppure valorizzazione dell’altro, conflitto
oppure pace. Gran parte di esse non possono essere facilmente classificate come “buone” o “cattive” ma combinano
solidarietà e competizione, concordia e conflitto. Oltrepassare l’attuale crisi è possibile soltanto ricostruendo relazioni,
strutture, comunità e comportamenti responsabili per un buon vivere a livello locale e globale, esplorando quelle periferie geografiche ed esistenziali di recente evocate da Papa Francesco. Sono questi i principi che sostengono lo sforzo
della comunità internazionale alla ricerca di un nuovo quadro che vada oltre gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio.
Il 2015 è l’anno in cui la comunità internazionale prenderà atto dell’attuale livello di realizzazione degli OSM e definirà
una prospettiva globale in grado di consolidarne e rilanciarne gli sforzi. Di fronte a un bilancio non privo di ombre,
è necessario insistere sulla necessità di “non lasciare indietro nessuno” e di intensificare gli sforzi in favore dei più
poveri. Si tratta di un problema che è sempre più visibile anche nel Nord del mondo e in special modo nel nostro
paese, dove l’attività di mense e centri di erogazione di beni primari ha subito un’impennata negli ultimi due anni, a
testimonianza di un aumento della fascia di vulnerabilità. Secondo l’ISTAT, nel 2012 in Italia si trovano in condizione di
povertà relativa il 12,7% delle famiglie (+1,6 punti percentuali sul 2011) e il 15,8% degli individui (+2,2 punti). Si tratta
dei valori più alti dal 1997, anno di inizio delle rilevazioni. La povertà assoluta colpisce invece il 6,8% delle famiglie e
l’8% degli individui (circa 5 milioni di persone), con valori che sono raddoppiati dal 2005 (triplicati nelle sole regioni del
Nord). Nello stesso anno, inoltre, l’indicatore sintetico che considera le persone a rischio di povertà ha quasi raggiunto
il 30%, soglia fondamentale di giustizia sociale che viene superata, tra i paesi dell’Europa a 15, soltanto in Grecia. A
livello mondiale, invece, i dati disponibili presentano una realtà contraddittoria. Se è vero infatti che la percentuale di
popolazione in povertà estrema si è complessivamente dimezzata, in Africa subsahariana essa è diminuita soltanto dal
56% al 48%: esistono quindi vaste aree del pianeta che hanno goduto in misura estremamente limitata dei progressi
conseguiti a livello globale. Assieme allo sforzo da compiere in favore dei più poveri è dunque necessario ripensare
una prospettiva globale che presti la giusta attenzione ai necessari obiettivi quantitativi ma che sappia anche focalizzarsi maggiormente sui temi della disuguaglianza, dei diritti, della sostenibilità. Questi temi devono però essere resi
concreti e vicini attraverso un’attenta lettura delle urgenze locali insieme a quelle globali e attraverso l’identificazione
dei valori chiave che devono ispirare le priorità di azione, in primo luogo educativa.
un pizzico di filosofia
A cura di don Giuliano Zanchi
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arlare del mangiare sembra essere diventato un obbligo sociale, ma per noi credenti è un tema
quotidiano e per noi esseri umani, animali viventi, è proprio questione di vita o di morte; quindi
è un tema per il quale anche l’appuntamento dell’Expo diventa un pretesto, in qualche maniera
superficiale con tutti quei sipari che si aprono dietro.
Le poche cose che elenco qui erano già state scritte, 13 anni or sono, in un libretto che si intitolava “Dare da mangiare” e che appunto significava proprio che il cibo non è solo prendere, ma
nutre soltanto sé c’è qualcuno che te lo dà e se è tema di qualcosa che si riceve.
Mangiare è un atto tipico dell’uomo, l’animale si nutre e ci ciba, ma soltanto l’uomo mangia; per
questo il topolino non fa la Comunione perché non è un uomo, non ha quella distanza simbolica
per cui il cibo può essere segno di altro e non semplicemente il contenuto di una funzione. L’uomo
mentre mangia ha la possibilità di sopravvivere, ma soprattutto afferma la sua umanità e quindi
mette in gioco anche una sorta di grande paradosso simbolico che cerco di dire così: il suo modo
di nutrirsi esprime allo stesso tempo un distacco dalla necessità di alimentarsi, il suo modo di
mangiare è anche far vedere nello stesso tempo che la sua vita non è legata esclusivamente all’atto
che sta compiendo, alla funzione del nutrirsi. Si deve mangiare per vivere, ma non è del cibo che
si vive; è in questa tensione la densità simbolica del mangiare come del resto con il sesso con cui
il cibo condivide profonde relazioni. Il distacco dal dovere biologico di riprodursi è il senso umano
dell’esperienza sessuale, quando si separa e afferma la sua distanza dalla semplice funzione che
esprime e appunto su questo noi misuriamo quanto la codificazione sociale dei costumi sessuali
è stata mortificante per l’uomo perché appunto lo consegnava a un’identificazione quasi senza
uscite con la funzione, anche con delle benedizioni religiose.
Devo mangiare per vivere ma non è del cibo che io vivo: questa è l’esperienza del mangiare umano, ciò che fa la differenza tra il topolino, la pantera che va a caccia e l’essere umano che invece si
mette a tavola con gli altri.
Per comprendere tutta la densità simbolica del mangiare umano bisogna però secondo me inquadrare tutta questa questione del tema, in un tema un po’ più ampio, però interessante e decisivo.
Anche per tutti questi temi come il mangiare e il sesso, che hanno una grande parentela tra di loro,
basterebbe fare un po’ di fenomenologia del bacio, per esempio del bacio affettuoso della mamma
con il bambino, ma anche del bacio erotico di due che si amano, come il modo di baciare in realtà
è un modo di mangiare simbolico e il bacio è simbolicamente intenso, provate a pensare se non è
qualcosa che allo stesso tempo prende e mette senza riuscire a distinguere tra le due cose.
Tutte queste cose vanno inquadrate in un tema più grande che è la matrice corporea del senso,
l’essere umano viene a capo del senso che dà alla vita e al mondo prima di tutti e originariamente
attraverso quella splendida e infallibile macchina percettiva che è il corpo umano.
Cos’è il senso? È il rapporto che l’uomo ha con la realtà, con il mondo e con la vita, che si esprime
elaborando dei significati, dei temi e degli argomenti ma che prima di tutto è percepito. Il senso
è una relazione prima che un insieme di significati e questa relazione si istituisce prima di tutto
attraverso il corpo; l’uomo media la sua relazione con la realtà, cioè percepisce il senso, attraverso
il corpo che è la vera macchina della verità (Grossman, “Con il corpo capisco”: con il corpo noi capiamo al volo tutto, noi capiamo con un colpo d’occhio se quello che ti viene detto è la verità e non
lo si capisce dalla costruzione delle parole, dalla perfezione dell’argomento, lo si capisce da una
luce in fondo agli occhi, dal tono della voce, dalla gestualità più o meno accentuata).
Il corpo è una macchina della verità, non solo perché evolutivamente un essere autocosciente
come l’uomo non può esistere se non a patto di determinate condizioni corporee e questo è un bel
tema che ci insegnano i paleoantropologi quando dicono che un essere umano cosciente sviluppa
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il linguaggio, ha un rapporto simbolico con la realtà e può sviluppare la coscienza nella forma del
desiderio, per cui è questa la differenza capitale con gli animali, con il topolino che non fa la comunione al contrario dell’uomo. Questo è possibile perché l’essere umano si è strutturato secondo
condizioni corporee, che sono uniche, che sono specifiche, che sono di per sé miracolose, che
sono queste dimensioni e non altre e che mettono definitivamente fuorigioco le visioni fantascientifiche (“I viaggi di Gulliver” di Swift dove ci sono gli omini alti 20 cm e dove ci sono i giganti alti 20
m); non potrebbe esistere un uomo alto 20 metri, ma proprio non potrebbe essere un uomo, potrebbe essere un dinosauro che non è un uomo, che non può sviluppare certe funzioni (“Quando
i cavalli avevano le dita”, Guld). Solo a patto di avere un corpo così, l’uomo può essere quello che
è, con queste dimensioni, con queste caratteristiche, con il pollice opponibile, la stazione eretta e
una certa alimentazione che fa in modo che la mandibola sia di un certo tipo e che quindi la testa
prenda una conformazione, il cervello abbia certe dimensioni. Solo così poteva nascere il linguaggio, per esempio, un animale che avesse un sistema mandibolare e muscolare e capite che questo
è legato a come si nutre e a come mangia. Questa è una pista di lavoro.
Un’altra: l’ingresso del cucciolo umano nella ricerca del senso, quindi con cui avere esperienza
del mondo, passa attraverso i sensori del corpo; i neonati, questi animaletti buttati nel mondo,
chiamati a diventare pazientemente degli uomini, lo fanno attraverso il loro corpo con il quale percepiscono il primo alfabeto di decifrazione del senso del mondo, ma proprio l’alfabeto elementare:
alto/basso, lontano/vicino, lo sgomento, la paura, la rassicurazione sono espressioni corporee. Vi
ricorderete qualche neonato che alle soglie dei due anni, un bel giorno come Rocky riesce ad alzarsi sulle due gambe e a stare in piedi e tutti sono lì felici e contenti, e lui è felice e quello è un momento di riscoperta delle dimensioni del mondo. Per il Cre-Grest dell’anno scorso, nel tema della
casa ricordavo il gioco che amano fare i bambini piccoli, per i quali lo spazio è gigantesco, enorme,
dissuasivo e i bambini costruiscono la tana (due sedie, una scopa, una coperta), ricostruiscono
lo spazio che sia a misura del loro corpo perché hanno bisogno di mediazioni, di adattarsi piano
piano al senso dello spazio. Per comprendere la densità simbolica del mangiare umano bisogna
comprenderla in questa dimensione più ampia che ho evocato in modo semplice.
