! ! ! giorgio!gualdrini!architetto!!"via"Severoli"18"!"48018"Faenza!tel."0456"29237" e"mail:""[email protected]""!""cell."347"1453029" sito"web:"www.giorgiogualdrini.it" Faenza, 30-04-2014 Al Consiglio Nazionale di Italia Nostra Roma Al Consiglio Regionale di Italia Nostra Bologna Al Consiglio Direttivo di Italia Nostra Faenza e p.c. Arch. Antonella Ranaldi, Soprintendente per i beni architettonici e paesaggistici Ravenna Arch. Carla Di Francesco Direttrice regionale per i beni culturali e paesaggistici Bologna S.E. Mons. Claudio Stagni Faenza Prof. Salvatore Settis Scuola Normale Superiore Pisa Prof. Tomaso Montanari Dipartimento di Studi Umanistici Università ‘Federico II’ Napoli Oggetto: L’ADEGUAMENTO LITURGICO DEL PRESBITERIO DELLA CATTEDRALE DI FAENZA. UNA RISPOSTA A ITALIA NOSTRA E L’INVITO A UN DIALOGO PUBBLICO Allegati: Nulla Osta della Soprintendenza di Ravenna Documento di Italia Nostra (Bologna, Faenza) Ho desiderato attendere questi giorni successivi alla Pasqua per rispondere al documento redatto dall’architetto Anna Marina Foschi a nome del direttivo regionale di Italia Nostra e dalla dottoressa Marcella Vitali, presidente della sezione faentina (“Sette Sere” dell’11-042014). Premetto che l’affermazione “ Sembra che (i nuovi arredi liturgici) siano stati concepiti, e collocati, da chi non aveva acquisito nessuna preventiva conoscenza dello stato dei luoghi: e, irriverentemente, non avesse nessun interesse verso la sacralità del luogo”, potrebbe configurarsi come “ dichiarazione lesiva dell’altrui reputazione” ai sensi della sentenza n. 5677 del 16/3/2005 (Corte di Cassazione, III sezione Civile). Ora, a questa “via giudiziaria” non ricorrerò ritenendo che la coscienza di ognuno in dialogo con la coscienza degli altri sia più importante di qualunque soddisfazione ottenuta attraverso la sentenza di un tribunale. Alle osservazioni di Italia Nostra avevo pensato di rispondere usando semplicemente il termine “tacet” come recita il titolo di un prezioso libretto, ora ristampato da Adelphi, scritto dal compianto italianista dell’Università di Friburgo padre Giovanni Pozzi che, assieme al professor Ezio Raimondi (anch’egli da poco scomparso), fu ospite della Biblioteca Zucchini per un incontro pubblico sul tema “La parola e l’immagine”. Si trattò di uno dei più di cento dialoghi fra credenti e non credenti che l’associazione culturale da me presieduta nei due decenni a cavallo del terzo millennio organizzò per la città di Faenza. Fra i tantissimi relatori fu nostro ospite anche Francesco dal Co, professore ordinario di storia dell’architettura all’Università di Venezia nonché direttore di “Casabella”, una delle più importanti riviste italiane di architettura. Ricordo che, mentre Dal Co motivava la legittimità degli interventi moderni in alcuni edifici del passato, fu contestato da uno stimabile studioso dell’architettura faentina oggi scomparso. Io, in quell’ occasione, mi limitai a rammentare il passo biblico in cui Qohelet afferma che non è mai ispirato a saggezza ritenere bello e buono tutto ciò che è vecchio e brutto e cattivo tutto ciò che è nuovo (Qo, 7,10). Se le pungenti osservazioni di Italia Nostra avessero riguardato qualche mia pubblicazione o qualche mio progetto per altri luoghi e contesti avrei scelto il silenzio (il tacet di Giovanni Pozzi). Trattandosi invece di una realizzazione all’interno della Cattedrale di Faenza (l’edificio che più ho analizzato lungo molti anni di studio sull’architettura sacra in Italia e in Europa) sento l’esigenza di rispondere alle dure critiche rivolte in modo sprezzante (ciò che sconcerta è il tono del documento) a me, al mio progetto e, implicitamente, alla Soprintendenza di Ravenna che, nelle persone degli architetti Antonella Ranaldi e Valter Piazza, l’ha prima accompagnato, poi approvato e infine molto apprezzato alla conclusione dei lavori (FIG. 1). Tali critiche risultano inoltre implicitamente rivolte anche alla “Commissione Diocesana d’arte sacra” che ha approvato il progetto all’unanimità e della quale fanno parte, fra gli altri, la storica dell’arte Anna Tambini, la critica d’arte Santa Cortesi, il prof. Pietro Lenzini e gli architetti Franco Bertoni, Filippo Monti e Roberto Ravagli, il tecnico della curia diocesana che ha curato la nuova illuminazione della Cattedrale. Adeguamenti Il tema degli adeguamenti liturgici è un capitolo della più ampia questione del riuso degli edifici di interesse storico-artistico. Basti solo l’esempio della trasformazione di un antico palazzo nobiliare, di una chiesa dismessa, di un antico convento in una struttura museale adeguata alle nuove esigenze d’uso (corretta illuminazione delle opere d’arte, ricambi d’aria, reti impiantistiche, scale antincendio e tutte le strutture di prevenzione dal rischio sismico). Chi cerca di lavorare con un certo scrupolo in questo settore della disciplina architettonica avverte spesso il difficile equilibrio fra “conservazione” e “trasformazione”, fra antico e nuovo. L’esito di ogni adeguamento funzionale di un edificio a noi consegnato dalla storia passata determina una diversa percezione delle sue forme originarie. Un solo esempio. In un antico convento trasformato in museo l’integrale visione delle membrature architettoniche è spesso impedita dai pannelli espositivi (fissi o mobili) che affollano, assieme ai turisti, gli antichi spazi un tempo attraversati dal silente camminare e sostare dei monaci. È il problema dei “nuovi contesti” delle opere d’arte intorno ai quali esiste una sterminata ma non concorde letteratura che affonda le proprie radici nella seconda metà del XVIII secolo. Quello di cui qui si parla è un contesto antico che ha mantenuto, nei secoli, la sua originaria funzione. Ora, il Vescovo alla guida della comunità cristiana che si raccoglie nel principale luogo di culto della Diocesi ha ritenuto giusto conferire un più organico assetto allo spazio liturgico della Cattedrale. Questa scelta del committente - l’albertiana inventio è poi stata filtrata dai consigli distributivi del liturgista - l’albertiana dispositio - per giungere infine alla concreta progettazione dell’opera - l’albertiana compositio. (L. B. Alberti, De pictura (1435).Editio princeps Basilea, 1540, a cura di C. Grayson, Laterza Bari, 1980). Ora, è naturale che gli apprezzamenti e le critiche si concentrino non tanto sulle premesse funzionali quanto soprattutto sull’esito estetico del lavoro svolto. Critiche Ogni critica (quando non lesiva della dignità umana e professionale di una persona) è sempre legittima. Critica deriva da krinein che vuol dire sia giudicare che dividere. Se all’interno della città dell’uomo (la polis) il consenso fosse unanime, in ogni individuo geloso della libertà del pensiero di tutti dovrebbe sorgere più di un sospetto. Non a caso polis deriva da polemos che significa polemica, conflitto, divisione. Quando la polemica è fondata sul rispetto dell’interlocutore e sulla approfondita conoscenza del problema (e in questo caso del luogo) su cui si dibatte il beneficio per la comunità civile e religiosa risulta indubbio anche quando i pareri restano radicalmente diversi. Proprio non riesco a capire perché, in nome della sacrosanta libertà di pensiero e di militanza ideologica, si debba rinunciare a dare importanza al tono e alla misura delle parole. È ancora Qohelet, una figura biblica che mi accompagna da molti anni, a dire: “le tue parole siano sempre misurate” (Qo, 5,1). Confesso che avevo serenamente previsto l’emergere di circostanziate critiche al mio progetto, redatto