Divora il tuo cuore, Milano

Mauro Novelli
Divora il tuo cuore, Milano
Carlo Porta e l’eredità ambrosiana
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Divora il tuo cuore, Milano
Sommario
Principio (e conclusione) in forma d’ordigno
A spasso tra le macerie
Una statua in esilio
Conclusione (e principio)
11
14
21
I. Il carattere ambrosiano. Avventure di un cliché
1. Stadtgeist, identità e letteratura
2. Il carattere ambrosiano “classico”
3. Brindisi, pacciade e turlurù
29
33
52
II. Strategie narrative. Generi, voci e percorsi
1.
2.
3.
4.
5.
«e mì sont el sur Carlo Milanes»
Novelle, esempi, visioni
Le maschere di Meneghin
Giovannin, Ninetta e Marchionn
Per le vie del trauma
69
78
95
107
125
III. Inammissibile Porta
1.
2.
3.
4.
A voce e per iscritto
La corteccia dell’osceno
«Catolegh, Apostolegh e Roman»
Città e patria
Epilogo. Un farmaco pericoloso
135
158
173
183
199
Note
217
Crediti fotografici
283
Indice dei nomi
285
Quando si guarda la poesia vernacola come monumento di
civiltà; come campo in cui più liberamente si svolge lo spirito fugace del tempo e l’indole degli uomini; come strumento che giunge ad operare entro le latebre più intime della
società; e urta e rompe i fili delle pertinaci tradizioni domestiche, e quindi affretta e sprona il corpo del pensiero e
il progresso delle generazioni: allora io oso dire che le più
terse ed elaborate squisitezze della poesia accademica perdono gran parte dell’infecondo lor pregio.
Adunque se la poesia vernacola giova non solo a rappresentare l’intimo spirito degli uomini e dei tempi ma benanco
a dargli spinta e direzione: riguarderemo noi questo studio
come una oziosità, la quale soltanto per gradi sia meno ignobile di quella del cigaro e della bottiglia?
Carlo Cattaneo
Principio (e conclusione) in forma d’ordigno
A spasso tra le macerie
Il primo giorno vidi Milano “insudiciata” dalla
morte. Poi la notte calò e uno spettrale silenzio.
L’indomani, già Milano s’illimpidiva.
Alberto Savinio
Intorno ai Giardini pubblici, le scimmie si rincorrono urlanti sui davanzali dei palazzi in fiamme. Qualcuno sostiene che dalle sbarre divelte dello
zoo siano fuggiti anche i leoni. Chissà. Intanto boati e sirene stordiscono le ombre in cerca di un rifugio, tra il fumo, i detriti e i binari contorti del tram.1 No, non è l’inizio di quel film slavo. La notte tra il 7 e l’8
agosto del 1943 uno sciame di Lancaster inglesi rovesciò su Milano tonnellate di bombe e spezzoni incendiari. Tornarono nei giorni successivi,
venerdì 13, e poi ancora a Ferragosto, seminando morte e devastazione,
secondo i principi dell’area bombing. Martellare le superfici urbane, senza troppi scrupoli di esattezza: ciò che conta è la capacità di terrorizzare
la popolazione civile, abbattere l’opinione pubblica, indurre alla resa. Solo l’assenza di vento e il limitato ricorso al legno nella struttura delle case impedirono il ripetersi del Feuersturm apocalittico che qualche giorno
prima aveva incenerito Amburgo, nel corso dell’operazione Gomorrah.
Ma centinaia furono i morti, migliaia gli sfollati e i senzatetto in una città
per fortuna semivuota, complice la stagione estiva. A questa tragedia Salvatore Quasimodo legò versi celeberrimi:
12 Divora il tuo cuore, Milano
Invano cerchi tra la polvere,
povera mano, la città è morta.
È morta: s’è udito l’ultimo rombo
sul cuore del Naviglio. E l’usignolo
è caduto dall’antenna, alta sul convento,
dove cantava prima del tramonto.
Non scavate pozzi nei cortili:
i vivi non hanno più sete.
Non toccate i morti, così rossi, così gonfi:
lasciateli nella terra delle loro case:
la città è morta, è morta.2
Le baracche e i bivacchi, la Scala e la Galleria sventrate, cumuli di macerie e
rottami, negozi sprangati, ogni sera l’esodo verso le campagne con mezzi di
fortuna. Eppure la più grande emergenza vissuta dalla città nella sua storia
moderna lasciò tracce minime in narrativa: qualche pagina vibrante di Elio
Vittorini, un romanzo di Riccardo Bacchelli presto scordato, L’incendio di
Milano, e poco altro.3 Per decenni a prevalere fu il silenzio. Gli scrittori del
resto non fecero che adeguarsi alla memoria collettiva. Come in Germania,
le distruzioni belliche erano divenute una sorta di tabù, su cui ha ragionato lucidamente W.G. Sebald, sostenendo che a innescare il meccanismo di
rimozione furono da un lato l’immane senso di colpa, dall’altro il timore di
malintesi e strumentalizzazioni da parte dei nostalgici.4
Mentre Milano cambiava volto per sempre, sfregiata dalle bombe degli
alleati, occupata dai nazisti, percorsa dalle azioni dei Gap, i suoi più riconosciuti campioni letterari saltavano a piè pari guerra e fascismo per rievocare la città conosciuta in gioventù, salutandone ognuno a proprio modo
il tramonto. A Venezia Filippo Tommaso Marinetti celebrava le battaglie
del suo movimento nelle pagine di La grande Milano tradizionale e futurista. A Firenze Carlo Emilio Gadda lustrava i «disegni milanesi» dell’Adalgisa, storicizzando nelle note – scrupolosamente datate 19435 − riti manie
costumi di una borghesia che sentiva anni luce distante. A Como, anzi a
Rebbio, Carlo Linati radunava prose, elzeviri, «memorie e vignette principio di secolo», calate nella Milano d’allora.6
Proprio in quelle vie Alberto Savinio trovò i caffè, i salotti, gli amici artisti
della sua belle époque, restituita nei mille excursus di Ascolto il tuo cuore, città.
Principio (e conclusione) in forma d’ordigno 13
Questo singolarissimo omaggio, dove l’ironia deve continuamente accorrere
per impedire alla commozione e alla tristezza di traboccare, uscì da Bompiani al principio del 1944, ma «era per essere licenziato alle stampe» giusto nel
fatidico agosto del 1943. Divenne così il ritratto di una Milano doppiamente
perduta, al quale Savinio volle allegare l’elzeviro pubblicato sul Corriere della Sera alla vigilia dell’armistizio, ampliandolo per dire «tutto l’amore “carnale” che uomo può avere a una città». Nelle Note di taccuino conclusive ne
vagheggia una pronta e brillante rinascita. Passeggiando tra le macerie, a meravigliarlo è innanzitutto la sorte benigna toccata ai «monumenti uomini»:
In piedi è Cavour in mezzo alla piazza che porta il suo nome. In piedi è Vittorio Emanuele in mezzo a Piazza del Duomo, ancorché questo re gittato nel
bronzo e assieme il cavallo che gli sta tra le gambe, siano in procinto di cadere
fin dal momento della loro erezione. In piedi è Bertani di fronte alla Montecatini, e con affettuosa mano si stringe il suo caro rotolo di carte al petto. In piedi
è Leonardo inquadrato dai suoi discepoli in mezzo a Piazza della Scala. In piedi è Cesare Beccaria, volto le spalle al vecchio palazzo di giustizia che ha tradito le sue leggi. […] Parini continua a camminare immobile davanti ai tram di
Piazza Cordusio, e Garibaldi in mezzo al Largo Cairoli non è sceso da cavallo.7
E intatto è il Napoleone di Canova a Brera, intatto il san Francesco che
si china sulla fontana di piazza Sant’Angelo, intatto Alessandro Manzoni,
desolato sul piedestallo in mezzo alla sconvolta piazza San Fedele: «Che
significa questo rispetto che la morte ha avuto per le statue? E che pensano le statue di questo ardore distruttivo dei loro fratelli di carne, di questa
loro inestinguibile sete di morte?».8 Non è dato saperlo. C’è però un’eccezione, tanto casuale quanto emblematica. I milanesi che si avventurarono ai Giardini pubblici di Porta Venezia, la mattina dell’8 agosto 1943,
trovarono le gabbie degli animali devastate, gli alberi ridotti a moncherini
dal magnesio, il Museo di storia naturale diroccato. Nessuno, al momento, si accorse che una statua era scomparsa dalla sua sede, una lingua di
terra in mezzo al laghetto artificiale. Nemmeno un frammento. Polverizzata. Qualche giorno dopo, nel fango, si vide affiorare la lapide:9
a
carlo porta
poeta milanese
14 Divora il tuo cuore, Milano
Una statua in esilio
E dopo subet subet ghe farev
on monument magnifegh tutt de preja
e minga de palpee, che ghe sommeja
Porta, framm. 261
Come era capitato il monumento a Porta in un cantuccio del parco, a due
passi da lama, tigri, giraffe e gazzelle? Perché si era scelto di relegarlo –
lui poeta urbano quant’altri mai – in mezzo a uno stagno, lontano dal cuore pulsante della città, dalle strade, i teatri, le osterie, i negozi, le chiese
che animano i suoi versi? Vale la pena di rievocare una vicenda istruttiva, che esemplifica come meglio non si potrebbe l’ostracismo e finanche
l’astio maturato da una robusta fetta della classe dirigente ambrosiana
nei confronti del “suo” poeta. Tanto suo che già all’indomani della morte l’epigrafe dettata per la lapide tombale subì spiacevoli vicissitudini.10
In compenso una società di amici e ammiratori,
capitanata da Tommaso Grossi, mise insieme
la somma che consentì a Pompeo Marchesi
di scolpire il busto tuttora visibile nel loggiato
dell’Accademia di Brera.