Di tutti i canali di comunicazione, di scambio con cui il corpo dell’uomo interagisce con il mondo, la
bocca e il mangiare sono certamente quelli tra i più decisivi, più degli occhi che sono l’altro canale
che ha a che fare di più con la conoscenza e come sapevano i filosofi greci “teoria” etimologicamente vuol dire vedere. L’occhio è più legato all’esperienza del comprendere, del decifrare e del
sapere.
La bocca come sappiamo è contemporaneamente il luogo del cibo e della parola; Roland Barthes,
scrive “Mangiare, parlare, cantare -è necessario aggiungere baciare?- sono operazioni nate nello
stesso luogo del corpo: si taglia via la lingua, non c’è più gusto né parola” e non c’è più neanche
l’uomo. L’esperienza del mangiare in effetti rimanda, per la ragione che dicevo sopra, alla struttura
del desiderio e contribuisce a determinarla, la struttura del desiderio è ciò che specifica l’uomo.
Desiderio, nel senso di Lacan, desiderio è quello strano, paradossale e irrisolto rapporto che la
coscienza di ogni essere umano ha con l’oggetto del suo desiderio. Piccolo esempio della nostra infanzia, aspettare Santa Lucia o Gesù bambino o chiunque porti il regalo e da bambini ci ricordiamo
tutti cosa significa aspettare un oggetto specifico con una tale intensità, come se quell’oggetto fosse l’ultimo che posso desiderare. E abbiamo tutti esperienza del fatto che due ore dopo quella cosa
è in un angolo e la riflessione che da bambini non potevamo fare, ma ne avevamo la sensazione
“era più bello quando lo aspettavo, di adesso che lo ricevo” e adesso che ho ricevuto ho scoperto
che non è altro che un oggetto, l’oggetto è qui e ne capisco le vere dimensioni ma il mio desiderio
resta e gli è successo qualcosa di strano, è aumentato e l’essere umano vive così, di oggetto in
oggetto, senza avere un oggetto che satura il desiderio, ma il desiderio continua a camminare e
tiene in vita l’uomo. L’oggetto è solo un tramite provvisorio del desiderio, non è mai il suo termine.
Il cibo sta dentro questa logica e per dire come l’esperienza del mangiare articola il desiderio e
articola il senso, uso due punti di vista: esistono dei cibi che parlano (il cibo è una forma di comunicazione) e d’altra parte esistono parole che nutrono e che tengono in vita.
Il cibo parla, struttura la comunicazione, fa segno del senso, il cibo è l’alfabeto primario della
strutturazione della coscienza e dell’io a seguito del più grande trauma che abbia subito nella vita:
nascere. Noi non abbiamo ricordi riflessi di questo esodo che abbiamo vissuto, ne portiamo tracce
inconsce a cui è impossibile risalire, lo possiamo decifrare vedendo nascere. Cos’è nascere, cos’è
questo naufragio?
Immaginate il feto, cosa vuol dire stare nella pancia della mamma come una specie di astronauta
letturae
che fluttua in paradiso, nella felicità, nel totale incanto senza bisogno di mangiare, con la sensazione che il mondo esiste per sé; poi un giorno senza capire cosa succede, viene buttato fuori dal
paradiso, tanto che il bambino quando nasce piange dalla disperazione senza capire la sua colpa,
né dove è finito e l’esperienza del venire al mondo per il neonato è il passaggio da questo mondo
leggero e fluttuante ad un mondo duro. La prima esperienza di un bambino che nasce è di sentire
che è consistente. L’esperienza della nascita è un trauma, è una tragedia, è piombare dentro un
mondo difficile e duro che consiste di oggetti e che non è la morbidezza del paradiso e il bambino
la prima cosa che fa è scuotere la testa, e con le labbra e con le manine cercare, e poi quando ci
vede appena trova qualcosa e il primo modo per misurare la realtà è metterlo in bocca…
In questo diventare esseri umani dopo l’esodo che ci ha fatto uscire dal paradiso terrestre e ci ha
messo al mondo, il codice alimentare è l’alfabeto della cura della madre verso il figlio, è l’alfabeto
dell’emersione della coscienza di sé, è la prima forma di linguaggio; il seno della madre, l’odore
della madre, il cibo che la madre dà in tutte le maniere è il primo modo in cui il bambino comunica
con lei, in cui istituisce la relazione e qui basta guardare un bambino che piange perché ha fame,
è una maschera di disperazione e una denuncia totale nei confronti del mondo “io sto per morire,
sono vuoto, e tu mamma dove sei?” e accoglie il soccorso della madre che lo nutre come una rinnovata promessa di vita. La madre mentre nutre crea la relazione generando la differenza.
Questo processo serve al bambino a rassegnarsi all’idea che lui è una cosa diversa rispetto alla
mamma, a rassegnarsi al fatto di essere se stesso, a rinunciare al sogno della fusione affettiva con
la mamma e lo svezzamento è il processo che costringe a compiere questi passi, a generare l’altro
non solo perché biologicamente l’ho messo al mondo ma perché si convinca, impari e assuma il
compito di essere se stesso; uno impara a essere se stesso quando accetta il fatto di non coincidere
con un altro, in questo caso la madre. In questo il cibo è l’alfabeto primario, staccare dal seno è già
un modo per dire che bisogna avere a che fare con il mondo, con altri cibi.
Partendo da queste esperienze originarie, il cibo resta per sempre anche nell’età adulta, il vocabolario di base dell’identità e della relazione, il mangiare insieme salvaguarda la costruzione
e il mantenimento dell’identità nel quadro della relazione, per esempio il pasto di famiglia come
luogo in cui costruisco la mia identità nella relazione con qualcun altro perché sono due cose indivisibili, come nell’infanzia la coscienza di sé può nascere soltanto perché qualcuno fin dall’inizio
ci guarda negli occhi e ci chiama per nome anche se ancora non abbiamo pensieri, non sappiamo
parlare. Anche nell’età adulta la nostra identità può prendere forma soltanto se attorno ad essa ci
sono relazioni che la riconoscono e con essa interagiscono.
Il modo con cui mangiamo insieme tutti giorni è espressione veritiera e spietata di come procedono questi processi, di come va; per esempio basta entrare in una famiglia e vedere come mangia
per capire cosa sta succedendo, come sono i rapporti, se ci sono resistenze.
Il mangiare struttura la relazione attraverso modi specifici e forme adeguate: il mangiare umano
tende sempre a ritualizzarsi, per esempio la codifica rituale del pasto (orario, posti a tavola personali); quindi il rito tende a servirsi del codice alimentare, tutti i riti umani a loro volta per prendere
corpo hanno bisogno del codice alimentare (festa di compleanno, matrimoni, cena romantica).
Il mangiare si struttura in forme perché il codice alimentare si esprime sempre esteticamente e da
qui tutti i programmi di cucina hanno un po’ questa matrice; il bisogno umano di mangiare è anche quello di farlo con arte, di confezionare e che è una questione estetica nel senso più profondo
(Lévy Strauss che scrive “Il crudo e il cotto” cioè quando l’uomo comincia a mangiare cotto c’è la
costruzione sociale umana e un salto di civiltà).
Questi stessi discorsi posso essere percepiti dall’altro versante: esistono parole che nutrono? Tutto
ciò che porta significato. La parola si comporta come il cibo, anzi ne rappresenta la verità, dice il
senso del mangiare umano che porta con sé il distacco dalla sua mera necessità biologica; per
spiegare cosa vuol dire si può pensare all’esperimento di Federico II, grande imperatore illuminato, che nel XII secolo fa questo esperimento per sapere qual è la lingua delle origini dell’uomo
e per saperlo prende cinque neonati, li affida a cinque nutrici con lo spietato mandato di dare
l’accudimento necessario per sopravvivere, ma senza guardarli e parlare con loro. Federico II rimane senza risposta perché questi cinque bambini si lasciano morire, il cibo senza lo sguardo e
la parola corrispondenti che lo fanno sentire un dono, non nutre. Non serve umanizzare e non
serve nemmeno alla sopravvivenza, il cibo nutre soltanto se è tema del dono, se entra nella logica
del dono come l’idea della manna nel deserto che chiede di non capitalizzare né fare scorte, ma
che è un cibo che nutre solo se non si pretenderà di farlo diventare oggetto della conquista, ma
resterà segno, testimonianza del fatto che questo cibo viene da qualcuno come dono. Solo se il
letturae
cibo è donato alimenta la vita dell’uomo, altrimenti avvelena perché non genera la relazione che
tiene in vita veramente.
Il tema del dono è un tema di fondo, è un tema che torna nella cultura filosofica e sociologica
degli anni ‘90, l’essere umano non vive se non mettendo in atto la logica paradossale del dono
perché mentre retoricamente proclama che il dono deve essere per definizione gratuito e senza
contropartita, nella realtà dei fatti attraverso i meccanismi antropologici e sociali, il dono prevede
un tacito e nascosto e vincolante dovere di ricambiare (pensiamo a quando riceviamo un regalo).
Il dono serve a obbligare la resistenza delle relazioni, a tenerle vive, a obbligare appunto a tenersi
in contatto ricambiando il dono con tutte le complicazioni legate appunto alla reciprocità e alla
consistenza del dono, c’è un dono anche eccessivo; c’è anche un dono che ti impegna così tanto
da imprigionarti e che tu non vorresti (l’invito a cena del potente con l’aspettativa di vincolare), un
dono spropositato che ti vincola per tutta la vita.
Il tema religioso del sacrificio, del sacramento, della grazia e della libertà è un dono di questo tipo,
come ripagare il nostro debito nei confronti del divino che ci dà tutto?
