ariel Pink - Sentireascoltare

digital magazine | novembre 2014 | n. 121
Ariel
Pink
P o p ,
m a l g r a d o
t u t t o
sommario
>>>articoli – p. 4
Gunnar Haslam
Francobeat
Gianni Morandi
Lamb
Lee Gamble
Kindness
Röyksopp
Ariel Pink
>>>recensioni – p. 42
>>>rubriche – p. 110
#121
novembre
Direttore
Edoardo Bridda
Coordinamento promo
Stefano Pifferi
Art director
Nicolas Campagnari
A questo numero di Sentireascoltare hanno contribuito:
Alessandro Pogliani, Gaspare Caliri, Fabrizio Zampighi, Stefano Solventi,
Diego Ballani, Gianluca Lambiase, Marco Braggion, Daniele Rigoli,
Giulio Pasquali, Edoardo Bridda, Stefano Gaz, Alessia Zinnari,
Marco Frattaruolo, Nino Ciglio, Elia Galli, Stefano Pifferi, Marco De Baptistis,
Marco Boscolo, Christian Panzano, Riccardo Zagaglia, Antonello Comunale,
Tommaso Iannini, Giulia Antelli, Andrea Murgia, Enrica Selvini,
Gabriele Marino, Teresa Greco, Alessandro Liccardo, Federico Pevere,
Andrea Macrì, Andrea Tabellini
Copertina
Ariel Pink
Guida spirituale
Adriano Trauber (1966-2004)
SentireAscoltare // online music magazine
Registrazione Trib.BO N° 7590 del 28/10/05
Editore: Edoardo Bridda
Copyright © 2014 Edoardo Bridda.
Tutti i diritti riservati. La riproduzione totale o parziale, in qualsiasi forma, su qualsiasi supporto
e con qualsiasi mezzo, è proibita senza autorizzazione scritta di SentireAscoltare.
G u n n a r
H a s l a m
D o n ’ t
t e l l
m e
L . I . E . S
Da poco tempo sulla scena, ma con alle spalle tanta
cultura, musicale e non solo: dietro il moniker di Gunnar
Haslam c’è un ragazzo intelligente e con una grande
passione per l’Italia.
>>>Testo di Alessandro Pogliani
4
Le capacità di rabdomante di Ron Morelli, padre padrone di L.I.E.S. Records,
sono ormai comprovate: spesso e volentieri i producer arruolati dalla sua label
sono personaggi ai limiti dell’anonimato
o dell’oscurità mediatica. Così è stato
anche per l’artista che si fa chiamare
Gunnar Haslam: l’esordio per L.I.E.S.
nel luglio del 2013 ha coinciso con il suo
debutto. E la partenza è stata subito con
il botto: non un semplice 12”, ma direttamente un album, l’affascinante Mimesiak. Nel suo caso peraltro Morelli non
è dovuto andare lontano, anzi non si è
mosso dal negozio di dischi della Lower
East Side newyorkese dove lavorava:
raro caso di profeta in patria…Dopo una
manciata di singoli (tra cui Bera Range
per la chicagoana Argot, Ataxia No Logos per l’olandese Delsin, il 12″ Porte
Maillot prodotto dalla L.I.E.S.) e alla vigilia dell’uscita del suo secondo album,
ancora per l’etichetta di Morelli (Mirrors And Copulation, novembre 2014),
abbiamo scambiato quattro chiacchiere
via e-mail con il giovane americano.
Nelle recensioni delle tue precedenti release si fa spesso riferimento a
te come a un “misterioso producer
da New York”. In realtà, visto che
in internet si trovano un paio di tue
interviste, non sei poi così misterioso: nato e cresciuto a Manhattan,
poi trasferito a Brooklyn; studi accademici in fisica subatomica, poi
un master in tecnologia musicale;
l’amicizia con Ron Morelli a seguito
della frequentazione dell’A1 Records,
il negozio di dischi dove lavorava…
poi di punto in bianco lo scorso anno
il debutto per la L.I.E.S. con un dop-
pio long playing. Sono corrette tutte
queste informazioni?
Sì, è praticamente tutto giusto, tranne il
fatto che, pur essendo nato a Manhattan, sono cresciuto al di fuori della città.
Mi sono trasferito di nuovo a Manhattan quando avevo 18 anni .
Continuiamo ad approfondire la tua
biografia, se non ti dispiace: quanti
anni hai? Quando e come hai iniziato
a fare musica? Quali sono stati i tuoi
principali riferimenti musicali?
Ho 25 anni. Ho trafficato con le drum
machine per un po’ di tempo, ma ho
iniziato a fare musica sul serio solo circa
tre anni fa. E’ difficile per me indicare
delle influenze musicali più di altre,
visto che ascolto davvero un sacco di
musica e tutto viene mescolato.
Altrove hai detto che in un certo
senso Morelli ti ha “commissionato” Mimesiak. Puoi dirmi di più sul
processo di produzione del tuo primo
album?
Ho realizzato un paio di tracce, le ho
fatte ascoltare a Ron e lui le ha sentite
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sulla sua lunghezza d’onda. Abbiamo
deciso insieme che i brani sarebbero
stati meglio nel contesto di un album,
invece che in un 12″, così nei due mesi
successivi ho continuato a lavorare. Alla
fine ha preso forma ciò che sembrava
un album, e Ron ed io abbiamo messo
insieme il tutto. E’ stato un processo
piuttosto facile e rilassato.
A noi giornalisti musicali piacciono
molto le definizioni. Se tu fossi costretto a dare dei tag alla tua musica,
cosa utilizzeresti?
Techno. La mia musica va a volte un
po’ dappertutto, e ogni traccia è fatta in
modo diverso e con diversi obiettivi, ma
alla fin fine “it’s all techno”. Io vengo
da un background techno, è una parte
inscindibile della mia musica.
“La ripetizione è una forma di cambiamento” (Brian Eno – Oblique Strategies): tu cosa pensi al riguardo?
Non sono d’accordo. Ovviamente io
amo la ripetizione nella musica, e la uso
molto spesso: tendo a non apprezzare
molto la musica che rimbalza di qua e di
là. Ma non c’è bisogno di assumere che
la ripetizione sia cambiamento solo per
giustificarne l’uso: la ripetizione è così
in sé, ed il bello sta nel lasciarsi ipnotizzare da essa ed esaminare da nuovi
punti di vista lo stesso oggetto reiterato.
La nostra comprensione dell’oggetto
può mutare nel tempo, ma questo non
cambia il fatto che l’oggetto rimanga
invariato. La ripetizione di alcune frasi
musicali può essere inebriante, ma non
tutto è interessante se ripetuto. Prendi
il lavoro per esempio: compiti ripetitivi
in linea di montaggio portano all’alienazione.
A te piace circondare la tua musi-
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ca con tanti e disparati riferimenti
culturali, sia per il tuo nome d’arte
(tratto da un racconto di Borges, ma
ne parleremo più avanti) che per i
titoli dei brani, che spesso si rifanno alla letteratura (vedi ad esempio
Scheherazade, o Bera Range, da
Fuoco pallido di Nabokov, o Corridor Metaphysics o Kenosha, tratti
da Thomas Pynchon), alla geografia
(Anatolia, Aisepos, Dunsinane Hill),
alla storia (Nevenoe , il primo re
medievale bretone, la Cina maoista
di Let A Hundred Flowers Bloom),
a luoghi metropolitani (New York,
per Culver Viaduct o per B61; Parigi,
per Porte Maillot), alla filosofia (il
titolo del tuo primo LP, basato sui
sample, ricorda le idee platoniche di
mimesis), anche alla matematica (il
processo stocastico “senza memoria”
di Markov Discrete). Sono risonanze personali, un modo per dare più
significato e valore alle tracce, di per
sé astratte, o cos’altro?
I riferimenti che hai individuato sono
più o meno tutti corretti. I termini
che ho usato tratti dalla matematica
o dalla fisica tendono ad essere molto
personali, tenuto conto che passo gran
parte delle mie giornate ad occuparmi
di questi ambiti. Discrete Markov fa
riferimento ad un processo che utilizzo spesso per lavoro, e che a volte uso
anche nella mia musica. Altri titoli, che
si riferiscono alla letteratura o alla geografia, sono tentativi di dare un contesto
ideale alla mia musica. Quando ho composto Aisepos non ero proprio sulla riva
di quel fiume dell’Anatolia, ma stavo
leggendo qualcosa al riguardo e ci stavo
fantasticando. Altre citazioni geografiche sono molto personali: ho fatto B61
durante il weekend dell’uragano Sandy,
e fa riferimento alla linea d’autobus che
porta alle aree più colpite di Brooklyn.
Ho notato che usi anche tanti riferimenti specifici all’Italia: titoli come
Gragnano (la pasta o la città?), Laghi
Sotterranei, Denominazione… C’è un
motivo particolare?
Gragnano si riferisce al vino frizzante
della zona. A dire il vero non so se c’è
una ragione… Ogni traccia è nominata al
momento, ed è semplicemente capitato
che molte delle tracce pubblicate avessero titoli italiani. Amo molto cucinare,
in particolare la cucina italiana; tra i
miei registi preferiti ci sono Fellini e
Pasolini; compro molti dischi di library
italiani, tipo Egisto Macchi e Morricone.
Credo che mi piaccia molto la lingua,
soprattutto perché non la parlo!
Quest’anno hai collaborato con il
mago della 303 Johannes “Tin Man”
Auvinen per il progetto Romans.
Auvinen al riguardo ha dichiarato:
“questa potrebbe essere la musica
che si ascolterebbe viaggiando nelle
strade romane alla fine dell’impero”.
Ora è il tuo turno: cosa puoi dire sul
progetto?
Il progetto è nato mentre Johannes ha
vissuto a New York per un po’. Ogni volta che siamo nella stessa città ci incontriamo e facciamo musica. E’ un buon
amico e lavoriamo molto bene insieme.
Cerchiamo di vedere, senza pensarci
troppo, dove ci portano i nostri macchinari. Entrambi tendiamo individualmente verso una certa malinconia, ma
mi piace pensare che lavorando insieme
tiriamo fuori interessanti sfaccettature
l’uno dell’altro.
Il podcast L.I.E.S. 001 (così come
quello per LWE, o la seconda parte
del recente show di due ore per BCR)
ha dimostrato le tue capacità, la tua
cultura e la tua sensibilità nel fare
il deejay (spero in futuro di poterti
vedere dal vivo: prevedi di venire ad
esibirti in Italia?). Domanda banale:
qual è il rapporto tra fare la propria
musica e selezionare tracce di altri
per un DJ set?
Mi piacerebbe davvero venire in Italia!
Come hai notato, ho un amore profondo
per la cultura, il cibo e l’arte italiana,
e sarei davvero contento di passare un
periodo da voi. Faccio il DJ da tanto
tempo, ed è ancora la forma di espressione più familiare per me. Selezionare
tracce per un set è per me un processo
simile a campionare sample. Ho notato
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che tendo a lavorare sui layers dei miei
brani allo stesso modo in cui mixo come
deejay. Anche se non è una priorità,
mantengo sempre un punto di vista da
DJ quando produco i miei brani, cercando di produrre cose che mi piacerebbe mettere sui piatti.
Ora è arrivato il momento del secondo album: Mirrors And Copulation. Il
titolo è tratto dallo stesso racconto di
Borges (Tlön, Uqbar, Orbis Tertius)
dal quale sono tratti anche i nomi
Gunnar Erfjord e Silas Haslam. La
citazione completa è “gli specchi e
la copula sono abominevoli, poiché
moltiplicano il numero degli uomini”. Presumo che questo racconto sia
molto importante per te: perché?
Mirrors And Copulation fa riferimento, tra le altre cose, alla crisi della sovrappopolazione globale, una tra le più
importanti questioni ambientali. Intende avere una visione oggettiva dell’umanità e del suo rapporto con il pianeta:
i modi in cui arricchiamo la Terra con
la ragione, la cultura e la matematica, e
i modi in cui permettiamo che i nostri
inferiori istinti animali si esprimano attraverso la violenza e la riproduzione. Il
racconto di Borges parla di un complotto di accademici per sostituire il mondo
attuale con uno immaginato: un possibile metodo per modificare il nostro corso
attuale verso la crisi ambientale.
Quali sono le differenze e le affinità
tra Mimesiak e Mirrors And Copulation?
Sono molto diversi. Mirrors And Copulation è stato subito concepito come
un album e ha preso forma molto velocemente. E’ il mio lavoro finora più per-
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sonale e coerente. Mimesiak, come ho
accennato prima, è più una compilation
di lavori più vecchi, anche se continuo
a sorprendermi per come comunque
funzioni bene a livello di coesione.
Mi risulta che tu abbia detto “tendo a
fare musica come una sorta di risposta, di reazione ai dischi che ascolto,
e io compro un sacco di dischi”: quali
dischi pensi che abbiano sollevato le
domande più rilevanti a cui Mirrors
And Copulation ha risposto?
Con Mirrors And Copulation ho fatto
molto meno affidamento sui sample e
molto più sulla convenzionale sintesi
analogica e digitale, quindi pochi dischi
fanno direttamente parte dell’album
come campioni. Ma traggo sempre
ispirazione dalla mia collezione e dalla
musica degli amici. Sono stato ispirato dalla struttura tradizionale del long
playing: volevo che il disco fosse come
un LP singolo, che ti siedi ad ascoltare
per venti minuti o più prima di alzarti
per cambiare lato. La musica elettronica
è passata per un periodo buio in cui si
stampavano album di 30-40 minuti su
due pezzi di vinile, così che gli album
diventavano inutilmente costosi, consumavano risorse e occupavano troppo
spazio nella borsa di un DJ. I miei compagni di etichetta alla L.I.E.S., così come
artisti come Silent Servant e NeoTantrik, hanno ripreso a far stampare LP
singoli, ed è una mossa molto positiva
in reazione alla crescita continua dei
prezzi dei dischi.
I l
b i n o m i o
f a n t a s t i c o
d i
F r a n c 0 b e a t
La creatività ha un indirizzo preciso?
Francobeat è andato a cercarla nel centro
per disabili mentali Le Radici di San Savino.
Il risultato è “Radici”, un disco “diverso” in
tutti i sensi. La nostra intervista
>>>Testo di Fabrizio Zampighi
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Pop da biblioteca. Lo chiama così Franco Naddei (in arte Francobeat) il suo fare
musica, sottolineando in tal modo quello sguardo trasversale e meta-linguistico che
il Nostro usa ogni volta per registrare i dischi. Nessun limite imposto da stili stringenti, se non il musicare qualcosa di creativamente stimolante, sia esso un immaginario sociale nostrano, condiviso e nostalgico (Vedo Beat, l’album tratto dal libro
edito nel 2005 da Stampa Alternativa, Mondo Beat) o magari un omaggio a uno
scrittore geniale come l’amato Gianni Rodari (con l’operazione Mondo Fantastico
andata in porto nel 2011). Il terzo capitolo targato Francobeat, ovvero Radici, sembra quasi una sintesi dei primi due episodi: da un lato un disco che è indirettamente
anche riflessione sociologica, indagine sull’essere umano e sul disagio; dall’altro un
modus operandi che riprende le regole della grammatica fantastica rodariana per
applicarle a un contesto con più di un punto di contatto col mondo dell’infanzia
frequentato dallo scrittore di Omegna. Sì perché le “radici” del titolo altro non sono
se non il centro per disabili mentali Le Radici di San Savino (Riccione), ai cui ospiti
è stato chiesto di scrivere tutti i testi del disco come parte di una terapia basata sulla “creatività”. «L’idea che fossero delle persone mentalmente disabili a scrivere dei
testi per canzoni – ci dice Franco Naddei – mi è subito parsa l’anello di congiunzione fra il gesto creativo dell’adulto che tenta (e nel caso di Rodari riesce) di tornare
alla semplicità e alla schiettezza infantile, e quella dose di distacco dalle cose del
mondo che turbano il processo fantastico, sia nella scrittura che nella vita, ovvero il
diventare adulti, responsabili e consapevoli. La condizione di un “matto” è infantile
e adulta contemporaneamente, e spesso pure in conflitto, e questo conflitto è a sua
volta in conflitto col mondo esterno. Se Rodari ha codificato in qualche modo la
teoria degli errori, nei “matti” l’errore è insito nella loro condizione».
Stabilito il confine («Non volevo modificare una parola di quello che avrebbero scritto e mi son tenuto tutto, ma proprio tutto, quello che è arrivato dalla loro
penna»), Naddei si è concentrato sulla parte musicale, dovendo comunque inventare una cornice che rendesse credibile tutta l’operazione (nonostante versi non
certo ortodossi) e che, anzi, valorizzasse una creatività atipica, sghemba, ma non
per questo meno affascinante. Per poi scoprire proprio in quella creatività tesori
nascosti che nulla hanno di retorico e molto di poetico: «Tutto quello che per noi
“normali” è uno sforzo, credo che per loro [gli ospiti della residenza, ndSA] sia una
condizione di “normalità” creativa. E’ chiaro che manca la lucidità per codificare
i risultati, ma tante sono state le immagini e gli spunti davvero inaspettati, degne
trovate poetiche, folgoranti, forti, a tratti lucidissime».
Tutto il lavoro viene sintetizzato in quattordici brani incredibilmente pop, dagli
arrangiamenti efficaci e che parlano prima di tutto di umanità, sensibilità e di come
dal disordine (mentale o esistenziale che sia) possano nascere bellissimi fiori. C’è
anche una certa ironia di fondo che si coglie in alcuni testi del disco, che va oltre
l’amarezza per una condizione sfortunata e parla invece dell’accettare la vita per
quella che è (o dovrebbe essere): un accontentarsi delle piccole cose, nonostante
tutte le difficoltà. Parlando degli ospiti della residenza, Naddei chiude così: «Sanno
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come è fatta e come suona una canzone. Non credo che sapessero di poter
esserne autori. Io spero di avergli regalato qualcosa di importante, un gesto di
vita».
Di seguito trovate un’intervista un po’
atipica, che tuttavia ci è parsa il modo
migliore per rimanere in linea con quella creatività “a briglie sciolte” alla base
del disco: invece delle solite domande,
abbiamo proposto a Naddei versi estratti dai testi delle canzoni contenute in
Radici, chiedendogli di scrivere qualsiasi cosa quelle parole gli facessero
tornare in mente della sua esperienza. Il
risultato è una lettura insolita ma speriamo interessante di tutto il progetto.
“C’era una volta un matto, e questo è
un fatto…” (dal brano Belluno)
La prima volta che ho letto il testo
di questa canzone mi sono stupito di
fronte alla lucidità e all’autoironia con
cui gli ospiti della residenza lo avevano
scritto. Al suo interno ci sono immagini
abbastanza sconnesse, ma tutte sembrano alludere a una consapevolezza della
loro condizione di “matti”. Per questo
motivo, dopo aver letto il testo, non mi
sono più sentito a disagio nell’usare
quel termine per definirli. Qui si trovano i primi segni di quello che è stato
il nostro rapporto. Se “il manicomio
diventa una barzelletta e tutti parlano a
strofetta” è perché loro sapevano che il
testo sarebbe arrivato a me; io ho preso
questa cosa come una specie di ringraziamento per il fatto che ogni volta che
si mettevano a scrivere, si divertivano.
“Io ero bellissima, e ora sono bruttissima…”(dal brano Io ero bellissima)
Questo testo è rimasto nascosto fra i
tanti che mi hanno mandato. In realtà
ne sono arrivati due contemporaneamente, entrambi non proprio allegri.
Inizialmente non sapevo come renderli
in musica, ma mi hanno colpito molto.
Quando ormai ero verso la fine dei lavori per il disco, ho deciso di farli leggere e
interpretare a due fra le migliori penne,
in ambito cantautorale, che abbiamo
dalle nostre parti, ovvero Giacomo
Toni e Pieralberto Valli dei Santo Barbaro. Alla fine abbiamo scelto quello
che poi è finito in questo brano. Sapevo
che entrambi i musicisti a cui mi ero
rivolto avrebbero apprezzato il testo,
in qualche modo vicino a molte tematiche delle loro rispettive produzioni.
Abbiamo scritto la musica insieme, in
un pomeriggio, dopo esserci arresi alla
prima cosa che ci è venuta in mente.
Sembrava strano che questo testo si
potesse cantare, tutto sghembo come è.
All’inizio Giacomo era partito con una
lettura in “spoken word” che mi ha fatto
venire in mente l’operazione The Raven di Lou Reed, ma io volevo che fosse
cantabile. Abbiamo cominciato a suonarlo, e la frase che tu citi era in fondo.
Quando siamo arrivati alla fine del testo,
dopo aver tirato fuori elementi melodici
assolutamente italiani (pensavo a Tenco), quella frase ci è sembrata adatta per
diventare il ritornello che legava tutte le
strofe. Tra l’altro il testo è sia al maschile che al femminile, perché quasi tutti
i testi i “matti” li hanno scritti collettivamente, per cui ognuno ha dato il suo
contributo a questo concetto dello sfiorire nella malattia e nella condizione di
disagio. Devo dire che il messaggio che
trasmette è assolutamente universale, a
molti sarà capitato di affrontare gli stessi temi nella vita di tutti i giorni. E’ un
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testo tagliente, lucido, romantico. Nel
finale le voci si incastrano, e nel canone
a me sembra che la parola “bellissima”
vinca su “bruttissima”, come a ribadire
un messaggio di speranza, nonostante
tutto.
“Questa è la mia voce…” (dal brano
Questa è…)
Questa frase è venuta fuori in una delle
mie sortite a Le Radici. In quella occasione mi sono portato dietro un po’ di
macchine per campionare e manipolare
i suoni in tempo reale. Volevo vedere le reazioni e cosa sarebbe successo
se avessi fatto sentire ai ragazzi della
residenza le loro voci, trasformate in
una composizione che potesse lambire
i confini della musica contemporanea
(che indebitamente talvolta abito). Ho
passato tutto il pomeriggio facendo loro
cantare quello che volevano; io mi sono
limitato a prendere brandelli dei loro
deliri canori, per rimasticarli e farne
altro. Cantavano Battisti, Zucchero,
arie classiche famose, i Beatles, oltre a
gorgheggi casuali. A un certo punto una
signora se ne è uscita con questa frase,
e io l’ho trovata una idea geniale, per il
titolo di un brano. Ho registrato quattro ore di queste voci; volevo metterle
nel disco per dare ulteriore risalto alla
presenza degli ospiti, per renderli ancora più protagonisti, anche in un pezzo
di musica contemporanea. Ho chiesto
aiuto a Valeria Caputo, una cantautrice
tarantina che vive a Forlì e maneggia
con abilità la materia elettronica. Lei
ha ascoltato tutto, tenendo i miei loop
e facendo una composizione unica che
ho voluto poi dividere in tre parti, per
spargerla all’interno del disco. Il tutto
per mantenere una presenza pressoché
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costante delle voci degli ospiti. Confesso che il mio sogno è di farlo anche dal
vivo, ma non so se ci riuscirò.
“Le mie meraviglie non sono poi tante, ma sono il mio carburante…” (dal
brano Le mie meraviglie)
Credo che questo testo sia uno dei più
belli che mi sia mai capitato di ascoltare. Quando l’ho letto mi si è crepata la
faccia. Con una frase, mi ha steso. Avevo
cominciato a lavorare al brano – come
per gli altri – usando la chitarra, poi
l’ho lasciato nella mia testa per un po’.
Quando ho cominciato a usare i synth,
mi è sembrato quasi un pezzo dei Santo
barbaro (band in cui rientro e a cui sono
molto legato grazie anche all’amicizia
con Pieralberto Valli). In questo brano
ho deciso che non sarebbe stato necessario avere sempre toni allegri o mascherare il disagio. Ho voluto che tutta
la forza del testo fosse accompagnata
da una musica “seria”, sentita. E così è
stato. Tutte le volte che lo ascolto, mi
emoziona. Un vero regalo per me.
“Pillole magiche, pillole di chi è fragile, di chi non ha una vita facile…” (dal
brano Pillole)
L’unico testo dove i “matti” mi hanno
lasciato un vero e proprio ritornello.
Ogni psicofarmaco nominato, precede
il refrain. Non ricordo nemmeno come
sia venuto fuori. Mi ricordo che Antonio Gramentieri (dei Sacri Cuori) aveva
dimenticato una chitarra classica dopo
una sessione di registrazione da me, e
ho cominciato a giocarci. Il “binomio
fantastico” [una delle tecniche teorizzate da Gianni Rodari in Grammatica della
fantasia, ndSA] è stato Depakin-CaetanoVeloso. I nomi degli psicofarmaci mi
suonavano come parole esotiche e “bra-
sileire”, se mi concedi la definizione. Da
lì sono andato avanti e mi son divertito
molto a vestire un testo, che definirei
crudele, con quell’atmosfera da saudade
che poi va a sfociare nella disco-music.
Su questo testo ho voluto giocare con
questo contrasto, altrimenti sarebbe
stato difficile renderlo per quello che
descrive.
“Io spero solo che cambino le cose, in
meravigliose…” (dal brano Che cambino le cose)
Vorrei tanto nominare la persona che ha
scritto questo testo, ma non posso farlo
per questioni di privacy. La persona
in questione ha dato una grande mano
nella scrittura di molti testi, e questo è
tutto suo. E’ stato uno dei primi ad arrivarmi e a confermarmi il potere poetico
che ribolliva nelle “menti annebbiate”
degli ospiti della residenza. Inizialmente il brano aveva in primo piano le
chitarre ed era simile ad altri episodi
di Radici. Non ero contento, tuttavia,
del lavoro che avevo fatto, perché non
rendeva giustizia alla riflessione interiore che racconta. Così ho dimezzato
la velocità pensando al sound dei Sacri
Cuori, praticamente scrivendo su misura per loro, dal momento che sapevo
che avrebbero valorizzato il brano con il
loro portentoso stile, come poi effettivamente è stato. Una ballata narcolettica,
una persona che riflette lentamente, per
forza di cose. Questo brano, assieme a
Verde/Secco, è stato rimaneggiato dopo
aver sbagliato inizialmente approccio.
Qui compare John De Leo; avevo capito
che si sarebbe speso su questo brano
con la solita bravura. L’ho lasciato fare,
e (a ragione) mi ha cambiato la stesura.
Nel brano ho lasciato una coda lunga
immaginando un intervento in voce dei
“matti” con qualche parola che per loro
rappresentasse un messaggio di speranza, un segno positivo. Ho insistito tanto
perché gli operatori del centro Le Radici registrassero questi interventi. Non
potevo farlo io, perché avrebbe significato chiedere agli ospiti di fare qualcosa
di forzato di fronte a me. Ci è voluto un
bel po’. Nel registrato ci sono momenti
divertenti, ma anche di sconforto. Alla
richiesta di lasciare un messaggio bello,
positivo, qualcuno si è arrabbiato. Alla
fine, poi, tutto si è risolto.
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F e n o m e n o l o g i a
d i
G i a n n i
M o r a n d i
i l
c a m p i o n e
d i g i t a l e
d i
F a c e b o o k
Una pagina Facebook che mette tutti d’accordo, basata sulla
quotidianità familiare del cantante italiano per eccellenza: un
pretesto per fare qualche considerazione sul pop italiano
>>>Testo di Gaspare Caliri
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Cos’hanno in comune un’attivista digitale, una funzionaria del maggiore sindacato italiano, un cineasta esploratore
del sottobosco palermitano, una hipsterissima trentenne veneta, il presidente
di un’associazione di lobbying politico,
uno scrittore di storie di Topolino e una
mia compagna delle elementari (di cui
non so nulla da allora)? Sembrerebbe
una sala d’aspetto, eppure hanno come
comune denominatore un’azione digitale: tutti loro hanno messo “like” alla fan
page di Gianni Morandi su Facebook.
Non solo: ognuno di essi si è esposto in
prima persona, commentando le uscite
pubbliche del cantante – al di là dei like
ai singoli post di Morandi, tutto sommato un fenomeno trascurabile, o meglio,
connaturato al principio d’imitazione
presentissimo sul social network.
Di cosa parla la pagina? Della vita del
campione del pop italiano. Un’impeccabile strategia digitale basata sulla regolarità, vale a dire una foto al giorno, un
brevissimo racconto di cosa faccio oggi
– io, Gianni Morandi – generalmente
calato nella quotidianità più normale,
benché si parli di Gianni Morandi, che
prepara i fagiolini ma anche che suona la chitarra e va in televisione. Altro
tratto determinante: Gianni è bolognese, vive nell’immediata provincia di
Bologna e ogni elemento che chiama
in causa la sua città è dichiarazione di
lontananza dai centri del potere massmediatico – dal dibattito esclusivamente cittadino sul Bologna Calcio ai viaggi
a Milano o a Roma per andare in RAI.
Uno di noi. Risultato: totale coesione
dei fan della pagina, che non fatichiamo
a pensare parte di una comunità.
I social media analyst conoscono bene
la regola dell’1%. Di una community
online, 90 persone su 100 sono completamente passive, seguono qualcosa
di ciò che avviene su una pagina, o un
gruppo, ma sostanzialmente non sono
reattivi o proattivi. Il dieci per cento è
più partecipe, fino ad arrivare a quell’uno su cento che ci mette la faccia digitale. Commentare, laddove poi tutti sanno
che Gianni risponde – e quindi un commento è un potenziale thread, vuol dire
essere in prima persona un “fan”.
Come può essere accaduto? Sono le canzoni intramontabili di Gianni Morandi
a godere di questa frizzantissima onda
lunga? Forse, ma la cosa è imponderabile. Se lo ammettiamo, chiudiamo qui
l’analisi. Ma a noi piace l’idea di scavare
ancora un poco, per tentare la strada di
una fenomenologia di Gianni Morandi,
il digital champion.
I media di massa italiani, così come
quelli sociali, sono arene perfette per
guardare al pop, le tendenze, e capire
quanto ancora valga oggi il modello
dentro il quale “vengono provocati
desideri studiati sulla falsariga delle […]
tendenze” già in atto (riprendendo più
o meno alla lettera le prime mosse della
Fenomenologia di Mike Bongiorno che
Umberto Eco scrisse nel 1961). Sono
luoghi dove avviene la conferma: dove si
delibera giorno per giorno il vero mito,
quello della quotidianità.
La vera differenza è che i media sociali
sono per manifesta intenzione inclusivi,
non si basano sulla distanza, ma sull’avvicinamento. Mike Bongiorno era nel
1961 l’icona della mediocrità; leggendario – talmente leggendario da diventare
introvabile – lo scambio con cui liquidò
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John Cage dopo l’esecuzione di Water
Walk, che suppergiù alla lettera diceva
“Torni a trovarci, ma lasci a casa la sua
musica” (basta guardare qui per capire che quella reazione non era l’unica
possibile, nel mainstream of communication). Gianni non è come Mike
Bongiorno, attua una strategia raffinata
per creare “engagement”: non sfotte chi
è fuori dal pop – cosa che Bongiorno
faceva per difendere sé in una levata di
scudi condivisa dall’audience. Quando
riceve una critica, ridimensiona l’interlocutore con grande rispetto, sapendo
che ci sarà chi lo difenderà. Oggi si
compie un giro in più di vite e avviene
una cosa abbastanza poco ordinaria, che
si compie quando le persone prendono
parola per l’icona stessa, rispondono per
lui, nella trafila dei commenti dei post
su Facebook di Gianni Morandi.
Questa è una caratteristica importante
del pubblico del pop italiano. Siamo una
rivista di musica, di critica musicale,
e guardare al digital champion serve
appunto a tenere il polso del presente
della musica mainstream – servirà poi a
capire meglio il cantautorato che anela
a essa. Ecco dunque alcune caratteristiche del pop italiano, filtrate dalla pagina
Facebook di Gianni Morandi, il campione digitale.
1- La cosa davvero notevole della pagina
è la capacità di chi la gestisce di controllare i toni. Come fa Gianni a non procurarsi flame? Ha scoperto la formula magica? È proprio qui il punto, la domanda
a monte: c’è una formula dietro? Ci sono
alcuni segnali che danno questa opzione
come percorribile. C’è estrema regolarità nel modo in cui Gianni risponde ai
16
propri fan, sia che siano adoranti o che
mettano in dubbio qualcosa. In primo
luogo il saluto: ogni risposta, dentro le
centinaia di commenti, si conclude con
“un bacio” per lei, “un abbraccio” per
lui. Gianni accetta e ringrazia per qualsiasi commento, lasciando l’avversario
disarmato. Il vero buonismo italiano
è fatto di saper incastrare l’avversario
con il sorriso, verrebbe da dire. Eppure
è una cosa a cui non si è più abituati, in
tempi di schiamazzi e assenza di argomentazione. Questa è la strategia principale con cui Gianni acquista consensi:
non accettare mai al alzare la voce, per
restituire al pop italiano la peculiarità
di sfamarsi di belle parole e pensieri
stereotipati in detti, facendo buon viso a
cattivo gioco. Un giorno Salvatore dice:
“Gianni, non fai ridere. Fattene una ragione”. Gianni risponde: “Salvatore, me
n’ero accorto, per questo mi sono messo
a cantare. Un abbraccio”.
2- Il 15 settembre Gianni parla di musica, disattendendo – sembra – la regola
della quotidianità. Riporta la richiesta
di una signora che corre con lui, che gli
ha chiesto perché il digital champion
non canta mai una data canzone – poco
conosciuta ai più. Il post è un video con
Gianni che canta con la sua chitarra una
canzone non esattamente orecchiabile.
Sembrerebbe perfetto, per un fan: avere
l’idolo che canta come se fosse al cospetto di sua moglie, in salotto e senza
amplificazione. Ma, appunto, la canzone
non fa parte della serie di hit popolari
più famose del cantante, e nei commenti
il discorso presto svia. Gianni apre un
confronto ma dissemina piccole trappole per costruire vie di fuga dal discorso
musicale. La signora “corre con me”. Il
mainstream pop ha bisogno di questo,
non solo è transmediale per definizione
– ma ha bisogno di alimentare il proprio
pubblico al di fuori del discorso musicale. L’illusione di vicinanza di un social
network crea un canale di distrazione
funzionale.
3- Il 14 ottobre 2014 si parla di nuovo di
musica. Gianni dice: “Prima di Natale,
la Sony Music pubblicherà una raccolta
con le venti canzoni più importanti e significative della mia carriera. C’è anche
un brano nuovo. È stata fatta una scelta
provvisoria ma non so se è la migliore.
Avete voglia di darmi una mano? Quali
sono le dieci canzoni che non devono
assolutamente mancare?”: è impossibile
analizzare le risposte – in neanche due
ore arrivano 11400 like e 3500 commenti. È inevitabile, forse, che la scelta dei
fan ricada sui classici: Occhi di ragazza,
C’era un ragazzo, In ginocchio da te,
Non son degno di te, Anna, Bella signora. In realtà, più che inevitabile questa
opzione, era poco probabile, ma non
impossibile, che i più – dei fan – patteggiassero per canzoni sconosciute, nella
copiosa produzione di Gianni Morandi.
Questo dipende di certo dal fatto che la
musica nel mainstream pop è riconoscibile, riconosciuta, non smuove ma conferma, attende alle aspettative che crea.
C’è un codice ripetibile dietro ai post
della pagina Facebook di Gianni Morandi proprio perché non si crei sorpresa,
ma conferma. La musica nel nostro pop
non è importante. Vogliamo entrare
nella carne. E la musica deve essere
riconoscibile perché non deve distrarre
dall’uomo. Non deve distrarre, punto.
ci sono tante “intenzioni” dentro un
testo – verbale, scritto, anche musicale.
C’è l’intentio operis, l’intentio auctoris,
l’intentio lectoris. La prima è quella che
conta, da un punto di vista interpretativo. Se cerco di interpretare un’opera
pensando a quello che pensava l’autore
quando l’ha creata, ci perdo la testa. Se
mi baso solo su quello che il lettore – o
fruitore – coglie dell’opera stessa, non
sono comunque sulla buona strada. Al
di là di quello che dice l’autore della
propria opera, è quella che parla per lui,
nel bene e nel male. Gianni ci dimostra
l’ipotesi contraria, dove tutto si schiaccia sull’intentio auctoris. Anche il lettore, quando diventa fan, si fa portavoce
dell’intentio auctoris. Si fa portavoce
del suo hero, grazie al fatto che l’effetto
di senso – di presenza dell’uomo dietro
al cantante – porta appunto davanti a
noi la persona, non la musica. L’uomo è
talmente simile a me che posso rispondere per lui, nei commenti della pagina
dove del resto è lui stesso a rispondere.
Il pop abbassa l’importanza dell’opera
in sé, senza l’autore dietro l’angolo, e
soprattutto il suo pubblico (vedi l’argomentazione per la quale se tanta gente
ascolta i Beatles, questi ultimi stanno
cambiando la storia della musica). È
davvero quest’ultimo che conta, e Gianni ha trovato il trucco di farlo coincidere con sé.
Gianni, così come Mike, in definitiva
il pop hero dice ai suoi adoratori: “voi
siete Dio, restate immoti”.
4- In semiotica un tempo si diceva che
17
L a m b
R i p o r t a n d o
t u t t o
a
c a s a
Il viaggio impervio di “Backspace Unwind”, la musica che gli gira intorno
e un chiarimento: “Mai avuto nulla a che fare con Bristol”.
>>>Testo di Gianluca Lambiase
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Certi posti sono così belli che vale la
pena di tornarci, di riscoprirli. Andy
Barlow e Lou Rhodes, attivi dal 1994
sotto il nome Lamb, avranno pensato
anche a questo quando tre anni fa hanno deciso di ricominciare a fare musica
insieme. Il duo elettro-folk, che nell’ultimo album Backspace Unwind parla
anche di amore tra sintesi elettroniche
condite da auree orchestrali, ci spiega
What Makes Us Human, senza scadere
nella retorica o di chi suona fuori tempo. “Perché non so fino a che punto la
nostra musica possa ritenersi contemporanea, riuscita o perfetta – ci spiega
Lou – ma certo è quanto di più sincero e
vero siamo ancora in grado di fare”.
Partiamo da Backspace Unwind,
secondo album post-reunion dopo 5.
Come è nato questo disco?
Quando abbiamo iniziato a scrivere 5
avevamo idee che poi sono rimaste fuori
da quel disco, e siamo ripartiti da lì. In
un modo molto diverso dal disco precedente abbiamo provato ad elaborare
azzerando tutto, cercando di ripartire
da capo, discutendo su quello che la
nostra musica dovesse essere e cosa no.
Per certi versi il processo creativo che
ha accompagnato questo disco è molto
simile a quello dietro al nostro primo
album. Abbiamo cercato di spogliare i
suoni provando a ricavare uno spazio
differente, una via nuova.
L’impressione maggiore che si ha
ascoltandolo, è che vogliate ignorare
i trend di sperimentazione elettronica, preferendo continuare a ricercare
ancora una volta quell’equilibrio che
è da sempre la ricetta della vostra
musica…
Non saprei dirti quanto in definitiva
possiamo reputarci realmente distanti
dalle mode che si muovono nella musica
elettronica. Di certo siamo molto attenti
a quello che reputiamo interessante e
che in qualche modo finisce per prendere una propria fisionomia anche nella
musica dei Lamb.
Backspace Unwind ha il sapore di un
lungo percorso che conosce momenti
più complessi ed episodi più semplici,
accessibili. Come una riconoscenza.
Come un Ulisse alla fine del viaggio…
Il riferimento al viaggio è sicuramente
centrale in questo disco. Volevamo che
l’esperienza di ascolto fosse un viaggio,
ma di quelli fatti senza un itinerario
preciso: non sappiamo dove stiamo andando ma sappiamo che questa strada ci
sta portando da qualche parte. E’ stato
divertente perché anche nel decidere
l’ordine delle canzoni abbiamo seguito
un po’ questa logica, portando l’ascoltatore da una partenza più complessa a
una fine pacifica, ricca di amore.
We Fall in Love potrebbe rappre-
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sentare un po’ il manifesto di tutto
questo?
Assolutamente sì! We Fall In Love è stata l’ultima canzone che abbiamo scritto
per questo disco ed ha interpretato perfettamente il significato di esso. Quando
abbiamo iniziato a scriverla ci siamo
resi conto che avevamo bisogno di qualcosa che aggiungesse a questo lavoro
un tocco magico, di amorevole bellezza.
Siamo riusciti a trovarlo in questo pezzo
che abbiamo aggiunto all’ultimo minuto e che per forza di cose è diventato il
primo singolo.
Come nascono i vostri brani e come
riuscite a trovare quell’equilibrio
perfetto tra l’elettronica di Andy e il
tuo cantato?
Non saprei dirti se si tratta di un equilibrio perfetto. E’ un processo lungo
che ci porta a confrontarci di continuo.
Siamo sempre molto attenti a quello che
ci circonda, alle piccole idee, e spesso
partiamo da lì. Spesso una semplice
linea di basso o poche parole ci suggeriscono qualcosa. Iniziamo così a lavorare
insieme su quell’idea cercando l’alchimia giusta che la farà evolvere in modo
organico per donarle una via propria.
Quant’è cambiato in questi anni il
mondo musicale che vi circonda?