Il proposito di onorare in modo più consono il poeta si scontrò nei
decenni successivi con
insuperabili resistenze.
Non si trattava soltanto
di invidie e piccinerie,
quelle che Porta stesso aveva deprecato alla
morte di Giuseppe Bossi: «I malign, che hin pu
spess che i galantomm, |
Principio (e conclusione) in forma d’ordigno 15
o de riff o de raff, o indrizz o stort, | cerchen, se ponn, de spiscinigh el
nomm».11 Come si vedrà nel terzo capitolo, non uno ma almeno tre – perbenismo, religione e politica – furono gli scogli contro i quali si arenò la
fama di Porta. Per essi dovette subire fior di censure, che alimentarono
stampe alla macchia, circolazione per vie traverse e persino tensioni diplomatiche tra la Confederazione elvetica e l’Impero asburgico. Irrimediabilmente osceno, irreligioso, derisore indefesso delle bassezze ecclesiastiche,
sprovvisto di nazionalismo italiano e per giunta allergico a ogni forma
di populismo. È impossibile sopravvalutare il peso dell’estraneità portiana alla celebrazione della serie Dio-patria-popolo-famiglia, che imperversò ben oltre l’Ottocento romantico e ben al di là dei confini cittadini.
Tra gli avversari più tenaci, naturalmente, spiccava l’ala conservatrice del clero. D’altra parte – a prestar fede a un vulgato aneddoto – niente
meno che l’arcivescovo di Milano Carlo Gaetano di Gaisruck, rivolgendosi al Grossi, avrebbe esclamato: «Innalzerei un monumento a Carlo
Porta»,12 grato per i benefici effetti sui sottoposti della sferza agitata dal
poeta. L’auspicio si realizzò soltanto dopo l’Unità d’Italia, in corrispondenza della risistemazione dei Giardini pubblici. A dire il vero, già nell’aprile del 1858 era stata promossa una sottoscrizione, alla quale il governo
austriaco parve acconsentire («pur non obbliando la qualche licenza, cui
per avventura è trascorsa la satirica e scherzevole sua musa»).13 La pratica venne però ostacolata e solo dopo l’avvento dei Savoia poté andare a
buon fine.
Nell’autunno del 1862, senza cerimonie, venne finalmente posta in
loco l’opera in finto marmo di Alessandro Puttinati: come nel Miserere, un bell’arnese «de rivi e de bojacca | rappresentant la motta di virtù |
ch’el mort el gh’eva, o el ghe doveva avè».14 Lo si poté appunto apprezzare nel ’43, in occasione dei bombardamenti. Né l’erezione, ancorché tardiva, spense le polemiche. Lo testimonia il pio dispetto di Cesare Cantù:
«se una fanciulla o un giovinetto domandino alla mamma di chi sia quella statua, e chieda di leggere la Tetton o la Nina del Verzee, sarà bene spudorata s’ella non arrossisce, e se riconduce a quel pericolo l’innocenza».15
Ancora più aspra la reazione dello scapigliato Igino Ugo Tarchetti, quale
si evince da un acidissimo dialogo. È il caso di riportarlo per intero, poiché la veemenza lascia emergere le accuse più spesso rivolte a Porta in età
risorgimentale, su cui sarà necessario tornare:
16 Divora il tuo cuore, Milano
Mi rivolsi e vidi che stavano discorrendo del monumento a Carlo Porta –
Erano un vecchio ed un giovine; e il primo aveva sul volto tutto ciò che la
vecchiaia ha di nobile, e le traccie delicate del pensiero, e i solchi che v’imprime il dolore lungamente protratto; e aveva pronunciato quelle parole come un’esclamazione che gli venisse suggerita da un disprezzo amarissimo.
− Che intendete di dire? – esclamò il giovine.
− Nulla – disse l’altro – se non che questo è il primo monumento veramente pubblico che Milano intendesse di innalzare ad uno de’ suoi grandi
autori: ma guai a quegli uomini che porsero una tale lezione d’immoralità al loro paese! Questo monumento li accusa in faccia alla coscienza della nazione.
− Egli ha educato il popolo e ne ha dissipato i pregiudizi…
− Sì, il suo volume è divenuto popolare, non vi ha casa di tolleranza dove non faccia pompa di sé; voi lo rinvenite al capezzale di tutti i giovani,
ove egli prepara quella scelta moltitudine di lettori ai romanzi della Biblioteca Galante, che svela
lo spirito corrotto della popolazione: egli ha
reso popolare in Italia il
carattere milanese, come carattere timido, talora codardo, chiassone,
goffamente millantatore; il tipo francese magnificò sul lombardo, e
la sua città, trascinata
da non so quale acciecamento, gliene seppe
grado, e ambì, e s’informò quasi a quel carattere. – Foscolo vivente
lo avrebbe definito come definiva l’Aretino:
uomo d’ingegno mediocre e d’animo sozzo.
Invece il paese gl’innal-
Principio (e conclusione) in forma d’ordigno 17
za, a preferenza di tutti i suoi grandi scrittori, un monumento, e lo colloca
in una posa degna di Klopstock e di Dante… Ah! Quella statua è l’apoteosi dell’immoralità.16
L’effigie di Carlo Porta si specchiava nelle acque del laghetto in atteggiamento pensieroso, signorilmente distanziata dall’osservatore: la statua
venne infatti esiliata su una sponda irraggiungibile, nel timore fosse eletta a novello Pasquino. Lo spirito popolare si rifece battezzandola «el guardian di occh», che insieme alle anatre e ai rospi pullulavano nei dintorni.
L’infelice collocazione non mancò di suscitare l’amarezza dei partigiani
del poeta, che inutilmente ne invocarono il trasloco. Paradigmatici i versi
in cui Ferdinando Fontana, ardente poligrafo socialista, sfruttava la questione per inveire contro il falso progresso ambrosiano:
Milano, la grassa – l’allegra Milano,
coi tempi moderni − solerte s’avvia
e, sotto la cupola – de la Galleria
c’è un mondo diverso – da quello d’jer.
Ma ancor, nei vicini – suoi campi, s’ammala
e muor di pellagra – l’esausto villano;
ma ancor c’è chi crede – che andare alla Scala
sia l’alta missione – dell’uomo quaggiù;
ma ancora una piazza – non vanta di Porta
l’effigie, che dica – col volto mordente:
«È vana speranza – domar questa gente
col grullo sussiego – d’un tempo che fu!»�17
Il dibattito intorno alla statua permette di verificare come il malanimo dei detrattori non andasse scemando col tempo. Cantù, ancora nel
1882, rispolverava le riserve di parte cattolica sulla volgarità di una
«musa educata ne’ postriboli», che avrebbe gettato «il peggior vilipendio sul carattere del popolino milanese, vigliaccamente spavaldo,
credulo, sguajato; e ciò non per medicare o emendare alcuna piaga,
giacché non è rimedio il celiarne, bensì per farne tema, flagellando
18 Divora il tuo cuore, Milano
o carezzando quelli che l’opinione volgare flagellava o carezzava». 18
All’intemerata rispose Giovanni Pozza, direttore del Guerin meschino,
immaginando una risposta dall’aldilà di Porta, disposto a cedere la statua al suo fustigatore:
Là, in mezz a la sciattéra,
el ghe starà benon!
