digital magazine | novembre 2014 | n. 121 Ariel Pink P o p , m a l g r a d o t u t t o sommario >>>articoli – p. 4 Gunnar Haslam Francobeat Gianni Morandi Lamb Lee Gamble Kindness Röyksopp Ariel Pink >>>recensioni – p. 42 >>>rubriche – p. 110 #121 novembre Direttore Edoardo Bridda Coordinamento promo Stefano Pifferi Art director Nicolas Campagnari A questo numero di Sentireascoltare hanno contribuito: Alessandro Pogliani, Gaspare Caliri, Fabrizio Zampighi, Stefano Solventi, Diego Ballani, Gianluca Lambiase, Marco Braggion, Daniele Rigoli, Giulio Pasquali, Edoardo Bridda, Stefano Gaz, Alessia Zinnari, Marco Frattaruolo, Nino Ciglio, Elia Galli, Stefano Pifferi, Marco De Baptistis, Marco Boscolo, Christian Panzano, Riccardo Zagaglia, Antonello Comunale, Tommaso Iannini, Giulia Antelli, Andrea Murgia, Enrica Selvini, Gabriele Marino, Teresa Greco, Alessandro Liccardo, Federico Pevere, Andrea Macrì, Andrea Tabellini Copertina Ariel Pink Guida spirituale Adriano Trauber (1966-2004) SentireAscoltare // online music magazine Registrazione Trib.BO N° 7590 del 28/10/05 Editore: Edoardo Bridda Copyright © 2014 Edoardo Bridda. Tutti i diritti riservati. La riproduzione totale o parziale, in qualsiasi forma, su qualsiasi supporto e con qualsiasi mezzo, è proibita senza autorizzazione scritta di SentireAscoltare. G u n n a r H a s l a m D o n ’ t t e l l m e L . I . E . S Da poco tempo sulla scena, ma con alle spalle tanta cultura, musicale e non solo: dietro il moniker di Gunnar Haslam c’è un ragazzo intelligente e con una grande passione per l’Italia. >>>Testo di Alessandro Pogliani 4 Le capacità di rabdomante di Ron Morelli, padre padrone di L.I.E.S. Records, sono ormai comprovate: spesso e volentieri i producer arruolati dalla sua label sono personaggi ai limiti dell’anonimato o dell’oscurità mediatica. Così è stato anche per l’artista che si fa chiamare Gunnar Haslam: l’esordio per L.I.E.S. nel luglio del 2013 ha coinciso con il suo debutto. E la partenza è stata subito con il botto: non un semplice 12”, ma direttamente un album, l’affascinante Mimesiak. Nel suo caso peraltro Morelli non è dovuto andare lontano, anzi non si è mosso dal negozio di dischi della Lower East Side newyorkese dove lavorava: raro caso di profeta in patria…Dopo una manciata di singoli (tra cui Bera Range per la chicagoana Argot, Ataxia No Logos per l’olandese Delsin, il 12″ Porte Maillot prodotto dalla L.I.E.S.) e alla vigilia dell’uscita del suo secondo album, ancora per l’etichetta di Morelli (Mirrors And Copulation, novembre 2014), abbiamo scambiato quattro chiacchiere via e-mail con il giovane americano. Nelle recensioni delle tue precedenti release si fa spesso riferimento a te come a un “misterioso producer da New York”. In realtà, visto che in internet si trovano un paio di tue interviste, non sei poi così misterioso: nato e cresciuto a Manhattan, poi trasferito a Brooklyn; studi accademici in fisica subatomica, poi un master in tecnologia musicale; l’amicizia con Ron Morelli a seguito della frequentazione dell’A1 Records, il negozio di dischi dove lavorava… poi di punto in bianco lo scorso anno il debutto per la L.I.E.S. con un dop- pio long playing. Sono corrette tutte queste informazioni? Sì, è praticamente tutto giusto, tranne il fatto che, pur essendo nato a Manhattan, sono cresciuto al di fuori della città. Mi sono trasferito di nuovo a Manhattan quando avevo 18 anni . Continuiamo ad approfondire la tua biografia, se non ti dispiace: quanti anni hai? Quando e come hai iniziato a fare musica? Quali sono stati i tuoi principali riferimenti musicali? Ho 25 anni. Ho trafficato con le drum machine per un po’ di tempo, ma ho iniziato a fare musica sul serio solo circa tre anni fa. E’ difficile per me indicare delle influenze musicali più di altre, visto che ascolto davvero un sacco di musica e tutto viene mescolato. Altrove hai detto che in un certo senso Morelli ti ha “commissionato” Mimesiak. Puoi dirmi di più sul processo di produzione del tuo primo album? Ho realizzato un paio di tracce, le ho fatte ascoltare a Ron e lui le ha sentite 5 sulla sua lunghezza d’onda. Abbiamo deciso insieme che i brani sarebbero stati meglio nel contesto di un album, invece che in un 12″, così nei due mesi successivi ho continuato a lavorare. Alla fine ha preso forma ciò che sembrava un album, e Ron ed io abbiamo messo insieme il tutto. E’ stato un processo piuttosto facile e rilassato. A noi giornalisti musicali piacciono molto le definizioni. Se tu fossi costretto a dare dei tag alla tua musica, cosa utilizzeresti? Techno. La mia musica va a volte un po’ dappertutto, e ogni traccia è fatta in modo diverso e con diversi obiettivi, ma alla fin fine “it’s all techno”. Io vengo da un background techno, è una parte inscindibile della mia musica. “La ripetizione è una forma di cambiamento” (Brian Eno – Oblique Strategies): tu cosa pensi al riguardo? Non sono d’accordo. Ovviamente io amo la ripetizione nella musica, e la uso molto spesso: tendo a non apprezzare molto la musica che rimbalza di qua e di là. Ma non c’è bisogno di assumere che la ripetizione sia cambiamento solo per giustificarne l’uso: la ripetizione è così in sé, ed il bello sta nel lasciarsi ipnotizzare da essa ed esaminare da nuovi punti di vista lo stesso oggetto reiterato. La nostra comprensione dell’oggetto può mutare nel tempo, ma questo non cambia il fatto che l’oggetto rimanga invariato. La ripetizione di alcune frasi musicali può essere inebriante, ma non tutto è interessante se ripetuto. Prendi il lavoro per esempio: compiti ripetitivi in linea di montaggio portano all’alienazione. A te piace circondare la tua musi- 6 ca con tanti e disparati riferimenti culturali, sia per il tuo nome d’arte (tratto da un racconto di Borges, ma ne parleremo più avanti) che per i titoli dei brani, che spesso si rifanno alla letteratura (vedi ad esempio Scheherazade, o Bera Range, da Fuoco pallido di Nabokov, o Corridor Metaphysics o Kenosha, tratti da Thomas Pynchon), alla geografia (Anatolia, Aisepos, Dunsinane Hill), alla storia (Nevenoe , il primo re medievale bretone, la Cina maoista di Let A Hundred Flowers Bloom), a luoghi metropolitani (New York, per Culver Viaduct o per B61; Parigi, per Porte Maillot), alla filosofia (il titolo del tuo primo LP, basato sui sample, ricorda le idee platoniche di mimesis), anche alla matematica (il processo stocastico “senza memoria” di Markov Discrete). Sono risonanze personali, un modo per dare più significato e valore alle tracce, di per sé astratte, o cos’altro? I riferimenti che hai individuato sono più o meno tutti corretti. I termini che ho usato tratti dalla matematica o dalla fisica tendono ad essere molto personali, tenuto conto che passo gran parte delle mie giornate ad occuparmi di questi ambiti. Discrete Markov fa riferimento ad un processo che utilizzo spesso per lavoro, e che a volte uso anche nella mia musica. Altri titoli, che si riferiscono alla letteratura o alla geografia, sono tentativi di dare un contesto ideale alla mia musica. Quando ho composto Aisepos non ero proprio sulla riva di quel fiume dell’Anatolia, ma stavo leggendo qualcosa al riguardo e ci stavo fantasticando. Altre citazioni geografiche sono molto personali: ho fatto B61 durante il weekend dell’uragano Sandy, e fa riferimento alla linea d’autobus che porta alle aree più colpite di Brooklyn. Ho notato che usi anche tanti riferimenti specifici all’Italia: titoli come Gragnano (la pasta o la città?), Laghi Sotterranei, Denominazione… C’è un motivo particolare? Gragnano si riferisce al vino frizzante della zona. A dire il vero non so se c’è una ragione… Ogni traccia è nominata al momento, ed è semplicemente capitato che molte delle tracce pubblicate avessero titoli italiani. Amo molto cucinare, in particolare la cucina italiana; tra i miei registi preferiti ci sono Fellini e Pasolini; compro molti dischi di library italiani, tipo Egisto Macchi e Morricone. Credo che mi piaccia molto la lingua, soprattutto perché non la parlo! Quest’anno hai collaborato con il mago della 303 Johannes “Tin Man” Auvinen per il progetto Romans. Auvinen al riguardo ha dichiarato: “questa potrebbe essere la musica che si ascolterebbe viaggiando nelle strade romane alla fine dell’impero”. Ora è il tuo turno: cosa puoi dire sul progetto? Il progetto è nato mentre Johannes ha vissuto a New York per un po’. Ogni volta che siamo nella stessa città ci incontriamo e facciamo musica. E’ un buon amico e lavoriamo molto bene insieme. Cerchiamo di vedere, senza pensarci troppo, dove ci portano i nostri macchinari. Entrambi tendiamo individualmente verso una certa malinconia, ma mi piace pensare che lavorando insieme tiriamo fuori interessanti sfaccettature l’uno dell’altro. Il podcast L.I.E.S. 001 (così come quello per LWE, o la seconda parte del recente show di due ore per BCR) ha dimostrato le tue capacità, la tua cultura e la tua sensibilità nel fare il deejay (spero in futuro di poterti vedere dal vivo: prevedi di venire ad esibirti in Italia?). Domanda banale: qual è il rapporto tra fare la propria musica e selezionare tracce di altri per un DJ set? Mi piacerebbe davvero venire in Italia! Come hai notato, ho un amore profondo per la cultura, il cibo e l’arte italiana, e sarei davvero contento di passare un periodo da voi. Faccio il DJ da tanto tempo, ed è ancora la forma di espressione più familiare per me. Selezionare tracce per un set è per me un processo simile a campionare sample. Ho notato 7 che tendo a lavorare sui layers dei miei brani allo stesso modo in cui mixo come deejay. Anche se non è una priorità, mantengo sempre un punto di vista da DJ quando produco i miei brani, cercando di produrre cose che mi piacerebbe mettere sui piatti. Ora è arrivato il momento del secondo album: Mirrors And Copulation. Il titolo è tratto dallo stesso racconto di Borges (Tlön, Uqbar, Orbis Tertius) dal quale sono tratti anche i nomi Gunnar Erfjord e Silas Haslam. La citazione completa è “gli specchi e la copula sono abominevoli, poiché moltiplicano il numero degli uomini”. Presumo che questo racconto sia molto importante per te: perché? Mirrors And Copulation fa riferimento, tra le altre cose, alla crisi della sovrappopolazione globale, una tra le più importanti questioni ambientali. Intende avere una visione oggettiva dell’umanità e del suo rapporto con il pianeta: i modi in cui arricchiamo la Terra con la ragione, la cultura e la matematica, e i modi in cui permettiamo che i nostri inferiori istinti animali si esprimano attraverso la violenza e la riproduzione. Il racconto di Borges parla di un complotto di accademici per sostituire il mondo attuale con uno immaginato: un possibile metodo per modificare il nostro corso attuale verso la crisi ambientale. Quali sono le differenze e le affinità tra Mimesiak e Mirrors And Copulation? Sono molto diversi. Mirrors And Copulation è stato subito concepito come un album e ha preso forma molto velocemente. E’ il mio lavoro finora più per- 8 sonale e coerente. Mimesiak, come ho accennato prima, è più una compilation di lavori più vecchi, anche se continuo a sorprendermi per come comunque funzioni bene a livello di coesione. Mi risulta che tu abbia detto “tendo a fare musica come una sorta di risposta, di reazione ai dischi che ascolto, e io compro un sacco di dischi”: quali dischi pensi che abbiano sollevato le domande più rilevanti a cui Mirrors And Copulation ha risposto? Con Mirrors And Copulation ho fatto molto meno affidamento sui sample e molto più sulla convenzionale sintesi analogica e digitale, quindi pochi dischi fanno direttamente parte dell’album come campioni. Ma traggo sempre ispirazione dalla mia collezione e dalla musica degli amici. Sono stato ispirato dalla struttura tradizionale del long playing: volevo che il disco fosse come un LP singolo, che ti siedi ad ascoltare per venti minuti o più prima di alzarti per cambiare lato. La musica elettronica è passata per un periodo buio in cui si stampavano album di 30-40 minuti su due pezzi di vinile, così che gli album diventavano inutilmente costosi, consumavano risorse e occupavano troppo spazio nella borsa di un DJ. I miei compagni di etichetta alla L.I.E.S., così come artisti come Silent Servant e NeoTantrik, hanno ripreso a far stampare LP singoli, ed è una mossa molto positiva in reazione alla crescita continua dei prezzi dei dischi. I l b i n o m i o f a n t a s t i c o d i F r a n c 0 b e a t La creatività ha un indirizzo preciso? Francobeat è andato a cercarla nel centro per disabili mentali Le Radici di San Savino. Il risultato è “Radici”, un disco “diverso” in tutti i sensi. La nostra intervista >>>Testo di Fabrizio Zampighi 9 Pop da biblioteca. Lo chiama così Franco Naddei (in arte Francobeat) il suo fare musica, sottolineando in tal modo quello sguardo trasversale e meta-linguistico che il Nostro usa ogni volta per registrare i dischi. Nessun limite imposto da stili stringenti, se non il musicare qualcosa di creativamente stimolante, sia esso un immaginario sociale nostrano, condiviso e nostalgico (Vedo Beat, l’album tratto dal libro edito nel 2005 da Stampa Alternativa, Mondo Beat) o magari un omaggio a uno scrittore geniale come l’amato Gianni Rodari (con l’operazione Mondo Fantastico andata in porto nel 2011). Il terzo capitolo targato Francobeat, ovvero Radici, sembra quasi una sintesi dei primi due episodi: da un lato un disco che è indirettamente anche riflessione sociologica, indagine sull’essere umano e sul disagio; dall’altro un modus operandi che riprende le regole della grammatica fantastica rodariana per applicarle a un contesto con più di un punto di contatto col mondo dell’infanzia frequentato dallo scrittore di Omegna. Sì perché le “radici” del titolo altro non sono se non il centro per disabili mentali Le Radici di San Savino (Riccione), ai cui ospiti è stato chiesto di scrivere tutti i testi del disco come parte di una terapia basata sulla “creatività”. «L’idea che fossero delle persone mentalmente disabili a scrivere dei testi per canzoni – ci dice Franco Naddei – mi è subito parsa l’anello di congiunzione fra il gesto creativo dell’adulto che tenta (e nel caso di Rodari riesce) di tornare alla semplicità e alla schiettezza infantile, e quella dose di distacco dalle cose del mondo che turbano il processo fantastico, sia nella scrittura che nella vita, ovvero il diventare adulti, responsabili e consapevoli. La condizione di un “matto” è infantile e adulta contemporaneamente, e spesso pure in conflitto, e questo conflitto è a sua volta in conflitto col mondo esterno. Se Rodari ha codificato in qualche modo la teoria degli errori, nei “matti” l’errore è insito nella loro condizione». Stabilito il confine («Non volevo modificare una parola di quello che avrebbero scritto e mi son tenuto tutto, ma proprio tutto, quello che è arrivato dalla loro penna»), Naddei si è concentrato sulla parte musicale, dovendo comunque inventare una cornice che rendesse credibile tutta l’operazione (nonostante versi non certo ortodossi) e che, anzi, valorizzasse una creatività atipica, sghemba, ma non per questo meno affascinante. Per poi scoprire proprio in quella creatività tesori nascosti che nulla hanno di retorico e molto di poetico: «Tutto quello che per noi “normali” è uno sforzo, credo che per loro [gli ospiti della residenza, ndSA] sia una condizione di “normalità” creativa. E’ chiaro che manca la lucidità per codificare i risultati, ma tante sono state le immagini e gli spunti davvero inaspettati, degne trovate poetiche, folgoranti, forti, a tratti lucidissime». Tutto il lavoro viene sintetizzato in quattordici brani incredibilmente pop, dagli arrangiamenti efficaci e che parlano prima di tutto di umanità, sensibilità e di come dal disordine (mentale o esistenziale che sia) possano nascere bellissimi fiori. C’è anche una certa ironia di fondo che si coglie in alcuni testi del disco, che va oltre l’amarezza per una condizione sfortunata e parla invece dell’accettare la vita per quella che è (o dovrebbe essere): un accontentarsi delle piccole cose, nonostante tutte le difficoltà. Parlando degli ospiti della residenza, Naddei chiude così: «Sanno 10 come è fatta e come suona una canzone. Non credo che sapessero di poter esserne autori. Io spero di avergli regalato qualcosa di importante, un gesto di vita». Di seguito trovate un’intervista un po’ atipica, che tuttavia ci è parsa il modo migliore per rimanere in linea con quella creatività “a briglie sciolte” alla base del disco: invece delle solite domande, abbiamo proposto a Naddei versi estratti dai testi delle canzoni contenute in Radici, chiedendogli di scrivere qualsiasi cosa quelle parole gli facessero tornare in mente della sua esperienza. Il risultato è una lettura insolita ma speriamo interessante di tutto il progetto. “C’era una volta un matto, e questo è un fatto…” (dal brano Belluno) La prima volta che ho letto il testo di questa canzone mi sono stupito di fronte alla lucidità e all’autoironia con cui gli ospiti della residenza lo avevano scritto. Al suo interno ci sono immagini abbastanza sconnesse, ma tutte sembrano alludere a una consapevolezza della loro condizione di “matti”. Per questo motivo, dopo aver letto il testo, non mi sono più sentito a disagio nell’usare quel termine per definirli. Qui si trovano i primi segni di quello che è stato il nostro rapporto. Se “il manicomio diventa una barzelletta e tutti parlano a strofetta” è perché loro sapevano che il testo sarebbe arrivato a me; io ho preso questa cosa come una specie di ringraziamento per il fatto che ogni volta che si mettevano a scrivere, si divertivano. “Io ero bellissima, e ora sono bruttissima…”(dal brano Io ero bellissima) Questo testo è rimasto nascosto fra i tanti che mi hanno mandato. In realtà ne sono arrivati due contemporaneamente, entrambi non proprio allegri. Inizialmente non sapevo come renderli in musica, ma mi hanno colpito molto. Quando ormai ero verso la fine dei lavori per il disco, ho deciso di farli leggere e interpretare a due fra le migliori penne, in ambito cantautorale, che abbiamo dalle nostre parti, ovvero Giacomo Toni e Pieralberto Valli dei Santo Barbaro. Alla fine abbiamo scelto quello che poi è finito in questo brano. Sapevo che entrambi i musicisti a cui mi ero rivolto avrebbero apprezzato il testo, in qualche modo vicino a molte tematiche delle loro rispettive produzioni. Abbiamo scritto la musica insieme, in un pomeriggio, dopo esserci arresi alla prima cosa che ci è venuta in mente. Sembrava strano che questo testo si potesse cantare, tutto sghembo come è. All’inizio Giacomo era partito con una lettura in “spoken word” che mi ha fatto venire in mente l’operazione The Raven di Lou Reed, ma io volevo che fosse cantabile. Abbiamo cominciato a suonarlo, e la frase che tu citi era in fondo. Quando siamo arrivati alla fine del testo, dopo aver tirato fuori elementi melodici assolutamente italiani (pensavo a Tenco), quella frase ci è sembrata adatta per diventare il ritornello che legava tutte le strofe. Tra l’altro il testo è sia al maschile che al femminile, perché quasi tutti i testi i “matti” li hanno scritti collettivamente, per cui ognuno ha dato il suo contributo a questo concetto dello sfiorire nella malattia e nella condizione di disagio. Devo dire che il messaggio che trasmette è assolutamente universale, a molti sarà capitato di affrontare gli stessi temi nella vita di tutti i giorni. E’ un 11 testo tagliente, lucido, romantico. Nel finale le voci si incastrano, e nel canone a me sembra che la parola “bellissima” vinca su “bruttissima”, come a ribadire un messaggio di speranza, nonostante tutto. “Questa è la mia voce…” (dal brano Questa è…) Questa frase è venuta fuori in una delle mie sortite a Le Radici. In quella occasione mi sono portato dietro un po’ di macchine per campionare e manipolare i suoni in tempo reale. Volevo vedere le reazioni e cosa sarebbe successo se avessi fatto sentire ai ragazzi della residenza le loro voci, trasformate in una composizione che potesse lambire i confini della musica contemporanea (che indebitamente talvolta abito). Ho passato tutto il pomeriggio facendo loro cantare quello che volevano; io mi sono limitato a prendere brandelli dei loro deliri canori, per rimasticarli e farne altro. Cantavano Battisti, Zucchero, arie classiche famose, i Beatles, oltre a gorgheggi casuali. A un certo punto una signora se ne è uscita con questa frase, e io l’ho trovata una idea geniale, per il titolo di un brano. Ho registrato quattro ore di queste voci; volevo metterle nel disco per dare ulteriore risalto alla presenza degli ospiti, per renderli ancora più protagonisti, anche in un pezzo di musica contemporanea. Ho chiesto aiuto a Valeria Caputo, una cantautrice tarantina che vive a Forlì e maneggia con abilità la materia elettronica. Lei ha ascoltato tutto, tenendo i miei loop e facendo una composizione unica che ho voluto poi dividere in tre parti, per spargerla all’interno del disco. Il tutto per mantenere una presenza pressoché 12 costante delle voci degli ospiti. Confesso che il mio sogno è di farlo anche dal vivo, ma non so se ci riuscirò. “Le mie meraviglie non sono poi tante, ma sono il mio carburante…” (dal brano Le mie meraviglie) Credo che questo testo sia uno dei più belli che mi sia mai capitato di ascoltare. Quando l’ho letto mi si è crepata la faccia. Con una frase, mi ha steso. Avevo cominciato a lavorare al brano – come per gli altri – usando la chitarra, poi l’ho lasciato nella mia testa per un po’. Quando ho cominciato a usare i synth, mi è sembrato quasi un pezzo dei Santo barbaro (band in cui rientro e a cui sono molto legato grazie anche all’amicizia con Pieralberto Valli). In questo brano ho deciso che non sarebbe stato necessario avere sempre toni allegri o mascherare il disagio. Ho voluto che tutta la forza del testo fosse accompagnata da una musica “seria”, sentita. E così è stato. Tutte le volte che lo ascolto, mi emoziona. Un vero regalo per me. “Pillole magiche, pillole di chi è fragile, di chi non ha una vita facile…” (dal brano Pillole) L’unico testo dove i “matti” mi hanno lasciato un vero e proprio ritornello. Ogni psicofarmaco nominato, precede il refrain. Non ricordo nemmeno come sia venuto fuori. Mi ricordo che Antonio Gramentieri (dei Sacri Cuori) aveva dimenticato una chitarra classica dopo una sessione di registrazione da me, e ho cominciato a giocarci. Il “binomio fantastico” [una delle tecniche teorizzate da Gianni Rodari in Grammatica della fantasia, ndSA] è stato Depakin-CaetanoVeloso. I nomi degli psicofarmaci mi suonavano come parole esotiche e “bra- sileire”, se mi concedi la definizione. Da lì sono andato avanti e mi son divertito molto a vestire un testo, che definirei crudele, con quell’atmosfera da saudade che poi va a sfociare nella disco-music. Su questo testo ho voluto giocare con questo contrasto, altrimenti sarebbe stato difficile renderlo per quello che descrive. “Io spero solo che cambino le cose, in meravigliose…” (dal brano Che cambino le cose) Vorrei tanto nominare la persona che ha scritto questo testo, ma non posso farlo per questioni di privacy. La persona in questione ha dato una grande mano nella scrittura di molti testi, e questo è tutto suo. E’ stato uno dei primi ad arrivarmi e a confermarmi il potere poetico che ribolliva nelle “menti annebbiate” degli ospiti della residenza. Inizialmente il brano aveva in primo piano le chitarre ed era simile ad altri episodi di Radici. Non ero contento, tuttavia, del lavoro che avevo fatto, perché non rendeva giustizia alla riflessione interiore che racconta. Così ho dimezzato la velocità pensando al sound dei Sacri Cuori, praticamente scrivendo su misura per loro, dal momento che sapevo che avrebbero valorizzato il brano con il loro portentoso stile, come poi effettivamente è stato. Una ballata narcolettica, una persona che riflette lentamente, per forza di cose. Questo brano, assieme a Verde/Secco, è stato rimaneggiato dopo aver sbagliato inizialmente approccio. Qui compare John De Leo; avevo capito che si sarebbe speso su questo brano con la solita bravura. L’ho lasciato fare, e (a ragione) mi ha cambiato la stesura. Nel brano ho lasciato una coda lunga immaginando un intervento in voce dei “matti” con qualche parola che per loro rappresentasse un messaggio di speranza, un segno positivo. Ho insistito tanto perché gli operatori del centro Le Radici registrassero questi interventi. Non potevo farlo io, perché avrebbe significato chiedere agli ospiti di fare qualcosa di forzato di fronte a me. Ci è voluto un bel po’. Nel registrato ci sono momenti divertenti, ma anche di sconforto. Alla richiesta di lasciare un messaggio bello, positivo, qualcuno si è arrabbiato. Alla fine, poi, tutto si è risolto. 13 F e n o m e n o l o g i a d i G i a n n i M o r a n d i i l c a m p i o n e d i g i t a l e d i F a c e b o o k Una pagina Facebook che mette tutti d’accordo, basata sulla quotidianità familiare del cantante italiano per eccellenza: un pretesto per fare qualche considerazione sul pop italiano >>>Testo di Gaspare Caliri 14 Cos’hanno in comune un’attivista digitale, una funzionaria del maggiore sindacato italiano, un cineasta esploratore del sottobosco palermitano, una hipsterissima trentenne veneta, il presidente di un’associazione di lobbying politico, uno scrittore di storie di Topolino e una mia compagna delle elementari (di cui non so nulla da allora)? Sembrerebbe una sala d’aspetto, eppure hanno come comune denominatore un’azione digitale: tutti loro hanno messo “like” alla fan page di Gianni Morandi su Facebook. Non solo: ognuno di essi si è esposto in prima persona, commentando le uscite pubbliche del cantante – al di là dei like ai singoli post di Morandi, tutto sommato un fenomeno trascurabile, o meglio, connaturato al principio d’imitazione presentissimo sul social network. Di cosa parla la pagina? Della vita del campione del pop italiano. Un’impeccabile strategia digitale basata sulla regolarità, vale a dire una foto al giorno, un brevissimo racconto di cosa faccio oggi – io, Gianni Morandi – generalmente calato nella quotidianità più normale, benché si parli di Gianni Morandi, che prepara i fagiolini ma anche che suona la chitarra e va in televisione. Altro tratto determinante: Gianni è bolognese, vive nell’immediata provincia di Bologna e ogni elemento che chiama in causa la sua città è dichiarazione di lontananza dai centri del potere massmediatico – dal dibattito esclusivamente cittadino sul Bologna Calcio ai viaggi a Milano o a Roma per andare in RAI. Uno di noi. Risultato: totale coesione dei fan della pagina, che non fatichiamo a pensare parte di una comunità. I social media analyst conoscono bene la regola dell’1%. Di una community online, 90 persone su 100 sono completamente passive, seguono qualcosa di ciò che avviene su una pagina, o un gruppo, ma sostanzialmente non sono reattivi o proattivi. Il dieci per cento è più partecipe, fino ad arrivare a quell’uno su cento che ci mette la faccia digitale. Commentare, laddove poi tutti sanno che Gianni risponde – e quindi un commento è un potenziale thread, vuol dire essere in prima persona un “fan”. Come può essere accaduto? Sono le canzoni intramontabili di Gianni Morandi a godere di questa frizzantissima onda lunga? Forse, ma la cosa è imponderabile. Se lo ammettiamo, chiudiamo qui l’analisi. Ma a noi piace l’idea di scavare ancora un poco, per tentare la strada di una fenomenologia di Gianni Morandi, il digital champion. I media di massa italiani, così come quelli sociali, sono arene perfette per guardare al pop, le tendenze, e capire quanto ancora valga oggi il modello dentro il quale “vengono provocati desideri studiati sulla falsariga delle […] tendenze” già in atto (riprendendo più o meno alla lettera le prime mosse della Fenomenologia di Mike Bongiorno che Umberto Eco scrisse nel 1961). Sono luoghi dove avviene la conferma: dove si delibera giorno per giorno il vero mito, quello della quotidianità. La vera differenza è che i media sociali sono per manifesta intenzione inclusivi, non si basano sulla distanza, ma sull’avvicinamento. Mike Bongiorno era nel 1961 l’icona della mediocrità; leggendario – talmente leggendario da diventare introvabile – lo scambio con cui liquidò 15 John Cage dopo l’esecuzione di Water Walk, che suppergiù alla lettera diceva “Torni a trovarci, ma lasci a casa la sua musica” (basta guardare qui per capire che quella reazione non era l’unica possibile, nel mainstream of communication). Gianni non è come Mike Bongiorno, attua una strategia raffinata per creare “engagement”: non sfotte chi è fuori dal pop – cosa che Bongiorno faceva per difendere sé in una levata di scudi condivisa dall’audience. Quando riceve una critica, ridimensiona l’interlocutore con grande rispetto, sapendo che ci sarà chi lo difenderà. Oggi si compie un giro in più di vite e avviene una cosa abbastanza poco ordinaria, che si compie quando le persone prendono parola per l’icona stessa, rispondono per lui, nella trafila dei commenti dei post su Facebook di Gianni Morandi. Questa è una caratteristica importante del pubblico del pop italiano. Siamo una rivista di musica, di critica musicale, e guardare al digital champion serve appunto a tenere il polso del presente della musica mainstream – servirà poi a capire meglio il cantautorato che anela a essa. Ecco dunque alcune caratteristiche del pop italiano, filtrate dalla pagina Facebook di Gianni Morandi, il campione digitale. 1- La cosa davvero notevole della pagina è la capacità di chi la gestisce di controllare i toni. Come fa Gianni a non procurarsi flame? Ha scoperto la formula magica? È proprio qui il punto, la domanda a monte: c’è una formula dietro? Ci sono alcuni segnali che danno questa opzione come percorribile. C’è estrema regolarità nel modo in cui Gianni risponde ai 16 propri fan, sia che siano adoranti o che mettano in dubbio qualcosa. In primo luogo il saluto: ogni risposta, dentro le centinaia di commenti, si conclude con “un bacio” per lei, “un abbraccio” per lui. Gianni accetta e ringrazia per qualsiasi commento, lasciando l’avversario disarmato. Il vero buonismo italiano è fatto di saper incastrare l’avversario con il sorriso, verrebbe da dire. Eppure è una cosa a cui non si è più abituati, in tempi di schiamazzi e assenza di argomentazione. Questa è la strategia principale con cui Gianni acquista consensi: non accettare mai al alzare la voce, per restituire al pop italiano la peculiarità di sfamarsi di belle parole e pensieri stereotipati in detti, facendo buon viso a cattivo gioco. Un giorno Salvatore dice: “Gianni, non fai ridere. Fattene una ragione”. Gianni risponde: “Salvatore, me n’ero accorto, per questo mi sono messo a cantare. Un abbraccio”. 2- Il 15 settembre Gianni parla di musica, disattendendo – sembra – la regola della quotidianità. Riporta la richiesta di una signora che corre con lui, che gli ha chiesto perché il digital champion non canta mai una data canzone – poco conosciuta ai più. Il post è un video con Gianni che canta con la sua chitarra una canzone non esattamente orecchiabile. Sembrerebbe perfetto, per un fan: avere l’idolo che canta come se fosse al cospetto di sua moglie, in salotto e senza amplificazione. Ma, appunto, la canzone non fa parte della serie di hit popolari più famose del cantante, e nei commenti il discorso presto svia. Gianni apre un confronto ma dissemina piccole trappole per costruire vie di fuga dal discorso musicale. La signora “corre con me”. Il mainstream pop ha bisogno di questo, non solo è transmediale per definizione – ma ha bisogno di alimentare il proprio pubblico al di fuori del discorso musicale. L’illusione di vicinanza di un social network crea un canale di distrazione funzionale. 3- Il 14 ottobre 2014 si parla di nuovo di musica. Gianni dice: “Prima di Natale, la Sony Music pubblicherà una raccolta con le venti canzoni più importanti e significative della mia carriera. C’è anche un brano nuovo. È stata fatta una scelta provvisoria ma non so se è la migliore. Avete voglia di darmi una mano? Quali sono le dieci canzoni che non devono assolutamente mancare?”: è impossibile analizzare le risposte – in neanche due ore arrivano 11400 like e 3500 commenti. È inevitabile, forse, che la scelta dei fan ricada sui classici: Occhi di ragazza, C’era un ragazzo, In ginocchio da te, Non son degno di te, Anna, Bella signora. In realtà, più che inevitabile questa opzione, era poco probabile, ma non impossibile, che i più – dei fan – patteggiassero per canzoni sconosciute, nella copiosa produzione di Gianni Morandi. Questo dipende di certo dal fatto che la musica nel mainstream pop è riconoscibile, riconosciuta, non smuove ma conferma, attende alle aspettative che crea. C’è un codice ripetibile dietro ai post della pagina Facebook di Gianni Morandi proprio perché non si crei sorpresa, ma conferma. La musica nel nostro pop non è importante. Vogliamo entrare nella carne. E la musica deve essere riconoscibile perché non deve distrarre dall’uomo. Non deve distrarre, punto. ci sono tante “intenzioni” dentro un testo – verbale, scritto, anche musicale. C’è l’intentio operis, l’intentio auctoris, l’intentio lectoris. La prima è quella che conta, da un punto di vista interpretativo. Se cerco di interpretare un’opera pensando a quello che pensava l’autore quando l’ha creata, ci perdo la testa. Se mi baso solo su quello che il lettore – o fruitore – coglie dell’opera stessa, non sono comunque sulla buona strada. Al di là di quello che dice l’autore della propria opera, è quella che parla per lui, nel bene e nel male. Gianni ci dimostra l’ipotesi contraria, dove tutto si schiaccia sull’intentio auctoris. Anche il lettore, quando diventa fan, si fa portavoce dell’intentio auctoris. Si fa portavoce del suo hero, grazie al fatto che l’effetto di senso – di presenza dell’uomo dietro al cantante – porta appunto davanti a noi la persona, non la musica. L’uomo è talmente simile a me che posso rispondere per lui, nei commenti della pagina dove del resto è lui stesso a rispondere. Il pop abbassa l’importanza dell’opera in sé, senza l’autore dietro l’angolo, e soprattutto il suo pubblico (vedi l’argomentazione per la quale se tanta gente ascolta i Beatles, questi ultimi stanno cambiando la storia della musica). È davvero quest’ultimo che conta, e Gianni ha trovato il trucco di farlo coincidere con sé. Gianni, così come Mike, in definitiva il pop hero dice ai suoi adoratori: “voi siete Dio, restate immoti”. 4- In semiotica un tempo si diceva che 17 L a m b R i p o r t a n d o t u t t o a c a s a Il viaggio impervio di “Backspace Unwind”, la musica che gli gira intorno e un chiarimento: “Mai avuto nulla a che fare con Bristol”. >>>Testo di Gianluca Lambiase 18 Certi posti sono così belli che vale la pena di tornarci, di riscoprirli. Andy Barlow e Lou Rhodes, attivi dal 1994 sotto il nome Lamb, avranno pensato anche a questo quando tre anni fa hanno deciso di ricominciare a fare musica insieme. Il duo elettro-folk, che nell’ultimo album Backspace Unwind parla anche di amore tra sintesi elettroniche condite da auree orchestrali, ci spiega What Makes Us Human, senza scadere nella retorica o di chi suona fuori tempo. “Perché non so fino a che punto la nostra musica possa ritenersi contemporanea, riuscita o perfetta – ci spiega Lou – ma certo è quanto di più sincero e vero siamo ancora in grado di fare”. Partiamo da Backspace Unwind, secondo album post-reunion dopo 5. Come è nato questo disco? Quando abbiamo iniziato a scrivere 5 avevamo idee che poi sono rimaste fuori da quel disco, e siamo ripartiti da lì. In un modo molto diverso dal disco precedente abbiamo provato ad elaborare azzerando tutto, cercando di ripartire da capo, discutendo su quello che la nostra musica dovesse essere e cosa no. Per certi versi il processo creativo che ha accompagnato questo disco è molto simile a quello dietro al nostro primo album. Abbiamo cercato di spogliare i suoni provando a ricavare uno spazio differente, una via nuova. L’impressione maggiore che si ha ascoltandolo, è che vogliate ignorare i trend di sperimentazione elettronica, preferendo continuare a ricercare ancora una volta quell’equilibrio che è da sempre la ricetta della vostra musica… Non saprei dirti quanto in definitiva possiamo reputarci realmente distanti dalle mode che si muovono nella musica elettronica. Di certo siamo molto attenti a quello che reputiamo interessante e che in qualche modo finisce per prendere una propria fisionomia anche nella musica dei Lamb. Backspace Unwind ha il sapore di un lungo percorso che conosce momenti più complessi ed episodi più semplici, accessibili. Come una riconoscenza. Come un Ulisse alla fine del viaggio… Il riferimento al viaggio è sicuramente centrale in questo disco. Volevamo che l’esperienza di ascolto fosse un viaggio, ma di quelli fatti senza un itinerario preciso: non sappiamo dove stiamo andando ma sappiamo che questa strada ci sta portando da qualche parte. E’ stato divertente perché anche nel decidere l’ordine delle canzoni abbiamo seguito un po’ questa logica, portando l’ascoltatore da una partenza più complessa a una fine pacifica, ricca di amore. We Fall in Love potrebbe rappre- 19 sentare un po’ il manifesto di tutto questo? Assolutamente sì! We Fall In Love è stata l’ultima canzone che abbiamo scritto per questo disco ed ha interpretato perfettamente il significato di esso. Quando abbiamo iniziato a scriverla ci siamo resi conto che avevamo bisogno di qualcosa che aggiungesse a questo lavoro un tocco magico, di amorevole bellezza. Siamo riusciti a trovarlo in questo pezzo che abbiamo aggiunto all’ultimo minuto e che per forza di cose è diventato il primo singolo. Come nascono i vostri brani e come riuscite a trovare quell’equilibrio perfetto tra l’elettronica di Andy e il tuo cantato? Non saprei dirti se si tratta di un equilibrio perfetto. E’ un processo lungo che ci porta a confrontarci di continuo. Siamo sempre molto attenti a quello che ci circonda, alle piccole idee, e spesso partiamo da lì. Spesso una semplice linea di basso o poche parole ci suggeriscono qualcosa. Iniziamo così a lavorare insieme su quell’idea cercando l’alchimia giusta che la farà evolvere in modo organico per donarle una via propria. Quant’è cambiato in questi anni il mondo musicale che vi circonda? E’ cambiato tantissimo. Per quanto ci riguarda, quando abbiamo iniziato a fare musica pubblicavamo per una piccola etichetta e il solo stare in studio ci sembrava un miracolo. Oggi abbiamo uno staff che ci segue e la possibilità di arrivare a persone che non ci conoscono. Quando abbiamo iniziato non c’era internet, i social network o Bandcamp e tutto era molto più complesso e legato spesso ai piccoli negozi di dischi. Oggi 20 le opportunità per venir fuori sono sicuramente maggiori. Le vostre singole esperienze quanto stanno influenzando questo nuovo corso dei Lamb? Tantissimo. Quando decidemmo di fermarci nel 2004 avevamo bisogno di raccogliere le idee, di prenderci il nostro tempo per capire costa stessimo facendo. Avevamo bisogno di ritrovare spazi per provare esperienze musicali differenti e poi ritornare a godere insieme della musica che stavamo facendo. Tutto questo ritorna prepotentemente in 5 e in Backspace Unwind, e quelle piccole idee o intuizioni di cui ti parlavo prima spesso vengono proprio da lì. Il 28 ottobre, da Bristol, è iniziato il vostro tour, che toccherà anche l’Italia dal 17 al 19 novembre. Come vivete l’esperienza dal vivo? Con grande emozione, perché vedere tante persone che si muovono per ascoltare la nostra musica è sempre qualcosa di pazzesco, che mi sorprende ogni volta. Ripartire da Bristol ha un significato particolare? In realtà no, ma capisco la tua domanda. Credo che si tratti di un errore storico che ci portiamo dietro da anni: pur essendo originari di Manchester, siamo sempre stati associati a Bristol. Credo dipenda dal fatto che spesso il nome dei Lamb viene legato alla scena trip hop di questa città, ma in realtà l’abbiamo sempre vissuta molto poco, quella scena, e in questo senso credo che con 5 abbiamo preso ancor di più le distanze anche da quel genere. Che ricordo hai dei concerti in Italia? Sono sempre stati particolarmente intensi. Ricordo una data a Roncade e una ai Magazzini Generali, locali dove di solito si suona un certo tipo di rock abbastanza lontano dalla nostra musica. Con grande sorpresa invece trovammo tantissima gente che ci ascoltava, venuta lì appositamente per noi. Venti anni di attività, sei dischi e un peso specifico unanimemente riconosciuto. Vi state avvicinando allo status di “classico”. Lo avvertite? Vi fa piacere o paura? Forse nessuna delle due. Non so dirti se stiamo diventando un classico, da un punto di vista musicale, forse saranno gli anni di attività. In realtà viviamo sempre con molta sincerità la nostra musica, continuando a cercare quello che ci piace, che ci fa sognare, e sperando che anche le persone che ci ascoltano possano godere della stessa gioia che viviamo noi nel realizzare la nostra musica. 