E’ cambiato tantissimo. Per quanto
ci riguarda, quando abbiamo iniziato
a fare musica pubblicavamo per una
piccola etichetta e il solo stare in studio
ci sembrava un miracolo. Oggi abbiamo
uno staff che ci segue e la possibilità di
arrivare a persone che non ci conoscono. Quando abbiamo iniziato non c’era
internet, i social network o Bandcamp e
tutto era molto più complesso e legato
spesso ai piccoli negozi di dischi. Oggi
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le opportunità per venir fuori sono sicuramente maggiori.
Le vostre singole esperienze quanto
stanno influenzando questo nuovo
corso dei Lamb?
Tantissimo. Quando decidemmo di
fermarci nel 2004 avevamo bisogno
di raccogliere le idee, di prenderci il
nostro tempo per capire costa stessimo
facendo. Avevamo bisogno di ritrovare
spazi per provare esperienze musicali
differenti e poi ritornare a godere insieme della musica che stavamo facendo.
Tutto questo ritorna prepotentemente
in 5 e in Backspace Unwind, e quelle
piccole idee o intuizioni di cui ti parlavo
prima spesso vengono proprio da lì.
Il 28 ottobre, da Bristol, è iniziato il
vostro tour, che toccherà anche l’Italia dal 17 al 19 novembre. Come vivete
l’esperienza dal vivo?
Con grande emozione, perché vedere
tante persone che si muovono per ascoltare la nostra musica è sempre qualcosa di pazzesco, che mi sorprende ogni
volta.
Ripartire da Bristol ha un significato
particolare?
In realtà no, ma capisco la tua domanda.
Credo che si tratti di un errore storico che ci portiamo dietro da anni: pur
essendo originari di Manchester, siamo
sempre stati associati a Bristol. Credo
dipenda dal fatto che spesso il nome dei
Lamb viene legato alla scena trip hop di
questa città, ma in realtà l’abbiamo sempre vissuta molto poco, quella scena, e
in questo senso credo che con 5 abbiamo preso ancor di più le distanze anche
da quel genere.
Che ricordo hai dei concerti in Italia?
Sono sempre stati particolarmente
intensi. Ricordo una data a Roncade e
una ai Magazzini Generali, locali dove
di solito si suona un certo tipo di rock
abbastanza lontano dalla nostra musica.
Con grande sorpresa invece trovammo
tantissima gente che ci ascoltava, venuta lì appositamente per noi.
Venti anni di attività, sei dischi e un
peso specifico unanimemente riconosciuto. Vi state avvicinando allo
status di “classico”. Lo avvertite? Vi
fa piacere o paura?
Forse nessuna delle due. Non so dirti
se stiamo diventando un classico, da un
punto di vista musicale, forse saranno
gli anni di attività. In realtà viviamo
sempre con molta sincerità la nostra
musica, continuando a cercare quello
che ci piace, che ci fa sognare, e sperando che anche le persone che ci ascoltano possano godere della stessa gioia
che viviamo noi nel realizzare la nostra
musica.
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Lee
Gamble
Techno
Diversions
STORY
Dopo gli anni scolastici passati ad ascoltare jungle, techno ed
Autechre, e i susseguenti anni Zero immerso nelle maree e increspature glitch, ambient e noise di Mille Plateaux, Mego, Touch
(coltivate recuperando anche alcune avanguardie storiche da
autodidatta), Lee Gamble si fa conoscere e apprezzare, nel 2012,
con due pubblicazioni su Pan che fanno il giro degli addetti ai
lavori, delle testate che contano e delle agenzie dei festival. Il suo
diventa, quell'anno, il nome da spendere negli ambienti dell'intellighenzia techno, magari tra i protagonisti di hauntologiche viste
sulla morte del rave, e questo grazie a uno stile personale, trasfigurato, a cavallo tra dancefloor e astrazione, escapista nel tentativo di creare realtà alternative, aspramente computazionale come
da tradizione Mego ma anche morbidamente aereo e in perfetta
linea con Basic Channel, Chain Reaction e la cultura dell'ardkore
continuum.
Coerente con la visione sperimentale delle citate etichette tedesche (vedi l'amore per Pita, Hecker e Russell Haswell) ma senza
perdere il legame viscerale con il ritmo, sia esso declinato techno
dub o imbevuto di contorni rave, Gamble, nato a Birmingham
ma di stanza a Londra e fondatore del collettivo CYRK assieme
a Dave Gaskarth (visual artist e autore di molti dei videoclip del
producer, oltre che spalla per molti live ed entusiasmanti programmi in radio), rappresenta il corrispettivo adulto (non proprio
intellettuale) di tanti approcci arty ed eterodossi allo stile di Detroit e Chicago delle varie Tri Angle o Blackest Ever Black. Non
ultimo nella sua musica rientrano i richiami colti (John Cage,
Iannis Xenakis, Stockhausen), specie di stampo cosmico e ancor
meglio se funzionali all'elettronica con la quale è cresciuto.
Le prime pubblicazioni di Lee Gamble sono tuttora inedite e
rimarranno tali. Riguardano tracce jungle pubblicate negli anni
Novanta sotto l'influenza dei cugini più vecchi e della mitologia
giovanile attorno al genere. E' il periodo in cui inizia a fare pratica come dj anche presso una radio locale. Per le uscite ufficiali,
precedute da una serie di improvvisazioni live con il compositore John Wall, bisognerà aspettare più di 10 anni. E' nel biennio
2009/2010 che la produzione ufficiale del producer acquista la
forma di astratta computer music al laptop. In quegli anni, troviamo sia l'esordio lungo Join Extensions, masterizzato da Rashad
Becker per Entr'acte (dove, tra gli altri, pubblicava anche Ielasi),
sia una cassetta omonima co-firmata con il sound artist giappo-
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nese di stanza a Berlino Yutaka Makino (anche se una primissima
produzione risale, a dire il vero, a un 3'' CD nel 2006).
E' musica, questa, che nelle sue espressioni più astratte e intellettuali viene presto accantonata. Nel 2012, sulla blasonata label
berlinese Pan di Bill Kouligas, Gamble è già alle prese con un
altro tipo di suoni ed è qui che inizia la sua vera storia. Vengono
pubblicati, entrambi nel 2012, due album complementari, o parti
di un unica visione, Dutch Tvashar Plumes e Diversions 19941996: il primo si configura come "musica che sta nella tua mente,
un'idea allucinata di musica" (sue le parole registrate da Wire
nell'agosto del 2014) a cavallo tra ritmi e astrazioni, e il secondo
ritorna agli amori giovanili per decostruirli (o sarebbe meglio
dire polverizzarli), manipolando classici jungle (registrati su un
vecchio mixtape) e ottenendone un inedito taglio ambientale che
non sarebbe sfigurato nella discografia Touch d'inizio Duemila.
E' una "particolare atmosfera di quella musica, o lo spazio dentro
a quella musica" (sempre dall'intervista a Wire), quello che Gamble vuole rappresentare e, spesso, quello spazio finisce per assumere i contorni di una techno dub scorticata, l'equivalente di osservare i Porter Ricks dal buco di una serratura. Nel mini album,
che in molti alla sua uscita hanno osservato da un'angolazione
di hauntologica "morte del rave" (vedi anche il R.I.P di Actress,
sempre del 2012), soltanto la traccia Dollis Hill presenta un ritmo
jungle in chiaro, mentre in Rufige (da Rufige Kru, alias di Goldie)
c'è un chiaro riferimento - opportunamente mesmerizzato - al
mitico hover sound dei rave. Interessante anche la selezione di
classici Jungle che il Nostro propone a Dummy, dove figurano DJ
Dextrous & Rude Boy Keith, Photek e Dillinja.
spiraglio di ottimismo molto
ben dissimulato da ambigiutà
e tepori jazzy. Come si nota
già dalle prime note dell'EP,
lo stesso approccio ai ritmi e
alla cultura elettronica UK,
tra breakbeat e deep house, è
più diretto e senza filtri. Inoltre, non vengono abbandonati
i momenti più meditativi ed
aerei. Diversamente dall'EP,
l'album lungo mantiene la linea
chiaroscurale di Dutch Tvashar
Plumes puntando comunque
su un approccio più scopertamente legato alla techno. Non
mancano, tuttavia, i contorni
e le screziature noisey, echi e
clangori industriali vagamente Mika Vainio e tutto l'aereo
fascino della techno dub.
Completano l'anno in bellezza: un memorabile set alla Boiler
Room e una cassetta in combutta con CM Von Hausswolff, Stream Of Unconscious Volume 8 , per Stand-Up Tragedy Records.
Importante sottolineare l'attività di Gamble come dj, che si
risolve in un eccitante misto di mixing e composizione tra techno
sparata e sperimentazione libera, voci rubate da film e molteplici
fonti, e pesanti layering.
Il ritorno discografico del producer è targato 2014, anno in cui si
ripresenta con due uscite parallele: il 12'' Kuang e l'album KOCH,
entrambi caratterizzati da una luce inedita, e persino qualche
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Kindness
World
Restart
STORY
a Solange, sorella della popolare Beyoncé. La sua idea in musica
è un distillato pop di black music che va dal ballabile alla ballad,
dal funk alla disco, dal soul all’house, dunque, un felpato artigianato sonoro, raffinatissimo nelle citazioni (anche campionate) e
sempre delicato nell’impatto, che si è avvalso tanto della lezione
di Bob Blank quanto di quella di Prince e Janet Jackson (di cui il
citato duo produttivo ha curato moltissimi successi) e di un vasto
numero di stili funk di tradizione americana.
Classe ‘82 ed originario di Peterborough, Adam Bainbridge, è attivo come Kindness dal 2011 su etichetta Female Energy, una realtà
personale il cui nome deriva da una session di brainstorming
assieme all’amico, nonché ex compagno di appartamento, Steven
Warwick ovvero il leftfield producer Heatsick. Il nome della label
riflette l’attitudine anti macho del giovane musicista che in tarda
adolescenza passa da ascolti radiofonici a jungle e house, al tessuto artistico e musicale di Dalston.
Proveniente da una famiglia per metà di emigranti indiani di una
comunità del Sud Africa (da parte di madre) e per metà inglese
(da parte di padre), e da sempre sensibile alle discriminazioni di
sesso e razza, Bainbridge si trasferisce nel sobborgo londinese
nel 2004 a 22 anni. Abita in un piccolo vicolo - il Miller’s Terrace
- popolato dalle tipiche case a schiera britanniche che condivide
con, tra gli altri, Dev Hynes (Lightspeed Champion e Blood Orange) e altri membri della sua band di allora, i Test Icicles, oltre al
duo Hype Williams. Sempre da queste parti, tra un house party e
l’altro, conosce Alex Sushon, futuro co-fondatore di Night Slugs
e più tardi noto come Bok Bok (in futuro collaborerà con Kelela a
più riprese), oltre ad un altro producer di quel giro, Philip Gamble, ovvero Girl Unit.
Parallelamente a Dev
Hynes ovvero Blood Orange, Kindness, ovvero Adam
Bainbridge, è stato in grado
di costruire, dall’inizio degli
anni 10, una solida carriera
sia come autore in proprio,
sia come producer per grossi
calibri che vanno dallo storico
duo Jimmy Jam & Terry Lewis
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L’alias Kindness prende vita molti anni più tardi, precisamente
nel 2009, quando Moshi Moshi pubblica un primo singolo del
musicista, Swingin’ Party (cover dei Replacements). Nel frattempo, nel 2007, da segnalare c’è una fondamentale residenza artistica a Philadelphia presso il cittadino Institute for Advance Study.
Qui Adam, oltre alla regia di un videoclip dei Grizzly Bear (una
cover di Finaly Fantasy/Owen Pallett, Don’t Ask), inizia a lavorare
duramente sulla forma canzone e il suo arrangiamento in solo e
in collaborazione con molti musicisti locali (con i quali confezionarà anche un album, Live In Philly, all’interno del programma
del Eric James Johnson Memorial Fellowship), un praticantato
che continuerà successivamente, per un breve periodo, anche a
Berlino, dove il Nostro soggiorna per alcuni mesi prima di far di
nuovo ritorno a Londra. Il progetto Kindness prende rapidamente forma e sostanza nei mesi seguenti. Arriva un contratto con
Polydor, e l’aggancio con l’etichetta porta a sei mesi di session in
uno studio di registrazione a Parigi per la realizzazione dell’esordio discografico. In Francia, il disco vede inizialmente la co-produzione di Philippe Zdar dei Cassius, mentre successivamente
un’altra co-produzione, questa volta con Erol Alkan agli Hercule
Studios di Londra, è concentrata unicamente sulle parti vocali.
World, You Need a Change of Mind, l’esordio di Kindness, è del
marzo del 2012 e già dal titolo (che cita Girl, You Need a Change of Mind di Eddie Kendricks) è un disco pieno di riferimenti
e devozioni alla cultura funky degli anni ‘70 e ‘80 aggiornati al
tocco house di Zdar, alla voce soulful di Bainbridge e a trovate tra
r’n’b e jazz ispirate da Arthur Russell e dal duo produttivo Jam &
Lewis, storici collaboratori di Janet Jackson (con i quali il Nostro
collaborerà di persona l’anno successivo). Presenti anche due
cover - Anyone Can Fall in Love dalla soap opera East Enders,
Swinging Party dei citati Replacements (da Tim) - e un omaggio
alla scena go go di Washington DC (il brano/documentario è Still
Smoking, composto quasi totalmente da frammenti presi dall’omonima traccia della band locale Trouble Funk), tutte parti integranti di un esordio promettente, forse troppo riverente in alcuni
punti, ma che già mette in evidenza le caratteristiche morbidezze
r’n’b e le doti arrangiative del ragazzo di Peterborough.
L’album è, inoltre, per Kindness, un passaporto per i festival
(anche il Primavera Sound 2012) e per l’attività di produttore.
Solange, al tempo al lavoro con Hynes per l’EP True, è la prima
ad entrare nella sua agenda. I due registrano in Ghana che a New
Orleans in un periodo dove gli appuntamenti e le collaborazioni si moltiplicano a dismisura. Tra i tanti rientra anche la regia
di Chamakay, singolo traino di Cupid Deluxe, secondo album di
Blood Orange pubblicato nel 2013 al quale Adam collabora anche
in veste di produttore.
In un certo senso, affermiamo in sede di recensione, nel nuovo
Otherness, pubblicato ad ottobre 2014, Bainbridge sembra idealmente rispondere o procedere parallelo all’amico Hynes: l’album,
maturo e coeso, abbandona il
lato house di Zdar per un rotondo mix di r’n’b, funk, soul,
disco e jazz. Lo stesso Devonte
è presente in scaletta con il
brano Why Don’t You Love Me
assieme a Tawiah e, ciò che
più conta, è la coralità con la
quale il disco è stato concepito,
oltre naturalmente ai crismi di
produzione. Tra gli ospiti del
sophomore troviamo Kelela, in
una veste arrangiativa radicalmente diversa da come l’avevamo lasciata in Cut For Me,
ma anche la popstar norvegese
Robyn, mentre dal punto di
vista del personale in studio
spiccano Blue May (che ha curato il mixing assieme ad Adam
e contribuito come ingegnere
del suono), Jimmy “The Senator” Douglass (produttore che
in agenda conta collaborazioni
con Rolling Stones, Timbaland
e Timberlake) e John Dent (a
cui è stato affidato il mastering). Alla realizzazione del
disco concorrono infine numerosi strumenti, molti suonati da
Bainbridge ed altri dallo stesso
May ai suoi XXVII Studio, e
non mancano nemmeno, questa volta, i campionamenti: For
The Young prende in prestito
un riff di kora da un brano
di Herbie Hancock e Foday
Musa Suso, With You omaggia
Moments in Love degli Art Of
Noise e in Who Do You Love? è
presente un frammento di Shy
Girl di LaChandra.
25
R ö y k s o pp
26
Th e
o f
K i n g s
N o r d i c
P o p
In occasione dell’uscita del quinto album “The Inevitable End”, abbiamo
intervistato Torbjørn Brundtland e Svein Berge. Ricordi anni ‘80, molte
collaborazioni e ancora tanta voglia di comporre pop di qualità.
>>>Testo di Marco Braggion
In occasione dell’uscita del nuovo disco
The Inevitable End, abbiamo intervistato via Skype Torbjørn Brundtland (To)
e Svein Berge (Sv), in arte Röyksopp.
Il duo norvegese ha dichiarato che il
quinto disco della sua produzione musicale sarà l’ultimo album. Un addio? Per
niente! Ci hanno infatti tranquillizzati:
“non smetteremo di comporre musica, è
solo la specificità del formato album che
ci va stretta”. Un capitolo della loro fortunata carriera che si chiude e che apre
nuovi percorsi, probabilmente destinati
a pubblicazioni sulla breve distanza (EP,
singoli) e forse a collaborazioni su altri
media.
Nella chiacchierata – purtroppo durata
solo mezz’ora – ci siamo trovati a parlare dei nuovi pezzi e dei nuovi collaboratori (Jamie McDermott, Robyn, Susanne Sundfør), ma anche degli esordi,
della scena di Bergen, degli anni ‘80 con
Bjørn Torske, dei Duran Duran e delle
produzioni elettroniche contemporanee.
Nel 2001 avete iniziato con qualche
singolo e il vostro debutto Melody
A.M.. Dopo tanti anni il vostro approccio al comporre musica è cambiato?
(To) Abbiamo sempre voluto creare e
fare musica. In questo non siamo cambiati. Magari abbiamo usato qualche
trucco, ma alla fine di ogni giorno posso
dire di provare sempre la stessa sensazione: vogliamo esprimerci.
(Sv) Anche se il “dogma” (se vuoi chiamarlo così) o l’approccio con cui componiamo musica è lo stesso, c’è stata
un evoluzione nel modo in cui ci esprimiamo. Abbiamo abbracciato direzioni
diverse, col passare del tempo, ma il
modo in cui ci avviciniamo alla musica è
lo stesso. La filosofia è la stessa, cambia
il modo in cui la esprimiamo.
Nelle note stampa che accompagnano il nuovo lavoro, The Inevitable End,
avete dichiarato che sarà il vostro
ultimo disco: “non smetteremo di
fare musica, ma non useremo più il
formato album”. Cosa significa?
(Sv) Significa proprio quello che abbiamo detto. Finora abbiamo pubblicato
cinque album da studio di cui siamo orgogliosi, ma vogliamo smettere di usare
questo formato. Abbiamo sempre fatto
quello che abbiamo voluto con quel formato specifico. Ovviamente non smetteremo di comporre musica, è solo la
specificità del formato album che ci va
stretta. Vogliamo abbandonarlo perché
lo amiamo a tal punto che non vogliamo
rovinarlo in qualche modo.
Allora inizierete a scrivere musica
per film, cinema, altri media o che
altro?
(Sv) Potremmo anche farlo, trovando
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l’occasione giusta, ma ci sono altri modi
e posti in cui si può pubblicare musica
oggi. Per esempio si possono stampare
EP, anche in serie, oppure si possono
stampare pezzi singoli, senza doverli
mettere in un contenitore o in un contesto. Puoi metterli su Soundcloud o
sul tuo sito… ci sono soluzioni diverse.
Potremmo creare musica appositamente per i club o per i dancefloor. O anche
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qualcosa, come dici tu, per teatro o film.
Cose che non abbiamo fatto in passato
ma che potrebbe essere interessante
fare. Siamo aperti a qualsiasi esperienza, possiamo fare qualsiasi cosa.
Avete iniziato nella cosiddetta “scena
di Tromsø” e poi vi siete spostati a
Bergen con artisti come Bjørn Torske, Ralph Myerz e altri. Siete sempre
stati in bilico fra pop e techno, creando uno stile ibrido. Già dall’esordio
avete utilizzato molti ospiti vocali.
C’è una ragione particolare per la
quale non pubblicate molti strumentali? Anche nel nuovo disco ci sono
molti featuring…
(Sv) Ci sono molte ragioni. La prima è
che vogliamo cambiare il nostro modo
di esprimerci sui pezzi. Vogliamo evolverci, così da non insabbiarci e ripetere
quello che abbiamo già fatto. Per noi
trovare i collaboratori giusti in termini di vocals è sempre stato un modo di
andare in una certa direzione. Trovare
la giusta voce per lo specifico sentimento o sensazione da associare al pezzo è
imperativo, molto importante. Anche se
amiamo tutte le persone con cui abbiamo lavorato in passato, sentiamo che
non le possiamo usare di nuovo, anche
se ci piacerebbe. Non lo facciamo perché non ci vogliamo ripetere.
In particolare per quest’ultimo disco
abbiamo voluto cambiare collaboratori,
sia per i temi che abbiamo sviluppato, che per i testi. Questi ultimi sono
molto connessi alla nostra storia e alle
cose che ci sono successe. Ecco perché
abbiamo voluto una dominanza maschile per le vocals del disco, in confronto
a Junior che ha un enfasi più sul lato
femminile.
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Com’è stato collaborare con Jamie
Mc Dermott? Avete collaborato con
lui su altri pezzi in passato. Sul disco
canta addirittura quattro brani…
(Sv) Abbiamo sentito uno dei suoi primi
pezzi nel 2008 o 2009. Il brano si chiamava In This Shirt (la canzone è degli
Irrepressibles, il gruppo di McDermott,
ndSA) e ci è piaciuto molto, insieme alle
sue abilità vocali e alle cose che riusciva
a comunicare con la sua voce. In quel
periodo stavamo terminando Junior,
che è l’album più uptempo della nostra
intera discografia. Ci sarebbe piaciuto collaborare con lui ma sapevamo
che il suo stile non sarebbe stato bene
nel disco. Sapevamo già che avremmo
composto Senior con pezzi interamente
strumentali, e anche lì non ci sarebbe
potuto stare. Per The Inevitable End
avevamo un’idea di una specie di addio,
un canto del cigno, un disco più serio.
Jamie sarebbe stato perfetto con la sua
voce per un mood del genere. Nel 2009
abbiamo fatto un bootleg di In This
Shirt: un amico comune l’ha fatta sentire a Jamie e gli è piaciuta molto, così
ci ha offerto le parti della canzone per
remixarla. Abbiamo pubblicato il remix
e fatto amicizia con lui.
(To) Vorrei aggiungere che lavorare con
Jamie in studio mi ha fatto capire come
abbia delle capacità tecniche altissime,
un grande vocabolario che può usare
per esprimere le diverse emozioni.
Nell’album c’è anche il contribuito di
Susanne Sundfør. Lei è molto popolare in Norvegia, ma non è conosciuta
in Italia. Ci potete dire qualcosa in
più su di lei e su come l’avete conosciuta?
(Sv) È il tipo di artista con cui ci piace
lavorare. Ha una voce unica e speciale,
è un’artista con la sua carriera, fa la sua
musica, tutte caratteristiche in comune
con le persone con cui abbiamo lavorato in passato. Non cantano e basta, ma
compongono, come Jamie, Robyn, The
Knife, e tutti gli altri. In più ci piace
quando le persone con cui lavoriamo
sono un po’ “sconosciute”. Non si può
dire questo di Robyn, perché penso che
sia più conosciuta di noi, ma gli artisti
con cui abbiamo lavorato in passato erano all’inizio della loro carriera.
Lo stesso è per Susanne; è vero che è
conosciuta in Norvegia, ma penso che
sarà conosciuta anche in tutto il mondo
a breve: è una grande cantante e musicista, è molto vera e unica come persona e ci piace molto. Quando si tratta di
cantare è molto versatile, può fare molte
cose, si adatta molto bene e ci piace
molto perché possiamo forgiare il suo
modo di cantare su quello che vogliamo
sentire nella nostra musica.
Ci potete dire qualcosa dell’amicizia
con Robyn? Avete pubblicato un EP
quest’anno e avete già lavorato con
lei in Junior. Come è stato collaborare con lei?
(To) Stiamo bene insieme. E funziona
bene quando lavoriamo a una canzone
con lei. Collaboriamo tutti e tre con
elementi di produzione, scrittura, testi…
tutti questi elementi vengono fuori
simultaneamente. E siamo anche molto amici, quindi non parliamo solo di
musica, ma anche di qualsiasi altra cosa.
Usciamo anche insieme.
Si sente anche ascoltando i pezzi
che c’è un qualcosa di più del legame
professionale. Ma andiamo un po’ più
dentro al disco. Mi è piaciuta molto
Skulls, è molto dancey con qualche
vocoder. Avete pensato al dancefloor
quando l’avete composta?
(Sv) Non come prima cosa, devo ammettere. L’elemento dancefloor… bisogna ricordarsi che veniamo da un
background di musica elettronica. Più
specificatamente nella nostra adolescenza ascoltavamo le uscite della fine
degli anni ‘80 e dei primi ‘90. Eravamo
parte della scena club/rave, se vuoi
chiamarla così. Siamo cresciuti con
quella musica, quindi fa parte del nostro DNA, della nostra eredità musicale
e di quello che portiamo avanti come
gruppo. Quindi dev’essere per forza e
sarà sempre così riguardo all’elemento
dancefloor. Ma su questo album specificatamente non abbiamo riposto molta
attenzione sull’elemento dancefloor,
sebbene ci siano tracce che suonano
da pista. Le puoi mettere in un club, se
vuoi, ma non le abbiamo composte per
quello.
Si può dire che Skulls, Monument, I Had
This Thing e in qualche parte Save Me
e Running To The Sea puoi metterle in
qualche club, ma dipende dal tipo di
club. In un club piccolo sono sicuro che
saranno suonate, ma non le abbiamo
pensate per un festival con 200mila persone.
Monument mi ricorda molto il vostro
secondo album, è molto intima e
riflessiva. Ha scritto Robyn il testo di
questo brano?
(Sv) Abbiamo scritto il pezzo insieme.
Quando abbiamo composto il mini
album Do It Again ci siamo seduti allo
stesso tavolo, vicini, con un pezzo di
carta e una penna, e ci siamo messi a
31
scrivere. Il pezzo è una collaborazione
allo stesso livello, sia per i testi che per
la musica.
Ma cosa pensi del pezzo? Lo senti
intimo e riflessivo?
(Sv) Sì, penso che sia proprio così. Hai
indovinato (ride, ndSA). Volevamo che
tutto il disco suonasse così.
Su Sordid Affair ci sono molti elementi old fashioned. Mi ricorda un po’
i brani di Jori Hulkkonnen, anche
qualcosa dei Duran Duran e i primi
pezzi vostri. È molto malinconica;
anche gli strumenti che avete usato
sono analogici…
(Sv) Stiamo molto attenti nella selezione dei suoni e degli strumenti per
la nostra musica, qualcosa di cui andiamo molto orgogliosi e su cui spendiamo molto tempo. Visto che questo è
il nostro ultimo disco, abbiamo voluto
guardare un po’ indietro, alle cose che
abbiamo fatto in passato, e utilizzare
elementi dal passato. In confronto a
tante produzioni contemporanee di
musica elettronica, questo disco è stato
mixato in maniera molto dinamica. Hai
citato ad esempio i Duran Duran come
riferimento e ci sta, perché hanno molto
spazio nella loro musica, nella loro gloria anni ‘80, con cui siamo cresciuti.
Le synth band degli anni ‘80 come i
Depeche Mode, i Duran Duran, gli
Yello o la italo disco, tanto per prendere anche il tuo Paese… è un eredità che
abbiamo voluto includere nel disco e
visto che stiamo celebrando e nel contempo dicendo addio al formato album,
abbiamo voluto aggiungere tutti questi
riferimenti raccolti nel corso degli anni;
lo abbiamo fatto appositamente. Idem
per la scelta degli strumenti elettroacu-
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stici come chitarre, pianoforte, Rhodes
e basso elettrico… tutte queste cose sono
state aggiunte per creare l’intimità di
cui parlavi prima. Abbiamo cercato di
perfezionare i maestri di questo genere
e abbiamo cercato di stare distanti dal
modo di produrre musica elettronica
dei nostri giorni, che per noi è un po’
troppo generico e qualche volta addirittura noioso.
Ascoltando una vostra compilation
del 2007 (Back to Mine), mi sono sorpreso, perché insieme a grandi artisti
come Talking Heads, Mike Oldfield,
Art of Noise e altri, avete scelto anche due pezzi di italo disco (una è Ma
quale idea di Pino D’Angiò e l’altra è
Get Closer di Valerie Dore). Vi piacciono i suoni della italo disco?
(Sv) Certo, ci piace il genere. Bisogna
ricordare che abbiamo una certa età
(ride, ndSA) e quindi siamo stati parte di quella scena per molto tempo. Ci
piace molto ancora. Quando parliamo
di generi musicali, non importa chi sia
l’artista, basta che ti piaccia la musica;
è quella la cosa importante. Non so se
capisci quello che voglio dire: ad esempio, certi artisti italo possono essere
considerati “uncool” (“non molto alla
moda”, ndSA), ma a noi non interessa.
Tutto quello che conta è se ci piace o
meno il pezzo. Noi non facciamo musica
per le persone, ma facciamo musica per
la musica.
Molti artisti nordici che ascolto
suonano molto italo, penso a Bjørn
Torske, Lindstrøm, Prins Thomas.
Mi piace molto il fatto che i DJ nordici siano molto vicini a questo tipo di
musica…
(Sv) Per noi questo stile è molto cool.
Bjørn Torske è uno dei più importanti
motivi per cui l’italo disco è così popolare in Norvegia. Veniamo dalla stessa
città, Tromsø, e lo conosciamo sin da
quando siamo bambini. Ascoltavamo i
suoi DJ show quando lui era un giovane
adulto e noi eravamo bambini; è stato una grossa influenza per noi e per i
nostri gusti musicali. Quando abbiamo
avuto un po’ di successo abbiamo sparso
la voce anche alle generazioni più giovani della nostra, in particolare, come hai
detto, Lindstrøm e Prins Thomas, che
sono stati influenzati dalle nostre cose.
Anche loro hanno contribuito a diffondere l’italo disco. Tutto ciò non sarebbe
successo senza Bjørn Torske, che penso
sia il personaggio più importante per la
nu-disco scandinava. Penso che lui sia
il numero uno della scena, e forse noi
siamo al numero due o tre…(ride, ndSA).
Farete un tour in Europa o in Italia?
Avete pensato di stare da soli sul palco o di avere qualche ospite dell’album o di quelli passati?
(Sv) Non abbiamo ancora deciso nulla.
Ci sono così tante cose che vogliamo
fare. Vogliamo scrivere nuova musica,
ovviamente vogliamo vedere il mondo e suonare i nostri pezzi. Cosa dici
Torbjørn?
(To) Faremo sicuramente qualcosa, ma
stiamo scrivendo la musica che vogliamo e non stiamo pensando al live.
Quando definiamo lo spettacolo dal
vivo, molto spesso reinterpretiamo i nostri stessi pezzi, di solito li facciamo più
party-oriented, più incasinati. Faremo
qualcosa nel 2015 sul materiale nuovo,
ma non sappiamo ancora cosa.
33
A r i e l
P i n k
P o p ,
m a l g r a d o
34
t u t t o
Dal presunto “dissing” con
Madonna alla collaborazione
con Kim Fowley. Ariel Pink
ci racconta del passaggio da
estremista sonoro a fenomeno
pop. Suo malgrado.
>>>Testo di Diego Ballani
Sono giornate di fuoco per Ariel Pink.
E non solo per gli impegni correlati
alla promozione del nuovo album. Pom
pom, sin dai primi singoli, si annuncia
come uno dei dischi più importanti
della sua carriera. Un lavoro magniloquente, che nella sua ipertrofia punta
a dire qualcosa di definitivo su quella
zona franca del pop in cui le ombre del
mainstream si allungano fino ad assumere contorni grotteschi. A tal proposito il trentaseienne californiano dimostra
ancora una volta di sapersi scegliere i
padrini giusti. Se in passato le collaborazioni con R. Stevie Moore avevano
portato alla (ri)scoperta di uno degli
eroi misconosciuti del pop DIY, oggi è il
vecchio Kim Fowley a firmare due brani dell’album insieme a lui. Fowley è un
personaggio che ha attraversato trasversalmente l’universo musicale, grazie alla
capacità di incunearsi all’interno delle
falle dell’industria del pop per sfruttarne le contraddizioni. In questo senso
Pink è il più indicato a prenderne l’eredità. Perché se è vero che il Nostro ama
danzare sopra le righe come una ballerina in tutù, gli va riconosciuto di essere
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uno dei geni folli della sua generazione,
in un momento in cui la genialità è una
qualità da far valere ai piani alti delle
case discografiche.
Quando lo contattiamo lo troviamo nelle insolite vesti di pompiere, intento a
spegnere il fuoco delle polemiche innescate da frasi con cui avrebbe commentato, in modo non proprio rispettoso, la
sua presunta collaborazione con Madonna. Ci siamo trovati di fronte ad un
Ariel Pink insolitamente moderato (alter ego buono di quel Pink “bigmouth”,
accusato più volte di misoginia) ma
sempre capace di mettersi a nudo senza
imbarazzi.
So che sei a New York in questo momento. Hai qualche cosa in ballo?
No, sono qui solo per promuovere l’album.
Dunque sei ancora di stanza a Los
Angeles?
Sì, assolutamente.
Credi che sia un buon posto per un
musicista come te?
Credo che non esistano posti buoni per
gli artisti. Gli artisti generalmente sono
poveri. Forse New York è un posto buono, ma io non ho ancora trovato ragioni
per lasciare Los Angeles. È lì che ho
famiglia e amici e credo che chiunque
abbia la possibilità, resti vicino alla propria famiglia.
Avrei molte cose da chiederti, ma
visto che proprio in questi giorni si
sta facendo un gran parlare della tua
collaborazione con Madonna mi piacerebbe saperne di più a riguardo…
Non c’è molto da dire. Sono uscite un
sacco di cose non vere a riguardo. È
un caso tipico del mio rapporto con i
media. Semplicemente qualcuno ha
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mentito. È stato detto qualcosa che non
era vero e a cui tutti hanno creduto. La
stampa ha amplificato la cosa usando il
nome di Madonna e il mio, senza verificare assolutamente nulla. Sono state
riportate alcune frasi che io avrei detto
all’interno di una lunga intervista in cui
parlavo del mio ultimo album. Ovviamente la gente si è interessata solo a
quelle frasi.
Ma al di là delle polemiche, è vero che
stai lavorando ad alcuni pezzi per il
nuovo album di Madonna?
No, non è vero. È come in paesi tipo il
Rwanda o la Germania, in cui la pubblica opinione è controllata dalla macchina della propaganda. Questa volta, però,
sono stati ipocriti perché hanno attaccato me per attaccare lei. Personalmente
non ho ragione di negare niente. Io vivo
e lascio vivere. Anzi, dovrei essere contento che il mio nome sia stato associato
al suo, seppur per ragioni non consone.
Beh, è un vero peccato, sarebbe stato
interessante vederti alle prese con
un’artista che citi spesso come tua
fonte di ispirazione…
Beh, vedi. C’è stato in effetti un contatto, ma è stato alcuni mesi fa. Ero nel
mezzo delle registrazioni del disco e
stavo producendo altri artisti. Hanno
contattato il mio agente per vedere se
c’erano le condizioni per una collaborazione, perché pare che lei avesse in
mente qualcosa di “strano” per il suo
nuovo album. Naturalmente oltre a me,
stavano valutando anche altri autori. È
stato divertente lavorare per un po’ di
tempo pensando a Madonna, ma alla
fine non se n’è fatto nulla. Immagino
che il lavoro sia stato affidato a qualcun
altro.
Cosa pensi di questa tendenza da parte degli artisti del pop “mainstream”
di cooptare collaboratori più estremi
per i loro album?
Credo sia un’ottima cosa. Personalmente sono stato molto onorato che mi sia
stata offerta questa occasione. Non so se
riaccadrà, a questo punto. Di certo non
ho problemi a lavorare nell’industria
musicale. Credo che la mia musica abbia
le qualità giuste per il mainstream. Solo
preferirei non farlo come progetto solista, usando la mia voce. È una cosa che
mi piacerebbe fare per un altro artista.
Quando credi di essere passato
dall’essere percepito come un freak, come qualcosa di strano e “poco
commestibile”, a modello per gli altri
artisti?
Credo che sia stato un processo graduale. È una cosa iniziata intorno al 2004
ed è arrivata a compimento intorno alla
pubblicazione del singolo Round And
Round. Ci sono stati cinque o sei anni
in cui continuavo a ricevere stroncature
da parte di Pitchfork senza alcun motivo. Le cose sono andate avanti così fino
a che non sono diventato un specie di
“mainstream per l’indie”.
Pensi che in qualche modo le cose siano cambiate anche grazie al successo
di un libro come Retromania?
Credo che siano cambiate grazie al mio
di successo! Scherzi a parte, le opinioni
che ho condiviso con Simon e le parti
del libro che parlano di me sono servite
a dare un altro punto di vista al ragionamento che sta alla base di Retromania.
Ma credo che quello sia soprattutto un
libro sull’hauntology, ovvero su qualcosa con cui non ho mai avuto nulla a che
fare. Poi non so se nel mio caso si possa
parlare di una vera popolarità, sono solo
un patetico nerd. Nel mio caso credo
che abbia contato il fatto di essere in
giro da parecchio tempo. Questo ha reso
possibile il fatto che la gente si abituasse alla mia musica. Ora ci sono molti
giovani artisti (parlo di gente di 20-22
anni con un contratto discografico con
etichette che contano) che nelle interviste affermano di essere cresciuti ascoltando la mia musica. Questo per me è
molto interessante. Dunque non è che
io stia facendo musica meno “strana”
rispetto al passato. Piuttosto è il mondo
ad essere diventato di più un posto più
“strano”.
Parliamo un po’ del nuovo album.
Come mai per introdurlo hai scelto
uno dei brani più pop della tua carriera?
Non c’è un motivo specifico. Si tratta
di un disco complesso, è una specie di
ritorno alle cose che facevo prima di arrivare alla 4AD. All’epoca mi era capitato di fare un paio di dischi un po’ troppo
lunghi. Adesso faccio le stesse cose ma
con un’altra consapevolezza. Non c’è
un tema o un mood che pervade l’intero
album, per me si tratta di una specie di
White Album, un disco molto angloeurocentrico. Mi sono molto divertito a
registrarlo, non sono partito con l’idea
di registrare così tanti brani, ma sarei
potuto andare avanti ancora per molto
tempo se non mi fossi imposto uno stop.
Per quale ragione il disco non è intitolato a Haunted Graffiti?
Anche quando lo intitolavo Haunted
Graffiti, si trattava sempre e solo di me.
Ma in questo caso ci sono molti musicisti coinvolti e non volevo che questo
potesse essere confuso con il lavoro di
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una vera e propria band.
Uno con il tuo carattere ha difficoltà
a collaborare con così tante persone?
Diciamo che il lavoro è un’altra cosa.
Per me è vitale collaborare con altre
persone; inoltre non amo molto fare tutto da solo. Credo che se la gente tenesse
conto di tutte le persone con cui ho
collaborato e di tutti quelli che vorrebbero collaborare con me, cambierebbe
la percezione che ha di me e del mio
carattere.
Mi sembra che pom pom sia un album
piuttosto strutturato e articolato. Ti
senti un songwriter più forte e maturo?
Ci sono stati blocchi e pressioni negli
altri album. Di recente ho avuto parecchi problemi di carattere legale (recentemente il suo ex batterista gli ha intentato causa dopo essere stato espulso dal
gruppo, affermando di aver scritto insieme a lui parte del materiale di Mature
Themes, ndSA), e poi pressioni per
concludere in fretta il disco, in modo
da poter andare in fretta in tour per
racimolare un po’ di soldi. Tutto questo
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aveva portato a risultati poco focalizzati
che non mi avevano soddisfattto molto.
Questa volta ero intenzionato a non avere nulla di tutto questo. Questa volta ho
preso tempo, ed è per questo che i brani
sono più elaborati rispetto agli ultimi
due album. E’ tutto molto più denso
e aggrovigliato e la produzione è più
elaborata e più pulita. Inoltre c’è stata
questa collaborazione con Kim Fowley,
artista con cui sono entrato subito in
sintonia. Si è creata un’alchimia tale che
ad un certo punto tutto ha iniziato ad
andare per il verso giusto.
A proposito di Kim Fowley, com’è
nata la vostra collaborazione?
Avevo intenzione di fare un video con
lui già l’anno precedente, ma poi la cosa
non si è realizzata. Siamo rimasti in
contatto e mi ha dato parecchi consigli
riguardo ai miei problemi legali. Credo
che recentemente abbia fatto un po’ di
ricerche e si sia reso conto di contare
ancora molto per diverse persone. Quello che posso dire è che stato contento
di lavorare con qualcuno che avrebbe
voluto portare avanti la sua eredità
artistica. Lui lavora ancora molto con diversi artisti contemporaneamente. Quando
lo sono andato a trovare, se ne è venuto fuori di getto con una serie di idee che io ho
cercato di fissare su carta, e quindi ho rielaborato più tardi per conto mio.