I sciattitt, invers sera,
col cuu in la palta e col muson in l’ari,
parirà che ghe disen el rosari,
o che ghe leggen su
i pagin de moral che l’ha scritt lù,
sur don Ceser Cantù!19
Non stupisce che tra i difensori di Porta, a quest’altezza cronologica, si
agitassero gli alfieri di un disimpegnato buonumore. A partire dal secondo Ottocento la più frequente alternativa al rifiuto nei suoi confronti
consisteva nel travestirlo da innocuo mattacchione, magari un po’ balzano, ma quanto spiritoso! Un Porta frainteso e sminuito, evidentemente.
Niente più d’un impiegato vigliacchetto e salace, al quale rivolgersi per
tirare il fiato, nelle rare pause concesse dal turbine di occupazioni, affari, commerci che infervorava la capitale morale. In questo senso la collocazione della statua era in realtà perfetta. Lungi dal trambusto, finì con
l’attirare irresistibilmente i nostalgici di un municipalismo familiare, attoniti dinanzi ai contrasti sociali della Milano fin-de-siècle. Un documento perfetto di questa dinamica si ritrova in una famosa prosa cadenzata
di Emilio De Marchi:
Semm italian, l’è vera; el mè l’è tò, el tò l’è minga mè; ma s’ciao, quel Milanin de Carlambroeus, grand o piscinin, el stava intorna al Domm, come
ona famiglia che se scalda al camin. E se parlava milanes, quell car linguagg
sincer e de bon pes, che adess el se vergogna de parlà, el tas, el se struscia
in d’on canton come se Milan el fuss Turchia. El Porta, pover omm, l’è
là, lu de per lu, su la sciattèra, e sul cors no se sent che gniff e gnaff… che
nol par vera nanca el quarantott.20
Principio (e conclusione) in forma d’ordigno 19
Di consolare la solitudine del poeta si incaricarono – oltre ai volatili e a
Gabriele D’Annunzio (che in quei paraggi amava indirizzare le sue passeggiate milanesi)21 – battaglioni di devoti, che ne fecero la meta di pellegrinaggi, veri o versificati, sulle tracce di un Milanin perduto. Confuso tra
loro troviamo pure il maggior poeta dialettale sorto a Milano nel Novecento, ovvero Delio Tessa, che in un’importante prova giovanile, Primavera, vagheggia di piantare in asso le soffocanti incombenze dell’avvocatura
per rifugiarsi ai Giardini,
a sfregujà i michett
a qui pover ochett,
a qui bej anedrin,
a qui car pellican
che stann lì a fà de scorta
al Carlin, a quell Porta
de sass… pover pattan!22
Con altro spirito Tessa si volgerà al suo nume in A Carlo Porta, il capolavoro in cui sfregia il sogno di una città-famiglia solidale, spezzato dal tralignare della borghesia ambrosiana, docile preda delle sirene fasciste. Di ciò,
nell’Epilogo. I versi citati appartengono invece al 1912. Qualche anno prima si era affacciata l’ipotesi di uno spostamento della statua nei pressi del
Verziere, rigettata a causa delle pessime condizioni in cui versava. Si decise
dunque di lanciare il concorso per un nuovo monumento, vinto da Alberto Dressler, che progettò una fontana a esedra nella quale il poeta, seduto,
contemplava dall’alto un crocchio di popolane intente a sciacquare gli ortaggi nella vasca. L’insieme avrebbe dovuto trovare posto in una nicchia del
Palazzo Trivulzio. Ma le iniziative organizzate per raccogliere i fondi naufragarono miseramente, nel disinteresse generale, sicché non se ne fece nulla. Erano d’altronde tempi di montante nazionalismo, che nocque una volta
ancora alla causa portiana, vanamente patrocinata in libelli, versi, recite denuncianti l’irriconoscenza della città e l’inerzia delle istituzioni.23 Neppure
il centenario della scomparsa valse a smuovere le acque.24 Ancora negli anni trenta, nel proemio a un’edizione promossa dalla Famiglia Meneghina, il
conte Pier Gaetano Venino lamentava l’assenza di un degno monumento:
20 Divora il tuo cuore, Milano
mentre il Belli – romano – dall’alto del suo monumento, posto in una delle
più frequentate vie della capitale, sembra ancora vivere fra il popolo suo, il
Porta – non certo a lui minore – continua a specchiare il proprio modesto
simulacro di pietra nell’acque quete del minuscolo lago dei nostri pubblici
giardini, e a nascondere la tristezza dell’abbandono nell’ombra verde delle
piante che, almeno quelle!, gli fanno intorno come una tangibile corona.25
E là rimase, sino alla notte in cui venne annichilito da un ordigno. Seguirono anni di oblio. Nel 1950, in un’occasione celebrativa, il sindaco di Milano Antonio Greppi non esitò anzi a riesumare le avversioni
risorgimentali, definendo il poeta «nient’altro che un funzionario “pignolo” e un mediocre cittadino». Promise comunque di ripristinare il
monumento: non in centro, ma ai margini della città, tra gli eredi dei
suoi personaggi, «anche perché ad essi più che al Porta sarà, come è giusto, dedicato».26 Sei mesi più tardi lasciava la carica. Dovettero trascorrere sedici anni e succedersi quattro amministrazioni comunali prima
che si inaugurasse – a opera di Piero Bucalossi, contornato da fanfare, “stelline” e “martinitt” – la nuova statua a Carlo Porta, posta nello spazio in cui nel primo Ottocento si teneva il mercato del Verziere.
Il lavoro fu affidato a Ivo Soli,
che si basò sul manufatto del
Puttinati, ma conferì al poeta tratti vagamente caricaturali.
La riduzione al comico acquisiva così vesti bronzee e ufficiali,
dopo avere imperversato nell’opinione comune. «Ah… ah… il
Porta, che bel matto! Che ridere! Che ridere», si entusiasma il
Consigliere Delegato, in un tagliente Dialogo tessiano.27 Troppo a lungo, troppo spesso Carlo
Porta è stato mantenuto in questo equivoco da quanti hanno
inteso sottrarlo alla «sciattéra»
della memoria.
Principio (e conclusione) in forma d’ordigno 21
Conclusione (e principio)
Le bombe del 1943 segnarono un momento determinante non solo per la
statua di Carlo Porta, ma anche per la fortuna della sua opera, che conobbe un destino paradossale: da un lato il definitivo tracollo, dall’altro un’insperata rinascita. Negli anni successivi andò infatti accelerando il declino,
iniziato durante il ventennio fascista, della circolazione portiana in ambito
locale. Spesso osteggiati dalla cultura ufficiale, non sempre compresi nella loro portata, per un secolo e più i versi di Porta avevano comunque costituito un cardine dell’«educazione sentimentale di ogni lombardo», per
citare una formula cara a Dante Isella. Non si contano i personaggi passati in proverbio, le scene esemplari, i versi mandati a memoria e citati in
situazioni propizie da oscuri «ragionatt» non meno che da celebri scrittori (per rendersene conto basterà scorrere l’epistolario di Alessandro Manzoni, o le Note azzurre dossiane).
Non pare secondario constatare come l’auspicio romantico di una democratizzazione della letteratura, di una sua vivace circolazione nel corpo della società, trovi una realizzazione prodigiosa in ambito urbano, per
mano di un poeta dialettale, che senza l’aiuto delle istituzioni seppe conquistarsi e mantenere a lungo i favori della moltitudine foscolianamente
situata «tra l’idiota e il letterato», di regola poco sensibile al richiamo delle belle lettere. A quale prezzo, lo si è accennato. Ma intanto fraa Zenever,
il Marchionn, le damazze entravano in pianta stabile nelle case milanesi
e lombarde, in edizioni ora costose ora popolarissime, animate dalla voce affettuosa dei familiari, secondo una tradizione spentasi appunto solo
nella prima metà del secolo scorso (§ iii.1).