21 Lee Gamble Techno Diversions STORY Dopo gli anni scolastici passati ad ascoltare jungle, techno ed Autechre, e i susseguenti anni Zero immerso nelle maree e increspature glitch, ambient e noise di Mille Plateaux, Mego, Touch (coltivate recuperando anche alcune avanguardie storiche da autodidatta), Lee Gamble si fa conoscere e apprezzare, nel 2012, con due pubblicazioni su Pan che fanno il giro degli addetti ai lavori, delle testate che contano e delle agenzie dei festival. Il suo diventa, quell'anno, il nome da spendere negli ambienti dell'intellighenzia techno, magari tra i protagonisti di hauntologiche viste sulla morte del rave, e questo grazie a uno stile personale, trasfigurato, a cavallo tra dancefloor e astrazione, escapista nel tentativo di creare realtà alternative, aspramente computazionale come da tradizione Mego ma anche morbidamente aereo e in perfetta linea con Basic Channel, Chain Reaction e la cultura dell'ardkore continuum. Coerente con la visione sperimentale delle citate etichette tedesche (vedi l'amore per Pita, Hecker e Russell Haswell) ma senza perdere il legame viscerale con il ritmo, sia esso declinato techno dub o imbevuto di contorni rave, Gamble, nato a Birmingham ma di stanza a Londra e fondatore del collettivo CYRK assieme a Dave Gaskarth (visual artist e autore di molti dei videoclip del producer, oltre che spalla per molti live ed entusiasmanti programmi in radio), rappresenta il corrispettivo adulto (non proprio intellettuale) di tanti approcci arty ed eterodossi allo stile di Detroit e Chicago delle varie Tri Angle o Blackest Ever Black. Non ultimo nella sua musica rientrano i richiami colti (John Cage, Iannis Xenakis, Stockhausen), specie di stampo cosmico e ancor meglio se funzionali all'elettronica con la quale è cresciuto. Le prime pubblicazioni di Lee Gamble sono tuttora inedite e rimarranno tali. Riguardano tracce jungle pubblicate negli anni Novanta sotto l'influenza dei cugini più vecchi e della mitologia giovanile attorno al genere. E' il periodo in cui inizia a fare pratica come dj anche presso una radio locale. Per le uscite ufficiali, precedute da una serie di improvvisazioni live con il compositore John Wall, bisognerà aspettare più di 10 anni. E' nel biennio 2009/2010 che la produzione ufficiale del producer acquista la forma di astratta computer music al laptop. In quegli anni, troviamo sia l'esordio lungo Join Extensions, masterizzato da Rashad Becker per Entr'acte (dove, tra gli altri, pubblicava anche Ielasi), sia una cassetta omonima co-firmata con il sound artist giappo- 22 nese di stanza a Berlino Yutaka Makino (anche se una primissima produzione risale, a dire il vero, a un 3'' CD nel 2006). E' musica, questa, che nelle sue espressioni più astratte e intellettuali viene presto accantonata. Nel 2012, sulla blasonata label berlinese Pan di Bill Kouligas, Gamble è già alle prese con un altro tipo di suoni ed è qui che inizia la sua vera storia. Vengono pubblicati, entrambi nel 2012, due album complementari, o parti di un unica visione, Dutch Tvashar Plumes e Diversions 19941996: il primo si configura come "musica che sta nella tua mente, un'idea allucinata di musica" (sue le parole registrate da Wire nell'agosto del 2014) a cavallo tra ritmi e astrazioni, e il secondo ritorna agli amori giovanili per decostruirli (o sarebbe meglio dire polverizzarli), manipolando classici jungle (registrati su un vecchio mixtape) e ottenendone un inedito taglio ambientale che non sarebbe sfigurato nella discografia Touch d'inizio Duemila. E' una "particolare atmosfera di quella musica, o lo spazio dentro a quella musica" (sempre dall'intervista a Wire), quello che Gamble vuole rappresentare e, spesso, quello spazio finisce per assumere i contorni di una techno dub scorticata, l'equivalente di osservare i Porter Ricks dal buco di una serratura. Nel mini album, che in molti alla sua uscita hanno osservato da un'angolazione di hauntologica "morte del rave" (vedi anche il R.I.P di Actress, sempre del 2012), soltanto la traccia Dollis Hill presenta un ritmo jungle in chiaro, mentre in Rufige (da Rufige Kru, alias di Goldie) c'è un chiaro riferimento - opportunamente mesmerizzato - al mitico hover sound dei rave. Interessante anche la selezione di classici Jungle che il Nostro propone a Dummy, dove figurano DJ Dextrous & Rude Boy Keith, Photek e Dillinja. spiraglio di ottimismo molto ben dissimulato da ambigiutà e tepori jazzy. Come si nota già dalle prime note dell'EP, lo stesso approccio ai ritmi e alla cultura elettronica UK, tra breakbeat e deep house, è più diretto e senza filtri. Inoltre, non vengono abbandonati i momenti più meditativi ed aerei. Diversamente dall'EP, l'album lungo mantiene la linea chiaroscurale di Dutch Tvashar Plumes puntando comunque su un approccio più scopertamente legato alla techno. Non mancano, tuttavia, i contorni e le screziature noisey, echi e clangori industriali vagamente Mika Vainio e tutto l'aereo fascino della techno dub. Completano l'anno in bellezza: un memorabile set alla Boiler Room e una cassetta in combutta con CM Von Hausswolff, Stream Of Unconscious Volume 8 , per Stand-Up Tragedy Records. Importante sottolineare l'attività di Gamble come dj, che si risolve in un eccitante misto di mixing e composizione tra techno sparata e sperimentazione libera, voci rubate da film e molteplici fonti, e pesanti layering. Il ritorno discografico del producer è targato 2014, anno in cui si ripresenta con due uscite parallele: il 12'' Kuang e l'album KOCH, entrambi caratterizzati da una luce inedita, e persino qualche 23 Kindness World Restart STORY a Solange, sorella della popolare Beyoncé. La sua idea in musica è un distillato pop di black music che va dal ballabile alla ballad, dal funk alla disco, dal soul all’house, dunque, un felpato artigianato sonoro, raffinatissimo nelle citazioni (anche campionate) e sempre delicato nell’impatto, che si è avvalso tanto della lezione di Bob Blank quanto di quella di Prince e Janet Jackson (di cui il citato duo produttivo ha curato moltissimi successi) e di un vasto numero di stili funk di tradizione americana. Classe ‘82 ed originario di Peterborough, Adam Bainbridge, è attivo come Kindness dal 2011 su etichetta Female Energy, una realtà personale il cui nome deriva da una session di brainstorming assieme all’amico, nonché ex compagno di appartamento, Steven Warwick ovvero il leftfield producer Heatsick. Il nome della label riflette l’attitudine anti macho del giovane musicista che in tarda adolescenza passa da ascolti radiofonici a jungle e house, al tessuto artistico e musicale di Dalston. Proveniente da una famiglia per metà di emigranti indiani di una comunità del Sud Africa (da parte di madre) e per metà inglese (da parte di padre), e da sempre sensibile alle discriminazioni di sesso e razza, Bainbridge si trasferisce nel sobborgo londinese nel 2004 a 22 anni. Abita in un piccolo vicolo - il Miller’s Terrace - popolato dalle tipiche case a schiera britanniche che condivide con, tra gli altri, Dev Hynes (Lightspeed Champion e Blood Orange) e altri membri della sua band di allora, i Test Icicles, oltre al duo Hype Williams. Sempre da queste parti, tra un house party e l’altro, conosce Alex Sushon, futuro co-fondatore di Night Slugs e più tardi noto come Bok Bok (in futuro collaborerà con Kelela a più riprese), oltre ad un altro producer di quel giro, Philip Gamble, ovvero Girl Unit. Parallelamente a Dev Hynes ovvero Blood Orange, Kindness, ovvero Adam Bainbridge, è stato in grado di costruire, dall’inizio degli anni 10, una solida carriera sia come autore in proprio, sia come producer per grossi calibri che vanno dallo storico duo Jimmy Jam & Terry Lewis 24 L’alias Kindness prende vita molti anni più tardi, precisamente nel 2009, quando Moshi Moshi pubblica un primo singolo del musicista, Swingin’ Party (cover dei Replacements). Nel frattempo, nel 2007, da segnalare c’è una fondamentale residenza artistica a Philadelphia presso il cittadino Institute for Advance Study. Qui Adam, oltre alla regia di un videoclip dei Grizzly Bear (una cover di Finaly Fantasy/Owen Pallett, Don’t Ask), inizia a lavorare duramente sulla forma canzone e il suo arrangiamento in solo e in collaborazione con molti musicisti locali (con i quali confezionarà anche un album, Live In Philly, all’interno del programma del Eric James Johnson Memorial Fellowship), un praticantato che continuerà successivamente, per un breve periodo, anche a Berlino, dove il Nostro soggiorna per alcuni mesi prima di far di nuovo ritorno a Londra. Il progetto Kindness prende rapidamente forma e sostanza nei mesi seguenti. Arriva un contratto con Polydor, e l’aggancio con l’etichetta porta a sei mesi di session in uno studio di registrazione a Parigi per la realizzazione dell’esordio discografico. In Francia, il disco vede inizialmente la co-produzione di Philippe Zdar dei Cassius, mentre successivamente un’altra co-produzione, questa volta con Erol Alkan agli Hercule Studios di Londra, è concentrata unicamente sulle parti vocali. World, You Need a Change of Mind, l’esordio di Kindness, è del marzo del 2012 e già dal titolo (che cita Girl, You Need a Change of Mind di Eddie Kendricks) è un disco pieno di riferimenti e devozioni alla cultura funky degli anni ‘70 e ‘80 aggiornati al tocco house di Zdar, alla voce soulful di Bainbridge e a trovate tra r’n’b e jazz ispirate da Arthur Russell e dal duo produttivo Jam & Lewis, storici collaboratori di Janet Jackson (con i quali il Nostro collaborerà di persona l’anno successivo). Presenti anche due cover - Anyone Can Fall in Love dalla soap opera East Enders, Swinging Party dei citati Replacements (da Tim) - e un omaggio alla scena go go di Washington DC (il brano/documentario è Still Smoking, composto quasi totalmente da frammenti presi dall’omonima traccia della band locale Trouble Funk), tutte parti integranti di un esordio promettente, forse troppo riverente in alcuni punti, ma che già mette in evidenza le caratteristiche morbidezze r’n’b e le doti arrangiative del ragazzo di Peterborough. L’album è, inoltre, per Kindness, un passaporto per i festival (anche il Primavera Sound 2012) e per l’attività di produttore. Solange, al tempo al lavoro con Hynes per l’EP True, è la prima ad entrare nella sua agenda. I due registrano in Ghana che a New Orleans in un periodo dove gli appuntamenti e le collaborazioni si moltiplicano a dismisura. Tra i tanti rientra anche la regia di Chamakay, singolo traino di Cupid Deluxe, secondo album di Blood Orange pubblicato nel 2013 al quale Adam collabora anche in veste di produttore. In un certo senso, affermiamo in sede di recensione, nel nuovo Otherness, pubblicato ad ottobre 2014, Bainbridge sembra idealmente rispondere o procedere parallelo all’amico Hynes: l’album, maturo e coeso, abbandona il lato house di Zdar per un rotondo mix di r’n’b, funk, soul, disco e jazz. Lo stesso Devonte è presente in scaletta con il brano Why Don’t You Love Me assieme a Tawiah e, ciò che più conta, è la coralità con la quale il disco è stato concepito, oltre naturalmente ai crismi di produzione. Tra gli ospiti del sophomore troviamo Kelela, in una veste arrangiativa radicalmente diversa da come l’avevamo lasciata in Cut For Me, ma anche la popstar norvegese Robyn, mentre dal punto di vista del personale in studio spiccano Blue May (che ha curato il mixing assieme ad Adam e contribuito come ingegnere del suono), Jimmy “The Senator” Douglass (produttore che in agenda conta collaborazioni con Rolling Stones, Timbaland e Timberlake) e John Dent (a cui è stato affidato il mastering). Alla realizzazione del disco concorrono infine numerosi strumenti, molti suonati da Bainbridge ed altri dallo stesso May ai suoi XXVII Studio, e non mancano nemmeno, questa volta, i campionamenti: For The Young prende in prestito un riff di kora da un brano di Herbie Hancock e Foday Musa Suso, With You omaggia Moments in Love degli Art Of Noise e in Who Do You Love? è presente un frammento di Shy Girl di LaChandra. 25 R ö y k s o pp 26 Th e o f K i n g s N o r d i c P o p In occasione dell’uscita del quinto album “The Inevitable End”, abbiamo intervistato Torbjørn Brundtland e Svein Berge. Ricordi anni ‘80, molte collaborazioni e ancora tanta voglia di comporre pop di qualità. >>>Testo di Marco Braggion In occasione dell’uscita del nuovo disco The Inevitable End, abbiamo intervistato via Skype Torbjørn Brundtland (To) e Svein Berge (Sv), in arte Röyksopp. Il duo norvegese ha dichiarato che il quinto disco della sua produzione musicale sarà l’ultimo album. Un addio? Per niente! Ci hanno infatti tranquillizzati: “non smetteremo di comporre musica, è solo la specificità del formato album che ci va stretta”. Un capitolo della loro fortunata carriera che si chiude e che apre nuovi percorsi, probabilmente destinati a pubblicazioni sulla breve distanza (EP, singoli) e forse a collaborazioni su altri media. Nella chiacchierata – purtroppo durata solo mezz’ora – ci siamo trovati a parlare dei nuovi pezzi e dei nuovi collaboratori (Jamie McDermott, Robyn, Susanne Sundfør), ma anche degli esordi, della scena di Bergen, degli anni ‘80 con Bjørn Torske, dei Duran Duran e delle produzioni elettroniche contemporanee. Nel 2001 avete iniziato con qualche singolo e il vostro debutto Melody A.M.. Dopo tanti anni il vostro approccio al comporre musica è cambiato? (To) Abbiamo sempre voluto creare e fare musica. In questo non siamo cambiati. Magari abbiamo usato qualche trucco, ma alla fine di ogni giorno posso dire di provare sempre la stessa sensazione: vogliamo esprimerci. (Sv) Anche se il “dogma” (se vuoi chiamarlo così) o l’approccio con cui componiamo musica è lo stesso, c’è stata un evoluzione nel modo in cui ci esprimiamo. Abbiamo abbracciato direzioni diverse, col passare del tempo, ma il modo in cui ci avviciniamo alla musica è lo stesso. La filosofia è la stessa, cambia il modo in cui la esprimiamo. Nelle note stampa che accompagnano il nuovo lavoro, The Inevitable End, avete dichiarato che sarà il vostro ultimo disco: “non smetteremo di fare musica, ma non useremo più il formato album”. Cosa significa? (Sv) Significa proprio quello che abbiamo detto. Finora abbiamo pubblicato cinque album da studio di cui siamo orgogliosi, ma vogliamo smettere di usare questo formato. Abbiamo sempre fatto quello che abbiamo voluto con quel formato specifico. Ovviamente non smetteremo di comporre musica, è solo la specificità del formato album che ci va stretta. Vogliamo abbandonarlo perché lo amiamo a tal punto che non vogliamo rovinarlo in qualche modo. Allora inizierete a scrivere musica per film, cinema, altri media o che altro? (Sv) Potremmo anche farlo, trovando 28 l’occasione giusta, ma ci sono altri modi e posti in cui si può pubblicare musica oggi. Per esempio si possono stampare EP, anche in serie, oppure si possono stampare pezzi singoli, senza doverli mettere in un contenitore o in un contesto. Puoi metterli su Soundcloud o sul tuo sito… ci sono soluzioni diverse. Potremmo creare musica appositamente per i club o per i dancefloor. O anche 29 qualcosa, come dici tu, per teatro o film. Cose che non abbiamo fatto in passato ma che potrebbe essere interessante fare. Siamo aperti a qualsiasi esperienza, possiamo fare qualsiasi cosa. Avete iniziato nella cosiddetta “scena di Tromsø” e poi vi siete spostati a Bergen con artisti come Bjørn Torske, Ralph Myerz e altri. Siete sempre stati in bilico fra pop e techno, creando uno stile ibrido. Già dall’esordio avete utilizzato molti ospiti vocali. C’è una ragione particolare per la quale non pubblicate molti strumentali? Anche nel nuovo disco ci sono molti featuring… (Sv) Ci sono molte ragioni. La prima è che vogliamo cambiare il nostro modo di esprimerci sui pezzi. Vogliamo evolverci, così da non insabbiarci e ripetere quello che abbiamo già fatto. Per noi trovare i collaboratori giusti in termini di vocals è sempre stato un modo di andare in una certa direzione. Trovare la giusta voce per lo specifico sentimento o sensazione da associare al pezzo è imperativo, molto importante. Anche se amiamo tutte le persone con cui abbiamo lavorato in passato, sentiamo che non le possiamo usare di nuovo, anche se ci piacerebbe. Non lo facciamo perché non ci vogliamo ripetere. In particolare per quest’ultimo disco abbiamo voluto cambiare collaboratori, sia per i temi che abbiamo sviluppato, che per i testi. Questi ultimi sono molto connessi alla nostra storia e alle cose che ci sono successe. Ecco perché abbiamo voluto una dominanza maschile per le vocals del disco, in confronto a Junior che ha un enfasi più sul lato femminile. 30 Com’è stato collaborare con Jamie Mc Dermott? Avete collaborato con lui su altri pezzi in passato. Sul disco canta addirittura quattro brani… (Sv) Abbiamo sentito uno dei suoi primi pezzi nel 2008 o 2009. Il brano si chiamava In This Shirt (la canzone è degli Irrepressibles, il gruppo di McDermott, ndSA) e ci è piaciuto molto, insieme alle sue abilità vocali e alle cose che riusciva a comunicare con la sua voce. In quel periodo stavamo terminando Junior, che è l’album più uptempo della nostra intera discografia. Ci sarebbe piaciuto collaborare con lui ma sapevamo che il suo stile non sarebbe stato bene nel disco. Sapevamo già che avremmo composto Senior con pezzi interamente strumentali, e anche lì non ci sarebbe potuto stare. Per The Inevitable End avevamo un’idea di una specie di addio, un canto del cigno, un disco più serio. Jamie sarebbe stato perfetto con la sua voce per un mood del genere. Nel 2009 abbiamo fatto un bootleg di In This Shirt: un amico comune l’ha fatta sentire a Jamie e gli è piaciuta molto, così ci ha offerto le parti della canzone per remixarla. Abbiamo pubblicato il remix e fatto amicizia con lui. (To) Vorrei aggiungere che lavorare con Jamie in studio mi ha fatto capire come abbia delle capacità tecniche altissime, un grande vocabolario che può usare per esprimere le diverse emozioni. Nell’album c’è anche il contribuito di Susanne Sundfør. Lei è molto popolare in Norvegia, ma non è conosciuta in Italia. Ci potete dire qualcosa in più su di lei e su come l’avete conosciuta? (Sv) È il tipo di artista con cui ci piace lavorare. Ha una voce unica e speciale, è un’artista con la sua carriera, fa la sua musica, tutte caratteristiche in comune con le persone con cui abbiamo lavorato in passato. Non cantano e basta, ma compongono, come Jamie, Robyn, The Knife, e tutti gli altri. In più ci piace quando le persone con cui lavoriamo sono un po’ “sconosciute”. Non si può dire questo di Robyn, perché penso che sia più conosciuta di noi, ma gli artisti con cui abbiamo lavorato in passato erano all’inizio della loro carriera. Lo stesso è per Susanne; è vero che è conosciuta in Norvegia, ma penso che sarà conosciuta anche in tutto il mondo a breve: è una grande cantante e musicista, è molto vera e unica come persona e ci piace molto. Quando si tratta di cantare è molto versatile, può fare molte cose, si adatta molto bene e ci piace molto perché possiamo forgiare il suo modo di cantare su quello che vogliamo sentire nella nostra musica. Ci potete dire qualcosa dell’amicizia con Robyn? Avete pubblicato un EP quest’anno e avete già lavorato con lei in Junior. Come è stato collaborare con lei? (To) Stiamo bene insieme. E funziona bene quando lavoriamo a una canzone con lei. Collaboriamo tutti e tre con elementi di produzione, scrittura, testi… tutti questi elementi vengono fuori simultaneamente. E siamo anche molto amici, quindi non parliamo solo di musica, ma anche di qualsiasi altra cosa. Usciamo anche insieme. Si sente anche ascoltando i pezzi che c’è un qualcosa di più del legame professionale. Ma andiamo un po’ più dentro al disco. Mi è piaciuta molto Skulls, è molto dancey con qualche vocoder. Avete pensato al dancefloor quando l’avete composta? (Sv) Non come prima cosa, devo ammettere. L’elemento dancefloor… bisogna ricordarsi che veniamo da un background di musica elettronica. Più specificatamente nella nostra adolescenza ascoltavamo le uscite della fine degli anni ‘80 e dei primi ‘90. Eravamo parte della scena club/rave, se vuoi chiamarla così. Siamo cresciuti con quella musica, quindi fa parte del nostro DNA, della nostra eredità musicale e di quello che portiamo avanti come gruppo. Quindi dev’essere per forza e sarà sempre così riguardo all’elemento dancefloor. Ma su questo album specificatamente non abbiamo riposto molta attenzione sull’elemento dancefloor, sebbene ci siano tracce che suonano da pista. Le puoi mettere in un club, se vuoi, ma non le abbiamo composte per quello. Si può dire che Skulls, Monument, I Had This Thing e in qualche parte Save Me e Running To The Sea puoi metterle in qualche club, ma dipende dal tipo di club. In un club piccolo sono sicuro che saranno suonate, ma non le abbiamo pensate per un festival con 200mila persone. Monument mi ricorda molto il vostro secondo album, è molto intima e riflessiva. Ha scritto Robyn il testo di questo brano? (Sv) Abbiamo scritto il pezzo insieme. Quando abbiamo composto il mini album Do It Again ci siamo seduti allo stesso tavolo, vicini, con un pezzo di carta e una penna, e ci siamo messi a 31 scrivere. Il pezzo è una collaborazione allo stesso livello, sia per i testi che per la musica. Ma cosa pensi del pezzo? Lo senti intimo e riflessivo? (Sv) Sì, penso che sia proprio così. Hai indovinato (ride, ndSA). Volevamo che tutto il disco suonasse così. Su Sordid Affair ci sono molti elementi old fashioned. Mi ricorda un po’ i brani di Jori Hulkkonnen, anche qualcosa dei Duran Duran e i primi pezzi vostri. È molto malinconica; anche gli strumenti che avete usato sono analogici… (Sv) Stiamo molto attenti nella selezione dei suoni e degli strumenti per la nostra musica, qualcosa di cui andiamo molto orgogliosi e su cui spendiamo molto tempo. Visto che questo è il nostro ultimo disco, abbiamo voluto guardare un po’ indietro, alle cose che abbiamo fatto in passato, e utilizzare elementi dal passato. In confronto a tante produzioni contemporanee di musica elettronica, questo disco è stato mixato in maniera molto dinamica. Hai citato ad esempio i Duran Duran come riferimento e ci sta, perché hanno molto spazio nella loro musica, nella loro gloria anni ‘80, con cui siamo cresciuti. Le synth band degli anni ‘80 come i Depeche Mode, i Duran Duran, gli Yello o la italo disco, tanto per prendere anche il tuo Paese… è un eredità che abbiamo voluto includere nel disco e visto che stiamo celebrando e nel contempo dicendo addio al formato album, abbiamo voluto aggiungere tutti questi riferimenti raccolti nel corso degli anni; lo abbiamo fatto appositamente. Idem per la scelta degli strumenti elettroacu- 32 stici come chitarre, pianoforte, Rhodes e basso elettrico… tutte queste cose sono state aggiunte per creare l’intimità di cui parlavi prima. Abbiamo cercato di perfezionare i maestri di questo genere e abbiamo cercato di stare distanti dal modo di produrre musica elettronica dei nostri giorni, che per noi è un po’ troppo generico e qualche volta addirittura noioso. Ascoltando una vostra compilation del 2007 (Back to Mine), mi sono sorpreso, perché insieme a grandi artisti come Talking Heads, Mike Oldfield, Art of Noise e altri, avete scelto anche due pezzi di italo disco (una è Ma quale idea di Pino D’Angiò e l’altra è Get Closer di Valerie Dore). Vi piacciono i suoni della italo disco? (Sv) Certo, ci piace il genere. Bisogna ricordare che abbiamo una certa età (ride, ndSA) e quindi siamo stati parte di quella scena per molto tempo. Ci piace molto ancora. Quando parliamo di generi musicali, non importa chi sia l’artista, basta che ti piaccia la musica; è quella la cosa importante. Non so se capisci quello che voglio dire: ad esempio, certi artisti italo possono essere considerati “uncool” (“non molto alla moda”, ndSA), ma a noi non interessa. Tutto quello che conta è se ci piace o meno il pezzo. Noi non facciamo musica per le persone, ma facciamo musica per la musica. Molti artisti nordici che ascolto suonano molto italo, penso a Bjørn Torske, Lindstrøm, Prins Thomas. Mi piace molto il fatto che i DJ nordici siano molto vicini a questo tipo di musica… (Sv) Per noi questo stile è molto cool. Bjørn Torske è uno dei più importanti motivi per cui l’italo disco è così popolare in Norvegia. Veniamo dalla stessa città, Tromsø, e lo conosciamo sin da quando siamo bambini. Ascoltavamo i suoi DJ show quando lui era un giovane adulto e noi eravamo bambini; è stato una grossa influenza per noi e per i nostri gusti musicali. Quando abbiamo avuto un po’ di successo abbiamo sparso la voce anche alle generazioni più giovani della nostra, in particolare, come hai detto, Lindstrøm e Prins Thomas, che sono stati influenzati dalle nostre cose. Anche loro hanno contribuito a diffondere l’italo disco. Tutto ciò non sarebbe successo senza Bjørn Torske, che penso sia il personaggio più importante per la nu-disco scandinava. Penso che lui sia il numero uno della scena, e forse noi siamo al numero due o tre…(ride, ndSA). Farete un tour in Europa o in Italia? Avete pensato di stare da soli sul palco o di avere qualche ospite dell’album o di quelli passati? (Sv) Non abbiamo ancora deciso nulla. Ci sono così tante cose che vogliamo fare. Vogliamo scrivere nuova musica, ovviamente vogliamo vedere il mondo e suonare i nostri pezzi. Cosa dici Torbjørn? (To) Faremo sicuramente qualcosa, ma stiamo scrivendo la musica che vogliamo e non stiamo pensando al live. Quando definiamo lo spettacolo dal vivo, molto spesso reinterpretiamo i nostri stessi pezzi, di solito li facciamo più party-oriented, più incasinati. Faremo qualcosa nel 2015 sul materiale nuovo, ma non sappiamo ancora cosa. 33 A r i e l P i n k P o p , m a l g r a d o 34 t u t t o Dal presunto “dissing” con Madonna alla collaborazione con Kim Fowley. Ariel Pink ci racconta del passaggio da estremista sonoro a fenomeno pop. Suo malgrado. >>>Testo di Diego Ballani Sono giornate di fuoco per Ariel Pink. E non solo per gli impegni correlati alla promozione del nuovo album. Pom pom, sin dai primi singoli, si annuncia come uno dei dischi più importanti della sua carriera. Un lavoro magniloquente, che nella sua ipertrofia punta a dire qualcosa di definitivo su quella zona franca del pop in cui le ombre del mainstream si allungano fino ad assumere contorni grotteschi. A tal proposito il trentaseienne californiano dimostra ancora una volta di sapersi scegliere i padrini giusti. Se in passato le collaborazioni con R. Stevie Moore avevano portato alla (ri)scoperta di uno degli eroi misconosciuti del pop DIY, oggi è il vecchio Kim Fowley a firmare due brani dell’album insieme a lui. Fowley è un personaggio che ha attraversato trasversalmente l’universo musicale, grazie alla capacità di incunearsi all’interno delle falle dell’industria del pop per sfruttarne le contraddizioni. In questo senso Pink è il più indicato a prenderne l’eredità. Perché se è vero che il Nostro ama danzare sopra le righe come una ballerina in tutù, gli va riconosciuto di essere 35 uno dei geni folli della sua generazione, in un momento in cui la genialità è una qualità da far valere ai piani alti delle case discografiche. Quando lo contattiamo lo troviamo nelle insolite vesti di pompiere, intento a spegnere il fuoco delle polemiche innescate da frasi con cui avrebbe commentato, in modo non proprio rispettoso, la sua presunta collaborazione con Madonna. Ci siamo trovati di fronte ad un Ariel Pink insolitamente moderato (alter ego buono di quel Pink “bigmouth”, accusato più volte di misoginia) ma sempre capace di mettersi a nudo senza imbarazzi. So che sei a New York in questo momento. Hai qualche cosa in ballo? No, sono qui solo per promuovere l’album. Dunque sei ancora di stanza a Los Angeles? Sì, assolutamente. Credi che sia un buon posto per un musicista come te? Credo che non esistano posti buoni per gli artisti. Gli artisti generalmente sono poveri. Forse New York è un posto buono, ma io non ho ancora trovato ragioni per lasciare Los Angeles. È lì che ho famiglia e amici e credo che chiunque abbia la possibilità, resti vicino alla propria famiglia. Avrei molte cose da chiederti, ma visto che proprio in questi giorni si sta facendo un gran parlare della tua collaborazione con Madonna mi piacerebbe saperne di più a riguardo… Non c’è molto da dire. Sono uscite un sacco di cose non vere a riguardo. È un caso tipico del mio rapporto con i media. Semplicemente qualcuno ha 36 mentito. È stato detto qualcosa che non era vero e a cui tutti hanno creduto. La stampa ha amplificato la cosa usando il nome di Madonna e il mio, senza verificare assolutamente nulla. Sono state riportate alcune frasi che io avrei detto all’interno di una lunga intervista in cui parlavo del mio ultimo album. Ovviamente la gente si è interessata solo a quelle frasi. Ma al di là delle polemiche, è vero che stai lavorando ad alcuni pezzi per il nuovo album di Madonna? No, non è vero. È come in paesi tipo il Rwanda o la Germania, in cui la pubblica opinione è controllata dalla macchina della propaganda. Questa volta, però, sono stati ipocriti perché hanno attaccato me per attaccare lei. Personalmente non ho ragione di negare niente. Io vivo e lascio vivere. Anzi, dovrei essere contento che il mio nome sia stato associato al suo, seppur per ragioni non consone. Beh, è un vero peccato, sarebbe stato interessante vederti alle prese con un’artista che citi spesso come tua fonte di ispirazione… Beh, vedi. C’è stato in effetti un contatto, ma è stato alcuni mesi fa. Ero nel mezzo delle registrazioni del disco e stavo producendo altri artisti. Hanno contattato il mio agente per vedere se c’erano le condizioni per una collaborazione, perché pare che lei avesse in mente qualcosa di “strano” per il suo nuovo album. Naturalmente oltre a me, stavano valutando anche altri autori. È stato divertente lavorare per un po’ di tempo pensando a Madonna, ma alla fine non se n’è fatto nulla. Immagino che il lavoro sia stato affidato a qualcun altro. Cosa pensi di questa tendenza da parte degli artisti del pop “mainstream” di cooptare collaboratori più estremi per i loro album? Credo sia un’ottima cosa. Personalmente sono stato molto onorato che mi sia stata offerta questa occasione. Non so se riaccadrà, a questo punto. Di certo non ho problemi a lavorare nell’industria musicale. Credo che la mia musica abbia le qualità giuste per il mainstream. Solo preferirei non farlo come progetto solista, usando la mia voce. È una cosa che mi piacerebbe fare per un altro artista. Quando credi di essere passato dall’essere percepito come un freak, come qualcosa di strano e “poco commestibile”, a modello per gli altri artisti? Credo che sia stato un processo graduale. È una cosa iniziata intorno al 2004 ed è arrivata a compimento intorno alla pubblicazione del singolo Round And Round. Ci sono stati cinque o sei anni in cui continuavo a ricevere stroncature da parte di Pitchfork senza alcun motivo. Le cose sono andate avanti così fino a che non sono diventato un specie di “mainstream per l’indie”. Pensi che in qualche modo le cose siano cambiate anche grazie al successo di un libro come Retromania? Credo che siano cambiate grazie al mio di successo! Scherzi a parte, le opinioni che ho condiviso con Simon e le parti del libro che parlano di me sono servite a dare un altro punto di vista al ragionamento che sta alla base di Retromania. Ma credo che quello sia soprattutto un libro sull’hauntology, ovvero su qualcosa con cui non ho mai avuto nulla a che fare. Poi non so se nel mio caso si possa parlare di una vera popolarità, sono solo un patetico nerd. Nel mio caso credo che abbia contato il fatto di essere in giro da parecchio tempo. Questo ha reso possibile il fatto che la gente si abituasse alla mia musica. Ora ci sono molti giovani artisti (parlo di gente di 20-22 anni con un contratto discografico con etichette che contano) che nelle interviste affermano di essere cresciuti ascoltando la mia musica. Questo per me è molto interessante. Dunque non è che io stia facendo musica meno “strana” rispetto al passato. Piuttosto è il mondo ad essere diventato di più un posto più “strano”. Parliamo un po’ del nuovo album. Come mai per introdurlo hai scelto uno dei brani più pop della tua carriera? Non c’è un motivo specifico. Si tratta di un disco complesso, è una specie di ritorno alle cose che facevo prima di arrivare alla 4AD. All’epoca mi era capitato di fare un paio di dischi un po’ troppo lunghi. Adesso faccio le stesse cose ma con un’altra consapevolezza. Non c’è un tema o un mood che pervade l’intero album, per me si tratta di una specie di White Album, un disco molto angloeurocentrico. Mi sono molto divertito a registrarlo, non sono partito con l’idea di registrare così tanti brani, ma sarei potuto andare avanti ancora per molto tempo se non mi fossi imposto uno stop. Per quale ragione il disco non è intitolato a Haunted Graffiti? Anche quando lo intitolavo Haunted Graffiti, si trattava sempre e solo di me. Ma in questo caso ci sono molti musicisti coinvolti e non volevo che questo potesse essere confuso con il lavoro di 37 una vera e propria band. Uno con il tuo carattere ha difficoltà a collaborare con così tante persone? Diciamo che il lavoro è un’altra cosa. Per me è vitale collaborare con altre persone; inoltre non amo molto fare tutto da solo. Credo che se la gente tenesse conto di tutte le persone con cui ho collaborato e di tutti quelli che vorrebbero collaborare con me, cambierebbe la percezione che ha di me e del mio carattere. Mi sembra che pom pom sia un album piuttosto strutturato e articolato. Ti senti un songwriter più forte e maturo? Ci sono stati blocchi e pressioni negli altri album. Di recente ho avuto parecchi problemi di carattere legale (recentemente il suo ex batterista gli ha intentato causa dopo essere stato espulso dal gruppo, affermando di aver scritto insieme a lui parte del materiale di Mature Themes, ndSA), e poi pressioni per concludere in fretta il disco, in modo da poter andare in fretta in tour per racimolare un po’ di soldi. Tutto questo 38 aveva portato a risultati poco focalizzati che non mi avevano soddisfattto molto. Questa volta ero intenzionato a non avere nulla di tutto questo. Questa volta ho preso tempo, ed è per questo che i brani sono più elaborati rispetto agli ultimi due album. E’ tutto molto più denso e aggrovigliato e la produzione è più elaborata e più pulita. Inoltre c’è stata questa collaborazione con Kim Fowley, artista con cui sono entrato subito in sintonia. Si è creata un’alchimia tale che ad un certo punto tutto ha iniziato ad andare per il verso giusto. A proposito di Kim Fowley, com’è nata la vostra collaborazione? Avevo intenzione di fare un video con lui già l’anno precedente, ma poi la cosa non si è realizzata. Siamo rimasti in contatto e mi ha dato parecchi consigli riguardo ai miei problemi legali. Credo che recentemente abbia fatto un po’ di ricerche e si sia reso conto di contare ancora molto per diverse persone. Quello che posso dire è che stato contento di lavorare con qualcuno che avrebbe voluto portare avanti la sua eredità artistica. Lui lavora ancora molto con diversi artisti contemporaneamente. Quando lo sono andato a trovare, se ne è venuto fuori di getto con una serie di idee che io ho cercato di fissare su carta, e quindi ho rielaborato più tardi per conto mio. Mi sembra che il nuovo album sia un lavoro maturo. In un certo senso, una summa di tutte le tue esperienza precedenti. Ti capita mai di pensare a tutto quello che hai costruito in questi anni? Credo che un personaggio con un ego come il tuo debba farlo spesso… No (ride, ndSA) ma ci penso tutte le volte che realizzo un disco e la gente mi stupisce mostrando che gliene frega ancora qualcosa della mia musica. In tutti questi anni la mia vena creativa è andata e venuta. Ma ogni volta che pubblico qualcosa accade che la gente sembri interessarsi a quello che faccio e la cosa mi pare incredibile. C’è stato un periodo in cui non ho scritto canzoni per quasi cinque anni, per dedicarmi alla mia vita. Non sapevo neppure se sarei riuscito a ricominciare. Così, ogni volta mi sento incredibilmente onorato e sorpreso. Ora sono arrivato al punto che non devo pubblicare in continuazione materiale, perchè la gente si ricordi di me. Questo significa che non devo essere continuamente ispirato. Non avrei bisogno neanche di un’etichetta, potrei accontentarmi semplicemente del fatto di continnuare a fare musica. Invece ho un’etichetta e un disco nuovo, e tutto questo mi fa sentire incredibilmente fortunato. Ariel Bio Ariel Pink è il giullare di quella corte di cui è anche il Re. Una corte nostalgica, ma odierna. Un luogo – a metà tra Madonna e i Residents – fatto di canzoni, dove Ariel Pink risponde solo a sé. Ariel è eccentrico e scostante come tutte le personalità comiche – dove comico è uguale a obliquità, se non ribaltamento: sovrapposizione degli opposti, cosa che viene facile all’androgino Pink. Ariel Pink più di ogni altro interpreta con mestiere i nostri anni, per almeno due motivi. Da un lato ha vestito atteggiamenti hipster prima che la parola venisse recuperata dagli anni quaranta e demineralizzata dai giorni nostri; dall’altro ha riletto negli anni almeno tre decenni di musica pop (dai Sessanta agli Ottanta) in veste (g)lo, prima che questo approccio diventasse molto chic e varcasse il confine con il mainstream. Ariel nasce Ariel Marcus Rosenberg, il 24 giugno 1978, a Los Angeles, città che lui non ha “ancora trovato motivi di lasciare”, come ci ha rivelato in un’intervista alla fine del 2014. Inizia fin da bambino a scrivere canzoni, ad accumulare melodie, a partire da una passione per il pop gotico inglese, fino a fare proprio tutto il pop – soprattutto americano – del passato, col proprio stile. La sua carriera è una hauntologia a bassa definizione, dove Pink ha portato allo stato dell’arte la pratica della patina, di cui la psichedelia haunt ha poi fatto incetta. Quando se n’è reso conto, ha chiamato “maturo” il proprio approccio – da lì Mature Themes, del 2012, disco che ha convinto tutti del talento di Rosenberg. Dieci anni prima, House Arrest / Lover 39 Boy inaugurava invece – ma solo nella successione degli album ufficiali – un approccio da archivio del disordine – anche qui, hauntologico per eccellenza, anche se il diretto interessato ha sempre negato questa appartenenza – dove il materiale delle canzoni non prevedeva crescita artistica e neanche decrescita. Le prime mosse di Pink erano infatti costituite da autoproduzioni, rimaneggiate negli anni per (ri)pubblicare oggetti più simili ad album tradizionali, grazie al sodalizio con Paw Tracks, nato proprio grazie a un incontro fortuito nel quale il Nostro ha la prontezza – nel 2003 – di consegnare a mano un CD-R agli Animal Collective, dopo un loro show. Fuori dall’ufficialità delle produzioni, la storia inizia invece alla fine dei Novanta, quando Ariel registra su Tascam 8 e Yamaha MT8X Underground 1 (poi licenziato nel 2007), prima raccolta dei suoi “nuggets degenerati”, come notavamo nel primo articolo che cercava di tracciare una prima retrologia di Rosenberg. Qualche anno dopo (inizio Duemila) Ariel Pink registra The Doldrums, uscito per Paw Tracks nel 2004, due anni dopo il “nice pair” House Arrest / Lover Boy (ristampato sempre dall’etichetta di Animal Collective nel 2006). Non si può leggere la sua discografia senza dare una scorsa a quella del suo maestro, R. Stevie Moore, il principe del lo-fi americano, con una produzione imprendibile (perché sterminata) di canzoni-breviari a bassa definizione. Dove però la firma è sempre esplicita, cristallina. Rispetto al maestro, Ariel cerca di mettere ordine nella propria produzione. “Tutti i dischi usciti sotto 40 il nome Ariel Pink [tranne l’ultimo, in uscita a fine 2014] sono numerati da uno a otto; il primo di questi, Underground appunto, è l’ultimo che ha visto la luce in una stampa del 2007. Gli altri, a partire proprio da The Doldrums, escono autoprodotti a partire dal 2000, anche se è nelle ristampe che trovano una distribuzione accettabile”. “Di fatto la produzione “numerata” è tutta registrata tra il 1998 e il 2001, e fatta uscire poi in varie sessioni”. In mezzo a questa, segnaliamo Scared Famous, uscito nel 2007 per Paw Tracks (anche se autoprodotto nel 2002), significativo perché traccia una geografia del cantautore californiano, come notavamo sempre nel 2009: il disco “si fa subito notare per i nuovi vecchi amori che Ariel non ha più paura di confessare. Madonna (a modo suo, con falsetti queer e svenevole pop da girl group come lo vedrebbe un camionista pedofilo) e Michael Jackson (sempre pedofilia droga e tutta la storia indietro fino ai Jackson Five). Di più; c’è il mentore Moore con il quale Pink incide Express, Confess, Cover-Up e SteviePink. Come anticipato, Sir Robert Steven Moore, prime mover delle self release, ad oggi responsabile di oltre 400 produzioni disseminate tra cd-r e cassette, è in qualche modo una guida spirituale per Rosenberg. Un vate conosciuto da Ariel all’epoca di The Doldrums, e, come successo con gli Animal Collective, conosciuto grazie a uno scambio di una di quelle innumerevoli cassette”. Siamo alla fine del decennio, Ariel fonda un’etichetta per lanciarsi con l’esperienza in band a firma Haunted Graffiti, ma poi la svolta. Con Before Today (del 2010) il Nostro abbandona Paw Tracks per la 4AD e prova a fare un passo più deciso ma meno caratterizzato nel suo universo di riferimento, collezionando una “sequenza di ricordi pop appannati Ottanta e fine Settanta – col senno di poi e l’accortezza di fare l’occhiolino a destra e a manca. In realtà le differenze ci sono eccome, rispetto ai capitoli precedenti dell’epopea pinkiana. Quella bassa definizione da macchina vintage e mal funzionante che arrivava all’orrido sublime in dischi come Underground, oggi, è sostituita da una sorta di “fedeltà” suonata che perde il sapore casalingo”, che ci porta, nel 2010, a sanzionare nel Pink di allora una sofferenza da “onda da riflusso”. Il contratto di esclusiva con 4AD segna di fatto un cambio di paradigma. Ariel ci confessa di non volere più pubblicare CDR, a meno che “non sia costretto a farlo”. La stabilità giova a lui e ai suoi Haunted Graffiti, come dimostrato da Mature Themes (uscito per 4AD nel 2012): “Pink resta fedele all’idea di una hauntology lo-fi, una hauntology fenomenologica per così dire, uno ieri cioè visto e sentito – filtrato e offuscato – dalle orecchie ingombre della contemporaneità. Orecchie beffarde, per quanto decisamente pop. Con Mature Themes il Nostro porta a un livello superiore l’operazione – art brut se si vuole, aggiornamento delle stupid songs o delle parodie doo-wop zappiane – già ottimanente rappresentata in Before Today, ed è il compimento di un percorso di lenta e ricercata emersione”, come notava il nostro Gabriele Marino a metà 2012. Rosenberg impiega due anni per dare un seguito ai suoi “temi maturi”. Nel mezzo, a ridosso dell’uscita del nuovo album, i media lo tengono impegnato in una polemica per un presunto contatto con Madonna, rispetto alla quale Pink è costretto ad abbassare i toni con decisione. A livello discografico, prima dell’ultimo album, Ariel pubblica, come archeologia della hauntologia, una raccolta di live nel periodo pre Haunted Graffiti. Di fatto è un’anticipazione – insieme al singolo Put Your Number In My Phone – degli ultimi passi di Rosenberg, che per l’ultimo album, Pom Pom, in uscita via 4AD il 17 novembre 2014, riabbandona la compagine per ripresentarsi da solo. In realtà la scelta non arriva a ciel sereno, ma era già stata dichiarata (e smentita) all’indomani dell’uscita di Mature Themes. Il motivo non è solipsistico – Ariel anzi continua a collezionare collaborazioni. Eppure un ritorno alle origini c’è nel dismettere i panni di leader di una band: “Anche quando lo intitolavo Haunted Graffiti, si trattava sempre e solo di me. Ma in questo caso ci sono molti musicisti coinvolti e non volevo che questo potesse essere confuso con il lavoro di una vera e propria band”. Il Re è vivo, il giullare continua a dargli di che passare il tempo. Daniele Rigol 41 Genere: indie A due anni di distanza dall'uscita di Europe, secondo album entrato da subito nelle grazie della critica specializzata e il più venduto di sempre su Rough Trade, e il successivo ritorno in Fortuna Pop, che aveva accompagnato l'esordio in studio, gli Allo Darlin' piazzano il terzo centro consecutivo. Le fondamenta di questo We Come From The Same Place nascono da alcuni stravolgimenti nella vita di Elizabeth Morris, che si è sposata ed è ora residente in pianta stabile nella nostra Firenze. Parliamo di un disco che, a livello di sonorità e atmosfere, non si distanzia minimamente dalle precedenti fatiche; proprio per questa perseveranza nel percorrere da ormai quattro anni la stessa strada, però, la band sta mostrando la sua alta caratura: sappiamo fare una cosa, ma la facciamo alla grande. L'epicentro dell'album non può che essere ovviamente la splendida voce di Elisabeth, lontana da qualsivoglia funambolismo vocale, e proprio per questo così maledettamente rassicurante, più vicina ad una dimensione terrestre con il suo tono caldo, che ti abbraccia delicatamente. Come se stessimo parlando alla classica ragazza della porta accanto, con la quale ti vergogni un po' a colloquiare ma che non puoi fare a meno di ascoltare. Bill, Michael e Paul non fanno altro che accompagnarla con graziosi e soffici accordi, girandole intorno e sapendo che il grosso del lavoro deve farlo lei, a volte con l'ukulele (Another Year), a volte tirando fuori 42 la chitarra elettrica (Half Heart Necklace) o addirittura accompagnandola con la voce (Bright Eyes), ma sempre tenendo a mente la lezione folk (History Lessons) appresa dai Nostri meglio di qualunque altra materia. Alla band non piace sperimentare, non vuole cercare di saltare il fosso e nemmeno dirigersi verso vette più alte, consapevole delle capacità ma anche dei propri limiti: in quanti possono dire lo stesso? 