Mi sembra che il nuovo album sia un lavoro maturo. In un certo senso, una
summa di tutte le tue esperienza precedenti. Ti capita mai di pensare a tutto
quello che hai costruito in questi anni? Credo che un personaggio con un ego
come il tuo debba farlo spesso…
No (ride, ndSA) ma ci penso tutte le volte che realizzo un disco e la gente mi stupisce mostrando che gliene frega ancora qualcosa della mia musica. In tutti questi
anni la mia vena creativa è andata e venuta. Ma ogni volta che pubblico qualcosa
accade che la gente sembri interessarsi a quello che faccio e la cosa mi pare incredibile. C’è stato un periodo in cui non ho scritto canzoni per quasi cinque anni, per
dedicarmi alla mia vita. Non sapevo neppure se sarei riuscito a ricominciare. Così,
ogni volta mi sento incredibilmente onorato e sorpreso. Ora sono arrivato al punto
che non devo pubblicare in continuazione materiale, perchè la gente si ricordi di
me. Questo significa che non devo essere continuamente ispirato. Non avrei bisogno neanche di un’etichetta, potrei accontentarmi semplicemente del fatto di continnuare a fare musica. Invece ho un’etichetta e un disco nuovo, e tutto questo mi fa
sentire incredibilmente fortunato.
Ariel Bio
Ariel Pink è il giullare di quella corte di cui è anche il Re. Una corte nostalgica, ma
odierna. Un luogo – a metà tra Madonna e i Residents – fatto di canzoni, dove Ariel
Pink risponde solo a sé.
Ariel è eccentrico e scostante come tutte le personalità comiche – dove comico è
uguale a obliquità, se non ribaltamento: sovrapposizione degli opposti, cosa che
viene facile all’androgino Pink. Ariel Pink più di ogni altro interpreta con mestiere
i nostri anni, per almeno due motivi. Da un lato ha vestito atteggiamenti hipster
prima che la parola venisse recuperata dagli anni quaranta e demineralizzata dai
giorni nostri; dall’altro ha riletto negli anni almeno tre decenni di musica pop (dai
Sessanta agli Ottanta) in veste (g)lo, prima che questo approccio diventasse molto
chic e varcasse il confine con il mainstream.
Ariel nasce Ariel Marcus Rosenberg, il 24 giugno 1978, a Los Angeles, città che lui
non ha “ancora trovato motivi di lasciare”, come ci ha rivelato in un’intervista alla
fine del 2014. Inizia fin da bambino a scrivere canzoni, ad accumulare melodie, a
partire da una passione per il pop gotico inglese, fino a fare proprio tutto il pop –
soprattutto americano – del passato, col proprio stile. La sua carriera è una hauntologia a bassa definizione, dove Pink ha portato allo stato dell’arte la pratica della
patina, di cui la psichedelia haunt ha poi fatto incetta. Quando se n’è reso conto, ha
chiamato “maturo” il proprio approccio – da lì Mature Themes, del 2012, disco che
ha convinto tutti del talento di Rosenberg. Dieci anni prima, House Arrest / Lover
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Boy inaugurava invece – ma solo nella
successione degli album ufficiali – un
approccio da archivio del disordine –
anche qui, hauntologico per eccellenza,
anche se il diretto interessato ha sempre
negato questa appartenenza – dove il
materiale delle canzoni non prevedeva
crescita artistica e neanche decrescita.
Le prime mosse di Pink erano infatti
costituite da autoproduzioni, rimaneggiate negli anni per (ri)pubblicare
oggetti più simili ad album tradizionali,
grazie al sodalizio con Paw Tracks, nato
proprio grazie a un incontro fortuito
nel quale il Nostro ha la prontezza – nel
2003 – di consegnare a mano un CD-R
agli Animal Collective, dopo un loro
show. Fuori dall’ufficialità delle produzioni, la storia inizia invece alla fine dei
Novanta, quando Ariel registra su Tascam 8 e Yamaha MT8X Underground
1 (poi licenziato nel 2007), prima raccolta dei suoi “nuggets degenerati”,
come notavamo nel primo articolo che
cercava di tracciare una prima retrologia di Rosenberg. Qualche anno dopo
(inizio Duemila) Ariel Pink registra
The Doldrums, uscito per Paw Tracks
nel 2004, due anni dopo il “nice pair”
House Arrest / Lover Boy (ristampato
sempre dall’etichetta di Animal Collective nel 2006).
Non si può leggere la sua discografia
senza dare una scorsa a quella del suo
maestro, R. Stevie Moore, il principe
del lo-fi americano, con una produzione imprendibile (perché sterminata) di
canzoni-breviari a bassa definizione.
Dove però la firma è sempre esplicita,
cristallina. Rispetto al maestro, Ariel
cerca di mettere ordine nella propria
produzione. “Tutti i dischi usciti sotto
40
il nome Ariel Pink [tranne l’ultimo, in
uscita a fine 2014] sono numerati da uno
a otto; il primo di questi, Underground
appunto, è l’ultimo che ha visto la luce
in una stampa del 2007. Gli altri, a partire proprio da The Doldrums, escono
autoprodotti a partire dal 2000, anche
se è nelle ristampe che trovano una
distribuzione accettabile”. “Di fatto la
produzione “numerata” è tutta registrata tra il 1998 e il 2001, e fatta uscire poi
in varie sessioni”. In mezzo a questa,
segnaliamo Scared Famous, uscito nel
2007 per Paw Tracks (anche se autoprodotto nel 2002), significativo perché
traccia una geografia del cantautore
californiano, come notavamo sempre
nel 2009: il disco “si fa subito notare
per i nuovi vecchi amori che Ariel non
ha più paura di confessare. Madonna (a
modo suo, con falsetti queer e svenevole
pop da girl group come lo vedrebbe un
camionista pedofilo) e Michael Jackson
(sempre pedofilia droga e tutta la storia
indietro fino ai Jackson Five). Di più;
c’è il mentore Moore con il quale Pink
incide Express, Confess, Cover-Up e
SteviePink. Come anticipato, Sir Robert
Steven Moore, prime mover delle self
release, ad oggi responsabile di oltre
400 produzioni disseminate tra cd-r
e cassette, è in qualche modo una guida spirituale per Rosenberg. Un vate
conosciuto da Ariel all’epoca di The
Doldrums, e, come successo con gli Animal Collective, conosciuto grazie a uno
scambio di una di quelle innumerevoli
cassette”.
Siamo alla fine del decennio, Ariel fonda
un’etichetta per lanciarsi con l’esperienza in band a firma Haunted Graffiti,
ma poi la svolta. Con Before Today (del
2010) il Nostro abbandona Paw Tracks
per la 4AD e prova a fare un passo più
deciso ma meno caratterizzato nel suo
universo di riferimento, collezionando
una “sequenza di ricordi pop appannati
Ottanta e fine Settanta – col senno di
poi e l’accortezza di fare l’occhiolino a
destra e a manca. In realtà le differenze ci sono eccome, rispetto ai capitoli
precedenti dell’epopea pinkiana. Quella
bassa definizione da macchina vintage e
mal funzionante che arrivava all’orrido
sublime in dischi come Underground,
oggi, è sostituita da una sorta di “fedeltà” suonata che perde il sapore casalingo”, che ci porta, nel 2010, a sanzionare
nel Pink di allora una sofferenza da
“onda da riflusso”.
Il contratto di esclusiva con 4AD segna
di fatto un cambio di paradigma. Ariel
ci confessa di non volere più pubblicare
CDR, a meno che “non sia costretto a
farlo”. La stabilità giova a lui e ai suoi
Haunted Graffiti, come dimostrato da
Mature Themes (uscito per 4AD nel
2012): “Pink resta fedele all’idea di
una hauntology lo-fi, una hauntology
fenomenologica per così dire, uno ieri
cioè visto e sentito – filtrato e offuscato
– dalle orecchie ingombre della contemporaneità. Orecchie beffarde, per
quanto decisamente pop. Con Mature
Themes il Nostro porta a un livello
superiore l’operazione – art brut se si
vuole, aggiornamento delle stupid songs
o delle parodie doo-wop zappiane – già
ottimanente rappresentata in Before
Today, ed è il compimento di un percorso di lenta e ricercata emersione”, come
notava il nostro Gabriele Marino a metà
2012.
Rosenberg impiega due anni per dare
un seguito ai suoi “temi maturi”. Nel
mezzo, a ridosso dell’uscita del nuovo
album, i media lo tengono impegnato
in una polemica per un presunto contatto con Madonna, rispetto alla quale
Pink è costretto ad abbassare i toni con
decisione. A livello discografico, prima
dell’ultimo album, Ariel pubblica, come
archeologia della hauntologia, una
raccolta di live nel periodo pre Haunted Graffiti. Di fatto è un’anticipazione
– insieme al singolo Put Your Number
In My Phone – degli ultimi passi di
Rosenberg, che per l’ultimo album, Pom
Pom, in uscita via 4AD il 17 novembre
2014, riabbandona la compagine per
ripresentarsi da solo. In realtà la scelta
non arriva a ciel sereno, ma era già stata
dichiarata (e smentita) all’indomani
dell’uscita di Mature Themes. Il motivo
non è solipsistico – Ariel anzi continua
a collezionare collaborazioni. Eppure
un ritorno alle origini c’è nel dismettere
i panni di leader di una band: “Anche
quando lo intitolavo Haunted Graffiti, si
trattava sempre e solo di me. Ma in questo caso ci sono molti musicisti coinvolti
e non volevo che questo potesse essere
confuso con il lavoro di una vera e propria band”. Il Re è vivo, il giullare continua a dargli di che passare il tempo.
Daniele Rigol
41
Genere: indie
A due anni di distanza dall'uscita di Europe,
secondo album entrato da subito nelle grazie
della critica specializzata e il più venduto di
sempre su Rough Trade, e il successivo ritorno
in Fortuna Pop, che aveva accompagnato l'esordio in studio, gli Allo Darlin' piazzano il terzo
centro consecutivo.
Le fondamenta di questo We Come From The
Same Place nascono da alcuni stravolgimenti
nella vita di Elizabeth Morris, che si è sposata
ed è ora residente in pianta stabile nella nostra
Firenze. Parliamo di un disco che, a livello di
sonorità e atmosfere, non si distanzia minimamente dalle precedenti fatiche; proprio per
questa perseveranza nel percorrere da ormai
quattro anni la stessa strada, però, la band sta
mostrando la sua alta caratura: sappiamo fare
una cosa, ma la facciamo alla grande. L'epicentro dell'album non può che essere ovviamente
la splendida voce di Elisabeth, lontana da qualsivoglia funambolismo vocale, e proprio per
questo così maledettamente rassicurante, più
vicina ad una dimensione terrestre con il suo
tono caldo, che ti abbraccia delicatamente.
Come se stessimo parlando alla classica ragazza della porta accanto, con la quale ti vergogni
un po' a colloquiare ma che non puoi fare a
meno di ascoltare. Bill, Michael e Paul non
fanno altro che accompagnarla con graziosi e
soffici accordi, girandole intorno e sapendo che
il grosso del lavoro deve farlo lei, a volte con
l'ukulele (Another Year), a volte tirando fuori
42
la chitarra elettrica (Half Heart Necklace) o addirittura accompagnandola con la voce (Bright
Eyes), ma sempre tenendo a mente la lezione
folk (History Lessons) appresa dai Nostri meglio di qualunque altra materia.
Alla band non piace sperimentare, non vuole
cercare di saltare il fosso e nemmeno dirigersi
verso vette più alte, consapevole delle capacità
ma anche dei propri limiti: in quanti possono
dire lo stesso?
7.2/10
Daniele Rigoli
Altera - I Love Freak (Self
records,2014)
Genere: rock, art, spokenword_reading, collage_
cutup
La prima collaborazione tra gli Altera e Freak Antoni risale addirittura al 1997, quando
il gruppo genovese esisteva da poco più di un
anno, ed è proseguita con la partecipazione a
Canto di spine, il disco del 2001 dedicato alla
poesia italiana del '900, fino a quello che avrebbe dovuto essere il singolo del nuovo album e
che poi è diventata l'ultima canzone registrata
dall'ex cantante degli Skiantos. L'amicizia e la
necessità di elaborare la perdita hanno portato Stefano Bruzzone e compagni a mettere da
parte il disco previsto e a realizzare, grazie a
Musicraiser, questa raccolta di materiali vari ed
eterogenei, un po' omaggio un po' filologia.
Il centro è Par-lamento (presente anche in
un "electro mix" del dj Max Monti), energico
attacco all'attuale classe politica (con citazioni della Paese scarpa degli Skiantos), un bel
r e c e n s i o n i
n o v e m b r e
Allo Darlin' - We Come From The Same
Place (Fortuna Pop!,2014)
Giulio Pasquali
r e c e n s i o n i
Andy Stott - Faith in Strangers (Modern
Love,2014)
Genere: techno, elettronica, dub
Alison Skidmore e Andy Stott hanno inaugurato un sodalizio artistico particolare in Luxury
Problems, un disco che portava i cavernosi
11obpm del producer mancuniano in un territorio di chiaroscuri dream e gotici, e dunque
richiamava una tradizione britannica di lungo
corso con i vari rimandi a 4AD, Cocteau Twins
e Dead Can Dance del caso. Stott del resto, fin
dall'inizio della sua produzione sulla lunga
distanza non ha mai dimenticato di curare gli
spazi e i pensosi stati d'animo che voleva esprimere, una dimensione scolpita nei grigi e nelle
ombre, tinta di sottile romanticismo o avvolta
di onirico torpore, magari anche rappresentata in noir come la copertina di Merciless.
Un mood che è stato via via scandito da una
bituminosa techno, mai davvero minacciosa,
piuttoso alla ricerca di una terrigna catarsi. Ci
viene naturale pensare che siano sempre stati
questi gli ambienti e i ritmi che hanno accompagnato e sublimato la vita del mancuniano
mentre lavorava in fabbrica e verniciava le
automobili per Mercedes; in verità ogni album
di Sott ha esplorato ambienti, soluzioni e anche
stili differenti.
Faith In Strangers è un terreno nuovo, spostato verso la forma canzone (ma neanche
troppo), interessato all'uso di pattern ritmici
pitchati ed ancora una volta incentrato su umori e ambienti, a partire da una evocativa apertura sinfonica, Time Away, che ci ricorda i These
New Purtians di Field of Reeds. Alcune intuizioni messe in campo con Drop the Vowels
(How It Was) tornano qui accompagnate dai
sussurri di una Skidmore più importante nell'economia di un sound sempre gotico, giocato
in distorsione e cinematografico, ma che ha
abbandonato la techno dub (l'unico pezzo sul
genere, non a caso, è la distorta e housey How
43
n o v e m b r e
funk rock potente che pur non mancando di
un verso dalla scorrettezza memorabile come
"voglio sodomizzare /un parlamentare" (che
in questi tempi non mancherà di riscuotere
consensi), presenta un approccio un po' troppo
diretto per gli standard di Freak (che si adegua
al contesto, con un testo non dei suoi migliori),
come peraltro l'arrangiamento – un rock classico di quelli col distorsore staccato dagli altri
strumenti.
Il resto è una cover della Paese scarpa citata nel
brano, il figlio di Quasimodo che legge gli aforismi più famosi della buonanima, un frammento
di Freak in radio (anche qui, le battute non sono
le sue migliori) e una sua lettura di Whitman
(O capitano! Mio capitano), qualche sua poesia
messa in musica, la parte vocale che aveva registrato per (Poetica 2), una canzone dedicata,
una versione di Però quasi col pianoforte originale (quello escluso dal mix finale): frammenti
con un filo conduttore, il cui insieme però viene
penalizzato dall'eccessiva banalità del rock del
gruppo (dove invece Dandy Bestia era classico),
che c'era anche in Canto di spine, dove però
veniva scossa da cambi di tempo e da una maggiore attitudine per lo scarto e la stranezza.
Si capisce che l'omaggio è realmente sentito,
si capisce la sincerità della voglia di mettere a
disposizione i materiali del cantante in mano
alla band, e alcuni momenti sono suggestivi: ma
rimane di fondo uno scarto tra il rock prevedibile del gruppo (come si notava già in Italia,
sveglia!) e l'approccio avanguardista di Antoni,
simboleggiato nella differenza profonda tra
la classicità rock del cantato di Bruzzone e un
Freak che riusciva a destabilizzare qualsiasi
cosa, già a partire da timbro della voce.
Forse un vero omaggio avrebbe richiesto, anche
per il suonato, un approccio più da "Attila del
savoir faire".
5.5/10
Genere: dark, elettronica
Imprendibile, virtuale, sospeso nel tempo, classico o contemporaneo a seconda del punto d'osservazione, astrattamente hip hop come il Wu Tang
in assenza di gravità oppure magnifico, macchinoso e cattedratico come
un'overture di Aphex Twin. Lasciate stare l'Arca producer per Fka Twigs,
o il producer che programma e fa da consulente speciale per Kanye West,
o l'EP, tra trap e piano scordato, pubblicato lo scorso anno: qui abbiamo
un Alejandro Ghersi che mette a frutto una pur giovane vita di esperienze soniche (ma già lunga di produzioni e training) al servizio di un'ambiziosa conduzione cyber-orchestrale. Come quella remota attivata da Richard D. James ma fatta a
24 anni, quindi, con la freschezza di quell'età e, al contempo, un solido background di studi classici, accademici e una profonda conoscenza dei software per fare musica.
Non è facile approcciare Xen, un concept sulla vita, anzi su alcune scene di vita (nel corso della
vita) di un alias di fantasia di Ghersi, una figura a cui lui si rivolge al femminile eppure definita
asessuata, proprio come il personaggio vettoriale nel videoclip di Thievery curato dal sodale visual
/ artwork artist Jesse Kanda, sorta di metà artistica inseparabile del producer con il quale l'intero
lavoro è nato e si è poi sviluppato.
Parliamo dunque di un lavoro multisfaccettato dove ognuno dei 15 episodi ha una vita propria e
dove non c'è un inizio e una fine come magari accade nell'ultimo di Clark o Objekt. Promise – la
traccia che lo conclude – è un ventaglio di arpeggi e pizzicati di basso sintetico trafitti da sporadiche scariche di laser (una cosa tipo i Plaid che campionano Merzbow), quando l'opener, Now
You Know, è pura vertigine tra schegge di luce, accartocciamenti ritmici e smalti da quarto mondo
hasselliano piovuti chissà da dove. Held Apart è il piano classico della sua gioventù che viene fuori
– piano imparato a forza ma che dà qui i suoi frutti – mentre Xen, la traccia che dà nome al disco,
è come suonerà Forest Swords in un nuovo progetto con Evian Christ, sempre se i due producer
penseranno mai di attivarne uno del genere.
Così ricca di riferimenti a musiche e stili che abbiamo già sentito, eppure così distante da essi, la
musica di Arca rimane fortemente legata al suo tocco. E la sua firma, già riconoscibile nei primi
lavori – il mini album Stretch 2 pubblicato da ONO ad esempio – è qui spostata altrove, verso
un mondo di possibilità avant-classiche (il balletto sulla luna Sad Bitch), perfette per un lavoro
di Björk, verrebbe da dire, se non sapessimo già che proprio Ghersi co-produrrà il nuovo album
della musicista atteso per il 2015.
La forza del lavoro, in definitiva, sta nell'attrarsi e respingersi di varie tensioni, una tra tutte quella
tra arrangiamento e melodia, dove quest'ultima non è mai elemento indispensabile alla sua riuscita. Una splendida Sisters è idm-romanticismo-autoriale (pezzo splendido), Failed – la traccia più
meditabonda del lotto – introduce un nervoso quartetto d'archi, Family Violence. Più avanti torna
quel modo tutto particolare di unire hip hop, IDM, contemporanea in poemi semi tonali (Lonely
Thug) sospesi tra la cameretta di un bimbo e le stelle. Ottimo esordio.
7.5/10
Edoardo Bridda
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r e c e n s i o n i
n o v e m b r e
Arca - Xen (Mute,2014)
It Was) per un campo sonoro tanto imprendibile quanto circondato da alcune delle impronte
produttive del mancuniano (On Oath).
Non parliamo di un disco folgorante come
è stato Luxury Problems. Stott raramente
graffia, ma quando lo fa è in grado di reinventare nuove strade per il trip hop di Tricky
(Violence) o regalarci della discreta new wave
coi ritmi o senza (Faith In Strangers e Missing,
che presentano anche un basso wave, o Science
And Industry) o trovare nuovi modi per dire
darkcore (Damage). Disco di transizione ma
non per questo non meritevole di attenzione,
anzi.
7/10
Anthroprophh - Outside The Circle
(Rocket Recordings,2014)
Genere: rock, psych
Gira e rigira questi illeggibili Anthroprophh
sono la miglior creazione di Paul Allen, noto ai
più come leader dei The Heads, band che dalla
metà degli anni '90 ha messo in piedi un bel
party psych rock di matrice hendrixiana, facile
da ricordare anche per alcuni artwork fricchettoni come quello del debutto. In fondo però i
The Heads, pur godibilissimi, sono una garage
band 70s tanto nell'estetica quanto nel suono,
mentre gli Anthroprophh hanno altra pasta.
Partiti nel 2013 con un disco poco classificabile, l'omonimo Anthroprophh che riuniva la
psichedelia etno-oppressiva-drogata di casa
Rocket (Goat e Gnod) con freakerie orientaleggianti e kraut alla Can, li ritroviamo ora con
Outside the Circle a ripetere il compito in veste più convenzionale, ma pur sempre ispirata.
A grandi linee c'è un ritorno al rock, alla forma
canzone, al mondo garage dei The Heads, se
prendiamo in esame brani alla Dead Man On
The Scene. Eppure sbagliereste a credere Outside the Circle un album agevole, perché i No-
Stefano Gaz
Beatrice Antolini - Beatitude (La
Tempesta International,2014)
Genere: pop, 80s, dark
In pochi non definirebbero Beatrice Antolini
una musicista a 360 gradi, e noi di Sentireascoltare non siamo tra quei pochi. La penna di
Fabrizio Zampighi la segue fin dai suoi esordi,
descrivendola come uno dei fenomeni italiani
"in bilico tra indie e mainstream pop di ultima
generazione" da tenere maggiormente sott'occhio.
L'ultimo full-length, Vivid (Qui base luna,
2013), si era lasciato alle spalle una critica
piuttosto indifferente, o almeno non entusiasta
come nel caso dei precedenti A Due (Urtovox,
2008) e Bioy (Urtovox, 2010). Ma dopo aver di
recente aggiunto al suo CV di tutto rispetto collaborazioni con artisti del calibro di Ben Frost
e Lydia Lunch (è stata proprio la signora del
no-wave a notarla e a volerla in un suo progetto), la polistrumentista marchigiana dall'animo
psych-new wave torna a far parlare di se' con
un nuovo EP in uscita per La Tempesta International l'11 novembre 2014.
Beatitude è il titolo dell'album, e in copertina
c'è la foto di una gallina nera con un uovo dorato, inserita in una cornice dal sapore vintage.
L'allusione alla ben nota favola di Esopo, il cui
monito finale è "non essere avidi e insaziabili,
bisogna accontentarsi di ciò che si possie-
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Edoardo Bridda
stri riescono a combinare con inventiva l'heavy
e il cosmico (Returning), la fantascienza con il
freak-folk (Detached and in Its Own Mind Riding a Ghost Train Through a Fairground It Had
Built Itself ), gli intermezzi drone con la psichedelia ossessiva e circolare della title track.
E' un rientro nei ranghi per niente banale, quello di Allen, che a vent'anni dall'esordio sembra
aver raggiunto la piena maturità artistica.
7.3/10
Alessia Zinnari
n o v e m b r e
Benjamin Booker - Benjamin Booker
(ATO Records,2014)
Genere: cantautori, rock, punk, alt, blues
Un volto che sembra uscire da un poster anni
sessanta raffigurante i "guerrieri" delle Pantere
nere, o magari, allo stesso tempo, da uno di quei
rasserenanti telefilm yankee altrettanto "black".
Non possiamo sapere se Benjamin Booker
sarebbe mai potuto essere tutto ciò, ma di sicuro
sappiamo che il rock'n'roll, quello dei suoi nonni, lo conosce molto bene e lo sa trattare, ottenendo ottimi risultati. Venticinque anni, nato a
Virginia Beach ma attualmente con base a New
Orleans, la nuova meteora del rock a stelle e
strisce sta cercando, a colpi di grezze sferragliate rock'n'blues, di spodestare i vari Jack White
e Black Keys. In Benjamin Booker, album di
debutto prodotto da Andrija Tokic (Alabama
Shakes) e pubblicato da Rough Trade, l'artista
della Virginia coglie l'essenza della black music
e la mette in viaggio facendole attraversare circa
quattro decenni, per poi vestirla, una volta giunta a destinazione, con i panni sporchi del punkrock. È il caso di Violent Shiver, Always Waiting
e Have You Seen My Son?, in cui la classica
struttura blues viene fatta a pezzetti – ma sempre con la giusta riverenza – da chitarre affilate
e presa a morsi da una voce rabbiosa e graffiante, molto probabilmente una delle migliori
ascoltate negli ultimi anni nel panorama rock.
Muddy Waters, Bo Diddley, B. B. King "assistono" a braccia conserte, quasi sgomenti, con
il sopracciglio alzato, e incassano i colpi, specialmente quando il venticinquenne decide di
tirare il freno e lasciarsi andare a intime ballate
(Spoon Out My Eyeballs, I Thought I Heard
You Screaming, By The Evening) che ad una
ad una smorzano la guerriglia iniziale e ricongiungono vecchia e nuova generazione sotto il
grande tetto del blues.
6.7/10
Marco Frattaruolo
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r e c e n s i o n i
de", è facile. Una morale che sembra calzare
alla perfezione con l'etica che ha portato alla
produzione di questo disco: Beatrice è ormai
una donna, ha trovato il suo posto nel mondo e
completato il suo processo evolutivo di musicista, raggiungendo la "beatitudine" alla quale
il suo nome l'ha destinata; non ha bisogno che
di cinque tracce per esprimere il suo universo
interiore, servendosi del lirismo e del pop-rock
nostalgico che da sempre la contraddistinguono.
Le atmosfere di Beatitude sono decisamente
più dark e introspettive, se paragonate a quelle
scanzonate del disco precedente. La Antolini
torna a prendersi sul serio, e lo fa mantenendo un marchio di femminilità che non mira
ad accattivarsi tanto la simpatia del pubblico
maschile, quanto la complicità delle ascoltatrici donne, strizzando l'occhio alla produzione
di pioniere della scena alternativa al femminile quali Lydia Lunch e Siouxie. La traccia di
apertura, Spiders are not Insects, ha le tonalità
del nero e le sonorità stridenti di matrice gotica
che sono il filo conduttore di tutto l'EP. Dromedarium (Beatitude) è un saliscendi di umori
indecifrabili che confonde, mescolando synth
e chitarre, cantato in inglese e francese, acuti
e bassi, ed evocando da un lato le Chicks on
Speed e dall'altro le Savages, con quel tocco
anni '80 smaccatamente girlie che l'Antolini
misura con sapienza.
Beatitude è un disco invernale, freddo e caldo
allo stesso tempo, che parla con la voce sensuale e ferma di uno spirito creatore ormai maturo
che non si presta ad altre definizioni, se non
quelle di donna e di artista. E scusate se è poco.
6.9/10
Genere: dance-pop, chillwave
Che poi può essere semplicemente che le tre
figure dietro il nome Casa del Mirto siano
semplicemente un po' instabili. Già perché,
dopo due classiconi del pop elettronico nostrano come 1979 e The Nature, prima annunciano uno split, poi lo smentiscono facendo uscire
Love Inc., prodotto ibrido e fuori fuoco. Forse
sono semplicemente instabili perché, per arrivare al terzo lavoro lungo (senza contare la marea di remix, collaborazioni ed Ep), sono dovuti
passare da una gestazione senza precedenti.
Durante tutto il 2013, i Casa del Mirto hanno
registrato praticamente tre versioni dei brani
presenti in Still, senza che nessuna delle tre
soddisfacesse i loro gusti. Bene. Non possiamo
far altro che leggere in questo un fatto positivo.
Ci piace l'insoddisfazione, l'ansia dell'evoluzione, l'artista alla ricerca dell'equilibrio perfetto.
Il sound della band trentina doveva trovare
nuovi lidi a cui approdare. Il loro lido di catarsi
e ancoraggio è, come suggerisce il titolo, Still.
Still è un album di ricerca del pulsante giusto,
del riverbero adatto, della manipolazione dello
standard pop di matrice Eighties in una miriade di derivazioni, compresa quella classicheggiante della forma canzone o della composizione orchestrale e, soprattutto, quella del glo-fi,
della chillwave che, nei pressi di Washed Out
e Neon Indian, ha segnato un ritorno importante nel panorama musicale internazionale.
Still gioca con la musica classica, coi downtempo (mascherando il tutto con IDM), colora di
french-touch gli spunti wave in stile Hacienda e, soprattutto, riqualifica e svecchia l'italo
disco, contaminandola (meglio dei Daft Punk
e un po' come i nostri M+A) di r'n'b, hip hop
e sonorità dall'anima soul. Still, infine, ha la
faccia di Michael Stipe dei R.E.M., che, come a
suggellare il preziosissimo cammino dei Casa
del Mirto, ha regalato un suo lavoro visivo alla
band, che lo ha utilizzato come copertina del
singolo.
Lodiamo l'instabilità, dunque, in tutte le sue
forme, anche quando rischia di creare immobilismo, come in Paralyzed (come in tutto Still),
summa e punto d'unione delle anime del disco:
accordi di pianoforte che non preludono a nulla, ma sono immersi nella sporcizia cosmica e
sintetica dell'asfissia. Poi parte il singolo Invisible, che dell'instabilità immobile loda il lato
dell'invisibilità, ma lo fa puntando su un ritornello dall'orecchiabilità impressionante e, soprattutto, sulla voce di Avalon Omega, artista
di Los Angeles le cui doti, immerse nel carillon
di synth dell'arrangiamento, ricordano quelle
dei Morcheeba, per dirne una. Still, a differenza dei suoi predecessori, gioca quasi tutto sui
ritmi eterei, estremamente distesi, sul lavoro di
cesello, piuttosto che su quello di scalpello: Reflex, con i suoi richiami in armonia col creato,
alla Caribou, ne è l'esempio più caratterizzante. Ma c'è spazio anche per la commistione tra
l'eleganza francese degli Air e la compostezza
autoritaria dei Depeche Mode in Where You
Stand; c'è spazio per la citazione New Order,
immersa in un campo di synth ingombranti
in Pressure; per l'elogio house in stile Groove
Armada di What I See Inside Of Me.
In barba a tutto questo fior fior di riferimenti, ci permettiamo di annoverare i brani che
rendono più originale il disco: la jazzistica e
disarmonica Last Blue Wind, il tappeto squisitamente trip hop di Butterfly, fra Tricky e
vaporwave, gli echi indietronica alla Radiohead di A Picture Of, il rumorismo interstellare
di 8, con featuring di Aaron Larcher, dj di casa
nostra.
Still ha la non comune capacità di far coesistere tutti questi elementi sotto lo stesso tetto e
di non risultare mai pesante o banale. Con un
piglio genuinamente pop, il trio trentino ha sa-
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n o v e m b r e
r e c e n s i o n i
Casa Del Mirto - Still (Ghost
Records,2014)
Genere: pop, psych
Ha buon gioco Ariel Marcus Rosemberg a descrivere pom pom come il
suo White Album. Dopo anni di sperimentazioni DIY, e tempi più recenti passati a cercare di capitalizzare quanto faticosamente costruito, è
arrivato il momento di tirare fuori quel lavoro ambizioso a cui puntava
sin dal passaggio alla 4AD. Questa volta c'è stato il tempo e la tranquillità
necessaria per affastellare idee e collaboratori, per curare arrangiamenti
e stipare curiosità in ogni interstizio di questi rocamboleschi 67 minuti. Ci ha tenuto, insomma, a perfezionare quella performance totale che
consiste nel far convivere nel solito brano temi differenti, usando come
malta i folli exploit teatrali, i cabaret retrofuturisti e gli elementi recuperati da ogni angolo della
cultura pop. Alla fine ne è uscito un opus magnum di 17 pezzi, ognuno dei quali fornirebbe ad un
qualsiasi artista materiale per altrettanti album.
Attenzione quando sentirete parlare di superproduzione: il sound di Ariel Pink pare sempre uscire
dalla radio del vicino di casa, ma il guizzare anarchico da una stazione all'altra è stato sostituito da
un modo più maturo (verrebbe da dire "progressivo") di organizzare le canzoni in movimenti. Ad
uscirne più vividi che mai, sono i riferimenti ai capisaldi del weird pop, a partire da Exile On Frog
Street, la cui grottesca teatralità lascia intravedere lo zampino del guru Kim Fowley, fino al groove zappiano che apre Sexual Athletics (prima che il brano prenda derive doo wop psichedeliche).
Se in quasi vent'anni di attività, Rosemberg ha maturato uno stile personale in cui synth pop e
rock dei 70s (seppur geneticamente modificati) hanno la loro rilevanza, pom pom amplia ulteriormente lo spettro stilistico con frammenti come Dazed Inn Daydream (in cui i Mamas and Papas
si trasformano in una comune soul post punk) e Dinosaur Carebears (pura novelty song, con un
intermezzo da marchin' band cibernetica, in cui lo spirito surreale dell'artista si spinge a nuove
vette di demenza).
Non v'è dubbio che siamo di fronte ad un manifesto, un vero e proprio testamento artistico. Il punto, semmai, è se tutto questo di traduce in un vero capolavoro. Di certo, per la prima volta l'artista
non si limita a fornire hyperlink a generi e stili. Dalla complessa stratificazione emergono tracce di
una poetica coerente. Emerge, soprattutto, un Pink desolato ed arrabbiato, romantico e polemico.
Il problema, in prospettiva, è che oltre non si può andare. Difficile pensare di proseguire su questo
tipo di scrittura (magari annacquandola o ripulendola) senza ricadere nella parodia. Per il prossimo album il californiano dovrà inventarsi qualcosa di nuovo.
Intanto pom pom è qui e ora e non poteva esservi migliore enciclopedia comprendere il pop d'inizio millennio.
7.5/10
Diego Ballani
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r e c e n s i o n i
n o v e m b r e
Ariel Pink - pom pom (4AD,2014)
puto equilibrare referenze culturali di livello e
un gusto musicale che lo livella (ma non sarebbe necessario sottolinearlo) agli artisti internazionali del genere. Tanto di cappello.
7.1/10
Nino Ciglio
Genere: rnb, elettronica
A due anni di distanza dal più che buono
Playin Me, dove Cooly G ci proponeva la sua
versione introspettiva e sensuale di Uk funky,
house e soul, la fiera female producer del giro
Hyperdub – ed elettronico inglese tout court –
torna con Wait Til' Night dove già videoclip e
titoli in tracklist lasciano ben poco spazio alle
ambiguità. Merrissa Campbell, che ha anche
compilato per Fact una lista di all-time favourite sex jams (giusto per fugare ogni dubbio rimasto), parla di sesso con la S maiuscola e lo fa
cambiando pelle, attingendo sia da un ambito
r'n'b americano (vedi Blood Orange, Kindness,
Tinashe), sia da un altrettanto riscoperto dark
synthpop, oltre che dal solito setting di influenze britanniche, dagli smalti balearici ai bassi
del soundsystem.
Ne esce l'ennesimo disco compatto e centrato,
sia a livello di produzione (dove sono chiari i
riferimenti e molteplici gli spunti), sia a livello
di ispirazione (Merissa gioca con scafata destrezza tra desiderio e assenza), con un messaggio che arriva rotondo e sinuoso avvolto da
una confezione di ruvidezze sintetiche e timbriche urbane, due facce di una medaglia che si
compentrano senza sforzi né ingenuità. Il singolo che dà nome al disco inietta bedroom pop
sexyness in un giro di synth in punta d'electro e
drum machine plugginate e compresse; il resto
del disco, facile a dirsi difficile a farsi, esplora
altre angolazioni possibili di quello scorcio: felpata funkyness in Your Sex, pop più strutturato
Edoardo Bridda
Cumino - Pockets (Autoprodotto,2014)
Genere: ambient, elettronica
E' un paesaggio fatto a stanze, l'ultima fatica
dei Cumino. Giunto a due anni di distanza
dall'album d'esordio e preceduto dalla pubblicazione di due EP, Pockets è un uno di quei
lavori di rarefatta sensibilità e accuratezza stilistica sempre più rari. Luoghi, ciascuno diverso,
con anfratti inattesi, contenenti un caleidoscopio disincantato di suoni, sensazioni, umori e
sfumature di grigio.
Nove tracce che espandono l'universo ambient/synth-pop che aveva caratterizzato il
duo in Tomorrow In The Battle Think Of
Me e che consegnano una prospettiva meno
derivativa e più consapevole. E' in brani come
Two Spheres che il mondo di Luca Vicenzi ed
Hellzapop sterza verso rotte meno prevedibili,
affacciandosi a declinazioni elettro-dance, ammiccando a fascinazioni art-rock e sbattendo le
palpebre tanto ai The XX quanto al Brian Eno
meno minimale.
Sono diverse le intuizioni che i due fondono
in questo disco, dalle delicate sonorità in pixel
in stile Disasterpeace di Fixing Fragments
a quella leggerezza entropica – cara a Jon
Hopkins – di Snails. Nove stanze, ognuna delle
quali prova ad esplorare e aggiungere qualche
elemento in più a questo esperimento sonoro
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Cooly G - Wait 'Til Night (Hyperdub
Records,2014)
e americano in I Like o più scuro e cangiante in
Dancing (con riff alla chitarra elettrica) o più
orchestrato in Want.
Con Wait Til' Night, Cooly G confeziona un
album attualissimo ma anche molto personale.
Fuck With You e 3 Of Us rispondono a una delicata anthemica e a una fruizione pop, il resto
gioca su profumi e mood specifici. Una polpa
soul, un gioco di eros e tanatos, una risposta
brit alle sirene dell'r'n'b americano.
7.2/10
Genere: electro, techno, elettronica
Tradizioni idm e post-rave, luminose aperture folktronica. Strumenti analogici, sintetizzatori
modulari, improvvisazioni noise e glitch digitali. Non è facile inquadrare univocamente la musica
di Clark. Lui ci ha provato, una volta, riassumendola come combinazione della precisione tedesca
e dell'audacità inglese. Perchè se da una parte l'intezione è sempre di più quella di liberare i ritmi
dalle quantizzazioni robotiche, di lasciarsi guidare dall'imprevedibilità delle macchine, dall'altra
rimane l'ammirazione per la "structural culture" tipicamente teutonica, per quel modo di fare razionale e senza sbavature da infaticabile metronomo umano, caratteristico tanto della kosmischemusik quanto dei successivi minimalismi Basic Channel.
Con le sue architetture dancefloor, le sue distese ambient, le meccanizzazioni 8-bit e gli innesti
acustici, il punto di vista di Clark (album onomimo) richiama cartoline da un passato prossimo –
acceni psych-folk da Iradelphic, ricognizioni lo-fi da Totems Flare – ma allo stesso tempo sposta
l'orizzonte sonoro verso una techno glaciale, limpida, eterea. Si rilegge l'epopea idm britannica
(battendo sentieri familiari, vengono citati Two Lone Swordsmen, Orbital, Boards Of Canada),
ma l'inglese di St. Albans gioca anche a nascondersi dietro certe piste à la Jeff Mills (Unfurla, Sodium Trimmers), oppure a sfoderare numeri electro sporcati e distorti, pronipoti dei sogni lucidi
firmati Juan Atkins (Banjo). La faccia cosmico-atmosferica del lavoro trova il suo climax nella
conclusiva Everlane, Snowbird rallenta i bpm per un dub profondo di vibrafoni e cori celesti, There's A Distance In You libera uno shoegazing elettronico in cassa dritta che si chiude tra gli umori
nostalgici di sintetizzatore.
Facendo tesoro dei modelli hardcore continuum, buttando l'occhio a Detroit e di riflesso alle
geometrie kraut, abbiamo tra le mani un disco denso e abilmente costruito. Volendo provocare un
ideale scontro tra pesi massimi, Warp tira in ballo le ultime fatiche di Richie Hawtin e descrive
questo album con quattro parole: "more Berghain than Guggenheim". Come a dire, mettici pure
le tue pseudo-meditazioni da gran galà, noi ci mettiamo vero scientismo sonoro. Primo round agli
squilibrati di Sheffield.
7.5/10
Elia Galli
che affascina e seduce. La durata ridotta (appena 29' minuti) e la poca fermentazione di tante
idee frenano il giudizio complessivo su un
album che lascia ottime impressioni e la voglia
di averne e saperne di più.
6.7/10
Gianluca Lambiase
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Dan'l Boone - Dan'l Boone (Drag
City,2014)
Genere: collage_cutup, experimental
Il concetto di supergruppo è stato oggigiorno
ripensato (se non proprio abusato), al punto
da sembrare ormai una pruderie individuale
legata alla circolazione del nome (la cosiddetta
"visibilità"), più che una vera e propria necessità artistica. Non è il caso del presente Dan'l
r e c e n s i o n i
n o v e m b r e
Clark - Clark (Warp Records,2014)
Stefano Pifferi
r e c e n s i o n i
Davide Matrisciano - Il profumo dei
fiori secchi (Prehistorik Sounds,2014)
Genere: pop, cantautori, ambient, electro
Matrisciano, classe '85, ha esordito due anni fa
con Traffico di pulsazioni, buon disco di musica elettronica/ambient di quelli che ti aspetteresti da uno sperimentatore destinato – se
va bene – ad un seguito piuttosto ristretto, o di
culto se preferite. Con questo Il profumo dei
fiori secchi però cambiano del tutto gli scenari e forse le prospettive. Siamo infatti dalle
parti di un pop evoluto, capace di accogliere
istanze diversamente cantautorali ed azzardi
elettrosintetici. Soprattutto, sembra che tutto
si consumi sull'altare di una devozione assoluta
per Franco Battiato, per quell'approccio avanguardistico, espanso, irrituale eppure canonico alla materia pop, frutto dell'idea che una
canzone nel suo essere siparietto lieve possa
condurti in una diversa (più alta?) dimensione
spirituale. Da cui la cura profonda e l'energia
profuse per la definizione di scenari sonori che
possano rappresentare questa "possibilità di
balzo".