Nel frattempo si era risvegliata l’attenzione della critica, che in precedenza aveva sostanzialmente ignorato l’opera portiana. Non bastano infatti i sondaggi filologici condotti da Carlo Salvioni, e neppure la luminosa
monografia di Attilio Momigliano28 a bilanciare il silenzio di Francesco De
Sanctis, o il disinteresse di Benedetto Croce. In piena temperie neorealista
la rappresentazione portiana degli umili e la satira dei ceti privilegiati suscitarono invece l’entusiasmo degli studiosi di impostazione progressista,
decisi ad accantonare le patenti di viltà rifilate al poeta per riconoscere
nella sua opera una ribellione coraggiosa e senza compromessi, aliena dal
sentimentalismo che di lì a poco avrebbe preso piede in poesia. Se già Raf-
22 Divora il tuo cuore, Milano
faello Barbiera aveva visto nel Porta più audace un «antecessore d’Emilio
Zola»,29 Natalino Sapegno guardò piuttosto al verismo: «il mondo volgare ch’egli mette in scena è da lui sentito con animo lirico, con quella simpatia e pietà, che è un dono del romanticismo, e insieme con un’arditezza
e crudezza di visione, che non si ritroveranno uguali se non in Verga».30
Il Bongee, la Ninetta e il Marchionn, secondo Giorgio Bassani, sarebbero
«i primi tre vinti della letteratura italiana moderna»; il sole che illumina
la loro povera Milano è lo stesso che tornerà a splendere «sulle sciagure
dei Malavoglia».31 A differenza del siciliano, però, Porta non è mai riuscito ad acquisire nel canone scolastico un’importanza primaria. Più lodato che letto, come tutti i grandi dialettali, ancora oggi figura nei manuali
come aiutante di seconda fila dei maestri romantici, mentre le antologie
– già per natura sfavorevoli ai poeti di passo medio e lungo – di norma si
fermano alla satira antinobiliare della Preghiera, con l’eventuale guarnizione di qualche sonetto.
Al secondo dopoguerra risale anche la ripresa dei lavori filologici intorno all’opera portiana, grazie all’impegno di Dante Isella, che presto
poté mandare in soffitta le stampe scorrette allora circolanti, sostituite da
un’edizione critica esemplare, comprendente abbozzi, frammenti e apocrifi.32 «Abbiamo dunque finalmente un Porta in tenuta accademica», ebbe a commentare Antonio Banfi,33 ammirato dinanzi a un’impresa che
mobilitò tanto la critica specialistica quanto gli intellettuali più in vista,
come Eugenio Montale.34 L’onda della riscossa portiana arrivò all’estero (a Parigi Henri Auréas diede fuori un’apprezzabile monografia)35 e si
protrasse sino agli anni settanta, quando comparvero due volumi fondamentali, ovvero Le charmant Carline, di Guido Bezzola; e il Ritratto dal
vero di Carlo Porta, dello stesso Isella; presto seguiti dal convegno su Carlo Porta e la tradizione milanese, organizzato dalla Regione Lombardia.36
Scorrendo i relativi atti si incontrano i nomi degli studiosi (Angelo Stella,
Gennaro Barbarisi, Pietro Gibellini, Claudio Milanini) che meglio avrebbero tenuto viva la fiammella portiana nei decenni successivi, insieme a
Bezzola e all’instancabile Isella.
Non è questo il luogo per proporre una articolata ricostruzione dei
meriti da attribuire allo studioso varesino, che al lavoro sulla biografia e
sui testi ha aggiunto una serie di contributi37 in grado di sottrarre una volta per tutte Porta all’etichetta di scrittore naïf, popolano di genio, talento
Principio (e conclusione) in forma d’ordigno 23
comico fiorito spontaneamente, tutte varianti di un’ipotesi serpeggiante
sino alla metà del secolo scorso. A questo scopo hanno giocato un ruolo
decisivo le indagini sulla maestria metrica e stilistica portiana: la varietà di
schemi ritmici, lo sfruttamento delle risorse quantitative del milanese, gli
accumuli vertiginosi, i geniali pastiche linguistici. Questi ultimi tratti hanno spinto Isella a postulare l’esistenza di una «funzione Porta», ravvivata
dai maggiori Carli conterranei: vale a dire Dossi, Linati e Gadda. Il tutto
nell’ambito di una linea espressionistica lombarda, in grado di scavalcare
secoli, codici e generi letterari.38 Si tratta di una congettura suggestiva, che
muove da premesse continiane, svolte in una direzione geograficamente
connotata.39 Ha destato tuttavia qualche equivoco la tendenziale sovrapposizione tra plurilinguismo ed espressionismo: un concetto che smarrisce
pregnanza se privato di un saldo legame con la rappresentazione dell’orrido, del macabro, della violenza deformante − in assenza insomma della dimensione del tragico.40
A tutto ciò l’opera di Carlo Porta risulta sostanzialmente estranea. Livide incisioni e “tedescherie” romantiche sotto la sua penna ricorrono soltanto in chiave umoristica (si pensi a On striozz). La complessa stratigrafia del
dialetto, lungi dal contraddire l’assunto, come ha osservato Gibellini rende il poeta «più prossimo a Manzoni che agli espressionisti più tardi», in
quanto i materiali linguistici convocati sulla pagina obbediscono «innanzitutto a necessità di caratterizzazione etica e mimetica». Non attentano mai,
in altre parole, alla verosimiglianza del locutore: «la narrativa è il traguardo
cui aspira la cultura lombarda da Parini a Manzoni, e che trova nei versi di
Porta un ponte essenziale».41 Lo stesso Isella esplorò da par suo nell’opera
di Manzoni i lasciti di Porta, «modello narrativo dei più felicemente fruibili» dall’autore dei Promessi sposi. E già Sapegno aveva visto nelle ottave
dei grandi poemi popolari «la soluzione più ardita potente e drammatica di
un’esigenza largamente diffusa di narrativa moderna».42 Esigenza non del
tutto soddisfatta, in un paese che non ebbe né un Puskin né un Gogol’, al
quale non sarebbero forse spiaciute le disavventure di Giovannin Bongee.
Porta e Belli, nelle parole di Raboni, «non sono stati “soltanto” dei grandi
poeti; sono stati anche − all’insaputa dei loro contemporanei e, forse, di loro stessi − i nostri Gogol’, i nostri Dickens, i nostri Balzac».43
Su queste basi non è difficile rendersi conto dell’importanza che assumerà un’attenta ricognizione delle tecniche narrative portiane, con par-
24 Divora il tuo cuore, Milano
ticolare attenzione al versante più originale, eppure sinora restato nella
mezz’ombra. Alludo alla configurazione dell’io poetico, nella quale operano due coazioni sistematiche: da una parte al fregolismo, ovvero al travestimento in panni altrui; dall’altra al coinvolgimento dell’interlocutore.
Sta qui il marchio tipico della maniera di Porta: il clic che attiva un patto
di sorprendente efficacia, postulante un uditorio collettivo, e non un fruitore solitario, silenzioso, in un contesto privato, come è prassi nella civiltà del romanzo (§ ii.2).
Non sono soltanto le scelte stilistiche a lasciare in chi legga o ascolti
leggere la poesia di Porta il «marcato senso di ordine» rilevato da Isella.44
Al riguardo Tommaso Grossi aveva coniato l’immagine di «un fiume di
latte che cammini in un canale lastricato di marmo», mentre Pier Paolo
Pasolini si è spinto a evocare «schemi di gusto vagamente neoclassico».45
Supposizione, quest’ultima, piuttosto arrischiata. Sono altri gli “ismi” che
contano davvero per Porta. Le modalità d’enunciazione indurranno ad
abbandonare anche l’ipotesi di un Porta protoverista, teso a restituire le
traversie dei ceti disagiati. Incommensurabili sarebbero del resto le distanze ove si volesse raffrontare, ad esempio, il trattamento riservato alla religione, o all’istituto familiare. Né Dossi né Verga, a dirla in breve,
paiono usciti armati di penna dal leggendario tabarro color nocciola del
poeta ambrosiano. Chi volesse individuare una qualche forma di “impersonalità” nei suoi poemetti dovrebbe intendere il termine nell’accezione
prettamente teatrale che gli conferisce Federico De Roberto nell’introduzione ai Processi verbali: monologhi e dialoghi, quasi privi di didascalie.
In questi paraggi, ben più che nel mero ricorso al dialetto, affonda le radici quell’impressione di vigore, naturalezza, verità comportamentale che
da sempre seduce i lettori di Porta.