7.2/10 Daniele Rigoli Altera - I Love Freak (Self records,2014) Genere: rock, art, spokenword_reading, collage_ cutup La prima collaborazione tra gli Altera e Freak Antoni risale addirittura al 1997, quando il gruppo genovese esisteva da poco più di un anno, ed è proseguita con la partecipazione a Canto di spine, il disco del 2001 dedicato alla poesia italiana del '900, fino a quello che avrebbe dovuto essere il singolo del nuovo album e che poi è diventata l'ultima canzone registrata dall'ex cantante degli Skiantos. L'amicizia e la necessità di elaborare la perdita hanno portato Stefano Bruzzone e compagni a mettere da parte il disco previsto e a realizzare, grazie a Musicraiser, questa raccolta di materiali vari ed eterogenei, un po' omaggio un po' filologia. Il centro è Par-lamento (presente anche in un "electro mix" del dj Max Monti), energico attacco all'attuale classe politica (con citazioni della Paese scarpa degli Skiantos), un bel r e c e n s i o n i n o v e m b r e Allo Darlin' - We Come From The Same Place (Fortuna Pop!,2014) Giulio Pasquali r e c e n s i o n i Andy Stott - Faith in Strangers (Modern Love,2014) Genere: techno, elettronica, dub Alison Skidmore e Andy Stott hanno inaugurato un sodalizio artistico particolare in Luxury Problems, un disco che portava i cavernosi 11obpm del producer mancuniano in un territorio di chiaroscuri dream e gotici, e dunque richiamava una tradizione britannica di lungo corso con i vari rimandi a 4AD, Cocteau Twins e Dead Can Dance del caso. Stott del resto, fin dall'inizio della sua produzione sulla lunga distanza non ha mai dimenticato di curare gli spazi e i pensosi stati d'animo che voleva esprimere, una dimensione scolpita nei grigi e nelle ombre, tinta di sottile romanticismo o avvolta di onirico torpore, magari anche rappresentata in noir come la copertina di Merciless. Un mood che è stato via via scandito da una bituminosa techno, mai davvero minacciosa, piuttoso alla ricerca di una terrigna catarsi. Ci viene naturale pensare che siano sempre stati questi gli ambienti e i ritmi che hanno accompagnato e sublimato la vita del mancuniano mentre lavorava in fabbrica e verniciava le automobili per Mercedes; in verità ogni album di Sott ha esplorato ambienti, soluzioni e anche stili differenti. Faith In Strangers è un terreno nuovo, spostato verso la forma canzone (ma neanche troppo), interessato all'uso di pattern ritmici pitchati ed ancora una volta incentrato su umori e ambienti, a partire da una evocativa apertura sinfonica, Time Away, che ci ricorda i These New Purtians di Field of Reeds. Alcune intuizioni messe in campo con Drop the Vowels (How It Was) tornano qui accompagnate dai sussurri di una Skidmore più importante nell'economia di un sound sempre gotico, giocato in distorsione e cinematografico, ma che ha abbandonato la techno dub (l'unico pezzo sul genere, non a caso, è la distorta e housey How 43 n o v e m b r e funk rock potente che pur non mancando di un verso dalla scorrettezza memorabile come "voglio sodomizzare /un parlamentare" (che in questi tempi non mancherà di riscuotere consensi), presenta un approccio un po' troppo diretto per gli standard di Freak (che si adegua al contesto, con un testo non dei suoi migliori), come peraltro l'arrangiamento – un rock classico di quelli col distorsore staccato dagli altri strumenti. Il resto è una cover della Paese scarpa citata nel brano, il figlio di Quasimodo che legge gli aforismi più famosi della buonanima, un frammento di Freak in radio (anche qui, le battute non sono le sue migliori) e una sua lettura di Whitman (O capitano! Mio capitano), qualche sua poesia messa in musica, la parte vocale che aveva registrato per (Poetica 2), una canzone dedicata, una versione di Però quasi col pianoforte originale (quello escluso dal mix finale): frammenti con un filo conduttore, il cui insieme però viene penalizzato dall'eccessiva banalità del rock del gruppo (dove invece Dandy Bestia era classico), che c'era anche in Canto di spine, dove però veniva scossa da cambi di tempo e da una maggiore attitudine per lo scarto e la stranezza. Si capisce che l'omaggio è realmente sentito, si capisce la sincerità della voglia di mettere a disposizione i materiali del cantante in mano alla band, e alcuni momenti sono suggestivi: ma rimane di fondo uno scarto tra il rock prevedibile del gruppo (come si notava già in Italia, sveglia!) e l'approccio avanguardista di Antoni, simboleggiato nella differenza profonda tra la classicità rock del cantato di Bruzzone e un Freak che riusciva a destabilizzare qualsiasi cosa, già a partire da timbro della voce. Forse un vero omaggio avrebbe richiesto, anche per il suonato, un approccio più da "Attila del savoir faire". 5.5/10 Genere: dark, elettronica Imprendibile, virtuale, sospeso nel tempo, classico o contemporaneo a seconda del punto d'osservazione, astrattamente hip hop come il Wu Tang in assenza di gravità oppure magnifico, macchinoso e cattedratico come un'overture di Aphex Twin. Lasciate stare l'Arca producer per Fka Twigs, o il producer che programma e fa da consulente speciale per Kanye West, o l'EP, tra trap e piano scordato, pubblicato lo scorso anno: qui abbiamo un Alejandro Ghersi che mette a frutto una pur giovane vita di esperienze soniche (ma già lunga di produzioni e training) al servizio di un'ambiziosa conduzione cyber-orchestrale. Come quella remota attivata da Richard D. James ma fatta a 24 anni, quindi, con la freschezza di quell'età e, al contempo, un solido background di studi classici, accademici e una profonda conoscenza dei software per fare musica. Non è facile approcciare Xen, un concept sulla vita, anzi su alcune scene di vita (nel corso della vita) di un alias di fantasia di Ghersi, una figura a cui lui si rivolge al femminile eppure definita asessuata, proprio come il personaggio vettoriale nel videoclip di Thievery curato dal sodale visual / artwork artist Jesse Kanda, sorta di metà artistica inseparabile del producer con il quale l'intero lavoro è nato e si è poi sviluppato. Parliamo dunque di un lavoro multisfaccettato dove ognuno dei 15 episodi ha una vita propria e dove non c'è un inizio e una fine come magari accade nell'ultimo di Clark o Objekt. Promise – la traccia che lo conclude – è un ventaglio di arpeggi e pizzicati di basso sintetico trafitti da sporadiche scariche di laser (una cosa tipo i Plaid che campionano Merzbow), quando l'opener, Now You Know, è pura vertigine tra schegge di luce, accartocciamenti ritmici e smalti da quarto mondo hasselliano piovuti chissà da dove. Held Apart è il piano classico della sua gioventù che viene fuori – piano imparato a forza ma che dà qui i suoi frutti – mentre Xen, la traccia che dà nome al disco, è come suonerà Forest Swords in un nuovo progetto con Evian Christ, sempre se i due producer penseranno mai di attivarne uno del genere. Così ricca di riferimenti a musiche e stili che abbiamo già sentito, eppure così distante da essi, la musica di Arca rimane fortemente legata al suo tocco. E la sua firma, già riconoscibile nei primi lavori – il mini album Stretch 2 pubblicato da ONO ad esempio – è qui spostata altrove, verso un mondo di possibilità avant-classiche (il balletto sulla luna Sad Bitch), perfette per un lavoro di Björk, verrebbe da dire, se non sapessimo già che proprio Ghersi co-produrrà il nuovo album della musicista atteso per il 2015. La forza del lavoro, in definitiva, sta nell'attrarsi e respingersi di varie tensioni, una tra tutte quella tra arrangiamento e melodia, dove quest'ultima non è mai elemento indispensabile alla sua riuscita. Una splendida Sisters è idm-romanticismo-autoriale (pezzo splendido), Failed – la traccia più meditabonda del lotto – introduce un nervoso quartetto d'archi, Family Violence. Più avanti torna quel modo tutto particolare di unire hip hop, IDM, contemporanea in poemi semi tonali (Lonely Thug) sospesi tra la cameretta di un bimbo e le stelle. Ottimo esordio. 7.5/10 Edoardo Bridda 44 r e c e n s i o n i n o v e m b r e Arca - Xen (Mute,2014) It Was) per un campo sonoro tanto imprendibile quanto circondato da alcune delle impronte produttive del mancuniano (On Oath). Non parliamo di un disco folgorante come è stato Luxury Problems. Stott raramente graffia, ma quando lo fa è in grado di reinventare nuove strade per il trip hop di Tricky (Violence) o regalarci della discreta new wave coi ritmi o senza (Faith In Strangers e Missing, che presentano anche un basso wave, o Science And Industry) o trovare nuovi modi per dire darkcore (Damage). Disco di transizione ma non per questo non meritevole di attenzione, anzi. 7/10 Anthroprophh - Outside The Circle (Rocket Recordings,2014) Genere: rock, psych Gira e rigira questi illeggibili Anthroprophh sono la miglior creazione di Paul Allen, noto ai più come leader dei The Heads, band che dalla metà degli anni '90 ha messo in piedi un bel party psych rock di matrice hendrixiana, facile da ricordare anche per alcuni artwork fricchettoni come quello del debutto. In fondo però i The Heads, pur godibilissimi, sono una garage band 70s tanto nell'estetica quanto nel suono, mentre gli Anthroprophh hanno altra pasta. Partiti nel 2013 con un disco poco classificabile, l'omonimo Anthroprophh che riuniva la psichedelia etno-oppressiva-drogata di casa Rocket (Goat e Gnod) con freakerie orientaleggianti e kraut alla Can, li ritroviamo ora con Outside the Circle a ripetere il compito in veste più convenzionale, ma pur sempre ispirata. A grandi linee c'è un ritorno al rock, alla forma canzone, al mondo garage dei The Heads, se prendiamo in esame brani alla Dead Man On The Scene. Eppure sbagliereste a credere Outside the Circle un album agevole, perché i No- Stefano Gaz Beatrice Antolini - Beatitude (La Tempesta International,2014) Genere: pop, 80s, dark In pochi non definirebbero Beatrice Antolini una musicista a 360 gradi, e noi di Sentireascoltare non siamo tra quei pochi. La penna di Fabrizio Zampighi la segue fin dai suoi esordi, descrivendola come uno dei fenomeni italiani "in bilico tra indie e mainstream pop di ultima generazione" da tenere maggiormente sott'occhio. L'ultimo full-length, Vivid (Qui base luna, 2013), si era lasciato alle spalle una critica piuttosto indifferente, o almeno non entusiasta come nel caso dei precedenti A Due (Urtovox, 2008) e Bioy (Urtovox, 2010). Ma dopo aver di recente aggiunto al suo CV di tutto rispetto collaborazioni con artisti del calibro di Ben Frost e Lydia Lunch (è stata proprio la signora del no-wave a notarla e a volerla in un suo progetto), la polistrumentista marchigiana dall'animo psych-new wave torna a far parlare di se' con un nuovo EP in uscita per La Tempesta International l'11 novembre 2014. Beatitude è il titolo dell'album, e in copertina c'è la foto di una gallina nera con un uovo dorato, inserita in una cornice dal sapore vintage. L'allusione alla ben nota favola di Esopo, il cui monito finale è "non essere avidi e insaziabili, bisogna accontentarsi di ciò che si possie- 45 n o v e m b r e r e c e n s i o n i Edoardo Bridda stri riescono a combinare con inventiva l'heavy e il cosmico (Returning), la fantascienza con il freak-folk (Detached and in Its Own Mind Riding a Ghost Train Through a Fairground It Had Built Itself ), gli intermezzi drone con la psichedelia ossessiva e circolare della title track. E' un rientro nei ranghi per niente banale, quello di Allen, che a vent'anni dall'esordio sembra aver raggiunto la piena maturità artistica. 7.3/10 Alessia Zinnari n o v e m b r e Benjamin Booker - Benjamin Booker (ATO Records,2014) Genere: cantautori, rock, punk, alt, blues Un volto che sembra uscire da un poster anni sessanta raffigurante i "guerrieri" delle Pantere nere, o magari, allo stesso tempo, da uno di quei rasserenanti telefilm yankee altrettanto "black". Non possiamo sapere se Benjamin Booker sarebbe mai potuto essere tutto ciò, ma di sicuro sappiamo che il rock'n'roll, quello dei suoi nonni, lo conosce molto bene e lo sa trattare, ottenendo ottimi risultati. Venticinque anni, nato a Virginia Beach ma attualmente con base a New Orleans, la nuova meteora del rock a stelle e strisce sta cercando, a colpi di grezze sferragliate rock'n'blues, di spodestare i vari Jack White e Black Keys. In Benjamin Booker, album di debutto prodotto da Andrija Tokic (Alabama Shakes) e pubblicato da Rough Trade, l'artista della Virginia coglie l'essenza della black music e la mette in viaggio facendole attraversare circa quattro decenni, per poi vestirla, una volta giunta a destinazione, con i panni sporchi del punkrock. È il caso di Violent Shiver, Always Waiting e Have You Seen My Son?, in cui la classica struttura blues viene fatta a pezzetti – ma sempre con la giusta riverenza – da chitarre affilate e presa a morsi da una voce rabbiosa e graffiante, molto probabilmente una delle migliori ascoltate negli ultimi anni nel panorama rock. Muddy Waters, Bo Diddley, B. B. King "assistono" a braccia conserte, quasi sgomenti, con il sopracciglio alzato, e incassano i colpi, specialmente quando il venticinquenne decide di tirare il freno e lasciarsi andare a intime ballate (Spoon Out My Eyeballs, I Thought I Heard You Screaming, By The Evening) che ad una ad una smorzano la guerriglia iniziale e ricongiungono vecchia e nuova generazione sotto il grande tetto del blues. 6.7/10 Marco Frattaruolo 46 r e c e n s i o n i de", è facile. Una morale che sembra calzare alla perfezione con l'etica che ha portato alla produzione di questo disco: Beatrice è ormai una donna, ha trovato il suo posto nel mondo e completato il suo processo evolutivo di musicista, raggiungendo la "beatitudine" alla quale il suo nome l'ha destinata; non ha bisogno che di cinque tracce per esprimere il suo universo interiore, servendosi del lirismo e del pop-rock nostalgico che da sempre la contraddistinguono. Le atmosfere di Beatitude sono decisamente più dark e introspettive, se paragonate a quelle scanzonate del disco precedente. La Antolini torna a prendersi sul serio, e lo fa mantenendo un marchio di femminilità che non mira ad accattivarsi tanto la simpatia del pubblico maschile, quanto la complicità delle ascoltatrici donne, strizzando l'occhio alla produzione di pioniere della scena alternativa al femminile quali Lydia Lunch e Siouxie. La traccia di apertura, Spiders are not Insects, ha le tonalità del nero e le sonorità stridenti di matrice gotica che sono il filo conduttore di tutto l'EP. Dromedarium (Beatitude) è un saliscendi di umori indecifrabili che confonde, mescolando synth e chitarre, cantato in inglese e francese, acuti e bassi, ed evocando da un lato le Chicks on Speed e dall'altro le Savages, con quel tocco anni '80 smaccatamente girlie che l'Antolini misura con sapienza. Beatitude è un disco invernale, freddo e caldo allo stesso tempo, che parla con la voce sensuale e ferma di uno spirito creatore ormai maturo che non si presta ad altre definizioni, se non quelle di donna e di artista. E scusate se è poco. 6.9/10 Genere: dance-pop, chillwave Che poi può essere semplicemente che le tre figure dietro il nome Casa del Mirto siano semplicemente un po' instabili. Già perché, dopo due classiconi del pop elettronico nostrano come 1979 e The Nature, prima annunciano uno split, poi lo smentiscono facendo uscire Love Inc., prodotto ibrido e fuori fuoco. Forse sono semplicemente instabili perché, per arrivare al terzo lavoro lungo (senza contare la marea di remix, collaborazioni ed Ep), sono dovuti passare da una gestazione senza precedenti. Durante tutto il 2013, i Casa del Mirto hanno registrato praticamente tre versioni dei brani presenti in Still, senza che nessuna delle tre soddisfacesse i loro gusti. Bene. Non possiamo far altro che leggere in questo un fatto positivo. Ci piace l'insoddisfazione, l'ansia dell'evoluzione, l'artista alla ricerca dell'equilibrio perfetto. Il sound della band trentina doveva trovare nuovi lidi a cui approdare. Il loro lido di catarsi e ancoraggio è, come suggerisce il titolo, Still. Still è un album di ricerca del pulsante giusto, del riverbero adatto, della manipolazione dello standard pop di matrice Eighties in una miriade di derivazioni, compresa quella classicheggiante della forma canzone o della composizione orchestrale e, soprattutto, quella del glo-fi, della chillwave che, nei pressi di Washed Out e Neon Indian, ha segnato un ritorno importante nel panorama musicale internazionale. Still gioca con la musica classica, coi downtempo (mascherando il tutto con IDM), colora di french-touch gli spunti wave in stile Hacienda e, soprattutto, riqualifica e svecchia l'italo disco, contaminandola (meglio dei Daft Punk e un po' come i nostri M+A) di r'n'b, hip hop e sonorità dall'anima soul. Still, infine, ha la faccia di Michael Stipe dei R.E.M., che, come a suggellare il preziosissimo cammino dei Casa del Mirto, ha regalato un suo lavoro visivo alla band, che lo ha utilizzato come copertina del singolo. Lodiamo l'instabilità, dunque, in tutte le sue forme, anche quando rischia di creare immobilismo, come in Paralyzed (come in tutto Still), summa e punto d'unione delle anime del disco: accordi di pianoforte che non preludono a nulla, ma sono immersi nella sporcizia cosmica e sintetica dell'asfissia. Poi parte il singolo Invisible, che dell'instabilità immobile loda il lato dell'invisibilità, ma lo fa puntando su un ritornello dall'orecchiabilità impressionante e, soprattutto, sulla voce di Avalon Omega, artista di Los Angeles le cui doti, immerse nel carillon di synth dell'arrangiamento, ricordano quelle dei Morcheeba, per dirne una. Still, a differenza dei suoi predecessori, gioca quasi tutto sui ritmi eterei, estremamente distesi, sul lavoro di cesello, piuttosto che su quello di scalpello: Reflex, con i suoi richiami in armonia col creato, alla Caribou, ne è l'esempio più caratterizzante. Ma c'è spazio anche per la commistione tra l'eleganza francese degli Air e la compostezza autoritaria dei Depeche Mode in Where You Stand; c'è spazio per la citazione New Order, immersa in un campo di synth ingombranti in Pressure; per l'elogio house in stile Groove Armada di What I See Inside Of Me. In barba a tutto questo fior fior di riferimenti, ci permettiamo di annoverare i brani che rendono più originale il disco: la jazzistica e disarmonica Last Blue Wind, il tappeto squisitamente trip hop di Butterfly, fra Tricky e vaporwave, gli echi indietronica alla Radiohead di A Picture Of, il rumorismo interstellare di 8, con featuring di Aaron Larcher, dj di casa nostra. Still ha la non comune capacità di far coesistere tutti questi elementi sotto lo stesso tetto e di non risultare mai pesante o banale. Con un piglio genuinamente pop, il trio trentino ha sa- 47 n o v e m b r e r e c e n s i o n i Casa Del Mirto - Still (Ghost Records,2014) Genere: pop, psych Ha buon gioco Ariel Marcus Rosemberg a descrivere pom pom come il suo White Album. Dopo anni di sperimentazioni DIY, e tempi più recenti passati a cercare di capitalizzare quanto faticosamente costruito, è arrivato il momento di tirare fuori quel lavoro ambizioso a cui puntava sin dal passaggio alla 4AD. Questa volta c'è stato il tempo e la tranquillità necessaria per affastellare idee e collaboratori, per curare arrangiamenti e stipare curiosità in ogni interstizio di questi rocamboleschi 67 minuti. Ci ha tenuto, insomma, a perfezionare quella performance totale che consiste nel far convivere nel solito brano temi differenti, usando come malta i folli exploit teatrali, i cabaret retrofuturisti e gli elementi recuperati da ogni angolo della cultura pop. Alla fine ne è uscito un opus magnum di 17 pezzi, ognuno dei quali fornirebbe ad un qualsiasi artista materiale per altrettanti album. Attenzione quando sentirete parlare di superproduzione: il sound di Ariel Pink pare sempre uscire dalla radio del vicino di casa, ma il guizzare anarchico da una stazione all'altra è stato sostituito da un modo più maturo (verrebbe da dire "progressivo") di organizzare le canzoni in movimenti. Ad uscirne più vividi che mai, sono i riferimenti ai capisaldi del weird pop, a partire da Exile On Frog Street, la cui grottesca teatralità lascia intravedere lo zampino del guru Kim Fowley, fino al groove zappiano che apre Sexual Athletics (prima che il brano prenda derive doo wop psichedeliche). Se in quasi vent'anni di attività, Rosemberg ha maturato uno stile personale in cui synth pop e rock dei 70s (seppur geneticamente modificati) hanno la loro rilevanza, pom pom amplia ulteriormente lo spettro stilistico con frammenti come Dazed Inn Daydream (in cui i Mamas and Papas si trasformano in una comune soul post punk) e Dinosaur Carebears (pura novelty song, con un intermezzo da marchin' band cibernetica, in cui lo spirito surreale dell'artista si spinge a nuove vette di demenza). Non v'è dubbio che siamo di fronte ad un manifesto, un vero e proprio testamento artistico. Il punto, semmai, è se tutto questo di traduce in un vero capolavoro. Di certo, per la prima volta l'artista non si limita a fornire hyperlink a generi e stili. Dalla complessa stratificazione emergono tracce di una poetica coerente. Emerge, soprattutto, un Pink desolato ed arrabbiato, romantico e polemico. Il problema, in prospettiva, è che oltre non si può andare. Difficile pensare di proseguire su questo tipo di scrittura (magari annacquandola o ripulendola) senza ricadere nella parodia. Per il prossimo album il californiano dovrà inventarsi qualcosa di nuovo. Intanto pom pom è qui e ora e non poteva esservi migliore enciclopedia comprendere il pop d'inizio millennio. 7.5/10 Diego Ballani 48 r e c e n s i o n i n o v e m b r e Ariel Pink - pom pom (4AD,2014) puto equilibrare referenze culturali di livello e un gusto musicale che lo livella (ma non sarebbe necessario sottolinearlo) agli artisti internazionali del genere. Tanto di cappello. 7.1/10 Nino Ciglio Genere: rnb, elettronica A due anni di distanza dal più che buono Playin Me, dove Cooly G ci proponeva la sua versione introspettiva e sensuale di Uk funky, house e soul, la fiera female producer del giro Hyperdub – ed elettronico inglese tout court – torna con Wait Til' Night dove già videoclip e titoli in tracklist lasciano ben poco spazio alle ambiguità. Merrissa Campbell, che ha anche compilato per Fact una lista di all-time favourite sex jams (giusto per fugare ogni dubbio rimasto), parla di sesso con la S maiuscola e lo fa cambiando pelle, attingendo sia da un ambito r'n'b americano (vedi Blood Orange, Kindness, Tinashe), sia da un altrettanto riscoperto dark synthpop, oltre che dal solito setting di influenze britanniche, dagli smalti balearici ai bassi del soundsystem. Ne esce l'ennesimo disco compatto e centrato, sia a livello di produzione (dove sono chiari i riferimenti e molteplici gli spunti), sia a livello di ispirazione (Merissa gioca con scafata destrezza tra desiderio e assenza), con un messaggio che arriva rotondo e sinuoso avvolto da una confezione di ruvidezze sintetiche e timbriche urbane, due facce di una medaglia che si compentrano senza sforzi né ingenuità. Il singolo che dà nome al disco inietta bedroom pop sexyness in un giro di synth in punta d'electro e drum machine plugginate e compresse; il resto del disco, facile a dirsi difficile a farsi, esplora altre angolazioni possibili di quello scorcio: felpata funkyness in Your Sex, pop più strutturato Edoardo Bridda Cumino - Pockets (Autoprodotto,2014) Genere: ambient, elettronica E' un paesaggio fatto a stanze, l'ultima fatica dei Cumino. Giunto a due anni di distanza dall'album d'esordio e preceduto dalla pubblicazione di due EP, Pockets è un uno di quei lavori di rarefatta sensibilità e accuratezza stilistica sempre più rari. Luoghi, ciascuno diverso, con anfratti inattesi, contenenti un caleidoscopio disincantato di suoni, sensazioni, umori e sfumature di grigio. Nove tracce che espandono l'universo ambient/synth-pop che aveva caratterizzato il duo in Tomorrow In The Battle Think Of Me e che consegnano una prospettiva meno derivativa e più consapevole. E' in brani come Two Spheres che il mondo di Luca Vicenzi ed Hellzapop sterza verso rotte meno prevedibili, affacciandosi a declinazioni elettro-dance, ammiccando a fascinazioni art-rock e sbattendo le palpebre tanto ai The XX quanto al Brian Eno meno minimale. Sono diverse le intuizioni che i due fondono in questo disco, dalle delicate sonorità in pixel in stile Disasterpeace di Fixing Fragments a quella leggerezza entropica – cara a Jon Hopkins – di Snails. Nove stanze, ognuna delle quali prova ad esplorare e aggiungere qualche elemento in più a questo esperimento sonoro 49 n o v e m b r e r e c e n s i o n i Cooly G - Wait 'Til Night (Hyperdub Records,2014) e americano in I Like o più scuro e cangiante in Dancing (con riff alla chitarra elettrica) o più orchestrato in Want. Con Wait Til' Night, Cooly G confeziona un album attualissimo ma anche molto personale. Fuck With You e 3 Of Us rispondono a una delicata anthemica e a una fruizione pop, il resto gioca su profumi e mood specifici. Una polpa soul, un gioco di eros e tanatos, una risposta brit alle sirene dell'r'n'b americano. 7.2/10 Genere: electro, techno, elettronica Tradizioni idm e post-rave, luminose aperture folktronica. Strumenti analogici, sintetizzatori modulari, improvvisazioni noise e glitch digitali. Non è facile inquadrare univocamente la musica di Clark. Lui ci ha provato, una volta, riassumendola come combinazione della precisione tedesca e dell'audacità inglese. Perchè se da una parte l'intezione è sempre di più quella di liberare i ritmi dalle quantizzazioni robotiche, di lasciarsi guidare dall'imprevedibilità delle macchine, dall'altra rimane l'ammirazione per la "structural culture" tipicamente teutonica, per quel modo di fare razionale e senza sbavature da infaticabile metronomo umano, caratteristico tanto della kosmischemusik quanto dei successivi minimalismi Basic Channel. Con le sue architetture dancefloor, le sue distese ambient, le meccanizzazioni 8-bit e gli innesti acustici, il punto di vista di Clark (album onomimo) richiama cartoline da un passato prossimo – acceni psych-folk da Iradelphic, ricognizioni lo-fi da Totems Flare – ma allo stesso tempo sposta l'orizzonte sonoro verso una techno glaciale, limpida, eterea. Si rilegge l'epopea idm britannica (battendo sentieri familiari, vengono citati Two Lone Swordsmen, Orbital, Boards Of Canada), ma l'inglese di St. Albans gioca anche a nascondersi dietro certe piste à la Jeff Mills (Unfurla, Sodium Trimmers), oppure a sfoderare numeri electro sporcati e distorti, pronipoti dei sogni lucidi firmati Juan Atkins (Banjo). La faccia cosmico-atmosferica del lavoro trova il suo climax nella conclusiva Everlane, Snowbird rallenta i bpm per un dub profondo di vibrafoni e cori celesti, There's A Distance In You libera uno shoegazing elettronico in cassa dritta che si chiude tra gli umori nostalgici di sintetizzatore. Facendo tesoro dei modelli hardcore continuum, buttando l'occhio a Detroit e di riflesso alle geometrie kraut, abbiamo tra le mani un disco denso e abilmente costruito. Volendo provocare un ideale scontro tra pesi massimi, Warp tira in ballo le ultime fatiche di Richie Hawtin e descrive questo album con quattro parole: "more Berghain than Guggenheim". Come a dire, mettici pure le tue pseudo-meditazioni da gran galà, noi ci mettiamo vero scientismo sonoro. Primo round agli squilibrati di Sheffield. 7.5/10 Elia Galli che affascina e seduce. La durata ridotta (appena 29' minuti) e la poca fermentazione di tante idee frenano il giudizio complessivo su un album che lascia ottime impressioni e la voglia di averne e saperne di più. 6.7/10 Gianluca Lambiase 50 Dan'l Boone - Dan'l Boone (Drag City,2014) Genere: collage_cutup, experimental Il concetto di supergruppo è stato oggigiorno ripensato (se non proprio abusato), al punto da sembrare ormai una pruderie individuale legata alla circolazione del nome (la cosiddetta "visibilità"), più che una vera e propria necessità artistica. Non è il caso del presente Dan'l r e c e n s i o n i n o v e m b r e Clark - Clark (Warp Records,2014) Stefano Pifferi r e c e n s i o n i Davide Matrisciano - Il profumo dei fiori secchi (Prehistorik Sounds,2014) Genere: pop, cantautori, ambient, electro Matrisciano, classe '85, ha esordito due anni fa con Traffico di pulsazioni, buon disco di musica elettronica/ambient di quelli che ti aspetteresti da uno sperimentatore destinato – se va bene – ad un seguito piuttosto ristretto, o di culto se preferite. Con questo Il profumo dei fiori secchi però cambiano del tutto gli scenari e forse le prospettive. Siamo infatti dalle parti di un pop evoluto, capace di accogliere istanze diversamente cantautorali ed azzardi elettrosintetici. Soprattutto, sembra che tutto si consumi sull'altare di una devozione assoluta per Franco Battiato, per quell'approccio avanguardistico, espanso, irrituale eppure canonico alla materia pop, frutto dell'idea che una canzone nel suo essere siparietto lieve possa condurti in una diversa (più alta?) dimensione spirituale. Da cui la cura profonda e l'energia profuse per la definizione di scenari sonori che possano rappresentare questa "possibilità di balzo". Sia chiaro però che, malgrado a tratti la somiglianza sia sconcertante (al netto del timbro vocale, una specie di semifalsetto ipnotico), non si tratta di un'operazione à la Audio2 (gli imitatori del Battisti più orecchiabile che spopolarono durante i 90s). Anche perché si fa presto a dire Battiato. In realtà il repertorio del catanese è un'enciclopedia di spunti e modi, tra i quali Matrisciano si muove come un alchimista estatico: c'è quello ancora ruvido di postpunk altezza Patriots (Soli tra i fiori) e quello dei languori cantautorali di Fleurs (Armonia irreversibile), quello del pathos incalzante tra archi ed elettricità di Café de la Paix (Prato al terzo piano) e quello del misticismo nostalgico periodo Fisiognomica (Legni bruciati). Non mancano contagi da altri mondi, come il Battisti panelliano di Corrente elettrica e papaveri, 51 n o v e m b r e Boone, esordio della omonima sigla dietro cui si cela la apparentemente eterogenea e sicuramente pericolosa accozzaglia di noisers, fattoni, terroristi sonori e quant'altro formata da Alex Moskos (Aids Wolf, Drainolith), Nate Young (Wolf Eyes), Charles Ballas (Howling Hex, Formant) e quel Neil Hagerty di RoyalTruxiana memoria. Nata da una idea del primo, pronto a dare un seguito al suo album d'esordio col progetto in solo Drainolith – decostruzioni al minimo dei giri di una materia grossomodo rock – la formazione a quattro è una sorta di estensione delle session di registrazione del disco di Moskos deflagrata verso lidi di disfacimento noise, in cui le diverse esperienze dei singoli confluiscono e collidono in una materia che è ora ambient (malefica), ora avant-noise (destrutturato), ora psichedelia in abuso di stupefacenti, ora elettronica sfatta e sfiancante, ora rimasugli rock buttati in una discarica in cui tutto ciò che c'è di più repulsivo in ambito rock trova il giusto posto. Dopotutto, come indica la label, "Twin Infinitives as a style of music, Dan'l Boone as an acolyte" parrebbe essere il motto del neo-quartetto, rimandando per le coordinate sonore dell'album al capolavoro del fu duo Royal Trux: stessa malattia di fondo, stessa foga destrutturalista, stesse dinamiche di oblungazione e travisamento di ogni momento larvatamente rock, per un lavoro di sicuro poco accessibile – ascoltate la psichedelia "docile" e drogata di Mindface per farvi una idea dello spappolamento del suono dei quattro – ma di indubbio valore per chi si interessi di slanci in avanti. 7.2/10 Genere: industrial, noise, techno Tutto ciò che proviene da un personaggio come William Bennett (brutale e controverso agitatore noise con i Whitehouse, ma anche oscuro cultore della italo disco come DJ Benetti; esperto in programmazione neurolinguistica, ma anche collaboratore nel 1981 di Steven "Nurse With Wound" Stapleton per un album ispirato al marchese De Sade) è destinato a passare attraverso il fuoco di fila delle polemiche e dei dubbi di politically incorrectness. Anche dietro il suo interesse verso le percussioni poliritmiche della tradizione africana e voudon haitiana c'è stato chi ha visto l'ombra dello sfruttamento neocolonialista e dell'appropriazione indebita. Se ci si libera da preconcetti e banalizzazioni sociologiche è possibile invece apprezzare in pieno la progressione del progetto Cut Hands e dell'estetica "afro noise", che in Festival Of The Dead vede la più riuscita stilizzazione, bypassando il rischio di intellettualismo dei primi approcci. Frutto di una personale attrazione che da subito si dimostra lontana dal più bieco e scontato terzomondismo (fin dalla pseudo-compilation industrial noise Extreme Music From Africa, pubblicata nel 1997, dove il coinvolgimento di Bennett è andato certamente ben al di là del ruolo ufficiale di "coordinatore"), la proposta Cut Hands trae ispirazione dal mondo percussivo patrimonio di Ghana, Congo e Haiti, attraverso secche percussioni elettroniche volutamente innaturali nella loro metronomica precisione, programmate in avviluppamenti poliritmici dall'effetto ipnotico e straniante, spesso appoggiate su un ruvido tappeto rumorista. Festival Of The The Dead parte subito tirando fuori artigli e artiglieria: The Claw riempie tutte le frequenze di percussioni e cembali in una potente sarabanda postmodernista. La trance ipnotica prosegue con i complicati pattern ritmici di Damballah 58, della traccia omonima, intrisa di afrori voodoo, o di None Of Your Bones Are Broken, che porta i bpm a 160. Nei momenti meno movimentati (Parataxic Distortion, Belladonna Theme, Inlightenment) si prende respiro ma la tensione emotiva rimane palpabile. Rispetto ad Afro Noise I, prima uscita del 2011 (che includeva tracce presenti già negli ultimi lavori firmati Whitehouse, dal 2003 in poi) e poi ancora in Black Mamba (2012), in questo nuovo album, pubblicato dalla lungimirante Blackest Ever Black, la voglia di mirare direttamente ai corpi è ancora più immediata, per un risultato che può trovare diretto sfogo nei dancefloor più estremi. Non a caso il 12" del luglio 2013 da cui è tratto uno dei quattro brani già editi dell'album (Madwoman, vertice acuto del Festival) era stato pubblicato dalla Downwards: con Regis, Surgeon e il mondo dell'industrial techno questo disco ha molto a che vedere. Suggerimento per deejay gourmet industrial techno: mixare Vaudou Take Me High con Butchwax di Tessela. Risultato fuori di testa garantito. 7.5/10 Alessandro Pogliani 52 r e c e n s i o n i n o v e m b r e Cut Hands - Festival Of The Dead (Blackest Ever Black,2014) la sovrapposizione di nuances esotiche, pennellate jazzy e sussulti funky in Ho camminato su un aquilone, oppure la contemplazione postpsych di stampo Grandaddy dell'iniziale Al di là degli ombrelli. Quello che può sembrare un discorso autoreferenziale finisce insomma per rivelare qualità e implicazioni insospettabili, soprattutto mette in mostra una buonissima padronanza della materia. Se quello che abbiamo ascoltato fino ad oggi di Matrisciano è soltanto il rumore dei motori che si riscaldano, quando innescherà una marcia più personale potrebbe avviarsi su strade molto interessanti. 