in seguito a un inaspettato incarico del vescovo Claudio Stagni dopo più di vent’anni da me dedicati allo studio particolareggiato della cattedrale faentina e dopo un ormai dimenticato Concorso Nazionale vinto nel 1989 dal gruppo da me guidato del quale facevano parte anche l’architetto Ebe Montanari e il professor Goffredo Gaeta. Ora, proprio qui sta il punto. Presupponendo (da parte di un’associazione come Italia Nostra) un certa cognizione della storia delle trasformazioni cui è stato sottoposto, in cinque secoli, il duomo faentino, i rilievi del Consiglio Regionale e del direttivo locale non sembrano denotare una conoscenza delle vicende che hanno caratterizzato la vita del più importante monumento della città quantomeno negli ultimi cinquant’anni; quelli che hanno fatto seguito alla riforma liturgica del Concilio Vaticano II. Alterazioni? Se i dirigenti di Italia Nostra, ricevuto l’invito, fossero stati presenti all’inaugurazione del 28 marzo (nel corso della quale su un grande schermo ho proiettato diversi grafici che ricostruiscono la storia del presbiterio dal progetto di Giuliano da Maiano fino alla fine del 2013) non avrebbero potuto scrivere che il carattere dell’operazione odierna “altera la percezione consolidata nel tempo dello spazio presbiteriale e si configura come l’alterazione di un assetto storico consolidato”. L’operazione odierna riproduce infatti la distribuzione dei poli liturgici che il duomo faentino ha conosciuto negli ultimi dieci lustri (Fig. 1). Oltre a una disposizione del nuovo altare in posizione più arretrata rispetto a quella consolidatasi nel post-concilio, io avevo esplorato diverse ipotesi di ubicazione della cattedra episcopale effettuando simulazioni tridimensionali in ordine alla sua visibilità da parte dell’assemblea dei fedeli, alla fluidità dei percorsi liturgici e all’ingombro del manufatto qualora esso fosse posizionato ai piedi del vecchio e dismesso altare maggiore oppure in fregio ai sedili di destra (Figg. 2-3). L’esito liturgicamente non convincente delle varie soluzioni esplorate ha ricondotto la localizzazione della cattedra episcopale all’ultimo stadio della gradinata del manufatto settecentesco, da tempo divenuto - agli occhi dei fedeli - un fondale prospettico che delimita lo spazio dell’azione liturgica. Nessuna innovazione, quindi, rispetto “all’assetto storico consolidato” da cinquant’anni (Fig. 4). Solo l’ambone è stato leggermente slittato in avanti volendo con questa scelta sottolineare che la Parola di Dio, come la mensa eucaristica, si porge ai fedeli proprio a partire dalla linea di giuntura fra il presbiterio e l’aula. Tengo a precisare che in ottobre (tre mesi prima dell’avvio del cantiere) invitai a visionare il progetto la dottoressa Marcella Vitali, che io stimo per le sue ricerche sull’arte neoclassica e che ben conosce (penso) alcuni miei lavori e alcune mie pubblicazioni. Lei stessa, qualche tempo fa, mi aveva invitato a tenere conferenze ai soci dell’associazione da lei presieduta. Purtroppo la dottoressa Vitali mi comunicò per posta elettronica di non volere né partecipare alla conferenza stampa, né visionare il mio progetto redatto in più di sessanta tavole fra analisi storiche, spaziali, materiche e relazioni storico artistiche, né ricevere in omaggio l’agile fascicolo stampato per presentare alla città il lavoro che avrebbe preso il via dopo qualche mese. Sta di fatto che la dottoressa Vitali mi disse che il progetto del nuovo assetto dell’area presbiterale avrebbe voluto vederlo prima dell’approvazione da parte della Soprintendenza e io non capii se per suggerire qualche consiglio oppure per cercare, in tutti i modi, di bloccarlo Se avesse accolto gli inviti avrebbe compreso l’ampiezza delle ricerche preliminari e le motivazioni (ovviamente criticabili) di ogni scelta, a cominciare dalla bianca “pietra del Paradiso” (l’onice di Genesi 2,12) e dal nuovo altare quadrato. L’altare quadrato Ho progettato la mensa eucaristica con pianta quadrata per imprimere nel principale polo della liturgia cristiana la ratio matematica che ispirò il progetto modulare di Giuliano da Maiano e alla quale dedicai un saggio intitolato “La geometria progettuale fra empirismo medievale e nuova architettura”, pubblicato nella monografia curata dal compianto architetto mons. Antonio Savioli “Faenza. La basilica Cattedrale” (Nardini Editore, Firenze, 1988) e successivamente ampliato in occasione del Convegno Nazionale su Giuliano da Maiano (G. Gualdrini, Spazio architettonico e spazio liturgico della Cattedrale di Faenza prima e dopo il Concilio Ecumenico Vaticano II. In AA.VV. Giornata di studio in onore di Giuliano da Maiano, Società Torricelliana di Scienze e Lettere, 1992, pp.125-182). Concludevo quel vecchio studio con un passo del libro “Principi architettonici dell’età dell’umanesimo” pubblicato in Italia da Einaudi nel 1964. In questo volume, presto diventato un “classico” conosciuto da tutti gli storici dell’architettura e dell’arte, Rudolf Wittkower scriveva: “Durante il rinascimento la proporzione metrica fu il principio guida dell’ordine e rivela l’armonia fra tutte le parti e fra le parti e il tutto. Anche per questo motivo gli architetti rinascimentali, assai più di quelli medievali, abbracciarono il sistema modulare di Vitruvio, nel quale era contenuta l’unica garanzia di un rapporto razionale costante in tutto l’edificio. Se guardiamo alla geometria, potremmo scegliere come esempio il quadrato, poiché il quadrato ebbe una parte eccezionale nella proporzionalità rinascimentale. […] Durante il Rinascimento gli artisti si resero conto dei semplici rapporti numerici fra i lati del quadrato e nel rapporto 1:1 (musicalmente l’unisono) una mente rinascimentale trovava la perfetta bellezza e armonia” (ivi, pp.152-153) (Fig. 5). Il Concorso Nazionale del 1989 Ricordo che, nelle motivazioni del primo premio al Concorso Nazionale del 1989, fu proprio il riferimento progettuale a questa geometrica ratio a motivare l’apprezzamento della Commissione Giudicatrice presieduta dal professor Giorgio Trebbi dell’Università di Bologna che io, allora, non conoscevo se non per fama accademica. Di quel progetto (una lastra modulare semplicemente appoggiata sulla pavimentazione dell’aula, a configurare un presbiterio esteso fin sotto la cupola) non si fece nulla. Pur risultando reversibile, discreta e soprattutto trasparente (la piastra d’addizione era composta da grandi moduli in vetro e marmo) la proposta di intervento non fu accolta favorevolmente da buona parte del clero faentino che giustamente sottolineò alcuni nodi che nel mio lavoro restavano irrisolti (Fig.6). Portando l’altare e l’ambone nel centro croce si sarebbe sì favorita, secondo il dettato conciliare, l’integrazione dell’assemblea con la celebrazione eucaristica ma questo nuovo assetto non avrebbe tenuto nella giusta considerazione la tradizione devozionale dei fedeli faentini che sarebbero stati costretti a volgere, da un lato, le spalle alla Cappella della Madonna delle Grazie e, dall’altro, i fianchi alla Cappella del Santissimo Sacramento. Ci furono anche legittime critiche di carattere storico-artistico in ordine al prolungamento del presbiterio: un’opzione non espressamente caldeggiata ma nemmeno esclusa dai documenti post-conciliari. In altre cattedrali questa estensione dello spazio presbiterale ha poi avuto numerose traduzioni pratiche, oggetto - come è inevitabile - di vivaci ma quasi sempre educate polemiche. Le proporzioni del nuovo altare: la sezione aurea Ora, Giuliano