Siamo con ciò a due passi dalla formula sotto la quale trova ricovero,
scontato ma sicuro, il meglio della cultura letteraria lombarda. Realismo
& moralità, dunque: tensione etica, impegno civile, attenzione alla concretezza del vivere, ostilità alle convenzioni, ai fumi della retorica. Con il
che, però, il discorso di solito si chiude là dove dovrebbe cominciare. A
voler andare oltre questi requisiti sommari, infatti, occorre disfare lo scatolone in cui abitualmente vengono stipati il pio Maggi insieme al Porta
«porscell», Parini e Rebora, Gadda e Manzoni, Tessa e i laghisti radunati da Anceschi. L’idea che a legarli insieme provveda uno spago lombar-
Principio (e conclusione) in forma d’ordigno 25
do, robusto e policromo, lascia tiepidi non soltanto per il grado scadente
di generalizzazione cui costringe, ma anche perché presuppone, in modo
più o meno esplicito, l’esistenza di un nucleo invariabile. Un carattere, o
come oggi si preferisce dire un’identità, in grado di saltare agilmente dalla penna d’oca al programma di videoscrittura, pronta per essere riconosciuta dall’osservatore all’erta. È tempo, credo, di rimettere in discussione
simili sottintesi e circoscriverne la portata.
Il caso di Porta è utile e sintomatico anche da questo punto di vista.
Perché non era affatto scontato − in questa stagione interminabile di localismi sciovinisti, di entusiasmi per le risorse dialettali, di aspre contese
intorno all’ethos ambrosiano – che nessuno sentisse il bisogno di rispolverare ai propri fini un’opera che dovrebbe rappresentare la quintessenza del genius loci. Almeno se si crede, con Carlo Cattaneo, che
L’istoria della intelligenza comunale non si depone negli atti delle Academie; e sarebbe forse più ragionevole l’arguirla dai registri delle dogane
che da quelli della pubblica istruzione; […]. Il vero stato degli animi e delle anime, lo specchio delle abitudini, delle tradizioni, delle simpatie, delle antipatie, sfugge alle superbe frasi della letteratura nazionale. Ella vien
tracciata dalla raccolta dei poeti vernacoli. 46
Eppure nessuno si è sognato di rivolgersi a Porta, fatto salvo qualche cenno en passant. Curioso. Non rivendica forse con orgoglio, a più riprese, la
propria appartenenza cittadina? Non dipinge Milano in anni irripetibili,
gli unici in età moderna in cui sia stata investita del ruolo di capitale politica? Ma al giorno d’oggi pullulano piuttosto i nostalgici della Restaurazione austriaca, che soffocò slanci e ambizioni di una città attrattiva, al
centro del giovane Regno d’Italia napoleonico. Ora, questo orientamento elegiaco non trova appigli nei versi portiani, per di più scevri dai connotati tipici del dialettismo deteriore: mentalità filistea, idillismo ingenuo,
avversione preconcetta alle novità e appunto rimpianto del passato, meglio se contadino. Figuriamoci! A questo proposito sarà bene trascrivere
un altro capoverso di Cattaneo:
Io spero che un giorno saremo capaci di accorgerci dell’immenso beneficio che quell’acerba flagellazione ci recava. Per ora confesso che la lividu-
26 Divora il tuo cuore, Milano
ra e il bruciore ci stanno troppo recenti sulla pelle. E, ciò che peggio si è,
molti da quelle staffilate hanno imparato poco più che l’odio al flagellatore. Il più bel sogno delle loro notti sarebbe che le opere di Porta venissero sepolte con lui. Tanto è il bisogno che ne hanno ancora.47
Parole scritte nel 1836, a sostegno di una lettura progressista dell’opera
portiana – specchio, frusta e sprone − che rimase sostanzialmente lettera morta. A prevalere fu invece una forzatura in chiave consolatoria, resa vie più ardua dalle metamorfosi subite da Milano. È l’eterno ritornello
della città che dispare sotto i colpi del piccone: «e quale la lasceremo non
era, e qual era neppur più la ricordo: la forme d’une ville – change plus
vite, hélas! Que le coeur d’un mortel».48 Come tanti, anche Gadda guardò al cygne baudelairiano per esprimere il suo sconcerto dinanzi al vortice della modernità urbana. Ma a cambiare non è, inevitabilmente, anche
«le coeur d’une ville»? E quante volte Milano ha divorato il suo cuore?
Si tratta di un interrogativo cruciale, tanto più ora che la fedeltà alla
tradizione è assurta a valore pressoché incontestabile, bandiera agitata
nei campi più disparati: dalla gastronomia alla politica. Quale tradizione? Viene spesso da chiederselo, studiando Porta. A neppure due secoli
dalla sua scomparsa, molti degli aspetti che attribuisce allo spirito milanese appaiono svaniti nell’aria: ignoti ai cittadini, negletti da critici e
sociologi. È parso perciò opportuno aprire il volume con un capitolo di
taglio imagologico, incentrato sulla ricostruzione dello stereotipo “classico” dell’ambrosiano: ponendo l’accento sulla convivialità, sulla schiettezza e sulla generosa bonomia, al limite dell’ingenuità, così derisa per
secoli, così importante nei versi di Porta, così deprecata da quanti nel
xxi secolo incarnano dinanzi agli occhi del mondo il tipo del lombardo. A torto o a ragione (poiché non è questo il punto) diffidenza, malumore, freddezza, spocchia e premura sono i suoi tratti salienti oggi più
riconosciuti, mentre il pragmatismo è trascolorato in zelo ottuso, la cordialità in un insulso spirito barzellettiero. Viene allora più facile capire
le ragioni che determinano l’oblio del poeta, il quale su questo terreno
ha poco da insegnare. Sono altri i cliché che le pagine portiane veicolano, discutono, attaccano. Ecco dunque che la sua opera si rivela attrezzo adattissimo a temperare uno dei miti più ossessionanti del nostro
tempo, l’identità culturale, ritenuta una pietra inalterabile, da preserva-
Principio (e conclusione) in forma d’ordigno 27
re e riverire, e non una finzione incessantemente rinegoziata, come nella prospettiva adottata in questa sede.
D’altra parte l’operazione di Porta appare intrinsecamente moderna. A
rappresentare e giudicare lo Stadtgeist primo ottocentesco, le mentalità e
le condotte in esso operanti, vigila uno sguardo estraneo alle vecchie dinamiche sociali. È il suo liberalismo laico, fondato sui principi illuministi, a
conferire ai versi il tono di una borghesia «nel fiore della sua forza espansiva»,49 ottimista e fiduciosa nel valore socialmente produttivo del lavoro.
Beninteso, siamo ancora a monte del mito della capitale morale, dell’industrializzazione, delle speculazioni affaristiche. Ma in questo non ancora-non
più dimora il fascino dei versi di Carlo Porta e ferve il succo che ne va ricavato. Per capirlo occorrerà preliminarmente retrocedere, così da mettere a fuoco il tratto sin dal Medioevo ritenuto centrale nella definizione del
carattere ambrosiano: l’ingordigia (§ i.2). Lupi lombardi, che tutto – donne, onore, denari − pospongono alla soddisfazione del ventre. Tale sarebbe
la peculiarità dell’Homo mediolanensis, arcinota nel resto della penisola e
lampeggiante in Boccaccio, nell’Aretino, in Goldoni, Alfieri, in cento altri
scrittori. Solo dopo l’unificazione iniziò il suo lento crepuscolo, concluso
alla metà del Novecento. Al presente la ghiottoneria risulta cancellata persino dal ricordo, dove è al limite sostituita dalla cordialità, che per secoli
le fece da semplice scudiero. Una rimozione paradossale, mentre Milano si
candida a spiegare come «nutrire il pianeta», in occasione dell’Expo 2015.
Nei versi di Porta «brindes» e «pacciade» hanno un ruolo decisivo:
vi si concentrano l’inganno e l’ingiustizia sociale, al di là del lieto disimpegno (§ i.3). È un altro indizio della rilevanza e della complessità della
«civiltà alimentare» milanese, come la definì Savinio, che nelle sue digressioni ambrosiane vi insiste spesso, persuaso che «la civiltà quando arriva
al suo apice, diventa naturalmente conviviale e la tavola centro della vita,
anche spirituale». Anche per questo, forse, Milano gli era parsa «uno dei
pochi luoghi della terra, in cui la parola humanitas serba intatto il proprio
significato».50 Un luogo dove ottimamente albergavano «Giustizia Illuminata, Mancanza di Odio, Ignoranza della Crudeltà». Potremmo oggi seriamente condividere questa impressione? Coltivare l’humanitas, restando
saldi nel cuore della modernità. È il messaggio di Porta. È l’auspicio sotteso a questo libro.