6.8/10 Death Of Abel - A Cruel Streak (Trips und Träume,2014) Genere: dark, folk Death of Abel è un progetto apocalyptic folk tedesco formato da Luca Gillian (già cantante dei Die Selektion sotto l'alias Luca Morte), coadiuvato dal vivo da Alexander Gallagher e Matthias Völkel. Il 13 ottobre 2014 è uscito il primo 12″ del progetto, A Cruel Streak, per la romana Trips und Träume. Il disco contiene tre pezzi di un EP omonimo (originariamente uscito su cassetta per la label berlinese [aufnahme + wiedergabe]), un brano, Westwerke, già apparso nella compilation Transform | Transport | Transcend ([aufnahme + wiedergabe]), più due brani inediti: Der Weg e Schattenmal. Dopo diversi concerti in giro per l'Europa, suonando in interessanti manifestazioni come la dolomitica Tera Salvaria e di spalla ad artisti come King Dude e Rome, Gillian, musicista tedesco di origini italiane, realizza il suo esordio su vinile come Death of Abel. Si tratta di un buon lavoro, che si muove su un terreno già abbondantemente arato dai Death In June, Marco De Baptistis Eaves - As Old as the Grave (Pias,2014) Genere: cantautori Tre brani tre a definire un sound e un sentire, che a poco più di vent'anni diventa l'universo 53 n o v e m b r e r e c e n s i o n i Stefano Solventi gruppo capostipite del genere. Non per nulla, i DIJ erano già stati omaggiati dai Death of Abel in una compilation/tributo, uscita sempre per [aufnahme + wiedergabe]. La cassetta, intitolata When We Have Each Other We Have Everything – A Tribute To Death In June, si apriva con un'ottima cover di Runes And Men, sicuramente un buon biglietto da visita che metteva subito in chiaro l'immaginario "apocalittico" evocato dai Death of Abel. Anche in questo lavoro viene fuori molto bene una certa nostalgia per un'Europa ormai scomparsa, soprattutto nel brano Die Hand, cantato con piglio romantico e teutonico. Influenze di scuola neofolk tedesca, stile Forseti, Darkwood, Sonne Hagal, etc, sono facilmente riconoscibili ed emergono soprattutto in brani come Blüte Des Lebens e Schattenmal. Non mancano momenti più lenti e intimisti come l'evocativo monologo tra le rovine, Der Weg, ma il miglior episodio del disco è Der Eiserne Tod, in cui il contrasto tra una voce femminile e il cantato prima urlato e poi sussurrato di Gillian (memore di quanto fatto già con i Die Selektion) si sposa bene con la chitarra acustica "neofolk" accompagnata da una malinconica tromba che appare verso metà del brano. Un disco che, pur inserendosi in un genere abbondantemente inflazionato, riesce a ritagliarsi il suo spazio, facendo intuire le potenzialità di un progetto ancora agli esordi ma con già una sua personalità ed una sua estetica in fieri. Scelta pienamente condivisibile quella di cantare in tedesco, lingua che dona un particolare fascino mitteleuropeo al lavoro. 7/10 Marco Boscolo Foxygen - Foxygen …And Star Power (Jagjaguwar,2014) Genere: glam Di fronte ad album così complessi, siamo felici che, nonostante il nonsense, la band ci sia venuta in soccorso con una chiave di lettura: … And Star Power «inizia come un classico album dei Foxygen, a cui poi gradualmente si sostituisce una band chiamata Star Power. Vengono dallo spazio. Forse. Non lo so. È un concetto vago». Così viene dunque presentato il terzo album in studio dei Foxygen, band californiana che è passata ai clamori della cronaca per un disco, We Are The 21st Century Ambassadors Of Peace And Magic, che ha spiazzato la critica per il suo essere pesantemente catchy e contemporaneamente schizzato di un art-pop 54 n o v e m b r e lisergico; ma soprattutto per una condotta che, fra cancellazione di tour, autolesionismi vari (il leader Rado è solito sbattersi il microfono in testa e lanciarsi sull'attrezzatura da palco) e dichiarazioni e comportamenti ambigui, li ha definitivamente riallineati con i loro leader e padri spirituali psych-rock o glam-rock anni Settanta. Dietro gli intenti di …And Star Power, infatti, si cela la solita sfilza di nomi spendibili appartenenti a l'age d'or del rock and roll: Bowie, The Rolling Stones, New York Dolls, Fleetwood Mac, Brian Jonestown Massacre, ma anche, con un po' più di modestia e dovizia filologica, Of Montreal, Flaming Lips, White Fence e Bleached, con i quali, anzi, i Foxygen collaborano nel disco, oltre a creare un piccolo movimento new-glam. Ma non è solo negli intenti referenziali che il terzo album della band di LA si allinea con il gusto passatista, vagamente lo-fi e graffiato sul 33 giri, degli anni andati, ma anche perché …And Star Power è una sorta di opera rock, divisa in quattro parti (e due dischi) metodicamente intitolate secondo l'atmosfera che regna nei brani che le compongono. Diciamo subito che il primo disco (le prime due parti) è la culla del sound Foxygen come avevamo imparato a conoscerlo. La prima parte, intitolata The Hits and Star Power Suite, è appunto la raccolta dei cinque migliori (o più accattivanti) brani del disco, seguiti dalle quattro parti di Star Power, un piccolo concept nel concept. Coulda Been My Love è un classic r'n'b in vago stile Burt Bacharach, con tanto di cori e contro cori che, in quanto a varietà, richiamano il secondo degli MGMT; How Can You Really, in pieno stile Dylan o Crosby Stills and Nash, se volete, con gli accordi di piano suonati percussivamente, è un gran singolo di traino; Star Power III: What Are We Good For è, invece, il fulcro glam del disco, di quel glam r e c e n s i o n i di cui scrivere e cantare. Così, più o meno, questo As Old As The Grave, esordio di Eaves sul formato breve che fin dal titolo mette in chiaro che questa è una questione di vita vissuta, di rabbie consumate per davvero, dolori concreti come i cocci della bottiglia. Fin dal dramma iniziale della titletrack, ritroviamo tutta la ferocia delicata di cui è capace la suburbia inglese (in questo caso di Leeds), dove l'alcol distrugge più di quanto faccia dimenticare i drammi di madre e padre. Il resto del programma, il lato B, se propendete per il 7 pollici, è un'accoppiata di brani schietti e rapidi, dal tocco folk per lo storytelling che vi si annida. Timber è giocata sul tono nostalgico del pianoforte (che si dimostra domato quanto la chitarra), Alone In My Mind è il fingerpicking tutto il contrario dell'apatia che si condanna nel testo. Nel complesso, un esordio che fa venire voglia di saperne di più e di correre il rischio di fermarsi ancora per un giro al bancone. 7/10 r e c e n s i o n i aspettarsi. 6.8/10 Nino Ciglio Glass Ghost - Lyfe (Western Vinyl,2014) Genere: pop, indie Che i due titolari del progetto – nato in quel tessuto brooklynese dove pare che tu non possa praticamente uscire di casa senza incrociare il passo con qualche musicista di fama internazionale – Mike Johnson e Eliot Krimsky sapessero costruire orchestrazioni pop di qualità, era noto fin dall'esordio del 2009, Idol Dolmen. Ad aumentare l'interesse per le loro scorrazzate in studio – dove i due eccellono nello sfruttarne tutte le potenzialità – si sono messi i fan DOC come Sharon Van Etten, che ha dichiarato come Krimsky sia uno dei suoi autori preferiti: "la sua mano sinistra è l'hip hop, la sua destra il jazz e i suoi testi sono beat". La rockeuse coglie in pieno il melting pot musical-culturale in cui Krimsky e Johnson affondano le mani e che mettono in forma di canzoni con l'aiuto di ospiti di peso come Brian Betancourt (Hospitality), Joan Wasser (Joan As Police Woman), Nat Baldwin (Dirty Projectors) e Jane Hership (TEEN). Lyfe è un caleidoscopio multicolore che non ha un vero centro, se non forse il falsetto Krimsky, che può anche essere considerato il maggior limite del sound della band (ma è questione di gusti). C'è la torch song (Triangle), quella natalizia (Home for the Holydays), la versione 2.0 del crooning (Walls), la cavalcata adrenalinica in sincope (Sound of Money), la big band jazz (Hearing The Sound). C'è anche qualche eccesso, come il trattamento vocale di Wait A Second e una certa prolissità che non giova del tutto all'insieme (nella versione digitale del disco ci sono anche due bonus track, di cui non si sentiva il bisogno). 55 n o v e m b r e filtrato Lou Reed con così tanta dovizia di particolari che quasi impressiona. The Paranoid Side è, come recita il titolo, la sezione dedicata al malinconico psych schizzato, che rilegge in un songrwriting più creativo e colorato un misto fra i Suicide o gli Hüsker Dü (666) e le ultime esperienze di casa Temples (Mattress Warhouse). E nelle fake-ballads come Cannibal Holocaust o Flowers emerge un songwriting maturo ed equilibrato, non più fine al semplice ri-arrangiamento del classico, ma attento alle derivazioni più attuali e, soprattutto, a lasciare il giusto spazio alla composizione armonica e strumentale. Poi parte il secondo disco, con la sezione denominata Scream: A Journey Through Hell e, come da titolo, il gioco si fa duro. Cold Winter/ Freedom è un muro rumoristico di minuti 6 e secondi 14 che sembra essere un giocattolo rotto, in rotta di collisione con gli inferi; Brooklyn Police Station in superficie sembra mantenere l'approccio melodico alla The Who dei primordi, ma sotto la patina giocherellona e spensierata, nasconde un disordine di fondo, che è lo stesso di Freedom II e di tutta la sezione Hang On To Love e che è, allo stesso tempo, il miglior pregio e il peggior difetto di …And Star Power. I Foxygen, così disarmonici e allo stesso tempo così particolareggiati, sembrano essere caduti nello stesso difetto che rese We Are The 21st Century Ambassadors un disco incompleto: sono sempre al limite del karaoke classic rock, della citazione fine a se stessa, anche laddove c'è più creatività e intraprendenza. Questo, ad ogni modo, non può bastare a definire …And Star Power un disco non riuscito. Certo, la sua incompletezza è, come spesso accade quando si parla di Foxygen, il valore aggiunto, e l'insieme delle parti, alla fine dei conti, non può che premiare l'esperimento, in attesa di qualcosa dai contorni più definiti e identitari che è lecito Genere: rock Un collage in copertina firmato Maria Antonietta che ben veicola i contenuti del disco: i Dadamatto non sono più quelli monocromatici, postpunk e spigolosi de Il derubato che sorride, ma una band che riesce a suonare pop, deviante, multisfaccettata, raffinata e personale al tempo stesso. C'è qualcosa di imprendibile nella logica con cui il trio costituito da Marco Imparato, Andrea Vescovi e Michele Grossi costruisce le canzoni, ed è quel qualcosa a rendere la musica, dopo quattro dischi pubblicati, ancora degna d'essere ascoltata. Rococò, nello specifico, gioca sui colori del suono, sull'impasto, sommando le tipiche "irregolarità" ritmiche della band a una scrittura che in certi frangenti (pensiamo ad esempio a A due passi dal mare) sfiora un cantautorato rock corale e in altri (i pieni garantiti dai synth, da quello che ci pare un theremin e dagli arrangiamenti "liquidi" della bellissima Marina, sorta di psichedelia complessa e morbida con accenni quasi progressive) sorprende senza mezzi termini. Quasi che seguire il filo dei pensieri della band fosse come guardare (ascoltare) una litografia di Escher, con scale (di suoni) intrecciate in ogni dove, ad esempio nel valzer sbriciolato e ricomposto della esplosiva e quasi ofmontrealiana Pluridimensionalità. Il resto è una Orte che traccia un ponte con certi universi dei King Crimson, una America descrittiva più che evocativa che prende in prestito la voce di Emidio Clementi dei Massimo Volume, una Arrivederci a metà strada tra acidi, prog e canzone, parentesi acustiche stranianti come I cinque dell'Ave Maria, lo spoken word surreale virato pop di Insieme. Come tutto questo possa poi stare insieme – con tanto di testi che decontestualizzano ancora di più la materia musicale, con il loro parlare del "quotidiano" in modo piuttosto surreale – è davvero un mistero, una sfida al pensiero laterale che insegna come la musica possa essere un gioco, un'idea senza freni, prima che una faccenda di dischi, tour, promozione e quant'altro. Bravi, Dadamatto. 7.2/10 Fabrizio Zampighi Nel complesso, più un'insieme di canzoni, come capitava ai tempi di Frank Sinatra, che un vero album. La classe c'è, bisognerebbe forse affidarla a una produzione esterna per metterla definitivamente a fuoco. 6.9/10 Marco Boscolo 56 Godflesh - A World Lit Only By Fire (Avalanche,2014) Genere: industrial, metal Col ritorno dei Godflesh (e quello prossimo dei Faith No More) è certificato che all'appello delle reunion mancano soltanto gruppi i cui componenti sono morti e/o spariti nel nulla. Justin Broadrick e G.C. Green sono piuttosto vivi stando a ciò che ascoltammo nell'EP r e c e n s i o n i n o v e m b r e Dadamatto - Rococò (La Tempesta Dischi,2014) r e c e n s i o n i noro e vanificato da una produzione eccessivamente "pulita" e "aperta", così come a mancare è un'illuminazione – apparente controsenso in un lavoro che fa della cupezza la sua pietra angolare – che non faccia scattare il cliché trito e ritrito dell'effetto nostalgia, arroccando il die-hard fan su posizioni da guelfi o ghibellini. Fatto non totalmente imputabile al duo Broadrick-Green, tornato a cantare la disgregazione della contemporaneità oggi come allora, quanto alle aspettative di chi ascolta e al peso specifico del passato della band, oltre che all'oceano di rumore passatoci nelle orecchie durante la sua assenza. Della serie, ad averne gruppi che suonino monolitici e crudeli come i Godflesh 2014 ma anche, rovesciando la medaglia, quel senso di amaro in bocca che proviene dalla consapevolezza del pressante senso di dejà vu, di minimo sindacale, di "passaggio alla cassa", che ci fa rimanere sospesi col giudizio. 6.5/10 Stefano Pifferi Grace Mitchell - Design EP (Republic Records,2014) Genere: pop Piccole Lorde crescono… di numero. Corsi e ricorsi storici insegnano che quando un prodotto funziona, nel giro di qualche mese iniziano a spuntare come funghi prodotti similari, nella maggioranza dei casi qualitativamente inferiori e lanciati principalmente per sfruttare l'onda lunga del successo: quello della cantante neozelandese è stato uno dei più grandi casi mediatici degli ultimi dodici mesi – anche se la sua esplosione su larga scala era prevedibile già dall'EP The Love Club, vedi recensione – ed infatti non sono mancati tentativi di replica, tra i quali citiamo quello, fino ad oggi fallimentare, targato BROODS. Tra i nomi post-Lorde che con maggiore probabilità potrebbero uscire allo scoperto nei 57 n o v e m b r e Decline and Fall di qualche mese addietro e, nonostante le dichiarazioni all'indomani della reunion (Hellfest, a.d. 2010) sull'impossibilità di prevedere il futuro targato Godflesh, ecco ora il nuovo materiale. Più di 10 anni dopo il tronfio commiato targato Hymns, dopo i progetti di Broadrick (spesso) in solitaria – Final, JK Flesh, Greymachine, Pale Sketcher e soprattutto Jesu – e la sparizione dalle scene del sodale Green (ritiratosi, nel frattempo, a vita privata), il marchio Godflesh ritorna tentando di annullare lo iato decennale e, soprattutto, l'avvenuto cambiamento delle dinamiche musicali e di contesto. Non che la musica dei due sia cambiata molto: sempre marziale e a battito lento, scandita dalla batteria elettronica e dal programming, con le corde dei due, distorte e futuristiche, a incrociarsi su passaggi doomy, ossessivi e sofferenti in cui le lentezze di certe musiche chitarristiche estreme si fondono con le pachidermie stranianti dell'industrial più vicino al rock. E proprio a quelle lande toccate nella prima parte della carriera a nome Godflesh, a quelle vette di rumore innovativo, fusione di estremi e lucida analisi del contemporaneo che furono Streetcleaner e Pure, rimanda questo A World Lit Only By Fire, non a caso definito da più parti come una sorta di "lost album". Ad animare, musicalmente e ideologicamente i due, è infatti sempre l'indagine sulla "new dark age", non a caso anche titolo dell'opener e "primo estratto" dell'intero lavoro: nichilismo sonoro in dosi industriali, disillusione e consapevolezza della caducità dell'esistenza, totale assenza di speranza quasi d'origine meccanicistico-materialista, distribuite in nove tracce dal peso specifico al solito elevato per ciò che concerne ossessività e reiterazione, oltre che per la grana del suono prodotto dai due. A mancare è ovviamente l'effetto sorpresa, derivante da una rigida osservanza al verbo so- Genere: cantautori, rock Stefano "Edda" Rampoldi è sui binari giusti. Stavolta come mi ammazzerai? è il suo ultimo lavoro per Niegazowana. Segue Odio i vivi, album arrivato finalista al Tenco 2012. A differenza dei precedenti lavori, la line up di supporto è ridotta all'osso, da rombo rock. Edda è e sarà sempre un artista in gabbia, aduso a descrivere psicopatologie comportamentali da un punto di vista-metropoli fatto di schegge impazzite e micragnose, linee senza raccordo. Come dargli torto altrimenti? Chiuso in uno studio aretino, Stefano ha saldato nervi e liberato solitudine, ed ecco la vita orribile che su questo piano seguita in un buio senza pari, tra tradizione e spinte esterne. Autorale certo, ma sbreccato, che si fa forte del medium vocale, che si incrocia, così pieno ed iperrealista, una volta ogni dieci anni. Esemplare la crudezza di un brano come Bellissima o la melodia di Saibene, dove l'anima sembra crisalide in un bicchiere di vetro rivolto. Eppure c'è dell'amore negli angoli dove tutti serrerebbero gli occhi, un amore temuto che Edda canta per registri angelici e bassifondi dionisiaci (Tu e le rose, Sei una puttana da 1 euro, Piccole isole, Ragazza meridionale, Ragazza porno). Preme sottolineare che è proprio in questo scarto che le parole si defilano, diventano un lembo riposto a sostegno della speranza. Ritorna il poggiapiedi malconcio della religione certo, e si fa più monumentale il cordone famigliare che riprende placenta fin dalla copertina (Pater, Coniglio rosa, Mater). Ci sono poi lacerazioni nella poetica di Edda, che sono talvolta abbacinanti, furore che è accensione invernale, come un vecchio motore a scoppio da utilitaria. Solo che quando parte è devastante, disarmonico, un motore che frigna, che si dimena, che graffia, come un sevizio non artistico, non filtrato. E non è un semplice Battisti che si canticchia, come era stato in passato, fra le rime opalescenti. Quando tutto rimaneva spento, era spesso una sinfonia che raddolciva nelle ore di riporto dai fardelli; qui è il suo rock maledettamente made in Italy (Mademoiselle), imperniato su frasi laconiche, la cima a cui aggrapparsi. Il treno non più vegetativo su cui trascorrere l'eternità ferroviaria contiene tanti di quegli Edda che si fa fatica ad ordinarli in fila indiana. Però, anche se presi alla rinfusa, piacciono tutti, uno ad uno. 7.3/10 Christian Panzano prossimi mesi troviamo senza dubbio Grace Mitchell, sedicenne di Portland che in questi giorni pubblica il suo EP d'esordio, Design, dopo aver contribuito alla colonna sonora del film The Secret Life of Walter Mitty con la cover di Maneater (Hall and Oates). Una predestinata in mano alle major (esce per Universal/ Republic)? Forse, fatto sta che nel momento 58 in cui scriviamo il contatore della sua pagina Facebook conta appena 1.370 fan, segno che il motore della macchina markettara deve ancora mettersi in moto. Sulla copertina dell'EP la Nostra appare come un incrocio tra Tori Amos e Molly Ringwald e ciò non sorprende, dato che si dichiara grande appassionata dell'alt-pop al femminile anni '90 r e c e n s i o n i n o v e m b r e Edda - Stavolta come mi ammazzerai? (Niegazowana,2014) Riccardo Zagaglia r e c e n s i o n i Guano Padano - Americana (Ipecac Recordings,2014) Genere: rock, folk, jazz Il set si apre con un universo silente da impulso primordiale (The Hushed Universe), un segreto per pochi, e ci si aggiusta alla tavola dei convitati. Una tavola rotonda dove i cavalieri sono barfly ante-litteram che interpretano la parte di Galeazzo, Lancillotto e Bedivere (Pian della tortilla). Siamo in California, è depressione carsica, e mentre a Wall Street cadono gli equilibristi dai grattacieli, a Los Angeles un ragazzotto di nome John Fante ascolta una malaguena a Bunker Hill strimpellata da immigrati provenienti da Gibilterra (El Toro). Sprofondare è la seconda delle fatiche: sentirsi il mondo addosso nel suo punto più basso, quello delle vecchie acque cattive nella Death Valley (White Giant). Entrare è la terza: nuovamente in un viaggio drogato fra le pieghe del passato dove l'America era il vasodilatatore della migrazione mondiale, il suo rene sinistro conciato per la feste da Abramo Lincoln e i 500 Navajo di Manuelito a vivere nelle tane come cani da prateria dopo l'assalto al cielo sferrato alla prima invasione di coloni lungo Fort Defiance (My Town, Station). Infine passare la soglia dello stargate che su minute viscere traghetta nei gangli che misurarono secessione, spirale razziale e perchè no la piana padana, una delle tante perlomeno (Cacti). Un altro stargate è tutto dentro a Black Boy, che da Sister Rosetta s'avvita e frana nelle mani di Taj Mahal, ha il collo taurino di una generazione di schiavi. È chiaro come certe fascinazioni abbiano il crugno di sferrare uppercut detonanti, ascoltando Americana dei Guano Padano. Il trio, che è al terzo disco, si dimostra sempre più competente nel rievocare stati mentali e lunghi piani sequenza, nel concentrare camei e narrazione quasi a dettare un saliscendi melodiz- 59 n o v e m b r e (Alanis Morissette, ma anche la stessa Amos) ma con un occhio sempre rivolto agli eighties (vorrebbe essere prodotta da Daryl Hall, sì, sempre lui). Ciò che invece sorprende è il suo essere incredibilmente consapevole di quello che è il suo recinto sonoro, che lei stessa descrive esattamente: "pop accessibile e gradevole ma allo stesso tempo attento alle sfumature indie e all'utilizzo di sample non banali quanto a scelte strutturali più astratte". Nulla di più, nulla di meno. Una consapevolezza che è segno di una maturità: la stessa che troviamo anche tra i solchi delle quattro tracce di Design EP, non tanto a livello di tematiche (Broken Over You è il cassico love-drama), quanto a livello sonoro: tutto è molto dosato, senza sprechi o inutili provocazioni (l'epoca delle Lady Gaga o delle Ke$ha sembra veramente lontana), oseremmo dire polite. Runaway è una possibile futura hit radiofonica a metà strada tra Lorde e Ellie Goulding, con un buon equilibrio nel beat tra una corposità di base e alcuni arricchimenti di sample vocali, in Always and Forever viene fuori l'amore per Lana del Rey, qui riproposta in una veste più innocua e meno da "bella e dannata, Broken Over You è una ballad r'n'b downtempo che avremmo potuto tranquillamente trovare all'interno della tracklist di Goddess di BANKS, mentre la conclusiva Your Design riassume un po' tutta la sensibilità pop di Grace Mitchell in quattro minuti di melodie di scuola Florence and The Machine. Non siamo davanti ad un fenomeno, ma se quello che abbiamo ascoltato in Design può ritenersi indicativo, Grace Mitchell sembra possedere solide basi per un roseo futuro. 6.1/10 Genere: avant Poteva, la band che ha fatto del rumore la propria spina dorsale e del crollo/distruzione un riconoscibile marchio di fabbrica, estetico oltre che etico, esimersi dal trattare quanto di più rumoroso ci sia al mondo, ovvero la guerra? La risposta è ovviamente no, dato che Lament è l'opera/riflessione che gli Einstürzende Neubauten hanno deciso di consacrare alla Grande Guerra, di cui corre quest'anno il centenario. E hanno deciso di farlo a modo loro: aggiungendo sì, rumore a rumore, ma allestendo intorno alla materia principale sfumature, dettagli, rovelli vari che fanno di questo Lament più che un disco in sé, una vera e propria "rock-opera" fruibile nella sua interezza in sede live e di cui la versione su disco non è che una "studio reconstruction", una sorta di "libretto" d'opera. Al netto delle dichiarazioni della band – che ci incuriosiscono alquanto – in relazione alle tappe del tour novembrino e alla messinscena del tutto, Lament è a tutti gli effetti un album, seppur particolare nel suo essere a "concetto" e nonostante la eterogeneità di una proposta in cui si alterna tutto lo spettro sonoro, e non solo della formazione berlinese: il rumore di matrice industriale come reminiscenza degli albori, l'avanguardia come continuo spostamento "oltre" di una ricerca musicale indomita, la wave come basico humus su cui far germogliare piante diverse, l'approccio cabarettistico e la performance di stampo teatrale come commistione fra arti e infine la "sensibilità pop" dell'ultimo periodo come dimostrazione di apertura ed allargamento dei confini di genere. Dopo tutto Lament è un lavoro che ha richiesto approfondimenti non esclusivamente musicali (ricavati da varie forme di incisioni audio, come canti di soldati o suoni di bande, in una sorta di sonorizzazione originale), quanto più genericamente storici, archivistici, statistici, documentali e letterari, al fine di fornire allo spettacolo una visione a tutto tondo della Grande Guerra. Sono così comprensibili e "naturali" passaggi alieni come la carica grottesca fornita da Hacke e Blixa sotto vocoder allo scambio "telegrafico" tra il "kaiser" Wilhelm e lo zar di Russia Nicholas in The WillyNicky Telegrams, oppure la sinteticamente percussiva Der 1. Weltkrieg (Percussion Version), lanciata a 120bpm a ricordare ad ogni battito i giorni di durata del conflitto e il coinvolgimento delle varie nazioni in uno "statistical piece of music", per dirla alla Blixa. Oppure lo scroscio infernale, l'"hellish miasmah" dell'opener Kriegsmaschinerie, il cui clangore non può non evocare materialmente la paura e lo spaesamento che i combattenti dell'epoca provarono nelle crude battaglie o, ancora, Hymnen, col suo irriverente mash-up multilinguistico di inni nazionali. Aggiungiamoci una ossessivamente inquietante How Did I Die, reprise di un pezzo dello scrittore Kurt Tucholsky relativo alla propria esperienza in guerra, la versione made in Blixa (solo voce e tanti, tanti brividi) della Where Have All The Flowers Gone di Pete Seeger poi germanizzata dalla Dietrich (Sag Mir Wo Die Blumen Sind), la Weilliana On Patrol In No Man's Land incentrata sul reggimento degli Harlem Hellfighters, la splendida epopea in tre movimenti che dà il titolo all'intero lavoro, e ci renderemo conto, solo parzialmente prima del live, della complessità messa su disco dai tedeschi. Non che ce ne fosse bisogno per comprendere lo spessore del gruppo, ma questo Lament, con tutto il corollario di riflessioni – la più amara della quali, "First World War 60 r e c e n s i o n i n o v e m b r e Einstürzende Neubauten - Lament (BMG,2014) never ended – the interwar and postwar periods being essentially pauses for breath [...]", ci ricorda come la guerra sia condizione intrinseca all'essere umano – che si porta dietro, ci rende uno dei più importanti gruppi dell'avanguardia mondiale al suo meglio. 8/10 zante. Un big bang emozionale si ha per certo in un brano come The Fat Of The Land, che richiama quel magone di Hud il selvaggio con Paul Newman e Melvyn Douglas. Solo che qui il romanticismo non è al servizio dello scotto dovuto alla celebre eredità, quanto al chiarore di un'alba all'imbocco del ranch. I Nostri si fanno prendere un po' troppo dalla smania da cinematografo riscoperto nell'era del tutto è buono. Per cui non si ha un blocco unico di temi, quanto una struttura episodica a piccoli blocchi o a riprese di temi, ed è il limite di chi vuole imbrigliare la musica da film nel rock. Ma De Rossi, Stefana e Gallo, anche se fosse così, non lo farebbero certo con imperizia, anzi. C'è una maestria nei loro arrangiamenti, un senso delle meridiane da grande romanzo americano migrante – ricordiamo Fante ma si potrebbe citare nella poesia anche Emanuel Carnevali – e coni dilatati di realismo da far intorpidire ogni riflesso psicosomatico, rimanendo a bocca aperta come farebbe lo scemo del villaggio. 7.3/10 Christian Panzano Half Japanese - Overjoyed (Joyful Noise,2014) Genere: rock, indie, experimental Non ci eravamo certo dimenticati degli Half Japanese, ma tredici anni senza un "vero" nuovo album – anche se di una ristampa come ½ Gentlemen Not Beasts, fulminante inizio della loro saga, abbiamo parlato e volentieri – sono comunque tanti e Overjoyed è un piccolo evento, da questo punto di vista. I fratelli Fair, prodotti da Jon Dieterich dei Deerhoof, sono in forma. Non c'è aria di fiacca o di maniera, i pionieri dell'estetica lo-fi hanno scritto un disco di canzoni ben suonate e allo stesso abbastanza ferroso e piacevolmente scombinato da essere assolutamente coerente con la loro parabola. Parte forte con It's Pull, il cui giro di basso fa l'effetto di una pallina che rotola per tutto il pezzo portandosi dietro scarni e taglienti riff di chitarra, e prosegue in un puzzle di brani brevi, senza divagazioni, quanto – spesso – sorprendenti per eclettismo o per stile: ci sono il rock and roll rumoroso (Do It Nation, tra i Cramps e il krautrock o le cantilene nevrasteniche alla Fall) e il pop-punk, ma anche un funky exotico (Brave Enough), un geniale arrangiamento noise di un pezzo di modern surf (Oversized and Joyful) e una We Are Sure che piacerebbe avere scritto ai Van Pelt, giusto per fare qualche esempio. Impeccabile anche nei richiami alla musica degli anni '60 – dal proverbiale piglio beefheartiano ai ricordi di Stooges, Velvet Underground e del primo Zappa – felicemente piegati a un'identità riconoscibilissima, non solo nella surreale voce di Jad Fair o nelle strutture contorte e fantasiose, ma – e fa più piacere dirlo – nella sbalorditiva freschezza, per un gruppo con quarant'anni di carriera alle spalle. Un ritorno 61 n o v e m b r e r e c e n s i o n i Stefano Pifferi sugli scudi. 7/10 Tommaso Iannini Genere: rock, punk Hanno grandissima intelligenza discografica gli Iceage, da sempre. Non a caso hanno saputo abbattere subito il muro dell'underground, dopo appena 12 canzoni e mezz'oretta di musica, finendo sotto le cure di Pitchfork e nelle mani della Matador. Premio meritato anche perché i quattro sono stati in grado di far luce su tutta una scena sommessa danese che ha trovato molto – e spesso giusto – credito, tra i paralleli Vår passando per Lust for Youth, Hand of Dust, Puce Mary fino all'etichetta Posh Isolation. Ora, nel bene o nel male, Plowing Into The Field Of Love conferma gli Iceage in grado di piazzare il colpo giusto al momento giusto perché cambiano rotta, perché consci che alla lunga il gioco post punk barrato hardcore dei primi due album poteva stancare si indirizzano verso il mondo rock dei Bad Seeds e dei Gun Club, presente già dai primi vagiti On My Finger e The Lord's Favorite. Una svolta che sarà apprezzatissima dai fan, cui gli Iceage daranno anche del buon materiale su cui riflettere, visto che nel suo complesso Plowing Into The Field Of Love non è un disco di facile metabolizzazione: complessità nella struttura, i fiati che entrano nella composizione, le ballad sbronze come Against the Moon (poi sulla poesia del "Whatever i do i don't repent i keep pissing against the moon" uno può anche discutere), il western a contatto con il solito appeal emo e ancora l'amore per le stonature tanto nel cantato quanto nelle chitarre, magari meno sature ma sempre in leggera dissonanza. Non manca niente, neppure quel pugno di 62 Stefano Gaz Il Rondine - Può capitare a chiunque ciò che può capitare a qualcuno (La Fame Dischi,2014) Genere: cantautori, punk, indie Claudio Rossetti, romano, classe '85, un tempo chitarrista nei post-rock/progressive metal Blue Order Project, nel 2013 partecipa al concorso "Le Canzoni Migliori Le Aiuta La Fame" indetto dall'etichetta La Fame Dischi. E vince. Risultato, entra nel roster dell'etichetta umbra, che gli produce un album tutto intero. Ed eccoci a questo Può capitare a chiunque ciò che può capitare a qualcuno, undici tracce di cantautorato che scozza sarcasmo bislacco e amarezza traslucida, un ghigno sordido per ogni prurito malinconico, sbuffi rabbiosi e slanci visionari. Alle forme più classiche che denunciano retaggi post-grunge (vedi il valzer crudo e malinconico di La bolletta del gas, o quello più incalzante di Pregiudizio su Sergio con le sue vaghe radiazioni Elliott Smith) si alternano galoppate variamente indie (il punk rock sincopato di Morto, dall'invettiva basale Fiumani, oppure l'emocore febbrile di Mi fido più di me, tipo I Cani però graziaddio senza le implicazioni generazionali) e divagazioni pop con la fregola arty (i crucci traslucidi di La settima differenza, con ampia aspersione spacey di tastiere e finale ipnotico di vibrafono, oppure il Faust'O trasfigurato Stereolab di In tempo). I testi hanno la loro importanza, determinano il mood come sottolineature storte tra le pagine di un diario che non fa sconti al disincanto: r e c e n s i o n i n o v e m b r e Iceage - Plowing Into the Field Of Love (Matador,2014) canzoni sopra la media che fa di un disco un buon disco. C'è un "però"? No, solo l'impressione che il giorno in cui gli Iceage non faranno la cosa più intelligente da fare, sforneranno il loro capolavoro. 7.1/10 vale tanto per il twee pop a rotta di collo di La naturale capacità (immaginatevi Renato Zero irretito dai primi Baustelle) che per il magone folk di Un'oliva, col suo rapimento elusivo vagamente De André. Le melodie ai minimi termini favoriscono l'immediatezza ma suggeriscono una superficialità che con gli ascolti si rivela equivoca, lasciando affiorare tensioni stranianti e a tratti persino strazianti. Quel che si dice un esordio promettente. 7/10 Stefano Solventi Genere: cantautori, rock Da sempre in bilico tra rock-pop orecchiabile/ radiofonico e scrittura cantautorale di un certo peso, gli Io?Drama del carismatico (anche nella voce) Fabrizio Pollio hanno dimostrato nel tempo di sapersi districare con una certa bravura tra categorie e tipologie di pubblico. Non abbastanza alternative da solleticare i palati degli amanti delle freakerie indie, ma nemmeno sputtanati sul crinale delle banalità radiofoniche tout court, i Nostri hanno sempre dimostrato buone potenzialità e una concretezza da navigati operai musicali. Anche in questo disco (il terzo lungo della carriera), la band dà un colpo al cerchio e uno alla botte, ottenendo peraltro risultati spesso apprezzabili: nello specifico, chiama a produrre Nicolò Fragile – già al lavoro con Vasco Rossi, Mina, Alexia, Matia Bazar, Irene Grandi – ma lo impiega per dar forma a un suono a metà strada tra wave (Mi dimentico mi assolvo, Non resta che perdersi), elettronica massimalista (A piedi scalzi), cantautorato, rock. Nonostante alcuni dei migliori brani in scaletta siano legati a filo doppio allo stile del passato (le ottime Babele e Vergani Marelli 1), rimane comunque apprezzabile la voglia di andare oltre la formu- Fabrizio Zampighi Jhené Aiko - Souled Out (Def Jam Recordings,2014) Genere: pop, rnb Se le mutazioni futuristiche targate FKA Twigs e le produzioni moderne e raffinate in mano a BANKS stentano a decollare in modo netto nelle classifiche, lo stesso sta accadendo anche alle due principali alunne della nuova scuola di pensiero meno innovativa e più conservatrice – e forse meno necessaria – dell'r'n'b: Jhené Aiko e Tinashe. Probabilmente messi in ombra dalla definitiva ascesa di Ariana Grande, gli album di debutto delle due giovani cantanti americane – entrambe di Los Angeles – non hanno per il momento raccolto i frutti di un hype che durava da circa due anni. Il più lanciato Souled Out di Jhené Aiko – uscito ad inizio settembre – incredibilmente potrebbe non superare le vendite dell'EP (Sail Out, 2013), mentre il più recente Aquarius di Tinashe, nel momento in cui scriviamo, sembra essere destinato ad un ingresso piuttosto timido nelle charts americane. Eppure alle due non manca praticamente nulla: presenza patinata, produttori di spicco, guest 63 n o v e m b r e r e c e n s i o n i Io?drama - Non resta che perdersi (Cama Records,2014) la consolidata nei dischi precedenti (interessante il synth-rock in bilico tra violino, programmazione e batteria di Il sasso e lo stivale), anche se il lavoro non dà sempre buoni frutti: Grooviera è appunto un groove reiterato che si sgretola in qualche vaga parentesi ambient, Uno alla volta ricorda i Subsonica più banali, Risveglio ha i crismi del riempitivo abbastanza interlocutorio. Una tracklist con meno brani ma più a fuoco avrebbe forse aiutato un album ambivalente, capace di collezionare picchi notevoli quanto cadute di tono sorprendenti, nonostante il coraggio e la voglia di indagare nuovi territori. 6.4/10 64 n o v e m b r e personalità attualmente latita: vocalmente la Nostra è simile a decine di sue colleghe e musicalmente siamo in pura ordinaria amministrazione, ben studiata ed ben eseguita, ma poco genuina. Da tenere d'occhio comunque (insieme all'inglese TĀLĀ e al suo Alchemy EP) , sperando non diventi una nuova Christina Milian, Ashanti o aggiungete voi un qualsiasi altro nome – fortunatamente – dimenticato. (voti: 6.1 a Souled Out e 5.7 a Aquarius). -1/10 Riccardo Zagaglia John De Leo - Il grande Abarasse (Carosello Records,2014) Genere: pop, cantautori Si è preso 7 anni John De Leo per dare un seguito a Vago svanendo del 2007, ma si potrebbe dire che nel frattempo non è invecchiato: la voglia di inseguire un melting pot stilistico obliquo e stralunato rimane la stessa, fedele a una formula talmente strana che è difficile diventi maniera, anche grazie alla scarsità delle uscite e all'unicità della sua figura. Perché il rischio ci sarebbe comunque: dietro a un concept basato sui personaggi di un condominio – un po' la vecchia Raptus dei Quintorigo, un po' La vita: istruzioni per l'uso (il romanzo di Georges Perec) – si seguono strade note. Vedi il brano fatto tutto con una voce che fa le veci dei vari strumenti e messa in loop (Il gatto persiano-Theme), il pop orchestrale circense anni '30 (Il valzer del misantropo, l'inquilino che guarda tutti con diffidenza), certi anni '50/Tom Waits visti dalla sua vecchia band (Apocalissi mantra blues e 50 euro), i riferimenti al razzismo, i giochi con la voce e altro, già presenti in qualche modo nel suo passato. L'ispirazione però è buona e le variazioni stilistiche vanno a descrivere con estrema cura i vari caratteri dei personaggi di un condominio che potrebbe essere l'Italia stessa: l'uomo r e c e n s i o n i star di indubbia fama, ritornelli appicicosi e capacità di traghettare la lezione PBr'n'b nel trash-r'n'b. Un elemento in comune – l'acqua – ma due approcci sostanzialmente diversi. Souled Out è più ricercato, strutturato e contiene intuizioni strumentali più interessanti rispetto a quelle di Aquarius. In Limbo Limbo Limbo la chitarra elettrica spezza ulteriormente un ritmo già di suo frastagliato, W.A.Y.S. vanta la produzione di Thundercat e Clams Casino, Spotless Mind ci porta sulla spiaggia in una sorta di Endless Summer in formato pop-r'n'b, così come del resto fa Promises (con Miyagi e Namiko). Tutto un lento ondeggiare decisamente chill che nella giusta situazione può diventare il perfetto background, e che funziona – seppur con meno forza evocativa – anche nei brani che seguono gli stilemi più classici del genere (Lyin King), grazie anche al lavoro di No I.D. Complessivamente le idee stilistiche sono degne di nota, ma lungo gli undici episodi non sempre vengono concretizzate a dovere rendendo comunque l'intero ascolto abbastanza fluido benché privo di grossi sussulti. Aquarius è invece ancora appesantito dal curriculum di Tinashe – esordì nella bubblegum/teen girl-band Stunners – che, se da un lato vanta un buon intuito per la hit, dall'altro rischia di far franare la credibilità in zona Rihanna. Il disco è decisamente frammentario nel suo alternare plastica glitterata (Feels Like Vegas, Wildfire), battiti sensuali più sinuosi (Aquarius), ospiti mai invadenti (Devonte Hynes, Schoolboy Q, Future e A$AP Rocky) e una manciata di inutili – escluso Indigo Child – interludi. Bet è indubbiamente uno degli highlights (nonostante ci sia più DJ Dahi che Blood Orange, nel suono), How Many Times ha dalla sua il chorus – decisamente 90s – migliore del lotto, mentre 2 On pare uno di quei pezzi da club r'n'b di perifieria riproposto in epoca post-trap. I limiti sono fin troppo evidenti e la Giulio Pasquali Kele - Trick (Lilac Records,2014) Genere: rock, indie Avevamo lasciato Kele nel 2011 con quell'Hunter EP che affondava le mani nella polpa più britannica dell'EDM, dopo aver un poco storto il naso con The Boxer, debutto che tra una "smanopolata" synth-elettro di XXXChange / Alex Brady Epton e l'altra, non era sicuramente r e c e n s i o n i un album da buttare ma neanche uno di quei lavori che il tempo risparmierà. Nel frattempo, è successo l'imprevedibile: nel pieno dell'epopea di Disclosure / Gorgon City, ritroviamo la voce dei Bloc Party accasata su una delle più nobili etichette house degli ultimi anni, la Crosstown Rebels. Label un po' sottotono rispetto ai fasti di Deniz Kurtel e Art Department di qualche anno fa, ma che nulla toglie alla scelta di un producer in erba che soltanto tre anni fa bazzicava bassi spugnosi e frontalità electro-dance con un piglio tra il rock e lo spudoratamente radiofonico. Dopo la scialba parentesi con i Bloc Party – quel Four maltrattato un po' da tutta la critica specializzata -, le produzioni Kele finora pubblicate – due EP, Heartbreaker EP e Candy Flip E.P. – non sfigurano, mostrandoci anzi il volto inedito di music marker declinato sia su un'house dagli smalti synth e retrò tipica della label, sia su aggiornamenti nella direzione di Gesaffelstein-derivati (Candy Flip), tutto in 4/4 e al 100% dancefloor. Niente male ok, ma neanche nulla di così diverso da tante altre pur buone produzioni di genere. La storia si ripete per Trick, di fatto successore sulla lunga distanza del citato Boxer del 2010, album dal quale sembrano passati millenni, ma sono pur sempre quei 4 anni in cui l'EDM è capitolata e ad essa è subentrata un'ondata di (pop)house e un'altrettanto resistente cavallone di variegato r'n'b – da SBTRKT e Sampha in UK alle varie emule di Janet Jackson in USA – che sta continuando a tenere alta su di sé l'attenzione mediatica. Niente di strano, Kele è uno che si è sempre tuffato nelle mode e ci è sempre piaciuto come voce e interprete, meno come autore, peggio coi ritornelli, ma tant'è. Nelle vesti di producer, anche questa volta accompagnato dal sodale Epton, sembra aver trovato la via giusta presentandoci il suo lavoro più compatto, vario e 65 n o v e m b r e invasato che diffida di tutto è raccontato con un pezzo che i Litfiba canterebbero serii (50 euro), il minimalismo sommesso che diventa pretesco in Apocalissi… prima di decollare verso un jazz suonato alla maniera del vecchio gruppo di De Leo, o che piega verso una citazione del Bowie di Sweet Thing in Di noi uno, Uri Caine in persona ad accompagnare l'eterea The Other Side of a Shadow, i ricordi Hendrix di Muto (come un pesce rosso) o l'esistenzialismo su un hard rock da camera che in Io non ha senso richiama il Gaber più astratto di metà '70. Una dilatazione in mille direzioni di una forma canzone che De Leo non dimentica mai, studiandola e sezionandola prima di farla muovere dal suo passato musicale a possibilità future che "la musica dei supermercati", suo riferimento polemico nelle interviste, contempla sempre meno. Poi, una volta che l'esplosione unisce tutti i destini, ecco un altro elemento che ritorna potenziato: l'uso della ghost track, che qui viene esteso fino ad ospitare un intero ghost album, colonna sonora onirica ma concreta (nel senso di musica) di un film mai girato, realizzata insieme all'Orchestra Filarmonica di Bologna (che suona anche nel resto del disco), ad arricchire il quadro dell'ampio universo musicale di un autore che, se pure continua a somigliare a se stesso, è anche vero che somiglia a pochi altri. 