Andando verso la fine, mi ricollego a quanto detto prima e arrivo a Dio che mangia con noi. Le
religioni affidano al codice alimentare la logica sacrificale nella quale si strutturano, cioè il sacrificio arcaico come logica dell’estinzione di un debito impossibile; tutte le religioni da sempre e
di sempre, religione come senso religioso originario dell’uomo nelle sue tante forme e che ha al
centro alcune dinamiche come il tema dell’atto del sacrificio che regola il debito sproporzionato
che l’uomo ha nei confronti del divino. Come ripagare questo debito? Il sacrificio simboleggia la
capacità dell’uomo di restituire qualcosa al divino e normalmente il codice del quale si struttura
è quello alimentare, non semplicemente come gesto di gratitudine, ma anche come sistema che
“ammorbidisce” il divino. Tutto quello a cui l’uomo deve rinunciare per poter recuperare un rapporto accettabile e fruttuoso con il divino; in società arcaiche c’è addirittura il sacrificio umano, poi
in realtà si simbolizza in elementi vicari come animali, sempre cibo che si restituisce.
La religione e la ritualità connessa alla religione fa sempre uso del codice alimentare perché è l’originario dell’uomo e del suo modo di percepire il senso; Gesù nel suo capovolgimento della logica
del sacrificio sposta anche i termini della simbolica alimentare, Gesù sceglie la cena come la logica
che aiuta a decifrare quello che accadrà, il sacrificio vero che va inteso come tutto quello che Dio
è disposto a fare pur di restare alleato dell’uomo e non tutto quello che l’uomo deve sacrificare
per Dio.
La desacralizzazione che Gesù compie della religione, uno dei tratti più salienti del Vangelo è il
fatto che Gesù compie una critica della religione in nome di essa, come deve essere una religione per essere umana e essere la religione del Dio di Gesù; non dobbiamo dimenticare Dio viene
ucciso in nome di Dio. Dentro questo quadro, Gesù con l’Eucarestia cambia proprio il significato
dell’esperienza del sacrificio e il segno di questo è il cambio degli elementi rappresentativi: Gesù
sta celebrando una Pasqua ebraica con degli ebrei e questa pasqua avrebbe al centro l’agnello e il
sangue, ma Gesù introduce e privilegia il pane e il vino che spostano la simbolica nella direzione
della relazione domestica, umana affettiva e dello scambio simbolico.
Prima di chiudere suggerisco altre due piste di lavoro, solo citandole:
- l’inserimento del cibo nel complesso meccanismo della simbolizzazione del consumo, la cultura
del consumo nella quale viviamo che si serve della pubblicità come grande strumento teorico e
persuasivo ha fatto diventare l’oggetto del consumo, come l’oggetto che media il nostro rapporto
con l’immagine, con la nostra identità.
- Il tema della redistribuzione planetaria delle risorse che non è più controllabile da note egemonie planetarie, ma oramai è caotico terreno di un riequilibrio che senza essere guidato chiama in
causa disordine; la questione di ciò che alimenta l’uomo è stata, è e continuerà ad essere ciò che
spiega i grandi conflitti internazionali e quindi la convivenza umana sul pianeta.
Chiudo riferendomi a Matteo 25, dare da mangiare resta un atto umano di fondo come tema del
dono e resta un tema così di fondo che è il tema del giudizio finale “Avevo fame e mi hai dato da
mangiare” e saranno in molti a sorprendersi “ma non bisognava andare a messa? fare la meditazione? Dire il rosario?”, ma non solo; prima di tutto avresti dovuto dare da mangiare a chi aveva
fame.
Siamo chiamati a comportarci da uomini; nel giudizio finale non conterà essere stati grandi religiosi, ma sufficientemente umani; aver mangiato umanamente secondo misura ed essere riusciti a dare da mangiare.
un assaggio di bibbia
A cura di don Tommaso Castiglioni
Mangiare e nutrire
Secondo la prospettiva biblica
GIORNATA DI STUDIO CRE 2015 – 27 settembre 2014
C
letturae
cre-grest 2015 | letturae
on settecento riferimenti all’atto del mangiare possiamo dire con una certa sicurezza che
quel-la del mangiare è una delle immagini dominanti nella Bibbia. Nessuna immagine biblica
com-bina l’aspetto letterale e quello figurativo, l’aspetto fisico e quello spirituale in modo altrettanto inestricabile di quanto faccia l’immagine del mangiare1 .
Per questa riflessione di taglio biblico e teologico prendiamo le mosse da una celebre frase di
Gesù: «Non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio» (Mt 4,4). La
risposta che il Signore diede al tentatore nel deserto ci mette subito in guardia sul rischio di comprendere e considerare l’atto di mangiare come il semplice ingerire delle sostanze atte al sostentamento biolo-gico del corpo. Mangiare è più che «fare il pieno», come ci capita di fare con le nostre
automobili al distributore di benzina. Il mangiare – ce lo ricorda anche la riflessione puramente
filosofica e antro-pologica – è segno (simbolo, in accezione compiuta) della necessità che l’uomo
ha di nutrirsi; è se-gno in altri termini di quel debito costitutivo che ogni essere vivente (pianta,
animale, l’uomo stes-so) ha nei confronti della vita e di colui che lo ha suscitato all’esistenza. Potremmo dire che non ba-sta essere nati, per vivere: continuamente dobbiamo nutrire la nostra
vita. Primo e indispensabile nutrimento è certamente il cibo, senza del quale l’organismo non si
sostiene; ma non possiamo di-menticare che il cibo non basta: l’uomo ha bisogno di affetto, di bellezza, di relazioni per condurre un’esistenza autenticamente umana. Non è forse vero che capita
spesso che gli anziani rifiutino il cibo quando non vedono più prospettive di vita davanti a loro?
Non è neanche infrequente ascoltare di persone che se hanno occasione di «dover» preparare un
pasto per qualcuno, mangiano, altrimen-ti saltano volentieri il pasto.
Affrontare il tema del mangiare a partire dalla prospettiva più ambia del nutrire e del nutrirsi ci
permette anche – alla vigilia delle attività oratoriane della prossima estate 2015 – di porci in
preci-sa sintonia con il tema di EXPO: «Nutrire il pianeta. Energia per la vita». Oltre all’ascolto di
alcune pagine bibliche, sarà nostro riferimento il Theme statement del padiglione che la Santa
Sede realiz-zerà in occasione di EXPO, intitolato «Non di solo pane» 2.
Prendendo le mosse dalla frase già citata del vangelo di Matteo, strutturo il mio intervento in due
1 Cf voce «Mangiare», in L. RYKEN – J.C. WILHOIT – T. LONGMAN III, ed., Le immagini bibliche.
Simboli, figu-re retoriche e temi letterari della Bibbia, Edizioni San Paolo, Cinisello B.mo 2006, orig.
americano 1998.
2 Cf http://www.cultura.va/content/dam/cultura/documenti/pdf/expo.pdf.
letturae
momenti. Anzitutto guardo a come il cibo è presente nella Scrittura (Gesù, affermando che «non
di solo pane» vive l’uomo, implicitamente dice che anche di pane si vive!), per poi concentrarmi
sul di più cui la Bibbia accenna in riferimento al nutrirsi dell’uomo.
1. ANCHE DI PANE
1.1 Coltivare e cucinare
La Bibbia parla del cibo fin dalle sue primissime pagine. Appena dopo aver creato e benedetto
l’uomo, Dio gli indica la sua «dieta»: «Io vi do ogni erba che produce seme e che è su tutta la terra,
e ogni albero fruttifero che produce seme: saranno il vostro cibo» (Gn 1,29). Il mangiare fa dunque
parte della benedizione originaria del Signore, del suo progetto iniziale.
Al contrario, la fatica che richiede la coltivazione dei campi (necessaria per avere di che mangiare)
è conseguenza del peccato dell’uomo, come si legge al capitolo terzo di Genesi: «Maledetto il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita. Spine e cardi produrrà
per te e mangerai l’erba dei campi. Con il sudore del tuo volto mangerai il pane» (Gn 3,17-19). Con
la sua ribellione al comando di Dio, l’uomo non ha soltanto infranto il proprio rapporto col Creatore, ma anche con la creazione stessa, la quale a sua volta non «collabora» più spontaneamente
con l’uomo stesso. Si noti che di fatto all’origine l’uomo – come tutti gli animali – è vegetariano.
Sarà solo dopo il diluvio che Dio, benedicendo nuovamente l’uomo, gli consegnerà l’intero creato
come proprio nutrimento: «Ogni essere che striscia e ha vita vi servirà di cibo: vi do tutto questo,
come già le verdi erbe. Soltanto non mangerete la carne con la sua vita, cioè con il suo sangue»
(Gn 9,3-4).
Appare già a questo punto della narrazione biblica un tema molto importante, che verrà sviluppato successivamente: nell’atto di nutrirsi l’uomo non può lasciarsi guidare solo dal proprio gusto,
sce-gliendo ciò che piace e rigettando ciò che non piace. Nel progetto di Dio c’è una precisa distinzione tra animali puri e altri impuri: dei primi ci si può nutrire, dei secondi no (si legga la precisa
casistica di Lv 11). Al tempo stesso la Bibbia contiene precise raccomandazioni su come preparare
gli ali-menti (ad es. «Non farai cuocere un capretto nel latte di sua madre»: Es 23,19b) né sono
assenti ve-re e proprie ricette sui piatti preparati («Abramo andò in fretta nella tenda, da Sara, e
disse: “Presto, tre misure di fior di farina, impastala e fanne focacce”. All’armento corse lui stesso,
Abramo; prese un vitello tenero e buono e lo diede al servo, che si affrettò a prepararlo. Prese panna e latte fresco insieme con il vitello, che aveva preparato, e li porse [ai suoi ospiti]»: Gn 18,6-8).
Questi dati con-corrono a delineare un concetto di cibo tutt’altro che banale nella Scrittura. Anche
attraverso il cibo passa il rapporto tra uomo e Dio e pertanto anche il nutrimento è regolato precisamente dal Signore stesso. Il concetto di puro e impuro infatti non ha per la Bibbia un riferimento
morale, cioè un giu-dizio sulla bontà o meno, ma vuole indicare come tutta la realtà è sempre
in collegamento con la sfera divina, per cui alcune dimensioni della vita (emblematicamente il
sangue) sono così tanto se-gno della presenza di Dio da non potersi toccare impunemente. Gesù
radicalizzerà il comando anti-co insegnando a riconoscere che ciò che davvero contamina l’uomo
non è il cibo che entra nel suo corpo, ma la malizia che esce da esso (cf Mc 7,18ss).