Questo lavoro deve tanto, anzi parecchio – direbbe il più stralunato dei bosini – al fiducioso entusiasmo dell’editore e alla comprensione di Maria.
Vittorio Spinazzola con generosità ha letto le mie pagine e offerto preziosi
consigli: al maestro, ancora una volta, va l’affettuosa gratitudine dell’allievo.
Grazie inoltre ad Andrea Gentile e a Paola Sala, che hanno seguito con cura
una redazione durata a lungo. Troppo a lungo perché potessero vederla ultimata Laura Grimaldi e Gianni, mon oncle. Questo libro è dedicato a loro.
I. Il carattere ambrosiano. Avventure di un cliché
1. Stadtgeist, identità e letteratura
Il viendra un temps où vous reconnaîtrez qu’il y a bien
peu de différence entre un peuple et un autre.
Napoleone
L’innovazione fondamentale introdotta dalla filosofia
della prassi nella scienza della politica e della storia è la
dimostrazione che non esiste una astratta “natura umana”, fissa e immutabile (concetto che deriva certo dal
pensiero religioso e dalla trascendenza); ma che la natura umana è l’insieme dei rapporti sociali storicamente
determinati, cioè un fatto storico accertabile, entro certi
limiti, coi metodi della filologia e della critica.
Antonio Gramsci
Chi non se ne avvede? L’identità è l’ossessione del nostro tempo. Dilaga
dall’antropologia alle scienze sociali, rimbalza in politica, finisce sui biglietti da visita degli assessori «al marketing territoriale e all’identità culturale». Tutti ci siamo abituati a adoperare il termine con disinvoltura, anche
in contesti informali. Eppure si tratta di una nozione tanto problematica
quanto pericolosa. Identità è una parola avvelenata:1 illude promettendo
certezza, precisione e permanenza. Rassicura, ma in cambio pretende fedeltà. L’identità non si discute, è sottratta al fluire delle umane vicende. Va
difesa nella sua purezza, eliminando le minacce esterne. È il mito che ha
preso il posto della razza, spostando il discorso dalla biologia alla cultura.
30 Divora il tuo cuore, Milano
A tale prospettiva si contrappone in queste pagine un approccio costruttivista, teso a descrivere le modalità con cui è stata riformulata l’identità milanese in epoca moderna. Un processo che trova nei versi di Carlo
Porta la tappa decisiva. È piuttosto istruttivo, in effetti, constatare la torsione radicale cui l’ambrosianità è andata incontro negli ultimi due secoli,
sino all’approdo a esiti in tutto discordanti dalle premesse. Naturalmente,
è necessario essere consapevoli della natura stereotipica delle rappresentazioni in esame; ma l’esigenza di maneggiarle con delicatezza non ne diminuisce l’importanza, cruciale sotto ogni aspetto. L’identità, infatti, «per
quanto prodotta soggettivamente, ha una portata oggettiva per coloro che
a quel dogma aderiscono. “Credere”, da questo punto di vista, equivale
a “essere”».2 Come insegna ogni mattina la cronaca, introiettare e rivendicare un’appartenenza è una strategia decisiva nel perseguire l’accesso
alle risorse in situazioni concorrenziali, specie in occasione di rapide trasformazioni del tessuto sociale. Limitarsi a negare o deprecare le proprietà identitarie, liquidarle come mero inganno è velleitario, mentre queste
incidono così profondamente sui comportamenti, promettendo premi o
punizioni. Le “comunità immaginate” non sono immaginarie.3 È perciò
quanto mai opportuno interrogarsi sui mutamenti delle impressioni attivate dallo stigma ambrosiano.
Beninteso, non si tratta di una questione nuova. Si parli di genio o di
ethos, di spirito o mentalità, il discorso sull’indole delle nazioni pervade
la cultura europea già prima dell’illuminismo, che ne fece un privilegiato campo di speculazione, sul quale Benedetto Croce si espresse in termini perentori: «Qual è il carattere di un popolo? La sua storia, tutta la sua
storia, nient’altro che la sua storia».4 Chi sostenga il contrario non fa che
trasformare il carattere in un destino, evocandolo per giustificare ogni avvenimento. Malgrado ciò, la ricorrenza del termine nella pratica sette-ottocentesca ha indotto a privilegiarne l’uso in questa sede, astraendo dalla
delegittimazione accademica, che ne sanziona come arbitraria e semplificante la pretesa di designare un insieme di attitudini e tratti psicologici
attribuiti a un gruppo. Si tratta in effetti di una generalizzazione elaborata a scopi difensivi, per servire – come tutti i pregiudizi − da strumento di
previsione e orientamento.5 Sarà comunque opportuno distinguere, ove
possibile, tra eterostereotipi e autostereotipi, con i quali tende a sovrapporsi la nozione di identità.6
I. Il carattere ambrosiano 31
Città e tradizione, com’è noto, non vanno troppo d’accordo. È per le
vie della metropoli che soffia più forte il vento della modernità, venuto a
scompigliare equilibri e rapporti sociali cristallizzati.7 Non stupisce, dunque, che la caratteristica più spesso evidenziata di Milano, la verghiana
«città più città d’Italia», sia l’instancabile attitudine al cambiamento.8 Una
città che divora il proprio cuore, appunto: che non ne vuole sapere di interrogarlo, e muta d’abito ogni sera, passando nel secondo dopoguerra
da capitale del miracolo economico a culla del terrorismo, da Milano da
bere a Tangentopoli. E poi le televisioni, la moda, l’Expo… Meglio fermarsi. Il caleidoscopio, che potrebbe ruotare ancora a lungo, non deve
indurre a conclusioni affrettate. Se non è possibile racchiudere Milano in
una definizione, lo stesso non vale per i suoi abitanti, intorno ai quali dalla metà del xx secolo è andato addensandosi un insieme di presupposizioni dotato di un’indubbia coerenza. Non è difficile elencarle, almeno
per sommi capi: gente irritabile, diffidente, frettolosa, arrogante, gelida,
sgobbona, venale.
Uno Stadtgeist dalle tinte desolanti, che ha trovato le rappresentazioni più significative nei primi anni sessanta, quando Milano fu epicentro e
bersaglio privilegiato della cosiddetta letteratura dell’alienazione, decisa
a guardare dietro le quinte del boom. Basterà a questo proposito citare,
sul versante della poesia, La vita in versi di Giovanni Giudici; su quello
della saggistica Industria e repressione sessuale in una società padana, esilarante ricostruzione antropologica dell’indigeno locale, che Umberto Eco
immagina condotta da un’équipe polinesiana;9 quanto alla narrativa, nessuno ha scordato le invettive di Luciano Bianciardi.
Il sesto e il settimo capitolo della Vita agra compendiano efficacemente
la visione di una metropoli nebbiosa e anonima, refrattaria a ogni forma
di solidarietà. «Ogni mattina la gita in tram è un viaggio in compagnia di
estranei che non si parlano, anzi di nemici che si odiano». Alla sera si trasformano in «larve imbacuccate», impazienti di asserragliarsi negli appartamenti, o silenziose dinanzi alla consumazione obbligatoria, nei ritrovi
dotati di apparecchio televisivo. Inutile cercare complicità, commentando gli sproloqui del conduttore: «una sera un tale borbottò: “Ma che cosa ci sarebbe da ridere? Sai la grana che si fa, quello, altro che ridere”».
L’episodio più amaro vede il protagonista, imbattutosi in un ubriaco morente, irrompere in un bar in cerca di soccorsi. Trova quattro giocatori di
32 Divora il tuo cuore, Milano
carte indifferenti, e una cassiera che gli fornisce a pagamento un gettone
per avvertire la Croce rossa. In attesa dell’ambulanza torna fuori a presidiare l’ubriaco: «Qualche larva, rincasando, quasi ci inciampò. Venne una
coppia, scartarono per non pestarlo, e tirarono dritto».10 Niente di strano. Sono queste le nuove urban rules: a Londra e New York è pure peggio, spiegano l’indomani i colleghi in ufficio.