Sia chiaro però che, malgrado a tratti la somiglianza sia sconcertante (al netto del timbro
vocale, una specie di semifalsetto ipnotico),
non si tratta di un'operazione à la Audio2 (gli
imitatori del Battisti più orecchiabile che
spopolarono durante i 90s). Anche perché si fa
presto a dire Battiato. In realtà il repertorio del
catanese è un'enciclopedia di spunti e modi, tra
i quali Matrisciano si muove come un alchimista estatico: c'è quello ancora ruvido di postpunk altezza Patriots (Soli tra i fiori) e quello
dei languori cantautorali di Fleurs (Armonia
irreversibile), quello del pathos incalzante tra
archi ed elettricità di Café de la Paix (Prato al
terzo piano) e quello del misticismo nostalgico
periodo Fisiognomica (Legni bruciati). Non
mancano contagi da altri mondi, come il Battisti panelliano di Corrente elettrica e papaveri,
51
n o v e m b r e
Boone, esordio della omonima sigla dietro
cui si cela la apparentemente eterogenea e
sicuramente pericolosa accozzaglia di noisers,
fattoni, terroristi sonori e quant'altro formata
da Alex Moskos (Aids Wolf, Drainolith), Nate
Young (Wolf Eyes), Charles Ballas (Howling
Hex, Formant) e quel Neil Hagerty di RoyalTruxiana memoria.
Nata da una idea del primo, pronto a dare un
seguito al suo album d'esordio col progetto
in solo Drainolith – decostruzioni al minimo
dei giri di una materia grossomodo rock – la
formazione a quattro è una sorta di estensione delle session di registrazione del disco di
Moskos deflagrata verso lidi di disfacimento
noise, in cui le diverse esperienze dei singoli
confluiscono e collidono in una materia che è
ora ambient (malefica), ora avant-noise (destrutturato), ora psichedelia in abuso di stupefacenti, ora elettronica sfatta e sfiancante, ora
rimasugli rock buttati in una discarica in cui
tutto ciò che c'è di più repulsivo in ambito rock
trova il giusto posto. Dopotutto, come indica
la label, "Twin Infinitives as a style of music,
Dan'l Boone as an acolyte" parrebbe essere il
motto del neo-quartetto, rimandando per le
coordinate sonore dell'album al capolavoro del
fu duo Royal Trux: stessa malattia di fondo,
stessa foga destrutturalista, stesse dinamiche di
oblungazione e travisamento di ogni momento
larvatamente rock, per un lavoro di sicuro poco
accessibile – ascoltate la psichedelia "docile"
e drogata di Mindface per farvi una idea dello
spappolamento del suono dei quattro – ma di
indubbio valore per chi si interessi di slanci in
avanti.
7.2/10
Genere: industrial, noise, techno
Tutto ciò che proviene da un personaggio come William Bennett (brutale e controverso agitatore noise con i Whitehouse, ma anche oscuro
cultore della italo disco come DJ Benetti; esperto in programmazione
neurolinguistica, ma anche collaboratore nel 1981 di Steven "Nurse
With Wound" Stapleton per un album ispirato al marchese De Sade) è
destinato a passare attraverso il fuoco di fila delle polemiche e dei dubbi
di politically incorrectness. Anche dietro il suo interesse verso le percussioni poliritmiche della tradizione africana e voudon haitiana c'è stato chi ha visto l'ombra dello
sfruttamento neocolonialista e dell'appropriazione indebita. Se ci si libera da preconcetti e banalizzazioni sociologiche è possibile invece apprezzare in pieno la progressione del progetto Cut
Hands e dell'estetica "afro noise", che in Festival Of The Dead vede la più riuscita stilizzazione,
bypassando il rischio di intellettualismo dei primi approcci.
Frutto di una personale attrazione che da subito si dimostra lontana dal più bieco e scontato
terzomondismo (fin dalla pseudo-compilation industrial noise Extreme Music From Africa,
pubblicata nel 1997, dove il coinvolgimento di Bennett è andato certamente ben al di là del ruolo
ufficiale di "coordinatore"), la proposta Cut Hands trae ispirazione dal mondo percussivo patrimonio di Ghana, Congo e Haiti, attraverso secche percussioni elettroniche volutamente innaturali
nella loro metronomica precisione, programmate in avviluppamenti poliritmici dall'effetto ipnotico e straniante, spesso appoggiate su un ruvido tappeto rumorista.
Festival Of The The Dead parte subito tirando fuori artigli e artiglieria: The Claw riempie tutte
le frequenze di percussioni e cembali in una potente sarabanda postmodernista. La trance ipnotica
prosegue con i complicati pattern ritmici di Damballah 58, della traccia omonima, intrisa di afrori
voodoo, o di None Of Your Bones Are Broken, che porta i bpm a 160. Nei momenti meno movimentati (Parataxic Distortion, Belladonna Theme, Inlightenment) si prende respiro ma la tensione
emotiva rimane palpabile. Rispetto ad Afro Noise I, prima uscita del 2011 (che includeva tracce
presenti già negli ultimi lavori firmati Whitehouse, dal 2003 in poi) e poi ancora in Black Mamba
(2012), in questo nuovo album, pubblicato dalla lungimirante Blackest Ever Black, la voglia di mirare direttamente ai corpi è ancora più immediata, per un risultato che può trovare diretto sfogo
nei dancefloor più estremi. Non a caso il 12" del luglio 2013 da cui è tratto uno dei quattro brani già
editi dell'album (Madwoman, vertice acuto del Festival) era stato pubblicato dalla Downwards:
con Regis, Surgeon e il mondo dell'industrial techno questo disco ha molto a che vedere. Suggerimento per deejay gourmet industrial techno: mixare Vaudou Take Me High con Butchwax di
Tessela. Risultato fuori di testa garantito.
7.5/10
Alessandro Pogliani
52
r e c e n s i o n i
n o v e m b r e
Cut Hands - Festival Of The Dead (Blackest Ever Black,2014)
la sovrapposizione di nuances esotiche, pennellate jazzy e sussulti funky in Ho camminato
su un aquilone, oppure la contemplazione postpsych di stampo Grandaddy dell'iniziale Al di
là degli ombrelli.
Quello che può sembrare un discorso autoreferenziale finisce insomma per rivelare qualità e
implicazioni insospettabili, soprattutto mette
in mostra una buonissima padronanza della
materia. Se quello che abbiamo ascoltato fino
ad oggi di Matrisciano è soltanto il rumore dei
motori che si riscaldano, quando innescherà
una marcia più personale potrebbe avviarsi su
strade molto interessanti.
6.8/10
Death Of Abel - A Cruel Streak (Trips
und Träume,2014)
Genere: dark, folk
Death of Abel è un progetto apocalyptic folk
tedesco formato da Luca Gillian (già cantante
dei Die Selektion sotto l'alias Luca Morte),
coadiuvato dal vivo da Alexander Gallagher e
Matthias Völkel. Il 13 ottobre 2014 è uscito il
primo 12″ del progetto, A Cruel Streak, per
la romana Trips und Träume. Il disco contiene tre pezzi di un EP omonimo (originariamente uscito su cassetta per la label berlinese
[aufnahme + wiedergabe]), un brano, Westwerke, già apparso nella compilation Transform |
Transport | Transcend ([aufnahme + wiedergabe]), più due brani inediti: Der Weg e Schattenmal.
Dopo diversi concerti in giro per l'Europa,
suonando in interessanti manifestazioni come
la dolomitica Tera Salvaria e di spalla ad artisti
come King Dude e Rome, Gillian, musicista
tedesco di origini italiane, realizza il suo esordio su vinile come Death of Abel. Si tratta di
un buon lavoro, che si muove su un terreno già
abbondantemente arato dai Death In June,
Marco De Baptistis
Eaves - As Old as the Grave (Pias,2014)
Genere: cantautori
Tre brani tre a definire un sound e un sentire,
che a poco più di vent'anni diventa l'universo
53
n o v e m b r e
r e c e n s i o n i
Stefano Solventi
gruppo capostipite del genere. Non per nulla, i
DIJ erano già stati omaggiati dai Death of Abel
in una compilation/tributo, uscita sempre per
[aufnahme + wiedergabe]. La cassetta, intitolata When We Have Each Other We Have
Everything – A Tribute To Death In June, si
apriva con un'ottima cover di Runes And Men,
sicuramente un buon biglietto da visita che
metteva subito in chiaro l'immaginario "apocalittico" evocato dai Death of Abel. Anche in
questo lavoro viene fuori molto bene una certa
nostalgia per un'Europa ormai scomparsa,
soprattutto nel brano Die Hand, cantato con
piglio romantico e teutonico.
Influenze di scuola neofolk tedesca, stile Forseti, Darkwood, Sonne Hagal, etc, sono facilmente riconoscibili ed emergono soprattutto
in brani come Blüte Des Lebens e Schattenmal.
Non mancano momenti più lenti e intimisti
come l'evocativo monologo tra le rovine, Der
Weg, ma il miglior episodio del disco è Der Eiserne Tod, in cui il contrasto tra una voce femminile e il cantato prima urlato e poi sussurrato
di Gillian (memore di quanto fatto già con i Die
Selektion) si sposa bene con la chitarra acustica "neofolk" accompagnata da una malinconica
tromba che appare verso metà del brano.
Un disco che, pur inserendosi in un genere abbondantemente inflazionato, riesce a ritagliarsi
il suo spazio, facendo intuire le potenzialità
di un progetto ancora agli esordi ma con già
una sua personalità ed una sua estetica in fieri.
Scelta pienamente condivisibile quella di cantare in tedesco, lingua che dona un particolare
fascino mitteleuropeo al lavoro.
7/10
Marco Boscolo
Foxygen - Foxygen …And Star Power
(Jagjaguwar,2014)
Genere: glam
Di fronte ad album così complessi, siamo felici
che, nonostante il nonsense, la band ci sia
venuta in soccorso con una chiave di lettura: …
And Star Power «inizia come un classico album dei Foxygen, a cui poi gradualmente si sostituisce una band chiamata Star Power. Vengono dallo spazio. Forse. Non lo so. È un concetto
vago». Così viene dunque presentato il terzo
album in studio dei Foxygen, band californiana
che è passata ai clamori della cronaca per un
disco, We Are The 21st Century Ambassadors Of Peace And Magic, che ha spiazzato la
critica per il suo essere pesantemente catchy e
contemporaneamente schizzato di un art-pop
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n o v e m b r e
lisergico; ma soprattutto per una condotta che,
fra cancellazione di tour, autolesionismi vari
(il leader Rado è solito sbattersi il microfono
in testa e lanciarsi sull'attrezzatura da palco) e
dichiarazioni e comportamenti ambigui, li ha
definitivamente riallineati con i loro leader e
padri spirituali psych-rock o glam-rock anni
Settanta.
Dietro gli intenti di …And Star Power, infatti,
si cela la solita sfilza di nomi spendibili appartenenti a l'age d'or del rock and roll: Bowie,
The Rolling Stones, New York Dolls, Fleetwood Mac, Brian Jonestown Massacre, ma
anche, con un po' più di modestia e dovizia
filologica, Of Montreal, Flaming Lips, White
Fence e Bleached, con i quali, anzi, i Foxygen
collaborano nel disco, oltre a creare un piccolo movimento new-glam. Ma non è solo negli
intenti referenziali che il terzo album della
band di LA si allinea con il gusto passatista,
vagamente lo-fi e graffiato sul 33 giri, degli anni
andati, ma anche perché …And Star Power è
una sorta di opera rock, divisa in quattro parti
(e due dischi) metodicamente intitolate secondo l'atmosfera che regna nei brani che le compongono.
Diciamo subito che il primo disco (le prime
due parti) è la culla del sound Foxygen come
avevamo imparato a conoscerlo. La prima
parte, intitolata The Hits and Star Power Suite,
è appunto la raccolta dei cinque migliori (o
più accattivanti) brani del disco, seguiti dalle
quattro parti di Star Power, un piccolo concept
nel concept. Coulda Been My Love è un classic
r'n'b in vago stile Burt Bacharach, con tanto
di cori e contro cori che, in quanto a varietà,
richiamano il secondo degli MGMT; How Can
You Really, in pieno stile Dylan o Crosby Stills
and Nash, se volete, con gli accordi di piano
suonati percussivamente, è un gran singolo di
traino; Star Power III: What Are We Good For
è, invece, il fulcro glam del disco, di quel glam
r e c e n s i o n i
di cui scrivere e cantare. Così, più o meno, questo As Old As The Grave, esordio di Eaves sul
formato breve che fin dal titolo mette in chiaro
che questa è una questione di vita vissuta, di
rabbie consumate per davvero, dolori concreti
come i cocci della bottiglia. Fin dal dramma
iniziale della titletrack, ritroviamo tutta la ferocia delicata di cui è capace la suburbia inglese
(in questo caso di Leeds), dove l'alcol distrugge
più di quanto faccia dimenticare i drammi di
madre e padre.
Il resto del programma, il lato B, se propendete
per il 7 pollici, è un'accoppiata di brani schietti
e rapidi, dal tocco folk per lo storytelling che vi
si annida. Timber è giocata sul tono nostalgico
del pianoforte (che si dimostra domato quanto
la chitarra), Alone In My Mind è il fingerpicking tutto il contrario dell'apatia che si condanna nel testo. Nel complesso, un esordio che
fa venire voglia di saperne di più e di correre il
rischio di fermarsi ancora per un giro al bancone.
7/10
r e c e n s i o n i
aspettarsi.
6.8/10
Nino Ciglio
Glass Ghost - Lyfe (Western
Vinyl,2014)
Genere: pop, indie
Che i due titolari del progetto – nato in quel
tessuto brooklynese dove pare che tu non possa
praticamente uscire di casa senza incrociare il
passo con qualche musicista di fama internazionale – Mike Johnson e Eliot Krimsky sapessero costruire orchestrazioni pop di qualità, era
noto fin dall'esordio del 2009, Idol Dolmen. Ad
aumentare l'interesse per le loro scorrazzate in
studio – dove i due eccellono nello sfruttarne
tutte le potenzialità – si sono messi i fan DOC
come Sharon Van Etten, che ha dichiarato
come Krimsky sia uno dei suoi autori preferiti:
"la sua mano sinistra è l'hip hop, la sua destra
il jazz e i suoi testi sono beat". La rockeuse
coglie in pieno il melting pot musical-culturale
in cui Krimsky e Johnson affondano le mani e
che mettono in forma di canzoni con l'aiuto di
ospiti di peso come Brian Betancourt (Hospitality), Joan Wasser (Joan As Police Woman),
Nat Baldwin (Dirty Projectors) e Jane Hership (TEEN).
Lyfe è un caleidoscopio multicolore che non ha
un vero centro, se non forse il falsetto Krimsky,
che può anche essere considerato il maggior
limite del sound della band (ma è questione
di gusti). C'è la torch song (Triangle), quella
natalizia (Home for the Holydays), la versione
2.0 del crooning (Walls), la cavalcata adrenalinica in sincope (Sound of Money), la big band
jazz (Hearing The Sound). C'è anche qualche
eccesso, come il trattamento vocale di Wait A
Second e una certa prolissità che non giova del
tutto all'insieme (nella versione digitale del
disco ci sono anche due bonus track, di cui non
si sentiva il bisogno).
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n o v e m b r e
filtrato Lou Reed con così tanta dovizia di particolari che quasi impressiona.
The Paranoid Side è, come recita il titolo, la
sezione dedicata al malinconico psych schizzato, che rilegge in un songrwriting più creativo
e colorato un misto fra i Suicide o gli Hüsker
Dü (666) e le ultime esperienze di casa Temples (Mattress Warhouse). E nelle fake-ballads
come Cannibal Holocaust o Flowers emerge un
songwriting maturo ed equilibrato, non più fine
al semplice ri-arrangiamento del classico, ma
attento alle derivazioni più attuali e, soprattutto, a lasciare il giusto spazio alla composizione
armonica e strumentale.
Poi parte il secondo disco, con la sezione denominata Scream: A Journey Through Hell e,
come da titolo, il gioco si fa duro. Cold Winter/
Freedom è un muro rumoristico di minuti 6
e secondi 14 che sembra essere un giocattolo rotto, in rotta di collisione con gli inferi;
Brooklyn Police Station in superficie sembra
mantenere l'approccio melodico alla The Who
dei primordi, ma sotto la patina giocherellona
e spensierata, nasconde un disordine di fondo,
che è lo stesso di Freedom II e di tutta la sezione Hang On To Love e che è, allo stesso tempo,
il miglior pregio e il peggior difetto di …And
Star Power.
I Foxygen, così disarmonici e allo stesso tempo
così particolareggiati, sembrano essere caduti
nello stesso difetto che rese We Are The 21st
Century Ambassadors un disco incompleto:
sono sempre al limite del karaoke classic rock,
della citazione fine a se stessa, anche laddove
c'è più creatività e intraprendenza. Questo, ad
ogni modo, non può bastare a definire …And
Star Power un disco non riuscito. Certo, la sua
incompletezza è, come spesso accade quando
si parla di Foxygen, il valore aggiunto, e l'insieme delle parti, alla fine dei conti, non può che
premiare l'esperimento, in attesa di qualcosa
dai contorni più definiti e identitari che è lecito
Genere: rock
Un collage in copertina firmato Maria Antonietta che ben veicola i contenuti del disco: i Dadamatto non sono più quelli monocromatici, postpunk e spigolosi de Il derubato che sorride, ma una band che riesce a
suonare pop, deviante, multisfaccettata, raffinata e personale al tempo
stesso. C'è qualcosa di imprendibile nella logica con cui il trio costituito
da Marco Imparato, Andrea Vescovi e Michele Grossi costruisce le canzoni, ed è quel qualcosa a rendere la musica, dopo quattro dischi pubblicati, ancora degna d'essere ascoltata.
Rococò, nello specifico, gioca sui colori del suono, sull'impasto, sommando le tipiche "irregolarità" ritmiche della band a una scrittura che in certi frangenti (pensiamo ad esempio a A due passi
dal mare) sfiora un cantautorato rock corale e in altri (i pieni garantiti dai synth, da quello che
ci pare un theremin e dagli arrangiamenti "liquidi" della bellissima Marina, sorta di psichedelia
complessa e morbida con accenni quasi progressive) sorprende senza mezzi termini. Quasi che
seguire il filo dei pensieri della band fosse come guardare (ascoltare) una litografia di Escher,
con scale (di suoni) intrecciate in ogni dove, ad esempio nel valzer sbriciolato e ricomposto della
esplosiva e quasi ofmontrealiana Pluridimensionalità. Il resto è una Orte che traccia un ponte con
certi universi dei King Crimson, una America descrittiva più che evocativa che prende in prestito
la voce di Emidio Clementi dei Massimo Volume, una Arrivederci a metà strada tra acidi, prog
e canzone, parentesi acustiche stranianti come I cinque dell'Ave Maria, lo spoken word surreale
virato pop di Insieme.
Come tutto questo possa poi stare insieme – con tanto di testi che decontestualizzano ancora di
più la materia musicale, con il loro parlare del "quotidiano" in modo piuttosto surreale – è davvero
un mistero, una sfida al pensiero laterale che insegna come la musica possa essere un gioco, un'idea senza freni, prima che una faccenda di dischi, tour, promozione e quant'altro. Bravi, Dadamatto.
7.2/10
Fabrizio Zampighi
Nel complesso, più un'insieme di canzoni,
come capitava ai tempi di Frank Sinatra, che un
vero album. La classe c'è, bisognerebbe forse
affidarla a una produzione esterna per metterla
definitivamente a fuoco.
6.9/10
Marco Boscolo
56
Godflesh - A World Lit Only By Fire
(Avalanche,2014)
Genere: industrial, metal
Col ritorno dei Godflesh (e quello prossimo
dei Faith No More) è certificato che all'appello
delle reunion mancano soltanto gruppi i cui
componenti sono morti e/o spariti nel nulla.
Justin Broadrick e G.C. Green sono piuttosto vivi stando a ciò che ascoltammo nell'EP
r e c e n s i o n i
n o v e m b r e
Dadamatto - Rococò (La Tempesta Dischi,2014)
r e c e n s i o n i
noro e vanificato da una produzione eccessivamente "pulita" e "aperta", così come a mancare
è un'illuminazione – apparente controsenso
in un lavoro che fa della cupezza la sua pietra
angolare – che non faccia scattare il cliché trito
e ritrito dell'effetto nostalgia, arroccando il
die-hard fan su posizioni da guelfi o ghibellini.
Fatto non totalmente imputabile al duo Broadrick-Green, tornato a cantare la disgregazione
della contemporaneità oggi come allora, quanto alle aspettative di chi ascolta e al peso specifico del passato della band, oltre che all'oceano
di rumore passatoci nelle orecchie durante la
sua assenza. Della serie, ad averne gruppi che
suonino monolitici e crudeli come i Godflesh
2014 ma anche, rovesciando la medaglia, quel
senso di amaro in bocca che proviene dalla
consapevolezza del pressante senso di dejà vu,
di minimo sindacale, di "passaggio alla cassa",
che ci fa rimanere sospesi col giudizio.
6.5/10
Stefano Pifferi
Grace Mitchell - Design EP (Republic
Records,2014)
Genere: pop
Piccole Lorde crescono… di numero. Corsi e
ricorsi storici insegnano che quando un prodotto funziona, nel giro di qualche mese iniziano a spuntare come funghi prodotti similari,
nella maggioranza dei casi qualitativamente
inferiori e lanciati principalmente per sfruttare
l'onda lunga del successo: quello della cantante
neozelandese è stato uno dei più grandi casi
mediatici degli ultimi dodici mesi – anche se la
sua esplosione su larga scala era prevedibile già
dall'EP The Love Club, vedi recensione – ed
infatti non sono mancati tentativi di replica, tra
i quali citiamo quello, fino ad oggi fallimentare,
targato BROODS.
Tra i nomi post-Lorde che con maggiore
probabilità potrebbero uscire allo scoperto nei
57
n o v e m b r e
Decline and Fall di qualche mese addietro e,
nonostante le dichiarazioni all'indomani della
reunion (Hellfest, a.d. 2010) sull'impossibilità
di prevedere il futuro targato Godflesh, ecco
ora il nuovo materiale.
Più di 10 anni dopo il tronfio commiato targato
Hymns, dopo i progetti di Broadrick (spesso)
in solitaria – Final, JK Flesh, Greymachine,
Pale Sketcher e soprattutto Jesu – e la sparizione dalle scene del sodale Green (ritiratosi, nel frattempo, a vita privata), il marchio
Godflesh ritorna tentando di annullare lo iato
decennale e, soprattutto, l'avvenuto cambiamento delle dinamiche musicali e di contesto.
Non che la musica dei due sia cambiata molto: sempre marziale e a battito lento, scandita
dalla batteria elettronica e dal programming,
con le corde dei due, distorte e futuristiche,
a incrociarsi su passaggi doomy, ossessivi e
sofferenti in cui le lentezze di certe musiche
chitarristiche estreme si fondono con le pachidermie stranianti dell'industrial più vicino
al rock. E proprio a quelle lande toccate nella
prima parte della carriera a nome Godflesh, a
quelle vette di rumore innovativo, fusione di
estremi e lucida analisi del contemporaneo che
furono Streetcleaner e Pure, rimanda questo
A World Lit Only By Fire, non a caso definito
da più parti come una sorta di "lost album".
Ad animare, musicalmente e ideologicamente
i due, è infatti sempre l'indagine sulla "new
dark age", non a caso anche titolo dell'opener e
"primo estratto" dell'intero lavoro: nichilismo
sonoro in dosi industriali, disillusione e consapevolezza della caducità dell'esistenza, totale
assenza di speranza quasi d'origine meccanicistico-materialista, distribuite in nove tracce
dal peso specifico al solito elevato per ciò che
concerne ossessività e reiterazione, oltre che
per la grana del suono prodotto dai due.
A mancare è ovviamente l'effetto sorpresa,
derivante da una rigida osservanza al verbo so-
Genere: cantautori, rock
Stefano "Edda" Rampoldi è sui binari giusti. Stavolta come mi ammazzerai? è il suo ultimo lavoro per Niegazowana. Segue Odio i vivi, album arrivato finalista al Tenco 2012. A differenza dei precedenti lavori, la line up di
supporto è ridotta all'osso, da rombo rock. Edda è e sarà sempre un artista in
gabbia, aduso a descrivere psicopatologie comportamentali da un punto di
vista-metropoli fatto di schegge impazzite e micragnose, linee senza raccordo. Come dargli torto
altrimenti? Chiuso in uno studio aretino, Stefano ha saldato nervi e liberato solitudine, ed ecco la
vita orribile che su questo piano seguita in un buio senza pari, tra tradizione e spinte esterne.
Autorale certo, ma sbreccato, che si fa forte del medium vocale, che si incrocia, così pieno ed iperrealista, una volta ogni dieci anni. Esemplare la crudezza di un brano come Bellissima o la melodia
di Saibene, dove l'anima sembra crisalide in un bicchiere di vetro rivolto. Eppure c'è dell'amore
negli angoli dove tutti serrerebbero gli occhi, un amore temuto che Edda canta per registri angelici e bassifondi dionisiaci (Tu e le rose, Sei una puttana da 1 euro, Piccole isole, Ragazza meridionale, Ragazza porno). Preme sottolineare che è proprio in questo scarto che le parole si defilano,
diventano un lembo riposto a sostegno della speranza.
Ritorna il poggiapiedi malconcio della religione certo, e si fa più monumentale il cordone famigliare che riprende placenta fin dalla copertina (Pater, Coniglio rosa, Mater). Ci sono poi lacerazioni
nella poetica di Edda, che sono talvolta abbacinanti, furore che è accensione invernale, come un
vecchio motore a scoppio da utilitaria. Solo che quando parte è devastante, disarmonico, un motore che frigna, che si dimena, che graffia, come un sevizio non artistico, non filtrato.
E non è un semplice Battisti che si canticchia, come era stato in passato, fra le rime opalescenti. Quando tutto rimaneva spento, era spesso una sinfonia che raddolciva nelle ore di riporto dai
fardelli; qui è il suo rock maledettamente made in Italy (Mademoiselle), imperniato su frasi laconiche, la cima a cui aggrapparsi. Il treno non più vegetativo su cui trascorrere l'eternità ferroviaria
contiene tanti di quegli Edda che si fa fatica ad ordinarli in fila indiana. Però, anche se presi alla
rinfusa, piacciono tutti, uno ad uno.
7.3/10
Christian Panzano
prossimi mesi troviamo senza dubbio Grace
Mitchell, sedicenne di Portland che in questi
giorni pubblica il suo EP d'esordio, Design,
dopo aver contribuito alla colonna sonora del
film The Secret Life of Walter Mitty con la cover di Maneater (Hall and Oates). Una predestinata in mano alle major (esce per Universal/
Republic)? Forse, fatto sta che nel momento
58
in cui scriviamo il contatore della sua pagina
Facebook conta appena 1.370 fan, segno che il
motore della macchina markettara deve ancora
mettersi in moto.
Sulla copertina dell'EP la Nostra appare come
un incrocio tra Tori Amos e Molly Ringwald e
ciò non sorprende, dato che si dichiara grande
appassionata dell'alt-pop al femminile anni '90
r e c e n s i o n i
n o v e m b r e
Edda - Stavolta come mi ammazzerai? (Niegazowana,2014)
Riccardo Zagaglia
r e c e n s i o n i
Guano Padano - Americana (Ipecac
Recordings,2014)
Genere: rock, folk, jazz
Il set si apre con un universo silente da impulso
primordiale (The Hushed Universe), un segreto per pochi, e ci si aggiusta alla tavola dei
convitati. Una tavola rotonda dove i cavalieri
sono barfly ante-litteram che interpretano la
parte di Galeazzo, Lancillotto e Bedivere (Pian
della tortilla). Siamo in California, è depressione carsica, e mentre a Wall Street cadono
gli equilibristi dai grattacieli, a Los Angeles
un ragazzotto di nome John Fante ascolta una
malaguena a Bunker Hill strimpellata da immigrati provenienti da Gibilterra (El Toro).
Sprofondare è la seconda delle fatiche: sentirsi il mondo addosso nel suo punto più basso,
quello delle vecchie acque cattive nella Death
Valley (White Giant). Entrare è la terza: nuovamente in un viaggio drogato fra le pieghe del
passato dove l'America era il vasodilatatore
della migrazione mondiale, il suo rene sinistro
conciato per la feste da Abramo Lincoln e i 500
Navajo di Manuelito a vivere nelle tane come
cani da prateria dopo l'assalto al cielo sferrato alla prima invasione di coloni lungo Fort
Defiance (My Town, Station). Infine passare
la soglia dello stargate che su minute viscere
traghetta nei gangli che misurarono secessione,
spirale razziale e perchè no la piana padana,
una delle tante perlomeno (Cacti). Un altro
stargate è tutto dentro a Black Boy, che da
Sister Rosetta s'avvita e frana nelle mani di Taj
Mahal, ha il collo taurino di una generazione
di schiavi.
È chiaro come certe fascinazioni abbiano il
crugno di sferrare uppercut detonanti, ascoltando Americana dei Guano Padano. Il trio,
che è al terzo disco, si dimostra sempre più
competente nel rievocare stati mentali e lunghi
piani sequenza, nel concentrare camei e narrazione quasi a dettare un saliscendi melodiz-
59
n o v e m b r e
(Alanis Morissette, ma anche la stessa Amos)
ma con un occhio sempre rivolto agli eighties
(vorrebbe essere prodotta da Daryl Hall, sì,
sempre lui). Ciò che invece sorprende è il suo
essere incredibilmente consapevole di quello
che è il suo recinto sonoro, che lei stessa descrive esattamente: "pop accessibile e gradevole ma allo stesso tempo attento alle sfumature
indie e all'utilizzo di sample non banali quanto
a scelte strutturali più astratte". Nulla di più,
nulla di meno.
Una consapevolezza che è segno di una maturità: la stessa che troviamo anche tra i solchi
delle quattro tracce di Design EP, non tanto
a livello di tematiche (Broken Over You è il
cassico love-drama), quanto a livello sonoro:
tutto è molto dosato, senza sprechi o inutili
provocazioni (l'epoca delle Lady Gaga o delle
Ke$ha sembra veramente lontana), oseremmo
dire polite. Runaway è una possibile futura hit
radiofonica a metà strada tra Lorde e Ellie
Goulding, con un buon equilibrio nel beat tra
una corposità di base e alcuni arricchimenti
di sample vocali, in Always and Forever viene
fuori l'amore per Lana del Rey, qui riproposta in una veste più innocua e meno da "bella
e dannata, Broken Over You è una ballad r'n'b
downtempo che avremmo potuto tranquillamente trovare all'interno della tracklist di
Goddess di BANKS, mentre la conclusiva Your
Design riassume un po' tutta la sensibilità pop
di Grace Mitchell in quattro minuti di melodie
di scuola Florence and The Machine.
Non siamo davanti ad un fenomeno, ma se
quello che abbiamo ascoltato in Design può
ritenersi indicativo, Grace Mitchell sembra
possedere solide basi per un roseo futuro.
6.1/10
Genere: avant
Poteva, la band che ha fatto del rumore la propria spina dorsale e del
crollo/distruzione un riconoscibile marchio di fabbrica, estetico oltre che
etico, esimersi dal trattare quanto di più rumoroso ci sia al mondo, ovvero
la guerra? La risposta è ovviamente no, dato che Lament è l'opera/riflessione che gli Einstürzende Neubauten hanno deciso di consacrare alla
Grande Guerra, di cui corre quest'anno il centenario. E hanno deciso di
farlo a modo loro: aggiungendo sì, rumore a rumore, ma allestendo intorno alla materia principale sfumature, dettagli, rovelli vari che fanno di questo Lament più che
un disco in sé, una vera e propria "rock-opera" fruibile nella sua interezza in sede live e di cui la
versione su disco non è che una "studio reconstruction", una sorta di "libretto" d'opera.
Al netto delle dichiarazioni della band – che ci incuriosiscono alquanto – in relazione alle tappe
del tour novembrino e alla messinscena del tutto, Lament è a tutti gli effetti un album, seppur
particolare nel suo essere a "concetto" e nonostante la eterogeneità di una proposta in cui si alterna tutto lo spettro sonoro, e non solo della formazione berlinese: il rumore di matrice industriale
come reminiscenza degli albori, l'avanguardia come continuo spostamento "oltre" di una ricerca
musicale indomita, la wave come basico humus su cui far germogliare piante diverse, l'approccio
cabarettistico e la performance di stampo teatrale come commistione fra arti e infine la "sensibilità pop" dell'ultimo periodo come dimostrazione di apertura ed allargamento dei confini di genere.
Dopo tutto Lament è un lavoro che ha richiesto approfondimenti non esclusivamente musicali
(ricavati da varie forme di incisioni audio, come canti di soldati o suoni di bande, in una sorta di
sonorizzazione originale), quanto più genericamente storici, archivistici, statistici, documentali e
letterari, al fine di fornire allo spettacolo una visione a tutto tondo della Grande Guerra. Sono così
comprensibili e "naturali" passaggi alieni come la carica grottesca fornita da Hacke e Blixa sotto
vocoder allo scambio "telegrafico" tra il "kaiser" Wilhelm e lo zar di Russia Nicholas in The WillyNicky Telegrams, oppure la sinteticamente percussiva Der 1. Weltkrieg (Percussion Version), lanciata a 120bpm a ricordare ad ogni battito i giorni di durata del conflitto e il coinvolgimento delle
varie nazioni in uno "statistical piece of music", per dirla alla Blixa. Oppure lo scroscio infernale,
l'"hellish miasmah" dell'opener Kriegsmaschinerie, il cui clangore non può non evocare materialmente la paura e lo spaesamento che i combattenti dell'epoca provarono nelle crude battaglie o,
ancora, Hymnen, col suo irriverente mash-up multilinguistico di inni nazionali.
Aggiungiamoci una ossessivamente inquietante How Did I Die, reprise di un pezzo dello scrittore Kurt Tucholsky relativo alla propria esperienza in guerra, la versione made in Blixa (solo voce
e tanti, tanti brividi) della Where Have All The Flowers Gone di Pete Seeger poi germanizzata
dalla Dietrich (Sag Mir Wo Die Blumen Sind), la Weilliana On Patrol In No Man's Land incentrata
sul reggimento degli Harlem Hellfighters, la splendida epopea in tre movimenti che dà il titolo
all'intero lavoro, e ci renderemo conto, solo parzialmente prima del live, della complessità messa
su disco dai tedeschi. Non che ce ne fosse bisogno per comprendere lo spessore del gruppo, ma
questo Lament, con tutto il corollario di riflessioni – la più amara della quali, "First World War
60
r e c e n s i o n i
n o v e m b r e
Einstürzende Neubauten - Lament (BMG,2014)
never ended – the interwar and postwar periods being essentially pauses for breath [...]", ci ricorda come la guerra sia condizione intrinseca all'essere umano – che si porta dietro, ci rende uno dei
più importanti gruppi dell'avanguardia mondiale al suo meglio.
8/10
zante. Un big bang emozionale si ha per certo
in un brano come The Fat Of The Land, che
richiama quel magone di Hud il selvaggio con
Paul Newman e Melvyn Douglas. Solo che qui
il romanticismo non è al servizio dello scotto
dovuto alla celebre eredità, quanto al chiarore
di un'alba all'imbocco del ranch.
I Nostri si fanno prendere un po' troppo dalla
smania da cinematografo riscoperto nell'era
del tutto è buono. Per cui non si ha un blocco
unico di temi, quanto una struttura episodica a
piccoli blocchi o a riprese di temi, ed è il limite di chi vuole imbrigliare la musica da film
nel rock. Ma De Rossi, Stefana e Gallo, anche
se fosse così, non lo farebbero certo con imperizia, anzi. C'è una maestria nei loro arrangiamenti, un senso delle meridiane da grande
romanzo americano migrante – ricordiamo
Fante ma si potrebbe citare nella poesia anche
Emanuel Carnevali – e coni dilatati di realismo
da far intorpidire ogni riflesso psicosomatico,
rimanendo a bocca aperta come farebbe lo scemo del villaggio.
7.3/10
Christian Panzano
Half Japanese - Overjoyed (Joyful
Noise,2014)
Genere: rock, indie, experimental
Non ci eravamo certo dimenticati degli Half
Japanese, ma tredici anni senza un "vero"
nuovo album – anche se di una ristampa come
½ Gentlemen Not Beasts, fulminante inizio
della loro saga, abbiamo parlato e volentieri –
sono comunque tanti e Overjoyed è un piccolo
evento, da questo punto di vista. I fratelli Fair,
prodotti da Jon Dieterich dei Deerhoof, sono
in forma. Non c'è aria di fiacca o di maniera,
i pionieri dell'estetica lo-fi hanno scritto un
disco di canzoni ben suonate e allo stesso abbastanza ferroso e piacevolmente scombinato
da essere assolutamente coerente con la loro
parabola.
Parte forte con It's Pull, il cui giro di basso fa
l'effetto di una pallina che rotola per tutto il
pezzo portandosi dietro scarni e taglienti riff di
chitarra, e prosegue in un puzzle di brani brevi,
senza divagazioni, quanto – spesso – sorprendenti per eclettismo o per stile: ci sono il rock
and roll rumoroso (Do It Nation, tra i Cramps
e il krautrock o le cantilene nevrasteniche alla
Fall) e il pop-punk, ma anche un funky exotico (Brave Enough), un geniale arrangiamento
noise di un pezzo di modern surf (Oversized
and Joyful) e una We Are Sure che piacerebbe
avere scritto ai Van Pelt, giusto per fare qualche esempio.
Impeccabile anche nei richiami alla musica degli anni '60 – dal proverbiale piglio beefheartiano ai ricordi di Stooges, Velvet Underground
e del primo Zappa – felicemente piegati a un'identità riconoscibilissima, non solo nella surreale voce di Jad Fair o nelle strutture contorte
e fantasiose, ma – e fa più piacere dirlo – nella
sbalorditiva freschezza, per un gruppo con
quarant'anni di carriera alle spalle. Un ritorno
61
n o v e m b r e
r e c e n s i o n i
Stefano Pifferi
sugli scudi.
7/10
Tommaso Iannini
Genere: rock, punk
Hanno grandissima intelligenza discografica
gli Iceage, da sempre. Non a caso hanno saputo abbattere subito il muro dell'underground,
dopo appena 12 canzoni e mezz'oretta di musica, finendo sotto le cure di Pitchfork e nelle
mani della Matador. Premio meritato anche
perché i quattro sono stati in grado di far luce
su tutta una scena sommessa danese che ha
trovato molto – e spesso giusto – credito, tra
i paralleli Vår passando per Lust for Youth,
Hand of Dust, Puce Mary fino all'etichetta
Posh Isolation.
Ora, nel bene o nel male, Plowing Into The
Field Of Love conferma gli Iceage in grado
di piazzare il colpo giusto al momento giusto
perché cambiano rotta, perché consci che alla
lunga il gioco post punk barrato hardcore dei
primi due album poteva stancare si indirizzano
verso il mondo rock dei Bad Seeds e dei Gun
Club, presente già dai primi vagiti On My Finger e The Lord's Favorite. Una svolta che sarà
apprezzatissima dai fan, cui gli Iceage daranno anche del buon materiale su cui riflettere,
visto che nel suo complesso Plowing Into
The Field Of Love non è un disco di facile
metabolizzazione: complessità nella struttura, i fiati che entrano nella composizione, le
ballad sbronze come Against the Moon (poi
sulla poesia del "Whatever i do i don't repent i
keep pissing against the moon" uno può anche
discutere), il western a contatto con il solito
appeal emo e ancora l'amore per le stonature
tanto nel cantato quanto nelle chitarre, magari
meno sature ma sempre in leggera dissonanza.
Non manca niente, neppure quel pugno di
62
Stefano Gaz
Il Rondine - Può capitare a chiunque ciò
che può capitare a qualcuno (La Fame
Dischi,2014)
Genere: cantautori, punk, indie
Claudio Rossetti, romano, classe '85, un tempo
chitarrista nei post-rock/progressive metal
Blue Order Project, nel 2013 partecipa al concorso "Le Canzoni Migliori Le Aiuta La Fame"
indetto dall'etichetta La Fame Dischi. E vince.
Risultato, entra nel roster dell'etichetta umbra, che gli produce un album tutto intero. Ed
eccoci a questo Può capitare a chiunque ciò
che può capitare a qualcuno, undici tracce
di cantautorato che scozza sarcasmo bislacco
e amarezza traslucida, un ghigno sordido per
ogni prurito malinconico, sbuffi rabbiosi e slanci visionari.