da Maiano volle imprimere nel Duomo di Faenza quell’esprit de geometrie che, al di là di tutte le manomissioni dei secoli successivi, ancora oggi guida la percezione della sua compagine spaziale, strutturale e formale. Ed è proprio a questo esprit de geometrie che ho cercato di ispirarmi, a 25 anni dal Concorso del 1989, anche nell’odierno progetto i cui poli liturgici non avrebbero però dovuto abbandonare il perimetro storico del presbiterio. Ho al contempo cercato di raccogliere l’invito dei padri conciliari i quali affermarono: “i riti splendano per nobile semplicità […] e gli ordinari procurino di ricercare piuttosto una nobile bellezza che una mera sontuosità” (Sacrosanctum Concilium nn. 34,124). Se, per la pianta del nuovo altare, ho scelto la forma quadrata, quale la sua forma in alzato? Quella del rettangolo. Ma, quale rettangolo? Quello definito dalla “Costante di Fidia”: il valore numerico 1,618 che definisce il rapporto aureo fra la base e l’altezza; un rapporto che, con indubbia forzatura teologica, il matematico e umanista fra’ Luca Pacioli, nel suo “De divina proporzione” (1497), definì “el supremo epiteto de epso Idio” (Fig. 7). Un altare ad “ara” definito massiccio In merito al nuovo altare della Cattedrale di Faenza, da Italia Nostra definito “massiccio”, mi preme sottolineare che ogni altare ad “ara” è, per sua natura, massiccio. Se non fosse massiccio non sarebbe ad “ara”. Tutti sappiamo che, nella tradizione cristiana, le forme degli altari risultano plurime. Autorevoli liturgisti ritengono peraltro la forma a tavolo (una mensa su supporti verticali detti anticamente stipes) più conforme alla natura anche conviviale della celebrazione eucaristica, reputando la forma ad “ara” troppo sbilanciata sul carattere prettamente sacrificale dell’eucarestia. Alcuni definiscono quest’ultima forma come non specificamente cristiana in quanto gli altari ad “ara” precedettero di secoli il cristianesimo. Tutto ciò è vero. A ben vedere, però, è una buona parte della “storia delle forme” del cristianesimo post-costantiniano ad attingere a più antichi archetipi. A proposito dell’arte figurativa fu il grande Aby Warburg a coniare il termine pathosformeln, le “formule della creazione originaria” sulle quali si sono recentemente cimentati anche Salvatore Settis e Carlo Ginzburg (anch’egli fu ospite della Biblioteca Zucchini) in uno libro molto interessante pubblicato lo scorso anno (AA.VV.Tre figure. Achille, Meleagro, Cristo, Feltrinelli Milano, 2013). Il passato infatti può riaffiorare come da un sottosuolo svelando l’emergere di un canone spesso nascosto a una notevole profondità. Quando nell’XI secolo fu rinvenuta a Roma un’ara romana della seconda metà del I secolo d.C. con decorazioni fitomorfe e zoomorfe papa Gregorio VII non esitò a decretare il suo riutilizzo come altare per la chiesa di Santa Maria in Portico in quanto quella tipologia di arredo rituale si era da molto tempo insediata negli spazi rituali cristiani. Le misure del nuovo altare definito ingombrante Relativamente alle misure del nuovo altare della Cattedrale faentina che Italia Nostra ha definito “vasto […] e visivamente ingombrante” mi limito a ricordare che esse, partendo dalla dimensione dell’altezza del manufatto per la celebrazione eucaristica (abitualmente 100 cm. con una tolleranza di 5 cm.), derivano proprio dall’applicazione del “rapporto aureo” cui ho accennato poco fa. E’ quindi il metro di altezza ad aver generato una larghezza di 161,8 centimetri. Se avessimo scelto l’altezza di 95 cm. avremmo ottenuto una larghezza di 153,7 centimetri: otto in meno di quello poi realizzato. Ma, quali dimensioni avevano gli altari precedenti? Un metro di altezza, 252 cm di larghezza, cm.125 di profondità misurava l’altare con paliotto neobarocco presente fin dai primi anni ‘90 nel presbiterio faentino, mentre quello del primo decennio post conciliare misurava un metro di altezza, 400 cm. di larghezza e 140 cm di profondità. Da queste semplici note dimensionali deriva che - citando il documento di Italia Nostra - “l’ingombro visivo degli arredi liturgici” percepito da fedeli, turisti e storici dell’arte negli ultimi 50 anni è risultato ben maggiore di quello che si vede oggi dopo l’esecuzione del mio progetto (Fig.8). La cattedra episcopale e il tabernacolo Anche la nuova cattedra episcopale è stata progettata in dimensioni più contenute (177 cm x 56 cm) rispetto alla preesistente (217 cm x 80 cm) posta anch’essa da 50 anni nello stesso sito. I sedili laterali hanno una misura (non una forma) equivalente a quella dei precedenti (un sedile non è altro che un sedile e chi lo progetta deve corrispondere a semplici regole di carattere antropometrico). Scartata l’idea di riprodurre, in altezza, l’eccessivo ingombro della vecchia cattedra che svettava di 30 cm. oltre la quota massima del manufatto di Giuseppe Pistocchi ho esteso il semplicissimo schienale fino alla linea inferiore della cornice sommitale del vecchio altare al fine di renderla integralmente visibile. Nella vista frontale il piccolo tabernacolo risulta tuttavia coperto. Questa scelta, preceduta da una serie di disegni preliminari con schienali più bassi (Figg. 9-10), deriva da una precisa considerazione di carattere teologico e liturgico sottolineata, nei dialoghi con la Soprintendenza di Ravenna, da don Ugo Facchini, parroco della cattedrale nonché docente di “Sacra liturgia” presso l'Istituto Superiore di Scienze Religiose "S. Apollinare" delle Diocesi di Ravenna, Cesena, Faenza, Forlì e Imola. Il piccolo tabernacolo disegnato dal Pistocchi mai è stato peraltro utilizzato (né lo è tuttora) come residenza eucaristica. Le ostie consacrate sono infatti custodite fin dal secondo decennio del XVII secolo nell’adiacente cappella del Santissimo Sacramento. È a questo tabernacolo che il celebrante accede - per prelevare le particole - nel momento della distribuzione della comunione ai fedeli che partecipano alla messa. La scelta di mantenere la piena visibilità di un tabernacolo cui, durante la celebrazione eucaristica, il vescovo (in cattedra) avrebbe rivolto le spalle sarebbe risultata non appropriata e incomprensibile soprattutto per i visitatori estemporanei (fedeli o turisti) della cattedrale. Essi infatti non possono sapere che le ostie consacrate sono custodite altrove. L’ordine del rito richiede infatti una corretta percezione del significato sotteso non solo ad ogni gesto che viene compiuto ma anche ad ogni segno materialmente impresso nelle forme: in una chiesa, come non possono essere presenti due altari per la celebrazione, nemmeno possono essere posizionati due tabernacoli. Dopo l’abbandono di ogni altra ipotesi di collocare altrove la cattedra episcopale è da questa motivazione di carattere teologico-liturgico che è derivata la scelta di uno schienale alto, anche se più basso di 40 cm. rispetto al precedente. Ho poi proposto di ripulire la sommità del vecchio altare maggiore dagli affollamenti di statue, vasi e candelieri non solo per accogliere l’indicazione della Nota Pastorale C.E.I. (II, 17, 1996) ma soprattutto per collocarvi il solo crocifisso: una scultura lignea del Quattrocento romano il cui asse spaziale e teologico è ora sottolineato dalla fenditura verticale che solca la spalliera della cattedra. La memoria e la percezione delle forme Come evidenziato nelle immagini allegate non sembra avere quindi alcun fondamento l’affermazione che l’odierna “percezione” dei poli liturgici “mortifica la presenza fino ad ora dominante del prospetto settecentesco dell’altare