Le pagine di Bianciardi grondano di un astio che vorrebbe demolire,
a un tempo, il cliché della bonaria affabilità meneghina e il mito della capitale morale: «l’unico mito ideologico serio, non retoricamente fittizio,
elaborato dalla borghesia italiana dopo l’Unità».11 Milano come fucina
del lavoro; Milano tollerante, laboriosa, sincera, pragmatica: una grande famiglia disposta ad accogliere e beneficare chiunque aderisca ai suoi
valori. Tali idee vivono in germoglio nell’opera di Porta, come si vedrà,
e conosceranno una fioritura breve: nell’Epilogo si avrà modo di riflettere sui precoci scricchiolii interni di una costruzione ideologica messa in
dubbio già a fine Ottocento dalle polemiche contro la speculazione affaristica e dal lievitare delle contrapposizioni di classe.
Ora importa piuttosto sottolineare come ben prima dell’epoca risorgimentale una serie di stereotipi positivi legati all’ambrosianità si fosse
imposta in lampante contrapposizione ai giudizi sul carattere italiano.12
E ciò, si badi, a dispetto dell’antica tendenza propria della cultura europea a estendere senza cautele all’intera penisola le prerogative di un Sud
pittoresco, scrutato con un misto di fascino e orrore – come d’altronde
avviene spesso tuttora.13 Un paradiso abitato da diavoli, ipocriti e vendicativi, libertini e gelosi, indisciplinati, indolenti e inclini a ricorrere alle
armi dei deboli, ovvero l’astuzia, la menzogna e la corruzione; laddove la
schiettezza e l’operosità rappresentavano componenti primarie del profilo standard ambrosiano schizzato dai viaggiatori stranieri e magnificato dagli autoctoni, al pari dell’allegria, della disposizione alla convivialità,
del candore, che tanta parte hanno nei versi portiani.
L’unificazione politica della penisola determina una evidente rotazione della prospettiva. È agli occhi degli italiani, non dell’Europa, che Milano − convertita da cardine d’una provincia meridionale dell’Impero
austroungarico a metropoli del settentrione sabaudo − si propone come
capitale morale. Gli sguardi che ne hanno incupito i connotati simbolici
vennero da Sud. A moltiplicarli, ad avvicinarli sempre più, badarono le
I. Il carattere ambrosiano 33
ricorrenti ondate migratorie, in grado di gonfiare la popolazione cittadina dalle 120 000 anime del primo Ottocento al milione e mezzo d’abitanti del 1961. Tra essi Luciano Bianciardi, salito da Grosseto nel velleitario
intento di far saltare il «torracchione» del capitalismo lombardo.
2. Il carattere ambrosiano “classico”
Est Deus his venter, broda Lex, Scriptura botazzus.
Teofilo Folengo
I più celebri giudizi moderni sui milanesi, nel bene e nel male, si devono
a due scrittori che ebbero modo di conoscere personalmente Carlo Porta e apprezzarne i versi. «Omero dell’Achille Bongé», per Ugo Foscolo;14
autore di componimenti «aimables» e «charmants» per Henry Beyle, in
arte Stendhal, che a Milano visse gli anni migliori della sua vita, circondato da un popolo che a suo dire riuniva in sé mirabilmente sagacia e bontà: «Quand je suis avec les Milanais, et que je parle milanais, j’oublie que
les hommes sont méchans, et toute la partie méchante de mon ame s’endort à l’instant».15 All’opposto, sono universalmente noti i versi dei Sepolcri tesi a censurare una città «lasciva | d’evirati cantori allettatrice» e il
«lombardo Sardanapalo», «cui solo è dolce il muggito de’ buoi | che dagli antri abdùani e dal Ticino | lo fan d’ozi bëato e di vivande». Qualche
anno più tardi Foscolo avrebbe visto l’Aiace cadere alla Scala, allorché sul
palco risuonò l’esclamazione: «O salamini!», che accese l’ilarità del pubblico, convinto di «essersi giustamente meritato il nome di salsicciotto per
quella sua soverchia pazienza».16 Spesseggiano nell’epistolario foscoliano
le invettive e il disprezzo contro Milano, definita «Paneropoli» (città della pànera), o «Butiropoli» (città del burro).17 L’apice è raggiunto nella lettera del 22 gennaio 1815 alla contessa d’Albany:
Ci mancava un verno simile a questo perch’io diventassi perfettamente
marmotta: potessi almeno marmottescamente dormire! o più bestialmente ancora tracannare, ingojare, sbadigliare, e tornar a tracannare come
fanno i’ beati animali bipedi di questo paese: così possono dimenticarsi
delle noje del verno, e di tutte le stagioni infelici dell’uomo. Un viaggiatore d’ingegno acuto, richiesto di ciò che aveva osservato in Milano, rispo-
34 Divora il tuo cuore, Milano
se: Stomachi. E davvero sono stomachi meravigliosi: l’anima che negli altri
uomini, a quanto pare, distribuisce la sua divina spiritualità al cervello, ai
sensi, a tutte le membra, e più vivamente al cuore ed alle altre regioni più
vitali, qui ne’ buoni Lombardi si concentra tutta quanta ad ajutare le fatiche dello stomaco. Dirò una cosa che ha del porco, come dice il Machiavelli; ma, la mi creda, non ha del maligno, ed è vera come se fosse uscita
della bocca di Socrate: la mi perdoni, e la m’ascolti. Questi buoni bipedi,
oltre al mangiare, rimangiare e stramangiare, parlano spesso, scrivono talvolta, e tal rara volta sorridono: eppure le loro parole, i loro scritti, i loro scherzi e gli atti loro e i pensieri pajono non tanto operazioni delle loro
facoltà intellettuali, quanto evaporazioni escrementali del loro stomaco.18
Disgustosi ventri senza cuore o creature squisite, cui è ignota la malvagità? Questi ritratti antipodali vengono in genere letti come espressione
di personalissime idiosincrasie, esiti di percorsi individuali eccezionali e
irripetibili. A ben vedere, però, tanto gli elogi quanto le ingiurie germogliano sul medesimo tronco. Sono cioè da riconnettersi allo stereotipo
tradizionale del milanese, ghiottone e affabile, ovvero ingordo e ingenuo, cristallizzatosi già nel Medioevo, accanto all’immagine del banchiere
e commerciante gretto, discesa dalla presenza nutrita di operatori lombardi nelle principali città europee. Non a caso nel Decameron la prima
novella dell’ottava giornata illustra le conseguenze della ingordigia di madonna Ambrogia, accecata dalla brama di denari, al pari del marito, Gasparuol Cagastraccio.
Umiliazioni, furti e raggiri nei confronti dei mercanti milanesi entrarono stabilmente nella tradizione novellistica.19 Più spesso, però, l’avidità
si riferisce al peccato di gola. In Boccaccio un passaggio cruciale luccica
alla conclusione della terza giornata, quando – in margine alla canzone di
Lauretta – il narratore osserva che «ebbevi di quegli che intender vollono alla melanese, che fosse meglio un buon porco che una bella tosa».20
La letteratura italiana offre infiniti spunti in merito. Data la sorprendente assenza di studi specifici, pare opportuno vagliare le emergenze più rilevanti: ne risulta una sagoma inconfondibile, oggi raschiata via dal foglio
dei pregiudizi, dopo essere rimasta per secoli stabile nei suoi tratti essenziali. Questa presunta attitudine, in effetti, venne intensamente biasimata
dai poeti satirici, che piegarono in ambrosianos l’antico tema dell’umori-
I. Il carattere ambrosiano 35
smo culinario.21 Si consideri, ad esempio, il sonetto di Luigi Pulci contro
«Questi mangia-ravizze e -rave e -verzi, | che ne mangiava un toson per tre
giganti»,22 o il quinto canto della Secchia rapita, là dove Alessandro Tassoni scherza sull’avanzata in campo di battaglia della gente di Milano «ch’ovunque il guardo di lontan volgea | rincarava le trippe e le fritelle».23 Ma
già Pietro Aretino, nel capitolo Allo Albicante, aveva coinvolto gli abitanti della città in un paragone poco onorifico: «Voi avete più obbligo alle
stelle, | che in capo vi pisciarono lo ingegno, | che i Milanesi a chi trovò le
ofelle». In precedenza il toscano nomina fra Porro, «poeta da scazzate»,
«che in Milano ti affibbi la ghirlanda | di boldoni, busecchie e cervellate».24 Non meraviglia perciò che al principio del Seicento lo Strambot de
Prissian da Milan tributi tale onore al Varrone milanese:
Se vù fení mì ev ved là su el Verzé,
con na corona in có de sciarvelá,
in mez di guarnascion par el nost dé.