7.2/10 Genere: avant Vista da qui, ottobre 2014, la parabola artistica di Liz Harris assomiglia sempre di più ad uno dei suoi diagrammi psichedelici. Un pattern che si ripete all'infinito, identico a se stesso, ma sempre un po' diverso perché modificato dall'atto stesso di ripetersi. L'intero corpus musicale di Grouper pertanto sembra un concept unico, monocromatico, pieno di una densità concettuale sempre più determinata. Ruins non sfugge alle regole severe ed austere del ricordo. Grouper è ormai il suono stesso della malinconia. Il suono di un ricordo che si consuma nel tempo e si fissa in una foto in bianco e nero, sacrificandosi con i propri resti all'eternità. A dispetto di qualche facile commento della prima ora, l'attingere costantemente ad un catalogo personale di demo e registrazioni sparse, non è sinonimo di nulla se non di una confidenza molto personale con la propria musica, secondo una prassi del tutto simile a quella di William Basinski con i propri nastri. Ruins pertanto fotografa un momento molto particolare, vissuto ad Aljezur, Portogallo, nel 2011, nei pressi della Galeria Zé dos Bois. Registrato in presa diretta, su un quattro tracce, la voce di Liz, un piano e i rumori dell'ambiente. Esteticamente uno dei suoi lavori più lo-fi, ma dal lirismo romantico molto prossimo ad alcune pagine del minimalismo accademico più sentito. Come altre volte in passato, la presentazione del disco, vergata direttamente dalla mano di Liz, chiarisce con sorprendente lucidità, la natura dell'album: "Questo disco è un documento. Un cenno a quelle passeggiate giornaliere. Strutture fatiscenti. Vivendo con i resti dell'amore. Quando non stavo registrando le canzoni, ero impegnata a percorrere diverse miglia fino alla spiaggia. Il percorso si estendeva attraverso i resti di diverse antiche proprietà di un piccolo villaggio". I resti di un amore perduto connessi alla fatiscenza delle costruzioni circostanti. Il legame tra devastazione dei sentimenti e distruzione della geografia urbana non è nuovo, ma lo sguardo di Liz regala una profondità dai riflessi inediti. L'effetto finale è ancora una volta mediato e processato, come fosse fatto di una impalpabile materia onirica. Come un flashback che mima il passato sfiorandone appena l'essenza. A questo punto, si capisce pure che discernere su una traccia piuttosto che un'altra, con un lavoro così denso e lineare, lascia il tempo che trova. Da Clearing a Holding, la musica scorre come un unico flusso di ricordi e con un'incredibile unità formale di insieme, al punto che sembra quasi trattarsi di un'unica traccia suddivisa in più movimenti. Fanno eccezione l'iniziale Made Of Metal, che altro non è se non una introduzione, e la finale Made Of Air, che non a caso non appartiene a queste sessions, risalendo addirittura al 2004, in una registrazione fatta presso la casa di sua madre (la ragazza immortalata sulla copertina di The Man Who Died In His Boat) e che riporta la musica di Grouper al liquido amniotico primordiale dell'infanzia, ergo 11 minuti di viaggio dronedelico verso l'origine stessa della malinconia. Sebbene, Ruins si inserisca alla perfezione nel catalogo dell'artista di Portland, merita di essere considerato come un tassello a parte nel vasto mosaico della sua produzione, nonché uno dei suoi lavori più belli e personali. E' un po' il suo White Chalk, anzi, fatte le dovute eccezioni musicali, con un lavoro del genere Liz si pone più dalle parti della Joni Mitchell di Blue. Benché il disco si 66 r e c e n s i o n i n o v e m b r e Grouper - Ruins (Kranky,2014) muova liquido e seducente, sotto una spessa coltre di polveroso fascino da serie B, è una collezione di canzoni dal profilo maggiore, che di contro si travestono con quattro stracci. Nondimeno il loro destino è quello di mietere numerose vittime tra gli animi più noir di questo gelido Halloween 2014. 8/10 scafato da un bel po' di tempo a questa parte. Da una parte, abbiamo l'r'n'b/soul/uk house, dall'altra cose sul filo tra banalità ed efficacia pop (Coasting), in mezzo qualcosa à la Moderat meets groove Disclosure (il mezzo plagio di Like We Used To) o indie-dalle-parti-dei-BlocParty-poi-svoltato-radiofonia-uk (Closer). Non mancano gli hook (Humour Me) e nemmeno i pezzi con tutto – troppo – al posto giusto (Stay The Night). Cambiano gli abiti e la storia un po' si ripete, con la differenza che Okereke inizia a convincere di più. A parte le tracce ben confezionate, c'è una luce interessante nel disco, e questo va sottolineato. 6.8/10 Edoardo Bridda Kevin Morby - Still Life (Woodsist,2014) Genere: rock, indie, folk Undici mesi, tanto abbiamo dovuto aspettare per avere tra le mani il successore di Harlem River, piccola gemma d'esordio del chitarrista del Texas Kevin Morby, meglio conosciuto fino ad allora per aver dato vita insieme alla Vivian Girl Cassie Ramone ai Babies e per aver vestito, a partire dal 2009, i panni di bassista nei ben più noti Woods. Le undici tracce che formavano il debutto di Morby rappresentavano a tutti gli effetti una lettera romantica per la città che lo aveva adottato: quella New York dalla quale, a un mese preciso dall'uscita di Harlem River, la leggenda Lou Reed si congedava. Non facile quindi per Still Life dover far fronte a un predecessore praticamente perfetto nella sostanza e che, come se non bastasse, si avvolgeva in quella nostalgia che si respirava per i sobborghi della Grande Mela. E invece il disco riesce ad andare oltre, confermando il talento cristallino del riccioluto chitarrista e sottolineando che Harlem River di fatto rappresentava solo un punto di partenza. Annunciate dall'apripista The Jester, the Tramp and the Acrobat, brano che si prende l'onere di tirare le somme del precedente lavoro, le rotonde The Ballad of Arlo Jones (dylaniana non solo nel titolo) e Motors Running (dalle chitarre e dagli organi tintinnanti) gettano le basi per quello che a un primo impatto sembra essere il tentativo di spingere il suono morbido e dilatato di Harlem River in un vortice di chitarre dal passo molto più andante e sostenuto. E invece di lì a poco l'atmosfera si farà prima offuscata (Drowning), spettrale (gli arpeggi di Bloodsucker accompagnano l'ascoltatore alle porte degli inferi) e psicotica (la stordita Dancer è il risultato dei mesi trascorsi da Morby sulla costa ovest del paese) per poi ri-stabilizzarsi in quel mare di suoni vellutati in cui si tuffano la magnifica Parade (ballata alla Bill Fay in cui Morby, nelle parti di sax, rende omaggio a Lou Reed), le confortevoli ballate All of My Life e Our Moon (la prima risente molto da vicino dell'influenza di Kurt Vile) e 67 n o v e m b r e r e c e n s i o n i Antonello Comunale Genere: industrial, ambient Il leggendario progetto martial industrial svedese di Jouni Havukainen, In Slaughter Natives, è tornato dopo ben dieci anni di assenza. Cannula Coma Legio, uscito per la canadese Cyclic Law il 21 giugno 2014 (data del solstizio d'estate, non un giorno scelto a caso), è un disco di brani inediti e rielaborazioni di precedenti materiali tratti anche da performance dal vivo; ad esempio, le musiche utilizzate nelle esibizioni della bodyperformer Chérie Roi. ISN è stato uno dei primi e più famosi progetti post-industrial tenuti a battesimo dalla storica label svedese Cold Meat Industry. L'influenza del progetto, per tutta la scena estrema degli anni Novanta e Duemila, è indiscutibile. Dalla fine degli anni Ottanta Havukainen mette in scena un perverso e affascinante connubio di percussioni marziali, litanie religiose, campionamenti orchestrali e demoniache voci provenienti dall'oltretomba. Violenti tamburi tonanti in puro stile ISN non mancano di certo anche in quest'uscita: il lento incedere di Plague Walk My Earth anticipa una scarica di roboanti colpi che annichiliscono gli ascoltatori che varcano la soglia di questo nuovo lavoro, mentre la successiva Definition Of Being Alive (il brano presente anche nell'ottimo teaser video dell'album) continua sulla strada intrapresa con un violento tritacarne rituale di percussioni marziali, urla senza speranze e distorsioni elettroniche come solo ISN sa fare. Sono presenti nel lavoro anche lunghi brani come Silent Cold Body e Venereal Comatose/Closed My Eyes, dove il Nostro può dar sfogo al suo repertorio di efferati effetti sonori. Particolarmente terrificante, inserito nel contesto, è il suono di un vecchio carillon campionato in Silent Cold Body (brano composto per una performance di Chérie Roi) tra l'eco di voci spettrali da luna park dell'orrore. Cannula Coma Legio è un lavoro apocalittico, violento e claustrofobico, che riesce a rendere bene lo spirito dissacrante e rituale delle performance dal vivo di ISN, uno dei live-act ancora oggi più coinvolgenti ed estremi del panorama post-industriale. Non si tratta di semplice musica d'intrattenimento, ma di perverse colonne sonore per la discesa negli inferi, tra clangori metallici di catene, cori rituali e sinfonico martial industrial, come avviene ad esempio in Gaudium Et Alia Vitia. Non per nulla in Left Arm Right Arm As My Path, evocativo brano dark ambient, Havukainen esclama "I am my god" come se non ci fosse un domani per niente e per nessuno, mettendo bene in chiaro la profonda visione "nicciana" dell'artista, che qui sembra indossare i panni di un novello Zarathustra. Non mancano episodi che gettando nuova luce (se così si può dire) su precedenti lavori di ISN, facendo riaffiorare sonorità che i seguaci del progetto non mancheranno di riconoscere. Venereal Comatose/Closed My Eyes, ad esempio, è la lunga rielaborazione di un brano già apparso nella compilation Songs For A Child – A Tribute To Pier Paolo Pasolini. Il disco si apriva con Ostia (The Death Of Pasolini) dei Coil e il brano degli ISN, oltre ad essere un tributo a Pasolini, era (ed è anche nella nuova versione) una sorta di omaggio ai Coil. Ignis Et Scalpello: Angel Meat, invece, 68 r e c e n s i o n i n o v e m b r e In Slaughter Natives - Cannula Coma Legio (Cyclic Law,2014) è un rimaneggiamento di un classico brano di ISN del 1992 (Angel Meat) apparso in origine su Enter Now The World. In attesa, speriamo breve, di un nuovo full-length, consigliamo caldamente l'ascolto ai devoti di lungo corso e ai neofiti del culto di ISN. 7.5/10 la dylaniana – periodo Blood on the Tracks – Amen. Still Life suggella quello che per il sottoscritto era stato il disco in assoluto più bello dello scorso 2013. E lo fa restando ben ancorato alla tradizione musicale a stelle e strisce, ma allo stesso tempo rivisitandola in chiave moderna. Non è un caso se il nome di Kevin Morby molto spesso finisce per essere accostato a quello di un certo Dylan. 7.7/10 Marco Frattaruolo L'officina della camomilla Senontipiacefalostesso Due (Garrincha Dischi,2014) Genere: pop, rock, indie Dall'ortodossia numerica stringente di un Senontipiacefalostesso Due non ci aspettavamo certo rivoluzioni copernicane, considerato anche che il titolo del disco d'esordio de L'officina della camomilla (uscito ormai più di un anno fa) era, appunto, Senontipiacefalostesso Uno. Previsioni ampiamente rispettate da un album che non cambia di una virgola la rotta del suono, riproponendo la stessa mescolanza appiccicosa di pop da cameretta e rock à la Libertines/Strokes, il solito carico di cut up (a nostro avviso) confusionario in testi quantomeno discutibili, la solita leggerezza "stoned" destinata a un pubblico di aspiranti maggiorenni senza troppe pretese. Nulla di male, sia ben chiaro: i Nostri recitano il ruolo che compete loro anche in virtù di una età media che li premia (contro quell'Italia "proverbialmente gerontocratica" che non li capisce e a cui il sottoscritto, 38 anni suonati, è evidentemente destinato ad aspirare), offrendo nel contempo ai fan, oltre a una musica tascabile e sbarazzina, un modo per identificarsi in una versione disimpegnata e aggiornata all'indie di casa nostra del celeberrimo motto punk "tutti possono farlo" (o, se preferite, del più prosaico "facciamo casino"). C'è da dire che almeno, in questa seconda puntata, mancano banalità sconcertanti come Ho fatto esplodere il mio condominio di merda o La tua ragazza non ascolta i beat happening (in scaletta invece in Senontipiacefalostesso Uno), a favore di un impianto musicale che cerca comunque una struttura più articolata e un arricchimento, in termini di arrangiamento (ci vengono in mente, ad esempio, gli scambi di Bucascuola). Anche se pare che il fine ultimo del disco rimanga comunque quel divertimento leggero, pop, senza troppi patemi artistici, a cui già aspirava il primo episodio e che, al momento, tanto raccoglie in termini di follower. Non è un delitto (soprattutto se, come sembra in questo caso, non ci si prende troppo sul serio), ma per noi la musica è altro. 5/10 Fabrizio Zampighi 69 n o v e m b r e r e c e n s i o n i Marco De Baptistis Genere: cantautori, alt, folk Registrato in una masseria di Sant'Agata dei Goti (terra di confine tra le province di Benevento, Caserta e Avellino), Catacatassc' segna il debutto ufficiale dei partenopei La Bestia Carenne. Il titolo dell'album è un omaggio alle lucciole notturne, quelle intermittenze che, spiega la band nelle note stampa, "hanno accompagnato con inconsapevole e naturale continuità la registrazione di questo lavoro". I riferimenti musicali sono quelli risaputi e ricalcati più volte, fino alla noia o al cedimento delle cartilagini, da qualsiasi band italica che si avvicina al genere folk: da Bandabardò a Folkabbestia e Modena City Ramblers. Fin qui nulla di nuovo: Catacassc' è un lavoro che rientra perfettamente nel solco della miriade di band che in tempi recenti hanno provato a giocare e far baldoria con strumenti acustici (vedi i calabresi Nuju). Con molto gusto e un pizzico di coraggio in più i Nostri provano però a spingersi oltre, curiosando tra quella canzone d'autore italiana a tinte world che ha lasciato anche momenti memorabili. E' così che canzoni come Le cose che desideri, Transkei o Jeanne rimandano al Capossela di Camera a sud piuttosto che al primo Fossati. E' in questi momenti che Catacassc' acquista una valenza maggiore, sdoganandosi dalle reticenze di genere e guadagnandone in poeticità e potere espressivo. E' nell'unione sincopata e aggraziata di ballate e brani sussurrati al lume di candela che i La Bestia Carenne riescono a salire di livello, strutturando canzoni in perfetto equilibrio tra – tanto per rimanere a Napoli – lo spleen cantautoriale alla Francesco Di Bella e l'allegria dei Foja. Un lavoro che nel complesso non brilla per originalità ma che con leggerezza e gusto getta solide basi per una formazione che potrebbe 70 aggiungere contenuti e idee nuove ad un genere fin troppo saturo nel nostro Paese, e che fatica da tempo a trovare contenuti rilevanti. 6.7/10 Gianluca Lambiase Lamb - Backspace Unwind (Strata Music,2014) Genere: elettronica La musica dei Lamb è sempre stata un gioco di equilibri, di baricentri precari, tra registri stilistici e influenze lontane. Un gioco che ha conosciuto alti e bassi in momenti storici più accessibili (l'ascesa del trip hop) o più infelici (l'overdose dubstep fine anni 2000). Il duo di Manchester torna con il secondo disco postreunion, dopo quel 5 che aveva rilanciato la musica di Andy e Lou con un piglio diverso, quasi prossimo al classico, e la solita consolidata mescolanza di folk ed elettronica. Ritorni che accogliamo sempre con grande piacere e persino un po' di affetto verso una formazione che nella seconda metà degli anni '90 ci ha spiegato un bel po' di cose. Tipo come riuscire a sperimentare, a giocare con i suoni senza raffreddare la propria musica. Certo, non va dimenticato che nel mentre di avvenimenti ne sono successi tanti: la nu gaze, gli XX, il ritorno di Aphex Twin. Tutte storie che hanno tanti punti di contatto con il percorso artistico della band dell' "agnello". In quest'ottica Backspace Unwind è un album fortemente anacronistico, e questo non è per forza un male, anzi. Ha poco o nulla a che fare con certe derivazioni shoegaze contemporanee di cui sopra, preferendo provare a fermare il tempo e a ricamarsi una dimensione propria che rappresenti una salda àncora di approdo. E i due ci riescono, ancora una volta, condensando alterità e calore, rumore e passione, i suoni mixati di Andy e la voce fascinosa di Lou. Cos'è d'altronde We Fall in Love se non un r e c e n s i o n i n o v e m b r e La Bestia Carenne - Catacatassc' (Bulbartworks,2014) omaggio all'unione, mentre As Satelittes Go By porta i Nostri su vette orchestrali in un incedere evocativo sempre più aggressivo, epico. Che What Makes Us Human è il trucco che sta alla base della musica dei Lamb e Doves and Ravens la conferma di come i due sappiano fare belle canzoni. Senza navigatori o segnali stradali, l'alchimia riparte da capo e il gioco riesce, di nuovo. 6.8/10 Gianluca Lambiase Genere: colonnasonora, experimental, electronica Nome nuovo, trascorsi importanti e una label che è sempre più sinonimo di qualità. In soldoni è questo l'esordio dei misconosciuti Last Ex, nome che ai più dirà poco ma che attirerà le attenzioni di molti appena scoperto che dietro la sigla si nascondono due Timber Timbre, Simon Trottier e Olivier Fairfield, rispettivamente a chitarre (elettriche, acustiche, baritone), bassi, synth, lapsteel, batteria, tastiere, campionatore, synth, ecc. La storia vuole che questo album sia una sorta di rivisitazione del lavoro commissionato – come colonna sonora ambient per un film horror – proprio alla band madre e mai andato in porto ("The Last Exorcism II", per la cronaca). I due hanno ripreso quel materiale e lo hanno rielaborato e ripensato sulla base della propria predilezione per le sperimentazioni in studio, per il sound-collage e la "tape-based music concrète" oltre che per le colonne sonore per film immaginari. Ecco dunque questo omonimo debutto, strumentale e vario, atmosferico ed evocativo, proprio come si richiede ad un lavoro che vagheggia immagini inesistenti, tentando di creare un supporto visivo/visionario credibile. Post-rock jazzato alla Tortoise degli inizi, krauterie cinematiche, slanci da horror-soundtrack (Cape Stefano Pifferi Groove Armada - Late Night Tales Presents Automatic Soul (Late Night Tales,2014) Genere: pop, 80s, soul, disco La trentottesima uscita Late Night Tales (contando anche i primi sette episodi denominati Another Late Night) vede in cabina di regia un habitué della pregevole serie di compilation: insieme al compagno Andy Cato, Tom Findlay aveva già firmato come Groove Armada due pubblicazioni (nel 2002 e nel 2008 – il duo ha anche all'attivo un Back To Mine del 2000), e nel 2012 aveva curato da solo Music For Pleasure, di cui questo Automatic Soul rappresenta la prosecuzione ideale. E se due anni fa, svolgendo il tema del blue-eyed soul degli anni Settanta, Findlay aveva giocato di furbizia, peccando di piacioneria (è facile essere irresistibili con giganti dello yacht rock come Toto, Hall and Oates, Gerry Rafferty, E.L.O., chiudendo con l'immortale "cariadenti" I'm Not In Love dei 10cc), alle prese qui con il concept dell'electro soul di metà anni Ottanta si dimostra meno ruffiano e più appassionato collector. Certo, si parte con una canzone che nell'estate 71 n o v e m b r e r e c e n s i o n i Last Ex - Last Ex (Constellation Records,2014) Fear), aperture trip-hop alla Bristol che fu (It's Not Chris paga più di un pegno ai Portishead) e passaggi ambient-dub (Cité D'Or) formano lo scheletro di un lavoro godibilissimo, nella sua eterogeneità compositiva. Eterogeneità che non va, però, mai a ledere l'uniformità di fondo, ma anzi fornisce screziature e sfumature apprezzabili nel loro essere divaganti e storte. Tra i tanti, poi, citiamo almeno un pezzo, l'opener Hotel Blues, che come un mutaforma fringiano cambia continuamente pelle su minime variazioni, divenendo sunto e summa del pensiero e del procedere dei due. Nulla di nuovo, ma esemplare nel suo contesto. 7/10 Genere: synthpop, elettronica Chi se ne doveva accorgere se ne è già accorto. Senza troppi clamori ma anche senza passare sottotraccia, producer come Dev Hynes, ovvero Blood Orange, Kindness, Bok Bok, Arca, Jessy Lanza, Cooly G e ricettive voci come Kelela, Fka Twigs, Solange Knowles (famosa sorella di… e prodotta, tra gli altri, proprio dai primi due ragazzi) stanno riscrivendo l'artigianato pop per gli anni '10. Ed è un pop senza facili prefissi tipo art o hip, piuttosto è materia viva che crea nuovi interessanti cortocircuiti tra bianchi e neri, tra mainstream e undeground, tra mascolinità e femminilità. Il perno sono ancora una volta certi anni Ottanta, Prince per capirci, fondamentale sia per il funk che per la ballad, le drum machine analogiche, i campionatori. E se c'è un'incastro, qui ci piace immaginarlo in un triangolo di Janet Jackson, Lisa Stanfield e Neneh Cherry che incontrano il relax di certi Novanta come il verace funky dei Settanta. La girandola dei decenni, del resto, è un portato del solito post-moderno, pratica che nel decennio edonista s'insidia per sempre nella cultura popolare, un punto di (ri)partenza che per questi venti-trentenni significa creare musica limipida (anche liquida), senza filtri, il più possibile classica e sincera, dove per classico e sincero non ci si può che riferire a una personale e ultra-dettagliata epifania che non si ferma ai suoni, ma prosegue lungo immagini, ballo e vestiario. Poco importa se questa si colloca nella forbice della Blank Generation di Bob Blank o tra il '91 e il '93. Adam Bainbridge, all'interno di questo scacchiere, rappresenta, ora con il sophomore Otherness, la miglior risposta a quel Cupid Deluxe che buona fortuna ha portato a Dev Haynes. Non è un caso se le carriere di questi due producer/musicisti, amici di lunga data, sono andate di pari passo fino ad oggi. Naturale che nel videoclip di Chamakay del 2013 sia presente Bainbridge alla regia, come è altrettanto scontata la presenza di Hynes in questo disco con il cameo nel brano Why Don't You Love Me assieme a Tawiah. Otherness è un album dove la miscela di funk, r'n'b, jazz e house dell'esordio – World, You Need a Change of Mind, registrato a Parigi e prodotto dal Cassius Philippe Zdar – trova nuovi e più maturi equilibri sia a livello produttivo, che di scrittura. Quel debutto, per ammissione dello stesso Bainbrigde, era un affare da nerd che prendeva ispirazione tanto da Arthur Russell quanto dal duo produttivo Jam and Lewis; ora proprio quest'ultimi, vere e proprie leggende nel loro ambiente, sono persone in carne e ossa con le quali il ragazzo, metà indiano e metà inglese, ha collaborato realmente. Di fatto, per Blood Orange e Kindness le esperienze nel mondo dell'artigianato pop si sono moltiplicate su tutti i fronti conferendo nuovi stimoli e padronanza nella produzione. E i risultati si vedono tutti. Otherness è stato registrato per la maggior parte agli XXVII Studio di Blue May, professionista che, oltre ad aver curato il mixing assieme ad Adam, ha contribuito anche come ingegnere del suono e musicista coinvolto nella realizzazione del disco. Presente, inoltre, anche un pezzo grosso come Jimmy "The Senator" Douglass, produttore che in agenda conta collaborazioni con Rolling Stones, Timbaland e Timberlake, mentre il mastering è stato affidato a John Dent, altro per- 72 r e c e n s i o n i n o v e m b r e Kindness - Otherness (Female Energy,2014) Edoardo Bridda del 1983 è stata per otto settimane al numero 1 nella Hot Black Singles chart di Billboard e successivamente saccheggiata da Notorious B.I.G., Warren G, Coolio, Common e altri (Juicy Fruit di Mtume), e molti sono i momenti di archeologia alla ricerca del sample perduto (per esempio Rumors dei Timex Social Club) o dell'originale "coverizzata" (vedi Touch Me di Fonda Rae, portata poi al successo da Cathy Dennis), ma nel complesso lo spirito è solare e sorridente al punto giusto. Il mix si concentra sul periodo 1981-1986, inanellando venti esempi di quella mistura di post-disco, funk, hip hop ed electro-pop poi definita "new jack swing": drum machines, bassi synth, tastiere e fiati di plastica, chitarrine princiane e bellissime voci soul, a volte spruzzate di vocoder. Esempi mirabili: Se- 73 r e c e n s i o n i n o v e m b r e sonaggio con oltre trent'anni di carriera. Di fatto, grossa parte della coesione e forza del disco (che coinvolge alcuni ospiti al canto e numerosi strumenti e macchinari) si basa su un raffinato lavoro di produzione e collaborazioni, un discorso corale quindi, lasciato macerare con la dovuta calma per dare risalto alla polpa pop. Ecco perché l'aspetto che buca di più non sono gli arrangiamenti (come nel caso del Flying Lotus di You're Dead) ma i feat. vocali, che sono tutti ottimi, specialmente quelli di Kelela, qui in una veste arrangiativa radicalmente diversa da come l'avevamo lasciata in Cut For Me o nelle produzioni di Bok Bok (altro amico di lunga data di Bainbridge). La voce per eccellenza della Fade To Mind è presente nella tracklist in ben tre brani: il singolo opener disco-funk World Restart, la ballad soul With You, il gospel Geneva (quest'ultima dal nome della città dove Adam attualmente vive con la fidanzata, l'artista Pauline Beaudemont). La protagonista più famosa del lotto, tuttavia, è sicuramente la Robyn che firma Who Do You Love, un pezzo in zona Kate Bush/Janet Jackson che trasforma una storia autobiografica vissuta dai due (e il fidanzato di lei, Max Vitali) durante una nottata in Norvegia in una riuscita pop song, sicuramente il singolo da dare in pasto al grande pubblico, oltre che un altro ottimo episodio dove la grammatica più standard del pop confidenziale trova le sue quadre tra funky drum machine e l'organo hammond suonato da Bainbridge. Non ultimi, i tocchi produttivi: l'imperfetta centratura di Restart tra fiati Stax, i campanacci a ricordare una Unfinished Sympathy rallentata e il sax à la How G; For The Young, dove troviamo un riconoscibile campione di Herbie Hancock e Foday Musa Suso, la cui kora è udibile nel main riff del brano; With You, dove a un certo punto sbuca dal nulla il motivo portante della Moments in Love degli Art Of Noise creando un curioso cortocircuito spazio temporale; la citata Who Do You Love?, con quel frammento di Shy Girl di LaChandra prodotta da LaBlanc. L'ultimissimo aspetto della bontà di questo disco – che per chi scrive è quest'anno il complemento "classico" all'hyper soul di Our Love di Caribou – è legato al significato più intimo di Otherness come di Kindness, altro portato che accomuna Adam e Dev, due musicisti che hanno incarnato il concetto di diversità come base per costruire e sviluppare arte e personalità e non come semplice moda o estetica fine a se stessa. 7.5/10 n o v e m b r e entrambi gli eserciti adoperano la strategia, è inevitabile che si produca una doppia campagna di intelligence mirata a sviare l'avversario, fatta di comunicazioni volutamente fallaci che rendano i calcoli sbagliati. Wilderness of Mirrors è quel gioco di specchi che rende imprendibile la verità, l'essenza vera. Lawrence English lo sceglie come titolo del lavoro che forse più di ogni altro opera sul pieno, anziché sul vuoto, sulla sovrapposizione cinematica dei layer dei droni. Il regime dello specchio, in teoria della strategia, porta però sempre a dire che la "coperta è troppo corta". Se copro una parte di me, ne scopro un'altra, e così via. In questo modo sembrano procedere le tracce di Wilderness of Mirrors, nascondendo con l'accumulazione, lasciando però che un elemento compositivo, una faccia del poliedro emerga e conduca il percorso di verità dell'ascoltatore, che cerca di perforare la psicologia del compositore. Non potrebbe reggersi questo gioco se non su un tappeto accessibile, e Wilderness of Mirrors non è mai ostico, è sempre emotivamente prendibile, specie quando il drone diventa canto celeste e ambientale (Another Body) o classicissimo viaggio cosmico (Forgiving Noir). Non crea shock, Wilderness of Mirrors (o ingloba le tattiche nella strategia, come in Hapless Gatherer), eppure – o forse grazie a questo – tiene l'attenzione dell'ascoltatore, trascinandolo nella trappola della propria strategia. 7/10 Alessandro Pogliani Gaspare Caliri Lawrence English - Wilderness of Mirrors (Room40,2014) Line and Circle - Line and Circle EP (Autoprodotto,2014) Genere: elettroacustica La principale differenza tra tattica e strategia è che la seconda prevede un'operazione di calcolo, di previsione delle mosse dell'avversario, mentre la prima è azione pura. Quando Genere: pop, indie Quando si dice R.E.M. è facile essere colti da una ventata di nostalgia mista a rispetto. Il rispetto per una band che ha mantenuto un'eroica dignità fino all'ultimo saluto, riuscendo 74 r e c e n s i o n i rious di Donna Allen, in territorio Apollonia / Wendy and Lisa, e Heartbreaker degli Zapp, anello di congiunzione della (d)evoluzione dal P-Funk di George Clinton al G-Funk di Tupac, passando per il genietto di Minneapolis. E dalla città del Minnesota proviene anche il duo Jimmy Jam e Terry Lewis (prima nei The Time dell'entourage di Rogers Nelsons, poi superproduttori mainstream da 26 nomination e 5 vittorie ai Grammy), qui responsabili dei tre degli highlights della compilation: You Used To Hold Me So Tight della disco queen Thelma Houston (1984), What's Missing di Alexander O'Neal (1985), che suona come un outtake di Cupid and Psyche degli Scritti Politti, e Change of Heart dei Change (era il 1984, Mauro Malavasi aveva già lasciato il progetto, ma Jacques Fred Petrus era ancora in sella, ed è lui che chiama Jam and Lewis a lavorare al progetto: Italo Disco rules!), che trova una splendida quadra tra Prince e Chic. Da segnalare ancora Fool's Paradise di Meli'sa Morgan, l'"emotio-electro" You Are In My System (poi ripresa da Robert Palmer) e Don't Stop the Music dei Bits N Pieces, ovvero Sly and Robbie, esempio di confluenza tra funk, reggae e hip-hop datato 1981. Per la cover inedita marchio di fabbrica Late Night Tales, Findlay (nella forma Sugardaddy in duo con Tim Hutton, featuring Ronika) sceglie Don't Look Any Further, altro brano campionato spesso e volentieri nella storia dell'hip hop. 7/10 r e c e n s i o n i Sebbene sia difficile scorgere nel leader Brian J. Cohen il carisma trasversale di uno Stipe, le armonie sono già quelle giuste: un contagioso contorno costruito da bassline dritte e quel chitarrino jangly che non stanca mai. Come per i Beach Slang (sul secondo EP in modo un po' meno evidente) con i Replacements/Goo Goo Dolls, anche qui ci troviamo davanti, in primis, a belle canzoni compatte e vincenti, non esclusivamente ad un revivalismo mirato. Vista poi la facilità con cui i Line and Circle sembrano saper condensare in quattro minuti tutto un universo di cui – obiettivamente – stavamo iniziando a sentire la mancanza, c'è da aspettarsi un album d'esordio di un certo livello. 7/10 Riccardo Zagaglia Lower Plenty - Life / Thrills (Mexican Summer,2014) Genere: alt, lo-fi, avant, folk Si chiamano come un quartiere di Melbourne e vanno considerati come una specie di supergruppo, pescando i componenti da realtà già apprezzate nell'ambito della scena alternativa cittadina. I Lower Plenty sono in quattro, l'aria inafferrabile e un po' sciupata che rimanda a slacker e post-rocker dei tardi 90s, percussioni, chitarre e voci ad abbozzare folk destrutturati e suggestivi. Tra le dieci tracce di questa opera terza – l'esordio Mean (uscito solo su audiocassetta) è del 2010, seguito due anni più tardi da Hard Rubbish – si avverte spesso un'aria da coordinate smarrite ed il conseguente, languido e tenace affidarsi all'impronta delle tradizioni. Come se questi ragazzi preferissero rinculare nelle calligrafie che non sono mai state realmente la loro moneta corrente ma nelle quali pure riconoscono possibilità espressive forti, cariche di potenziale. I folk resinosi e scomposti, i dispositivi ritmici frugali, sparsi e farneticanti, il retrogusto jazzy 75 n o v e m b r e forse più di tutte a primeggiare per quasi tre decenni senza evidenti passi falsi – o quasi, vedi Around The Sun – e mantenendo sotto la soglia dell'accettabile il classico – lungo – declino che colpisce un po' tutti i grandi (vero U2?). Nonostante questo, in pochi hanno tentato di seguire le orme della band di Michael Stipe riproducendo più o meno fedelmente certi stilemi che la formazione di Athens ha portato avanti lungo gli anni di attività, e per di più si parla comunque di casi isolati – leggasi singoli brani – all'interno di carriere che guardavano, di base, altrove: pensiamo alla famosa Selling The Drama dei Live, Saturday Nightmares dei Logh, People Help The People dei Cherry Ghost o qualcosa degli ultimi Decemberists. I Line and Circle (ed in parte i connazionali Cassettes on Tape), invece, partono realmente con un sound che ruota in tutto e per tutto attorno a quello dei R.E.M, in particolare quello dei primi dischi della band di Automatic for The People. La formazione californiana – con origini del midwest – aveva già dato prova del proprio intento un paio di stagioni fa con l'ottima Roman Ruins – forse ad oggi il loro apice – e ad inizio anno con la più angolare Mine Is Mine, ma solo oggi – finalmente – esce con un prodotto composto da più di due tracce (ben tre, per l'esattezza), ovvero l'omonimo EP d'esordio. Tre inediti: Wounded Desire, assolutamente in linea con le produzioni precedenti e con i R.E.M anni '80, ha fascino, melodia e il giusto retrogusto malinconico per diventare un piccolo oggetto di culto; Mesolithic con il suo ritornello più corale – e leggermente più prevedibile – scorre via lungo le strade americane con un gran bel tiro e arricchimenti vocali alla Mike Mills sul finale; la conclusiva e meno immediata Beauty Is Exhausting – titolo vagamente Morrisseyiano – cresce ascolto dopo ascolto. Genere: jazz, freejazz, experimental Nel vorticoso maelstrom di ristampe e pubblicazioni di materiale inedito per commemorare il centesimo anniversario della nascita di Sun Ra (la Enterplanetary Koncepts ha ristampato in digitale per iTunes ben ventuno album della sua discografia), In the Orbit Of Ra occupa un posto particolare, sia perché è l'unica raccolta di fatto del genio nato in Alabama ma con residenza su Saturno, sia perché a curarla è il suo sacerdote massimo ed erede del suo messaggio Marshall Allen. Un vero e proprio Greatest Hits, quello rilasciato dalla gloriosa Strut Records, che ripercorre la lunghissima carriera musicale della Arkestra e di tutte le sue incarnazioni, ed offre una tracklist interessante con alcune chicche inedite che faranno gola ai suoi esigentissimi appassionati. Spalmato su due dischi, In The Orbit Of Ra raccoglie alcune delle composizioni più famose di Sun Ra, come Angel And Demons At Play (i norvegesi Motorpsycho non hanno mai fatto mistero di essere suoi grandi estimatori), Plutonian Nights (una delle tracce preferite da Sun Ra, qui proposta in versione originale) e We Travel The Spaceways, ma anche tracce live catturate in Italia tra il '77 e il '78, come la versione estesa di Dance Of The Cosmo Aliens registrata a Milano e l'inedita Trying To Put The Blame On Me: voce e piano per planare in assenza di gravità nell'universo dell'afrofuturismo. Arricchisce il tutto una intervista al curatore, Marshall Allen, e la copertina di Wal Wilmer, storico illustratore delle cover di Sun Ra e firma prestigiosa della locandina dell'edizione 2013 del festival Ai Confini Tra Sardegna e Jazz. Alcuni estimatori potrebbero obiettare sull'assenza in scaletta di alcune tracce (Space Is The Place, vero e proprio anthem della sua produzione e chiusura abituale dei concerti è rimasta fuori) ma di certo non si può dire che In The Orbit Of Ra non faccia il suo sporco lavoro, offrendo un ottimo prodotto sia ai neofiti, sia agli appassionati della prima ora. 7.5/10 Andrea Murgia nell'incrociarsi di riff e voci con intenzioni psych più elusive che allusive, sono tutti aspetti che s'intrecciano a comporre uno stato d'animo generazionale ai tempi della metropoli che si riscopre periferica. Come se il massimo della interconnessione globale determinasse nuovi ambiti di solitudine, un nuovo alfabeto dell'irrequietezza. Sfilano quindi ballate agrodolci dalla consistenza onirica come Calculations (immaginatevi Cat Power stregata da un crepuscolo Yo La Tengo), chitarre imbizzarrite 76 di estro lisergico 60s come in Concrete Floor (memorie di Paint It Black destrutturate Velvet Underground) e arpeggi folk blues desertici come in Lots of Lows (bozzetto Lanegan finito tra le cianfrusaglie malinconiche di Howe Gelb). E' una mappa problematica e sfarfallante, meditabonda e suggestiva, punteggiata di retaggi vaghi ma ugualmente inconfondibili, come certa indolenza Robyn Hitchcock (On The Beach) o la dolcezza sorniona e strascicata r e c e n s i o n i n o v e m b r e Sun Ra - In The Orbit Of Ra (Strut Records,2014) di un Devendra Banhart (Go Down, la title track). Con la sua trama di approssimazioni ipnotiche e minacciose, Life/Thrills sembra parlarci di un presente urgente ma dimenticato. Come spesso capita ai buoni dischi. 