progettato da Giuseppe Pistocchi”. Senza scomodare la “teoria della percezione delle forme” (la gestaltica di Max Wertheimer) preferisco riandare per un attimo al pensiero platonico. Platone definì l’immagine (eikon) come “ciò che rende presente l’assente” intendendo implicitamente rimandare - come scriverà poi Agostino - anche al concetto di “memoria”. Un’immagine può infatti sia evocare ciò che non si vede (alcuni teologi hanno definito l’arte sacra “la gloria dell’assente”) sia far ricordare ciò che si era dimenticato perché rimasto nascosto in un remoto cassetto della mente. Penso che di fronte a una vecchia fotografia capiti ad ognuno di riconoscere il volto di una persona, lo scorcio di un paesaggio, il frammento di una città mai più rivisti e quindi rimossi dai propri ricordi. Mentre all’interno dell’archivio della cattedrale cercavo i documenti sulla storia del presbiterio faentino rintracciai diverse fotografie (alcune le ho proiettate nella serata d’inaugurazione) che restituiscono l’immagine del presbiterio nel primo novecento e nei primi anni del secondo dopoguerra. L’altare del Pistocchi con la mensa oscurata da un paliotto ottocentesco (fino al Concilio la mensa settecentesca fu raramente visibile), l’imponente cattedra episcopale posta sotto la cantoria di sinistra e l’assenza di un ambone per la proclamazione della Parola di Dio suscitarono in me molta curiosità ma nessun ricordo (Fig.11). Ero appena un ragazzino quando, nella seconda metà degli anni ‘60, questo assetto post-tridentino fu variato per corrispondere alle indicazioni del Concilio Vaticano II sull’adeguamento liturgico delle chiese. Soltanto qualche persona abbastanza avanti con gli anni potrebbe ricordare le forme del vecchio assetto. Tutto ciò per rimarcare il difetto di conoscenza, da parte di Italia Nostra, in ordine alla conformazione dello spazio liturgico della cattedrale di Faenza. “L’alterazione dell’assetto storico consolidato” avvenne infatti mezzo secolo fa e non oggi quando la visibilità di tutti i manufatti antichi è migliorata essendosi ridotte le dimensioni dell’altare versus populum e della cattedra episcopale. Visibilità Per la totale visibilità del monumento pistocchiano dovrebbero verificarsi due condizioni. In primo luogo la cattedra episcopale dovrebbe essere posizionata, come già accennato, sotto la cantoria di destra in posizione opposta all’ambone, con il risultato rendere molto problematica la localizzazione della “presidenza ordinaria” (il sedile del sacerdote celebrante che presiede la celebrazione liturgica in assenza del vescovo). In secondo luogo, per permettere l’integrale visione del vecchio altare del Pistocchi, dovrebbe essere esclusa anche la presenza di un qualunque altare versus populum: qualsiasi manufatto risulterebbe infatti più o meno ingombrante non essendo ipotizzabile la realizzazione di poli liturgici volumetricamente smaterializzati e invisibili. A questo proposito ricordo che, in occasione di un Convegno Internazionale sugli adeguamenti liturgici delle antiche chiese, ebbi modo di dialogare pubblicamente con il professor Tomaso Montanari, storico dell’arte dell’Università di Napoli, al quale Italia Nostra ha giustamente inviato, come al professor Settis, il documento sul quale ora sto scrivendo. Ebbene, a fronte delle mia domanda intorno alla corrispondenza fra le esigenze liturgiche (l’altare versus populum) e l’integrale visibilità di tutti i manufatti di valore storico-artistico da noi ereditati della storia passata, il prof. Montanari (capace anche di una certa autoironia) mi rispose dicendo: ”In effetti noi conservatori, pur essendo culturalmente progressisti, sembriamo tutti un po’ lefebvriani”. Io non avevo fatto nessun riferimento alle posizioni anticonciliari dei seguaci del vescovo scismatico Marcel Lefebvre (la celebrazione con le spalle rivolte ai fedeli è infatti scoraggiata seppur non vietata) ma quella signorile risposta evidenziò tutta la complessità del problema anche dal punto di vista teologico e liturgico. Sono diverse le chiese antiche il cui adeguamento alla riforma si è potuto risolvere utilizzando gli antichi altari maggiori. Sia per gli altari ad “ara” posti sotto un ciborio, sia per gli altari a “tavolo”, ad “ara” o ad “urna” con cielo libero è stato infatti sufficiente rimuovere dall’antica mensa la croce e i candelieri per ottenere un altare versus populum. Qui il celebrante non ha fatto altro che ruotare il proprio orientamento: non più le spalle ma il volto rivolto all’assemblea dei fedeli. Ciò a Faenza non è possibile. Un po’ di storia L’altare di Giuseppe Pistocchi rappresentò uno degli ultimi capitoli delle trasformazioni cui fu sottoposto, nel tempo, il duomo di Faenza. L’area più interessata dai cambiamenti fu proprio l’area presbiterale. Nel 1491, a cinque anni dall’abbandono del cantiere da parte di Giuliano da Maiano e dopo appena un anno dalla sua morte avvenuta a Napoli nel 1490, il Capitolo della cattedrale decretò l’abbattimento del muro rettilineo che, alla fiorentina, chiudeva a oriente il presbiterio (Figg. 12-13). Questa scelta fu motivata dal desiderio di ampliare tutta l’area absidale al fine di collocarvi la cattedra episcopale e il coro dei canonici, prima costretto in uno spazio percepito come troppo angusto: una tipologia di trasformazione che interessò, in quel tempo, molti edifici di culto in varie parti d’Italia. La struttura della nuova abside a sette lati, verticalmente solcata da lesene a libro (poi rimosse nel corso dei restauri ottocenteschi) e da finestre a candelabro, fu ultimata nel 1494 sotto la direzione del maestro Goro di Cecco e successivamente arricchita dalla conchiglia absidale: un inserto decorativo fino ad allora adottato esclusivamente in pittura e scultura (Si veda: Palatium episcopi. Ecclesia Cathedralis. La casa e la cattedra, in Museo arte sacra città, a cura di G. Gualdrini, Edit Faenza 2012, pp.259-262). Causa l’addizione ettagonale di ascendenza ravennate la geometrica ratio che aveva caratterizzato il progetto di Giuliano da Maiano venne così a stemperarsi. Tale assetto perdurò fino agli anni 1613-1616 quando, sotto l’episcopato del card. Emilio Valenti originario di Trevi, furono tamponate le grandi aperture che fino ad allora avevano mantenuto uniti il presbiterio e le due cappelle laterali: quelle di San Savino e “del Santissimo Sacramento” (Fig.14). Non sono giunti fino a noi documenti che attestino l’eventuale realizzazione di nuovi “poli liturgici” commisurati al rinnovamento di uno spazio presbiterale che fu poi dotato anche di due cantorie. Esse, inglobanti le quattrocentesche tavolette del Maestro di San Pier Damiano (i cui originali sono oggi esposti nel Museo Diocesano), furono realizzate secondo il programma elaborato nel 1628 dal cardinale Francesco Cenini dei Salamandri, originario di Siena. Nel 1681 il cardinale di origine ferrarese Carlo Rossetti, che già da qualche anno aveva collocato in cattedrale un pregevole pulpito ligneo ancorato al terzo pilastro del lato sinistro della navata, commissionò al marmoraro veneto Giovan Battista Cavalieri un nuovo altare maggiore “a urna”, posto alla sommità di una gradinata. Questo altare era lateralmente arricchito da notevoli statue in marmo bianco attribuite ad Arrigo Merengo, discepolo di Giusto Le Court: i Santi Pietro e Paolo e due angeli dei quali tuttavia non si conosce l’originaria dislocazione rispetto all’altare. L’opera fu ultimata nel 1685 al tempo dell’episcopato del cardinale Antonio Pignatelli, successivamente eletto