Proprio perché dono di Dio, gli alimenti da cui l’uomo trae il suo nutrimento devono essere coltivati rispettando colui da cui provengono: collegato al tema del mangiare c’è senz’altro il tema del
cu-stodire il creato. È sempre affascinante ascoltare la benedizione originaria di Dio: «Dio benedisse [l’uomo e la donna] e disse loro: “Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela, dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente che striscia sulla
ter-ra”» (Gn 1,28). L’uomo è presentato come dominus del creato, ma non nel senso che possa
letturae
spadro-neggiarlo, ma che ne deve essere il responsabile, il custode: «Il Signore Dio prese l’uomo e
lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse» (Gn 2,15). Se riconosciamo che il
cibo di cui noi abbiamo bisogno proviene da Dio, dobbiamo impegnarci anche a custodire il mondo
e l’ambiente, senza del quale non è possibile la coltivazione degli alimenti.
Così leggiamo del documento della Santa Sede:
L’evento della creazione è il racconto del primo gesto di nutrimento e di cura da parte di Dio nei
confronti degli uomini. La destinazione universale di questo gesto di Dio si traduce in modo immediato […] nell’indicazione di un compito rivolto ad ognuno di noi: quello della custodia e della
salvaguardia. Il creato ci è stato affidato da Dio come un dono perché lo custodissimo: si tratta di
un mondo da contemplare e non da consumare. […] La storia del cristianesimo è ricca di traduzioni
esemplari di questo compito; e ciò che hanno fatto i monaci e i loro monasteri a livello di recupero
del territorio, oltre che tutti i loro studi sulla natura, in più della conservazione della cultura, sono
esempi che illustrano bene come il tema del nutrire sia all’origine di tutta una riflessione ecologica
in chiave cristiana, che ha come proprio punto focale una ecologia dell’uomo.
1.2 Ospitalità
Un tema particolarmente caro alla tradizione biblica (e più in generale orientale) è quello dell’ospitalità, che coinvolge certamente la dimensione del nutrimento. Abbiamo già ricordato l’episodio in
cui tre uomini visitano Abramo e gli annunciano la futura nascita del sospirato erede. Il racconto
biblico è ricco di dettagli nel descrivere la premura del patriarca che ha anche un preciso riferimento al mangiare: «Appena [Abramo] vide [i tre uomini], corse loro incontro dall’ingresso della tenda
e si prostrò fino a terra, dicendo: “Mio signore, se ho trovato grazia ai tuoi occhi, non passare oltre
senza fermarti dal tuo servo. Si vada a prendere un po’ d’acqua, lavatevi i piedi e ac-comodatevi
sotto l’albero. Andrò a prendere un boccone di pane e ristoratevi; dopo potrete prose-guire, perché è ben per questo che voi siete passati dal vostro servo”» (Gn 18,2-5). Secoli più tardi l’autore
della lettera agli Ebrei commenterà così questo episodio: «Non dimenticate l’ospitalità; al-cuni,
praticandola, senza saperlo hanno accolto degli angeli» (Eb 13,2).
L’ospitalità per l’uomo biblico è dunque sacra, nel senso che è connessa al mistero di Dio. Al tempo
stesso essa si pratica anche dando da mangiare al forestiero, come ci ricorda l’episodio di Elia e
della vedova di Sarepta (1Re 17,7-16). Proprio perché ha accolto il profeta, offrendogli tutto ciò
che le era rimasto da mangiare, la povera vedova riesce a superare la carestia che grava sul pae-se.
Anche il nuovo testamento è ricco di pranzi in cui ospite gradito è Gesù. La scena appare agli
oc-chi dei contemporanei come scandalosa, soprattutto quando Gesù è ospite di uomini poco
racco-mandabili: pensiamo al pubblicano Levi/Matteo (Mt 9,10 // Mc 2,15) oppure al celebre Zaccheo (Lc 19). Non mancano anche contesti più familiari (soprattutto a Betania, a casa di Marta e
Maria: Lc 10,38-42) e veri momenti di festa, come alle nozze di Cana (Gv 2,1-10). Come nel caso
di altri temi classici del giudaismo a lui contemporaneo, Gesù però propone una forte critica a un
concetto solo esteriore di ospitalità, che non parta cioè dal cuore. Emblematico è l’incontro, a
casa di un fari-seo, con la peccatrice della città, che viene esplicitamente lodata perché «ha molto
amato», a diffe-renza del padrone di casa che si era limitato a un’accoglienza fredda e formalistica
(Lc 7,36-50).
1.3 La giustizia sociale
La Bibbia è però anche attenta a mostrare come il tema del cibo e del nutrimento faccia parte di
quei diritti universali di ogni uomo e donna. È molto presente quindi il tema della denuncia di tutte
quelle situazioni di ingiustizia sociale, che portano i più poveri a soccombere di fronte alle difficoltà
della vita.
letturae
In un contesto in cui l’economia è legata all’agricoltura appare di una umanità sorprendente l’indicazione del libro del Levitico di non mietere «fino ai margini del campo», né di raccogliere «ciò
che resta da spigolare della messe». Al momento della vendemmia il comando è di non coglie-re «i
racimoli» né di raccogliere «gli acini caduti»: essi infatti sono per «il povero e il forestiero», ovvero
le due categorie sociali, cui si aggiunge quella delle vedove, maggiormente soggette a indi-genza
(cf Lv 19,9; 23,22).
Nei libri sapienziali troviamo delle raccomandazioni molto esigenti e precise che ci mostrano come il nutrimento è un diritto che precede la bontà o meno di una persona: «Non si disapprova un
la-dro, se ruba per soddisfare l’appetito quando ha fame» (Pro 6,30) oppure: «Se il tuo nemico ha
fa-me, dagli pane da mangiare, se ha sete, dagli acqua da bere, perché così ammasserai carboni
ardenti sul suo capo e il Signore ti ricompenserà» (Pro 23,22s). Particolarmente grave è privare il
povero del nutrimento necessario: «Il pane dei bisognosi è la vita dei poveri, colui che glielo toglie
è un sanguinario. Uccide il prossimo chi gli toglie il nutrimento, versa sangue chi rifiuta il salario
all’operaio» (Sir 34,25-27). Tuttavia il nutrimento non è un diritto che non comporta alcun dovere
da parte dell’uomo; i testi sapienziali infatti avvertono che «la pigrizia fa cadere in torpore, e chi è
indolente patirà la fame» (Pro 19,15).
La prospettiva dei profeti è invece quella di aiutare i propri contemporanei a leggere i segni che Dio
manda nella storia. A Israele spesso è capitato di doversi scontrare con la fame e la carestia: drammatica e realistica è la descrizione del libro delle Lamentazioni. Nella predicazione dei profeti essa
appare come un preciso disegno di Dio, per richiamare a sé il suo popolo che si è allontanato dal
Signore: «Così dice il Signore Dio: “Batti le mani, pesta i piedi e di’: Ohimè, per tutti i loro or-ribili
abomini il popolo d’Israele perirà di spada, di fame e di peste! […] La spada all’esterno, la pe-ste e
la fame di dentro: chi è in campagna perirà di spada, chi è in città sarà divorato dalla fame e dalla
peste… Getteranno l’argento per le strade e il loro oro si cambierà in immondizia, con esso non
si sfameranno, non si riempiranno il ventre, perché è stato per loro causa di peccato”» (Ez 6,11;
7,15.19). Allo stesso modo è impressionante la ricorrenza nel libro di Geremia della triade «fame,
spada e peste», indicata come conseguenza del peccato e della ribellione dell’uomo: essa ricorre
più di venti volte.
Commenta a questo proposito il testo del Vaticano:
Prima di essere mio o tuo, il cibo ci ricorda che il creato è nostro, è di tutti; l’operazione del nutrire diventa in questo modo una via per generare comunione. Una simile acquisizio-ne rischia nel
presente di essere dispersa. […] Emergenze come lo spreco delle risorse e l’enorme diseguaglianza
nella loro distribuzione, con la piaga conseguente e ancora più grave della povertà e della fame;
o il fenomeno altrettanto attuale e ugualmente grave dell’inquinamento e dello sfruttamento selvaggio delle risorse del pianeta contrastano con l’originario disegno creatore e sono il segnale di
un modo ancora molto immaturo di gesti-re l’azione del nutrire.
2. NON DI SOLO PANE
Il testo biblico assegna dunque un’importanza grande e molto concreta al tema del mangiare e alle
tematiche ad esso connesse. Tuttavia c’è anche altro nella vita dell’uomo e la Scrittura si impegna
a indicarlo.
2.1 Nutrirsi della Parola di Dio
Il profeta Amos ha un testo molto bello che indica come l’uomo non si può nutrire solo di pane:
«“Ecco, verranno giorni – oracolo del Signore Dio – in cui manderò la fame nel paese; non fame
di pane né sete di acqua, ma di ascoltare le parole del Signore”. Allora andranno errando da un
letturae
mare all’altro e vagheranno da settentrione a oriente, per cercare la parola del Signore, ma non la
trove-ranno» (Am 8,11-12). Nell’ambito del libro, il riferimento è all’episodio nel quale ad Amos
viene impedito di parlare davanti al re, perché egli è critico nei confronti del sovrano (Am 7,1017). Al contrario, occorre prendere sul serio la parola del profeta, che è l’unica garanzia, dopo la
distruzione del tempio, della presenza di Dio nella storia.