7.2/10 Stefano Solventi Genere: pop "Franco Battiato è il nume tutelare del mio lavoro". Mario Venuti lo ha presentato così il suo ottavo album da solista. Un disco molto ambizioso, studiato e scritto a sei mani con il fido Kaballà e Francesco Bianconi. Un lavoro interamente imperniato sul declino della società occidentale, tra periferie e province (mentali e non). Un concept album, si sarebbe definito in altri tempi, tra Pasolini e i Savastano. Purtroppo però, il nume tutelare non basta a giustificare Il tramonto dell'Occidente. Un risultato che lascia indubbiamente con tanto amaro in bocca e per svariati motivi. E dire che le buone intenzioni ci sono tutte: il leader dei Baustelle che prova a dare una mano nel confezionare testi con un peso specifico maggiore rispetto al passato, i duetti con Alice, Giusy Ferreri, il succitato Battiato e Nicolò Carnesi, le sonorità che strizzano l'occhio all'elettronica pop anni '90. E poi c'è Mario Venuti che, piaccia o no, tra Denovo, brani propri e testi scritti per altri nel panorama mainstream italiano, si ricorda sempre con piacere. Un risultato, dicevamo, è però un po' deludente: come già accaduto con Recidivo (2009) e L'ultimo romantico (2012), il cantautore catanese ricade su sé stesso, in una poco credibile declinazione alternativa della sua musica che non riesce a comunicare nulla di nuovo, di diverso, né di pop, nel significato più semplice Gianluca Lambiase Mark Lanegan - Phantom Radio (Heavenly,2014) Genere: rock Arrivato al giro di boa dei cinquant'anni, Mark Lanegan continua ad essere una delle figure musicali più imprescindibili dei nostri tempi. Di questo abbiamo più volte parlato, sempre sottolineando come la sua musica sia stata in grado di attraversare indenne tre decenni, e di come lui stesso abbia saputo reinventarsi ad ogni uscita, regalandoci ottimi dischi e pure veri e propri monumenti di rock alternativo (ma non solo). Ad oggi, dunque, possiamo dire che il Nostro è definitivamente entrato a far parte dell'empireo dei grandi, ed è comprensibile come ogni nuovo lavoro generi una forte carica di aspettative: Phantom Radio, l'ultimo disco della sua carriera (e il terzo con la Mark Lanegan Band) si colloca precisamente in quest'ottica, ponendo alcuni interrogativi e domande utili per capire chi sia Mark Lanegan oggi, e quale sia il suo status nel panorama attuale. Diciamolo subito: Phantom Radio è il disco più debole dell'intero catalogo laneganiano. Non perché si tratti di brutto disco, ma perché si colloca ben al di sotto dello standard a cui siamo abituati, in primo luogo rispetto a quella deriva wave/electro cominciata tre anni fa con Blues Funeral e proseguita poi con l'ottimo EP 77 n o v e m b r e r e c e n s i o n i Mario Venuti - Il tramonto dell'Occidente (Microclima – Musica and Suoni,2014) del termine. Neanche Ciao American Dream, opaca versione italiana di Ashes of American Flags dei Wilco, riesce a risollevare le sorti di un lavoro che conosce nei duetti e nella opening track Il Tramonto i suoi momenti migliori. Quest'ultima dovrebbe essere il manifesto del disco, la dichiarazione di intenti, un miglioramento certo fa sperare e, invece, tutto nasce e finisce come una occasione mancata. 4.5/10 Genere: elettronica Aria di festa per i Mouse On Mars. St. Werner e Toma celebrano 21 anni di carriera – tanti ne sono passati dalla genesi dell'EP Frosch, debutto assoluto su Too Pure – e invitano amici e parenti per un'ora e mezza di colorata confusione electro. Aria di festa impacchettata in un doppio cd, che però si trasformerà in casino vero quando, per un paio di giorni (31 ottobre e 1 novembre 2014), i due saranno padroni di casa del festival appositamente organizzato all'Hebbel Theatre di Berlino. I primi auguri portano la voce di Mark E. Smith ed Elena Poulou (The Fall), già avanti di qualche bicchiere nel loro mix sbiascicato inglese-tedesco, e servono da incipit per una tracklist che in pieno stile freeform elettronico marcato MoM riesce a dispensare ibridi breakbeat, house, techno, pop e world-music senza che questi suonino mai discontinui o fuori contesto. Cercando le più diverse contaminazioni, il duo tedesco pensa questo album come un grande foglio bianco da dipingere a più mani. Ogni traccia, quindi, è il risultato di una collaborazione, di una sintesi di due gusti che si incrociano. Con Cavern of Anti-Matter si disegnano traiettorie di sintetizzatori liquidi sopra piste da ballo nu-disco (Fertilized, vicina alle declinazioni nordic di Prins Thomas, Todd Terje e compagnia), con Helado Negro si slegano ritmi house dai risvolti ispanici (Carca Jadas), con Atom TM si esplorano territori desolati di synth, vocoder e drum machine che ricordano certe cartoline firmate Air, 10.000 Hz Legend (Key My Brain). Il filone exotic, fatto di continui rimandi onomatopeici, innesti ritmici tribali, suggestioni post-baxteriane, così vicine a St. Werner e Toma (si veda alle voce Iaora Tahiti), viene ripreso in Queen Für Erschein (suonata assieme al batterista Dodo NKishi, da sempre coinvolto nelle produzioni MoM), NKANKA (con Yoshimio dei giapponesi Boredoms) e Ein Leben Wie Heu, dub electro-ragga di sitar e bleep sintetici (con Schlammpeitziger, aka Jo Zimmermann). I Junior Boys mettono sul piatto luccicanti maniere funk (Putty Tart), Laetitia Sadier scritture folk di attivismo politico anti-regime (My Toe Is On Fire), Matthew Herbert la sua magistrale abilità nella manipolazione della pasta sonora (Double Gum). Sponda Chicago, prima arriva il kraut-rock dei Tortoise (Shoe Fly), immaginifica diapositiva dall'oriente che si chiude tra gli ottoni e le chitarre in slide, poi Olivia Block (Pterion), inaspettato interludio di ambienti freddi e rarefatti. Le situazioni juke, footwork, wonky, sondate dal recente Spezmodia, vengono capitalizzate con i featuring di Machinedrum (Juice Clr 9), Funkstörung (Bon Djerry), Modeselektor and Mr. Maloke (Purple Fog) e Scratch Pet Land (Splymogym). Tanti nomi, tra endorsement espliciti e richiami ideali, per un tributo alla centralità dei Mouse On Mars rispetto alla scena elettronica globale degli ultimi due decenni. Jan e Andi avrebbero potuto sedersi in poltrona e confezionare un comodo best of. Invece, con 21 Again ci regalano un format fresco e imprevedibile, stimolante per chi l'ha prodotto, elettrizzante per chi oggi lo ascolta. 7.5/10 Elia Galli 78 r e c e n s i o n i n o v e m b r e Mouse On Mars - 21 Again (Monkeytown Records,2014) r e c e n s i o n i facendo pensare a un'insolita vena prolifica di cui quest'ultima prova è la conferma diretta. Phantom Radio però non convince fino in fondo per diversi motivi, uno su tutti la mancanza di quello che il nostro Stefano Solventi ha magistralmente definito come l' "imponderabile laneganiano": in altre parole, la capacità di scrivere canzoni in grado di strapparti l'anima, di mettere a nudo l'ascoltatore attraverso le profondità oscure di quella voce, imprimendola come un cazzotto sullo stomaco – o come una carezza – nelle orecchie e nel cuore. Phantom Radio, pur essendo un album discreto nel senso più stretto del termine, è dunque il primo in cui Lanegan mette del tutto da parte l'imponderabile, concentrandosi più su quelle che saranno le direzioni sonore del futuro, piuttosto che sui palpiti cantautorali di cui è uno degli ultimi grandi maestri. Conclusa dunque la dialettica di riscatto e tributo tra passato e presente, Mark Lanegan adesso ha voglia di mettersi in gioco con altre modalità, e – forse – non possiamo neppure dargli torto, vista la girandola di vette altissime a cui, in trent'anni, ci ha abituati. 6.5/10 Giulia Antelli C+C=Maxigross - An Instantaneous Journey With Martin Hagfors and C+C=Maxigross (Vaggimal,2014) Genere: rock, psych, folk Martin Hagfors è un pezzo grosso del folk rock psichedelico norvegese, che detta così non fa certo impressione, ma considerate le tante collaborazioni (con Jaga Jazzist e Motorpsycho tra gli altri) ed un repertorio che tra quello della sua ex band Home Groan, quelli con Askil Holm, HGH e gli album solisti lambisce i trenta album (tra l'altro molto apprezzati da pubblico e addetti ai lavori), capirete che non stiamo parlando del primo che passa. Ameri- 79 n o v e m b r e No Bells On Sunday, pubblicato giusto un paio di mesi fa. Proprio No Bells On Sunday aveva lasciato presagire l'eccezionale capacità del nuovo Lanegan nel declinare il cantautorato fumoso e perturbante di sempre verso le fascinazioni elettroniche e dei synth, regalandoci quei brani ammalianti e immediatamente riconoscibili che costituiscono l'essenza della sua ultima discografia. Un ottimo inizio che però in questo disco non ha portato ai risultati sperati, almeno per chi scrive: nonostante la buona qualità dei singoli brani, il limite dell'album è infatti la sua poca coesione, ovvero un mix di generi che pescano tanto dalla solita tradizione folk/blues americana, quanto da stratificazioni cibernetiche, così come da richiami black e gospel. Una varietà che, è bene ricordarlo, in passato è stata in grado di offrire capolavori quali Bubblegum – l'intro industrial di Methamphetamine Blues, la sensualità sospesa di Wedding Dress e Come To Me – e le nuove, interessanti direzioni del già citato Blues Funeral, ma che in Phantom Radio appare più come un ripescaggio casuale. A dimostrarlo, è appunto il grande spettro di stili che si concretizza ora nel gothic/traditional di Harvest Home, ora nel paradigma eighties di Floor On The Ocean, a cui fanno da contrappunto i synth plastici di The Killing Season e il pop beatlesiano di Torn Red Heart, quest'ultimo uno degli episodi più riusciti e atipici del repertorio di Lanegan. Il resto si muove nei territori dark-folk apocalittici di I Am The Wolf e Judgement Time, entrambe portatrici di quella simbologia biblica ed esoterica che ha caratterizzato il songwriting dell'ex Screaming Trees fin dagli esordi. A fine ascolto si ha la sensazione di trovarsi di fronte a una nuova fase, quella dello stacanovismo: negli ultimi tre anni il Nostro ha riportato in auge la sua carriera solista pubblicando ben tre album a suo nome, oltre alle solite partnership con musicisti più o meno illustri, Genere: techno, elettronica Prima di arrivare all'esordio sulla lunga distanza, Objekt, ovvero il britannico TJ Hertz, non ha sbagliato un colpo. Partito con una personale interpretazione della tech/half step per poi concentrarsi su un piano techno per basi spezzate e attitudine going-back-to-go-forward, il producer arriva all'esordio sulla lunga distanza su una PAN che ha appena sfornato un grande album – Koch di Lee Gamble – con uno di quei lavori elettronici che segnano il passo in modo ancor più determinante. Questo Flatland, che capitalizza le ultime incursioni sul formato EP con Objekt #3 e Hypnagogia (quest'ultimo in split con i Dopplereffekt del Drexciya Gerald Donald, uno degli eroi del ragazzo, assieme agli Autechre) rappresenta l'approdo a un'elettronica che sa muoversi tre le tradizioni sperimentali che vanno dai maestri techno (oltre ai Drexciya di Donald citiamo anche i Cybotron) a quelle britanniche di Aphex Twin e Mu-Ziq (braindance e albori IDM in testa) con profonda maestria, conoscenza dei software e hardware per fare musica e un tocco di calcolato luddismo. Hertz, del resto, ha studiato ingegneria ad Oxford e lavorato presso Native Instruments, la compagnia dietro a software per fare musica come Reaktor e Traktor, e tra gli utenti del Dubstep forum è conosciuto come uno dei draghi della produzione, una sorta di giovane Richard D. James insomma. E di fatto i paralleli con il genio della cornovaglia non finiscono qui, anche perché, ascoltando Flatland nei suoi momenti più estrosi ai pad, synth e drum programming, non può che venire in mente il discorso elettronico affrontato in Syro. Di filata, c'è sicuramente da rimarcare tutto un portato di pulsazioni e bleep asciutti e, ancor di più, quel gusto per la costruzione senza deflagrazione (di bassi) di ascendenza dopplereffektiana, non ultimo, qualche tocco d'astrazione "a gravità zero" che abbiamo sentito nei Jam City e nelle produzioni di Logos (Agnes Apparatus, First Witness). Il risultato della combinazione di questi elementi, condotto con senso estetico e un gusto morboso per entrare e toccare con mano i circuiti dentro le macchine, è davvero evocativo, a tratti sorprendente, equidistante rispetto ai concetti di futurismo e retrofuturismo. Disco da ascoltare rigorosamente spegnendo ogni device elettronico, osservandolo, magari, con il paradosso espresso dallo stesso producer, "da tutti i punti di vista contemporaneamente". 7.7/10 Edoardo Bridda 80 r e c e n s i o n i n o v e m b r e Objekt - Flatland (Pan,2014) r e c e n s i o n i non si tratti solo di un frutto estemporaneo. 7.5/10 Stefano Solventi Mega Bog - Gone Banana (Couple Skate Records,2014) Genere: pop, art, indie, lo-fi, dream, experimental Nello sconfinato panorama musicale è sempre un piacere avere a che fare con un nuovo artista o una nuova band con un proprio credo tanto originale quanto già ben definito. Rientra senza dubbio in questa categoria il progetto Mega Bog, ruotante attorno alla figura e alle visioni distorte di Erin Birgy, e capace di imporsi con decisione – seppur lontano dai riflettori – proponendo un incrocio seducente tra DIY/lo-fi indie e sax-driven sophisti-pop di stampo '80s. Come se mister hypnagogic Ariel Pink incontrasse i Blue Nile. Dopo un lustro passato sui palchi prevalentemente locali (Seattle e dintorni) registrando un numero indefinito di cassette, demo e uscite minori autoprodotte, i Mega Bog pubblicano finalmente la prima vera opera compiuta, Gone Banana, per Couple Skate Records. L'immaginario weirdo-slacker di stampo Captured Tracks votato ai crismi experimental viene ben riassunto nel singolo Aurora / 99: un minuto e mezzo di introduzione composto da tastiere e dal giocoso sax creano un'atmosfera sbilenca che si apre all'improvviso su una linea melodica semplice, sognante e vagamente retrò intervallata da sprazzi in cui troviamo di tutto, da situazioni spacey ad improbabili venature art-glam. Oltre ad Aurora / 99 meritano una menzione d'onore le chitarre jizz jazz (Erin Birgy può essere vista come la risposta femminile a Mac DeMarco) che si concretizzano in Goobie Krishna, la fumosità notturna sorretta dal sax – qui al limite dell'impro-jazz – di Cologne in The Night (ma manca tutta la componente 81 n o v e m b r e cano di nascita – è nato in California nel 1960 – tradisce un approccio alle capacità liberatorie e divinatorie della ballata psych che lo avvicina al Robyn Hitchcock più affabile o se preferite ad uno Stephen Stills in fregola lisergica, senza evitare contagi contemporanei. All'inizio di quest'anno ha pubblicato un nuovo album, Producers Politics Passion, per il cui tour di supporto ha incrociato armi e bagagli coi nostri C+C=Maxigross. Ne è scaturita un'intesa che oggi frutta uno split EP dal titolo emblematico: An Instantaneous Journey with Martin Hagfors and C+C=Maxigross. Sei pezzi pescati dalla discografia di Hagfors rivisti in una luce amniotica e fragrante, col tipico trasporto agreste ed entusiasta dei ragazzi di Vaggimal che diventa il miglior additivo possibile di canzoni calde, ipnotiche, intriganti. C'è il passo slanciato di Maximum Amount tra chitarre asprigne, diamonica, scorie Creedence e lirismo allusivo Donovan. Ci sono le vibrazioni radianti ed il tepore frugale con una strana apprensione che ti stringe la gola in Company Oil. C'è la pianticella acida cresciuta sugli Appalachi di The Woods. E ancora la west coast a trame fitte con la densità onirica a livello di guardia di Country Chris, e una Coffe and Cigarettes che si aggira blanda in un incantesimo amniotico di wah wah e cori cremosi, sovrapponendo archeologia 60s Pretty Things ed allucinazioni neopsych Verve. Infine c'è una Astrodome che ti abbraccia cosmica e accorata come un Crosby corroborato Steve Wynn, tra organi e il falsetto dei cori, fino al crescendo conclusivo parente in qualche modo degli Sparkelhorse altezza Cow. La combinazione funziona alla grande, lo sciroppo elettrificato e variamente freak di Hagfors trova nel sostrato terrigno dei C+C l'ingrediente perfetto per precipitare in una sorta di entusiasmo contemporaneo, nel qui e ora che inocula la concretezza nel sogno. Viene da sperare che Genere: hiphop A un anno di distanza da quell'esordio con il botto che è stato Run The Jewels, un debutto di una trentina di minuti distribuito – in prima battuta – gratuitamente in rete che ha fatto incetta di critiche entusiaste, la coppia formata da El-P e Killer Mike che si è fatta le ossa su R.A.P Music e Cancer For Cure, torna all'attacco con un secondo episodio semplicemente intitolato RTJ2, una copertina che rappresenta una alt take della precedente. Cambia l'etichetta e l'approccio però, dalla scanzonata ma affilata kermesse (che sapeva picchiare duro) dell'esordio – poi pubblicato da – Fool's Gold, il duo, sulla scorta dell'omicidio di Michael Brown, sale su un panzer di groove minacciosi, bassi cingolati (e i caratteristici synth-distopici-carpenteriani di El-P) sull'etichetta indie rap di NAS. Il southern per 808 pitchate à la bring-back-the-Lex-Luger-shit è stato messo da parte, al suo posto, un rinnovato sound, ancora più cupo, militante e meticcio che rimanda alla consueta tradizione dell'underground hip hop newyorchese (e East Coast) ed è, ancora una volta, la risposta più efficace alla cangiante produzione del Yeezus di Kanye West (Oh My Darling Don't Cry, Close Your Eyes (And Count to Fuck)). La dialettica "contro" del resto, quel tornare alla comunicatività stradaiola dell'HH con le basi sempre superlative di El-P (coadiuvato ancora una volta da Little Shalimar e Wilder Zoby) è anche qui il pane di un episodio numero due riuscito anche più del debutto e più corale nella sua realizzazione: in All My Life alla chitarra troviamo Matt Sweeney, in Close Your Eyes (And Count to Fuck) e All Due Respect, rispettivamente Zack De La Rocha, cantante dei Rage Against The Machine, e Travis Barker, batterista dei Blink 182. Tra una sciabolata in rima anti establishment ("Like any tyrant murderer gets replace'd, face it / The fellows at the top are likely rapists / But you like "Mellow out man, just relax, it's really not that complicated" da Blockbuster Night, Pt. 1), incitamento alla rivolta ("When you niggas gon' unite and kill the police, mothafuckas?" da Blockbuster Night, Pt. 1), critiche al sistema carcerario ("Liars and politicians, profiteers of the prisons", da Close Your Eyes (And Count to Fuck)"), un bel po' di talkin shit tra sesso, droga, violenza per continui rimbalzi tra il colto, la cultura popolare e lo slang ("Just spit it disgusting youngin', and hold your nuts while you're gunnin'" da Close Your Eyes (And Count to Fuck)) e un parterre di beat, smalti retrofuturisti, inserti "suonati" e campioni mai scontati, i Run The Jewels sembrano sempre di più i Walter White e Jesse Pinkman – leggi Breaking Bad – dell'hip hop: contro il sistema e totalmente frizzanti nel business, contatti trasversali e promozione compresa. Vedi le citate glorie 90s, ma anche la scafata rapper Gangsta Boo, Diane Coffee (batterista dei Foxygen ai tempi della scuola) e Boots (quest'ultimo in aiuto alla produzione in Lie, Cheat, Steal e in feat. per Early, oltre che producer del mixtape WinterSpringSummerFall e collaboratore nell'omonimo di Beyoncé), o l'attivazione di una campagna kickstarter per finanziare un remix album fatto di miagolii di gatti, il Meow The Jewels (davvero sarà così?), obbiettivo che peraltro è stato raggiunto e coinvolgerà ospiti non proprio scontati – sempre trasversali – come Just Blaze, Zola Jesus, Prince Paul, Baauer, The Alchemist, Geoff Barrow, Dan the Automator e (ancora) Boots. 82 r e c e n s i o n i n o v e m b r e Run The Jewels - Run The Jewels 2 (Mass Appeal,2014) Flow, inventiva nelle rime, temi trattati (ci vorrebbe un manualetto solo per raccontarli tutti), beat, tutto suona al posto giusto in una scaletta divisa a metà: cingolati nella prima parte, mano felpata nella seconda. Secondo centro pieno per Killer Mike e El-P. 8/10 blues-rock/groove per poter citare i Morphine) e il fiato imponente di Jacob Zimmerman dell'attacco di Year of Patience. Chiaramente siamo di fronte ad un progetto che soffre la sua natura iper-casalinga e che difetta ancora di un songwriting di un certo livello, creando una fastidiosa sensazione di disomogeneità lungo le dieci tracce del disco. Tracce che in più di un'occasione hanno le sembianze di bozze ancora da rifinire, come ad esempio la title track – il passaggio forse più teatrale e decadente, ma non nel senso buono del termine – e Chilidog. Lo skip è sempre dietro l'angolo. Una cascata di intuizioni e spennellate di genio da tenere a guinzaglio. Se e quando i Nostri ci riusciranno – senza però perdere punti alla voce imprevedibilità – sarà necessario toglierci il cappello. 6.7/10 Riccardo Zagaglia Melvins - Hold It In (Ipecac Recordings,2014) Genere: pop, rock, hardrock, art, punk Ai Melvins un paio di cose non sono mai mancate: l'autoironia, la capacità cioè di non prendersi mai troppo sul serio senza per questo essere dei cazzoni, e la voglia di sperimentare, ricercare, variare il canovaccio spesso e volentieri con collaborazioni a 360 gradi. In Hold It In l'incrocio tra le due traiettorie di cui sopra si materializza in un lavoro a 8 mani tra King Buzzo, Dale Crover e i due Butthole Surfers, Paul Leary e JD Pinkus. Come a dire, garanzia di qualità ma soprattutto di follia strumentale, oltre che rappresentazione plastica di una vicinanza e una affinità che va indietro nel tempo fino al mondo pre-internet. Ecco così tutto e il contrario di tutto, in un susseguirsi delle molte anime dei due duo: le cavalcate influenzate dalla personale idea di hard-rock cafone che i quattro sembrano condividere (Bride Of Crankestein, Onions Make The Milk Taste Bad, Sesame Street Meat, Piss Pisstoferson), passaggi a dir poco strambi in cui si nota la vena pop-storta dei surfisti del buco del culo (che è un nome magnifico l'abbiamo già detto?) come in You Can Make Me Wait (con tanto di vocoder improbabile), Brass Cupcake o la countryeggiante (?!) I Get Along (Hollow Moon), cafonate alt-metal anni '90 sempre eccessive e sopra le righe al punto da risultare quasi parodistiche (Nine Yards), suite che sembrano Frankenstein sonori nel mischiare tutto ciò che si è detto fin qui (The Bunk Up) e la lunghissima House Of Gasoline, hard-stonerrock massimalista che la AmRep provvederà a stampare in un 10" apposito e che ci rimanda indietro fino a Stoner Witch. Hold It In è un album interlocutorio, riuscito fino ad un certo punto – perché ai Melvins tutto si perdona, spesso pure troppo – ma che i fans della band di mr. Osbourne ameranno al pari dei tantissimi passi storti (non sbagliati, sia chiaro) e dei tanti divertissement dissemi- 83 n o v e m b r e r e c e n s i o n i Edoardo Bridda nati lungo una carriera ultratrentennale. Per la cronaca, questo dovrebbe essere il disco lungo numero 24. 6.5/10 Stefano Pifferi Genere: rock, synthpop, electro Lo scioglimento degli Lcd Soundsystem nel 2011 ha lasciato un bel vuoto nei fan. Nessuno dei componenti della band newyorkese difatti, si è fatto sentire con lavori solisti, se non James Murphy, che nel corso degli anni si è divertito a fare vaporose collaborazioni con il nome grosso di turno (come Gorillaz e Outkast), produrre album (Yeah Yeah Yeahs, Mosquito), colonne sonore (While We're Young), ma anche progetti impegnativi come le 400 ore di musica estratte dai match degli ultimi Us Open. In un 2014 che vede i batteristi mettere la testa fuori dalla sabbia – vedi il disco solista di Phil Selway dei Radiohead -, anche Pat Mahoney ha deciso di rompere il silenzio discografico e di mettersi in proprio, più o meno. Nasce infatti, con l'appoggio del boss di Run Roc Records nonché membro degli Juan MacLean, Dennis McNany, il progetto Museum Of Love. Dopo il remix di My Machines dei Battles e il singolo Down South, pubblicato a luglio 2013, il duo arriva con il primo omonimo album. Il disco, che prende il nome dal pezzo di Daniel Johnston, non poteva ovviamente uscire che su DFA. E già l'etichetta è un programma. Museum Of Love è un'ode di 40 minuti al synthpop anni '80, con qualche aggiunta rock tipica degli Lcd Soundsystem e sprazzi di dance. Facile aspettarsi quindi i numerosi giochi di tastiere (Fathers), rimandi alla disco più sincera (The Who's Who of Who Cares), ma anche bpm più felpati e ragionati (Down South) e pul- 84 Daniele Rigoli Musica per bambini - Capolavoro! (Trovarobato,2014) Genere: electro Provate ad immaginare l'operosità quotidiana di sbieco all'occhio di un bambino di 10 anni, provate ad immergervi in questa dimensione. Vi verrà da sorridere, due secondi dopo vi vergognerete di averlo fatto. È l'effetto che si ha quasi sempre quando si ascolta Musica per bambini. Lavori e mestieri veri e irreali, incastonati in una neo-scienza della fantasia come l'avrebbe intesa Munari o Rodari, sono i temi di Capolavoro! nuovo concept del piacentino Manuel Bongiorni. Si badi che l'occhio suddetto è una finzione bella e buona, ma come ogni finzione ha il pregio di sprigionare tanti significati mediante la logica delle combinazioni aggiornata all'oggi. In Capolavoro! si addensano miriadi di segni, concetti, espressioni rotte da rumori, pedinamenti sonici, comicità bellezza, ornamenti buggeranti e muri disarcionati da r e c e n s i o n i n o v e m b r e Museum Of Love - Museum Of Love (DFA,2014) sazioni minimali (Monotronic), con Mahoney che decide anche di vestire i panni del vocalist: la voce è quella di un David Byrne qualunque, ma sembra non prestarsi per nulla a certe regole danzerecce, soprattutto quando si concede inutili ripetizioni (In Infancy). Il disco scorre rapidamente, a tratti anche in maniera divertente, soprattutto durante The Large Glass, che sembra uscita da una movimentata jam session d'improvvisazione, con i suoi riff di chitarra, le percussioni traballanti e le tastiere impazzite; eppure la qualità dell'opera non vede grossi picchi, la produzione appare nella maggior parte dei casi troppo sempliciotta, quasi che questo progetto fosse nient'altro che un divertissement. Sufficienza raggiunta, ma nulla di più. 6.1/10 r e c e n s i o n i fatica Viola ne testimonia con grande maturità la piena attitudine artistica. Dal primo Battiato ai Bluvertigo più easy listening (presente, non a caso, Andy in Un grande Natale), dall'elettronica new wave a certe sonorità synth pop, dal più lucido David Bowie ai più sfrontati Soerba. C'è uno spessore poetico e al tempo stesso disincantato che rende questo disco un lavoro maestoso, complesso, sopraffino. Come uno chansonnier sopravvisto all'olocausto del tempo Nicodemo dipana interrogativi, risposte, eterne contraddizioni; nella liquidità post-moderna tira una linea per raccontarci dove siamo finiti (Almeno con la mente), chi siamo diventati (Legionari), quello che ci attende (Madre). Voce baritona, impasti sintetici che danzano su linee melodiche mai banali, team di spessore al suo fianco (Francesco Di Bella, Garbo, Denise, Luca Urbani, Raffaella Destefano), Viola è uno di quei sempre più rari e piacevoli casi dove la canzone d'autore italiana riesce a unirsi a suoni elettronici senza risultare banale, vecchia o poco credibile. La conclusiva Inverno merita poi menzione a parte, con la voce dei Madreblu sussurrata su una linea di piano mossa da sospiri. Un piccolo gioiello che ci lascia lì "ad infilare le mani nel vento, a sognare in controtempo". 7/10 Christian Panzano Gianluca Lambiase Nicodemo - Viola (XXXV,2013) Obake - Mutations (RareNoise,2014) Genere: cantautori, elettronica Musicista, cantautore, produttore, il salernitano Nicodemo naviga da anni nell'indie italico, che lo ha conosciuto discograficamente nel 2006 con Il treno per Bologna e nel 2010 con In due corpi, ma anche per l'ideazione del format web/tv Studio XXXV Live. Bassista raffinato e cantautore eclettico, Nicodemo intreccia mondi elettrici nella sua musica, e l'ultima Genere: metal, sludge, experimental Tre anni dopo l'ottimo esordio che li ha fatti conoscere proiettandoli nei primi posti delle classifiche di gradimento della stampa di settore, gli Obake di Eraldo Bernocchi e Lorenzo Esposito Fornasari (LEF) tornano con un nuovo album e qualche novità. La più evidente è sicuramente il cambio al basso elettrico, con l'uscita di Massimo Pupillo (tornato a pieno 85 n o v e m b r e strumentologia, chitarre e spasmi elettronici. Un intruglio radicale, se ascoltato facendo nel frattempo dell'altro in cucina, e invece una galassia rubiconda se ascoltata con tolleranza e desiderio di pazienza. Alcuni brani-lavori sono piccoli villaggi sintetizzati in pochi minuti, tanta energia, zero filtri e alcuni passi. Passo da teatro di burattini robot (Supplente per sempre), passo da fiaba (L'accalappia topi, Il Nipote elettronico), e fiaba – o meta-fiaba – in Italia significa Elio e le storie tese o Caparezza, passo farsesco (Il mille mani, L'idraulico aulico), passo elettro-pop e video games (Trombettiero, Arbitro), passo grind/thrash (Dottore) che è un tratto distintivo, anche se qui con qualche riff in meno rispetto al passato, passo glam (L'addestratore di Luigi) tra i più interessanti e motivanti. Ed oltre ai mondi che rapidamente gemmano come piante, c'è in fieri un imperfetto incastro concettuale che rende Capolavoro! se non proprio un capolavoro, l'opera più fruibile, rispetto al passato, e più gioiosamente operante nel reale che Musica per bambini abbia mai prodotto. Col tempo quella puerilità viene un po' meno, come viene meno la finzione dietro cui si maschera il viso di Bongiorni, cattivo e recitante allo stesso tempo. Ma è un mezzo, non un fine. 6.5/10 Genere: spokenword_reading, metal La collaborazione tra Scott Walker e i Sunn O))) parte dal 2008, quando Stephen O'Malley e Greg Anderson avrebbero voluto la voce del genio contemporaneo nella loro Alice, poi inserita in Monoliths and Dimensions, uscito un anno dopo; l'incontro si è concretizzato solo nel 2013, con Soused a siglarne il connubio, un album di fatto walkeriano, scritto con gli americani in mente. Trattasi di cinque pezzi di lunga durata, prodotti da Scott e dal fido Peter Walsh, nei quali la melodia e il recitato-cantato (caratteristica di Walker da un po' di anni a questa parte) restano più o meno i medesimi dell'ultimo capolavoro Bish Bosch (risalente al 2012), mentre la parte musicale diventa ancor più un insieme variegato, che supera le singole parti; in questo caso una delle basi è rappresentata dall'experimental metal dei Sunn O))) – nel disco è presente anche Tos Nieuwenhuizen – , che non si fa però predominante, ma si fonde in modo sorprendente ed organico con il mood narrativo e musicale dell'artista. L'opener Brando inizia melodicamente per scivolare man mano nelle atmosfere dark metal Sun O))), per riassumere poi la forma-canzone (se così si vuol chiamare) lirica ed espressionista che ben conosciamo; Herod 2014 nei suoi tesi dodici minuti si avvicina molto alle atmosfere ritmiche e dilatate del penultimo disco, con il suo mood cinematico e drammatico, così come Bull, mentre Fetish sembra provenire diretta da The Drift (2006). A chiudere Lullaby, a suo modo ninnananna melodica ed espressiva. Soused non cristallizza Walker in un cliché, come avrebbe potuto succedere dopo aver ripetuto la formula più volte, ma dà nuova linfa musicale ed espressiva alla sua musica; ancor meno oscuro dei due precedenti lavori, il connubio con Sunn O))) libera in un certo senso le atmosfere chiuse e oppressive del Nostro, che in questa occasione si fa più" leggero" ed accessibile, ancor più dilatato e narrativo. Sempre inarrivabile. 8/10 Teresa Greco 86 r e c e n s i o n i n o v e m b r e Scott Walker + Sunn O))) - Soused (4AD,2014) Andrea Murgia Paolo Baldini - DubFiles (La Tempesta Dischi,2014) Genere: dub Presentato alla stampa il 14 ottobre, Dubfiles è, più che un disco, una testimonianza del percorso artistico intrapreso da Paolo Baldini: un percorso che lo ha portato negli ultimi anni a diventare uno dei musicisti – ricordiamo che è stato bassista, tra gli altri, di Africa Unite, B.R Stylers – ma anche e soprattutto dei produttori di spicco della scena dub e reggae italiana. r e c e n s i o n i Eclettico e prolifico come pochi, Baldini è stato dietro al mixer per alcune tra le più interessanti realtà musicali italiane, spaziando dalle sonorità in levare dei Mellow Mood all'elettro-dub dei Dub Sync, fino ad arrivare a quel Primitivi Del Futuro (poi seguito nel 2012 da Nel Giardino Dei Fantasmi) che ha aperto nuove strade –tra reggae e world music- ai Tre Allegri Ragazzi Morti, gruppo cardine della scena rock indipendente italiana. Nato inizialmente come esperimento in studio e interamente registrato in analogico all'Alambic Conspiracy di Pordenone, il progetto Dubfiles è un vero atto d'amore per il dub: un disco dal respiro internazionale, credibilissimo, giamaicano e "classico" fino al midollo, eppure capace – in un continuo gioco di rimandi tra reggae, rap ed elettronica- di suonare fresco ed attuale, impregnato com'è di sincero amore per la musica e la cultura di cui si fa manifesto. Alle voci si alternano numerosi ospiti, capaci di dare colori sempre nuovi ad ogni singola traccia; musicalmente, per quanto tutto nasca sotto l'egida di Baldini, appare chiaro come il disco sia frutto di un lavoro a più mani, e per questo ricco di riferimenti e sfumature capaci di donare al tutto una ricchezza di suoni e arrangiamenti che fa di questo album una piccola perla per tutti gli amanti del genere. Tra gli ospiti: Jacobs L.O. e Jules degli Arawak, il portoghese Richie Campbell, il cantante e beat boxer australiano Dub Fx e il rapper albionico Rawz. 7/10 Enrica Selvini Paolo Benvegnù - Earth Hotel (Woodworm,2014) Genere: cantautori, rock, wave Dodici "stanze" per dodici personaggi che raccontano, meditano, immaginano, affrescano quadri cupi e febbrili, lirici e visionari. Que- 87 n o v e m b r e regime nei redivivi Zu) e l'ingresso di Colin Edwin, già nei Porcupine Tree e nel progetto targato RareNoise Records, Twinscapes, in compagnia di Lorenzo Feliciati. Otto tracce per quaranta minuti scarsi, Mutations mette la freccia e sorpassa il suo predecessore, surclassandolo da tutti i punti di vista: quello sonoro (incredibile la forza sviluppata dai quattro) e quello compositivo (dimostrando capacità di scrittura incredibili). Proprio come la creatura da cui prende il nome (nel folklore giapponese gli Obake sono esseri capaci di mutare forma), la band cambia aspetto di continuo, passando dallo sludge dei Melvins (emblematico il trittico iniziale) al prog raffinato degli ultimi Tool (Second Death of Foreg), passando dagli Ash Ra Tempel di Klaus Schulze. La voce di Fornasari, già apprezzata nel supergruppo Berserk!, merita particolare menzione: duttile e robusto, il suo cantato oscilla con nonchalance dal growl più estremo al pop sintetico di Infinite Chain, in cui il timbro ricorda incredibilmente quello dell'ex Japan, David Sylvian. Mutations rappresenta non solo un passo in avanti rispetto all'omonima prova d'esordio, ma un nuovo paradigma con cui le band di genere dovranno obbligatoriamente confrontarsi. 7.4/10 88 n o v e m b r e Radiohead tra riff d'archi e un tappeto serrato di chitarre e tastiere. O ancora il Tenco agreste e cameristico di Orlando ("perché tutto è un mistero da non rivelare/perché tutto ci parla senza farsi vedere") e quello malato Black Heart Procession di Hannah. Stupisce poi l'invettiva funky e sbrigliata di Nuovosonettomaosita, al limite tra spoken sloganistico e rap ("esiste un nuovo ordine nel caos"), col chorus che ammicca riffettini radianti di synth: improbabile per uno come Benvegnù, eppure tutto sommato riuscito. Ai nostalgici degli Scisma infine non dovrebbero dispiacere le tracce che aprono e chiudono la scaletta, entrambe attraversate da enfasi visionaria e trepidazioni soniche desuete: più sincopata e atmosferica Nello spazio profondo, vero e proprio patchwork di suggestioni folk-psych ed electro-wave la conclusiva Sempiterni sguardi e primati ("tuo figlio è pazzo, si è perso nell'inconsistenza di tutto/si è perso nel mondo che ha osato cercare"). Pur con qualche intoppo e una padronanza non sempre limpida della situazione, disco dopo disco Benvegnù sta acquistando la statura di un classico. 