“Le tragedie e i troppi conformismi”

ALTO ADIGE - TRENTINO
26 marzo 2015 prima pagina
“Le tragedie e i troppi conformismi”
di Giuseppe Raspadori
L'ineffabile Marco Quarta ha posto termine al suo stranito girovagare nel modo più simbolico dei
luoghi comuni che van per la maggiore: se mai avesse pensato di passare inosservato nella
proverbiale anomia di un centro commerciale, lo sciame anonimo di Bauman ha risposto alla
chiamata del “chi l'ha visto” televisivo della sera prima e la folla senza volto ha riconosciuto il volto
oggetto dell'informazione mediatica di massa. Fine.
Ma non s'è ancor spenta quella triste eco, per cui si ode a destra uno squillo di tromba, che a
sinistra risponde uno squillo...
Trento e Bolzano agli onori della cronaca nera, Marco e Carmela, Ester e Alessandro, non cambia
molto, almeno per il povero uomo, se trattasi di suicidio od omicidio, un incontro amoroso si è
risolto in teatro di sangue, speriamo comunque che non debbano salire a cento, gli “ominicidi”, per
pareggiar le sorti di uomini e donne, e far precipitare l'emancipazione nel suo contrario, il
primitivismo.
É da un pezzo che dico che l'apparente verità per cui si parla di “femminicidi” è fuorviante. A
partire dal numero delle vittime si incanalano ragionamenti e coscienze su un aspetto, certamente
vero fino all'ovvietà, la maggior forza fisica degli uomini nel confronto con le donne, ma del tutto
parziale e subordinato ad una realtà più ampia che poco viene affrontata.
Avevi ragione, caro direttore, a scrivere dieci giorni fa, dopo Zivignago, che bisognava porsi una
grossa questione culturale. Di antropologia culturale.
È in corso una guerra, non solo legale, ma fatta di maltrattamenti, soprusi, ricatti, vendette, colpi
bassi, odi e rancori, tra uomini e donne. E i fatti di sangue sono solo un granello di questa realtà.
Diverse migliaia sono, anche nella nostra regione, gli uomini e le donne coinvolti ciecamente nella
guerra delle “separazioni”. Con appresso, al seguito, a fianco, ma spesso anche alla testa, di schiere
di avvocati, assistenti sociali, psicologi, che fomentano gli spiriti battaglieri dell'affermazione
individualistica delle proprie ragioni, delle proprie emozioni, dei propri tornaconto.
Qualche giorno fa, su questo giornale, un'anima bella ha suggerito corsi di difesa personale per le
donne che si sposano, vabbé, vediamo di non volerci ritagliare troppi posti nel retroterra delle
vettovaglie di questo lacerante campo di battaglia.
Questa società, che nell'ebbrezza delle nuove libertà, stenta a coniugare la libertà con il rispetto
dell'altro, indulge, peggio, rimane ancorata, a tutti i vecchi modelli di legami sentimentali, sempre
pronti, uomini e donne, a gridare al tradimento, alle pretese dell'amor per sempre, all'onore offeso,
per trasformare le relazioni in bivacco delle prevaricazioni e delle subalternità.
È certo che gli uomini e le donne tanto conoscono le parole e gli abiti della seduzione e degli
incontri, quanto sono privi di parole per fronteggiare la fine delle storie amorose.
Tutto si trasforma in delusione, rabbia, ferita narcisistica, quanto all'inizio era semplice proiezione
di felicità e di fiabeschi sogni.
La bellezza delle relazioni che si prolungano nel tempo rimangono, volenti o nolenti, terreno di
responsabilità, di impegno, di comunicazione vera, di attrazione per l'infinita diversità dell'altro con
cui si desidera concertare una costruzione.
Chi vuole andar agli incontri secondo “chimica”, come si dice, vada, ma non pretenda di piegare
alla durata una infatuazione, che per natura rimane cosa fuggevole come l'incanto.
Non tutto è perduto: qualche giorno fa una bella coppia si è presentata in tribunale e dandosi la
mano ha chiesto la separazione, riconoscenti l'un l'altro dell'esperienza vissuta assieme anche se la
consideravano ultimata, “grazie, è stato bello così, non perdiamoci di vista”, poi sono andati a
pranzo.