Per comprendere come Dio nutra il suo popolo, dobbiamo rifarci a un momento decisivo e para-digmatico dell’esperienza di Israele: il cammino nel deserto. Nel viaggio dalla schiavitù egiziana
verso la terra promessa, l’incertezza del percorso e la fatica fanno sì che il popolo protesti e mormo-ri contro Dio e contro Mosè. È Dio stesso allora a farsi attento alla paura del popolo donando
l’acqua dalla roccia per saziare la sete (Es 17,1-7) e le quaglie e la manna per saziare la fame (Es
16,1-36). Questa cura provvidente di Dio per il suo popolo è successivamente oggetto di rilettu-ra
da parte dell’Israele credente. Nel libro del Deuteronomio leggiamo infatti queste parole rivolte
da Mosè al popolo per comando di Dio: «Ricordati di tutto il cammino che il Signore, tuo Dio, ti ha
fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere
quello che avevi nel cuore, se tu avresti osservato o no i suoi comandi. Egli dunque ti ha umiliato,
ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non
ave-vano mai conosciuto, per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive
di quanto esce dalla bocca del Signore» (Dt 8,2-3).
In questa prospettiva la «Parola di Dio» rappresenta il giudizio che Dio stesso pone sulla storia degli uomini, quel giudizio capace di giungere nell’interiorità dell’uomo, come afferma la lettera agli
Ebrei: «La parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa pe-netra
fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla, e discer-ne i
sentimenti e i pensieri del cuore» (Lc 4,12). Il testo sembra suggerire che lo sguardo di Dio giunge
ancora più in profondità di quanto il cibo entri nel corpo. Essa dunque richiama il fatto che l’uomo,
che non è mai senza il proprio corpo, è sempre più della propria dimensione materiale.
In questa prospettiva possiamo ben comprendere i costanti richiami della Scrittura alla fiducia nella divina provvidenza, espressione della consapevolezza che è Dio stesso colui che – fin dall’origine
– ha donato all’uomo il suo nutrimento. Comprendiamo allora l’affermazione del salmo: «Tutti da
te aspettano che dia cibo a tempo opportuno. Tu lo provvedi, essi lo raccolgono; apri la tua mano,
si saziano di beni» (Sal 104 [103], 27s). È per questa ragione che nel discorso della montagna Gesù
raccomanda ai suoi discepoli di non preoccuparsi di ciò che mangeranno o berranno, dal momento
che il Padre vostro sa ciò di cui hanno bisogno (cf Mt 6,25).
2.2 Astenersi dal nutrimento
Probabilmente perché ben convinta dell’importanza del nutrirsi, la Bibbia conosce anche la pratica
dell’astensione volontaria dal cibo, cioè il digiuno. Con questo gesto il credente della Bibbia vuole
esprimere la tristezza per il proprio peccato e implora da Dio il perdono. Lo richiamano in modo
convinto i profeti; ascoltiamo per esempio Gioele: «“Or dunque – oracolo del Signore –, ritornate
a me con tutto il cuore, con digiuni, con pianti e lamenti. Laceratevi il cuore e non le vesti, ritornate
al Signore, vostro Dio, perché egli è misericordioso e pietoso, lento all’ira, di grande amore, pronto
a ravvedersi riguardo al male”. Suonate il corno in Sion, proclamate un solenne digiuno, convocate
una riunione sacra» (Gl 2,12-13.15). Sono noti il digiuno collettivo di tutto il popolo di Ninive dopo
la predicazione di Giona (cf Gio 3,5), ma anche atti personali come il digiuno di Davide dopo il suo
peccato con Betzabea (cf 2Sam 12,16ss) o quello della regina Ester prima di entrare alla presenza
del re Artaserse (cf Est 4,16).
Anche in questo caso però la Scrittura si impegna a radicalizzare questa prassi cultuale diffusa in
tutte le religioni, scagliandosi contro un digiunare falso e formalistico: «Ecco, nel giorno del vostro
digiuno curate i vostri affari, angariate tutti i vostri operai. Ecco, voi digiunate fra litigi e alterchi
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e colpendo con pugni iniqui. Non digiunate più come fate oggi, così da fare udire in alto il vostro
chiasso» (Is 58,3-4). Ben diverso è il digiuno che piace al Signore: «…sciogliere le catene inique,
togliere i legami del giogo, rimandare liberi gli oppressi e spezzare ogni giogo… dividere il pane
con l’affamato, introdurre in casa i miseri, senza tetto, vestire uno che vedi nudo, senza trascurare
i tuoi parenti» (Is 58,5-6). Lo stesso Gesù nel discorso della montagna inviterà i suoi discepoli a
non digiunare per farsi vedere dagli altri, accontentandosi dello sguardo benedicente del Padre
dei cieli (cf Mt 6,16-18).
Il documento della Santa Sede in preparazione a EXPO 2015 osserva il valore educativo della pra-tica del digiuno:
Attraverso la disciplina del cibo l’uomo può imparare molto circa il suo legame con il crea-to come
anche circa la sua relazione con Dio. Non soltanto il cristianesimo, ma più am-piamente la stessa
storia delle religioni ci racconta che strumenti come l’ascesi e l’astinenza […] hanno saputo costruire percorsi di educazione in grado di trasformare in modo anche radicale singole persone o gruppi
di persone, rendendoli esemplari e modello di vita, il cui stile resta valido ed attuale ancora oggi.
Accanto al digiuno la Bibbia conosce anche la raccomandazione alla sobrietà: «Quando siedi a
mangiare con uno che ha autorità, bada bene a ciò che ti è messo davanti; mettiti un coltello alla
go-la, se hai molto appetito» (Pro 23,1-2). Allo stesso modo l’equilibrio nel mangiare è una delle
virtù indicate da Paolo nella scelta dei vescovi: «Bisogna che il vescovo sia irreprensibile, marito
di una sola donna, sobrio, prudente, dignitoso, ospitale, capace di insegnare, non dedito al vino,
non vio-lento ma benevolo, non litigioso, non attaccato al denaro» (1Tim 3,7), ma è anche raccomandato per le donne: «Allo stesso modo le donne siano persone degne, non maldicenti, sobrie,
fedeli in tutto» (1Tim 3,11).
2.3 Favorire la comunione
Il cibo nella Bibbia però è soprattutto fonte di comunione. Il valore dell’ospitalità già richiamato,
come pure la dimensione sociale del nutrirsi, trovano il proprio compimento nella dimensione
co-munionale del mangiare e del mangiare insieme. La Bibbia è ricca di banchetti, soprattutto in
quei testi dove si narrano le vicende dei «grandi» della Terra che amavano intrattenersi a tavola
con i propri alleati (cf. i libri di Ester e Giuditta). Il banchetto era già allora la degna conclusione
delle ce-lebrazioni matrimoniali, nelle quali si sancivano alleanze tra famiglie differenti (cf il banchetto – con inganno – che Labano offre a Giacobbe in occasione delle sue nozze in Gn 29,22).
Non manca il condividere il cibo anche in contesti più solenni ed esplicitamente legati alla religio-sità. Emblematico è quanto accade dopo che il re Davide ricondusse nel tempio l’arca del
Signore rubata dai Filistei: «Introdussero dunque l’arca del Signore e la collocarono al suo posto…
Davide offrì olocausti e sacrifici di comunione davanti al Signore… Davide benedisse il popolo nel
nome del Signore degli eserciti e distribuì a tutto il popolo, a tutta la moltitudine d’Israele, uomini
e don-ne, una focaccia di pane per ognuno, una porzione di carne arrostita e una schiacciata di
uva passa» (2Sam 6,18).
In questo contesto è facile per il profeta Isaia descrivere il regno dei cieli come un grande banchet-to escatologico: «Preparerà il Signore degli eserciti per tutti i popoli, su questo monte, un
banchetto di grasse vivande, un banchetto di vini eccellenti, di cibi succulenti, di vini raffinati. Egli
strapperà su questo monte il velo che copriva la faccia di tutti i popoli e la coltre distesa su tutte
le nazioni. Eliminerà la morte per sempre» (Is 25,6-8). Troviamo traccia di questa concezione del
regno di Dio come banchetto anche nei discorsi di Gesù. Si pensi alla parabola che paragona il
regno alla «festa di nozze che un re fece per suo figlio» (Mt 22,2-14) o al severo monito di Mt
8,11s: «Molti verran-no dall’oriente e dall’occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e
Giacobbe nel regno dei cieli, mentre i figli del regno saranno cacciati fuori…». Il libro dell’Apocalisse riprenderà invece l’oracolo di Isaia descrivendo il momento conclusivo della storia dell’umanità
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come il «banchetto delle nozze dell’Agnello» (Ap 19,9) con «la città santa, la Gerusalemme nuova,
che scende dal cie-lo, da Dio, pronta come una sposa per il suo sposo» (Ap 21,2), segno dell’umanità finalmente ricon-ciliata con Dio, che è «beata» proprio perché invitata a partecipare a questo
banchetto (cf Ap 19,9).
Non va dimenticato in questo contesto anche all’unico miracolo compiuto da Gesù e narrato da
tutti e quattro gli evangelisti, quella della cosiddetta «moltiplicazione dei pani e dei pesci». Il gesto
del Signore è sicuramente provocato dalla «commozione» suscitata in lui dal vedere la condizione
delle persone che da giorni lo seguivano: «Poiché vi era molta folla e non avevano da mangiare,
[Gesù] chiamò a sé i discepoli e disse loro: “Sento compassione per la folla; ormai da tre giorni
stanno con me e non hanno da mangiare”» (Mc 8,1-2). Che l’intenzione di Gesù vada oltre al neces-sario prendersi cura della fame della gente è ben attestato da Giovanni, che riconosce come
Gesù volesse mettere alla prova i suoi discepoli , quando li invitò a dare loro da mangiare alla folla
(cf Gv 6,6). Successivamente lo stesso Gesù farà ricordare ai Dodici questo episodio, quando essi
sulla barca saranno preoccupati di aver preso «un solo pane» (cf Mc 8,14-21). In questo modo
Gesù vuo-le educarli a riconoscere in lui il vero pane che sfama l’uomo, come emergerà chiaramente alla vigi-lia della sua Passione
Dobbiamo infatti parlare anche del gesto estremo di comunione che Gesù ha voluto fare con i suoi
discepoli, quando – prima della sua passione – ha cenato per l’ultima volta con i suoi discepoli,
do-po «aver desiderato tanto» farlo (cf Lc 22,15). Nel gesto dello spezzare il pane e distribuire il
calice, la tradizione teologica successiva ha letto il segno dato da Gesù ai suoi discepoli per comprendere e rileggere quanto sarebbe successo di lì a poco. L’arresto, il processo e la morte di Gesù
non sono l’esito infausto di una vicenda sfortunata, bensì l’estremo consegnarsi (nel senso che più
di così non si poteva fare) di Gesù alla volontà del Padre, per la salvezza del mondo. Nell’ultima
cena di Gesù si intrecciano anche le tematiche tipicamente pasquali: è lui il vero agnello che porta
a compimento la Pasqua mosaica, tuttora celebrata dagli ebrei mangiando (!) l’agnello pasquale
(cf Es 12).