6.8/10 Stefano Solventi Pharmakon - Bestial Burden (Sacred Bones,2014) Genere: psych, noise L'esordio Abandon aveva colpito per quel concentrato di disagio portato all'estremo, soprattutto vista la provenienza: una poco più che ventenne Margaret Chardiet in arte Pharmakon, carina, biondina, un po' femme fatale, come possono essere le ventenni d'oggi, un po' ninfetta maudit; di sicuro, non l'efferata noise-maker che quel disco ci faceva conoscere, nonostante trafficasse da tempo con l'underground harsh-noise newyorchese: mai ci saremmo aspettati quella colata lavica di ma- r e c e n s i o n i sta sorta di concept a maglie larghe consente a Paolo Benvegnù di sbrigliare la vena con la consueta intensità letteraria, mentre la calligrafia sonora sembra avere ormai rinunciato agli slanci visionari più incandescenti, attestandosi dalle parti di una post wave arty dal codice genetico segnatamente anni Novanta. Tutto ciò per dire che Earth Hotel, quarto disco solista per l'ex-Scisma a tre anni dall'apprezzato Hermann, è un album riuscito con momenti di straordinaria bellezza, precisando però che il suo punto di forza sembra risiedere più che altro nella densità e stratificazione dei testi. I quali ascolto dopo ascolto rivelano passaggi dalla bellezza ricca di riverberi, implicazioni e insidie morali. Non si resta indifferenti leggendo versi come "sognare da immortali/seguendo una visione/cos'è la vita/se non amarsi", "ed è per questo che io gioisco nell'usarti", "preparo l'infinito/cento gocce dentro ad un bicchiere",e via discorrendo. L'ambizione a costruire qualcosa di poeticamente alto con gli attrezzi del rock è assieme il punto di forza, la sostanza e il principale limite di Benvegnù. Il suo è cantautorato rock che cerca di sfruttare al massimo le potenzialità del mezzo, ma in questa ricerca a tratti sembra smarrire il polso, trascinandosi in situazioni dove traballa l'equilibrio tra struttura e composizione (vedi la synth wave tesa ma un po' monocorde di Feed The Distruction e l'inerzia Notwist di Piccola pornografia urbana) oppure semplicemente inadeguate (vedi Life, ballata semiacustica in inglese con un retrogusto d'artificio quasi Extreme). Ma appunto, come dicevamo, resta un lavoro apprezzabile, con alcuni momenti davvero buoni. Ad esempio la wave atmosferica di Avenida Silencio, col suo patchwork di lingue, il bordone di synth quasi Joy Division e quel finale scontornato free psych. Oppure Divisionisti, con le palpitazioni sparse Stefano Pifferi r e c e n s i o n i Primus - Primus and the Chocolate Factory with the Fungi Ensemble (ATO Records,2014) Genere: rock, alt A chi poteva venire in testa di rifare la colonna sonora dell'originale Willy Wonka per intero? Ai Ween? Ai They Might Be Giants? A Sufjan Stevens? A Beck? Ai Residents? Forse, ma l'ha fatto Les Claypool. Quando il film uscì nelle sale, nel 1971, Les aveva 8 anni e ne rimase folgorato. E ossessionato. Dalla storia, dai personaggi, dalle immagini, quel mondo di colori, zuccheri, cioccolati, sciroppi, glasse, praline, farciture, gommosità e creme, fantasticamente grottesco, dolce sì, ma acidissimo, e a tratti anche amarissimo, mostruoso. Se il film con Gene Wilder è diventato subito un classico della cultura pop americana, e i brani più celebri della sua colonna sonora – Oompa Loompa a parte, Pure Imagination e The Candy Man Can – sono stati oggetto di decine di rifacimenti, parodie, citazioni da Sammy Davis Jr., a Jamie Cullum, ai Muppet, ai Simpson, a Mariah Carey, a Glee, gli stessi Primus non sono nuovi a operazioni del genere. Se ne trovano esempi significativi negli EP della band (Miscellaneous Debris e Rhinoplasty) e nei live della jam band Frog Brigade, sempre guidata da Les (tra le altre cose, alla maniera dei Phish, hanno rifatto per intero Animals dei Pink Floyd). Il progetto è stato lanciato in pompa magna con una splendida americanata la notte del New Year's Eve 2013: un concerto-carnevale che festeggiava il ritorno dietro i tamburi dell'unico vero batterista dei Primus, Tim "Herb" Alexander, a suon di costumi, frizzi, lazzi e snack personalizzati (Mr. Krinkle Bars, Professor Nutbutter Bars, Bastard Bars): "l'industria discografica è andata a puttane, ma le barrette di cioccolato ancora non potete digitalizzarle" (e del resto i Primus sono gli unici ad 89 n o v e m b r e lessere e disturbo. Ora la nostra eroina torna a far parlare di sé con un comeback sempre su Sacred Bones e addirittura un tour ad aprire per gli Swans di Michael Gira, uno che col disagio ha molto a che vedere. E come nell'esordio è la densità delle musiche di Pharmakon a farsi apprezzare, così come l'impianto strutturale che sta dietro il concepimento di Bestial Burden. Un urgente ricovero ospedaliero per una operazione importante diventa, nell'ottica distorta della sua autrice, l'opportunità per una indagine sul rapporto tra corpo e mente e sulla scissione tra il primo e la seconda. Con certe premesse, è naturale che, come la cover art illustra sapientemente, l'album divenga l'occasione per una auto-dissezione che metta in atto quella lotta, quello scontro tra due entità separate e conflittuali, pur nella appartenenza al medesimo essere. Una sorta di yin/yang interiore ad ogni essere umano che nelle (d)evoluzioni mentali della Chardiet si trasforma in una opprimente e putrescente landa industrial percorsa da fremiti, battiti, increspature e nervature che vanno a ricostituire quel complesso sistema appena sotto l'epidermide, per ri-creare il conflitto di cui sopra in forme se possibile ancor più ansiogene che nel citato esordio. Il tutto a furia di bordate noise in modalità groovey rotte dal selvaggio stridio della voce di Pharmakon, come nella lunga, estenuante, Intent Or Istinct o nell'harsh sottocutaneo di Body Betrays Itself (nomen omen di ciò che si diceva sopra), nel pulsare ritmico di Autoimmune o nello strisciare convulsivo della conclusiva title track. Non si ama né si odia, Pharmakon: la si ammira per quella iconoclasta capacità di porre sul piatto il malessere, quello vero. 7/10 Genere: dark, folk Dopo sei anni dal loro ultimo lavoro, tornano i Sonne Hagal con Ockerwasser, il loro quarto full-length, uscito il 13 ottobre 2014 per Luftschutz Entertainment e distribuito in Europa da Tesco Germany. Il ritorno sulla scena della celebre band neofolk tedesca non delude, anzi, Ockerwasser si presenta come uno dei migliori e più ispirati lavori realizzati dal gruppo. L'album è impreziosito, come consuetudine per la band, dalla collaborazione di diversi musicisti del giro neofolk europeo. In questo caso, a dar man forte intervengono Kim Larsen (:Of the Wand and the Moon:), Ericah Hagle (Unto Ashes), Leithana (Ordo Equitum Solis), Bo Rande e Matthias Krause (Vurgart). Band di culto, i Sonne Hagal – per quelli che ancora non li conoscessero- sono un gruppo formatosi a Brandeburgo nei primi anni novanta capitanati dal frontman Oliver, profondo conoscitore della mitologia germanica, dell'etenismo, come della poesia inglese e tedesca. I testi dei loro album, sempre profondi e molto curati, si prestano a diversi livelli di lettura, a partire dal nome della band, che si traduce in italiano come "sole/grandine" e suggerisce un conflitto tra forze opposte. La parola "hagal", oltre a significare "grandine" in tedesco, è anche il nome della settima runa descritta nell'Armanen "Futharkh" del celebre studioso di esoterismo Guido von List. Anche in questo ultimo lavoro non mancano i riferimenti esoterici: l'album si apre con The Shapes of Things to Come che introduce alle "forme delle cose a venire" attraverso una tensione tra l'alto mondo spirituale e quello degli inferi. Si tratta di un brano che ci ricorda anche l'assioma di Ermete Trismegisto: "Come in alto, così in basso, come fuori così dentro, come sopra così sotto. Tu dividerai il grezzo dal sottile e riunificherai tutte le cose in Uno". Queste parole sembrano guidare da sempre lo spirito dei Sonne Hagal e costituisco una buona chiave di lettura anche di Ockerwasser, disco alchemico sulla natura umana (anche sui suoi aspetti più deteriori) che, nel suo microcosmo, si rispecchia sempre in un più vasto macrocosmo. Nel disco, cantato in lingua inglese, non mancano profondi e ricercati riferimenti letterari. The Shapes OF Things To Come cita alcune parole della poetessa vincitrice del premio Pulitizer, Edna St. Vincent Millay. Il disco contiene anche una stupenda versione della poesia di Thomas Carew – poeta inglese vissuto cavallo tra XVI e XVII secolo – Mediocrity in Love Rejected, messa in musica per l'occasione dal gruppo. Nel brano Oliver, riprendendo le parole di Carew, canta "Then crown my joys, or cure my pain; Give me more love, or more disdain" ("Poi incorona le mie gioie, o cura il mio dolore; dammi più amore o più disprezzo"). Dal punto di vista musicale i Sonne Hagal, pur mettendo in scena un neofolk intimista, melanconico e introspettivo come da tradizione tedesca (Forseti, Darkwood), non disdegnano incursioni in sonorità più sperimentali: è il caso di Thyme, con le sue tastiere e i suoi delicati effetti che ben si sposano con il suono della chitarra acustica, o del finale di Gold, lasciato alle sole tastiere, prima dell'evocazione di Devon, con le sue sonorità di derivazione industial in sottofondo. Molto ben orchestrato, è anche il contrasto tra chitarra acustica ed elettrica in Of Dissembling Words, che ricorda esperimenti analoghi dei Sol Invictus. Nel disco non mancano convincenti ballate folk 90 r e c e n s i o n i n o v e m b r e Sonne Hagal - (Luftschutz Entertainment,2014) Marco De Baptistis avere/essere un genere musicale). Qui siamo nel più puro less is more à la Primus: enormi bassi slappati e violoncellati, chitarre elegantemente sgraziate tra Marc Ribot e South Park, batterie arte povera tra i King Crimson new-wave e la chincaglieria circense di Tom Waits. Ci sono anche un vero violoncello, suonato da Sam Bass (e a tratti pare di sentire il Captain Beefeheart più post-rock o i Pere Ubu di Laughing), e una giocattolosa sbilenca marimba, suonata da Mike Dillon (sarebbe questo il Fungi Ensemble del titolo). Per metà filastrocche – creepy – e per metà assalti hardcore – gli unisono di strumenti e voce – queste non sono cover, sono cover come dovrebbero essere le cover, ovvero interpretazioni, traduzioni di mondi diversi che parlano la stessa lingua, incontri a metà strada, fedeli agli originali e trasfiguranti (gli adepti del Club Bastardo troveranno tanti elementi sonori che raccontano della continuità concettuale del gruppo, epiche battute di pesca e critica all'american (way of ) life incluse). Il tutto come suonato dentro una scatolina di metallo, immerso in un'atmosfera euforicamente claustrofobica che non può non ri-tirare in ballo loro, 91 r e c e n s i o n i n o v e m b r e come, ad esempio, l'ottima After the Rain. Le voci sono sempre valorizzate e ben dosate, non solo per il buon contributo del danese Kim Larsen su ben tre brani, ma anche nei giochi d'incastri tra voci maschili e femminili, come avviene splendidamente in Gold, con il duetto tra Oliver e Ericah Hagle degli Unto Ashes. Una menzione speciale va anche alla voce di Leithana degli Ordo Equitum Solis nell'evocativa Morpheus, uno dei migliori episodi del disco. Il brano si muove tra tastiere oniriche, una tromba melanconica e campionamenti della voce di Franco Citti dal film di Pasolini "I racconti di Canterbury". Si tratta del secondo racconto del film, quello in cui il diavolo incontra l'inquisitore. Il disco si chiude con Assassins, in cui, tra suoni di colpi di fruste, i Nostri dicono la loro sulla natura umana utilizzando all'inizio del brano la registrazione di un'intervista a Carl Justav Jung in cui lo psicanalista, psichiatra e antropologo svizzero sostiene: "We need more understanding of human nature, because the only real danger that exists is man himself. He is the … should be studied, because we are the origin of all coming evil" ("Abbiamo bisogno di comprendere meglio la natura umana, perché l'unico reale pericolo che esiste è l'uomo stesso. Egli dovrebbe essere studiato, perché siamo l'origine di tutto il male a venire"). Dischi come questo dei Sonne Hagal dimostrano un profondo stato di salute della scena neofolk europea, capace ormai di superare gli stereotipi e le affettazioni che rischiavano di ingabbiare il genere. Ockerwasser è un ottimo disco che può riuscire ad emergere e farsi apprezzare anche al di fuori della cerchia degli appassionati di neofolk e del lavoro della band. Si tratta di una musica che, pur evolvendosi e trasformandosi nel corso degli anni, non ha bisogno di effetti speciali o di una pretenziosa – quanto vacua – ricerca d'innovazione a tutti i costi. I Sonne Hagal riescono ad avere un proprio stile personale costruito su solidissimi riferimenti culturali che oggi possono fare la differenza, soprattutto in un mondo sempre più superficiale e alla deriva. 8/10 i Residents. Disco minore, divertissement, di altissima qualità. 7/10 Gabriele Marino Genere: pop, funk Due dischi in uscita contemporanea segnano il ritorno del folletto di Minneapolis alla Warner, dopo 18 anni e una serie di controverse vicende contrattuali che lo avevano portato a cambiare nome. Ora la possibilità di riedizioni del catalogo e una nuova versione di Purple Rain fanno gola. Rumours su questo ritorno si sono susseguiti da inizio anno, seguiti da alcuni gigs a sorpresa di Prince in Inghilterra e da una serie di singoli. Art Official Age è album solista, mentre Plectrumelectrum è stato realizzato insieme alla touring band 3rdEyeGirl (Donna Grantis alla chitarra, Hannah Ford Welton alla batteria e Ida Nielsen al basso). Art Official Age è un classico princiano soul, funk e rnb, in cui l'artista rifà il se stesso più canonico, con qualche upgrade recente tra rap, musical, ballad, Nile Rodgers e Daft Punk (l'opener Art Official Cage); prodotto, arrangiato, composto ed eseguito insieme a Joshua Welton, è disco ideale per ripercorrere a grandi linee la carriera del Nostro, riecheggiando antichi fasti. Trattasi di una sorta di concept con voce narrante (di Lianne La Havas) in cui Prince si muove con agilità tra sussurri, ancheggiamenti e urletti. Il risultato è però abbastanza modesto. Plectrumelectrum potrebbe mostrare più di un elemento di interesse, virando sulla coralità e su un carattere psych funk rock, che dà nuova linfa al musicista. Laddove si attenua la megalomania del personaggio e viene dato spazio alla musica della band, migliora sensibilmente l'ascolto. C'è energia e tensione, unità di insie- 92 Teresa Greco Robert Plant - Lullaby and… The Ceaseless Roar (Nonesuch,2014) Genere: rock Ogni volta in cui Robert Plant pubblica un nuovo progetto discografico, e ci invita ad ascoltarlo e analizzarlo, ci mette a durissima prova. Al tempo stesso dobbiamo ricordarci chi è stato, un innovatore e un protagonista del rock, un cantante dalla voce inconfondibile, frontman di una band che ha contribuito davvero a scriverne la storia, e dimenticarcene per sfuggire alle solite categorie prestabilite e subito pronte per l'uso: con l'eccezione di No Quarter, il live del 1994 in cui rileggeva canzoni dei Led Zeppelin con l'ex sodale Jimmy Page, nessuno dei dischi solisti dell'artista britannico è rimasto comodamente ancorato ai fasti zeppeliniani. Dopo aver trascorso gli anni Ottanta a modellare un hard rock pregevole, per quanto spesso vittima di una strana ansia da prestazione, il signor Plant decise con Fate of Nations che da quel momento in poi sarebbe ripartito (quasi sempre) da zero, come un girovago dall'implacabile sete di sapere, contaminare, arricchire la propria tavolozza con colori presi in prestito da culture e contesti diversi (dal folk al bluegrass alle percussioni mediorientali). Lullaby and… The Ceaseless Roar, lavoro numero dieci e primo per la Nonesuch, non è r e c e n s i o n i n o v e m b r e Prince - Art Official Age (Warner Music Group,2014) me e voglia di divertimento finalmente. Pezzi cantati anche dal resto della band rendono il disco più vario. La via che Prince dovrebbe percorrere potrebbe decisamente essere questa, visti i buoni risultati delle esibizioni live con questa touring band. Anche se alla fine i pezzi non sono poi qualitativamente eccezionali, finalmente possiamo dare al musicista il bentornato e un sette come voto cumulativo. 7/10 r e c e n s i o n i – senza trascurare i lavori firmati JUJU con Juldeh Camara per la Real World. È un disco in cui si può perdere, che può far innervosire i puristi ma anche far incantare chiunque altro, questo Lullaby and… The Ceaseless Roar. È il risultato del lavoro meticoloso di un artista che non rinnega l'illustre passato (e perché mai dovrebbe?) ma che ha deciso di non vivere di nostalgia – e questo avviene proprio nell'anno in cui Jimmy Page ristampa, un po' alla volta, gli LP storici dei Led Zeppelin con materiale raro e inedito, con una nuova rimasterizzazione digitale. La voce di Plant oggi ha un fascino diverso: è consumata, più educata e meno esuberante, le performance sono calibrate eppur sincere. I testi sono ricchi di immagini evocative, spesso poetici, a volte personali; ognuno degli Spaceshifters ha dato l'apporto alla scrittura dei nuovi brani, partendo da un'idea (un riff, una melodia al pianoforte) e sviluppandola in squadra. Ottimo il successo finora riscosso, anche in Italia – nazione che ha un rapporto particolare con l'ex ragazzo che debuttò con Our Song, cover in inglese del classico La musica è finita di Umberto Bindi e Franco Califano e portato al successo da Ornella Vanoni – dove Lullaby ha debuttato al n. 10 in classifica. Uno dei suoi album migliori, e uno dei più intriganti del 2014. 7.8/10 Alessandro Liccardo Röyksopp - The Inevitable End (Interscope Records,2014) Genere: pop, elettronica È puramente un lavoro di vibrazioni, il nuovo disco dei Röyksopp. Quando parte si sente tutta l'eredità di Giorgio Moroder mescolata alla cupezza dei vocoder dei Daft Punk nella metronomica e cupa Skulls: un monito che diventa leit motif di tutto il disco. Svein e Torbjørn ci hanno infatti confermato che questo ultimo 93 n o v e m b r e un'eccezione alla regola ma anzi si rivela quanto di più vicino all'idea di disco "globale" che da tempo Plant stava accarezzando. Come fotografie contrapposte, scattate in vari angoli del mondo, motivi tradizionali vengono messi sottosopra al servizio di idee totalmente nuove (è il caso di Little Maggie) mentre i brani autografi, sempre firmati insieme all'intero ensemble che lo accompagna, spaziano come se niente fosse dalle atmosfere alla Lanois del singolo Rainbow - qualcosa a metà strada tra certi U2 e il Peter Gabriel di Digging In The Dirt, con un testo che incorpora la poesia Love Is Enough di William Morris – al country elettrificato di Poor Howard di derivazione Leadbelly passando per la byrdsiana Somebody There e le reminiscenze new wave filtrate in House of Love, in forte odore di Echo and the Bunnymen. A modo suo, Robert Plant si lancia anche in sottili autocitazioni: la strofa di Pocketful of Golden parte con "And if the sun refused to shine", quasi come Thank You, e c'è qualcosa di Nobody's Fault But Mine nel riarrangiamento della già citata Little Maggie. Nel gioiello Embrace Another Fall, stratificato ed etereo al punto da riportare al Bryan Ferry di Mamouna, torna la cantante gallese Julie Murphy con cui il nostro cantò Life Begin Again nel 2003 per una collaborazione con gli Afro Celt Sound System, mentre House Of Love sembra il naturale seguito del brano con lo stesso titolo comparso nel 1998 in Walking Into Clarksdale ("When I think about it now…"). Nonostante le citazioni fatte scivolare, il tutto suona fresco e audace, anche grazie all'aiuto di professionisti come John Baggott al piano e alle tastiere (già collaboratore dei Portishead, di Beth Gibbons e Rustin Man in Out of Season e di Alison Moyet in Hometime), Liam "Skin" Tyson che negli anni '90 era il chitarrista dei Cast e Justin Adams, musicista degli Invaders of the Heart di Jah Wobble e in studio con i Tinariwen Genere: rock, avant Spalmato su un lato solo del vinile 12" coprodotto da Wallace, Brigadisco, Unhip e PhonoMetak Labs, Don Kixote è l'ennesimo passo oltre per i due Shipwreck Bag Show Roberto Bertacchini e Xabier Iriondo. Strumentalmente parlando, ma anche dal punto di vista "ideologico". Come intuibile dal titolo, Don Kixote è una riflessione su uno dei personaggi più utopici, bizzarri, sognatori e deflagranti che la letteratura mondiale abbia mai creato; anzi, ne è una sorta di celebrazione, una specie di epifanica esplosione sotto forma di catarsi free-rock bruciante e portata agli eccessi, perfettamente in tono con l'indagine su una figura così sfaccettata eppure così umana nel suo eccesso di (lucida) follia legato alla voglia di conoscenza. E della follia i due non fanno a meno, travisandola sotto forma di velocità vertiginose e furia sonora, ruvidezze noisey e fratture ritmiche: il tutto condito da una teatralità fortemente marcata – le voci, in particolare quella di Bertacchini, al solito asincrona, sfasata, aritmica ma tremendamente suggestiva e caricaturale in certi passaggi – e da una attenzione al grottesco come forma di analisi e denuncia che raramente si riscontra altrove. Scorrono così, veloci come le vicende della strana coppia Don Chisciotte and Sancho Panza, le dieci tracce del lavoro, tra sbuffi no-wave (L'Hidalgo Forte) e assalti al calor bianco (Riparare I Torti, I Pastori E Gli Eserciti Nemici), cataclismi ritmici pronti a sfaldarsi in un trionfo cacofonico (Non C'è Storia Che Non Sia Cattiva) e avant-rock disgregato alla maniera degli Starfuckers (I Giganti Dalle Braccia Rotanti), disturbi elettrostatici e voci che si rincorrono (Prima Che Faccia Sera) e free-noise sporcato di (free)jazz (Né L'Interesse, Né Il Rancore, Né La Paura), a cui si aggiunge la conclusiva Dulcinea: vera e propria suite, racchiude in sé la metà della durata dell'intero lavoro e, svolgendosi tra blues astratto, polveri desertiche, pastorali arcaiche e deliqui ipnotici, diviene il fulcro dell'intero lavoro. Disco fulminante e micidiale, Don Kixote è, nonostante la sua brevità, album dal notevole spessore e dalla ottima riuscita, che consacra alla visione "fantastica" e folle dell'anti-eroe spagnolo il furore di due musicisti encomiabili nella loro continua ricerca. 7.5/10 Stefano Pifferi 94 r e c e n s i o n i n o v e m b r e The Shipwreck Bag Show - Don Kixote (Wallace Records,2014) r e c e n s i o n i Air-avec-Tellier. C'è poi qualche ricordo a Melody A.M. e a The Understanding in Save Me e in Coup De Grace e qualche altro sguardo al passato in pezzi più dancefloor come I Had This Thing. Il disco conferma tutto quello che già sapevamo di Svein e Torbjørn senza spostare la qualità, nè in alto nè in basso. Rileggendo l'intera discografia capiamo oggi come Junior e Senior siano serviti ad utilizzare elementi orchestrali e di arrangiamento al tempo considerati interlocutori, che insieme alle malinconie degli esordi definiscono oggi invece un piccolo grande classico. Grazie ragazzi, peccato che sia l'ultimo disco. Noi ci eravamo affezionati a voi, al vostro mondo e ai vostri dischi. Alla prossima, sia essa singolo, live o qualsiasi altra forma di spettacolo. 7.7/10 Marco Braggion Santo Barbaro - Geografia di un corpo (diNotte Records,2014) Genere: cantautori, wave, post-punk Si chiude una porta e si apre un portone, diceva qualcuno. I Santo Barbaro, dopo un (terzo) ottimo disco – purtroppo poco recepito dal pubblico – come Navi, avevano deciso per l'eutanasia. Non fosse che in punto di morte, la band di Pieralberto Valli e Franco Naddei, una volta sturato l'esistenzialismo ottundente ma necessario in quell'album, si imbatte nel corpo. "Corpo come antitesi alla prigionia della mente, come terra, spazio fisico e cosmico fatto di boschi, avvallamenti, cieli e isole in interazione con altri corpi-isole. Ma anche come unico mezzo per arrivare ad una altezza spirituale che ci fa viventi, solitari eppure mai soli". Da dove ripartire, dunque, per rinfocolare motivazioni ed entusiasmo? Nello specifico, dalla contingenza dell'interazione e dell'imprevisto, per celebrare quella variabile impazzita e un 95 n o v e m b r e lavoro in formato album è stato pensato con un mood da "canto del cigno", una specie di omaggio e addio all'oggetto musicale stesso, a quella scatoletta sonora che contiene da sempre le gioie e i dolori di ogni musicista, sangue e anima, intimo e pubblico. Ma come "finiscono" i due nordici la prima parte della loro carriera? Plastificandosi, diventando un monumento, una fotocopia robotica di se stessi, che trova il tempo di guardarsi indietro, mescolando gli anni '80, le pulsioni tardoadolescenziali di quando ascoltavano Torske alla radio (qualcuno potrebbe azzardare un parallelo con i Modern Talking in Monument), viaggiando su un territorio ovviamente influenzato dall'italo-disco, ma anche da tutto quello di cui loro sono stati profeti: quella scuola nordic che si è tenuta in vita grazie al rispetto del passato, all'uso sapiente di strumentazioni e mixaggi vecchi, ma non datati, di personaggi che hanno mandato avanti un'idea di pop applicato alla dance senza troppi fronzoli, se vogliamo balearico nella sua essenza. Un discorso generazionale per molti dei loro fan (e anche per chi scrive), fan che anagraficamente viaggiano sui quaranta e che hanno ballato nei noughties al suono degli epigoni/ compagni di banco Lindstrøm, Prins Thomas, GusGus e Todd Terje. Sven e Torbjorn sanno mettere le cose a punto, chiamano i collaboratori più indicati: l'amica Robyn, già ascoltata in qualche album precedente e nello split di qualche mese fa, la voce dark di Jamie McDermott degli Irrepressibles in quattro pezzi che portano una sensibilità post-soul contemporanea al tutto, Susanne Sundfør, cantautrice pop di grande successo in Norvegia (ex backing vocalist di Björk e già sentita nella colonna sonora di Oblivion degli M83), che sa colpire al cuore in Running to The Sea, e per chiudere Ryan James nella già citata Sordid Affair, che è piena guardacaso di francesismi già noti à la 96 n o v e m b r e Androide, Corpo non menti sembra quasi un brano in stile Black Rebel Motorcycle Club, Finché c'è vita rimanda all'anoressia sonica della PJ Harvey di To Bring You My Love, In memoria di nessuno è psichedelia narcotica di ottima fattura. Eppure, nonostante il linguaggio si sia fatto più riconoscibile, rimane ben presente quella inquietudine obliqua che abbiamo imparato ad associare alla band e che qui guadagna nuova linfa, pur mettendosi in gioco. Solo per dire che la scommessa ci pare, alla fine, vinta. 7.1/10 Fabrizio Zampighi Stars - No One Is Lost (ATO,2014) Genere: pop, rock I canadesi arrivano con No One Is Lost al settimo album, un traguardo di tutto rispetto. Passato il periodo d'oro (il brillante pop orchestrale di Set Yourself On Fire, 2004, e In Our Bedroom After The War, 2007), gli ultimi due dischi – The Five Ghosts, 2010, e The North, 2012 – li avevano visti sottotono, abbastanza appannati in intensità e qualità. L'indie synth-pop di Amy Millan e Torquil Campbell (che si alternano alla voce) è per fortuna in ripresa: l'ottimo opener From The Night, primo singolo, ce li restituisce in gran forma, in pieno dance club Ottanta. Il fatto di aver registrato il disco sopra un nightclub di Montreal ne ha indubbiamente influenzato il mood. Non mancano la giusta tensione emotiva e i pezzi azzeccati, in bilico tra dance e pop, sonwriting retrò e malinconie assortite, crescendo e chorus assassini, tutti elementi che ne hanno fatto la fortuna soprattutto negli anni passati. No One Is Lost ha spunti new wave (This Is The Last Time, Are You OK?), ballad (Look Away, Turn It Up, What Is To Be Done?), ma soprattutto tanto ritmo, che arriva nella fina- r e c e n s i o n i po' neorealista (in tempi di laptop a oltranza) che risponde al nome di "interplay". Registrare un disco live in brevissimo tempo, arrangiandolo sul momento con tutti i musicisti coinvolti e conservando quello che viene fuori, qualsiasi cosa sia. L'esatto opposto di quanto fatto per Navi, dove invece si era decostruito e ricostruito, con un lunghissimo lavoro in studio. Questa volta bastano pochissimi giorni di registrazione, un'approccio da buona la prima, un microfono panoramico o poco più, ma soprattutto una famiglia di corpi – in tutto nove – chiusa in un'unica stanza (il Cosabeat): oltre al duo Valli-Naddei, ci sono infatti Michele Camorani (batteria), Matteo Teio Rosetti (batteria), Diego Sapignoli (percussioni), Lucia Centolani (percussioni), Francesco Tappi (basso), Roberto Villa (basso) e Michele Bertoni (chitarra), parti integranti del progetto e non semplici comprimari. Il risultato di questa collisione di intenti è un suono fisico e in qualche modo atipico, per la formazione romagnola, un post-punk riconoscibile come tale, ma sufficientemente angolare da non suonare scontato. Ascolti giovanili che si trasformano in uno stream sonoro quasi sempre circolare, col marchio Santo Barbaro avvitato sulle ritmiche sghembe (Cosmonauta) o percussive (Pavlov), su certe atmosfere oscure e metalliche (una La necessità di un'isola che sembra rimandare all'immaginario dei Bachi da Pietra), nel cantato sussurrato, nei testi ermetici e reiterati. E' un sistema estetico che bada a far fremere l'attenzione di chi ascolta con lo spleen, più che con un approccio cerebrale, pur senza cadere nel tranello della banalizzazione. Il disco della "ripartenza" è anche il disco delle citazioni più riconoscibili (anche questa, una novità in un universo Santo Barbaro solitamente autarchico): il cantato di Valli sfiora i CCCP, ma anche i primi Diaframma, in Lacrime di le title track a riprendere i battiti di From The Night e a chiudere il cerchio, in un crescendo synth pop. Un inno a "speranza, paura, gioia, tristezza, sesso, amore, morte": "put your hands up because everybody dies / put your hands up if you know you're going to lose". Con la notte che esorcizza paure e fantasmi. Bentornati. 7/10 Teresa Greco Genere: rock Tre anni sembrano essere diventati lo iato standard tra un disco e l'altro per la band torinese, giunta con questo Una nave in una foresta al titolo numero sette in diciotto anni di carriera. Salvo qualche aggiustamento – il piglio sensibilmente più brusco, una certa libertà nell'utilizzo di espedienti sonici – si tratta di una riproposizione a tavoletta del Subsonica-sound, un precipitato synth-wave con ammiccamenti techno, downbeat e jungle, gli anni Novanta che celebrano la simbiosi tra sentire rock e movenze digitali, alla luce (faretti radenti, sincopati, obliqui da labirinto disco) di una consapevolezza sociale che sterilizza nella culla le tossine del disimpegno. Potremmo discutere su quanto il loro "impegno" abbia finito per disinnescarsi sulla grammatica del politically correct, implodendo in una sorta di bozzolo poetico che s'infrange sulla causa prima che diventi lotta, ma per quanto mi riguarda non è questo il punto. Il punto è che nel frattempo il fronte ci è passato sopra la testa, quelle sonorità hanno perduto la presa col presente, sono rimbombi di retroguardia che fanno scattare l'allarme solo di chi ha preferito restare a guardia del proverbiale isolotto in mezzo all'oceano dei rivolgimenti stilistici. Scelta lecita, ma che diventa peccaminosa quando s'illude di possedere ancora i codici più Stefano Solventi Surgical Beat Bros - Surgical Beat Bros (From Scratch,2014) Genere: avant, impro, elettronica, mathcore Attivissimi nella scena romana sperimentale con i loro progetti madre Neo, Mombu, Germanotta Youth e Pharm, Antonio Zitarelli e Fabio Reeks Recchia (rispettivamente batteria e macchinari) convogliano forze e lucidissima follia nei Surgical Beat Bros. 97 n o v e m b r e r e c e n s i o n i Subsonica - Una nave in una foresta (Universal,2014) aggiornati per sbloccare il rompicapo della vita moderna. Accettato quindi di giocare la partita con indosso la casacca dei nostalgici, va detto che il disco funziona esibendo le qualità note, su tutte la capacità di congegnare sussulti assieme chitarristici e digitali sollevati da un respiro melodico ad alta temperatura in cui riesci ad avvertire il germe sano della convinzione: è buona Attacca il panico (spasmi rock strattonati breakbeat), intrigante Ritmo Abarth (capricci arty e incastri potenti) e suggestiva Licantropia (radiazioni bluesy in una foschia rap). Anche i limiti sono gli stessi, ovvero una calligrafia che va oltre il riconoscibile inciampando nel prevedibile, prodigandosi in esiti melodici didascalici che il buon Samuel non riesce (non ne ha i mezzi) a riscattare. Si senta come in Specchio ciò che poteva/doveva essere sardonico finisca per stemperarsi in un'arguzia agrodolce, o come ne I Cerchi Degli Alberi certi interessanti cubismi robotici vengano neutralizzati da un ritornello che trasuda radiofonia sciropposa. Più accettabile – perché sfacciata – l'orecchiabilità del singolo Di Domenica, cartiglio 80s con le giuste vibrazioni malinconiche come dei Depeche Mode sognati durante un coma vigile iperglicemico. Non si può rimproverare ai Subsonica di essere i Subsonica. Ma loro un po' ci marciano. 5.8/10 Genere: cantautori, dream, folk The Innocents era il titolo originale del film di Jack Clayton del 1961, con Deborah Kerr, da noi ribattezzato Suspense e incentrato sul Giro di Vite di Henry James. Capolavoro dell'horror suggestivo e suggerito, sul modello noir della RKO, dove nulla è esattamente come sembra. Una caratteristica che si addice anche a Natalie Mering. Il suo folk eterno, fuori dal tempo e dallo spazio, sembra la calligrafica riproposizione di secoli di musica già sentita. Tutto molto chiaro e semplice in superficie, salvo per chi voglia scendere nel dettaglio e scoprire la maniacale complessità delle trame di una musica che al secondo lavoro maggiore (le prime prove sono davvero troppo underground per essere prese in considerazione), piazza una collezione di dieci canzoni da vertigine. Sarebbe stato difficile per chiunque dare un seguito ad un piccolo capolavoro come The Outside Room, tanto che Natalie non ci prova neppure. Il modello non sono più Nico o Catherine Ribeiro, perché non esistono più modelli predefiniti. The Innocents è un lavoro che non nasconde la sua ambizione, che è quella di disegnare i contorni della propria musica, con una grafia che sia la propria e di nessun altro. Un traguardo che non raggiunge quasi nessuno, specie negli anni dell'appiattamento generalizzato sui modelli del passato. Ci è riuscita solo Fursaxa con Kobold Moon e ci riesce ora Weyes Blood con madrigali folk dalla melodia all'apparenza semplicissima come Land of Broken Dreams e Hang On, dove c'è sempre qualcosa pronto ad agitare una tela che si pensa di conoscere: un campionamento, una doppia voce, una parte d'organo e, quasi come a sottolineare lo status, ormai raggiunto, di autrice maggiore, non ci si fa mancare neanche il piano intellettuale e dreamy di Some Winters, e la chitarra liquida sul modello di Tim Buckley di Summer. Ma il vero trademark è l'umore arcaico, quasi medievale, sempre presente in tutte le sue composizioni, attraverso piccoli o grandi elementi, come se fosse una venatura sinistra, che a volte è più pronunciata, come in Requiem For Forgiveness o February Skies, di fatto due romantiche ballad per amanti eroinomani, a volte più nascosta come nei giri di una chitarra apparentemente solare, vedi il caso di Ashes. Poi ci sono gli episodi del tutto alieni: il fingerpicking magico di Bad Magic, che la eleva al livello della Bridget St. John di Ask Me No Questions, e Montrose, strumentale malinconico, quasi in presa diretta, che testimonia anche del periodo di creazione di queste canzoni, sola in una stanza, in completa solitudine, lontana da un'attualità social-connessa che respinge. Erano anni che non si sentiva un disco folk così coinvolgente e riuscito, probabilmente dal Colour Green di Sibylle Baier, che certo non possiamo definire figlia dei nostri anni. La saggezza nel sangue di Natalie Mering ha radici profonde e qualità antiche. 7.6/10 Antonello Comunale Miscela distruttiva di elettronica e free-afrobeat-metal ribattezzata dagli stessi protagonisti come pop chirurgico, Surgical Beat Bros si 98 discosta notevolmente dalle produzioni passate dei due musicisti, proponendo una formula compositiva estremamente complessa r e c e n s i o n i n o v e m b r e Weyes Blood - The Innocents (Mexican Summer,2014) Andrea Murgia Flaming Lips - With a Little Help From My Fwends (Warner Music Group,2014) Genere: rock Da tempo annunciato per lo sconcerto e la curiosità di fan e addetti ai lavori, ecco il tributo al Sergente Pepe organizzato dai quanto mai zuzzurelloni Flaming Lips, che per l'occasione hanno coinvolto una pletora di "fwends" tanto importante quanto imprevedibile (da J Mascis a Foxygen, dai My Morning Jacket a Moby). Partiamo però dal dato più clamoroso e chiacchierato: il coinvolgimento di Miley Cyrus in Lucy in the Sky With Diamonds e A Day In The Life. Che detta così suona un po' come far riscrivere On The Road a Fabio Volo. Ebbene, il punto mi sembra proprio questo, cioè il collassare di tutto – anche di questi archetipi sommi del pop-rock arty – in un calderone pop che omologa linguaggi visionari e congetture radiofoniche, follia e mestiere, mistero e sensazione. Sensazione, già: da un pezzo sembra che i Lips inseguano soprattutto il gusto della performance sensazionale, del gesto che scuota il flusso dell'intrattenimento standard proponendosi come alternativa straniante, al limite persino aliena (col rischio di scadere nel sottoprodotto del sensazionalismo, ovvero una blanda trasgressività). Ma resta pur sempre intrattenimento, festa dell'avvenire sonico come spettacolo d'arte varia in technicolor, petardi, megafoni e cotillon. Il limite di tutto questo sta nell'aver sostanzialmente già sperimentato tutto il repertorio, tanto che sembra di assistere a replay su replay dei concerti-happening del periodo Yoshimi, con la differenza che allora facevano fatica a conquistare passaggi su MTV mentre oggi è più o meno quello il target dichiarato. Se però la faccenda rischia di sembrare arida è perché il versante musicale sembra essersi attestato su soluzioni che non riescono più a stupire, una specie di calligrafia a base di vampe, sincopi, sbuffi, svalvolate siderali e ghirigori androidi che, pur conservando una grana dadaista, si profila sempre più come una parata di cliché. Vedi lo scenario acido e malfermo di With a Little Help From My Friends, col call and response tra il fosco e lo psicotico dove Coyne gioca all'invettiva scorticata un po' a gratis. Quanto a Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band (con My Morning Jacket, Fever the Ghost e J Mascis), timbra il cartellino stritolando bassi in un viluppo di falsetti e vocoder senza mai oltrepassare la soglia del prevedibile. Fa meglio la versione reprise (a cura di Foxygen and Ben Goldwasser), trasfigurata lo-fi sotto una coltre sonica electro funky, col condimento di assolo acido, barriti di trombone e bambagia fuzz. Peccato perché The Terror aveva un indirizzo sonoro ben preciso e strutturato, e persino sotto l'egida Electric Würms i Nostri hanno dimostrato di saper svariare ancora in maniera convincente. Würms che tra l'altro rifanno qui Fixing a Hole disim- 99 n o v e m b r e r e c e n s i o n i ma, inverosimilmente, ballabile e fresca. Se già in precedenza i Battles mischiando funk, indie rock, post rock e elettronica avevano già in qualche modo sdoganato l'ancheggiamento negli ambienti colti del math rock, il duo romano osa di più, rendendo accessibili strutture metriche articolate e tortuose trasformando, in poche parole, l'indanzabile in danzabile (No! e Techno Ruzzle su tutte). Simili per attitudine agli inglesi Three Trapped Tigers, ma orientati più verso il free jazz sperimentale, i Surgical Beat Bros (bravissimi anche dal vivo, dove riescono a sprigionare tutta l'energia espressa su disco) superano agilmente la difficile prova del disco d'esordio, portando una ventata di freschezza nella scena sperimentale italiana. 7.2/10 n o v e m b r e Stefano Solventi 100 The Youth - Nothing But… The Youth (Dirty Water Records,2014) Genere: rocknroll, pubrock, garagerock Saranno stati i primi anni Duemila quando chi scrive lesse su una rivista il nostro Stefano Solventi (i lettori perdoneranno il carattere inter nos della cosa, ma è giusto dare a Cesare ciò che è di Cesare) porre la fatidica domanda: "Vi siete mai chiesti se arriverà mai un giorno in cui questa cosa chiamata rock'n'roll comincerà ad annoiarvi?". Domanda legittima, a ben pensarci. Persa la sua centralità – come dicono i più avveduti – il rock ormai pare un simulacro poco originale e poco rappresentativo di quello che una volta era il suo referente principale, ovvero la gioventù. Da qui tutte le teorie retromaniache, tutte le considerazioni sul peso dell'originalità e del nuovo. Tutto giusto, tutto a posto, tutto sensato. Poi però arriva un dischetto di un quartetto esordiente danese – The Youth si fa chiamare – e tutte queste considerazioni saltano per aria, e il revival, il passatismo, lo sguardo rivolto all'indietro paiono cose non solo belle, ma giuste. Dentro ci trovi l'r'n'b, i Kinks, il garage, i Troggs, tutto un mondo semplice di chitarre battenti e senza fronzoli, ritmi dritti, canti e controcanti, e il piede non smette di muoversi. Per carità, nessuna rivoluzione, nessuna rivelazione che scarnifichi il passato e lo faccia sembrare nuovo. Davvero, ai The Youth pare davvero importare poco. A loro sembra che i Sixties siano qui ed ora. Sono tredici brani per poco più di mezz'ora che non vogliono convincere nessuno, non vogliono conquistare arruffianandosi l'ascoltatore: sono brani in cui il marchio del "se vi piacciono questi suoni amerete questo disco" è impresso con forza. Ballabili, a volte rabbiosi, a volte gioiosi, a volte entrambe le cose, i pezzi qui contenuti (dall'iniziale Come On – tra i migliori episodi, un garage-roll a rotta di collo, trascinante – al r e c e n s i o n i pegnandosi tra brezze spacey e bassi brumosi come degli Air nevrastenici: qui e in Within You Without You (per la quale si sono scomodati Birdflower e Morgan Delt), col suo slancio psych suadente che impasta folk, elettricità ed elettronica, sembra che le potenzialità della canzone tornino per un attimo al centro della scena, forse proprio perché si tratta di pezzi relativamente meno noti, in ogni caso i risultati sono apprezzabili. Quanto al resto, potremmo sintetizzare come una serie di tentativi abbastanza estemporanei e non propriamente geniali di scompaginare tracce impresse a fuoco e a fondo nella memoria personale e collettiva. A qualche momento gustoso – il freak folk sotto metadone di Getting Better, l'impertinenza synth wave di Lovely Rita, il cabaret post-punk di Being for the Benefit of Mr. Kite! – corrisponde un generale senso di inadeguatezza, a partire forse dall'idea di coinvolgere così tanti personaggi, le cui diverse attitudini hanno finito per smorzarsi nelle linee guida del progetto. L'aridità emotiva cui approda When I'm Sixty-Four (per la smania di sacrificare il trasporto swing dell'originale sull'altare del disincanto ludico contemporaneo) e la decostruzione didascalica della succitata Lucy sono forse gli episodi più avvilenti, mentre la altrimenti epocale A Day In The Life dopo essersi piegata ad una variazione hip hop sottovuoto per la voce felina e imbronciata della Cyrus, può almeno vantare l'intuizione migliore del disco, ovvero un disinnesco improvviso piuttosto che confrontarsi con la deflagrazione atomica di pianoforti dell'originale. Non resta che augurarsi che venda comunque moltissimo, visto che gli incassi verranno devoluti a The Bella Foundation, un'associazione di Oklahoma City che si occupa di salvaguardia e adozione di randagi. 5.5/10 pub rock di Bubblegum, da About To Run in cui i danesi paiono i Black Lips migliori alla dolce, sconsolata, Baby I'm Back, che si direbbe vergata da Question Mark and The Mysterians) rappresentano un rimando continuo ad una nostalgia lievissima che trascolora nella gioia, nella fortuna, nella consapevolezza che no, il rock'n'roll, per quanto invecchiato, pare davvero non riuscire ancora ad annoiarci. 