Alle forme più classiche che denunciano retaggi post-grunge (vedi il valzer crudo e malinconico di La bolletta del gas, o quello più incalzante di Pregiudizio su Sergio con le sue vaghe
radiazioni Elliott Smith) si alternano galoppate variamente indie (il punk rock sincopato di
Morto, dall'invettiva basale Fiumani, oppure
l'emocore febbrile di Mi fido più di me, tipo
I Cani però graziaddio senza le implicazioni
generazionali) e divagazioni pop con la fregola
arty (i crucci traslucidi di La settima differenza, con ampia aspersione spacey di tastiere e
finale ipnotico di vibrafono, oppure il Faust'O
trasfigurato Stereolab di In tempo).
I testi hanno la loro importanza, determinano
il mood come sottolineature storte tra le pagine di un diario che non fa sconti al disincanto:
r e c e n s i o n i
n o v e m b r e
Iceage - Plowing Into the Field Of Love
(Matador,2014)
canzoni sopra la media che fa di un disco un
buon disco. C'è un "però"? No, solo l'impressione che il giorno in cui gli Iceage non faranno la
cosa più intelligente da fare, sforneranno il loro
capolavoro.
7.1/10
vale tanto per il twee pop a rotta di collo di La
naturale capacità (immaginatevi Renato Zero
irretito dai primi Baustelle) che per il magone folk di Un'oliva, col suo rapimento elusivo
vagamente De André. Le melodie ai minimi
termini favoriscono l'immediatezza ma suggeriscono una superficialità che con gli ascolti
si rivela equivoca, lasciando affiorare tensioni
stranianti e a tratti persino strazianti. Quel che
si dice un esordio promettente.
7/10
Stefano Solventi
Genere: cantautori, rock
Da sempre in bilico tra rock-pop orecchiabile/
radiofonico e scrittura cantautorale di un certo
peso, gli Io?Drama del carismatico (anche
nella voce) Fabrizio Pollio hanno dimostrato
nel tempo di sapersi districare con una certa
bravura tra categorie e tipologie di pubblico.
Non abbastanza alternative da solleticare i
palati degli amanti delle freakerie indie, ma
nemmeno sputtanati sul crinale delle banalità
radiofoniche tout court, i Nostri hanno sempre
dimostrato buone potenzialità e una concretezza da navigati operai musicali.
Anche in questo disco (il terzo lungo della carriera), la band dà un colpo al cerchio e uno alla
botte, ottenendo peraltro risultati spesso apprezzabili: nello specifico, chiama a produrre
Nicolò Fragile – già al lavoro con Vasco Rossi,
Mina, Alexia, Matia Bazar, Irene Grandi – ma
lo impiega per dar forma a un suono a metà
strada tra wave (Mi dimentico mi assolvo, Non
resta che perdersi), elettronica massimalista (A
piedi scalzi), cantautorato, rock. Nonostante
alcuni dei migliori brani in scaletta siano legati
a filo doppio allo stile del passato (le ottime
Babele e Vergani Marelli 1), rimane comunque
apprezzabile la voglia di andare oltre la formu-
Fabrizio Zampighi
Jhené Aiko - Souled Out (Def Jam
Recordings,2014)
Genere: pop, rnb
Se le mutazioni futuristiche targate FKA
Twigs e le produzioni moderne e raffinate in
mano a BANKS stentano a decollare in modo
netto nelle classifiche, lo stesso sta accadendo
anche alle due principali alunne della nuova scuola di pensiero meno innovativa e più
conservatrice – e forse meno necessaria – dell'r'n'b: Jhené Aiko e Tinashe.
Probabilmente messi in ombra dalla definitiva
ascesa di Ariana Grande, gli album di debutto
delle due giovani cantanti americane – entrambe di Los Angeles – non hanno per il momento
raccolto i frutti di un hype che durava da circa
due anni. Il più lanciato Souled Out di Jhené
Aiko – uscito ad inizio settembre – incredibilmente potrebbe non superare le vendite
dell'EP (Sail Out, 2013), mentre il più recente
Aquarius di Tinashe, nel momento in cui scriviamo, sembra essere destinato ad un ingresso
piuttosto timido nelle charts americane. Eppure alle due non manca praticamente nulla:
presenza patinata, produttori di spicco, guest
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n o v e m b r e
r e c e n s i o n i
Io?drama - Non resta che perdersi
(Cama Records,2014)
la consolidata nei dischi precedenti (interessante il synth-rock in bilico tra violino, programmazione e batteria di Il sasso e lo stivale),
anche se il lavoro non dà sempre buoni frutti:
Grooviera è appunto un groove reiterato che
si sgretola in qualche vaga parentesi ambient,
Uno alla volta ricorda i Subsonica più banali,
Risveglio ha i crismi del riempitivo abbastanza
interlocutorio.
Una tracklist con meno brani ma più a fuoco
avrebbe forse aiutato un album ambivalente,
capace di collezionare picchi notevoli quanto
cadute di tono sorprendenti, nonostante il coraggio e la voglia di indagare nuovi territori.
6.4/10
64
n o v e m b r e
personalità attualmente latita: vocalmente la
Nostra è simile a decine di sue colleghe e musicalmente siamo in pura ordinaria amministrazione, ben studiata ed ben eseguita, ma poco
genuina. Da tenere d'occhio comunque (insieme all'inglese TĀLĀ e al suo Alchemy EP)
, sperando non diventi una nuova Christina
Milian, Ashanti o aggiungete voi un qualsiasi
altro nome – fortunatamente – dimenticato.
(voti: 6.1 a Souled Out e 5.7 a Aquarius).
-1/10
Riccardo Zagaglia
John De Leo - Il grande Abarasse
(Carosello Records,2014)
Genere: pop, cantautori
Si è preso 7 anni John De Leo per dare un seguito a Vago svanendo del 2007, ma si potrebbe dire che nel frattempo non è invecchiato:
la voglia di inseguire un melting pot stilistico
obliquo e stralunato rimane la stessa, fedele
a una formula talmente strana che è difficile
diventi maniera, anche grazie alla scarsità delle
uscite e all'unicità della sua figura.
Perché il rischio ci sarebbe comunque: dietro
a un concept basato sui personaggi di un condominio – un po' la vecchia Raptus dei Quintorigo, un po' La vita: istruzioni per l'uso (il
romanzo di Georges Perec) – si seguono strade
note. Vedi il brano fatto tutto con una voce che
fa le veci dei vari strumenti e messa in loop
(Il gatto persiano-Theme), il pop orchestrale
circense anni '30 (Il valzer del misantropo, l'inquilino che guarda tutti con diffidenza), certi
anni '50/Tom Waits visti dalla sua vecchia band
(Apocalissi mantra blues e 50 euro), i riferimenti al razzismo, i giochi con la voce e altro,
già presenti in qualche modo nel suo passato.
L'ispirazione però è buona e le variazioni stilistiche vanno a descrivere con estrema cura
i vari caratteri dei personaggi di un condominio che potrebbe essere l'Italia stessa: l'uomo
r e c e n s i o n i
star di indubbia fama, ritornelli appicicosi e
capacità di traghettare la lezione PBr'n'b nel
trash-r'n'b. Un elemento in comune – l'acqua –
ma due approcci sostanzialmente diversi.
Souled Out è più ricercato, strutturato e contiene intuizioni strumentali più interessanti
rispetto a quelle di Aquarius. In Limbo Limbo
Limbo la chitarra elettrica spezza ulteriormente un ritmo già di suo frastagliato, W.A.Y.S.
vanta la produzione di Thundercat e Clams
Casino, Spotless Mind ci porta sulla spiaggia
in una sorta di Endless Summer in formato
pop-r'n'b, così come del resto fa Promises (con
Miyagi e Namiko). Tutto un lento ondeggiare
decisamente chill che nella giusta situazione
può diventare il perfetto background, e che
funziona – seppur con meno forza evocativa
– anche nei brani che seguono gli stilemi più
classici del genere (Lyin King), grazie anche al
lavoro di No I.D. Complessivamente le idee stilistiche sono degne di nota, ma lungo gli undici
episodi non sempre vengono concretizzate a
dovere rendendo comunque l'intero ascolto abbastanza fluido benché privo di grossi sussulti.
Aquarius è invece ancora appesantito dal
curriculum di Tinashe – esordì nella bubblegum/teen girl-band Stunners – che, se da un
lato vanta un buon intuito per la hit, dall'altro rischia di far franare la credibilità in zona
Rihanna. Il disco è decisamente frammentario
nel suo alternare plastica glitterata (Feels Like
Vegas, Wildfire), battiti sensuali più sinuosi
(Aquarius), ospiti mai invadenti (Devonte
Hynes, Schoolboy Q, Future e A$AP Rocky)
e una manciata di inutili – escluso Indigo Child
– interludi. Bet è indubbiamente uno degli
highlights (nonostante ci sia più DJ Dahi che
Blood Orange, nel suono), How Many Times ha
dalla sua il chorus – decisamente 90s – migliore del lotto, mentre 2 On pare uno di quei pezzi
da club r'n'b di perifieria riproposto in epoca
post-trap. I limiti sono fin troppo evidenti e la
Giulio Pasquali
Kele - Trick (Lilac Records,2014)
Genere: rock, indie
Avevamo lasciato Kele nel 2011 con quell'Hunter EP che affondava le mani nella polpa più
britannica dell'EDM, dopo aver un poco storto
il naso con The Boxer, debutto che tra una
"smanopolata" synth-elettro di XXXChange /
Alex Brady Epton e l'altra, non era sicuramente
r e c e n s i o n i
un album da buttare ma neanche uno di quei
lavori che il tempo risparmierà.
Nel frattempo, è successo l'imprevedibile: nel
pieno dell'epopea di Disclosure / Gorgon
City, ritroviamo la voce dei Bloc Party accasata su una delle più nobili etichette house degli
ultimi anni, la Crosstown Rebels. Label un
po' sottotono rispetto ai fasti di Deniz Kurtel
e Art Department di qualche anno fa, ma che
nulla toglie alla scelta di un producer in erba
che soltanto tre anni fa bazzicava bassi spugnosi e frontalità electro-dance con un piglio
tra il rock e lo spudoratamente radiofonico.
Dopo la scialba parentesi con i Bloc Party –
quel Four maltrattato un po' da tutta la critica
specializzata -, le produzioni Kele finora pubblicate – due EP, Heartbreaker EP ‎ e Candy
Flip E.P. – non sfigurano, mostrandoci anzi il
volto inedito di music marker declinato sia su
un'house dagli smalti synth e retrò tipica della
label, sia su aggiornamenti nella direzione di
Gesaffelstein-derivati (Candy Flip), tutto in
4/4 e al 100% dancefloor.
Niente male ok, ma neanche nulla di così diverso da tante altre pur buone produzioni di
genere. La storia si ripete per Trick, di fatto
successore sulla lunga distanza del citato Boxer del 2010, album dal quale sembrano passati
millenni, ma sono pur sempre quei 4 anni in
cui l'EDM è capitolata e ad essa è subentrata un'ondata di (pop)house e un'altrettanto
resistente cavallone di variegato r'n'b – da
SBTRKT e Sampha in UK alle varie emule di
Janet Jackson in USA – che sta continuando a
tenere alta su di sé l'attenzione mediatica.
Niente di strano, Kele è uno che si è sempre
tuffato nelle mode e ci è sempre piaciuto come
voce e interprete, meno come autore, peggio
coi ritornelli, ma tant'è. Nelle vesti di producer,
anche questa volta accompagnato dal sodale
Epton, sembra aver trovato la via giusta presentandoci il suo lavoro più compatto, vario e
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n o v e m b r e
invasato che diffida di tutto è raccontato con
un pezzo che i Litfiba canterebbero serii (50
euro), il minimalismo sommesso che diventa pretesco in Apocalissi… prima di decollare
verso un jazz suonato alla maniera del vecchio
gruppo di De Leo, o che piega verso una citazione del Bowie di Sweet Thing in Di noi uno,
Uri Caine in persona ad accompagnare l'eterea
The Other Side of a Shadow, i ricordi Hendrix
di Muto (come un pesce rosso) o l'esistenzialismo su un hard rock da camera che in Io
non ha senso richiama il Gaber più astratto di
metà '70. Una dilatazione in mille direzioni di
una forma canzone che De Leo non dimentica
mai, studiandola e sezionandola prima di farla
muovere dal suo passato musicale a possibilità
future che "la musica dei supermercati", suo
riferimento polemico nelle interviste, contempla sempre meno.
Poi, una volta che l'esplosione unisce tutti i
destini, ecco un altro elemento che ritorna potenziato: l'uso della ghost track, che qui viene
esteso fino ad ospitare un intero ghost album,
colonna sonora onirica ma concreta (nel senso di musica) di un film mai girato, realizzata
insieme all'Orchestra Filarmonica di Bologna
(che suona anche nel resto del disco), ad arricchire il quadro dell'ampio universo musicale
di un autore che, se pure continua a somigliare
a se stesso, è anche vero che somiglia a pochi
altri.
7.2/10
Genere: avant
Vista da qui, ottobre 2014, la parabola artistica di Liz Harris assomiglia
sempre di più ad uno dei suoi diagrammi psichedelici. Un pattern che
si ripete all'infinito, identico a se stesso, ma sempre un po' diverso perché modificato dall'atto stesso di ripetersi. L'intero corpus musicale di
Grouper pertanto sembra un concept unico, monocromatico, pieno di
una densità concettuale sempre più determinata. Ruins non sfugge alle
regole severe ed austere del ricordo. Grouper è ormai il suono stesso
della malinconia. Il suono di un ricordo che si consuma nel tempo e si fissa in una foto in bianco
e nero, sacrificandosi con i propri resti all'eternità. A dispetto di qualche facile commento della
prima ora, l'attingere costantemente ad un catalogo personale di demo e registrazioni sparse, non
è sinonimo di nulla se non di una confidenza molto personale con la propria musica, secondo una
prassi del tutto simile a quella di William Basinski con i propri nastri.
Ruins pertanto fotografa un momento molto particolare, vissuto ad Aljezur, Portogallo, nel 2011,
nei pressi della Galeria Zé dos Bois. Registrato in presa diretta, su un quattro tracce, la voce di
Liz, un piano e i rumori dell'ambiente. Esteticamente uno dei suoi lavori più lo-fi, ma dal lirismo
romantico molto prossimo ad alcune pagine del minimalismo accademico più sentito. Come altre
volte in passato, la presentazione del disco, vergata direttamente dalla mano di Liz, chiarisce con
sorprendente lucidità, la natura dell'album: "Questo disco è un documento. Un cenno a quelle
passeggiate giornaliere. Strutture fatiscenti. Vivendo con i resti dell'amore. Quando non stavo
registrando le canzoni, ero impegnata a percorrere diverse miglia fino alla spiaggia. Il percorso si
estendeva attraverso i resti di diverse antiche proprietà di un piccolo villaggio".
I resti di un amore perduto connessi alla fatiscenza delle costruzioni circostanti. Il legame tra devastazione dei sentimenti e distruzione della geografia urbana non è nuovo, ma lo sguardo di Liz
regala una profondità dai riflessi inediti. L'effetto finale è ancora una volta mediato e processato,
come fosse fatto di una impalpabile materia onirica. Come un flashback che mima il passato sfiorandone appena l'essenza. A questo punto, si capisce pure che discernere su una traccia piuttosto
che un'altra, con un lavoro così denso e lineare, lascia il tempo che trova. Da Clearing a Holding,
la musica scorre come un unico flusso di ricordi e con un'incredibile unità formale di insieme, al
punto che sembra quasi trattarsi di un'unica traccia suddivisa in più movimenti. Fanno eccezione
l'iniziale Made Of Metal, che altro non è se non una introduzione, e la finale Made Of Air, che non
a caso non appartiene a queste sessions, risalendo addirittura al 2004, in una registrazione fatta
presso la casa di sua madre (la ragazza immortalata sulla copertina di The Man Who Died In His
Boat) e che riporta la musica di Grouper al liquido amniotico primordiale dell'infanzia, ergo 11
minuti di viaggio dronedelico verso l'origine stessa della malinconia.
Sebbene, Ruins si inserisca alla perfezione nel catalogo dell'artista di Portland, merita di essere
considerato come un tassello a parte nel vasto mosaico della sua produzione, nonché uno dei suoi
lavori più belli e personali. E' un po' il suo White Chalk, anzi, fatte le dovute eccezioni musicali,
con un lavoro del genere Liz si pone più dalle parti della Joni Mitchell di Blue. Benché il disco si
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r e c e n s i o n i
n o v e m b r e
Grouper - Ruins (Kranky,2014)
muova liquido e seducente, sotto una spessa coltre di polveroso fascino da serie B, è una collezione di canzoni dal profilo maggiore, che di contro si travestono con quattro stracci. Nondimeno il
loro destino è quello di mietere numerose vittime tra gli animi più noir di questo gelido Halloween
2014.
8/10
scafato da un bel po' di tempo a questa parte.
Da una parte, abbiamo l'r'n'b/soul/uk house,
dall'altra cose sul filo tra banalità ed efficacia
pop (Coasting), in mezzo qualcosa à la Moderat
meets groove Disclosure (il mezzo plagio di
Like We Used To) o indie-dalle-parti-dei-BlocParty-poi-svoltato-radiofonia-uk (Closer). Non
mancano gli hook (Humour Me) e nemmeno i
pezzi con tutto – troppo – al posto giusto (Stay
The Night). Cambiano gli abiti e la storia un po'
si ripete, con la differenza che Okereke inizia a
convincere di più. A parte le tracce ben confezionate, c'è una luce interessante nel disco, e
questo va sottolineato.
6.8/10
Edoardo Bridda
Kevin Morby - Still Life
(Woodsist,2014)
Genere: rock, indie, folk
Undici mesi, tanto abbiamo dovuto aspettare
per avere tra le mani il successore di Harlem
River, piccola gemma d'esordio del chitarrista
del Texas Kevin Morby, meglio conosciuto
fino ad allora per aver dato vita insieme alla Vivian Girl Cassie Ramone ai Babies e per aver
vestito, a partire dal 2009, i panni di bassista
nei ben più noti Woods. Le undici tracce che
formavano il debutto di Morby rappresentavano a tutti gli effetti una lettera romantica per
la città che lo aveva adottato: quella New York
dalla quale, a un mese preciso dall'uscita di
Harlem River, la leggenda Lou Reed si congedava. Non facile quindi per Still Life dover far
fronte a un predecessore praticamente perfetto
nella sostanza e che, come se non bastasse, si
avvolgeva in quella nostalgia che si respirava
per i sobborghi della Grande Mela. E invece il
disco riesce ad andare oltre, confermando il
talento cristallino del riccioluto chitarrista e
sottolineando che Harlem River di fatto rappresentava solo un punto di partenza.
Annunciate dall'apripista The Jester, the
Tramp and the Acrobat, brano che si prende
l'onere di tirare le somme del precedente lavoro, le rotonde The Ballad of Arlo Jones (dylaniana non solo nel titolo) e Motors Running
(dalle chitarre e dagli organi tintinnanti) gettano le basi per quello che a un primo impatto
sembra essere il tentativo di spingere il suono
morbido e dilatato di Harlem River in un
vortice di chitarre dal passo molto più andante
e sostenuto. E invece di lì a poco l'atmosfera si
farà prima offuscata (Drowning), spettrale (gli
arpeggi di Bloodsucker accompagnano l'ascoltatore alle porte degli inferi) e psicotica (la
stordita Dancer è il risultato dei mesi trascorsi
da Morby sulla costa ovest del paese) per poi
ri-stabilizzarsi in quel mare di suoni vellutati in
cui si tuffano la magnifica Parade (ballata alla
Bill Fay in cui Morby, nelle parti di sax, rende
omaggio a Lou Reed), le confortevoli ballate
All of My Life e Our Moon (la prima risente
molto da vicino dell'influenza di Kurt Vile) e
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Antonello Comunale
Genere: industrial, ambient
Il leggendario progetto martial industrial svedese di Jouni Havukainen,
In Slaughter Natives, è tornato dopo ben dieci anni di assenza. Cannula
Coma Legio, uscito per la canadese Cyclic Law il 21 giugno 2014 (data
del solstizio d'estate, non un giorno scelto a caso), è un disco di brani
inediti e rielaborazioni di precedenti materiali tratti anche da performance dal vivo; ad esempio, le musiche utilizzate nelle esibizioni della bodyperformer Chérie Roi.
ISN è stato uno dei primi e più famosi progetti post-industrial tenuti a battesimo dalla storica
label svedese Cold Meat Industry. L'influenza del progetto, per tutta la scena estrema degli anni
Novanta e Duemila, è indiscutibile. Dalla fine degli anni Ottanta Havukainen mette in scena
un perverso e affascinante connubio di percussioni marziali, litanie religiose, campionamenti
orchestrali e demoniache voci provenienti dall'oltretomba. Violenti tamburi tonanti in puro
stile ISN non mancano di certo anche in quest'uscita: il lento incedere di Plague Walk My Earth
anticipa una scarica di roboanti colpi che annichiliscono gli ascoltatori che varcano la soglia di
questo nuovo lavoro, mentre la successiva Definition Of Being Alive (il brano presente anche
nell'ottimo teaser video dell'album) continua sulla strada intrapresa con un violento tritacarne
rituale di percussioni marziali, urla senza speranze e distorsioni elettroniche come solo ISN sa
fare.
Sono presenti nel lavoro anche lunghi brani come Silent Cold Body e Venereal Comatose/Closed
My Eyes, dove il Nostro può dar sfogo al suo repertorio di efferati effetti sonori. Particolarmente terrificante, inserito nel contesto, è il suono di un vecchio carillon campionato in Silent Cold
Body (brano composto per una performance di Chérie Roi) tra l'eco di voci spettrali da luna park
dell'orrore.
Cannula Coma Legio è un lavoro apocalittico, violento e claustrofobico, che riesce a rendere bene
lo spirito dissacrante e rituale delle performance dal vivo di ISN, uno dei live-act ancora oggi più
coinvolgenti ed estremi del panorama post-industriale. Non si tratta di semplice musica d'intrattenimento, ma di perverse colonne sonore per la discesa negli inferi, tra clangori metallici di catene,
cori rituali e sinfonico martial industrial, come avviene ad esempio in Gaudium Et Alia Vitia. Non
per nulla in Left Arm Right Arm As My Path, evocativo brano dark ambient, Havukainen esclama
"I am my god" come se non ci fosse un domani per niente e per nessuno, mettendo bene in chiaro
la profonda visione "nicciana" dell'artista, che qui sembra indossare i panni di un novello Zarathustra.
Non mancano episodi che gettando nuova luce (se così si può dire) su precedenti lavori di ISN,
facendo riaffiorare sonorità che i seguaci del progetto non mancheranno di riconoscere. Venereal
Comatose/Closed My Eyes, ad esempio, è la lunga rielaborazione di un brano già apparso nella
compilation Songs For A Child – A Tribute To Pier Paolo Pasolini. Il disco si apriva con Ostia
(The Death Of Pasolini) dei Coil e il brano degli ISN, oltre ad essere un tributo a Pasolini, era (ed
è anche nella nuova versione) una sorta di omaggio ai Coil. Ignis Et Scalpello: Angel Meat, invece,
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In Slaughter Natives - Cannula Coma Legio (Cyclic Law,2014)
è un rimaneggiamento di un classico brano di ISN del 1992 (Angel Meat) apparso in origine su
Enter Now The World.
In attesa, speriamo breve, di un nuovo full-length, consigliamo caldamente l'ascolto ai devoti di
lungo corso e ai neofiti del culto di ISN.
7.5/10
la dylaniana – periodo Blood on the Tracks –
Amen.
Still Life suggella quello che per il sottoscritto era stato il disco in assoluto più bello dello
scorso 2013. E lo fa restando ben ancorato alla
tradizione musicale a stelle e strisce, ma allo
stesso tempo rivisitandola in chiave moderna.
Non è un caso se il nome di Kevin Morby molto
spesso finisce per essere accostato a quello di
un certo Dylan.
7.7/10
Marco Frattaruolo
L'officina della camomilla Senontipiacefalostesso Due (Garrincha
Dischi,2014)
Genere: pop, rock, indie
Dall'ortodossia numerica stringente di un
Senontipiacefalostesso Due non ci aspettavamo certo rivoluzioni copernicane, considerato
anche che il titolo del disco d'esordio de L'officina della camomilla (uscito ormai più di un
anno fa) era, appunto, Senontipiacefalostesso
Uno. Previsioni ampiamente rispettate da un
album che non cambia di una virgola la rotta
del suono, riproponendo la stessa mescolanza appiccicosa di pop da cameretta e rock à la
Libertines/Strokes, il solito carico di cut up
(a nostro avviso) confusionario in testi quantomeno discutibili, la solita leggerezza "stoned"
destinata a un pubblico di aspiranti maggiorenni senza troppe pretese. Nulla di male, sia
ben chiaro: i Nostri recitano il ruolo che compete loro anche in virtù di una età media che li
premia (contro quell'Italia "proverbialmente
gerontocratica" che non li capisce e a cui il
sottoscritto, 38 anni suonati, è evidentemente
destinato ad aspirare), offrendo nel contempo
ai fan, oltre a una musica tascabile e sbarazzina, un modo per identificarsi in una versione
disimpegnata e aggiornata all'indie di casa nostra del celeberrimo motto punk "tutti possono
farlo" (o, se preferite, del più prosaico "facciamo casino").
C'è da dire che almeno, in questa seconda
puntata, mancano banalità sconcertanti come
Ho fatto esplodere il mio condominio di merda
o La tua ragazza non ascolta i beat happening
(in scaletta invece in Senontipiacefalostesso
Uno), a favore di un impianto musicale che
cerca comunque una struttura più articolata e
un arricchimento, in termini di arrangiamento
(ci vengono in mente, ad esempio, gli scambi di
Bucascuola). Anche se pare che il fine ultimo
del disco rimanga comunque quel divertimento
leggero, pop, senza troppi patemi artistici, a cui
già aspirava il primo episodio e che, al momento, tanto raccoglie in termini di follower. Non
è un delitto (soprattutto se, come sembra in
questo caso, non ci si prende troppo sul serio),
ma per noi la musica è altro.
5/10
Fabrizio Zampighi
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Marco De Baptistis
Genere: cantautori, alt, folk
Registrato in una masseria di Sant'Agata dei
Goti (terra di confine tra le province di Benevento, Caserta e Avellino), Catacatassc' segna
il debutto ufficiale dei partenopei La Bestia
Carenne. Il titolo dell'album è un omaggio
alle lucciole notturne, quelle intermittenze
che, spiega la band nelle note stampa, "hanno
accompagnato con inconsapevole e naturale
continuità la registrazione di questo lavoro".
I riferimenti musicali sono quelli risaputi e
ricalcati più volte, fino alla noia o al cedimento
delle cartilagini, da qualsiasi band italica che
si avvicina al genere folk: da Bandabardò a
Folkabbestia e Modena City Ramblers. Fin
qui nulla di nuovo: Catacassc' è un lavoro che
rientra perfettamente nel solco della miriade di
band che in tempi recenti hanno provato a giocare e far baldoria con strumenti acustici (vedi
i calabresi Nuju).
Con molto gusto e un pizzico di coraggio in
più i Nostri provano però a spingersi oltre,
curiosando tra quella canzone d'autore italiana
a tinte world che ha lasciato anche momenti
memorabili. E' così che canzoni come Le cose
che desideri, Transkei o Jeanne rimandano
al Capossela di Camera a sud piuttosto che
al primo Fossati. E' in questi momenti che
Catacassc' acquista una valenza maggiore,
sdoganandosi dalle reticenze di genere e guadagnandone in poeticità e potere espressivo. E'
nell'unione sincopata e aggraziata di ballate e
brani sussurrati al lume di candela che i La Bestia Carenne riescono a salire di livello, strutturando canzoni in perfetto equilibrio tra – tanto
per rimanere a Napoli – lo spleen cantautoriale
alla Francesco Di Bella e l'allegria dei Foja.
Un lavoro che nel complesso non brilla per
originalità ma che con leggerezza e gusto getta
solide basi per una formazione che potrebbe
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aggiungere contenuti e idee nuove ad un genere fin troppo saturo nel nostro Paese, e che
fatica da tempo a trovare contenuti rilevanti.
6.7/10
Gianluca Lambiase
Lamb - Backspace Unwind (Strata
Music,2014)
Genere: elettronica
La musica dei Lamb è sempre stata un gioco
di equilibri, di baricentri precari, tra registri
stilistici e influenze lontane. Un gioco che ha
conosciuto alti e bassi in momenti storici più
accessibili (l'ascesa del trip hop) o più infelici
(l'overdose dubstep fine anni 2000). Il duo di
Manchester torna con il secondo disco postreunion, dopo quel 5 che aveva rilanciato la
musica di Andy e Lou con un piglio diverso,
quasi prossimo al classico, e la solita consolidata mescolanza di folk ed elettronica.
Ritorni che accogliamo sempre con grande
piacere e persino un po' di affetto verso una
formazione che nella seconda metà degli anni
'90 ci ha spiegato un bel po' di cose. Tipo come
riuscire a sperimentare, a giocare con i suoni
senza raffreddare la propria musica. Certo, non
va dimenticato che nel mentre di avvenimenti ne sono successi tanti: la nu gaze, gli XX, il
ritorno di Aphex Twin. Tutte storie che hanno
tanti punti di contatto con il percorso artistico
della band dell' "agnello".
In quest'ottica Backspace Unwind è un album
fortemente anacronistico, e questo non è per
forza un male, anzi. Ha poco o nulla a che fare
con certe derivazioni shoegaze contemporanee
di cui sopra, preferendo provare a fermare il
tempo e a ricamarsi una dimensione propria
che rappresenti una salda àncora di approdo. E
i due ci riescono, ancora una volta, condensando alterità e calore, rumore e passione, i suoni
mixati di Andy e la voce fascinosa di Lou.
Cos'è d'altronde We Fall in Love se non un
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La Bestia Carenne - Catacatassc'
(Bulbartworks,2014)
omaggio all'unione, mentre As Satelittes Go By
porta i Nostri su vette orchestrali in un incedere evocativo sempre più aggressivo, epico.
Che What Makes Us Human è il trucco che sta
alla base della musica dei Lamb e Doves and
Ravens la conferma di come i due sappiano fare
belle canzoni. Senza navigatori o segnali stradali, l'alchimia riparte da capo e il gioco riesce,
di nuovo.
6.8/10
Gianluca Lambiase
Genere: colonnasonora, experimental, electronica
Nome nuovo, trascorsi importanti e una label
che è sempre più sinonimo di qualità. In soldoni è questo l'esordio dei misconosciuti Last Ex,
nome che ai più dirà poco ma che attirerà le
attenzioni di molti appena scoperto che dietro
la sigla si nascondono due Timber Timbre,
Simon Trottier e Olivier Fairfield, rispettivamente a chitarre (elettriche, acustiche, baritone), bassi, synth, lapsteel, batteria, tastiere,
campionatore, synth, ecc. La storia vuole che
questo album sia una sorta di rivisitazione del
lavoro commissionato – come colonna sonora
ambient per un film horror – proprio alla band
madre e mai andato in porto ("The Last Exorcism II", per la cronaca). I due hanno ripreso
quel materiale e lo hanno rielaborato e ripensato sulla base della propria predilezione per le
sperimentazioni in studio, per il sound-collage
e la "tape-based music concrète" oltre che per
le colonne sonore per film immaginari.
Ecco dunque questo omonimo debutto, strumentale e vario, atmosferico ed evocativo, proprio come si richiede ad un lavoro che vagheggia immagini inesistenti, tentando di creare un
supporto visivo/visionario credibile. Post-rock
jazzato alla Tortoise degli inizi, krauterie cinematiche, slanci da horror-soundtrack (Cape
Stefano Pifferi
Groove Armada - Late Night Tales
Presents Automatic Soul (Late Night
Tales,2014)
Genere: pop, 80s, soul, disco
La trentottesima uscita Late Night Tales (contando anche i primi sette episodi denominati
Another Late Night) vede in cabina di regia un
habitué della pregevole serie di compilation:
insieme al compagno Andy Cato, Tom Findlay
aveva già firmato come Groove Armada due
pubblicazioni (nel 2002 e nel 2008 – il duo ha
anche all'attivo un Back To Mine del 2000), e
nel 2012 aveva curato da solo Music For Pleasure, di cui questo Automatic Soul rappresenta la prosecuzione ideale. E se due anni fa,
svolgendo il tema del blue-eyed soul degli anni
Settanta, Findlay aveva giocato di furbizia, peccando di piacioneria (è facile essere irresistibili
con giganti dello yacht rock come Toto, Hall
and Oates, Gerry Rafferty, E.L.O., chiudendo
con l'immortale "cariadenti" I'm Not In Love
dei 10cc), alle prese qui con il concept dell'electro soul di metà anni Ottanta si dimostra
meno ruffiano e più appassionato collector.
Certo, si parte con una canzone che nell'estate
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Last Ex - Last Ex (Constellation
Records,2014)
Fear), aperture trip-hop alla Bristol che fu (It's
Not Chris paga più di un pegno ai Portishead)
e passaggi ambient-dub (Cité D'Or) formano
lo scheletro di un lavoro godibilissimo, nella
sua eterogeneità compositiva. Eterogeneità che
non va, però, mai a ledere l'uniformità di fondo,
ma anzi fornisce screziature e sfumature apprezzabili nel loro essere divaganti e storte. Tra
i tanti, poi, citiamo almeno un pezzo, l'opener
Hotel Blues, che come un mutaforma fringiano
cambia continuamente pelle su minime variazioni, divenendo sunto e summa del pensiero
e del procedere dei due. Nulla di nuovo, ma
esemplare nel suo contesto.
7/10
Genere: synthpop, elettronica
Chi se ne doveva accorgere se ne è già accorto. Senza troppi clamori ma
anche senza passare sottotraccia, producer come Dev Hynes, ovvero
Blood Orange, Kindness, Bok Bok, Arca, Jessy Lanza, Cooly G e ricettive voci come Kelela, Fka Twigs, Solange Knowles (famosa sorella di… e
prodotta, tra gli altri, proprio dai primi due ragazzi) stanno riscrivendo
l'artigianato pop per gli anni '10. Ed è un pop senza facili prefissi tipo art
o hip, piuttosto è materia viva che crea nuovi interessanti cortocircuiti tra bianchi e neri, tra mainstream e undeground, tra mascolinità e femminilità. Il perno sono
ancora una volta certi anni Ottanta, Prince per capirci, fondamentale sia per il funk che per la
ballad, le drum machine analogiche, i campionatori. E se c'è un'incastro, qui ci piace immaginarlo
in un triangolo di Janet Jackson, Lisa Stanfield e Neneh Cherry che incontrano il relax di certi
Novanta come il verace funky dei Settanta. La girandola dei decenni, del resto, è un portato del
solito post-moderno, pratica che nel decennio edonista s'insidia per sempre nella cultura popolare, un punto di (ri)partenza che per questi venti-trentenni significa creare musica limipida (anche
liquida), senza filtri, il più possibile classica e sincera, dove per classico e sincero non ci si può che
riferire a una personale e ultra-dettagliata epifania che non si ferma ai suoni, ma prosegue lungo
immagini, ballo e vestiario. Poco importa se questa si colloca nella forbice della Blank Generation
di Bob Blank o tra il '91 e il '93.
Adam Bainbridge, all'interno di questo scacchiere, rappresenta, ora con il sophomore Otherness,
la miglior risposta a quel Cupid Deluxe che buona fortuna ha portato a Dev Haynes. Non è un
caso se le carriere di questi due producer/musicisti, amici di lunga data, sono andate di pari passo
fino ad oggi. Naturale che nel videoclip di Chamakay del 2013 sia presente Bainbridge alla regia,
come è altrettanto scontata la presenza di Hynes in questo disco con il cameo nel brano Why
Don't You Love Me assieme a Tawiah.
Otherness è un album dove la miscela di funk, r'n'b, jazz e house dell'esordio – World, You Need
a Change of Mind, registrato a Parigi e prodotto dal Cassius Philippe Zdar – trova nuovi e più
maturi equilibri sia a livello produttivo, che di scrittura. Quel debutto, per ammissione dello stesso
Bainbrigde, era un affare da nerd che prendeva ispirazione tanto da Arthur Russell quanto dal duo
produttivo Jam and Lewis; ora proprio quest'ultimi, vere e proprie leggende nel loro ambiente,
sono persone in carne e ossa con le quali il ragazzo, metà indiano e metà inglese, ha collaborato
realmente. Di fatto, per Blood Orange e Kindness le esperienze nel mondo dell'artigianato pop
si sono moltiplicate su tutti i fronti conferendo nuovi stimoli e padronanza nella produzione. E i
risultati si vedono tutti.
Otherness è stato registrato per la maggior parte agli XXVII Studio di Blue May, professionista
che, oltre ad aver curato il mixing assieme ad Adam, ha contribuito anche come ingegnere del
suono e musicista coinvolto nella realizzazione del disco. Presente, inoltre, anche un pezzo grosso
come Jimmy "The Senator" Douglass, produttore che in agenda conta collaborazioni con Rolling Stones, Timbaland e Timberlake, mentre il mastering è stato affidato a John Dent, altro per-
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n o v e m b r e
Kindness - Otherness (Female Energy,2014)
Edoardo Bridda
del 1983 è stata per otto settimane al numero
1 nella Hot Black Singles chart di Billboard e
successivamente saccheggiata da Notorious
B.I.G., Warren G, Coolio, Common e altri
(Juicy Fruit di Mtume), e molti sono i momenti di archeologia alla ricerca del sample perduto
(per esempio Rumors dei Timex Social Club)
o dell'originale "coverizzata" (vedi Touch Me
di Fonda Rae, portata poi al successo da Cathy
Dennis), ma nel complesso lo spirito è solare e
sorridente al punto giusto.
Il mix si concentra sul periodo 1981-1986,
inanellando venti esempi di quella mistura di
post-disco, funk, hip hop ed electro-pop poi
definita "new jack swing": drum machines,
bassi synth, tastiere e fiati di plastica, chitarrine princiane e bellissime voci soul, a volte
spruzzate di vocoder. Esempi mirabili: Se-
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n o v e m b r e
sonaggio con oltre trent'anni di carriera. Di fatto, grossa parte della coesione e forza del disco (che
coinvolge alcuni ospiti al canto e numerosi strumenti e macchinari) si basa su un raffinato lavoro
di produzione e collaborazioni, un discorso corale quindi, lasciato macerare con la dovuta calma
per dare risalto alla polpa pop.
Ecco perché l'aspetto che buca di più non sono gli arrangiamenti (come nel caso del Flying Lotus
di You're Dead) ma i feat. vocali, che sono tutti ottimi, specialmente quelli di Kelela, qui in una
veste arrangiativa radicalmente diversa da come l'avevamo lasciata in Cut For Me o nelle produzioni di Bok Bok (altro amico di lunga data di Bainbridge). La voce per eccellenza della Fade To
Mind è presente nella tracklist in ben tre brani: il singolo opener disco-funk World Restart, la
ballad soul With You, il gospel Geneva (quest'ultima dal nome della città dove Adam attualmente
vive con la fidanzata, l'artista Pauline Beaudemont). La protagonista più famosa del lotto, tuttavia,
è sicuramente la Robyn che firma Who Do You Love, un pezzo in zona Kate Bush/Janet Jackson
che trasforma una storia autobiografica vissuta dai due (e il fidanzato di lei, Max Vitali) durante
una nottata in Norvegia in una riuscita pop song, sicuramente il singolo da dare in pasto al grande
pubblico, oltre che un altro ottimo episodio dove la grammatica più standard del pop confidenziale trova le sue quadre tra funky drum machine e l'organo hammond suonato da Bainbridge.
Non ultimi, i tocchi produttivi: l'imperfetta centratura di Restart tra fiati Stax, i campanacci a ricordare una Unfinished Sympathy rallentata e il sax à la How G; For The Young, dove troviamo un
riconoscibile campione di Herbie Hancock e Foday Musa Suso, la cui kora è udibile nel main riff
del brano; With You, dove a un certo punto sbuca dal nulla il motivo portante della Moments in
Love degli Art Of Noise creando un curioso cortocircuito spazio temporale; la citata Who Do You
Love?, con quel frammento di Shy Girl di LaChandra prodotta da LaBlanc.
L'ultimissimo aspetto della bontà di questo disco – che per chi scrive è quest'anno il complemento
"classico" all'hyper soul di Our Love di Caribou – è legato al significato più intimo di Otherness
come di Kindness, altro portato che accomuna Adam e Dev, due musicisti che hanno incarnato il
concetto di diversità come base per costruire e sviluppare arte e personalità e non come semplice
moda o estetica fine a se stessa.
7.5/10
n o v e m b r e
entrambi gli eserciti adoperano la strategia, è
inevitabile che si produca una doppia campagna di intelligence mirata a sviare l'avversario,
fatta di comunicazioni volutamente fallaci che
rendano i calcoli sbagliati.