L’eucaristia è letta già dai testi neotestamentari in termini comunionali e quindi ultimamente
ec-clesiali. È quanto Paolo richiama con forza ai cristiani di Corinto: «Il calice della benedizione che
noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non
è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un
solo corpo: tutti infatti partecipiamo all’unico pane» (1Cor 10,16-17). A sua volta la comunione è
già dono offerto graziosamente da Dio all’uomo nel battesimo, come Paolo spiega ai Romani: «Per
mezzo del battesimo dunque siamo stati sepolti insieme a lui [letteralmente il greco ha: con-sepolti] nella morte affinché, come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così
an-che noi possiamo camminare in una vita nuova. Se infatti siamo stati intimamente uniti a lui a
so-miglianza della sua morte, lo saremo anche a somiglianza della sua risurrezione» (Rm 6,3-5).
Questo concetto di comunione deve essere inteso in termini dinamici e non statici, né tantomeno
«magici». Ricevuto il dono di condividere la vita del Signore, il credente deve sforzarsi per confor-mare (= rendere simile, con la stessa forma) la sua esistenza a quella di Cristo. Questo è ciò che
lo stesso Paolo confessa essere il suo programma di vita: «Per Cristo ho lasciato perdere tutto…
per-ché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la comunione alle sue sofferenze,
fa-cendomi conforme alla sua morte, nella speranza di giungere alla risurrezione dai morti» (Fil
3,8b.10-11). Per questo occorre superare l’immagine eccessivamente infantile e limitante di Gesù
«che viene nel mio cuoricino» al momento della comunione eucaristica. All’autentica com-prensione del mistero eucaristico giova non poco riscoprire la radice battesimale della vita cristiana e
quindi dell’eucaristia stessa (può essere simpatico ricordare che nel medioevo i teologici si erano
interessati a comprendere se un topolino che mangi accidentalmente delle particole consacrate
fac-cia la comunione, giungendo a escluderlo proprio per il fatto che non è – né può esserlo – battezza-to!).
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Potremmo allora tracciare una sorta di parallelismo tra il nutrimento del cibo e quello dell’eucaristia: come il cibo non serve semplicemente a «riempire la pancia» ma dà forza all’organismo per
realizzare una vita autenticamente umana, così l’eucaristia non serve a «saziare l’anima» per poi
lasciarla oziosamente ferma, ma al contrario offre all’uomo la possibilità di com-piere la propria
vocazione cristiana, appunto quella di conformare la propria esistenza con quella del Signore e
giungere alla santità.
«Non di solo pane vivrà l’uomo» (Lc 4,4). Di che vive allora? La risposta di Gesù è la sua Eucaristia, il
dono totale di sé: «Prendete, mangiate: questo è il mio corpo» (Mt 26,26). Il pane che l’uomo desidera è Dio stesso che si offre in dono. Solo così egli può essere defi-nitivamente saziato. I cristiani,
partecipando ogni domenica all’Eucaristia, sono introdotti nella logica del dono come legge della
vita. L’esistenza umana acquista allora una forma eucaristica, il culto umanamente conveniente
(Rm 12,1)3 .
Per comprendere appieno il senso dell’eucaristia è poi anche fondamentale recuperare – proprio
nell’ottica battesimale – il ruolo dello Spirito santo, che è all’opera in ogni sacramento. Ci è di
grande aiuto una preghiera della liturgia della messa, durante la quale il presbitero dice: «Perché
non viviamo più per noi stessi, ma per Cristo che è morto e risorto per noi, ha mandato, o Padre,
lo Spirito Santo, primo dono ai credenti, a perfezionare la sua opera nel mondo e compiere ogni
santi-ficazione. Ora ti preghiamo, Padre: lo Spirito Santo santifichi questi doni perché diventino
il corpo e il sangue di Gesù Cristo…» (Preghiera eucaristica IV). Lo Spirito che trasforma il pane
e il vino nel corpo e sangue di Cristo è lo stesso che trasforma la vita del credente a somiglianza
di quella di Cristo. Pertanto considerare l’eucaristia come il solo nutrirsi di Gesù è riduttivo tanto
quanto consi-derare che nel gesto del mangiare noi ingeriamo degli alimenti.
A scanso di equivoci, è bene concludere questa riflessione sul tema del mangiare nella Bibbia
ri-chiamando due testi del vangelo di Matteo che ci aiutano a scoprire quanto profondamente la
realtà umana sia attraversata dal mistero di Dio. Concludendo le istruzioni ai suoi discepoli, prima di in-viarli in missione, Gesù afferma: «Chi avrà dato da bere anche un solo bicchiere d’acqua
fresca a uno di questi piccoli perché è un discepolo, in verità io vi dico: non perderà la sua ricompensa» (Mt 10,42). Ancora più sorprendente è la rivelazione della parabola del giudizio universale
che ci permette di comprendere qual è il modo in cui è possibile incontrare il Signore nella vita: «I
giusti risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare,
o asseta-to e ti abbiamo dato da bere? […] E il re risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello
che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”» (Mt 25,37.40).
3 A. SCOLA, Cosa nutre la vita? Expo 2015, Centro Ambrosiano, Milano 2013, 60.
un sorso di expo
A cura di don Cristiano Re
u
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cre-grest 2015 | letturae
EXPO 2015. NUTRIRE PANCIA, TESTA, CUORE.
n’esposizione universale è il momento in cui l’umanità, nel suo complesso, fa il punto su un
tema. Ci si riunisce per dirsi dove siamo arrivati dal punto di vista culturale, tecnologico, artistico, imprenditoriale, professionale, educativo, sociale, ecologico, economico, religioso, e non
solo, su quel determinato tema.
Expo 2015 che si propone al mondo col titolo “Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita”, a partire
proprio da questo prezioso e profondo tema, vuole porsi come pietra miliare nel dibattito planetario sui problemi dell’umanità del Terzo Millennio: il cibo e la sostenibilità.
Per l’affronto delle grandi sfide poste da “Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita”, è stato predisposto un Documento Strategico che vorrebbe essere d’indirizzo affinché Expo possa essere un
vero e proprio evento che ribadisce la necessità di un grosso cambio culturale a partire dal cibo.
I quattro principali filoni tematici sono particolarmente chiarificanti rispetto alla dimensione valoriale educativa di Expo 2015.
• Lotta alla fame
• Sostenibilità
• Salute
• Cibo come strumento di pace e di espressione culturale
Non si tratta dunque solo di chiedersi come è possibile oggi sfamare un’umanità in crescita, ma
passare da un’idea di sviluppo basata su termini meramente economici, a “uno sviluppo integralmente umano nelle sue dimensioni, economica, sociale ed ambientale, che parta dalla dignità
della persona” (Expo Milano 2015, Strategy Document).
Ad oggi 145 Nazioni presenteranno, partendo dalla loro cultura alimentare, lo stato dell’arte del
loro rapporto con l’ambiente da cui traggono l’energia per la vita e che quindi vogliono preservare
come il patrimonio più prezioso.
Circa la metà degli Stati costruiranno un proprio padiglione, gli altri saranno ospitati in settori
dedicati a temi specifici della cultura alimentare: il riso, il caffè, i cereali, eccetera. Un padiglione
sarà interamente dedicato alle organizzazioni non governative. Vi sarà anche un grande parco per
i bambini, la collina delle biodiversità.
Nonostante questa cosa ai più non sia ad oggi troppo chiara, lo scopo di Expo è principalmente
educativo e quindi ogni padiglione dovrà offrire ai visitatori la possibilità di imparare: le installazioni saranno la raffigurazione architettonica del rapporto con l’ambiente di ciascuna nazione
espositrice e luoghi di accoglienza e convivialità.
L’Expo può essere allora un’occasione irripetibile, una sorta di ultimo appello per l’umanità: Vogliamo davvero costruire un mondo senza fame? Come intendiamo farlo?
Non già offrendo risposte preconfezionate, ma indicando la direzione verso cui andare, presentando le proprie buone pratiche, creando le condizioni per un dialogo costruttivo tra i vari attori in
gioco: governi, organismi internazionali, imprese, Ong.
ACCESSO ED ECCESSO
Secondo il Rapporto FAO - Lo stato dell’insicurezza alimentare nel mondo 2013. Le dimensioni multiple della sicurezza alimentare-, nel mondo 842 milioni di persone sono denutrite e oltre 2 milioni
di bambini muoiono ogni anno per mancanza di cibo.
Il diritto al cibo, in termini di quantità e qualità, e il diritto a vivere liberi dalla fame, sebbene af-
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fermati sia dalla Dichiarazione universale dei diritti umani (1948, art. 25) sia dalla Dichiarazione
del Millennio (2000), non sono ancora goduti da tutta l’umanità, malgrado gli sforzi compiuti negli
ultimi vent’anni abbiano portato a una diminuzione del numero di persone che nel mondo soffrono la fame.
A fronte di questo dramma, registriamo il paradosso che si stanno diffondendo le conseguenze
legate a rapporti distorti con il cibo (bulimia e anoressia), ma soprattutto l’eccessiva e disordinata
alimentazione che porta all’obesità.