papa con il nome di Innocenzo XII. Questo nuovo altare riproduceva il modello a doppia mensa spesso adottato in età post-tridentina. Privo di dossale, esso permetteva la visibilità della cattedra episcopale posta in fondo al coro. Il pregevole altare non mantenne però la sua definitiva sede nel presbiterio. L’assetto di fine seicento è raffigurato in un antico disegno a penna rinvenuto all’interno del “Fondo Piancastelli” della Biblioteca Comunale di Forli (Fig.15). Nella scheda redatta da Antonio Corbara il 19 luglio del 1947 si legge che, per motivi statici (forse un parziale cedimento del pavimento), la struttura venne smontata e successivamente ricomposta nella cappella di sinistra del transetto, dedicata allora ai Santi Pietro e Paolo. Era vescovo in quegli anni il cardinale genovese Marcello Durazzo il quale all’inizio del Settecento fece anche realizzare, in sostituzione del seggio cinquecentesco, la nuova cattedra lignea al centro del coro (Fig.16). A partire dal 1762 la cappella dei Santi Pietro e Paolo divenne il principale luogo della devozione mariana nella Diocesi di Faenza prendendo il nome di “Cappella della Beata Vergine delle Grazie”. Il nuovo e imponente apparato decorativo derivò dall’assemblaggio di due strutture liturgiche: l’altare coinvolto nel dissesto e una porzione di quello modellato nel 1725-1726 dal friulano Gerolamo Bertos per la chiesa domenicana di S. Andrea in Vineis. Nella rinnovata cappella l’altare “ad urna” fu ridotto ad un unico fronte e addossato al muro di fondo. L’altare di Giuseppe Pistocchi Nel luglio del 1767 il vescovo Antonio Cantoni assegnò l’incarico di disegnare il nuovo altare maggiore all’architetto Giuseppe Pistocchi. Si trattò, per lui ventitreenne, del primo importante incarico di progettazione. Ancora lontano dagli scatti antibarocchi che fecero di lui il principale esponente, in architettura, di quella che va sotto il nome di “officina neoclassica faentina”, il Pistocchi, memore della fresca lezione romana, progettò un corposo altare con alto dossale a sostegno di statue, croce e candelieri e raccordato alla base tramite due eleganti volute. Il disegno del monumento, in sé convenzionale, fu arricchito da una notevole varietà di marmi policromi: dal rosso di Francia all’onice gialla, dal verde Alpi al nero Portoro, dalla breccia gialla arabescata al mandorlato di Verona, dalla breccia oniciata agli stucchi in marmorino dorato: un vivace e articolato cromatismo che andava a collocarsi nella misurata bicromia dello spazio sacro di origine maianesca. Innalzato su cinque gradini e orientato a est, il principale polo della liturgia fu pensato come fondale prospettico di un nuovo presbiterio internamente frazionato in due parti: lo spazio della celebrazione da un lato e il retrostante coro dall’altro. Questo nuovo scenario, che finì per annullare la visibilità della cattedra episcopale del cardinale Durazzo, indusse il nuovo vescovo Vitale de’ Buoi a commissionare un nuovo seggio. Esso fu posizionato in adiacenza alla parete di tamponamento che nel 1613 era andata a separare il presbiterio dalla cappella di San Savino. La cattedra, inserita fra i sedili, venne posta alla sommità di una scalinata lignea coperta da un baldacchino che determinò la rimozione dei mensoloni centrali a sostegno della sovrastante cantoria (Figg. 17-18). Questo assetto restò invariato fino al tempo della riforma liturgica del Concilio Ecumenico Vaticano II in base alla quale si rese necessario il posizionamento di un altare versus populum e di un ambone per le letture. Il baldacchino e la cattedra episcopale furono rimossi e quest’ultima venne posizionata nel sito che anche nell’odierno adeguamento liturgico è stato confermato (Figg. 19-20). Continuità e rottura Ho letto nella sintesi del Convegno di Italia Nostra tenuto a Modena nel 2012 che “la storia dell'architettura e delle arti in genere ci insegna che fino a tutto l'Ottocento gli stili si sono stratificati nel segno della continuità o almeno della coerenza”. Io, assieme ad autorevoli storici dell’architettura, ritengo che ciò non risponda al vero: ci sono moltissimi esempi in Italia e in Europa che testimoniano il contrario. Per la Cattedrale di Faenza mi limito qui a ricordare quanto scriveva nel 1992 l’architetto e storico dell’arte Ennio Golfieri, socio fondatore della sezione faentina di Italia Nostra: “Se i faentini vogliono celebrare Giuliano lo devono fare come atto espiatorio dei torti commessi nei suoi riguardi snaturandogli l’idea progettuale e tradendolo con interpretazioni del tutto aberranti dei modelli da lui proposti. […] Orbene con la costruzione del nuovo coro (1492-93) e poi della sacrestia nuova (1510 circa) e infine con le trasformazioni barocche sei e settecentesche […], tutto l’impianto giulianeo venne sconvolto” (E. Golfieri, Giuliano da Maiano riconoscerebbe come sua creatura il Duomo di Faenza? in AA, VV. Giornata di studio in onore di Giuliano da Maiano, op. cit., p.185). Riguardo all’altare di Giuseppe Pistocchi io stesso ebbi a scrivere che il monumento settecentesco introdusse nell’antico presbiterio una nota dissonante che, nella sua accesa modernità, “provocò la frantumazione dell’unità spaziale dell’area presbiterale che invece […] avrebbe potuto mantenere una fisionomia di interna coralità. Inoltre, con l’intervento pistocchiano (che spezzò a metà il “cappellone”) il coro venne relegato a oscura e in fondo superflua presenza” (G. Gualdrini, Fra vecchio e nuovo. Per un riassetto del presbiterio della cattedrale di Faenza, in Arte cristiana. An International review of art History and Liturgical arts, Milano 1993, n. 75 p. 303 ). Anni fa ebbi modo di rintracciare appunti e documenti redatti negli anni ’60 e ‘70 intorno al destino di questo importante monumento settecentesco dopo la riforma liturgica del Concilio Vaticano II. La domanda che in Diocesi si posero in molti fu: in considerazione del fatto che il vecchio altare maggiore è ormai liturgicamente inutilizzabile, è opportuno mantenerlo in sito oppure è meglio rimuoverlo per poi collocarlo nel futuro Museo Diocesano? Corretta, a mio avviso, fu la decisione di mantenerlo “com’era e dov’era”. Sono fermamente convinto che, ad eccezione di particolari stati di necessità, la corrispondenza fra “le opere d’arte e i luoghi” debba essere sempre tutelata. A questo proposito rimando al mio recente saggio The Diocesan Museum. Artworks and places, raccolto nel volume dell’Istituto di Museografia del Politecnico di Torino: “Religion and museums. Immaterial and Material Heritage” (Allemandi Torino – London – New York, 2013). Arredi reversibili Se il mio invito a visionare il progetto (o ad essere presente all’inaugurazione) fosse stato accolto Italia Nostra avrebbe inoltre appreso che, come nel progetto di concorso del 1989, tutte le nuove strutture sono reversibili e semplicemente appoggiate (come “arredi” appunto) sulle pavimentazioni antiche: sottili tappetini di tessuto-non tessuto e di neoprene isolano altare e ambone dal contatto con il vecchio pavimento: solo due piccoli perni metallici di 5 mm sono stati inseriti in una fuga fra le adiacenti lastre pavimentali. L’unica piccola lacerazione è quella per l’inserimento del bottone in bronzo (diametro cm. 10) a supporto del candelabro pasquale. La cattedra e i sedili hanno invece semplici feltri di ripartizione. Se in futuro (secondo una diversa visione dello spazio rituale) il Vescovo e il Capitolo della cattedrale vorranno mutare la dislocazione dei poli liturgici potranno farlo senza la minima