Wilderness of Mirrors è quel gioco di specchi che rende imprendibile la verità, l'essenza
vera. Lawrence English lo sceglie come titolo
del lavoro che forse più di ogni altro opera sul
pieno, anziché sul vuoto, sulla sovrapposizione
cinematica dei layer dei droni. Il regime dello
specchio, in teoria della strategia, porta però
sempre a dire che la "coperta è troppo corta".
Se copro una parte di me, ne scopro un'altra, e
così via. In questo modo sembrano procedere
le tracce di Wilderness of Mirrors, nascondendo con l'accumulazione, lasciando però
che un elemento compositivo, una faccia del
poliedro emerga e conduca il percorso di verità
dell'ascoltatore, che cerca di perforare la psicologia del compositore.
Non potrebbe reggersi questo gioco se non su
un tappeto accessibile, e Wilderness of Mirrors non è mai ostico, è sempre emotivamente
prendibile, specie quando il drone diventa
canto celeste e ambientale (Another Body) o
classicissimo viaggio cosmico (Forgiving Noir).
Non crea shock, Wilderness of Mirrors (o
ingloba le tattiche nella strategia, come in Hapless Gatherer), eppure – o forse grazie a questo – tiene l'attenzione dell'ascoltatore, trascinandolo nella trappola della propria strategia.
7/10
Alessandro Pogliani
Gaspare Caliri
Lawrence English - Wilderness of
Mirrors (Room40,2014)
Line and Circle - Line and Circle EP
(Autoprodotto,2014)
Genere: elettroacustica
La principale differenza tra tattica e strategia
è che la seconda prevede un'operazione di
calcolo, di previsione delle mosse dell'avversario, mentre la prima è azione pura. Quando
Genere: pop, indie
Quando si dice R.E.M. è facile essere colti da
una ventata di nostalgia mista a rispetto. Il
rispetto per una band che ha mantenuto un'eroica dignità fino all'ultimo saluto, riuscendo
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r e c e n s i o n i
rious di Donna Allen, in territorio Apollonia
/ Wendy and Lisa, e Heartbreaker degli Zapp,
anello di congiunzione della (d)evoluzione dal
P-Funk di George Clinton al G-Funk di Tupac, passando per il genietto di Minneapolis. E
dalla città del Minnesota proviene anche il duo
Jimmy Jam e Terry Lewis (prima nei The
Time dell'entourage di Rogers Nelsons, poi
superproduttori mainstream da 26 nomination
e 5 vittorie ai Grammy), qui responsabili dei tre
degli highlights della compilation: You Used To
Hold Me So Tight della disco queen Thelma
Houston (1984), What's Missing di Alexander O'Neal (1985), che suona come un outtake
di Cupid and Psyche degli Scritti Politti,
e Change of Heart dei Change (era il 1984,
Mauro Malavasi aveva già lasciato il progetto,
ma Jacques Fred Petrus era ancora in sella,
ed è lui che chiama Jam and Lewis a lavorare
al progetto: Italo Disco rules!), che trova una
splendida quadra tra Prince e Chic. Da segnalare ancora Fool's Paradise di Meli'sa Morgan, l'"emotio-electro" You Are In My System
(poi ripresa da Robert Palmer) e Don't Stop
the Music dei Bits N Pieces, ovvero Sly and
Robbie, esempio di confluenza tra funk, reggae e hip-hop datato 1981. Per la cover inedita
marchio di fabbrica Late Night Tales, Findlay
(nella forma Sugardaddy in duo con Tim
Hutton, featuring Ronika) sceglie Don't Look
Any Further, altro brano campionato spesso e
volentieri nella storia dell'hip hop.
7/10
r e c e n s i o n i
Sebbene sia difficile scorgere nel leader Brian
J. Cohen il carisma trasversale di uno Stipe, le
armonie sono già quelle giuste: un contagioso
contorno costruito da bassline dritte e quel
chitarrino jangly che non stanca mai. Come per
i Beach Slang (sul secondo EP in modo un po'
meno evidente) con i Replacements/Goo Goo
Dolls, anche qui ci troviamo davanti, in primis,
a belle canzoni compatte e vincenti, non esclusivamente ad un revivalismo mirato. Vista poi
la facilità con cui i Line and Circle sembrano
saper condensare in quattro minuti tutto un
universo di cui – obiettivamente – stavamo iniziando a sentire la mancanza, c'è da aspettarsi
un album d'esordio di un certo livello.
7/10
Riccardo Zagaglia
Lower Plenty - Life / Thrills (Mexican
Summer,2014)
Genere: alt, lo-fi, avant, folk
Si chiamano come un quartiere di Melbourne
e vanno considerati come una specie di supergruppo, pescando i componenti da realtà già
apprezzate nell'ambito della scena alternativa
cittadina. I Lower Plenty sono in quattro, l'aria
inafferrabile e un po' sciupata che rimanda a
slacker e post-rocker dei tardi 90s, percussioni,
chitarre e voci ad abbozzare folk destrutturati
e suggestivi. Tra le dieci tracce di questa opera
terza – l'esordio Mean (uscito solo su audiocassetta) è del 2010, seguito due anni più tardi
da Hard Rubbish – si avverte spesso un'aria da coordinate smarrite ed il conseguente,
languido e tenace affidarsi all'impronta delle
tradizioni. Come se questi ragazzi preferissero
rinculare nelle calligrafie che non sono mai state realmente la loro moneta corrente ma nelle
quali pure riconoscono possibilità espressive
forti, cariche di potenziale.
I folk resinosi e scomposti, i dispositivi ritmici
frugali, sparsi e farneticanti, il retrogusto jazzy
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n o v e m b r e
forse più di tutte a primeggiare per quasi tre
decenni senza evidenti passi falsi – o quasi,
vedi Around The Sun – e mantenendo sotto
la soglia dell'accettabile il classico – lungo –
declino che colpisce un po' tutti i grandi (vero
U2?).
Nonostante questo, in pochi hanno tentato di
seguire le orme della band di Michael Stipe
riproducendo più o meno fedelmente certi
stilemi che la formazione di Athens ha portato
avanti lungo gli anni di attività, e per di più si
parla comunque di casi isolati – leggasi singoli
brani – all'interno di carriere che guardavano,
di base, altrove: pensiamo alla famosa Selling
The Drama dei Live, Saturday Nightmares dei
Logh, People Help The People dei Cherry
Ghost o qualcosa degli ultimi Decemberists.
I Line and Circle (ed in parte i connazionali
Cassettes on Tape), invece, partono realmente
con un sound che ruota in tutto e per tutto attorno a quello dei R.E.M, in particolare quello
dei primi dischi della band di Automatic for
The People.
La formazione californiana – con origini del
midwest – aveva già dato prova del proprio intento un paio di stagioni fa con l'ottima Roman
Ruins – forse ad oggi il loro apice – e ad inizio
anno con la più angolare Mine Is Mine, ma
solo oggi – finalmente – esce con un prodotto
composto da più di due tracce (ben tre, per
l'esattezza), ovvero l'omonimo EP d'esordio.
Tre inediti: Wounded Desire, assolutamente
in linea con le produzioni precedenti e con i
R.E.M anni '80, ha fascino, melodia e il giusto
retrogusto malinconico per diventare un piccolo oggetto di culto; Mesolithic con il suo ritornello più corale – e leggermente più prevedibile – scorre via lungo le strade americane con un
gran bel tiro e arricchimenti vocali alla Mike
Mills sul finale; la conclusiva e meno immediata Beauty Is Exhausting – titolo vagamente
Morrisseyiano – cresce ascolto dopo ascolto.
Genere: jazz, freejazz, experimental
Nel vorticoso maelstrom di ristampe e pubblicazioni di materiale inedito
per commemorare il centesimo anniversario della nascita di Sun Ra (la
Enterplanetary Koncepts ha ristampato in digitale per iTunes ben ventuno album della sua discografia), In the Orbit Of Ra occupa un posto
particolare, sia perché è l'unica raccolta di fatto del genio nato in Alabama ma con residenza su Saturno, sia perché a curarla è il suo sacerdote
massimo ed erede del suo messaggio Marshall Allen. Un vero e proprio
Greatest Hits, quello rilasciato dalla gloriosa Strut Records, che ripercorre la lunghissima carriera
musicale della Arkestra e di tutte le sue incarnazioni, ed offre una tracklist interessante con alcune
chicche inedite che faranno gola ai suoi esigentissimi appassionati.
Spalmato su due dischi, In The Orbit Of Ra raccoglie alcune delle composizioni più famose di
Sun Ra, come Angel And Demons At Play (i norvegesi Motorpsycho non hanno mai fatto mistero
di essere suoi grandi estimatori), Plutonian Nights (una delle tracce preferite da Sun Ra, qui proposta in versione originale) e We Travel The Spaceways, ma anche tracce live catturate in Italia tra
il '77 e il '78, come la versione estesa di Dance Of The Cosmo Aliens registrata a Milano e l'inedita
Trying To Put The Blame On Me: voce e piano per planare in assenza di gravità nell'universo dell'afrofuturismo. Arricchisce il tutto una intervista al curatore, Marshall Allen, e la copertina di Wal
Wilmer, storico illustratore delle cover di Sun Ra e firma prestigiosa della locandina dell'edizione
2013 del festival Ai Confini Tra Sardegna e Jazz.
Alcuni estimatori potrebbero obiettare sull'assenza in scaletta di alcune tracce (Space Is The Place,
vero e proprio anthem della sua produzione e chiusura abituale dei concerti è rimasta fuori) ma di
certo non si può dire che In The Orbit Of Ra non faccia il suo sporco lavoro, offrendo un ottimo
prodotto sia ai neofiti, sia agli appassionati della prima ora.
7.5/10
Andrea Murgia
nell'incrociarsi di riff e voci con intenzioni
psych più elusive che allusive, sono tutti aspetti
che s'intrecciano a comporre uno stato d'animo
generazionale ai tempi della metropoli che si
riscopre periferica. Come se il massimo della
interconnessione globale determinasse nuovi
ambiti di solitudine, un nuovo alfabeto dell'irrequietezza. Sfilano quindi ballate agrodolci
dalla consistenza onirica come Calculations
(immaginatevi Cat Power stregata da un crepuscolo Yo La Tengo), chitarre imbizzarrite
76
di estro lisergico 60s come in Concrete Floor
(memorie di Paint It Black destrutturate Velvet Underground) e arpeggi folk blues desertici come in Lots of Lows (bozzetto Lanegan
finito tra le cianfrusaglie malinconiche di
Howe Gelb).
E' una mappa problematica e sfarfallante, meditabonda e suggestiva, punteggiata di retaggi
vaghi ma ugualmente inconfondibili, come
certa indolenza Robyn Hitchcock (On The
Beach) o la dolcezza sorniona e strascicata
r e c e n s i o n i
n o v e m b r e
Sun Ra - In The Orbit Of Ra (Strut Records,2014)
di un Devendra Banhart (Go Down, la title
track). Con la sua trama di approssimazioni
ipnotiche e minacciose, Life/Thrills sembra
parlarci di un presente urgente ma dimenticato. Come spesso capita ai buoni dischi.
7.2/10
Stefano Solventi
Genere: pop
"Franco Battiato è il nume tutelare del mio lavoro". Mario Venuti lo ha presentato così il suo
ottavo album da solista. Un disco molto ambizioso, studiato e scritto a sei mani con il fido
Kaballà e Francesco Bianconi. Un lavoro interamente imperniato sul declino della società
occidentale, tra periferie e province (mentali e
non). Un concept album, si sarebbe definito in
altri tempi, tra Pasolini e i Savastano. Purtroppo però, il nume tutelare non basta a giustificare Il tramonto dell'Occidente.
Un risultato che lascia indubbiamente con
tanto amaro in bocca e per svariati motivi. E
dire che le buone intenzioni ci sono tutte: il
leader dei Baustelle che prova a dare una mano
nel confezionare testi con un peso specifico
maggiore rispetto al passato, i duetti con Alice,
Giusy Ferreri, il succitato Battiato e Nicolò
Carnesi, le sonorità che strizzano l'occhio
all'elettronica pop anni '90. E poi c'è Mario Venuti che, piaccia o no, tra Denovo, brani propri
e testi scritti per altri nel panorama mainstream italiano, si ricorda sempre con piacere.
Un risultato, dicevamo, è però un po' deludente: come già accaduto con Recidivo (2009)
e L'ultimo romantico (2012), il cantautore
catanese ricade su sé stesso, in una poco credibile declinazione alternativa della sua musica
che non riesce a comunicare nulla di nuovo, di
diverso, né di pop, nel significato più semplice
Gianluca Lambiase
Mark Lanegan - Phantom Radio
(Heavenly,2014)
Genere: rock
Arrivato al giro di boa dei cinquant'anni, Mark
Lanegan continua ad essere una delle figure
musicali più imprescindibili dei nostri tempi.
Di questo abbiamo più volte parlato, sempre
sottolineando come la sua musica sia stata in
grado di attraversare indenne tre decenni, e di
come lui stesso abbia saputo reinventarsi ad
ogni uscita, regalandoci ottimi dischi e pure
veri e propri monumenti di rock alternativo
(ma non solo). Ad oggi, dunque, possiamo dire
che il Nostro è definitivamente entrato a far
parte dell'empireo dei grandi, ed è comprensibile come ogni nuovo lavoro generi una forte
carica di aspettative: Phantom Radio, l'ultimo disco della sua carriera (e il terzo con la
Mark Lanegan Band) si colloca precisamente
in quest'ottica, ponendo alcuni interrogativi e
domande utili per capire chi sia Mark Lanegan oggi, e quale sia il suo status nel panorama
attuale.
Diciamolo subito: Phantom Radio è il disco
più debole dell'intero catalogo laneganiano.
Non perché si tratti di brutto disco, ma perché
si colloca ben al di sotto dello standard a cui
siamo abituati, in primo luogo rispetto a quella
deriva wave/electro cominciata tre anni fa con
Blues Funeral e proseguita poi con l'ottimo EP
77
n o v e m b r e
r e c e n s i o n i
Mario Venuti - Il tramonto
dell'Occidente (Microclima – Musica
and Suoni,2014)
del termine. Neanche Ciao American Dream,
opaca versione italiana di Ashes of American
Flags dei Wilco, riesce a risollevare le sorti di
un lavoro che conosce nei duetti e nella opening track Il Tramonto i suoi momenti migliori.
Quest'ultima dovrebbe essere il manifesto del
disco, la dichiarazione di intenti, un miglioramento certo fa sperare e, invece, tutto nasce e
finisce come una occasione mancata.
4.5/10
Genere: elettronica
Aria di festa per i Mouse On Mars. St. Werner e Toma celebrano 21 anni
di carriera – tanti ne sono passati dalla genesi dell'EP Frosch, debutto
assoluto su Too Pure – e invitano amici e parenti per un'ora e mezza di
colorata confusione electro. Aria di festa impacchettata in un doppio cd,
che però si trasformerà in casino vero quando, per un paio di giorni (31
ottobre e 1 novembre 2014), i due saranno padroni di casa del festival
appositamente organizzato all'Hebbel Theatre di Berlino.
I primi auguri portano la voce di Mark E. Smith ed Elena Poulou (The Fall), già avanti di qualche bicchiere nel loro mix sbiascicato inglese-tedesco, e servono da incipit per una tracklist che
in pieno stile freeform elettronico marcato MoM riesce a dispensare ibridi breakbeat, house,
techno, pop e world-music senza che questi suonino mai discontinui o fuori contesto. Cercando
le più diverse contaminazioni, il duo tedesco pensa questo album come un grande foglio bianco
da dipingere a più mani. Ogni traccia, quindi, è il risultato di una collaborazione, di una sintesi di
due gusti che si incrociano. Con Cavern of Anti-Matter si disegnano traiettorie di sintetizzatori
liquidi sopra piste da ballo nu-disco (Fertilized, vicina alle declinazioni nordic di Prins Thomas,
Todd Terje e compagnia), con Helado Negro si slegano ritmi house dai risvolti ispanici (Carca
Jadas), con Atom TM si esplorano territori desolati di synth, vocoder e drum machine che ricordano certe cartoline firmate Air, 10.000 Hz Legend (Key My Brain). Il filone exotic, fatto di
continui rimandi onomatopeici, innesti ritmici tribali, suggestioni post-baxteriane, così vicine a
St. Werner e Toma (si veda alle voce Iaora Tahiti), viene ripreso in Queen Für Erschein (suonata
assieme al batterista Dodo NKishi, da sempre coinvolto nelle produzioni MoM), NKANKA (con
Yoshimio dei giapponesi Boredoms) e Ein Leben Wie Heu, dub electro-ragga di sitar e bleep
sintetici (con Schlammpeitziger, aka Jo Zimmermann). I Junior Boys mettono sul piatto luccicanti maniere funk (Putty Tart), Laetitia Sadier scritture folk di attivismo politico anti-regime
(My Toe Is On Fire), Matthew Herbert la sua magistrale abilità nella manipolazione della pasta
sonora (Double Gum). Sponda Chicago, prima arriva il kraut-rock dei Tortoise (Shoe Fly), immaginifica diapositiva dall'oriente che si chiude tra gli ottoni e le chitarre in slide, poi Olivia Block
(Pterion), inaspettato interludio di ambienti freddi e rarefatti. Le situazioni juke, footwork, wonky,
sondate dal recente Spezmodia, vengono capitalizzate con i featuring di Machinedrum (Juice
Clr 9), Funkstörung (Bon Djerry), Modeselektor and Mr. Maloke (Purple Fog) e Scratch Pet Land
(Splymogym).
Tanti nomi, tra endorsement espliciti e richiami ideali, per un tributo alla centralità dei Mouse On
Mars rispetto alla scena elettronica globale degli ultimi due decenni. Jan e Andi avrebbero potuto
sedersi in poltrona e confezionare un comodo best of. Invece, con 21 Again ci regalano un format
fresco e imprevedibile, stimolante per chi l'ha prodotto, elettrizzante per chi oggi lo ascolta.
7.5/10
Elia Galli
78
r e c e n s i o n i
n o v e m b r e
Mouse On Mars - 21 Again (Monkeytown Records,2014)
r e c e n s i o n i
facendo pensare a un'insolita vena prolifica di
cui quest'ultima prova è la conferma diretta.
Phantom Radio però non convince fino in fondo per diversi motivi, uno su tutti la mancanza di quello che il nostro Stefano Solventi ha
magistralmente definito come l' "imponderabile laneganiano": in altre parole, la capacità di
scrivere canzoni in grado di strapparti l'anima,
di mettere a nudo l'ascoltatore attraverso le
profondità oscure di quella voce, imprimendola
come un cazzotto sullo stomaco – o come una
carezza – nelle orecchie e nel cuore. Phantom
Radio, pur essendo un album discreto nel senso più stretto del termine, è dunque il primo in
cui Lanegan mette del tutto da parte l'imponderabile, concentrandosi più su quelle che saranno le direzioni sonore del futuro, piuttosto
che sui palpiti cantautorali di cui è uno degli
ultimi grandi maestri.
Conclusa dunque la dialettica di riscatto e
tributo tra passato e presente, Mark Lanegan
adesso ha voglia di mettersi in gioco con altre
modalità, e – forse – non possiamo neppure
dargli torto, vista la girandola di vette altissime
a cui, in trent'anni, ci ha abituati.
6.5/10
Giulia Antelli
C+C=Maxigross - An Instantaneous
Journey With Martin Hagfors and
C+C=Maxigross (Vaggimal,2014)
Genere: rock, psych, folk
Martin Hagfors è un pezzo grosso del folk rock
psichedelico norvegese, che detta così non
fa certo impressione, ma considerate le tante
collaborazioni (con Jaga Jazzist e Motorpsycho tra gli altri) ed un repertorio che tra quello
della sua ex band Home Groan, quelli con
Askil Holm, HGH e gli album solisti lambisce
i trenta album (tra l'altro molto apprezzati da
pubblico e addetti ai lavori), capirete che non
stiamo parlando del primo che passa. Ameri-
79
n o v e m b r e
No Bells On Sunday, pubblicato giusto un paio
di mesi fa. Proprio No Bells On Sunday aveva
lasciato presagire l'eccezionale capacità del
nuovo Lanegan nel declinare il cantautorato fumoso e perturbante di sempre verso le fascinazioni elettroniche e dei synth, regalandoci quei
brani ammalianti e immediatamente riconoscibili che costituiscono l'essenza della sua ultima
discografia. Un ottimo inizio che però in questo
disco non ha portato ai risultati sperati, almeno per chi scrive: nonostante la buona qualità
dei singoli brani, il limite dell'album è infatti la
sua poca coesione, ovvero un mix di generi che
pescano tanto dalla solita tradizione folk/blues
americana, quanto da stratificazioni cibernetiche, così come da richiami black e gospel. Una
varietà che, è bene ricordarlo, in passato è stata
in grado di offrire capolavori quali Bubblegum
– l'intro industrial di Methamphetamine Blues,
la sensualità sospesa di Wedding Dress e Come
To Me – e le nuove, interessanti direzioni del
già citato Blues Funeral, ma che in Phantom
Radio appare più come un ripescaggio casuale. A dimostrarlo, è appunto il grande spettro
di stili che si concretizza ora nel gothic/traditional di Harvest Home, ora nel paradigma
eighties di Floor On The Ocean, a cui fanno
da contrappunto i synth plastici di The Killing
Season e il pop beatlesiano di Torn Red Heart,
quest'ultimo uno degli episodi più riusciti e atipici del repertorio di Lanegan. Il resto si muove
nei territori dark-folk apocalittici di I Am The
Wolf e Judgement Time, entrambe portatrici
di quella simbologia biblica ed esoterica che ha
caratterizzato il songwriting dell'ex Screaming
Trees fin dagli esordi.
A fine ascolto si ha la sensazione di trovarsi di
fronte a una nuova fase, quella dello stacanovismo: negli ultimi tre anni il Nostro ha riportato in auge la sua carriera solista pubblicando
ben tre album a suo nome, oltre alle solite
partnership con musicisti più o meno illustri,
Genere: techno, elettronica
Prima di arrivare all'esordio sulla lunga distanza, Objekt, ovvero il britannico TJ Hertz, non ha sbagliato un colpo. Partito con una personale
interpretazione della tech/half step per poi concentrarsi su un piano
techno per basi spezzate e attitudine going-back-to-go-forward, il producer arriva all'esordio sulla lunga distanza su una PAN che ha appena
sfornato un grande album – Koch di Lee Gamble – con uno di quei lavori
elettronici che segnano il passo in modo ancor più determinante.
Questo Flatland, che capitalizza le ultime incursioni sul formato EP con Objekt #3 e Hypnagogia (quest'ultimo in split con i Dopplereffekt del Drexciya Gerald Donald, uno degli eroi del
ragazzo, assieme agli Autechre) rappresenta l'approdo a un'elettronica che sa muoversi tre le
tradizioni sperimentali che vanno dai maestri techno (oltre ai Drexciya di Donald citiamo anche i
Cybotron) a quelle britanniche di Aphex Twin e Mu-Ziq (braindance e albori IDM in testa) con
profonda maestria, conoscenza dei software e hardware per fare musica e un tocco di calcolato
luddismo.
Hertz, del resto, ha studiato ingegneria ad Oxford e lavorato presso Native Instruments, la compagnia dietro a software per fare musica come Reaktor e Traktor, e tra gli utenti del Dubstep forum
è conosciuto come uno dei draghi della produzione, una sorta di giovane Richard D. James insomma. E di fatto i paralleli con il genio della cornovaglia non finiscono qui, anche perché, ascoltando
Flatland nei suoi momenti più estrosi ai pad, synth e drum programming, non può che venire in
mente il discorso elettronico affrontato in Syro. Di filata, c'è sicuramente da rimarcare tutto un
portato di pulsazioni e bleep asciutti e, ancor di più, quel gusto per la costruzione senza deflagrazione (di bassi) di ascendenza dopplereffektiana, non ultimo, qualche tocco d'astrazione "a gravità
zero" che abbiamo sentito nei Jam City e nelle produzioni di Logos (Agnes Apparatus, First Witness).
Il risultato della combinazione di questi elementi, condotto con senso estetico e un gusto morboso
per entrare e toccare con mano i circuiti dentro le macchine, è davvero evocativo, a tratti sorprendente, equidistante rispetto ai concetti di futurismo e retrofuturismo. Disco da ascoltare rigorosamente spegnendo ogni device elettronico, osservandolo, magari, con il paradosso espresso dallo
stesso producer, "da tutti i punti di vista contemporaneamente".
7.7/10
Edoardo Bridda
80
r e c e n s i o n i
n o v e m b r e
Objekt - Flatland (Pan,2014)
r e c e n s i o n i
non si tratti solo di un frutto estemporaneo.
7.5/10
Stefano Solventi
Mega Bog - Gone Banana (Couple Skate
Records,2014)
Genere: pop, art, indie, lo-fi, dream, experimental
Nello sconfinato panorama musicale è sempre
un piacere avere a che fare con un nuovo artista
o una nuova band con un proprio credo tanto
originale quanto già ben definito. Rientra senza
dubbio in questa categoria il progetto Mega
Bog, ruotante attorno alla figura e alle visioni
distorte di Erin Birgy, e capace di imporsi con
decisione – seppur lontano dai riflettori – proponendo un incrocio seducente tra DIY/lo-fi
indie e sax-driven sophisti-pop di stampo '80s.
Come se mister hypnagogic Ariel Pink incontrasse i Blue Nile.
Dopo un lustro passato sui palchi prevalentemente locali (Seattle e dintorni) registrando un
numero indefinito di cassette, demo e uscite
minori autoprodotte, i Mega Bog pubblicano
finalmente la prima vera opera compiuta, Gone
Banana, per Couple Skate Records. L'immaginario weirdo-slacker di stampo Captured
Tracks votato ai crismi experimental viene ben
riassunto nel singolo Aurora / 99: un minuto e
mezzo di introduzione composto da tastiere e
dal giocoso sax creano un'atmosfera sbilenca
che si apre all'improvviso su una linea melodica semplice, sognante e vagamente retrò
intervallata da sprazzi in cui troviamo di tutto,
da situazioni spacey ad improbabili venature
art-glam.
Oltre ad Aurora / 99 meritano una menzione
d'onore le chitarre jizz jazz (Erin Birgy può
essere vista come la risposta femminile a Mac
DeMarco) che si concretizzano in Goobie
Krishna, la fumosità notturna sorretta dal sax
– qui al limite dell'impro-jazz – di Cologne
in The Night (ma manca tutta la componente
81
n o v e m b r e
cano di nascita – è nato in California nel 1960
– tradisce un approccio alle capacità liberatorie
e divinatorie della ballata psych che lo avvicina
al Robyn Hitchcock più affabile o se preferite
ad uno Stephen Stills in fregola lisergica, senza evitare contagi contemporanei.
All'inizio di quest'anno ha pubblicato un nuovo
album, Producers Politics Passion, per il cui
tour di supporto ha incrociato armi e bagagli coi nostri C+C=Maxigross. Ne è scaturita
un'intesa che oggi frutta uno split EP dal titolo
emblematico: An Instantaneous Journey
with Martin Hagfors and C+C=Maxigross.
Sei pezzi pescati dalla discografia di Hagfors
rivisti in una luce amniotica e fragrante, col
tipico trasporto agreste ed entusiasta dei ragazzi di Vaggimal che diventa il miglior additivo
possibile di canzoni calde, ipnotiche, intriganti.
C'è il passo slanciato di Maximum Amount tra
chitarre asprigne, diamonica, scorie Creedence e lirismo allusivo Donovan. Ci sono
le vibrazioni radianti ed il tepore frugale con
una strana apprensione che ti stringe la gola in
Company Oil. C'è la pianticella acida cresciuta sugli Appalachi di The Woods. E ancora la
west coast a trame fitte con la densità onirica a
livello di guardia di Country Chris, e una Coffe
and Cigarettes che si aggira blanda in un incantesimo amniotico di wah wah e cori cremosi,
sovrapponendo archeologia 60s Pretty Things
ed allucinazioni neopsych Verve.
Infine c'è una Astrodome che ti abbraccia cosmica e accorata come un Crosby corroborato
Steve Wynn, tra organi e il falsetto dei cori,
fino al crescendo conclusivo parente in qualche modo degli Sparkelhorse altezza Cow. La
combinazione funziona alla grande, lo sciroppo
elettrificato e variamente freak di Hagfors trova nel sostrato terrigno dei C+C l'ingrediente
perfetto per precipitare in una sorta di entusiasmo contemporaneo, nel qui e ora che inocula
la concretezza nel sogno. Viene da sperare che
Genere: hiphop
A un anno di distanza da quell'esordio con il botto che è stato Run The
Jewels, un debutto di una trentina di minuti distribuito – in prima battuta – gratuitamente in rete che ha fatto incetta di critiche entusiaste, la
coppia formata da El-P e Killer Mike che si è fatta le ossa su R.A.P Music e Cancer For Cure, torna all'attacco con un secondo episodio semplicemente intitolato RTJ2, una copertina che rappresenta una alt take
della precedente. Cambia l'etichetta e l'approccio però, dalla scanzonata
ma affilata kermesse (che sapeva picchiare duro) dell'esordio – poi pubblicato da – Fool's Gold,
il duo, sulla scorta dell'omicidio di Michael Brown, sale su un panzer di groove minacciosi, bassi
cingolati (e i caratteristici synth-distopici-carpenteriani di El-P) sull'etichetta indie rap di NAS. Il
southern per 808 pitchate à la bring-back-the-Lex-Luger-shit è stato messo da parte, al suo posto,
un rinnovato sound, ancora più cupo, militante e meticcio che rimanda alla consueta tradizione
dell'underground hip hop newyorchese (e East Coast) ed è, ancora una volta, la risposta più efficace alla cangiante produzione del Yeezus di Kanye West (Oh My Darling Don't Cry, Close Your
Eyes (And Count to Fuck)). La dialettica "contro" del resto, quel tornare alla comunicatività stradaiola dell'HH con le basi sempre superlative di El-P (coadiuvato ancora una volta da Little Shalimar e Wilder Zoby) è anche qui il pane di un episodio numero due riuscito anche più del debutto
e più corale nella sua realizzazione: in All My Life alla chitarra troviamo Matt Sweeney, in Close
Your Eyes (And Count to Fuck) e All Due Respect, rispettivamente Zack De La Rocha, cantante
dei Rage Against The Machine, e Travis Barker, batterista dei Blink 182.
Tra una sciabolata in rima anti establishment ("Like any tyrant murderer gets replace'd, face it /
The fellows at the top are likely rapists / But you like "Mellow out man, just relax, it's really not
that complicated" da Blockbuster Night, Pt. 1), incitamento alla rivolta ("When you niggas gon'
unite and kill the police, mothafuckas?" da Blockbuster Night, Pt. 1), critiche al sistema carcerario
("Liars and politicians, profiteers of the prisons", da Close Your Eyes (And Count to Fuck)"), un
bel po' di talkin shit tra sesso, droga, violenza per continui rimbalzi tra il colto, la cultura popolare e lo slang ("Just spit it disgusting youngin', and hold your nuts while you're gunnin'" da Close
Your Eyes (And Count to Fuck)) e un parterre di beat, smalti retrofuturisti, inserti "suonati" e
campioni mai scontati, i Run The Jewels sembrano sempre di più i Walter White e Jesse Pinkman
– leggi Breaking Bad – dell'hip hop: contro il sistema e totalmente frizzanti nel business, contatti
trasversali e promozione compresa. Vedi le citate glorie 90s, ma anche la scafata rapper Gangsta
Boo, Diane Coffee (batterista dei Foxygen ai tempi della scuola) e Boots (quest'ultimo in aiuto
alla produzione in Lie, Cheat, Steal e in feat. per Early, oltre che producer del mixtape WinterSpringSummerFall e collaboratore nell'omonimo di Beyoncé), o l'attivazione di una campagna
kickstarter per finanziare un remix album fatto di miagolii di gatti, il Meow The Jewels (davvero sarà così?), obbiettivo che peraltro è stato raggiunto e coinvolgerà ospiti non proprio scontati – sempre trasversali – come Just Blaze, Zola Jesus, Prince Paul, Baauer, The Alchemist, Geoff
Barrow, Dan the Automator e (ancora) Boots.
82
r e c e n s i o n i
n o v e m b r e
Run The Jewels - Run The Jewels 2 (Mass Appeal,2014)
Flow, inventiva nelle rime, temi trattati (ci vorrebbe un manualetto solo per raccontarli tutti),
beat, tutto suona al posto giusto in una scaletta divisa a metà: cingolati nella prima parte, mano
felpata nella seconda. Secondo centro pieno per Killer Mike e El-P.
8/10
blues-rock/groove per poter citare i Morphine) e il fiato imponente di Jacob Zimmerman
dell'attacco di Year of Patience.
Chiaramente siamo di fronte ad un progetto
che soffre la sua natura iper-casalinga e che
difetta ancora di un songwriting di un certo
livello, creando una fastidiosa sensazione di
disomogeneità lungo le dieci tracce del disco.
Tracce che in più di un'occasione hanno le
sembianze di bozze ancora da rifinire, come ad
esempio la title track – il passaggio forse più teatrale e decadente, ma non nel senso buono del
termine – e Chilidog. Lo skip è sempre dietro
l'angolo.
Una cascata di intuizioni e spennellate di genio
da tenere a guinzaglio. Se e quando i Nostri
ci riusciranno – senza però perdere punti alla
voce imprevedibilità – sarà necessario toglierci
il cappello.
6.7/10
Riccardo Zagaglia
Melvins - Hold It In (Ipecac
Recordings,2014)
Genere: pop, rock, hardrock, art, punk
Ai Melvins un paio di cose non sono mai mancate: l'autoironia, la capacità cioè di non prendersi mai troppo sul serio senza per questo
essere dei cazzoni, e la voglia di sperimentare,
ricercare, variare il canovaccio spesso e volentieri con collaborazioni a 360 gradi.
In Hold It In l'incrocio tra le due traiettorie di
cui sopra si materializza in un lavoro a 8 mani
tra King Buzzo, Dale Crover e i due Butthole
Surfers, Paul Leary e JD Pinkus. Come a dire,
garanzia di qualità ma soprattutto di follia strumentale, oltre che rappresentazione plastica di
una vicinanza e una affinità che va indietro nel
tempo fino al mondo pre-internet. Ecco così
tutto e il contrario di tutto, in un susseguirsi
delle molte anime dei due duo: le cavalcate
influenzate dalla personale idea di hard-rock
cafone che i quattro sembrano condividere
(Bride Of Crankestein, Onions Make The Milk
Taste Bad, Sesame Street Meat, Piss Pisstoferson), passaggi a dir poco strambi in cui si
nota la vena pop-storta dei surfisti del buco del
culo (che è un nome magnifico l'abbiamo già
detto?) come in You Can Make Me Wait (con
tanto di vocoder improbabile), Brass Cupcake
o la countryeggiante (?!) I Get Along (Hollow
Moon), cafonate alt-metal anni '90 sempre
eccessive e sopra le righe al punto da risultare quasi parodistiche (Nine Yards), suite che
sembrano Frankenstein sonori nel mischiare
tutto ciò che si è detto fin qui (The Bunk Up) e
la lunghissima House Of Gasoline, hard-stonerrock massimalista che la AmRep provvederà a
stampare in un 10" apposito e che ci rimanda
indietro fino a Stoner Witch.
Hold It In è un album interlocutorio, riuscito fino ad un certo punto – perché ai Melvins
tutto si perdona, spesso pure troppo – ma che
i fans della band di mr. Osbourne ameranno al
pari dei tantissimi passi storti (non sbagliati,
sia chiaro) e dei tanti divertissement dissemi-
83
n o v e m b r e
r e c e n s i o n i
Edoardo Bridda
nati lungo una carriera ultratrentennale. Per la
cronaca, questo dovrebbe essere il disco lungo
numero 24.
6.5/10
Stefano Pifferi
Genere: rock, synthpop, electro
Lo scioglimento degli Lcd Soundsystem nel
2011 ha lasciato un bel vuoto nei fan. Nessuno dei componenti della band newyorkese
difatti, si è fatto sentire con lavori solisti, se
non James Murphy, che nel corso degli anni
si è divertito a fare vaporose collaborazioni
con il nome grosso di turno (come Gorillaz e
Outkast), produrre album (Yeah Yeah Yeahs,
Mosquito), colonne sonore (While We're
Young), ma anche progetti impegnativi come
le 400 ore di musica estratte dai match degli
ultimi Us Open.
In un 2014 che vede i batteristi mettere la testa
fuori dalla sabbia – vedi il disco solista di Phil
Selway dei Radiohead -, anche Pat Mahoney
ha deciso di rompere il silenzio discografico e
di mettersi in proprio, più o meno. Nasce infatti, con l'appoggio del boss di Run Roc Records
nonché membro degli Juan MacLean, Dennis
McNany, il progetto Museum Of Love. Dopo il
remix di My Machines dei Battles e il singolo
Down South, pubblicato a luglio 2013, il duo arriva con il primo omonimo album. Il disco, che
prende il nome dal pezzo di Daniel Johnston,
non poteva ovviamente uscire che su DFA. E
già l'etichetta è un programma.
Museum Of Love è un'ode di 40 minuti al
synthpop anni '80, con qualche aggiunta rock
tipica degli Lcd Soundsystem e sprazzi di dance. Facile aspettarsi quindi i numerosi giochi di
tastiere (Fathers), rimandi alla disco più sincera (The Who's Who of Who Cares), ma anche
bpm più felpati e ragionati (Down South) e pul-
84
Daniele Rigoli
Musica per bambini - Capolavoro!
(Trovarobato,2014)
Genere: electro
Provate ad immaginare l'operosità quotidiana
di sbieco all'occhio di un bambino di 10 anni,
provate ad immergervi in questa dimensione. Vi verrà da sorridere, due secondi dopo vi
vergognerete di averlo fatto. È l'effetto che si
ha quasi sempre quando si ascolta Musica per
bambini.
Lavori e mestieri veri e irreali, incastonati in
una neo-scienza della fantasia come l'avrebbe
intesa Munari o Rodari, sono i temi di Capolavoro! nuovo concept del piacentino Manuel
Bongiorni. Si badi che l'occhio suddetto è una
finzione bella e buona, ma come ogni finzione ha il pregio di sprigionare tanti significati
mediante la logica delle combinazioni aggiornata all'oggi. In Capolavoro! si addensano
miriadi di segni, concetti, espressioni rotte da
rumori, pedinamenti sonici, comicità bellezza,
ornamenti buggeranti e muri disarcionati da
r e c e n s i o n i
n o v e m b r e
Museum Of Love - Museum Of Love
(DFA,2014)
sazioni minimali (Monotronic), con Mahoney
che decide anche di vestire i panni del vocalist:
la voce è quella di un David Byrne qualunque,
ma sembra non prestarsi per nulla a certe regole danzerecce, soprattutto quando si concede
inutili ripetizioni (In Infancy).
Il disco scorre rapidamente, a tratti anche in
maniera divertente, soprattutto durante The
Large Glass, che sembra uscita da una movimentata jam session d'improvvisazione, con i
suoi riff di chitarra, le percussioni traballanti e
le tastiere impazzite; eppure la qualità dell'opera non vede grossi picchi, la produzione appare
nella maggior parte dei casi troppo sempliciotta, quasi che questo progetto fosse nient'altro
che un divertissement. Sufficienza raggiunta,
ma nulla di più.
6.1/10
r e c e n s i o n i
fatica Viola ne testimonia con grande maturità
la piena attitudine artistica.
Dal primo Battiato ai Bluvertigo più easy
listening (presente, non a caso, Andy in Un
grande Natale), dall'elettronica new wave a
certe sonorità synth pop, dal più lucido David
Bowie ai più sfrontati Soerba. C'è uno spessore poetico e al tempo stesso disincantato
che rende questo disco un lavoro maestoso,
complesso, sopraffino. Come uno chansonnier
sopravvisto all'olocausto del tempo Nicodemo
dipana interrogativi, risposte, eterne contraddizioni; nella liquidità post-moderna tira una
linea per raccontarci dove siamo finiti (Almeno
con la mente), chi siamo diventati (Legionari),
quello che ci attende (Madre).
Voce baritona, impasti sintetici che danzano
su linee melodiche mai banali, team di spessore al suo fianco (Francesco Di Bella, Garbo,
Denise, Luca Urbani, Raffaella Destefano),
Viola è uno di quei sempre più rari e piacevoli
casi dove la canzone d'autore italiana riesce a
unirsi a suoni elettronici senza risultare banale,
vecchia o poco credibile. La conclusiva Inverno merita poi menzione a parte, con la voce
dei Madreblu sussurrata su una linea di piano
mossa da sospiri. Un piccolo gioiello che ci
lascia lì "ad infilare le mani nel vento, a sognare
in controtempo".
7/10
Christian Panzano
Gianluca Lambiase
Nicodemo - Viola (XXXV,2013)
Obake - Mutations (RareNoise,2014)
Genere: cantautori, elettronica
Musicista, cantautore, produttore, il salernitano Nicodemo naviga da anni nell'indie italico,
che lo ha conosciuto discograficamente nel
2006 con Il treno per Bologna e nel 2010 con
In due corpi, ma anche per l'ideazione del
format web/tv Studio XXXV Live. Bassista raffinato e cantautore eclettico, Nicodemo intreccia mondi elettrici nella sua musica, e l'ultima
Genere: metal, sludge, experimental
Tre anni dopo l'ottimo esordio che li ha fatti
conoscere proiettandoli nei primi posti delle classifiche di gradimento della stampa di
settore, gli Obake di Eraldo Bernocchi e Lorenzo Esposito Fornasari (LEF) tornano con un
nuovo album e qualche novità. La più evidente
è sicuramente il cambio al basso elettrico, con
l'uscita di Massimo Pupillo (tornato a pieno
85
n o v e m b r e
strumentologia, chitarre e spasmi elettronici.