Secondo i dati diffusi dall’OMS (Organizzazione mondiale della sanità) nel marzo 2014, a livello
mondiale l’obesità è raddoppiata: ci sono oggi 1,4 miliardi di adulti in sovrappeso e 500 milioni di
obesi; il 65% della popolazione mondiale vive in Paesi dove le conseguenze dell’eccesso di cibo
fanno più vittime della malnutrizione.
I due Paesi dove il fenomeno dell’obesità è più diffuso sono le isole del Pacifico, Samoa e Kiribati,
seguite da USA, Germania ed Egitto; l’Italia è al 73esimo posto di questa classifica.
Le preoccupazioni legate all’assunzione eccessiva di cibo riguardano le patologie (disturbi cardiovascolari, ischemie, diabete, ecc.) a cui con maggiore frequenza vanno incontro le persone obese.
Tuttavia, se la malnutrizione è imposta, l’obesità per sovralimentazione è indotta da un sistema
distorto di consumo e di pubblicità; per questo fin dall’età scolare si stanno attivando campagne
educative per incentivare stili di vita più corretti.
CIBO A PERDERE
La FAO, nel rapporto del 2013 L’impronta ecologica degli sprechi alimentari: l’impatto sulle risorse
naturali, ha stimato che a livello mondiale lo spreco alimentare è pari a 1,3 miliardi di tonnellate
all’anno, circa un terzo della produzione totale di cibo destinato al consumo umano.
Le cause sono molteplici: fattori climatici e ambientali che possono portare alla rovina di un raccolto; standard estetici e qualitativi, che spesso conducono all’eliminazione quei prodotti che non
rispecchiano canoni specifici, dal momento che spesso il cibo viene valutato per l’aspetto e non
per le sue reali caratteristiche nutrizionali; leggi di mercato che determinano la maggiore o minore
convenienza nella raccolta di un prodotto; comportamenti dei consumatori, che spesso gettano
cibi perfettamente commestibili solo per mancata informazione sulle etichettature di scadenza.
Secondo il Rapporto FAO, il 54% degli sprechi si verifica “a monte”, durante la fase di produzione,
raccolto e stoccaggio degli alimenti; il 46% avviene invece “a valle”, nel corso delle fasi di trasformazione, distribuzione e consumo.
Si stima che, in termini monetari, la perdita e lo spreco globali di cibo ammontino a mille miliardi
di dollari americani, un terzo dei quali si perdono nei Paesi in via di sviluppo; “risparmiare cibo”
comporterebbe quindi un miglioramento della sicurezza alimentare e nutrizionale anche in queste
aree. Il fatto che il cibo sia diventato relativamente poco costoso per la maggior parte della popolazione dei Paesi sviluppati e che al suo acquisto sia destinata una bassa percentuale del reddito
familiare, fa sì che i consumatori non percepiscano la convenienza di evitare gli sprechi. Al contrario vi è un interesse commerciale a non scoraggiare lo spreco, poiché esso permette di aumentare
i consumi e quindi di far “girare” l’economia, favorendo così la distorsione del sistema alimentare.
Lo spreco di cibo trascina indirettamente quello di altre risorse utilizzate nella filiera agricola (acqua, energia, fertilizzanti, fitofarmaci, ecc.) e contribuisce inoltre ad aumentare la quantità di rifiuti da smaltire, con notevoli impatti ambientali (ad esempio in termini di emissioni di anidride
carbonica): una vera e propria «filiera di sprechi».
DAL PREZZO AL VALORE
Come ogni prodotto sul mercato, oggi il cibo è giudicato per il suo prezzo e non per il suo valore.
Prima dell’acquisto, la domanda giusta dovrebbe essere: «Quanto vale questo alimento?» e non
solo: «Quanto costa?», perché spesso il prezzo finale – pensiamo a frutta e verdura, ma ancor di
più a prodotti tropicali come caffè e cacao – cela ingiustizie nella retribuzione dei produttori e dei
lavoratori della terra. In Italia, come nel resto del mondo, milioni di lavoratori delle campagne non
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vedono ancora rispettati i propri diritti elementari e talvolta i nostri consumi possono rivelarsi
complici di questo sfruttamento.
Inoltre ogni cibo è portatore di un valore culturale, di una storia che è quella del luogo da cui proviene, di chi lo ha lavorato, ed è espressione della varietà della natura. Sempre di più in una società
multietnica come la nostra i diversi alimenti, le abitudini alimentari e i sapori celano patrimoni
culturali difficilmente omologabili, perché rimandano ai legami con la propria terra e a valori quali
la condivisione – quella del cibo consumato insieme ne è archetipo simbolico – la convivialità e
l’ospitalità.
Recuperare il valore del cibo significa considerarlo non solo dal punto di vista economico e smettere di trattarlo come una fra le tante materie prime, su cui lanciare spregiudicate speculazioni
finanziarie. Queste provocano oscillazioni nei prezzi di molti prodotti agricoli (grano, riso, mais,
zucchero, ecc.), per lo più slegate dalle dinamiche della produzione agricola, che rischiano di far
saltare gli equilibri alimentari di intere popolazioni che dipendono da tali derrate, in qualità di
produttori o di consumatori.
NON DI SOLO PANE VIVE L’UOMO.
Assieme a tutto questo ci risulta immediato pensare che il cibo e l’azione del nutrire sono per
l’uomo uno spazio di educazione che è senza paragone e senza precedenti, vista la forza e l’universalità delle dinamiche simboliche in esso contenute. Non c’è cultura che non abbia elaborato riti,
simboli, racconti, calendari e regole al riguardo. Gli uomini e le donne, proprio attraverso l’azione
del nutrirsi, hanno imparato a conoscere la loro identità: il proprio corpo, le relazioni tra di loro e
con il mondo, il creato, il tempo e la storia…
L’esperienza del nutrire può essere un’ottima palestra per imparare ad essere uomini, e maturare
in continuazione. Il pensiero cristiano, proprio perché intende articolare una riflessione sul carattere integrale e unificante dell’operazione antropologica del nutrire, non ha paura a denunciare
tutti quei dualismi che rendono artificiale e non più vera questa esperienza: nutrire il corpo, dimenticandosi dello spirito; nutrirsi di cultura, dimenticando il destino del pianeta; nutrire se stessi,
dimenticando la fame degli altri, la povertà di tante zone del mondo; fare del destino del pianeta
la propria religione, dimenticando chi è l’uomo e il suo destino.
Il cibo e l’operazione antropologica del nutrire sono al cuore dell’esperienza cristiana, e della riflessione culturale e spirituale che ha generato dentro la storia.
DIVENTARE EXPO 2015
Siamo coscienti che sono tante e complesse le questioni legate al nutrimento, tuttavia ciascuno
può fare la sua parte, cominciando a prestare attenzioni concrete a chi ancora non ha accesso sufficiente all’alimentazione, assumendo stili di vita più sani – per quanto è nelle proprie possibilità
– e che tengano conto del valore del cibo e quindi del modo di acquistare e consumare.
Esiste un altro livello di impegno: quello culturale, sociale e politico che parte certamente dal
creare opportunità per riflettere e dialogare su come il cibo rappresenti un asse fondamentale nel
percorso di costruzione di una società più giusta e sostenibile.
Per concludere riprendiamo le parole del cardinale Angelo Scola: Expo 2015 rappresenta una sfida
a valorizzare al massimo i molteplici significati dell’alimentazione e dell’energia, «proponendo al
mondo una visione culturale e nuovi stili di vita in cui i significati tecnico-scientifici e umanistici,
quelli socio-politici ed etici, quelli culturali e religiosi sappiano convivere efficacemente».
Il cammino verso Expo si nutre della dimensione dell’umanesimo, delle relazioni tra le persone
all’interno di un progetto condiviso, e l’appuntamento del 2015 non è un punto di arrivo, ma di
passaggio grazie al quale acquisire maggiore consapevolezza anche sui paradossi che si celano nel
nostro rapporto con il cibo, auspicando un cambiamento delle nostre pratiche e nuove politiche
per la promozione del cibo come bene comune universale.
una manciata di religioni
A cura degli Uffici per la Pastorale Migratoria
e degli Uffici per il Dialogo Interreligioso delle Diocesi Lombarde
P
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cre-grest 2015 | letturae
aese che vai, cibo che trovi: le diverse popolazioni hanno elaborato ricette lungo i secoli, a partire dagli elementi che la natura dava loro. Anche nelle cucine più tradizionali tuttavia vediamo evoluzioni e contributi esterni, che hanno rivoluzionato
l’alimentazione: basti pensare a che cosa sarebbe la pizza senza il pomodoro.
Oltre che dalle risorse naturali, dall’ambiente e dalla cultura, l’alimentazione e la cucina sono da sempre influenzate anche
dalla religione: il cibo è infatti un elemento centrale in ogni cultura. Il simbolismo ad esso legato ci ricorda che il cibo non è
solo un elemento materiale, ma è considerato un dono di Dio e dunque il mangiare è un atto sacro e rituale.
Il rapporto che l’uomo crea con i cibo dice infatti molto del rapporto che egli istaura con la natura, e con Dio: potremmo dire
che l’uomo cucinando e mangiando continua l’opera creatrice di Dio.
Così anche i divieti alimentari e le regole per consumare certi prodotti di cui sono caratterizzate tutte le religioni sono il segno
di questa relazione profonda che attraverso il cibo l’uomo instaura con la natura e con Dio: alla confusione e all’indifferenza
gastronomica, il rispetto delle norme permette al credente di sfruttare una filiera alimentare che partendo dalla creazione
ricostruisce il rapporto con Dio.
L’edizione del Cre-Grest di quest’anno incrocia temporalmente l’EXPO, occasione per sottolineare che il cibo è “energia per la
vita”, ma al tempo stesso anche il mese di Ramadan, mese sacro per i musulmani nel quale sottolineare che il digiuno è “energia
per la fede”.