sofferenza per le preesistenze storiche. Anche l’altare potrà essere arretrato al fine di rendere integralmente visibile la prima lapide pavimentale: ipotesi esplorata e poi scartata per non allontanare la mensa eucaristica da un’assemblea che da cinquant’anni vede l’altare nella posizione che anche oggi è stata confermata. I “blocchi” sono relativamente leggeri in quanto internamente cavi e le lastre, selezionate e tagliate per ridurre radicalmente sia il peso dei manufatti che il costo dell’intervento, sono state assemblate “a splizza” onde ottenere la percezione della compattezza dei volumi lapidei. Il nuovo intervento è dunque totalmente reversibile proprio perché non dettato – come invece scrive Italia Nostra – “dall’ambizione di lasciare ai posteri il segno di una concettualmente insostenibile competizione con l’antico”. Non ho voluto competere con Pistocchi e non ho l’ambizione di lasciare nulla ai posteri. Il giudizio degli occhi Nel documento di Italia Nostra è scritto che “l’approvazione degli organi di tutela si riduce al lasciapassare, passaggio conclusivo di un iter del tutto carente, come nel caso della Cattedrale di Faenza, di quell’approfondimento culturale che avrebbe dovuto indurre la committenza al doveroso rispetto degli assetti storici”. Ho già detto che sono più di vent’anni che studio la cattedrale di Faenza. Se la dottoressa Vitali avesse anche solo accettato di vedere gli elaborati grafici e di leggere la lunga relazione allegata al progetto, avrebbe riconosciuto che l’invocato approfondimento culturale c’è stato e che, proprio in seguito a questo approfondimento, gli assetti storici sono stati rispettati non essendo stato toccato nessun lacerto di pietra. Tutte le pietre da tempo ferite sono state infatti accuratamente restaurate. La presidente della sezione faentina di Italia Nostra mi ha riferito che, il giorno successivo all’inaugurazione, alcuni membri del direttivo regionale hanno visitato la cattedrale per fotografare il nuovo assetto del presbiterio. Dopo aver preso visione dei nuovi arredi liturgici essi hanno poi redatto il documento di cui qui si parla: dalla visione dell’oggetto al giudizio sull’oggetto. Al di là del magistero degli studi e della conoscenza c’è infatti anche quello che io chiamo il “magistero degli occhi”. Per esercitare questo magistero forse non è necessario neanche studiare. Di fronte all’incalzare di un intervistatore che gli chiedeva su quali testi avesse basato la sua formazione culturale, Gabriel Garzia Marquez rispose “Non ho studiato proprio niente. Quello che so l’ho imparato vivendo”. Per apprezzare (o disprezzare) un’opera è spesso sufficiente imparare, pazientemente, a guardare. Ognuno ha i propri occhi ed è in base a questi che i giudizi estetici vengono espressi. Lo diceva anche San Tommaso (che non era propriamente un relativista): “il bello è ciò che piace alla vista” (pulchrum est quod visum placet). Di fronte al giudizio degli occhi non c’è ragionamento o spiegazione che tenga. Se un’opera è percepita come brutta per le persone che esprimono quel giudizio essa è brutta e basta. Quando, il 10 dicembre del 1565, in piazza della Signoria a Firenze fu inaugurata la monumentale statua del Nettuno dello scultore Bartolomeo Ammannati, una buona parte dei fiorentini, non apprezzando l’opera, coniò il famoso motto “Ammannato, Ammannato, quanto marmo t'hai sciupato!". E il fatto che avesse a lungo studiato quella figura mitologica e avesse lavorato cinque anni per realizzarla dopo essersi aggiudicato il concorso indetto nel 1559 da Cosimo I de’ Medici non spostò di un centimetro il severo giudizio espresso da una rilevante porzione del popolo fiorentino. Pseudo-minimalismo Veniamo quindi al “giudizio degli occhi” espresso da Italia Nostra. In un passaggio del documento è scritto che il mio progetto deriva da una “scelta pseudo-minimalista”. Premetto che io non mi permetterei mai di definire la scelta opposta alla mia filosofia di intervento come “pseudo–mimetica” bensì come semplicemente “mimetica”. Non sono infatti abituato a caricare di sprezzanti epiteti le scelte che io non condivido. Certo, è capitato anche a me di arrabbiarmi molto in qualche rarissima occasione in risposta ad un insulto che toccava la mia ricerca professionale ma non mi faccio merito di quelle arrabbiature seguite poi dalle mie scuse. Non mi interessano gli “ismi”. Tanto meno il minimalismo, divenuto ormai una moda di modesto respiro e mi chiedo spesso che cosa è veramente conosciuto e, quindi, che cosa resta della profondità della contesa teologica ed estetica che oppose nel XII secolo l’abate Suger de Saint Denis, convinto sostenitore della ricchezza decorativa e dei fastosi cromatismi degli spazi liturgici, e Bernardo di Chiaravalle (considerato un teorico del minimalismo) che invece riteneva ogni ornamento una vana superfluitas, in sé assolutamente inadatta a suscitare l’immersione nelle “cose di Dio”. (Si vedano, a questo proposito: Suger de Saint-Denis, Liber de rebus in administratione, in E. Panofsky, Suger, abate di Saint Denis, Novecento Palermo, 1992 e Bernardo di Chiaravalle, Apologia ad Willelmum Abbatem, in Bernardo di Chiaravalle, Opera omnia, Trattati, XII, 28, Città Nuova Roma, 1984, pp. 207-2013; cit. in G. Gualdrini, Palatium episcopi, ecclesia cathedralis. La Casa e la Cattedra, op.cit. pp. 226-227). Armonie e dissonanze Il documento di Italia Nostra prosegue affermando che “la ricercata scelta pseudo minimalista degli arredi costituisce peraltro una nota dissonante per materiali e colori rispetto alla raffinata calda policromia marmorea dell’altare settecentesco”. Prima di elaborare i bozzetti preliminari ero tornato ad analizzare gli inserti scultorei che hanno accompagnato la “vita delle forme” nella Cattedrale di Faenza. Dal XVII al XVIII secolo dominanti furono i marmi policromi, dal XV al XVI secolo lo furono la pietra e il marmo bianco, in qualche caso velato con foglie d’oro. Riandando quindi ai primi decenni della cattedrale faentina mi è parso corretto non proporre virtuosismi formali o cromatici che sarebbero entrati in competizione con il vecchio altare pistocchiano. Meglio, a mio avviso, ritrarsi nell’essenziale sacrificando ogni cosa superflua. Questo atteggiamento progettuale mi è sembrato tanto più coerente quanto più appare chiaro che oggi, nella liturgia cristiana, le parole pronunciate non dovrebbero ispirarsi all’eccesso: l’azione liturgica non asseconda i loquaci “impulsi dell’io”. Anche il gregoriano (il canto liturgico per eccellenza) ha, in fondo, poche note. Ora, proprio perché architettura e scultura non sono altro che “musica pietrifica” (musica fatta pietra) ho scelto di temperare ogni mia invadenza. Ma, questo senso di misura e di discrezione deve condurmi, in questo specifico intervento, all’assoluto “silenzio delle forme”? Credo di no. Qualcuno ha scritto che la sobrietà ha una sua magnificenza. Ogni sobrietà linguistica richiede di abbreviare il molteplice fluire delle parole. I Padri definivano il crocifisso verbum abbreviatum. Dopo molti pensieri ho perciò deciso, attingendo a modelli antichi, di incidere nel fronte dell’altare la forma stilizzata di quella “parola abbreviata”. Ma è corretto lasciare questa incisione cromaticamente afona? C’è un breve pensiero, scritto da Giosuè Boesch sui giorni della passione nel quale il monaco svizzero parla del vuoto lasciato dalla morte di quell’uomo appeso al legno e - al contempo - della sua radiosa eredità: “Il vuoto di una croce, scavata nella materia. Il vuoto lascia