Un intruglio radicale, se ascoltato facendo nel
frattempo dell'altro in cucina, e invece una
galassia rubiconda se ascoltata con tolleranza e
desiderio di pazienza.
Alcuni brani-lavori sono piccoli villaggi sintetizzati in pochi minuti, tanta energia, zero filtri
e alcuni passi. Passo da teatro di burattini robot
(Supplente per sempre), passo da fiaba (L'accalappia topi, Il Nipote elettronico), e fiaba – o
meta-fiaba – in Italia significa Elio e le storie
tese o Caparezza, passo farsesco (Il mille
mani, L'idraulico aulico), passo elettro-pop e
video games (Trombettiero, Arbitro), passo
grind/thrash (Dottore) che è un tratto distintivo, anche se qui con qualche riff in meno
rispetto al passato, passo glam (L'addestratore
di Luigi) tra i più interessanti e motivanti.
Ed oltre ai mondi che rapidamente gemmano
come piante, c'è in fieri un imperfetto incastro
concettuale che rende Capolavoro! se non
proprio un capolavoro, l'opera più fruibile,
rispetto al passato, e più gioiosamente operante nel reale che Musica per bambini abbia mai
prodotto. Col tempo quella puerilità viene un
po' meno, come viene meno la finzione dietro
cui si maschera il viso di Bongiorni, cattivo e
recitante allo stesso tempo. Ma è un mezzo,
non un fine.
6.5/10
Genere: spokenword_reading, metal
La collaborazione tra Scott Walker e i Sunn O))) parte dal 2008, quando
Stephen O'Malley e Greg Anderson avrebbero voluto la voce del genio
contemporaneo nella loro Alice, poi inserita in Monoliths and Dimensions, uscito un anno dopo; l'incontro si è concretizzato solo nel 2013,
con Soused a siglarne il connubio, un album di fatto walkeriano, scritto
con gli americani in mente.
Trattasi di cinque pezzi di lunga durata, prodotti da Scott e dal fido Peter
Walsh, nei quali la melodia e il recitato-cantato (caratteristica di Walker da un po' di anni a questa
parte) restano più o meno i medesimi dell'ultimo capolavoro Bish Bosch (risalente al 2012), mentre la parte musicale diventa ancor più un insieme variegato, che supera le singole parti; in questo
caso una delle basi è rappresentata dall'experimental metal dei Sunn O))) – nel disco è presente
anche Tos Nieuwenhuizen – , che non si fa però predominante, ma si fonde in modo sorprendente
ed organico con il mood narrativo e musicale dell'artista.
L'opener Brando inizia melodicamente per scivolare man mano nelle atmosfere dark metal Sun
O))), per riassumere poi la forma-canzone (se così si vuol chiamare) lirica ed espressionista che
ben conosciamo; Herod 2014 nei suoi tesi dodici minuti si avvicina molto alle atmosfere ritmiche
e dilatate del penultimo disco, con il suo mood cinematico e drammatico, così come Bull, mentre
Fetish sembra provenire diretta da The Drift (2006). A chiudere Lullaby, a suo modo ninnananna
melodica ed espressiva.
Soused non cristallizza Walker in un cliché, come avrebbe potuto succedere dopo aver ripetuto
la formula più volte, ma dà nuova linfa musicale ed espressiva alla sua musica; ancor meno oscuro
dei due precedenti lavori, il connubio con Sunn O))) libera in un certo senso le atmosfere chiuse e
oppressive del Nostro, che in questa occasione si fa più" leggero" ed accessibile, ancor più dilatato
e narrativo. Sempre inarrivabile.
8/10
Teresa Greco
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r e c e n s i o n i
n o v e m b r e
Scott Walker + Sunn O))) - Soused (4AD,2014)
Andrea Murgia
Paolo Baldini - DubFiles (La Tempesta
Dischi,2014)
Genere: dub
Presentato alla stampa il 14 ottobre, Dubfiles è,
più che un disco, una testimonianza del percorso artistico intrapreso da Paolo Baldini: un
percorso che lo ha portato negli ultimi anni a
diventare uno dei musicisti – ricordiamo che è
stato bassista, tra gli altri, di Africa Unite, B.R
Stylers – ma anche e soprattutto dei produttori di spicco della scena dub e reggae italiana.
r e c e n s i o n i
Eclettico e prolifico come pochi, Baldini è stato
dietro al mixer per alcune tra le più interessanti realtà musicali italiane, spaziando dalle
sonorità in levare dei Mellow Mood all'elettro-dub dei Dub Sync, fino ad arrivare a quel
Primitivi Del Futuro (poi seguito nel 2012
da Nel Giardino Dei Fantasmi) che ha aperto
nuove strade –tra reggae e world music- ai Tre
Allegri Ragazzi Morti, gruppo cardine della
scena rock indipendente italiana.
Nato inizialmente come esperimento in studio
e interamente registrato in analogico all'Alambic Conspiracy di Pordenone, il progetto
Dubfiles è un vero atto d'amore per il dub: un
disco dal respiro internazionale, credibilissimo,
giamaicano e "classico" fino al midollo, eppure
capace – in un continuo gioco di rimandi tra
reggae, rap ed elettronica- di suonare fresco ed
attuale, impregnato com'è di sincero amore per
la musica e la cultura di cui si fa manifesto.
Alle voci si alternano numerosi ospiti, capaci di
dare colori sempre nuovi ad ogni singola traccia; musicalmente, per quanto tutto nasca sotto
l'egida di Baldini, appare chiaro come il disco
sia frutto di un lavoro a più mani, e per questo
ricco di riferimenti e sfumature capaci di donare al tutto una ricchezza di suoni e arrangiamenti che fa di questo album una piccola perla
per tutti gli amanti del genere.
Tra gli ospiti: Jacobs L.O. e Jules degli Arawak, il portoghese Richie Campbell, il cantante e beat boxer australiano Dub Fx e il rapper
albionico Rawz.
7/10
Enrica Selvini
Paolo Benvegnù - Earth Hotel
(Woodworm,2014)
Genere: cantautori, rock, wave
Dodici "stanze" per dodici personaggi che
raccontano, meditano, immaginano, affrescano
quadri cupi e febbrili, lirici e visionari. Que-
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n o v e m b r e
regime nei redivivi Zu) e l'ingresso di Colin
Edwin, già nei Porcupine Tree e nel progetto
targato RareNoise Records, Twinscapes, in
compagnia di Lorenzo Feliciati.
Otto tracce per quaranta minuti scarsi, Mutations mette la freccia e sorpassa il suo predecessore, surclassandolo da tutti i punti di vista:
quello sonoro (incredibile la forza sviluppata
dai quattro) e quello compositivo (dimostrando
capacità di scrittura incredibili). Proprio come
la creatura da cui prende il nome (nel folklore giapponese gli Obake sono esseri capaci
di mutare forma), la band cambia aspetto di
continuo, passando dallo sludge dei Melvins
(emblematico il trittico iniziale) al prog raffinato degli ultimi Tool (Second Death of Foreg),
passando dagli Ash Ra Tempel di Klaus Schulze.
La voce di Fornasari, già apprezzata nel supergruppo Berserk!, merita particolare menzione:
duttile e robusto, il suo cantato oscilla con nonchalance dal growl più estremo al pop sintetico
di Infinite Chain, in cui il timbro ricorda incredibilmente quello dell'ex Japan, David Sylvian. Mutations rappresenta non solo un passo
in avanti rispetto all'omonima prova d'esordio,
ma un nuovo paradigma con cui le band di genere dovranno obbligatoriamente confrontarsi.
7.4/10
88
n o v e m b r e
Radiohead tra riff d'archi e un tappeto serrato
di chitarre e tastiere. O ancora il Tenco agreste
e cameristico di Orlando ("perché tutto è un
mistero da non rivelare/perché tutto ci parla senza farsi vedere") e quello malato Black
Heart Procession di Hannah. Stupisce poi
l'invettiva funky e sbrigliata di Nuovosonettomaosita, al limite tra spoken sloganistico e rap
("esiste un nuovo ordine nel caos"), col chorus
che ammicca riffettini radianti di synth: improbabile per uno come Benvegnù, eppure tutto
sommato riuscito. Ai nostalgici degli Scisma
infine non dovrebbero dispiacere le tracce che
aprono e chiudono la scaletta, entrambe attraversate da enfasi visionaria e trepidazioni soniche desuete: più sincopata e atmosferica Nello
spazio profondo, vero e proprio patchwork di
suggestioni folk-psych ed electro-wave la conclusiva Sempiterni sguardi e primati ("tuo figlio
è pazzo, si è perso nell'inconsistenza di tutto/si
è perso nel mondo che ha osato cercare").
Pur con qualche intoppo e una padronanza non
sempre limpida della situazione, disco dopo
disco Benvegnù sta acquistando la statura di un
classico.
6.8/10
Stefano Solventi
Pharmakon - Bestial Burden (Sacred
Bones,2014)
Genere: psych, noise
L'esordio Abandon aveva colpito per quel
concentrato di disagio portato all'estremo,
soprattutto vista la provenienza: una poco
più che ventenne Margaret Chardiet in arte
Pharmakon, carina, biondina, un po' femme
fatale, come possono essere le ventenni d'oggi,
un po' ninfetta maudit; di sicuro, non l'efferata
noise-maker che quel disco ci faceva conoscere, nonostante trafficasse da tempo con l'underground harsh-noise newyorchese: mai ci
saremmo aspettati quella colata lavica di ma-
r e c e n s i o n i
sta sorta di concept a maglie larghe consente
a Paolo Benvegnù di sbrigliare la vena con la
consueta intensità letteraria, mentre la calligrafia sonora sembra avere ormai rinunciato agli
slanci visionari più incandescenti, attestandosi
dalle parti di una post wave arty dal codice
genetico segnatamente anni Novanta. Tutto ciò
per dire che Earth Hotel, quarto disco solista per l'ex-Scisma a tre anni dall'apprezzato
Hermann, è un album riuscito con momenti
di straordinaria bellezza, precisando però che
il suo punto di forza sembra risiedere più che
altro nella densità e stratificazione dei testi.
I quali ascolto dopo ascolto rivelano passaggi
dalla bellezza ricca di riverberi, implicazioni e
insidie morali. Non si resta indifferenti leggendo versi come "sognare da immortali/seguendo
una visione/cos'è la vita/se non amarsi", "ed è
per questo che io gioisco nell'usarti", "preparo
l'infinito/cento gocce dentro ad un bicchiere",e
via discorrendo.
L'ambizione a costruire qualcosa di poeticamente alto con gli attrezzi del rock è assieme il
punto di forza, la sostanza e il principale limite
di Benvegnù. Il suo è cantautorato rock che
cerca di sfruttare al massimo le potenzialità
del mezzo, ma in questa ricerca a tratti sembra
smarrire il polso, trascinandosi in situazioni
dove traballa l'equilibrio tra struttura e composizione (vedi la synth wave tesa ma un po'
monocorde di Feed The Distruction e l'inerzia
Notwist di Piccola pornografia urbana) oppure
semplicemente inadeguate (vedi Life, ballata semiacustica in inglese con un retrogusto
d'artificio quasi Extreme). Ma appunto, come
dicevamo, resta un lavoro apprezzabile, con
alcuni momenti davvero buoni. Ad esempio la
wave atmosferica di Avenida Silencio, col suo
patchwork di lingue, il bordone di synth quasi
Joy Division e quel finale scontornato free
psych.
Oppure Divisionisti, con le palpitazioni sparse
Stefano Pifferi
r e c e n s i o n i
Primus - Primus and the Chocolate
Factory with the Fungi Ensemble (ATO
Records,2014)
Genere: rock, alt
A chi poteva venire in testa di rifare la colonna
sonora dell'originale Willy Wonka per intero?
Ai Ween? Ai They Might Be Giants? A Sufjan
Stevens? A Beck? Ai Residents? Forse, ma l'ha
fatto Les Claypool. Quando il film uscì nelle
sale, nel 1971, Les aveva 8 anni e ne rimase folgorato. E ossessionato. Dalla storia, dai personaggi, dalle immagini, quel mondo di colori,
zuccheri, cioccolati, sciroppi, glasse, praline,
farciture, gommosità e creme, fantasticamente grottesco, dolce sì, ma acidissimo, e a tratti
anche amarissimo, mostruoso.
Se il film con Gene Wilder è diventato subito
un classico della cultura pop americana, e i brani più celebri della sua colonna sonora – Oompa Loompa a parte, Pure Imagination e The
Candy Man Can – sono stati oggetto di decine
di rifacimenti, parodie, citazioni da Sammy
Davis Jr., a Jamie Cullum, ai Muppet, ai Simpson, a Mariah Carey, a Glee, gli stessi Primus
non sono nuovi a operazioni del genere. Se ne
trovano esempi significativi negli EP della band
(Miscellaneous Debris e Rhinoplasty) e nei live
della jam band Frog Brigade, sempre guidata
da Les (tra le altre cose, alla maniera dei Phish,
hanno rifatto per intero Animals dei Pink
Floyd).
Il progetto è stato lanciato in pompa magna
con una splendida americanata la notte del
New Year's Eve 2013: un concerto-carnevale
che festeggiava il ritorno dietro i tamburi
dell'unico vero batterista dei Primus, Tim
"Herb" Alexander, a suon di costumi, frizzi,
lazzi e snack personalizzati (Mr. Krinkle Bars,
Professor Nutbutter Bars, Bastard Bars): "l'industria discografica è andata a puttane, ma le
barrette di cioccolato ancora non potete digitalizzarle" (e del resto i Primus sono gli unici ad
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n o v e m b r e
lessere e disturbo.
Ora la nostra eroina torna a far parlare di sé
con un comeback sempre su Sacred Bones e
addirittura un tour ad aprire per gli Swans di
Michael Gira, uno che col disagio ha molto a
che vedere. E come nell'esordio è la densità
delle musiche di Pharmakon a farsi apprezzare,
così come l'impianto strutturale che sta dietro
il concepimento di Bestial Burden. Un urgente ricovero ospedaliero per una operazione
importante diventa, nell'ottica distorta della
sua autrice, l'opportunità per una indagine sul
rapporto tra corpo e mente e sulla scissione tra
il primo e la seconda. Con certe premesse, è
naturale che, come la cover art illustra sapientemente, l'album divenga l'occasione per una
auto-dissezione che metta in atto quella lotta,
quello scontro tra due entità separate e conflittuali, pur nella appartenenza al medesimo
essere. Una sorta di yin/yang interiore ad ogni
essere umano che nelle (d)evoluzioni mentali
della Chardiet si trasforma in una opprimente e
putrescente landa industrial percorsa da fremiti, battiti, increspature e nervature che vanno
a ricostituire quel complesso sistema appena
sotto l'epidermide, per ri-creare il conflitto di
cui sopra in forme se possibile ancor più ansiogene che nel citato esordio.
Il tutto a furia di bordate noise in modalità
groovey rotte dal selvaggio stridio della voce
di Pharmakon, come nella lunga, estenuante,
Intent Or Istinct o nell'harsh sottocutaneo di
Body Betrays Itself (nomen omen di ciò che
si diceva sopra), nel pulsare ritmico di Autoimmune o nello strisciare convulsivo della
conclusiva title track. Non si ama né si odia,
Pharmakon: la si ammira per quella iconoclasta
capacità di porre sul piatto il malessere, quello
vero.
7/10
Genere: dark, folk
Dopo sei anni dal loro ultimo lavoro, tornano i Sonne Hagal con
Ockerwasser, il loro quarto full-length, uscito il 13 ottobre 2014 per
Luftschutz Entertainment e distribuito in Europa da Tesco Germany. Il
ritorno sulla scena della celebre band neofolk tedesca non delude, anzi,
Ockerwasser si presenta come uno dei migliori e più ispirati lavori
realizzati dal gruppo. L'album è impreziosito, come consuetudine per la
band, dalla collaborazione di diversi musicisti del giro neofolk europeo.
In questo caso, a dar man forte intervengono Kim Larsen (:Of the Wand and the Moon:), Ericah
Hagle (Unto Ashes), Leithana (Ordo Equitum Solis), Bo Rande e Matthias Krause (Vurgart).
Band di culto, i Sonne Hagal – per quelli che ancora non li conoscessero- sono un gruppo formatosi a Brandeburgo nei primi anni novanta capitanati dal frontman Oliver, profondo conoscitore della mitologia germanica, dell'etenismo, come della poesia inglese e tedesca. I testi dei loro album,
sempre profondi e molto curati, si prestano a diversi livelli di lettura, a partire dal nome della
band, che si traduce in italiano come "sole/grandine" e suggerisce un conflitto tra forze opposte.
La parola "hagal", oltre a significare "grandine" in tedesco, è anche il nome della settima runa descritta nell'Armanen "Futharkh" del celebre studioso di esoterismo Guido von List.
Anche in questo ultimo lavoro non mancano i riferimenti esoterici: l'album si apre con The Shapes
of Things to Come che introduce alle "forme delle cose a venire" attraverso una tensione tra l'alto
mondo spirituale e quello degli inferi. Si tratta di un brano che ci ricorda anche l'assioma di Ermete Trismegisto: "Come in alto, così in basso, come fuori così dentro, come sopra così sotto. Tu dividerai il grezzo dal sottile e riunificherai tutte le cose in Uno". Queste parole sembrano guidare da
sempre lo spirito dei Sonne Hagal e costituisco una buona chiave di lettura anche di Ockerwasser,
disco alchemico sulla natura umana (anche sui suoi aspetti più deteriori) che, nel suo microcosmo,
si rispecchia sempre in un più vasto macrocosmo.
Nel disco, cantato in lingua inglese, non mancano profondi e ricercati riferimenti letterari. The
Shapes OF Things To Come cita alcune parole della poetessa vincitrice del premio Pulitizer, Edna
St. Vincent Millay. Il disco contiene anche una stupenda versione della poesia di Thomas Carew
– poeta inglese vissuto cavallo tra XVI e XVII secolo – Mediocrity in Love Rejected, messa in
musica per l'occasione dal gruppo. Nel brano Oliver, riprendendo le parole di Carew, canta "Then
crown my joys, or cure my pain; Give me more love, or more disdain" ("Poi incorona le mie gioie, o
cura il mio dolore; dammi più amore o più disprezzo").
Dal punto di vista musicale i Sonne Hagal, pur mettendo in scena un neofolk intimista, melanconico e introspettivo come da tradizione tedesca (Forseti, Darkwood), non disdegnano incursioni
in sonorità più sperimentali: è il caso di Thyme, con le sue tastiere e i suoi delicati effetti che ben
si sposano con il suono della chitarra acustica, o del finale di Gold, lasciato alle sole tastiere, prima
dell'evocazione di Devon, con le sue sonorità di derivazione industial in sottofondo. Molto ben
orchestrato, è anche il contrasto tra chitarra acustica ed elettrica in Of Dissembling Words, che
ricorda esperimenti analoghi dei Sol Invictus. Nel disco non mancano convincenti ballate folk
90
r e c e n s i o n i
n o v e m b r e
Sonne Hagal - (Luftschutz Entertainment,2014)
Marco De Baptistis
avere/essere un genere musicale).
Qui siamo nel più puro less is more à la Primus:
enormi bassi slappati e violoncellati, chitarre elegantemente sgraziate tra Marc Ribot
e South Park, batterie arte povera tra i King
Crimson new-wave e la chincaglieria circense
di Tom Waits. Ci sono anche un vero violoncello, suonato da Sam Bass (e a tratti pare di sentire il Captain Beefeheart più post-rock o i Pere
Ubu di Laughing), e una giocattolosa sbilenca
marimba, suonata da Mike Dillon (sarebbe
questo il Fungi Ensemble del titolo).
Per metà filastrocche – creepy – e per metà
assalti hardcore – gli unisono di strumenti e
voce – queste non sono cover, sono cover come
dovrebbero essere le cover, ovvero interpretazioni, traduzioni di mondi diversi che parlano
la stessa lingua, incontri a metà strada, fedeli
agli originali e trasfiguranti (gli adepti del Club
Bastardo troveranno tanti elementi sonori che
raccontano della continuità concettuale del
gruppo, epiche battute di pesca e critica all'american (way of ) life incluse). Il tutto come
suonato dentro una scatolina di metallo, immerso in un'atmosfera euforicamente claustrofobica che non può non ri-tirare in ballo loro,
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r e c e n s i o n i
n o v e m b r e
come, ad esempio, l'ottima After the Rain.
Le voci sono sempre valorizzate e ben dosate, non solo per il buon contributo del danese Kim
Larsen su ben tre brani, ma anche nei giochi d'incastri tra voci maschili e femminili, come avviene
splendidamente in Gold, con il duetto tra Oliver e Ericah Hagle degli Unto Ashes. Una menzione
speciale va anche alla voce di Leithana degli Ordo Equitum Solis nell'evocativa Morpheus, uno
dei migliori episodi del disco. Il brano si muove tra tastiere oniriche, una tromba melanconica e
campionamenti della voce di Franco Citti dal film di Pasolini "I racconti di Canterbury". Si tratta
del secondo racconto del film, quello in cui il diavolo incontra l'inquisitore.
Il disco si chiude con Assassins, in cui, tra suoni di colpi di fruste, i Nostri dicono la loro sulla
natura umana utilizzando all'inizio del brano la registrazione di un'intervista a Carl Justav Jung
in cui lo psicanalista, psichiatra e antropologo svizzero sostiene: "We need more understanding
of human nature, because the only real danger that exists is man himself. He is the … should be
studied, because we are the origin of all coming evil" ("Abbiamo bisogno di comprendere meglio la
natura umana, perché l'unico reale pericolo che esiste è l'uomo stesso. Egli dovrebbe essere studiato, perché siamo l'origine di tutto il male a venire").
Dischi come questo dei Sonne Hagal dimostrano un profondo stato di salute della scena neofolk
europea, capace ormai di superare gli stereotipi e le affettazioni che rischiavano di ingabbiare il
genere. Ockerwasser è un ottimo disco che può riuscire ad emergere e farsi apprezzare anche al
di fuori della cerchia degli appassionati di neofolk e del lavoro della band. Si tratta di una musica
che, pur evolvendosi e trasformandosi nel corso degli anni, non ha bisogno di effetti speciali o di
una pretenziosa – quanto vacua – ricerca d'innovazione a tutti i costi. I Sonne Hagal riescono ad
avere un proprio stile personale costruito su solidissimi riferimenti culturali che oggi possono fare
la differenza, soprattutto in un mondo sempre più superficiale e alla deriva.
8/10
i Residents. Disco minore, divertissement, di
altissima qualità.
7/10
Gabriele Marino
Genere: pop, funk
Due dischi in uscita contemporanea segnano il
ritorno del folletto di Minneapolis alla Warner,
dopo 18 anni e una serie di controverse vicende
contrattuali che lo avevano portato a cambiare
nome. Ora la possibilità di riedizioni del catalogo e una nuova versione di Purple Rain fanno
gola. Rumours su questo ritorno si sono susseguiti da inizio anno, seguiti da alcuni gigs a
sorpresa di Prince in Inghilterra e da una serie
di singoli. Art Official Age è album solista,
mentre Plectrumelectrum è stato realizzato
insieme alla touring band 3rdEyeGirl (Donna
Grantis alla chitarra, Hannah Ford Welton alla
batteria e Ida Nielsen al basso).
Art Official Age è un classico princiano soul,
funk e rnb, in cui l'artista rifà il se stesso più
canonico, con qualche upgrade recente tra
rap, musical, ballad, Nile Rodgers e Daft Punk
(l'opener Art Official Cage); prodotto, arrangiato, composto ed eseguito insieme a Joshua
Welton, è disco ideale per ripercorrere a grandi
linee la carriera del Nostro, riecheggiando antichi fasti. Trattasi di una sorta di concept con
voce narrante (di Lianne La Havas) in cui Prince si muove con agilità tra sussurri, ancheggiamenti e urletti. Il risultato è però abbastanza
modesto.
Plectrumelectrum potrebbe mostrare più di
un elemento di interesse, virando sulla coralità
e su un carattere psych funk rock, che dà nuova
linfa al musicista. Laddove si attenua la megalomania del personaggio e viene dato spazio
alla musica della band, migliora sensibilmente
l'ascolto. C'è energia e tensione, unità di insie-
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Teresa Greco
Robert Plant - Lullaby and… The
Ceaseless Roar (Nonesuch,2014)
Genere: rock
Ogni volta in cui Robert Plant pubblica un
nuovo progetto discografico, e ci invita ad
ascoltarlo e analizzarlo, ci mette a durissima
prova. Al tempo stesso dobbiamo ricordarci
chi è stato, un innovatore e un protagonista
del rock, un cantante dalla voce inconfondibile, frontman di una band che ha contribuito
davvero a scriverne la storia, e dimenticarcene
per sfuggire alle solite categorie prestabilite e
subito pronte per l'uso: con l'eccezione di No
Quarter, il live del 1994 in cui rileggeva canzoni dei Led Zeppelin con l'ex sodale Jimmy
Page, nessuno dei dischi solisti dell'artista
britannico è rimasto comodamente ancorato
ai fasti zeppeliniani. Dopo aver trascorso gli
anni Ottanta a modellare un hard rock pregevole, per quanto spesso vittima di una strana
ansia da prestazione, il signor Plant decise con
Fate of Nations che da quel momento in poi
sarebbe ripartito (quasi sempre) da zero, come
un girovago dall'implacabile sete di sapere,
contaminare, arricchire la propria tavolozza
con colori presi in prestito da culture e contesti
diversi (dal folk al bluegrass alle percussioni
mediorientali).
Lullaby and… The Ceaseless Roar, lavoro
numero dieci e primo per la Nonesuch, non è
r e c e n s i o n i
n o v e m b r e
Prince - Art Official Age (Warner Music
Group,2014)
me e voglia di divertimento finalmente. Pezzi
cantati anche dal resto della band rendono il
disco più vario. La via che Prince dovrebbe percorrere potrebbe decisamente essere questa,
visti i buoni risultati delle esibizioni live con
questa touring band. Anche se alla fine i pezzi non sono poi qualitativamente eccezionali,
finalmente possiamo dare al musicista il bentornato e un sette come voto cumulativo.
7/10
r e c e n s i o n i
– senza trascurare i lavori firmati JUJU con
Juldeh Camara per la Real World.
È un disco in cui si può perdere, che può far
innervosire i puristi ma anche far incantare
chiunque altro, questo Lullaby and… The
Ceaseless Roar. È il risultato del lavoro meticoloso di un artista che non rinnega l'illustre
passato (e perché mai dovrebbe?) ma che ha
deciso di non vivere di nostalgia – e questo
avviene proprio nell'anno in cui Jimmy Page
ristampa, un po' alla volta, gli LP storici dei Led
Zeppelin con materiale raro e inedito, con una
nuova rimasterizzazione digitale. La voce di
Plant oggi ha un fascino diverso: è consumata,
più educata e meno esuberante, le performance
sono calibrate eppur sincere. I testi sono ricchi
di immagini evocative, spesso poetici, a volte
personali; ognuno degli Spaceshifters ha dato
l'apporto alla scrittura dei nuovi brani, partendo da un'idea (un riff, una melodia al pianoforte) e sviluppandola in squadra. Ottimo il successo finora riscosso, anche in Italia – nazione
che ha un rapporto particolare con l'ex ragazzo
che debuttò con Our Song, cover in inglese del
classico La musica è finita di Umberto Bindi e
Franco Califano e portato al successo da Ornella Vanoni – dove Lullaby ha debuttato al n. 10
in classifica. Uno dei suoi album migliori, e uno
dei più intriganti del 2014.
7.8/10
Alessandro Liccardo
Röyksopp - The Inevitable End
(Interscope Records,2014)
Genere: pop, elettronica
È puramente un lavoro di vibrazioni, il nuovo
disco dei Röyksopp. Quando parte si sente tutta
l'eredità di Giorgio Moroder mescolata alla
cupezza dei vocoder dei Daft Punk nella metronomica e cupa Skulls: un monito che diventa
leit motif di tutto il disco. Svein e Torbjørn ci
hanno infatti confermato che questo ultimo
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un'eccezione alla regola ma anzi si rivela quanto di più vicino all'idea di disco "globale" che da
tempo Plant stava accarezzando. Come fotografie contrapposte, scattate in vari angoli del
mondo, motivi tradizionali vengono messi sottosopra al servizio di idee totalmente nuove (è
il caso di Little Maggie) mentre i brani autografi, sempre firmati insieme all'intero ensemble
che lo accompagna, spaziano come se niente
fosse dalle atmosfere alla Lanois del singolo
Rainbow - qualcosa a metà strada tra certi U2 e
il Peter Gabriel di Digging In The Dirt, con un
testo che incorpora la poesia Love Is Enough
di William Morris – al country elettrificato di
Poor Howard di derivazione Leadbelly passando per la byrdsiana Somebody There e le reminiscenze new wave filtrate in House of Love,
in forte odore di Echo and the Bunnymen. A
modo suo, Robert Plant si lancia anche in sottili
autocitazioni: la strofa di Pocketful of Golden
parte con "And if the sun refused to shine",
quasi come Thank You, e c'è qualcosa di Nobody's Fault But Mine nel riarrangiamento della
già citata Little Maggie. Nel gioiello Embrace
Another Fall, stratificato ed etereo al punto da
riportare al Bryan Ferry di Mamouna, torna
la cantante gallese Julie Murphy con cui il
nostro cantò Life Begin Again nel 2003 per una
collaborazione con gli Afro Celt Sound System, mentre House Of Love sembra il naturale
seguito del brano con lo stesso titolo comparso
nel 1998 in Walking Into Clarksdale ("When
I think about it now…"). Nonostante le citazioni
fatte scivolare, il tutto suona fresco e audace,
anche grazie all'aiuto di professionisti come
John Baggott al piano e alle tastiere (già collaboratore dei Portishead, di Beth Gibbons e
Rustin Man in Out of Season e di Alison Moyet
in Hometime), Liam "Skin" Tyson che negli
anni '90 era il chitarrista dei Cast e Justin
Adams, musicista degli Invaders of the Heart di Jah Wobble e in studio con i Tinariwen
Genere: rock, avant
Spalmato su un lato solo del vinile 12" coprodotto da Wallace, Brigadisco,
Unhip e PhonoMetak Labs, Don Kixote è l'ennesimo passo oltre per i
due Shipwreck Bag Show Roberto Bertacchini e Xabier Iriondo. Strumentalmente parlando, ma anche dal punto di vista "ideologico". Come
intuibile dal titolo, Don Kixote è una riflessione su uno dei personaggi
più utopici, bizzarri, sognatori e deflagranti che la letteratura mondiale
abbia mai creato; anzi, ne è una sorta di celebrazione, una specie di epifanica esplosione sotto forma di catarsi free-rock bruciante e portata agli eccessi, perfettamente
in tono con l'indagine su una figura così sfaccettata eppure così umana nel suo eccesso di (lucida)
follia legato alla voglia di conoscenza.
E della follia i due non fanno a meno, travisandola sotto forma di velocità vertiginose e furia sonora, ruvidezze noisey e fratture ritmiche: il tutto condito da una teatralità fortemente marcata – le
voci, in particolare quella di Bertacchini, al solito asincrona, sfasata, aritmica ma tremendamente
suggestiva e caricaturale in certi passaggi – e da una attenzione al grottesco come forma di analisi
e denuncia che raramente si riscontra altrove.
Scorrono così, veloci come le vicende della strana coppia Don Chisciotte and Sancho Panza, le dieci tracce del lavoro, tra sbuffi no-wave (L'Hidalgo Forte) e assalti al calor bianco (Riparare I Torti,
I Pastori E Gli Eserciti Nemici), cataclismi ritmici pronti a sfaldarsi in un trionfo cacofonico (Non
C'è Storia Che Non Sia Cattiva) e avant-rock disgregato alla maniera degli Starfuckers (I Giganti
Dalle Braccia Rotanti), disturbi elettrostatici e voci che si rincorrono (Prima Che Faccia Sera) e
free-noise sporcato di (free)jazz (Né L'Interesse, Né Il Rancore, Né La Paura), a cui si aggiunge la
conclusiva Dulcinea: vera e propria suite, racchiude in sé la metà della durata dell'intero lavoro e,
svolgendosi tra blues astratto, polveri desertiche, pastorali arcaiche e deliqui ipnotici, diviene il
fulcro dell'intero lavoro.
Disco fulminante e micidiale, Don Kixote è, nonostante la sua brevità, album dal notevole spessore e dalla ottima riuscita, che consacra alla visione "fantastica" e folle dell'anti-eroe spagnolo il
furore di due musicisti encomiabili nella loro continua ricerca.
7.5/10
Stefano Pifferi
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The Shipwreck Bag Show - Don Kixote (Wallace Records,2014)
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Air-avec-Tellier.
C'è poi qualche ricordo a Melody A.M. e a The
Understanding in Save Me e in Coup De Grace
e qualche altro sguardo al passato in pezzi più
dancefloor come I Had This Thing. Il disco
conferma tutto quello che già sapevamo di
Svein e Torbjørn senza spostare la qualità, nè
in alto nè in basso. Rileggendo l'intera discografia capiamo oggi come Junior e Senior siano
serviti ad utilizzare elementi orchestrali e di
arrangiamento al tempo considerati interlocutori, che insieme alle malinconie degli esordi
definiscono oggi invece un piccolo grande
classico. Grazie ragazzi, peccato che sia l'ultimo disco. Noi ci eravamo affezionati a voi, al
vostro mondo e ai vostri dischi. Alla prossima,
sia essa singolo, live o qualsiasi altra forma di
spettacolo.
7.7/10
Marco Braggion
Santo Barbaro - Geografia di un corpo
(diNotte Records,2014)
Genere: cantautori, wave, post-punk
Si chiude una porta e si apre un portone, diceva
qualcuno. I Santo Barbaro, dopo un (terzo)
ottimo disco – purtroppo poco recepito dal
pubblico – come Navi, avevano deciso per
l'eutanasia. Non fosse che in punto di morte, la
band di Pieralberto Valli e Franco Naddei, una
volta sturato l'esistenzialismo ottundente ma
necessario in quell'album, si imbatte nel corpo.
"Corpo come antitesi alla prigionia della mente, come terra, spazio fisico e cosmico fatto di
boschi, avvallamenti, cieli e isole in interazione con altri corpi-isole. Ma anche come unico
mezzo per arrivare ad una altezza spirituale
che ci fa viventi, solitari eppure mai soli".
Da dove ripartire, dunque, per rinfocolare motivazioni ed entusiasmo? Nello specifico, dalla
contingenza dell'interazione e dell'imprevisto,
per celebrare quella variabile impazzita e un
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lavoro in formato album è stato pensato con
un mood da "canto del cigno", una specie di
omaggio e addio all'oggetto musicale stesso, a
quella scatoletta sonora che contiene da sempre le gioie e i dolori di ogni musicista, sangue
e anima, intimo e pubblico.
Ma come "finiscono" i due nordici la prima parte della loro carriera? Plastificandosi, diventando un monumento, una fotocopia robotica di se
stessi, che trova il tempo di guardarsi indietro,
mescolando gli anni '80, le pulsioni tardoadolescenziali di quando ascoltavano Torske alla
radio (qualcuno potrebbe azzardare un parallelo con i Modern Talking in Monument), viaggiando su un territorio ovviamente influenzato
dall'italo-disco, ma anche da tutto quello di cui
loro sono stati profeti: quella scuola nordic che
si è tenuta in vita grazie al rispetto del passato,
all'uso sapiente di strumentazioni e mixaggi
vecchi, ma non datati, di personaggi che hanno
mandato avanti un'idea di pop applicato alla
dance senza troppi fronzoli, se vogliamo balearico nella sua essenza.
Un discorso generazionale per molti dei loro
fan (e anche per chi scrive), fan che anagraficamente viaggiano sui quaranta e che hanno
ballato nei noughties al suono degli epigoni/
compagni di banco Lindstrøm, Prins Thomas,
GusGus e Todd Terje. Sven e Torbjorn sanno
mettere le cose a punto, chiamano i collaboratori più indicati: l'amica Robyn, già ascoltata
in qualche album precedente e nello split di
qualche mese fa, la voce dark di Jamie McDermott degli Irrepressibles in quattro pezzi che
portano una sensibilità post-soul contemporanea al tutto, Susanne Sundfør, cantautrice
pop di grande successo in Norvegia (ex backing
vocalist di Björk e già sentita nella colonna
sonora di Oblivion degli M83), che sa colpire
al cuore in Running to The Sea, e per chiudere
Ryan James nella già citata Sordid Affair, che
è piena guardacaso di francesismi già noti à la
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Androide, Corpo non menti sembra quasi un
brano in stile Black Rebel Motorcycle Club,
Finché c'è vita rimanda all'anoressia sonica
della PJ Harvey di To Bring You My Love, In
memoria di nessuno è psichedelia narcotica
di ottima fattura. Eppure, nonostante il linguaggio si sia fatto più riconoscibile, rimane
ben presente quella inquietudine obliqua che
abbiamo imparato ad associare alla band e che
qui guadagna nuova linfa, pur mettendosi in
gioco. Solo per dire che la scommessa ci pare,
alla fine, vinta.
7.1/10
Fabrizio Zampighi
Stars - No One Is Lost (ATO,2014)
Genere: pop, rock
I canadesi arrivano con No One Is Lost al
settimo album, un traguardo di tutto rispetto.
Passato il periodo d'oro (il brillante pop orchestrale di Set Yourself On Fire, 2004, e In Our
Bedroom After The War, 2007), gli ultimi due
dischi – The Five Ghosts, 2010, e The North,
2012 – li avevano visti sottotono, abbastanza
appannati in intensità e qualità.
L'indie synth-pop di Amy Millan e Torquil
Campbell (che si alternano alla voce) è per
fortuna in ripresa: l'ottimo opener From The
Night, primo singolo, ce li restituisce in gran
forma, in pieno dance club Ottanta. Il fatto di
aver registrato il disco sopra un nightclub di
Montreal ne ha indubbiamente influenzato il
mood. Non mancano la giusta tensione emotiva
e i pezzi azzeccati, in bilico tra dance e pop,
sonwriting retrò e malinconie assortite, crescendo e chorus assassini, tutti elementi che
ne hanno fatto la fortuna soprattutto negli anni
passati.
No One Is Lost ha spunti new wave (This Is
The Last Time, Are You OK?), ballad (Look
Away, Turn It Up, What Is To Be Done?), ma
soprattutto tanto ritmo, che arriva nella fina-
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po' neorealista (in tempi di laptop a oltranza)
che risponde al nome di "interplay". Registrare
un disco live in brevissimo tempo, arrangiandolo sul momento con tutti i musicisti coinvolti
e conservando quello che viene fuori, qualsiasi
cosa sia. L'esatto opposto di quanto fatto per
Navi, dove invece si era decostruito e ricostruito, con un lunghissimo lavoro in studio. Questa
volta bastano pochissimi giorni di registrazione, un'approccio da buona la prima, un microfono panoramico o poco più, ma soprattutto
una famiglia di corpi – in tutto nove – chiusa
in un'unica stanza (il Cosabeat): oltre al duo
Valli-Naddei, ci sono infatti Michele Camorani
(batteria), Matteo Teio Rosetti (batteria), Diego
Sapignoli (percussioni), Lucia Centolani (percussioni), Francesco Tappi (basso), Roberto
Villa (basso) e Michele Bertoni (chitarra), parti
integranti del progetto e non semplici comprimari.
Il risultato di questa collisione di intenti è un
suono fisico e in qualche modo atipico, per la
formazione romagnola, un post-punk riconoscibile come tale, ma sufficientemente angolare da non suonare scontato. Ascolti giovanili
che si trasformano in uno stream sonoro quasi
sempre circolare, col marchio Santo Barbaro
avvitato sulle ritmiche sghembe (Cosmonauta) o percussive (Pavlov), su certe atmosfere
oscure e metalliche (una La necessità di un'isola che sembra rimandare all'immaginario dei
Bachi da Pietra), nel cantato sussurrato, nei
testi ermetici e reiterati. E' un sistema estetico che bada a far fremere l'attenzione di chi
ascolta con lo spleen, più che con un approccio
cerebrale, pur senza cadere nel tranello della
banalizzazione.
Il disco della "ripartenza" è anche il disco delle
citazioni più riconoscibili (anche questa, una
novità in un universo Santo Barbaro solitamente autarchico): il cantato di Valli sfiora i CCCP,
ma anche i primi Diaframma, in Lacrime di
le title track a riprendere i battiti di From The
Night e a chiudere il cerchio, in un crescendo
synth pop. Un inno a "speranza, paura, gioia,
tristezza, sesso, amore, morte": "put your hands
up because everybody dies / put your hands up
if you know you're going to lose". Con la notte
che esorcizza paure e fantasmi. Bentornati.