7/10 Andrea Macrì Genere: rock, orchestrale_sinfonica Sulle ambizioni di Jack Barnett si è già detto molto, forse tutto, da quando nel 2008 i suoi These New Puritans esordivano con Beat Pyramid. Se ne è parlato per le dichiarate intenzioni di costruire un suono complesso, multisfaccettato, che attingesse tanto all'ambito pastorale così importante per il pop-rock anglosassone, quanto all'ambito della classica (e anche qui, il suono inglese della classica del Novecento è intriso di pastoralità, certo declinata in maniera diversa da quanto fatto da Radiohead e Robert Wyatt). Una tensione verso un marchio sonoro che comprendesse un carattere di certo non diretto, umbratile e variegato, che macinasse molte influenze musicali, antiche e moderne, nuove e vecchie, sempre però con l'impressione un po' snob, un po' intellettuale, che andasse bene tutto meno che ciò che è diretto come una struttura poprock strofa-bridge-ritornello. L'esplorazione è proseguita con le opere numero due, Hidden, e tre, Field of Reeds, che nonostante conservassero tutta l'ambizione dell'esordio, non sono state in grado di chiudere il cerchio e muovere un passo davvero concreto verso la realizzazione di ciò che appare chiaro nella teoria di Jack n o v e m b r e r e c e n s i o n i These New Puritans - Expanded. These New Puritans Live At The Barbican (Infectious,2014) Barnett. L'occasione migliore per misurare queste ambizioni è, o dovrebbe essere, questo E-X-P-AN-D-E-D, una serie di concerti in cui al nucleo originale è affiancata sul palco un'orchestra di 35 elementi, un coro di 8 voci (4 maschili e 4 femminili), ovveero il Synergy Vocals, oltre a una vocalist (Elisa Rodrigues). Quella data alle stampe è la registrazione della serata del Barbican della scorsa primavera, dove la band ha eseguito per intero (e nello stesso ordine del disco) i brani dell'ultimo Field of Reeds, più alcuni estratti dai dischi precedenti. C'era cioè l'occasione di espandere verso qualsivoglia direzione (visto anche il budget a disposizione della "band indie con il budget del mainstream") il materiale già sedimentato e dargli qualsivoglia forma. Magari anche quella che collima con le ambizioni di Barnett e soci. Ma non è successo. Il programma non si discosta, nella struttura e nella forma, da quello che già si è sentito su disco: siamo di fronte a un discorso musicale detto bene, ma che dice poco, per parafrasare Caliri in sede di recensione. A cominciare dalle melodie, che non colpiscono, che non hanno una qualità tale da essere scavate, analizzate, stirate, compresse, manipolate, con tutte le sfumature timbriche e modali possibili, con tutto l'arsenale a disposizione. Non si vorrà fare pop, ma non è che le melodie o, meglio, le linee melodiche (anche a brandelli) contino di meno nella contemporanea, sia essa seriale, atonale, neoclassica o qualsivoglia sotto genere postmoderno. E già questo limite, per chi scrive, era evidente in un missaggio di Field of Reeds che annegava la voce fin quasi a farla scomparire, quasi un'ammissione di resa delle linee vocali nei confronti del tutto, dove però l'impressione che se ne ricavava in sede di album era di un leggero fastidio. Questo è ancor più vero per i brani che già sembravano noiosi in prima battuta: l'aggiunta dell'orchestra non 101 n o v e m b r e 102 capiamo per nostri limiti: ora è manifesto che non c'è niente da capire. 5/10 Marco Boscolo This Will Destroy You - Another Language (Suicide Squeeze Records,2014) Genere: post-rock Post rock. Ogni volta che si mette su un disco vagamente post rock (o anche pienamente post rock), piomba sempre al centro del cervello la medesima domanda: ha ancora senso, oggi? Si rischia, come per molti altri sottogeneri del rock e di molte altre discipline, di scivolare nella speculazione sterile, con il risultato che nulla ha senso quindi tutto ha motivo di esistere. Perché però col post rock questo discorso è più pronunciato? Come mai si vedeva in esso – in modo grossolano – la fine di tutto quel che c'era stato prima? Perché la sua fiamma è durata poco, alimentata da un lato da alcuni discreti se non ottimi risultati artistici e, dall'altro, da una critica che aveva bisogno, per semplicità di comunicazione, di un nuovo genere? È questo il contesto – fatto più di domande che di fondamenta solide – dal quale spunta in rilievo il nuovo disco dei This Will Destroy You, quartetto texano qui al terzo album in studio. Sotto la supervisione di John Congleton (quest'anno, ad esempio, già a lavoro coi Cloud Nothings), la band sfodera un album che, più che sull'estetica piano-forte, sulla forza dello strumentale, sulle strutture aperte – tutte cose che ci sono, per carità –, va letto dal punto di vista emotivo, etico, interiore. Rispetto ai compagni di merende sonore (gli stracitati Explosions In The Sky o gli Isis), i TWDY sono meno violenti a livello ritmico e chitarristico quando decidono di picchiare forte, e lo sono anche rispetto ai dischi precedenti. Risultano invece ugualmente profondi quando r e c e n s i o n i li ha resi più scintillanti. Usare tanta strumentazione, mescolando digitale e analogico, non significa raddoppiare le linee melodiche sfruttando l'unisono. Non è obbligatorio passare al confronto con le variazioni sulle melodie di bachiana memoria, ma in molti brani (non staremo nemmeno a elencarli, perché sarebbero tutti quelli in cui canta Barnett) lo strumento principale (sia esso il pianoforte o il vibrafono) esegue la stessa successione di note che eseguono sia Barnett che Elisa Robrigues. In alcuni casi questo si verifica anche per gli archi e i fiati. Ora, tecniche compositive che fanno ricorso massiccio all'unisono sono la forza di molte composizioni di Arvo Part, per esempio, ma nella serata del Barbican registrata e qui riproposta sanno di soluzione cheap, come dicono gli anglosassoni. L'effetto è ancor più controproducente sul piano delle ambizioni dei These New Puritans, perché l'unisono ha quell'effetto sul piano emotivo, della pancia, che è proprio tipico del rock che qui si vorrebbe evitare. Questa tecnica arrangiativa, inoltre, ha lo svantaggio di esporre il più grosso limite tecnico della band: le capacità vocali di Barnett, che messe a confronto con una cantate vera, lo fanno sembrare un debuttante allo sbaraglio. Il suo mormorio a denti stretti, se può funzionare come strumento espressivo in campo rock, in uno scenario amplificato dalla versione expanded del sound These New Puritans mortifica in maniera impietosa il cantato del leader. Le cose vanno paradossalmente meglio per We Want War e Three Thousands, dove si recupera un lato più percussivo e movimentato (più rock?) all'interno di una serata che altrimenti sarebbe risultata monocorde. In sostanza, questo live expanded è una documentazione che farà felice i fan, mentre agli altri sembrerà finalmente che non si tratti dell'ennesimo capitolo di un monologo che – ci viene detto – non Andrea Macrì Thurston Moore - The Best Day (Matador,2014) Genere: rock, noise Avevamo lasciato Thurston Moore tra un album di ispirazione folk, Demolished Thoughts, e il disco dei Chelsea Light Moving, in cui si misurava con un rock più classico di quello solitamente nelle sue corde. Lo ritroviamo solista con una band nuova di zecca il cui fiore all'occhiello sono Steve Shelley e la bassista Debb Googe (My Bloody Valentine) e un disco che è una sorta di terza via alla sua carriera post-Sonic Youth rispetto a quelle r e c e n s i o n i ultime uscite – mettendo un attimo da parte collaborazioni e dischi più sperimentali – di cui riprende gli elementi acustici (Demolished Thoughts) e classic (i Chelsea Light Moving), facendosi preferire nettamente almeno al disco dell'ultima band. Allo stesso tempo, The Best Day si riconnette in maniera fluida al passato, puntellando il consueto repertorio chitarristico con azzeccate controparti armoniche e di arrangiamento. Speak to the Wild farebbe pensare a un ritorno ai Sonic Youth (e, perché no, un po' più indietro, ai Television) in linea con le ultime produzioni del gruppo. Ma da Forevermore, che si tinge di psichedelia (e, perché no, anche di kraut rock e di Velvet Underground), le cose si fanno più semplici e più complicate al tempo stesso. Semplici perché è il suo stile – se non nei dischi più sperimentali e free, è difficile immaginare di sentirlo abbandonare le intro a base di armonici arpeggiati o l'incedere deciso ma lineare di certi affondi di chitarra, i climax potenti o i riff dissonanti –, complicate perché il songwriting è scorrevole e sufficientemente ispirato, mentre le strutture dei brani sono abbastanza frastagliate da riempirsi di sfumature, in particolare nei duetti tra le chitarre di Moore e James Sedwards: in Tape si sentono il folk-rock anni '60 e le spectacular commodities delle linee minimali di Glenn Branca, Best Day nasconde l'assolo più rockettaro, quasi un'anomalia per il Nostro, spuntano i Fall in Detonation, mentre la strumentale Grace Lake ricorda un po' alla lontana la All World Cowboy Romance dei Mission of Burma. Parlare di conferma dopo trentacinque anni fa ridere, di nuovo corso è eccessivo. Semplicemente, si tratta di un buon disco, che non scontenterà ma – soprattutto – non annoierà chi ha seguito o vuole seguire le vicende di un musicista ancora troppo curioso e onnivoro per timbrare il cartellino discografico. Lapalissia- n o v e m b r e si tratta di cullare, che poi è un cullare minaccioso, sullo stile dei Godspeed You! Black Emperor: una madre che ti dondola mentre la casa è sotto i bombardamenti. Ok, in Another Language non ci sono umori politici o passeggiate tra i rottami della Storia, ma la tensione è presente: sembra di stare fuori dalla Storia e dentro ad un romanzo di Cormac McCarthy, davanti ad enormi albe fredde su pianure brulle. Questi paesaggi sonici al confine tra il post rock stesso, lo shoegaze degli Slowdive e l'ambient (se togliete la batteria ad un brano come Serpent Mound, siamo lì), mostrano un sovraccarico che non vuole essere deflagrazione o sconquasso, ma estasi per riempimento. Ci sono poi episodi (vedi Dustism) in cui i movimenti potenti e tenui, più che dividersi, si compenetrano, o quelli in cui i brani riescono a trovare spunti per divincolarsi dal trascendentale e prendere una via più terrena: sono dettagli che spuntano dopo alcuni passaggi di un album che è apparentemente monolitico, ma che rispetto alle peculiarità del post rock, rispetto alle sue contorsioni e complessità, ha semplicemente il pregio della semplicità. 6.9/10 103 no, ma vero. Per fortuna, aggiungiamo. 7/10 Tommaso Iannini Genere: house, funk, disco Tim Sweeney ha lavorato per Steinski, al secolo Steven Stein. Ascoltava dischi hiphop e annotava i bpm sulla copertina. Ancora iscritto al college, ha fatto un periodo di stage in DFA Records, al termine del quale Tim Goldsworthy ha regolarmente compilato il form di valutazione. Dal 2003 al 2006 è stato soundtrack supervisor della Rockstar Games – uno dei posti di lavoro più freak della storia – ed è lui, quindi, che ha curato la programmazione delle stazioni radio house e hip-hop di GTA San Andreas. Esperienze tanto bizzarre quanto formative, che unite alle importazioni semi-clandestine di materiale Warp, Coldcut, Black Dog, Aphex Twin (il fratello maggiore, nei primi anni Novanta, tornava da Londra con dischi e videocassette introvabili negli States) e alle imprescindibili suggestioni black-music, accendono nella testa del giovane dj di Baltimora – dal 1999 residente a New York – l'idea di un programma radiofonico. Sulle frequenze radio della New York University, accompagnato negli anni da pesi massimi del dancefloor (Howie B, Carl Craig, Cosmo Vitelli, Laurent Garnier, Peter Kruder, Dimitri From Paris, Dj Hell, Daniele Baldelli, per citarne alcuni tra i più rilevanti), trasforma il suo studio in un piccolo tempio house, funk, disco, electro – riservando una corsia preferenziale per le fascinazioni cosmiche, che non a caso battezzano lo slot: Beats In Space. Beats In Space 15th Anniversary, doppio cd mixato di classici e pezzi inediti, è la celebrazione di quest'avventura. Il primo volume, 104 Elia Galli Ulwhednar - 1520 (Northern Electronics,2014) Genere: dark, drone, techno, electronica Ulwhednar è il progetto techno-noise-dark ambient dei musicisti svedesi Abdulla Rashim e Varg, un duo che si muove agilmente tra drone, techno analogica e inumana elettronica oscura. La loro musica è ispirata alla storia, al paganesimo e ai desolati paesaggi scandinavi. A certe latitudini in inverno, quando il sole è quasi totalmente assente durante il giorno, la r e c e n s i o n i n o v e m b r e Tim Sweeney - Beats In Space 15th Anniversary (Beats In Space,2014) registrato in presa diretta, è una miscela di edit disco-funk (Eric Duncan e Frasier mettono a nuovo rispettivamente Get Up Whirlpool di Edwin Starr e Coco Kane di El Coco, viene ripescata Chewy Chewy degli Ohio Express), precise geometrie sintetiche e vocalizzi eterei (David Haser, Deep Horst), isolate scosse techno (Barnt, Chappell, scelta anche da Joy Orbison per il suo BBC Essential Mix del 25 luglio di quest'anno) e colorati ritagli garagehouse alla maniera di Todd Edwards (Samuel, A Million Things). La seconda parte, collezione delle tracce che hanno segnato la storia della trasmissione, se da un lato continua il discorso nu-disco (John Talabot, Tensnake), dall'altro viaggia indietro nel tempo per ricordarci i magistrali joint da pista dei Plaid (Scoobs In Columbia), i quadretti cosmici dell'Ed Handley solista (a nome Balil, 3/4 Heart), le visioni intergalattiche di arpeggiatori e kickdrum inflessibili firmate Carl Craig (il remix di Relevee, Delia and Gavin), fino a toccare, in chiusura, immaginifici scenari space-rock con Tim Blake (Last Ride Of The Boogie Child, dall'album del 1977 Crystal Machine). Due ore e mezza di dj set appassionato, taglia e cuci rustico da grande artigiano del suono, per una fotografia sgargiante del cosmic-sound newyorchese. 6.8/10 r e c e n s i o n i sotto la sigla "Dard Å Ranj Från Det Hebbershålska Samfundet" (abbreviato anche in D.Å.R.F.D.H.S.), aveva già dedicato un disco alla persecuzione delle streghe avvenuta nel Seicento in terra svedese: l'ottimo LP Det stora oväsendet del 2013. Il lato B del disco presenta due pezzi techno: Begravd under is ("sepolto sotto il ghiaccio") e De 92 vita stenarna, ovvero "92 pietre bianche" tradotto letteralmente, ma "svenska stenarna" è anche il nome di un gruppo di isole dell'arcipelago di Stoccolma. Il primo brano ricorda alcune cose della Börft Records, celeberrima label underground di musica elettronica svedese attiva dalla fine degli anni Ottanta. De 92 vita stenarna, invece, spinge in maniera meccanica con quella techno fredda, cupa e senza compromessi, quasi isolazionista, propria del duo. Il disco prosegue con un brano dark ambient, Midvinter (termine svedese per "solstizio d'inverno"), che riprende le sonorità di un lavoro precedente (chiamato appunto Midvinter) uscito solo su cassetta, formato da sei lunghi episodi dark ambient dedicati al giorno con meno ore di luce nel corso dell'anno. Alla fine del lato B del vinile troverete anche una traccia senza nome che riprende Askan från bålet in chiave più noise, chiudendo così il cerchio. Nella lista dei brani ci sono, alla fine dei lati A e B, due pezzi apparentemente assenti nel disco, I evigheten I e I evigheten II. In svedese "evighet" vuol dire eternità, vita eterna, ma anche illimitata quantità di tempo. Se sistemate la puntina del disco a metà dello spazio vuoto presente alla fine dei due lati del vinile, il braccio del giradischi tornerà indietro generando due "infinite loop" techno industrial che potrebbero essere ascoltati per ore e ore. Si tratta di un buon lavoro che, per essere compreso appieno, deve essere collocato nella giusta cornice. Il disco richiede un ascolto non superficiale per rivelare la sua vera natura e i n o v e m b r e musica del duo diventa una colonna sonora pressoché perfetta. Il 6 ottobre 2014 è uscito il secondo full-length, 1520, per la Northern Electronics, piccola label indipendente svedese che è riuscita a farsi conoscere fuori dalle fredde terre scandinave. Realizzato in vinile bianco a tiratura limitata, il disco è andato subito esaurito. Dopo l'intro ambient di Arke fiene, siamo subito catapultati su un pezzo tagliente a base di pulsazioni techno ossessive e lineari, ovvero Stortorget; il nome del brano è quello della piccola piazza centrale di Gamla Stan, la città vecchia al centro di Stoccolma. È significativo che Stortorget sia proprio il luogo in cui nel 1520 (titolo dell'album) avvenne il famoso "bagno di sangue di Stoccolma", quando il perfido re danese Cristiano II fece giustiziare pubblicamente circa 100 cittadini svedesi, colpevoli di essersi rivoltati contro il domino dell'invasore danese sotto l'unione di Kalmer. Il pezzo musicalmente ricorda alcuni episodi di Unanimity, esordio full-length di Abdulla Rashim, ed è anche un punto di contatto con il disco precedente degli Ulwhednar, d'impronta più techno minimale, intitolato semplicemente LP. Con Kättarens dom e Askan från bålet entriamo nel cuore del lavoro: il primo è un mantra impietoso dai forti riverberi e clangori postindustriali (il titolo vuol dire "sentenza dell'eretico" ed è anche il nome di un capitolo di un vecchio libro di Karl Fahlgren sulla storia della stregoneria in Svezia); il secondo è un pezzo in cui emergono sibili rotanti e fantasmi analogici che implodono cupamente su se stessi. Askan från bålet è uno dei momenti migliori del disco, in cui lo spirito delle macchine sembra emergere e prendere vita per poi autodisgregarsi progressivamente. Non è un caso che il titolo si traduca in italiano con "le ceneri del rogo"; del resto uno dei componenti del duo, Varg, assieme a Michel Isorinne e Dystopiska Visioner 105 suoi riferimenti velati. Menzione d'obbligo per l'elegante copertina bianca con stampa in rosso: la cover raffigura un tumulo funerario fatto di pietre accatastate l'una sull'altra. 7.2/10 Marco De Baptistis Genere: rock, punk Piaccia o meno, i Weezer sono rimasti, nel tempo, una sorta di baluardo sonico abbastanza stralunato da continuare ad attrarre la curiosità di chi nei Novanta (e oltre) viveva di loserness, college rock americano e grunge. Bei tempi, quelli, quando si combatteva l'establishment – prima diventare l'establishment – imbracciando chitarre elettriche capaci di sprigionare cascate di distorsioni grasse, furibonde eppure (paradosso dei paradossi) attente alla melodia. Anche i Buddy Holly del post-grunge, tuttavia, hanno dovuto faticare e non poco per sopravvivere – in termini di significanza artistica, perché dal punto di vista finanziario non devono passarsela malissimo, considerati i risultati commerciali dei dischi pubblicati – in bilico tra un passato da "piccoli classici" (il Weezer blue album del 1994) e un presente che fino a questo Everything Will Be Alright In The End contava episodi a dir poco prescindibili come Hurley (2010) o Raditude (2009). Chi li aveva dati per morti, tuttavia, dovrà ricredersi, perché il disco in oggetto – prodotto dal Ric Ocasek già al lavoro sul Weezer blue album e sul Weezer green album del 2001, guarda caso due delle uscite più a fuoco della formazione di Los Angeles – è quanto di meglio i Weezer abbiano partorito negli ultimi dieci anni. Nulla che rivoluzioni la percezione che si ha della band, sia ben chiaro, al massimo un tuffo nella nostalgia di quel blue album disco d'esordio sull'onda di un power pop frizzante, 106 Fabrizio Zampighi You+Me - Rose Ave. (RCA,2014) Genere: alt, country, folk "Alecia, tesoro, ti presento il mio amico Dallas". La immaginiamo più o meno così, la scena: Carey Hart, pilota motociclistico, fa conoscere Dallas Green – cantautore trentaquattrenne r e c e n s i o n i n o v e m b r e Weezer - Everything Will Be Alright In The End (Republic Records,2014) energico, vitale e, da un certo punto di vista, meno grezzo e più vario (ed è un bene). "Take me back, back to the shack, back to the strat with the lightning strap, kick in the door, more hardcore, rockin out like it's '94", canta Cuomo in Back To The Shack, e mai versi furono manifesto migliore: Ain't Got Nobody è un instant hit a suon di power chords, armonie beachboysiane e crescendo rubati alla seconda metà dei Novanta; Lonely Girl è un punk-rock in puro stile Dinosaur Jr; Eulogy For A Rock Band srotola una melodia volutamente passatista quasi à la ABBA (pur con tutte le chitarre); Have Had It Up To Here è un funk-rock come lo avrebbero fatto i migliori Darkness; Go Away è surf-pop altezza Happy Days rivisto '90, con tanto di paturnie adolescenziali nel testo; Foolish Father (dedicata al padre di Cuomo) vanta un refrain killer e un coro in chiusura che riporta, chissà come, al Lennon pacifista. E questa è solo una parte di un lavoro che è un tripudio di bridge, hook melodici, accordi veloci e assoli di chitarra al cardiopalma e senza un filo di ruggine. Troppo poco? Forse. Del resto, però, pare ormai assodato come i Weezer (o sarebbe meglio dire Rivers Cuomo) funzionino di più a queste latitudini, irregimentati in un immaginario comune e ben noto, piuttosto che quando vengono lasciati liberi di (stra)fare. Se la nostalgia è il prezzo da pagare per avere un pugno di brani di questa intensità e freschezza, ben venga. Ci accontentiamo volentieri. 7.1/10 r e c e n s i o n i un tappeto sonoro con lontane reminiscenze che vanno dal Boss di I'm on Fire al Jimmy Webb della splendida The Highwayman, Break The Cycle cattura l'attenzione grazie all'intervento degli archi che scippano loro la scena e Capsized grazie al suo scarno blues cinematografico, con Dallas che spiana la strada a un'Alecia vicina alle atmosfere di Fourth Corner di Trixie Whitley. I due sono complici, si completano e tirano fuori il meglio l'uno dell'altra nelle performance: il materiale è forse poco radio-friendly e le melodie rivelano un fascino discreto dopo ascolti pazienti, ma non c'è una sola vera caduta di stile in trentasette minuti di ascolto. I testi sono principalmente malinconici, intrisi di riflessioni sulla vita con le sue "montagne russe", gli alti e i bassi, gli amori dal fuoco ancora acceso e quelli che sono andati male (ma tutto brucia meno, se ci troviamo a cantarne davanti al fuoco di un camino). Non sono colti o particolarmente elaborati, ma parlano a tutti e dicono molto soprattutto a chi, come i due cantanti, ha superato la soglia dei trent'anni e si ritrova inevitabilmente a fare dei grandi e piccoli bilanci. Diventare genitori e passare dall'altra parte dello steccato ci porta a ripensare ai rapporti con le nostre famiglie di provenienza (Open Door), all'amore e alle "guerre" condotte sognando di emanciparci da loro: col senno di poi speriamo con sollievo che la porta sia ancora aperta e arriviamo a riconoscere che, in fondo, "ci hanno insegnato come essere giusti in un mondo sbagliato". E anche che oggi parliamo con loro troppo poco. Stucchevole? Nelle mani sbagliate materiale del genere lo sarebbe stato, qui le emozioni sono tenute abilmente a bada. A volte, forse, persino troppo. Altri due brani piuttosto riusciti della raccolta sono Second Guess (lui inizia una frase, lei la completa e solo dopo un po' le voci giocano insieme) e lo spigoloso Love Gone Wrong, e n o v e m b r e canadese che oggi incide come City and Colour e che a molti è noto per essere stato nella line-up della band post-hardcore Alexisonfire – a sua moglie Alecia Moore. Ovvero colei che noi tutti abbiamo conosciuto come P!nk grazie a successi come Get The Party Started, Don't Let Me Get Me e, più di recente, Try: personaggio colorato, grintoso ed esuberante, dieci anni fa era la "bambina cattiva" emersa dopo Britney e Christina (con la quale collaborò in occasione della cover di Lady Marmalade incisa per il film Moulin Rouge) con una voce r'n'b messa al servizio di un pop/rock con cui ha spesso e volentieri scalato le classifiche di vendita. Cosa possono fare insieme, due artisti apparentemente tanto diversi? Un sobrio e grazioso disco folk-pop, prevalentemente acustico, scritto e registrato in una settimana. Che cos'è, uno scherzo? Niente affatto. Rose Ave. è il frutto di alcune instant sessions dell'insolito duo: tutto è partito da una sola canzone, qualcosa di estemporaneo che potesse essere cantato senza orpelli, davanti a pochi amici e ai propri familiari, magari con un buon calice di vino per accompagnare il tutto. Poi ne sono nate altre, che insieme a una fascinosa cover di Sade Adu (di cui Dallas ricorda di aver ascoltato molti dischi, tra un classico degli Alice in Chains e un lavoro dei Soundgarden) compongono un disco breve, asciutto di due amici che si sono spogliati dei propri nomi d'arte più o meno ingombranti e sono partiti con una nuova avventura. La RCA ha iniziato a parlarne solo un mese prima dell'uscita, con tre canzoni che nel giro di poche settimane sono state messe a disposizione di fan e curiosi su VEVO. Tre brani uno diverso dall'altro, in un lavoro che per contro risulta straordinariamente compatto: You And Me conquista con due voci che armonizzano e si fondono sostenendosi e dandosi forza – calda e pastosa quella di Green, possente e a tratti roca quella della Moore – in 107 n o v e m b r e Alessandro Liccardo Yusuf / Cat Stevens - Tell 'Em I'm Gone (Legacy Recordings,2014) Genere: cantautori, folk Co-prodotto da Rick Rubin, ospiti come Tinariwen, Will Oldham, Charlie Musselwhite, Richard Thompson e Matt Sweeney. Premessa lapidaria per ritagliare i contorni di un lavoro che non vuole essere solo il terzo dell'artista Yusuf (cinque anni dopo il buon Roadsinger) ed il venticinquesimo (se non abbiamo contato male) per colui che un tempo era noto come Cat Stevens. Rubin da questo punto di vista è uno schiacciasassi: non lo coinvolgi 108 se non hai intenzioni forti e chiare. In questo caso, ricollocarsi in un sound che odorasse di radici folk blues ma che prevedesse precisi effetti collaterali "esotici". I nomi summenzionati vanno letti in questo senso come delle coordinate che stringono verso una ricerca di rinnovata autenticità. A Yusuf non spaventa ricostruirsi: lo ha fatto in passato in maniera ben più invasiva e radicale. Stavolta però, malgrado tutto questo sfoggio di radici – diciamo così – attualizzate, le tessere del puzzle non compongono un quadro convincente. Premetto che il suono è fantastico, i pezzi hanno una coerenza e robustezza, inoltre trovo che il coinvolgimento dei Tinariwen sia particolarmente azzeccato, un colpo di genio a dirla tutta. Ma tutta questa sovrastruttura fa passare il protagonista come una specie di intruso. Se escludiamo due pezzi come Dying To Live (cover di Edgar Winter resa con la trepidazione cardiaca del miglior Billy Joel) e una Cat And The Dog Trap che tra morbidezze folk e fragranze di vibrafono ammicca al garbo allusivo dello Stevens che fu, capita spesso di pensare che il blues non sia esattamente la tazza di tè del buon Yusuf. Dalle vibrazioni arcaiche dell'iniziale I Was Raised in Babylon fino agli archetipi d'affrancamento black della title-track, senti un bisogno quasi fisico di un altro interprete. Non per fare i sensazionalisti ad ogni costo, ma in un certo senso è il blues che te lo chiede. Mi ha ricordato quello che provai sentendo per le prime volte Steamroller di James Taylor, ma almeno Taylor in quel caso usava il blues in maniera ironica. Stevens/Yusuf invece ti fa capire di volerci stare dentro, ma proprio da un punto di vista blues funziona tutto alla grande tranne la sua interpretazione. Molto belle ad esempio le pennate terrigne e l'armonica sfrangiata di Big Boss Man (cover di Jimmy Reed), l'andazzo vaudeville di Gold Digger e la baldanza sou- r e c e n s i o n i buona si rivela l'idea di reinterpretare, reinventandola, No Ordinary Love (selezionata da Love Deluxe di Sade). Le tinte sono tenui, accennate e le luci soffuse, in questo Rose Ave. che si candida ad essere uno dei dischi più insoliti del 2014. C'è più Green che Pink, ascoltandolo bene, ma questo è anche un segno di intelligenza di un'artista alla ricerca della credibilità che in fondo le spetta, che è cresciuta insieme ai suoi fan e che sente il bisogno di mettersi in discussione e assecondare nuovi stimoli. E non certo perché non sia più in grado di competere con le Miley Cyrus del caso – il suo The Truth About Love è stato disco d'oro e di platino in diversi Paesi, Italia compresa, quando altre sue colleghe anche più giovani di lei sono all'eterna ricerca di escamotage per tornare alla ribalta (sia esso un featuring col produttore dance più quotato del momento o un album swing con un veterano del genere). Per Dallas è stata un'occasione ghiotta per ottenere la visibilità che finora non aveva avuto, e visti i risultati bisogna dire che le carte sono state giocate piuttosto bene da tutti e due: ascoltare per credere. Chissà che non ci sia un seguito… 7/10 Stefano Solventi Zola Jesus - Taiga (Mute,2014) Genere: industrial, noise, elettronica Il cerchio aperto anni fa con l'irruzione a gamba tesa di Nika Roza Danilova, in arte Zola Jesus, nel panorama underground, dapprima coi pezzi piccoli per l'onnipresente Sacred Bones, poi con album sempre più ingombranti per densità, eco e rilevanza (The Spoils innanzitutto, poi Conatus), si chiude definitivamente con questo Taiga. Definito dalla stessa come il proprio reale esordio – bizzarria acchiappa like o reale volontà di tagliare i ponti col passato da parte della signorina dietro la sigla, non è dato sapere –, Taiga segna l'approdo sulle lande targate Mute e l'ennesimo appiattimento delle asperità che segnavano la (ormai ex, per lo meno per come la conoscevamo) Zola Jesus. Ispirato da "taiga", nome russo che indica la foresta boreale e che nell'ottica della Danilova diviene luogo di riflessione sulle proprie lontane origini, e di conseguenza sulle dicotomie abitato/deserto o civilizzato/selvaggio (e, ancora, vivo/morto, percepito/celato, visibile/invisibile ad libitum), l'album si avvale di una produzione eccelsa, di una estrema cura per il dettaglio, di una maniacale attenzione per le atmosfere. A venire eccessivamente levigate, però, sono quelle ruvidezze che erano l'estremo tratto distintivo di una musica in potenza "pop" ma ammantata da una coltre di disagio e alienazione umorale e da un immaginario ben definito (l'ala "femminile" dell'industrial meno estremo, tutto l'universo goth inglese, le heavenly voices riprese dal giro moan-wave, ecc.) che avevano fatto dell'americana un punto di riferimento per molti. La caligine in cui annegavano le melodie degli esordi si è diradata e restano soltanto "plasticosi" esercizi di stile, indigesti nel loro essere sopra le righe in maniera artificiosa. Insomma della "estrema filiazione della terrifica trimurti Diamanda Galas/Lydia Lunch/Siouxsie" (Comunale dixit) non resta ormai nulla, e al loro posto regna una versione synth-pop ripulita e translucida di quel suono affine ad act come Goldfrapp et similia. Il risultato sono momenti troppo spesso imbarazzanti (Nail, Dangerous Days, Hunger) o semplicemente poco ispirati (Taiga, Lawless), eccessivamente appiattiti da una produzione troppo vogliosa di mostrarsi "patinata" e appetibile per un pubblico più ampio. E' paradossale come la scelta di un titolo dal significato forte qual è Taiga rischi di divenire una sorta di nefasto presagio su quello che sarà il futuro di Zola Jesus, persa in una terra di nessuno: troppo pulita per il gusto underground e troppo poco accessibile per il mainstream. 5/10 n o v e m b r e r e c e n s i o n i thern di The Devil Came From Kansas (firmata Procol Harum), per non dire del piglio sanguigno di Editing Floor Blues con quel passo da Muddy Waters sotto anfetamina, mentre la palma della migliore intuizione potrebbe andare ad una You Are My Sunshine (antico hit di Jimmie Davis e Charles Mitchell) riformattata come torrido soul blues innervato di ruvidità desertiche. Nel complesso quindi è un disco che sembra confezionato per blandire un target ben preciso: i sostenitori della vecchia perduta autenticità. Brandendo la fama di Cat Stevens/ Yusuf come un brand. Ma davvero – dopo molti ascolti – ancora dubito che sotto tutto questo bello e a tratti ottimo sfoggio di mestiere ci sia sostanza da conservare. 5.5/10 Stefano Pifferi 109 I n c h e s # 5 3 S o m e G i m m e 110 Da laggiù arriva sempre roba interessante. E quel “laggiù” non contiene nessuna sorpresa o ipotetica subordinazione rispetto al “lassù” ma soltanto una mera indicazione geografica e una grossa verità. Basta guardarsi un paio delle uscire che segnaliamo questo mese per rendersene conto. Cominciamo con Bzzzz l’aka con cui si presenta Alberto Tanese e la Musica per Organi Caldi, col primo già parte di CAPase non a caso editi su nastro nel Live Split con Above The Tree proprio dalla seconda: label piccola, casalinga ma dal catalogo tanto eclettico quanto ammirevole nel suo circumnavigare tutte le lande out delle musiche d’oggi. Il caso di Bzzzz è esemplare: un disco nato dall’“intento sonico di portare l’ascoltatore dalla fase di veglia a quella r.e.m.” quanto da una “naturale attitudine a far addormentare le persone” del suo autore. Oneiros non è affatto soporifero ma è perfettamente “soporifero” nella semplicità, totalmente efficace, con cui tratta l’obbiettivo della propria indagine, in particolare in pezzi come DreamingOfFly (stratificazioni alla Pan American) o DreamingDances (oblungazioni folky alla Six Organs). L’altro “laggiù” del mese è un po’ più a ovest, in quella Napoli che sempre ci sorprende in ambiti “altri”. La bontà dell’ultimo, al solito ottimo A Spirale in coppia coi russi Astma (su cui torneremo a breve) viene confermata da Nero Diaspora, nuovo progetto che vede coinvolto Fabrizio Elvetico di Illachime Quartet accompagnato da Rossella Cangini – voce e loops, con cui già aveva condiviso l’album Trail Of Monologue – e dalla chitarra preparata di Gandolfo Pagano. Nero Diaspora, parole del trio, “intende la sperimentazione come un percorso attraverso le memorie sonore” da cui esce questo Mirrors/Miroirs/Specchi, ottimo lavoro di improvvisazione e riflessione sul ruolo dell’improvvisazione che assume forme mutevole e cangianti, in particolare quando a prendere il sopravvento è la voce galasiana della Cangini (Miroir #2 è pura tensione vocal-percussiva) o le atmosfere plumbee (Specchio #5 Su E. Sanguineti). In uscita free per la netlabel Brusio, ma se ne auspica una versione fisica, visto il livello eccelso. Altra segnalazione dovuta del mese è il nastro Aktion No1, coproduzione tra label sorelle (Angst, Scorze e Suicide Autoproduzioni) e musicisti affini come Negativeself, IRS, A Happy Death, Autocancrena e Cassandra, ritrovatisi in quel coacervo di brutture sonore che fu il primo Roma La Drona, festival made in Dal Verme in cui droni e rumore nero pece si sono alternati per un paio di serate sulle assi del locale di Roma est. Questo Aktion No 1, I n c h e s # 5 3 S o m e G i m m e da leggersi anche come dichiarazione d’intenti oblomoviano, racchiude la performance dei suddetti come collettivo Oidocrop666. Nero pece le musiche e nero pece il nastro, copertina inclusa, quasi a mettere in guardia l’ascoltatore: da qui non si esce vivi a furia di ondate harsh-noise e brutture free, clangori post-industriali e droni come se piovesse. Proseguiamo con due uscite su 10 pollici, formato tanto discograficamente insolito quanto esteticamente fascinoso. La prima vede il ritorno di una nuova promessa svedese che tante soddisfazioni ci sta dando ultimamente. Parliamo di Varg (nome d’arte verosimilmente mutuato dal ben più celebre Vikernes), giovane producer dal background indiscutibilmente black metal e dal forte gusto per le pagine più tetre della storia della propria terra. Comparso sulla scena da poco più di un anno ma con all’attivo già diverse uscite per la Northern Electronics di Abdulla Rashim e Semantica di Enrique Mena (aka Svreca), il capellone di Stoccolma è anche tenutario della tape-label Blodörn e metà del duo Ulwhednar. Quasi in contemporanea con il nuovo album di questi ultimi esce anche The Masters Prayer In Six Article, EP di sei pezzi per la locale Sorgenfri Inspelningar. Il sound di Varg (che qui appare volutamente come Grav) è un misto brutale di dark ambient e techno nordica, tutto registrato in presa diretta su nastro rigorosamente in monofonia. Un ottimo esempio è Mandrake, The Headless Rider Of The North, il cui video è ovviamente in bianco&nero. La copertina con le runiche incisioni rupestri sigilla il tutto in maniera impeccabile. Il secondo 10” del lotto vede la collaborazione di tre figure che più controverse non si può. Cosa nasce infatti quando un teologo esperto di satanismo (Josef Dvorak), un artista/ performer di spettacoli S/M (Fuckhead) e un losco figuro come Albin Julius (Der Blutharsch) si mettono a lavorare insieme? Sous l’Arbre de Science è la risposta. Edito dalla WKN dello stesso Julius, le quattro tracce di questo EP suonano un po’ come i riti satanici di Dvorak messi in musica dai due austriaci. Tappetoni ambient su cui scandire formule magiche, beat Motorik tipicamente kraut e synth che svisano mentre l’Azionista Viennese rende omaggio al suo Lucifero. Il tutto ha un mood tanto immediato quanto efficace, come un misticismo prêt-à-porter un po’ ruffiano ma decisamente intrigante. Chiudiamo il cerchio con una cassettina spuntata dal nulla e che tuttavia ha già fatto breccia nel cuore di chi scrive. Edita l’anno scorso dalla statunitense Fallow Field e riproposta per il mercato (?) europeo della spagnole Burka For Everybody e III Arms, l’omonimo debutto su nastro di Masks Of Canaan consta di cinque pezzi senza titolo in perfetto equilibrio tra il neofolk più solenne (senza ombra però di quella posticcia pomposità che talvolta mina le produzioni del genere), la darkwave della vecchia scuola inglese e le atmosfere nordiche del black metal d’annata. Immaginate dei giri – appunto – black metal suonati solo col basso, qualche chitarra acustica e una voce greve e funerea che poggia su un basamento di fruscii ambientali, e avrete un’idea di quanto sottilmente inquietante e avvolgente possa essere questa tape. Non ci riuscite? Potete farvi un’idea voi stessi: c’è il free download su Cvlt Nation. 111 Aa.Vv. c l a ss i c a l b u m Disco Par-r-r-ty – Non Stop Music (Spring Records,1974) 112 L’articolo principale del numero del 19 ottobre 1974 di Billboard segnalava che un crescente numero di negozi di dischi dell’area newyorkese stava trovando una nuova rilevante fonte di incassi dalla vendita di “discotheque records”, con alcuni retailer che cominciavano già a riservare sezioni specifiche ai “disco disks”, successi nati nei club ancora prima di qualsiasi passaggio in radio. A pagina 55 dello stesso numero un annuncio pubblicitario presentava sei nuove release autunnali Spring/Event Records, tra cui “an all-star album of non-stop dancing called Disco Par-r-rty”: è il lancio del primo disco-mix. Nel numero successivo (26 ottobre) Billboard approfondiva in prima pagina la strategia di marketing dietro questo primo album “non-stop”, pensato per contrastare la tendenza, ai tempi già in atto, di utilizzare i “disco tapes”, registrazioni illegali su nastro delle serate delle discoteche più in voga, per la sonorizzazione in-store di boutiques di abbigliamento, negozi di scarpe, cartolerie, ecc. Le intenzioni dichiarate della Spring Records, label associata al gruppo PolyGram, erano quelle di creare “un classico”, l’album dance “definitivo”, selezionando 14 hit datate 1970-1973. Pur non presentando brani recenti, l’album coglie il nuovo spirito dei tempi, quando ancora il termine Disco non identificava uno stile ben definito ma raggruppava tautologicamente le canzoni r’n’b, soul, funk suonate nelle discoteche. Gli artisti presenti fanno soprattutto parte del gruppo PolyGram, con James Brown (qui con Sex Machine) e il suo entourage (Maceo Parker, Fred Wesley, Hank Ballard e Lyn Collins, quest’ultima chiamata ad aprire le danze con la poi supercampionata Think), i Mandrill e i migliori esponenti delle label Spring e Event (Joe Simon, Millie Jackson, Act 1). Sono compresi due successi come la sexy Jungle Fever (dei Chakachas, Latin soul band dal Belgio), che nel 1972 aveva anticipato di tre anni i gemiti donnasummeriani di Love To Love You Baby, e Pepper Box, uno dei primi synth hit (sulla falsariga di Popcorn e Apache). Chiudono l’album due “lenti” d’atmosfera: Why Can’t We Live Together di Timmy Thomas (dall’arrangiamento minimale drum machine + organo) e I’m Gonna Love You Just A Little Bit More di Barry White, dominatore delle chart del momento. Ascoltandolo quarant’anni dopo, l’edit senza pause del disco suona spesso secco e rudimentale, con pochissimi e brevi crossfades e tanti stacchi spesso brutali, inseguendo un beat-mix ai tempi tecnicamente arduo: il risultato complessivo, soprattutto per la selezione di canzoni presenti, rimane comunque trascinante. Non è chiaro peraltro se il responsabile del mix vada identificato nell’altrimenti sconosciuto Lenny Silva, nominato nei credits come “compilatore” dell’album (mentre Alan Varner, indicato come “remix engineer”, raggiunto via e-mail, non ricorda di aver avuto una parte attiva nella produzione). Sempre nel numero del 26 ottobre 1974 Billboard comincerà a pubblicare classifiche Di- sco: al primo posto c’è la versione di Never Can Say Goodbye di Gloria Gaynor. Can’t Get Enough di Barry White è al Top tra gli album. Tra i singoli Do It (‘Til You’re Satisfied) dei B.T. Express sale dal 24° al 18° posto (per arrivare al 2° qualche settimana dopo). Nello stesso periodo la stazione radio newyorkese WPIX comincia a trasmettere il sabato sera il primo programma dedicato “Disco 102”. Ottobre 1974: non più underground, la Febbre esce allo scoperto. 7/10 Alessandro Pogliani 113 114
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