Nel contesto multireligioso e multiculturale che ormai sempre più caratterizza la nostra società e le nostre comunità è dunque
necessario aprire la riflessone sul cibo anche a orizzonti che fino a qualche anno fa ci parevano esotici, al massimo folklorici, e
che ora sono invece orizzonti quotidiani.
Quanto anche per educare alla diversità religiosa, elemento imprescindibile per superare conflitti o discriminazioni, ma soprattutto ingrediente necessario per costruire comunità sempre più coese non in quanto chiuse, ma in quanto capaci di incontro.
E quale incontro migliore avviene se non quello attorno a un tavolo?
Abituati a mangiare da soli, di fretta, abbiamo bisogno di ricomprendere il nutrirci con uno stile diverso. Anche il tempo del pasto è occasione preziosa per avvicinarci al sacro: incontro con l’uomo e incontro con Dio. Così il riconoscimento dell’altro passa
anche attraverso il riconoscimento del suo modo di vestire, del suo modo di pensare e del suo cibo. Valore che, pur nella logica
delle differenze, coagula molti punti in comune tra le diverse religioni.
Tutti i pensieri religiosi infatti considerano il cibo come dono di Dio: per questo in ogni religione esiste l’invito a una preghiera
di ringraziamento prima e dopo i pasti.
Ancora: tra le pratiche alimentari più diffuse vi è quella dell’astinenza e del digiuno. Astenersi dal cibo o da alcuni cibi non è
contro Dio: la rinuncia ha un valore sacrale e comunitario, è incontro con Dio e comunione con i fratelli, spesso i più poveri che
non sempre hanno accesso al cibo.
La festa è poi caratterizzata anche da una diversità alimentare, non solo nella quantità, ma anche nella qualità. Il menù festivo,
in ogni religione si differenzia da quello quotidiano perché anche il menù possa rimandare al significato religioso della festa.
Possiamo dunque dire che le diverse appartenenze religiose non possono non riconoscere in ambito alimentare molti punti
in comune: nella varia esperienza del sacro, la tavola si pone come momento di incontro tra Dio e gli uomini: la preghiera, il
digiuno e la festa ci ricordano che anche il mangiare è una via di accesso al mondo divino.
Così attorno a un tavolo, variopinto e variegato, potremo costruire un luogo (non unico ma certamente privilegiato) per costruire l’incontro delle diversità.
Auspicando quindi che l’edizione del Cre-Grest di quest’anno possa essere occasione propizia per l’incontro e la convivenza di
ragazzi provenienti da tradizioni religiose diverse, gli Uffici per la Pastorale dei Migranti e l’Ufficio per il Dialogo Interreligioso
delle diocesi della Lombardia hanno chiesto di poter introdurre questa scheda per il sussidio del Cre-Grest 2105 per valorizzare
la concomitanza con l’EXPO, nonché il mese sacro del Ramadan che inizierà presumibilmente il 18 giugno: come “dare casa”
anche nel Cre-Grest a questa significativa (il digiuno) esperienza quotidiana di fede che molti uomini, donne e bambini (alcuni
dei quali frequentano il Cre-Grest come utenti o animatori) che abitano tra noi vivranno proprio in concomitanza con il CreGrest 2015?
Le singole schede elaborate sulle singole religioni contengono:
• Presentazione e spiegazione del valore del cibo e delle regole alimentari
• Cibo e senso del digiuno
• Cibo e festa
• Un simbolo
• Alcune proposte operative
una manciata di religioni
Islam
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cre-grest 2015 | letturae
IFTAR
Durante il mese di Ramadan i musulmani
digiunano dall’alba al tramonto. Il digiuno
quotidiano si interrompe con l’IFTAR (in arabo:
‫)إفطار‬, cena tradizionale con significato religioso.
Al tramonto del sole, dopo la preghiera del
Maghrib (che significa appunto preghiera del
tramonto), le famiglie musulmane si ritrovano
insieme, per consumare il pasto in un clima
festoso. La tradizione vuole che si mangino
inizialmente dei datteri, in ricordo del modo in
cui Muhammad rompeva il digiuno.
Il cibo e le regole alimentari
Come nell’ebraismo e nel cristianesimo, anche
nell’islam vi sono alcune regole economiche, sociali, giuridiche e anche alcune regole alimentari: sono
la modalità quotidiana attraverso cui un musulmano concretizza gli insegnamenti del Corano e di
Muhammad.
I musulmani possono mangiare e bene quasi tutto, rispettando tre regole principali:
1. Non mangiano la carne di maiale e qualsiasi cibo che contenga suoi derivati;
2. Non bevono bevande alcoliche;
3. Non consumano carne che non sia stata macellata in modalità appropriata. Pronunciando la basmala
(“Bismi-llah al-Rahman al-Rahim”: “Nel nome di Dio clemente e misericordioso”) si sgozzano gli animali
in modo che il sangue defluisca dall’animale. Questa procedura rende la carne halah (lecita).
Per i musulmani che vivono in paesi non a maggioranza islamica, si stanno attrezzando centri di
distribuzione di cibo islamicamente lecito (come le macellerie halal): anche i ristoranti e le mense
offrono ormai da tempo cibi con la certificazione halal.
Secondo la tradizione, un musulmano mangia con la mano destra, e prima del pasto recita la basmala.
Nessun problema quando si mangia con non musulmani, purché si rispettino le proprie regole alimentari
Il digiuno nel mese di Ramadan
Sentiamo spesso parlare di Ramadan: per la maggior parte di noi indica il digiuno dei musulmani,
uno dei pilasti dell’islam. In effetti il digiuno di Ramadan è quello più conosciuto e praticato presso
i musulmani, ma non l’unico. Il termine Ramadan indica il nono mese del calendario islamico, mese
sacro dall’Islam, non solo per il fatto che è il mese del digiuno, ma anche perché è: “Il mese in cui fu
fatto discendere il Corano come guida per gli uomini e prova chiara di retta direzione e salvezza” (Sura
II, v. 185).
Il digiuno, durante il sacro mese di Ramadan, è uno dei cosiddetti “pilastri dell’islam”, atto basilare di
culto: ogni musulmano, tranne alcune categorie come gli anziani e gli ammalati, è tenuto a compiere
questi cinque gesti, segno della loro religiosità.
N.B.: All’inizio del mese di digiuno potete salutare i vostri amici musulmani augurando loro «Ramadan
mubarak» oppure «Ramadan karim» («Ramadan benedetto»): contraccambieranno con l’auspicio
«Ramadan karim» («Ramadan generoso»), oppure «Allahu Akram» (Dio è il più generoso).
letturae
La festa per la fine del digiuno: ‘Aid al-Fitr
Avvicinandosi la sera dell’ultimo giorno di Ramadan, i musulmani attendono con impazienza
l’avvistamento della luna nuova, il segnale che indica la fine del mese di digiuno e l’inizio di una delle
due festività più importanti dell’anno: ‘Aid al-Fitr (l’altra è la Festa del sacrifico – ‘Aid al-Adha, alla fine
del pellegrinaggio). Questo momento di festa dura tre giorni, che si aprono nella moschea con una
preghiera (Salat) speciale accompagnata da un discorso.
I fedeli offrono ai poveri un’elemosina particolare (Zakat al-Fitr); secondo le usanze dei diversi paesi
la gente in quei giorni si scambia visite, piccoli doni, si preparano cibi tradizionali e si visitano anche i
cimiteri.
In Italia lo si conosce soprattutto come frutto esotico
che arricchisce le tavole imbandite delle festività
natalizie. Il dattero è probabilmente il cibo più
consumato durante il mese di Ramadan: ogni sera,
infatti, l’astinenza viene rotta, ad imitazione del
Profeta, mangiando o uno o tre datteri.
N.B.: Durante l’‘Aid al-Fitr salutate i vostri amici musulmani con la formula «‘Aid mubarak» («Festa
benedetto»): vi risponderanno augurando «‘Aid karim» («Festa generosa»).
Alcune proposte operative
1. La realizzazione di un IFTAR CONDIVISO (il pasto/rito di rottura del digiuno all’ora del tramonto)
da organizzare in oratorio (o presso il vicino Centro Culturale Islamico, in una piazza, nel cortile di un
condominio…), in collaborazione con gruppi formali o informali di cittadini di religione musulmana.
2. La promozione di una esperienza (una giornata?) di DIGIUNO, nella quale sentirsi maggiormente
prossimo a chi sta vivendo il mese di Ramadan e che potrebbe concludersi con la condivisione dell’Iftar.
3. La VISITA al Centro Culturale Islamico più vicino.
4. La raccolta di TESTIMONIANZE e STORIE sui vissuti legati al Ramadan (nel paese di origine, in terra di
emigrazione, la mia prima volta…), così come del MENÙ tipico dell’Iftar o della RICETTA di qualche dolce
caratteristico del mese di Ramadan.
5. La preparazione e il recapito degli AUGURI per l’‘Aid al-Fitr, la festa di fine Ramadan, che possono
essere arricchiti dalla lettera che ogni anno il Pontificio Consiglio per il Dialogo interreligioso elabora e
collegati con le iniziative predisposte dalla comunità cristiana locale (ormai da anni diversi Vescovi delle
Diocesi lombarde colgono questa occasione per inviare i loro auguri ai centri culturali islamici e a tutti
i musulmani).
6. Il lancio di una ricerca-gioco sulle date del CALENDARIO ISLAMICO di questo e dei prossimi anni,
nonché sugli orari della preghiera e di inizio o fine del digiuno quotidiano (che cambiano ogni giorno,
secondo la posizione del sole).
PREGHIERA
‫سما للها لرحمنا لرحيم‬
Nel nome di Dio Clemente e Misericordioso
‫ا للهم ب ارك ل ناف ما ر زقتنا‬
‫و ر زقنا خ يرا م نه‬
‫و ق نا ع ذاب ا لنار‬
Oh Signore, benedici ciò che ci hai donato,
donacene sempre di migliore,
ed allontanaci dal Castigo dell’Inferno