On bel mant de scarlata ai spal zacá
co i brion de buseca, e tuc a dré
digand el nost poveta è incoroná.
E par più bel caná
strusà par tera on mij poù la covascia
criand al nost Petrarca al nost Bocascia.25
Allo stesso modo in un sonetto caudato coevo, indirizzato a Fabio Varese (probabilmente opera di lui medesimo), si prospetta l’arrivo di Apollo insieme alle muse «e co’ i poitt e tutta la brigà | a incoronatt de verz e
scervellaa»,26 in luogo dell’alloro. Tali pietanze – emblema anche nel Baldus27 della cucina ambrosiana – ricorrono già nel testo che Bernardino
Biondelli considerava il «più antico monumento superstite della letteratura milanese»,28 composto nel primo Cinquecento dall’astigiano Giovan
Giorgio Alione. Si tratta della Farsa del braco e del milaneiso, in cui Ambrogio, mercante di gioie e innamorato ridicolo, rimpiange nel proprio
idioma le dovizie alimentari della patria, cornucopia d’ogni abbondanza:
In Mireen hei cagnà, boson,
nôsit, presut e salcicion,
36 Divora il tuo cuore, Milano
bagian, buseca, lag imbroch,
ôfil, côglian, berlende, gnoch,
salvadesin, cavrit, dônii,
quai, girardine e garganii,
bôn pescarii, bôn vin, bôn paan…29
Alterigia e ghiottoneria connotano sovente il personaggio del milanese a
teatro, nella poesia comica e non solo. Particolarmente significative, anche per la fortuna cui andò incontro l’opera in Italia e all’estero, le apparizioni di questi cliché nella Vita di Benvenuto Cellini, sfidato nel capitolo
xcii del primo libro a superare l’arte ambrosiana di tingere i diamanti dal
gioielliere Gaio: «la più prosuntuosa bestia del mondo, e quello che sapeva manco e gli pareva saper più». Nel quinto capitolo del secondo libro campeggia invece la grottesca figura di un milanese, la cui ossessione
per il cibo trova rispondenza nell’aspetto fisico:
Per essere costui brutto di viso, e la bocca aveva grande per natura; da poi
per la ferita che in essa aveva auta gli era cresciuta la bocca più di tre dita; e con quel suo giulìo parlar milanese, e con essa lingua isciocca, quelle parole che lui diceva ci davano tanta occasione di ridere, che in cambio
di condolerci della fortuna, non possevamo fare di non ridere a ogni parola che costui diceva.30
È facile individuare, a monte degli eterostereotipi esaminati, una forte
componente di invidia nei confronti dell’opulenza ambrosiana. I costumi rilassati si sviluppano a partire dalle condizioni ambientali, troppo
comode; l’accento va sulla fertilità delle campagne, piuttosto che sulla tenace operosità dei beneficiari. Questa viceversa alimenta la fierezza che si percepisce nelle autorappresentazioni medievali. Al riguardo
è prassi retrocedere sino al passo in cui Ausonio, verso la fine del iv secolo, asserisce che «Mediolani mira omnia: copia rerum, | innumerae
cultaeque domus, facunda virorum | ingenia et mores laeti».31 O quantomeno chiamare in causa le inebrianti elencazioni di cibi, attrazioni e
risorse che sfilano nel De magnalibus urbis Mediolani. Nel suo concretissimo encomio, stilato nel 1288, Bonvesin da la Riva dipinge i milanesi come
I. Il carattere ambrosiano 37
facie hilares et satis benigni, non dolosi, minus estraneis gentibus exercentes maliciam, unde etiam extra ceteras gentes plus aliis dinoscuntur.
Decenter, ordinate, magnifice vivunt; honorificis vestibus potiuntur; ubicumque sint, sive domi sive alibi, satis in expendendo sunt liberi, honorabiles, honorifici, moribus et vita faceti.32
Qualità che sopravvivranno, nell’opinione comune, sino a ripresentarsi
pressoché immutate nelle pagine milanesi di Stendhal. Nel mezzo millennio trascorso, tuttavia, capita loro di soggiacere a impressioni meno benevole. In particolare la giovialità, priva di infingimenti, trascolora spesso in
candore e povertà di spirito, restando implicata nel preconcetto di «gente grossa», volentieri speso al di là degli Appennini nei confronti dei lombardi, intesi lato sensu come abitanti della pianura padana.33
Le novelle composte da uno di loro, Matteo Bandello, costituiscono
un magazzino ben provvisto di questi luoghi comuni. Com’è prevedibile
Bandello loda a più riprese la sua città d’adozione, i cui abitanti «ne l’abbondanza e delicatezza dei cibi sono singolarissimi, e splendidissimi in
tutti i lor conviti, e par loro di non saper vivere se non viveno e mangiano sempre in compagnia» (i, 9).34 Milano è ai suoi occhi «la più opulenta e
abbondante città d’Italia e quella ove più s’attenda a fare che la tavola sia
grassa e ben fornita» (ii, 8), come testimonia il proverbio, «che straziato
sia il mantello e grasso il piattello» (ii, 54). Molti la osteggiano, ma ben poco possono criticarne, al di là del parlare «goffo», «perciò che a lo stringer
de le balle pochi Milani si trovano» (ii, 31). L’orgoglio municipale non ottenebra tuttavia il narratore: «Ché se io questi dì vi lodai esso Milano, non
vorrei perciò che voi credeste che tutti i milanesi fossero Salomoni e tra
loro non fossero assai feudatarii de la badia di San Sempliciano» (ii, 47).
Nel «giardino del grasso Milano, nel quale ci è d’ogni erba sorte» inevitabilmente prosperano anche gli «scemonniti» e gli ingenui. Bandello anzi
giunge a adoperare il termine «ambrosiano» come equivalente di “ingenuo”, “ebete”: «Il marito di lei, quantunque nobile e ricco, era uomo assai
ambrosiano e cui di leggero la moglie, che era scaltrita, dava ad intendere ciò che voleva» (iii, 35). Volta al positivo, l’accezione sopravvisse sino
al secolo xix, come testimonia il dizionario compilato da Niccolò Tommaseo e Bernardo Bellini, secondo il quale ambrosiano «i Milanesi dicono familiarmente un Uomo alla buona, e suona più lode che scherzo».
38 Divora il tuo cuore, Milano
Le pagine del Bandello lasciano arguire la precoce introiezione di un
tratto che andrà a costituire un connotato fondamentale della maschera
locale più nota. Meneghino trasporta in ambito urbano il tipo del contadino goffo, deriso e frodato, endemico nella poesia rusticale e noto nello
specifico milanese col nome di Beltrame da Gaggiano. Nelle commedie
dialettali di Carlo Maria Maggi assume le sembianze di «un servo, ora
sciocco, ora accorto, ma non mai furbo: devoto ai padroni, servizievole,
virtuoso, che fa il suo dovere, dà consigli di prudenza, o si lascia infinocchiare per dabbenaggine, sempre però simpatico e d’animo generoso».35
Sia o no una sua invenzione, il Maggi sfrutta materiali già consolidati. Ora
come in seguito Meneghino odia il mestiere delle armi, fugge ogni pericolo: «nacque in un’atmosfera profumata di salumi, di polpette, di risotto, di trippe, il suo ideale sorge nei vapori delle bettole; è indivisibile dal
mercato».36 Parole di Giuseppe Ferrari, che ricordava il celebre exploit
del Barone di Birbanza in cui il servo, costretto a fuggire da Milano, saluta afflitto pietanze, vini e osterie. Un addio che culmina nella smisurata
lode del Verziere, il mercato di Milano:
Corna, e copia del venter,
cuccagna d’i leccard,
cavos d’i bon boccon,
stupor d’i Forasté,
bondanzia d’i nostran,
gran Verzé de Miran,
Meneghin l’è confus
avend d’andà lontan da i tò pasqué,
chi abbandona el Verzé resta on gambus;
se fa mægher i Verz via del Verzé.37
La chiusa, che riecheggia in un motto non ancora spento («chi volta el cuu
a Milan el volta el cuu al pan»), venne citata da Pietro Verri in una lettera al fratello Alessandro, quale contrassegno di ristrette vedute municipali, agli antipodi delle idee propugnate sul Caffè.38 D’altra parte gli studi
di Isella hanno dimostrato come Maggi avesse fornito il suo Meneghino
d’una tempra morale che lo allontana parecchio dagli zanni di scena nella
commedia dell’arte. Lo stereotipo del ghiottone perdura comunque nel