però un’eredità: l’oro nelle ferite” (Fig. 20 ) Il mio “segno della croce” ha le braccia inclinate, a evocare la deposizione di Gesù. Esse disegnano una curva che, abbozzando un cerchio avvolgente il fronte del presbiterio, traccia una linea obliqua sia nel cero pasquale che nel blocco dell’ambone suddiviso in due parti sovrapposte: la base che abbraccia l’ultimo gradino fra aula e presbiterio sostiene il piano sul quale le Sacre Scritture sono appoggiate per essere lette ad alta voce. La Bibbia è un grande racconto che inizia in un giardino (l’Eden, il giardino della creazione) e termina in una città (la Gerusalemme celeste). I cristiani credono che fra il principio e la fine (fra l’A e l’Ω) abbia fatto irruzione l’evento dell’incarnazione, della morte e della resurrezione di Gesù: una sorta di “taglio del tempo” che definisce un “prima” e un “dopo”. Ho quindi voluto evocare quel taglio con una fenditura che solca verticalmente la base dell’ambone sulla quale stanno incise, a sinistra e a destra, le lettere greche che simboleggiano le opposte estremità della storia. Migrazioni e mimetismi Ho evitato di proporre quel “reimpiego di antichi arredi” auspicato invece da Italia Nostra nel convegno modenese del 2012 in quanto ritengo opportuno che ogni antico altare continui a essere legato al luogo per il quale fu realizzato. Un esempio forse poco noto: nella cattedrale di Saluzzo, eretta a cavallo fra Quattro e Cinquecento, nel primo ventennio del XVIII secolo il presbiterio fu arricchito da un imponente ma pregevole altare maggiore. Al fine di conformare l’area presbiterale alle indicazioni post-conciliari, per il nuovo altare versus populum “è stata prevista, in un primo periodo, una mensa dalle linee di fattura contemporanea, poi sostituita dall’attuale (di dimensioni cm.237 di larghezza per 106 di profondità), risultato dalla ricomposizione antiquaria delle parti di un altare ligneo settecentesco proveniente dall’Episcopio” (AA. VV. Le Cattedrali del Piemonte e della Valle d’Aosta, Nicolodi Rovereto, 2008, p.239). Si tratta di un’idea alla quale io, pur rispettandola, non avrei accettato di dare esecuzione. Mi sembrano infatti improprie sia le migrazioni degli altari da un sito a un altro sia le imitazioni, pur sapendo che queste ultime appartengono, fin tempi molto remoti, alla storia dell’arte e che esse non sono propriamente da confondere con le copie. Anche il professore Settis ha recentemente ricordato che i termini aemulatio e imitatio si riferiscono non tanto alla precisione della copia ma alla capacità del copista di accostarsi alle caratteristiche di stile di un maestro (S. Settis: L’arte dell’imitazione. La lunga storia delle copie, in Il Sole 24 ore- Domenica 13 Aprile 2014). La questione degli interventi contemporanei negli edifici da noi ereditati dalla storia passata è una questione molto vecchia. Nata nell’alveo della discussione ottocentesca sulle modalità degli interventi di restauro, essa vide opporsi da un lato i sostenitori del restauro stilistico o mimetico e dall’atro i sostenitori del restauro filologico. Fra questi ultimi l’architetto Camillo Boito, promotore nel 1883 della prima Carta Italiana del restauro, coniò il famoso adagio “far io devo che ognun discerna esser l’aggiunta un’opera moderna”: un pensiero formulato in rima per sottolineare che, anche in arte e in architettura, bisognerebbe cercare di essere sinceri. Ora, trattandosi di un’opinione e non di una verità è giusto che intorno alla modernità o al mimetismo delle “aggiunte” si continui a discutere visto che non è ipotizzabile una cattedrale senza altare versus populum, senza ambone, senza cattedra episcopale. Nihil innovetur (non si innovi nulla) L’opposizione di Italia Nostra (o di chiunque altro) alla pur misurata modernità dei nuovi arredi liturgici è a mio avviso riconducibile all’odierna riproposizione, da parte sia di uomini di chiesa che di autorevoli storici dell’arte, del motto latino nihil innovetur . Ho avvertito però che si dimentica spesso di ricordare che l’intero adagio attribuito a papa Stefano I (sec. III d.C.): “nihil innovetur, nisi quod traditum est” (nulla di nuovo venga introdotto se non ciò che è tramandato”) veniva citato già a partire dall’ottocento quando l'arte cristiana si avviò verso una progressiva decadenza che attraversò anche tutta la prima metà del XX secolo. Ancora nel 1932 papa Pio XI aveva voluto affermare che, in ambito cattolico, l’arte moderna non doveva essere accolta: “Tale arte non sia ammessa nelle nostre chiese e molto più non sia chiamata a costruirle, a trasformarle, a decorarle” (Pio XI, Discorso per l’inaugurazione della nuova sede della Pinacoteca Vaticana, 27 ottobre 1932, A.A.S., XXIV p.356, cit. in Museo Arte sacra città, op. cit. p.158). Lo stesso Pio XII, che pur era al corrente dei fermenti che si raccoglievano attorno alla figura di mons. Giovanni Battista Montini, nell’Enciclica Mediator Dei (1947) aveva affiancato a una cauta apertura nei confronti dell’arte moderna una severissima critica contro “la deformazione della vera arte”. Anche per questo motivo l’auspicio per un dialogo nuovo con la modernità, proclamato negli anni ‘60 da Paolo VI, risultò particolarmente incisivo e denso di positive attese (si veda La Messa degli artisti, Città del Vaticano, 7 maggio 1964). L’arte contemporanea nei monumenti del passato Paolo VI parlava in un momento di ottimismo; l’assise conciliare era in pieno svolgimento e si respirava un’aria di grande fiducia che a molti, dopo le delusioni provocate da esperienze artistiche poco convincenti, sembra ormai svanita. Non sono pochi infatti i “passi falsi” compiuti, entro contesti antichi, da un’arte moderna troppo incline a una gestualità sopra le righe. Rileggendo Joseph Roth, continuo tuttavia a soffermarmi spesso su questo suo pensiero: “da qualche parte deve pur esistere, credo, una regione protetta nella quale il nuovo, deponendo le armi e issando la bandiera bianca della pace, possa penetrare senza far troppi danni” (J. Roth, Al bistrot dopo mezzanotte, Adelphi Milano, 2009, p. 135). La pensava così anche il grande medievalista Jacques le Goff. Il giorno successivo alla sua morte (31 marzo 2014) l’anziano pittore Pierre Soulages, intervistato da un giornalista del quotidiano Le Monde, ha ricordato che “durante un dialogo pubblico, Jacques Le Goff difese l’intervento dell’arte contemporanea nei monumenti del passato” (“Lors d'un dialogue public, Jacques Le Goff a défendu l'intervention de l'art contemporain dans les monuments du passé”, Le Mond, 1-4-2014). Il maestro dell’astrattismo francese nel 1994 aveva ultimato il rifacimento delle 106 vetrate della abbazia romanica di Sainte-Foy a Conques, un borgo medievale della regione dei Midi-Pyrénées. Anche qui, qualche anno prima, era stato realizzato l’adeguamento liturgico del presbiterio. Quelle modernissime vetrate (in realtà esse mi sono sembrate “senza tempo”) provocarono, in Francia, un acceso dibattito al quale partecipò anche Jacques Le Goff, favorevole all’intervento di Soulages. Una decina di anni fa sono stati pubblicati gli atti della conferenza che l’artista e lo storico tennero nel 1995 a Conques (P. Soulages, J. Le Goff, De la pertinence de mettre une œuvre contemporaine dans un lieu chargé d'histoire, Le Pérégrinateur éditeur Toulouse, 2003). So che Italia Nostra, come è giusto che sia, potrebbe citare il pensiero di autorevoli uomini di cultura e storici dell’arte contrari alla collocazione di “opere d’arte contemporanea in luoghi carichi di storia”. Quel libro, tuttavia, andrebbe a mio avviso letto anche da chi, fedele al motto nihil innovetur, non condivide le posizioni di Soulages e Le Goff. Si tratta infatti di un testo per me molto stimolante che proposi all’editore italiano di Le Goff ma, per ora, in Italia non è stato pubblicato. L’invito a un dialogo pubblico Fra tutte le osservazioni di Italia Nostra quella che mi ha maggiormente ferito è la seguente: “sembra che (i nuovi arredi liturgici) siano stati concepiti da chi, irreverentemente, non avesse nessun interesse verso la sacralità del luogo”. Questa affermazione è per me molto grave perché tocca sia le mie ricerche che le mie intime convinzioni e davvero non capisco in base a quale sensibilità sia stata formulata. Nonostante questo mi sento di invitare a un dialogo pubblico l’architetto Anna Marina Foschi, la dottoressa Marcella Vitali e qualunque altro membro dei direttivi regionali e locali come la professoressa Valeria Righini, la storica dell’arte Luisa Renzi o il collega architetto Vincenzo Lega. Sono certo che tutti i cittadini interessati al presente e al futuro della Cattedrale di Faenza da questo dialogo potrebbero trarre un certo beneficio. La sede alla quale ho pensato per questo dialogo pubblico è la Sala Conferenze della Pinacoteca Comunale, luogo abituale degli incontri di Italia Nostra. A questo proposito ho preso contatto con l’assessore alla cultura dott. Massimo Isola e con il direttore dott. Claudio Casadio e ambedue si sono detti ben lieti di ospitare questo dialogo pubblico che non dovrebbe però oltrepassare la data di venerdì 23 Maggio. Resto quindi in attesa dell’indicazione di un paio di date da parte di Italia Nostra per poter poi scegliere quella compatibile con la mia agenda. Prenderò in considerazione tutte le critiche motivate ed espresse in modo rispettoso: da quella di un esperto d’arte a quella di un parroco che non teme (dicendo sinceramente la sua) di dispiacere al proprio vescovo, da quelle del direttore di un museo a quelle di un muratore o di uno scalpellino dei quali conosco abilità, fatiche e sguardi acuti. Se ho ben presente le famose spanne di Dante “Or tu chi se', che vuo' sedere a scranna, per giudicar di lungi mille miglia con la veduta corta d'una spanna?” (Paradiso, XIX, 79-81), cerco anche di non dimenticare mai quanto scrisse Adolf Loos citando Leon Battista Alberti: “l’architetto, in fondo, non è altro che un muratore che sa di latino” Giorgio Gualdrini Allegati: - Documentazione grafica e fotografica - Nulla osta della Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici - Documento di Italia Nostra (Bologna, Faenza) sull’adeguamento liturgico del presbiterio della cattedrale di Faenza. Allegato 1: Documentazione grafica e fotografica 1- L’adeguamento liturgico del presbiterio 2- Ipotesi di cattedra episcopale sotto la cantoria destra (schienale basso) 3- Ipotesi di cattedra episcopale sotto la cantoria destra (schienale alto) 4- Il presbiterio prima e dopo l’odierno adeguamento 5- Studio preliminare: modularità e impianto distributivo 6- Concorso nazionale per il riassetto del presbiterio (1989) 7- La sezione aurea e il modello di altare, ambone, cero pasquale 8- Comparazione dimensionale fra gli altari post-conciliari 9- Ipotesi di cattedra episcopale con schienale basso 10- Progetto definitivo della cattedra episcopale 11- Il presbiterio prima del Concilio Ecumenico Vaticano II 12- Assetto liturgico (1474-1491) 13- Assetto liturgico (1494-1612) 14- Assetto liturgico (1613-1767) 15- Disegno fine sec. XVII, part. (Fondo Piancastelli, Forlì) 16- La cattedra del card. Marcello Durazzo, inizio sec. XVIII 17- Assetto liturgico (1768-1965) 18- Scorcio del presbiterio prima del Concilio Ecumenico Vaticano II 19- Assetto del presbiterio (1965-2013) 20- Assetto del presbiterio (2014) 21- Il fronte dell’altare con l’incisione del segno della croce (2014) Allegato 2: NULLA OSTA DELLA SOPRINTENDENZA Allegato 3: DOCUMENTO DI ITALIA NOSTRA Consiglio regionale Emilia Romagna Nella Cattedrale di Faenza alterato lo storico assetto del presbiterio L'adeguamento liturgico del presbiterio della Cattedrale di Faenza aggiunge un ulteriore deludente capitolo alla controversa questione della tutela dei beni culturali di interesse religioso in rapporto alle esigenze di culto, già affrontata e discussa da Italia Nostra nel convegno di Modena del 17 maggio 2012. Lasciando ad altri il commento sui costi, che si immaginano onerosi (prezioso l'onice iraniano!) e sull'opportunità di affrontarli nelle contingenze attuali, a noi preme sotto-lineare la criticità dell'inserimento dei tre nuovi elementi fissi. Altare, ambone, cattedra vescovile costituiscono un invadente ingombro visivo che altera la percezione consoli-data nel tempo dello spazio presbiteriale e mortifica la presenza fino ad ora dominante del prospetto settecentesco dell'altare progettato da Giuseppe Pistocchi. La ricercata scelta pseudo-minimalista degli arredi costituisce per altro una nota disso-nante per materiali e colori rispetto alla raffinata calda policromia marmorea dell'altare settecentesco che, già privato della sua funzione con la nuova liturgia, appare ormai irri-mediabilmente ridotto a inerte fondale scenografico. L'aver evitato manomissioni all'integrità fisica dell'esistente non ci pare accorgimento sufficiente a giustificare il carattere dell'operazione che in ogni caso si configura come l'alterazione di un assetto storico consolidato. Ma quello che più sconcerta in questi nuovi arredi liturgici (così denominati dalla Curia medesima) è il più totale disinteresse che mostrano per il contesto. Sembra siano stati concepiti, e collocati, da chi non aveva acquisito nessuna preventiva conoscenza dello stato dei luoghi: e, irriverentemente, non avesse nessun interesse verso la sacralità del luogo. Solo così si può spiegare come la Cattedra vescovile sia stata collocata a pochi centimetri dall'altare settecentesco, in posizione assiale, con lo schienale, alto quasi quanto l'altare storico, che ne blocca ogni visibilità e persino del tabernacolo. E come le due sedute laterali, identiche e prive solo di schienale e braccioli, reiterino e rimar-chino con la loro collocazione, se mai ce ne fosse qualche dubbio, questo disinteresse. Non basta. La massiccia e vasta mensa è stata collocata senza badare all'assetto ed all'ubicazione delle lapidi pavimentali nella zona presbiteriale. Infatti copre, con totale indifferenza, gran parte della lapide centrale, lasciandone incredibilmente visibile (lato fedeli) un moncone di parte decorata e solo il rigo finale dell'iscrizione con metà, in senso longitudinale, del penultimo! La delicata questione degli adeguamenti liturgici conferma come il compito della tutela non sempre sia esercitato sul fondamento di irrinunciabili principi, ma sia spesso piegato alle opzioni dettate da pretese esigenze funzionali, fatte prevalere infine sulle ragioni della salvaguardia. E l'approvazione degli organi della tutela si riduce al lasciapassare, passaggio conclusivo di un iter del tutto carente, come nel caso della Cattedrale di Faenza, di quell'approfondimento culturale che avrebbe dovuto indurre la committenza al doveroso rispetto degli assetti storici e perciò a soluzioni del minimo impatto (invece bandite nella ambizione di lasciare ai posteri il segno di una concettual-mente insostenibile competizione con l'antico). Bologna – Faenza, 2 aprile 2014 Il direttivo di Italia Nostra, Consiglio Regionale Emilia Romagna
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