7/10
Teresa Greco
Genere: rock
Tre anni sembrano essere diventati lo iato standard tra un disco e l'altro per la band torinese,
giunta con questo Una nave in una foresta al
titolo numero sette in diciotto anni di carriera.
Salvo qualche aggiustamento – il piglio sensibilmente più brusco, una certa libertà nell'utilizzo di espedienti sonici – si tratta di una
riproposizione a tavoletta del Subsonica-sound,
un precipitato synth-wave con ammiccamenti
techno, downbeat e jungle, gli anni Novanta
che celebrano la simbiosi tra sentire rock e
movenze digitali, alla luce (faretti radenti, sincopati, obliqui da labirinto disco) di una consapevolezza sociale che sterilizza nella culla le
tossine del disimpegno.
Potremmo discutere su quanto il loro "impegno" abbia finito per disinnescarsi sulla grammatica del politically correct, implodendo in
una sorta di bozzolo poetico che s'infrange sulla causa prima che diventi lotta, ma per quanto
mi riguarda non è questo il punto. Il punto è
che nel frattempo il fronte ci è passato sopra la
testa, quelle sonorità hanno perduto la presa
col presente, sono rimbombi di retroguardia
che fanno scattare l'allarme solo di chi ha preferito restare a guardia del proverbiale isolotto
in mezzo all'oceano dei rivolgimenti stilistici. Scelta lecita, ma che diventa peccaminosa
quando s'illude di possedere ancora i codici più
Stefano Solventi
Surgical Beat Bros - Surgical Beat Bros
(From Scratch,2014)
Genere: avant, impro, elettronica, mathcore
Attivissimi nella scena romana sperimentale
con i loro progetti madre Neo, Mombu, Germanotta Youth e Pharm, Antonio Zitarelli e
Fabio Reeks Recchia (rispettivamente batteria
e macchinari) convogliano forze e lucidissima
follia nei Surgical Beat Bros.
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Subsonica - Una nave in una foresta
(Universal,2014)
aggiornati per sbloccare il rompicapo della vita
moderna.
Accettato quindi di giocare la partita con
indosso la casacca dei nostalgici, va detto che
il disco funziona esibendo le qualità note, su
tutte la capacità di congegnare sussulti assieme
chitarristici e digitali sollevati da un respiro
melodico ad alta temperatura in cui riesci ad
avvertire il germe sano della convinzione: è
buona Attacca il panico (spasmi rock strattonati breakbeat), intrigante Ritmo Abarth (capricci
arty e incastri potenti) e suggestiva Licantropia
(radiazioni bluesy in una foschia rap). Anche i
limiti sono gli stessi, ovvero una calligrafia che
va oltre il riconoscibile inciampando nel prevedibile, prodigandosi in esiti melodici didascalici che il buon Samuel non riesce (non ne ha i
mezzi) a riscattare. Si senta come in Specchio
ciò che poteva/doveva essere sardonico finisca per stemperarsi in un'arguzia agrodolce, o
come ne I Cerchi Degli Alberi certi interessanti
cubismi robotici vengano neutralizzati da un
ritornello che trasuda radiofonia sciropposa.
Più accettabile – perché sfacciata – l'orecchiabilità del singolo Di Domenica, cartiglio 80s
con le giuste vibrazioni malinconiche come
dei Depeche Mode sognati durante un coma
vigile iperglicemico. Non si può rimproverare
ai Subsonica di essere i Subsonica. Ma loro un
po' ci marciano.
5.8/10
Genere: cantautori, dream, folk
The Innocents era il titolo originale del film di Jack Clayton del 1961, con Deborah Kerr, da noi
ribattezzato Suspense e incentrato sul Giro di Vite di Henry James. Capolavoro dell'horror suggestivo e suggerito, sul modello noir della RKO, dove nulla è esattamente come sembra. Una caratteristica che si addice anche a Natalie Mering. Il suo folk eterno, fuori dal tempo e dallo spazio,
sembra la calligrafica riproposizione di secoli di musica già sentita. Tutto molto chiaro e semplice
in superficie, salvo per chi voglia scendere nel dettaglio e scoprire la maniacale complessità delle
trame di una musica che al secondo lavoro maggiore (le prime prove sono davvero troppo underground per essere prese in considerazione), piazza una collezione di dieci canzoni da vertigine.
Sarebbe stato difficile per chiunque dare un seguito ad un piccolo capolavoro come The Outside
Room, tanto che Natalie non ci prova neppure. Il modello non sono più Nico o Catherine Ribeiro, perché non esistono più modelli predefiniti. The Innocents è un lavoro che non nasconde
la sua ambizione, che è quella di disegnare i contorni della propria musica, con una grafia che
sia la propria e di nessun altro. Un traguardo che non raggiunge quasi nessuno, specie negli anni
dell'appiattamento generalizzato sui modelli del passato. Ci è riuscita solo Fursaxa con Kobold
Moon e ci riesce ora Weyes Blood con madrigali folk dalla melodia all'apparenza semplicissima
come Land of Broken Dreams e Hang On, dove c'è sempre qualcosa pronto ad agitare una tela che
si pensa di conoscere: un campionamento, una doppia voce, una parte d'organo e, quasi come a
sottolineare lo status, ormai raggiunto, di autrice maggiore, non ci si fa mancare neanche il piano
intellettuale e dreamy di Some Winters, e la chitarra liquida sul modello di Tim Buckley di Summer.
Ma il vero trademark è l'umore arcaico, quasi medievale, sempre presente in tutte le sue composizioni, attraverso piccoli o grandi elementi, come se fosse una venatura sinistra, che a volte è più
pronunciata, come in Requiem For Forgiveness o February Skies, di fatto due romantiche ballad
per amanti eroinomani, a volte più nascosta come nei giri di una chitarra apparentemente solare,
vedi il caso di Ashes. Poi ci sono gli episodi del tutto alieni: il fingerpicking magico di Bad Magic,
che la eleva al livello della Bridget St. John di Ask Me No Questions, e Montrose, strumentale
malinconico, quasi in presa diretta, che testimonia anche del periodo di creazione di queste canzoni, sola in una stanza, in completa solitudine, lontana da un'attualità social-connessa che respinge. Erano anni che non si sentiva un disco folk così coinvolgente e riuscito, probabilmente dal
Colour Green di Sibylle Baier, che certo non possiamo definire figlia dei nostri anni. La saggezza
nel sangue di Natalie Mering ha radici profonde e qualità antiche.
7.6/10
Antonello Comunale
Miscela distruttiva di elettronica e free-afrobeat-metal ribattezzata dagli stessi protagonisti
come pop chirurgico, Surgical Beat Bros si
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discosta notevolmente dalle produzioni passate dei due musicisti, proponendo una formula compositiva estremamente complessa
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Weyes Blood - The Innocents (Mexican Summer,2014)
Andrea Murgia
Flaming Lips - With a Little Help
From My Fwends (Warner Music
Group,2014)
Genere: rock
Da tempo annunciato per lo sconcerto e la curiosità di fan e addetti ai lavori, ecco il tributo
al Sergente Pepe organizzato dai quanto mai
zuzzurelloni Flaming Lips, che per l'occasione
hanno coinvolto una pletora di "fwends" tanto
importante quanto imprevedibile (da J Mascis
a Foxygen, dai My Morning Jacket a Moby).
Partiamo però dal dato più clamoroso e chiacchierato: il coinvolgimento di Miley Cyrus
in Lucy in the Sky With Diamonds e A Day In
The Life. Che detta così suona un po' come far
riscrivere On The Road a Fabio Volo. Ebbene, il
punto mi sembra proprio questo, cioè il collassare di tutto – anche di questi archetipi sommi
del pop-rock arty – in un calderone pop che
omologa linguaggi visionari e congetture radiofoniche, follia e mestiere, mistero e sensazione.
Sensazione, già: da un pezzo sembra che i Lips
inseguano soprattutto il gusto della performance sensazionale, del gesto che scuota il flusso
dell'intrattenimento standard proponendosi
come alternativa straniante, al limite persino
aliena (col rischio di scadere nel sottoprodotto
del sensazionalismo, ovvero una blanda trasgressività).
Ma resta pur sempre intrattenimento, festa
dell'avvenire sonico come spettacolo d'arte varia in technicolor, petardi, megafoni e cotillon.
Il limite di tutto questo sta nell'aver sostanzialmente già sperimentato tutto il repertorio,
tanto che sembra di assistere a replay su replay
dei concerti-happening del periodo Yoshimi,
con la differenza che allora facevano fatica a
conquistare passaggi su MTV mentre oggi è
più o meno quello il target dichiarato. Se però
la faccenda rischia di sembrare arida è perché
il versante musicale sembra essersi attestato su
soluzioni che non riescono più a stupire, una
specie di calligrafia a base di vampe, sincopi,
sbuffi, svalvolate siderali e ghirigori androidi
che, pur conservando una grana dadaista, si
profila sempre più come una parata di cliché.
Vedi lo scenario acido e malfermo di With a Little Help From My Friends, col call and response tra il fosco e lo psicotico dove Coyne gioca
all'invettiva scorticata un po' a gratis. Quanto a
Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band (con My
Morning Jacket, Fever the Ghost e J Mascis),
timbra il cartellino stritolando bassi in un viluppo di falsetti e vocoder senza mai oltrepassare la
soglia del prevedibile. Fa meglio la versione reprise (a cura di Foxygen and Ben Goldwasser),
trasfigurata lo-fi sotto una coltre sonica electro
funky, col condimento di assolo acido, barriti di
trombone e bambagia fuzz. Peccato perché The
Terror aveva un indirizzo sonoro ben preciso
e strutturato, e persino sotto l'egida Electric
Würms i Nostri hanno dimostrato di saper
svariare ancora in maniera convincente. Würms
che tra l'altro rifanno qui Fixing a Hole disim-
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r e c e n s i o n i
ma, inverosimilmente, ballabile e fresca. Se
già in precedenza i Battles mischiando funk,
indie rock, post rock e elettronica avevano già
in qualche modo sdoganato l'ancheggiamento
negli ambienti colti del math rock, il duo romano osa di più, rendendo accessibili strutture
metriche articolate e tortuose trasformando, in
poche parole, l'indanzabile in danzabile (No! e
Techno Ruzzle su tutte).
Simili per attitudine agli inglesi Three Trapped Tigers, ma orientati più verso il free jazz
sperimentale, i Surgical Beat Bros (bravissimi
anche dal vivo, dove riescono a sprigionare
tutta l'energia espressa su disco) superano
agilmente la difficile prova del disco d'esordio,
portando una ventata di freschezza nella scena
sperimentale italiana.
7.2/10
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Stefano Solventi
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The Youth - Nothing But… The Youth
(Dirty Water Records,2014)
Genere: rocknroll, pubrock, garagerock
Saranno stati i primi anni Duemila quando
chi scrive lesse su una rivista il nostro Stefano
Solventi (i lettori perdoneranno il carattere
inter nos della cosa, ma è giusto dare a Cesare
ciò che è di Cesare) porre la fatidica domanda:
"Vi siete mai chiesti se arriverà mai un giorno
in cui questa cosa chiamata rock'n'roll comincerà ad annoiarvi?". Domanda legittima, a ben
pensarci. Persa la sua centralità – come dicono
i più avveduti – il rock ormai pare un simulacro
poco originale e poco rappresentativo di quello
che una volta era il suo referente principale,
ovvero la gioventù. Da qui tutte le teorie retromaniache, tutte le considerazioni sul peso
dell'originalità e del nuovo. Tutto giusto, tutto a
posto, tutto sensato.
Poi però arriva un dischetto di un quartetto
esordiente danese – The Youth si fa chiamare
– e tutte queste considerazioni saltano per aria,
e il revival, il passatismo, lo sguardo rivolto
all'indietro paiono cose non solo belle, ma
giuste. Dentro ci trovi l'r'n'b, i Kinks, il garage,
i Troggs, tutto un mondo semplice di chitarre
battenti e senza fronzoli, ritmi dritti, canti e
controcanti, e il piede non smette di muoversi.
Per carità, nessuna rivoluzione, nessuna rivelazione che scarnifichi il passato e lo faccia
sembrare nuovo. Davvero, ai The Youth pare
davvero importare poco. A loro sembra che i
Sixties siano qui ed ora.
Sono tredici brani per poco più di mezz'ora che
non vogliono convincere nessuno, non vogliono
conquistare arruffianandosi l'ascoltatore: sono
brani in cui il marchio del "se vi piacciono questi suoni amerete questo disco" è impresso con
forza. Ballabili, a volte rabbiosi, a volte gioiosi,
a volte entrambe le cose, i pezzi qui contenuti
(dall'iniziale Come On ­– tra i migliori episodi,
un garage-roll a rotta di collo, trascinante – al
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pegnandosi tra brezze spacey e bassi brumosi
come degli Air nevrastenici: qui e in Within You
Without You (per la quale si sono scomodati
Birdflower e Morgan Delt), col suo slancio
psych suadente che impasta folk, elettricità ed
elettronica, sembra che le potenzialità della
canzone tornino per un attimo al centro della
scena, forse proprio perché si tratta di pezzi
relativamente meno noti, in ogni caso i risultati
sono apprezzabili.
Quanto al resto, potremmo sintetizzare come
una serie di tentativi abbastanza estemporanei
e non propriamente geniali di scompaginare
tracce impresse a fuoco e a fondo nella memoria personale e collettiva. A qualche momento
gustoso – il freak folk sotto metadone di Getting
Better, l'impertinenza synth wave di Lovely Rita,
il cabaret post-punk di Being for the Benefit
of Mr. Kite! – corrisponde un generale senso
di inadeguatezza, a partire forse dall'idea di
coinvolgere così tanti personaggi, le cui diverse
attitudini hanno finito per smorzarsi nelle linee
guida del progetto. L'aridità emotiva cui approda When I'm Sixty-Four (per la smania di sacrificare il trasporto swing dell'originale sull'altare del disincanto ludico contemporaneo) e la
decostruzione didascalica della succitata Lucy
sono forse gli episodi più avvilenti, mentre la altrimenti epocale A Day In The Life dopo essersi
piegata ad una variazione hip hop sottovuoto
per la voce felina e imbronciata della Cyrus, può
almeno vantare l'intuizione migliore del disco,
ovvero un disinnesco improvviso piuttosto che
confrontarsi con la deflagrazione atomica di
pianoforti dell'originale.
Non resta che augurarsi che venda comunque
moltissimo, visto che gli incassi verranno devoluti a The Bella Foundation, un'associazione di
Oklahoma City che si occupa di salvaguardia e
adozione di randagi.
5.5/10
pub rock di Bubblegum, da About To Run in cui
i danesi paiono i Black Lips migliori alla dolce,
sconsolata, Baby I'm Back, che si direbbe vergata da Question Mark and The Mysterians)
rappresentano un rimando continuo ad una
nostalgia lievissima che trascolora nella gioia,
nella fortuna, nella consapevolezza che no, il
rock'n'roll, per quanto invecchiato, pare davvero non riuscire ancora ad annoiarci.
7/10
Andrea Macrì
Genere: rock, orchestrale_sinfonica
Sulle ambizioni di Jack Barnett si è già detto
molto, forse tutto, da quando nel 2008 i suoi
These New Puritans esordivano con Beat
Pyramid. Se ne è parlato per le dichiarate
intenzioni di costruire un suono complesso,
multisfaccettato, che attingesse tanto all'ambito pastorale così importante per il pop-rock
anglosassone, quanto all'ambito della classica
(e anche qui, il suono inglese della classica
del Novecento è intriso di pastoralità, certo
declinata in maniera diversa da quanto fatto
da Radiohead e Robert Wyatt). Una tensione
verso un marchio sonoro che comprendesse
un carattere di certo non diretto, umbratile
e variegato, che macinasse molte influenze
musicali, antiche e moderne, nuove e vecchie,
sempre però con l'impressione un po' snob, un
po' intellettuale, che andasse bene tutto meno
che ciò che è diretto come una struttura poprock strofa-bridge-ritornello. L'esplorazione è
proseguita con le opere numero due, Hidden,
e tre, Field of Reeds, che nonostante conservassero tutta l'ambizione dell'esordio, non sono
state in grado di chiudere il cerchio e muovere
un passo davvero concreto verso la realizzazione di ciò che appare chiaro nella teoria di Jack
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r e c e n s i o n i
These New Puritans - Expanded. These
New Puritans Live At The Barbican
(Infectious,2014)
Barnett.
L'occasione migliore per misurare queste ambizioni è, o dovrebbe essere, questo E-X-P-AN-D-E-D, una serie di concerti in cui al nucleo
originale è affiancata sul palco un'orchestra di
35 elementi, un coro di 8 voci (4 maschili e 4
femminili), ovveero il Synergy Vocals, oltre
a una vocalist (Elisa Rodrigues). Quella data
alle stampe è la registrazione della serata del
Barbican della scorsa primavera, dove la band
ha eseguito per intero (e nello stesso ordine
del disco) i brani dell'ultimo Field of Reeds,
più alcuni estratti dai dischi precedenti. C'era
cioè l'occasione di espandere verso qualsivoglia
direzione (visto anche il budget a disposizione della "band indie con il budget del mainstream") il materiale già sedimentato e dargli
qualsivoglia forma. Magari anche quella che
collima con le ambizioni di Barnett e soci. Ma
non è successo. Il programma non si discosta,
nella struttura e nella forma, da quello che già
si è sentito su disco: siamo di fronte a un discorso musicale detto bene, ma che dice poco,
per parafrasare Caliri in sede di recensione.
A cominciare dalle melodie, che non colpiscono, che non hanno una qualità tale da essere
scavate, analizzate, stirate, compresse, manipolate, con tutte le sfumature timbriche e modali
possibili, con tutto l'arsenale a disposizione.
Non si vorrà fare pop, ma non è che le melodie
o, meglio, le linee melodiche (anche a brandelli) contino di meno nella contemporanea, sia
essa seriale, atonale, neoclassica o qualsivoglia
sotto genere postmoderno. E già questo limite,
per chi scrive, era evidente in un missaggio di
Field of Reeds che annegava la voce fin quasi
a farla scomparire, quasi un'ammissione di resa
delle linee vocali nei confronti del tutto, dove
però l'impressione che se ne ricavava in sede di
album era di un leggero fastidio. Questo è ancor
più vero per i brani che già sembravano noiosi
in prima battuta: l'aggiunta dell'orchestra non
101
n o v e m b r e
102
capiamo per nostri limiti: ora è manifesto che
non c'è niente da capire.
5/10
Marco Boscolo
This Will Destroy You - Another
Language (Suicide Squeeze
Records,2014)
Genere: post-rock
Post rock. Ogni volta che si mette su un disco
vagamente post rock (o anche pienamente post
rock), piomba sempre al centro del cervello
la medesima domanda: ha ancora senso, oggi?
Si rischia, come per molti altri sottogeneri del
rock e di molte altre discipline, di scivolare
nella speculazione sterile, con il risultato che
nulla ha senso quindi tutto ha motivo di esistere. Perché però col post rock questo discorso è
più pronunciato? Come mai si vedeva in esso
– in modo grossolano – la fine di tutto quel che
c'era stato prima? Perché la sua fiamma è durata poco, alimentata da un lato da alcuni discreti
se non ottimi risultati artistici e, dall'altro, da
una critica che aveva bisogno, per semplicità di
comunicazione, di un nuovo genere?
È questo il contesto – fatto più di domande
che di fondamenta solide – dal quale spunta in
rilievo il nuovo disco dei This Will Destroy
You, quartetto texano qui al terzo album in studio. Sotto la supervisione di John Congleton
(quest'anno, ad esempio, già a lavoro coi Cloud
Nothings), la band sfodera un album che, più
che sull'estetica piano-forte, sulla forza dello
strumentale, sulle strutture aperte – tutte cose
che ci sono, per carità –, va letto dal punto di
vista emotivo, etico, interiore.
Rispetto ai compagni di merende sonore (gli
stracitati Explosions In The Sky o gli Isis), i
TWDY sono meno violenti a livello ritmico e
chitarristico quando decidono di picchiare forte, e lo sono anche rispetto ai dischi precedenti.
Risultano invece ugualmente profondi quando
r e c e n s i o n i
li ha resi più scintillanti.
Usare tanta strumentazione, mescolando
digitale e analogico, non significa raddoppiare
le linee melodiche sfruttando l'unisono. Non è
obbligatorio passare al confronto con le variazioni sulle melodie di bachiana memoria, ma
in molti brani (non staremo nemmeno a elencarli, perché sarebbero tutti quelli in cui canta
Barnett) lo strumento principale (sia esso il
pianoforte o il vibrafono) esegue la stessa successione di note che eseguono sia Barnett che
Elisa Robrigues. In alcuni casi questo si verifica
anche per gli archi e i fiati. Ora, tecniche compositive che fanno ricorso massiccio all'unisono sono la forza di molte composizioni di Arvo
Part, per esempio, ma nella serata del Barbican
registrata e qui riproposta sanno di soluzione
cheap, come dicono gli anglosassoni. L'effetto
è ancor più controproducente sul piano delle
ambizioni dei These New Puritans, perché l'unisono ha quell'effetto sul piano emotivo, della
pancia, che è proprio tipico del rock che qui si
vorrebbe evitare.
Questa tecnica arrangiativa, inoltre, ha lo
svantaggio di esporre il più grosso limite tecnico della band: le capacità vocali di Barnett,
che messe a confronto con una cantate vera, lo
fanno sembrare un debuttante allo sbaraglio. Il
suo mormorio a denti stretti, se può funzionare
come strumento espressivo in campo rock, in
uno scenario amplificato dalla versione expanded del sound These New Puritans mortifica in
maniera impietosa il cantato del leader.
Le cose vanno paradossalmente meglio per We
Want War e Three Thousands, dove si recupera un lato più percussivo e movimentato (più
rock?) all'interno di una serata che altrimenti sarebbe risultata monocorde. In sostanza,
questo live expanded è una documentazione
che farà felice i fan, mentre agli altri sembrerà
finalmente che non si tratti dell'ennesimo capitolo di un monologo che – ci viene detto – non
Andrea Macrì
Thurston Moore - The Best Day
(Matador,2014)
Genere: rock, noise
Avevamo lasciato Thurston Moore tra
un album di ispirazione folk, Demolished
Thoughts, e il disco dei Chelsea Light Moving, in cui si misurava con un rock più classico di quello solitamente nelle sue corde. Lo
ritroviamo solista con una band nuova di zecca
il cui fiore all'occhiello sono Steve Shelley e la
bassista Debb Googe (My Bloody Valentine)
e un disco che è una sorta di terza via alla sua
carriera post-Sonic Youth rispetto a quelle
r e c e n s i o n i
ultime uscite – mettendo un attimo da parte
collaborazioni e dischi più sperimentali – di
cui riprende gli elementi acustici (Demolished
Thoughts) e classic (i Chelsea Light Moving),
facendosi preferire nettamente almeno al disco
dell'ultima band. Allo stesso tempo, The Best
Day si riconnette in maniera fluida al passato,
puntellando il consueto repertorio chitarristico con azzeccate controparti armoniche e di
arrangiamento.
Speak to the Wild farebbe pensare a un ritorno
ai Sonic Youth (e, perché no, un po' più indietro, ai Television) in linea con le ultime produzioni del gruppo. Ma da Forevermore, che
si tinge di psichedelia (e, perché no, anche di
kraut rock e di Velvet Underground), le cose
si fanno più semplici e più complicate al tempo
stesso. Semplici perché è il suo stile – se non
nei dischi più sperimentali e free, è difficile
immaginare di sentirlo abbandonare le intro a
base di armonici arpeggiati o l'incedere deciso
ma lineare di certi affondi di chitarra, i climax
potenti o i riff dissonanti –, complicate perché
il songwriting è scorrevole e sufficientemente ispirato, mentre le strutture dei brani sono
abbastanza frastagliate da riempirsi di sfumature, in particolare nei duetti tra le chitarre di
Moore e James Sedwards: in Tape si sentono
il folk-rock anni '60 e le spectacular commodities delle linee minimali di Glenn Branca, Best
Day nasconde l'assolo più rockettaro, quasi
un'anomalia per il Nostro, spuntano i Fall in
Detonation, mentre la strumentale Grace Lake
ricorda un po' alla lontana la All World Cowboy
Romance dei Mission of Burma.
Parlare di conferma dopo trentacinque anni
fa ridere, di nuovo corso è eccessivo. Semplicemente, si tratta di un buon disco, che non
scontenterà ma – soprattutto – non annoierà
chi ha seguito o vuole seguire le vicende di un
musicista ancora troppo curioso e onnivoro per
timbrare il cartellino discografico. Lapalissia-
n o v e m b r e
si tratta di cullare, che poi è un cullare minaccioso, sullo stile dei Godspeed You! Black
Emperor: una madre che ti dondola mentre la
casa è sotto i bombardamenti. Ok, in Another
Language non ci sono umori politici o passeggiate tra i rottami della Storia, ma la tensione
è presente: sembra di stare fuori dalla Storia e
dentro ad un romanzo di Cormac McCarthy,
davanti ad enormi albe fredde su pianure brulle.
Questi paesaggi sonici al confine tra il post rock
stesso, lo shoegaze degli Slowdive e l'ambient
(se togliete la batteria ad un brano come Serpent Mound, siamo lì), mostrano un sovraccarico che non vuole essere deflagrazione o sconquasso, ma estasi per riempimento. Ci sono
poi episodi (vedi Dustism) in cui i movimenti
potenti e tenui, più che dividersi, si compenetrano, o quelli in cui i brani riescono a trovare
spunti per divincolarsi dal trascendentale e
prendere una via più terrena: sono dettagli che
spuntano dopo alcuni passaggi di un album che
è apparentemente monolitico, ma che rispetto
alle peculiarità del post rock, rispetto alle sue
contorsioni e complessità, ha semplicemente il
pregio della semplicità.
6.9/10
103
no, ma vero. Per fortuna, aggiungiamo.
7/10
Tommaso Iannini
Genere: house, funk, disco
Tim Sweeney ha lavorato per Steinski, al
secolo Steven Stein. Ascoltava dischi hiphop e annotava i bpm sulla copertina. Ancora
iscritto al college, ha fatto un periodo di stage in DFA Records, al termine del quale Tim
Goldsworthy ha regolarmente compilato il
form di valutazione. Dal 2003 al 2006 è stato
soundtrack supervisor della Rockstar Games
– uno dei posti di lavoro più freak della storia
– ed è lui, quindi, che ha curato la programmazione delle stazioni radio house e hip-hop di
GTA San Andreas.
Esperienze tanto bizzarre quanto formative,
che unite alle importazioni semi-clandestine
di materiale Warp, Coldcut, Black Dog, Aphex
Twin (il fratello maggiore, nei primi anni Novanta, tornava da Londra con dischi e videocassette introvabili negli States) e alle imprescindibili suggestioni black-music, accendono nella
testa del giovane dj di Baltimora – dal 1999
residente a New York – l'idea di un programma
radiofonico. Sulle frequenze radio della New
York University, accompagnato negli anni da
pesi massimi del dancefloor (Howie B, Carl
Craig, Cosmo Vitelli, Laurent Garnier, Peter
Kruder, Dimitri From Paris, Dj Hell, Daniele
Baldelli, per citarne alcuni tra i più rilevanti),
trasforma il suo studio in un piccolo tempio
house, funk, disco, electro – riservando una
corsia preferenziale per le fascinazioni cosmiche, che non a caso battezzano lo slot: Beats In
Space.
Beats In Space 15th Anniversary, doppio
cd mixato di classici e pezzi inediti, è la celebrazione di quest'avventura. Il primo volume,
104
Elia Galli
Ulwhednar - 1520 (Northern
Electronics,2014)
Genere: dark, drone, techno, electronica
Ulwhednar è il progetto techno-noise-dark
ambient dei musicisti svedesi Abdulla Rashim
e Varg, un duo che si muove agilmente tra
drone, techno analogica e inumana elettronica
oscura. La loro musica è ispirata alla storia, al
paganesimo e ai desolati paesaggi scandinavi.
A certe latitudini in inverno, quando il sole è
quasi totalmente assente durante il giorno, la
r e c e n s i o n i
n o v e m b r e
Tim Sweeney - Beats In Space 15th
Anniversary (Beats In Space,2014)
registrato in presa diretta, è una miscela di edit
disco-funk (Eric Duncan e Frasier mettono a
nuovo rispettivamente Get Up Whirlpool di
Edwin Starr e Coco Kane di El Coco, viene
ripescata Chewy Chewy degli Ohio Express),
precise geometrie sintetiche e vocalizzi eterei (David Haser, Deep Horst), isolate scosse
techno (Barnt, Chappell, scelta anche da Joy
Orbison per il suo BBC Essential Mix del 25
luglio di quest'anno) e colorati ritagli garagehouse alla maniera di Todd Edwards (Samuel,
A Million Things). La seconda parte, collezione
delle tracce che hanno segnato la storia della
trasmissione, se da un lato continua il discorso
nu-disco (John Talabot, Tensnake), dall'altro
viaggia indietro nel tempo per ricordarci i magistrali joint da pista dei Plaid (Scoobs In Columbia), i quadretti cosmici dell'Ed Handley
solista (a nome Balil, 3/4 Heart), le visioni intergalattiche di arpeggiatori e kickdrum inflessibili firmate Carl Craig (il remix di Relevee,
Delia and Gavin), fino a toccare, in chiusura,
immaginifici scenari space-rock con Tim Blake (Last Ride Of The Boogie Child, dall'album
del 1977 Crystal Machine). Due ore e mezza
di dj set appassionato, taglia e cuci rustico da
grande artigiano del suono, per una fotografia
sgargiante del cosmic-sound newyorchese.
6.8/10
r e c e n s i o n i
sotto la sigla "Dard Å Ranj Från Det Hebbershålska Samfundet" (abbreviato anche in
D.Å.R.F.D.H.S.), aveva già dedicato un disco alla
persecuzione delle streghe avvenuta nel Seicento in terra svedese: l'ottimo LP Det stora
oväsendet del 2013.
Il lato B del disco presenta due pezzi techno:
Begravd under is ("sepolto sotto il ghiaccio") e
De 92 vita stenarna, ovvero "92 pietre bianche"
tradotto letteralmente, ma "svenska stenarna" è
anche il nome di un gruppo di isole dell'arcipelago di Stoccolma. Il primo brano ricorda alcune cose della Börft Records, celeberrima label
underground di musica elettronica svedese
attiva dalla fine degli anni Ottanta. De 92 vita
stenarna, invece, spinge in maniera meccanica
con quella techno fredda, cupa e senza compromessi, quasi isolazionista, propria del duo.
Il disco prosegue con un brano dark ambient,
Midvinter (termine svedese per "solstizio d'inverno"), che riprende le sonorità di un lavoro
precedente (chiamato appunto Midvinter)
uscito solo su cassetta, formato da sei lunghi
episodi dark ambient dedicati al giorno con
meno ore di luce nel corso dell'anno. Alla fine
del lato B del vinile troverete anche una traccia senza nome che riprende Askan från bålet
in chiave più noise, chiudendo così il cerchio.
Nella lista dei brani ci sono, alla fine dei lati
A e B, due pezzi apparentemente assenti nel
disco, I evigheten I e I evigheten II. In svedese "evighet" vuol dire eternità, vita eterna, ma
anche illimitata quantità di tempo. Se sistemate la puntina del disco a metà dello spazio
vuoto presente alla fine dei due lati del vinile,
il braccio del giradischi tornerà indietro generando due "infinite loop" techno industrial che
potrebbero essere ascoltati per ore e ore.
Si tratta di un buon lavoro che, per essere
compreso appieno, deve essere collocato nella
giusta cornice. Il disco richiede un ascolto non
superficiale per rivelare la sua vera natura e i
n o v e m b r e
musica del duo diventa una colonna sonora
pressoché perfetta. Il 6 ottobre 2014 è uscito
il secondo full-length, 1520, per la Northern
Electronics, piccola label indipendente svedese
che è riuscita a farsi conoscere fuori dalle fredde terre scandinave. Realizzato in vinile bianco a tiratura limitata, il disco è andato subito
esaurito.
Dopo l'intro ambient di Arke fiene, siamo
subito catapultati su un pezzo tagliente a base
di pulsazioni techno ossessive e lineari, ovvero Stortorget; il nome del brano è quello della
piccola piazza centrale di Gamla Stan, la città
vecchia al centro di Stoccolma. È significativo
che Stortorget sia proprio il luogo in cui nel
1520 (titolo dell'album) avvenne il famoso "bagno di sangue di Stoccolma", quando il perfido
re danese Cristiano II fece giustiziare pubblicamente circa 100 cittadini svedesi, colpevoli di
essersi rivoltati contro il domino dell'invasore
danese sotto l'unione di Kalmer. Il pezzo musicalmente ricorda alcuni episodi di Unanimity,
esordio full-length di Abdulla Rashim, ed è
anche un punto di contatto con il disco precedente degli Ulwhednar, d'impronta più techno
minimale, intitolato semplicemente LP.
Con Kättarens dom e Askan från bålet entriamo nel cuore del lavoro: il primo è un mantra
impietoso dai forti riverberi e clangori postindustriali (il titolo vuol dire "sentenza dell'eretico" ed è anche il nome di un capitolo di un
vecchio libro di Karl Fahlgren sulla storia della
stregoneria in Svezia); il secondo è un pezzo in
cui emergono sibili rotanti e fantasmi analogici
che implodono cupamente su se stessi. Askan
från bålet è uno dei momenti migliori del disco,
in cui lo spirito delle macchine sembra emergere e prendere vita per poi autodisgregarsi
progressivamente. Non è un caso che il titolo si
traduca in italiano con "le ceneri del rogo"; del
resto uno dei componenti del duo, Varg, assieme a Michel Isorinne e Dystopiska Visioner
105
suoi riferimenti velati. Menzione d'obbligo per
l'elegante copertina bianca con stampa in rosso: la cover raffigura un tumulo funerario fatto
di pietre accatastate l'una sull'altra.
7.2/10
Marco De Baptistis
Genere: rock, punk
Piaccia o meno, i Weezer sono rimasti, nel
tempo, una sorta di baluardo sonico abbastanza
stralunato da continuare ad attrarre la curiosità
di chi nei Novanta (e oltre) viveva di loserness,
college rock americano e grunge. Bei tempi,
quelli, quando si combatteva l'establishment
– prima diventare l'establishment – imbracciando chitarre elettriche capaci di sprigionare
cascate di distorsioni grasse, furibonde eppure
(paradosso dei paradossi) attente alla melodia.
Anche i Buddy Holly del post-grunge, tuttavia,
hanno dovuto faticare e non poco per sopravvivere – in termini di significanza artistica,
perché dal punto di vista finanziario non devono passarsela malissimo, considerati i risultati
commerciali dei dischi pubblicati – in bilico tra
un passato da "piccoli classici" (il Weezer blue
album del 1994) e un presente che fino a questo Everything Will Be Alright In The End
contava episodi a dir poco prescindibili come
Hurley (2010) o Raditude (2009). Chi li aveva
dati per morti, tuttavia, dovrà ricredersi, perché il disco in oggetto – prodotto dal Ric Ocasek già al lavoro sul Weezer blue album e sul
Weezer green album del 2001, guarda caso due
delle uscite più a fuoco della formazione di Los
Angeles – è quanto di meglio i Weezer abbiano
partorito negli ultimi dieci anni.
Nulla che rivoluzioni la percezione che si ha
della band, sia ben chiaro, al massimo un tuffo
nella nostalgia di quel blue album disco d'esordio sull'onda di un power pop frizzante,
106
Fabrizio Zampighi
You+Me - Rose Ave. (RCA,2014)
Genere: alt, country, folk
"Alecia, tesoro, ti presento il mio amico Dallas".
La immaginiamo più o meno così, la scena:
Carey Hart, pilota motociclistico, fa conoscere
Dallas Green – cantautore trentaquattrenne
r e c e n s i o n i
n o v e m b r e
Weezer - Everything Will Be Alright In
The End (Republic Records,2014)
energico, vitale e, da un certo punto di vista,
meno grezzo e più vario (ed è un bene). "Take
me back, back to the shack, back to the strat
with the lightning strap, kick in the door, more
hardcore, rockin out like it's '94", canta Cuomo in Back To The Shack, e mai versi furono
manifesto migliore: Ain't Got Nobody è un
instant hit a suon di power chords, armonie
beachboysiane e crescendo rubati alla seconda
metà dei Novanta; Lonely Girl è un punk-rock
in puro stile Dinosaur Jr; Eulogy For A Rock
Band srotola una melodia volutamente passatista quasi à la ABBA (pur con tutte le chitarre);
Have Had It Up To Here è un funk-rock come
lo avrebbero fatto i migliori Darkness; Go
Away è surf-pop altezza Happy Days rivisto
'90, con tanto di paturnie adolescenziali nel
testo; Foolish Father (dedicata al padre di Cuomo) vanta un refrain killer e un coro in chiusura che riporta, chissà come, al Lennon pacifista.
E questa è solo una parte di un lavoro che è un
tripudio di bridge, hook melodici, accordi veloci e assoli di chitarra al cardiopalma e senza un
filo di ruggine.
Troppo poco? Forse. Del resto, però, pare ormai assodato come i Weezer (o sarebbe meglio
dire Rivers Cuomo) funzionino di più a queste
latitudini, irregimentati in un immaginario comune e ben noto, piuttosto che quando vengono lasciati liberi di (stra)fare. Se la nostalgia è
il prezzo da pagare per avere un pugno di brani
di questa intensità e freschezza, ben venga. Ci
accontentiamo volentieri.
7.1/10
r e c e n s i o n i
un tappeto sonoro con lontane reminiscenze
che vanno dal Boss di I'm on Fire al Jimmy
Webb della splendida The Highwayman, Break
The Cycle cattura l'attenzione grazie all'intervento degli archi che scippano loro la scena e
Capsized grazie al suo scarno blues cinematografico, con Dallas che spiana la strada a un'Alecia vicina alle atmosfere di Fourth Corner di
Trixie Whitley. I due sono complici, si completano e tirano fuori il meglio l'uno dell'altra
nelle performance: il materiale è forse poco
radio-friendly e le melodie rivelano un fascino
discreto dopo ascolti pazienti, ma non c'è una
sola vera caduta di stile in trentasette minuti di
ascolto.
I testi sono principalmente malinconici, intrisi
di riflessioni sulla vita con le sue "montagne
russe", gli alti e i bassi, gli amori dal fuoco ancora acceso e quelli che sono andati male (ma
tutto brucia meno, se ci troviamo a cantarne
davanti al fuoco di un camino). Non sono colti
o particolarmente elaborati, ma parlano a tutti
e dicono molto soprattutto a chi, come i due
cantanti, ha superato la soglia dei trent'anni
e si ritrova inevitabilmente a fare dei grandi
e piccoli bilanci. Diventare genitori e passare
dall'altra parte dello steccato ci porta a ripensare ai rapporti con le nostre famiglie di provenienza (Open Door), all'amore e alle "guerre"
condotte sognando di emanciparci da loro: col
senno di poi speriamo con sollievo che la porta
sia ancora aperta e arriviamo a riconoscere
che, in fondo, "ci hanno insegnato come essere
giusti in un mondo sbagliato". E anche che oggi
parliamo con loro troppo poco. Stucchevole? Nelle mani sbagliate materiale del genere
lo sarebbe stato, qui le emozioni sono tenute
abilmente a bada. A volte, forse, persino troppo.
Altri due brani piuttosto riusciti della raccolta
sono Second Guess (lui inizia una frase, lei la
completa e solo dopo un po' le voci giocano
insieme) e lo spigoloso Love Gone Wrong, e
n o v e m b r e
canadese che oggi incide come City and Colour e che a molti è noto per essere stato nella
line-up della band post-hardcore Alexisonfire
– a sua moglie Alecia Moore. Ovvero colei che
noi tutti abbiamo conosciuto come P!nk grazie
a successi come Get The Party Started, Don't
Let Me Get Me e, più di recente, Try: personaggio colorato, grintoso ed esuberante, dieci anni
fa era la "bambina cattiva" emersa dopo Britney
e Christina (con la quale collaborò in occasione della cover di Lady Marmalade incisa per il
film Moulin Rouge) con una voce r'n'b messa
al servizio di un pop/rock con cui ha spesso e
volentieri scalato le classifiche di vendita. Cosa
possono fare insieme, due artisti apparentemente tanto diversi? Un sobrio e grazioso disco
folk-pop, prevalentemente acustico, scritto e
registrato in una settimana.
Che cos'è, uno scherzo? Niente affatto. Rose
Ave. è il frutto di alcune instant sessions
dell'insolito duo: tutto è partito da una sola
canzone, qualcosa di estemporaneo che potesse
essere cantato senza orpelli, davanti a pochi
amici e ai propri familiari, magari con un buon
calice di vino per accompagnare il tutto. Poi
ne sono nate altre, che insieme a una fascinosa cover di Sade Adu (di cui Dallas ricorda di
aver ascoltato molti dischi, tra un classico degli
Alice in Chains e un lavoro dei Soundgarden)
compongono un disco breve, asciutto di due
amici che si sono spogliati dei propri nomi
d'arte più o meno ingombranti e sono partiti
con una nuova avventura. La RCA ha iniziato a
parlarne solo un mese prima dell'uscita, con tre
canzoni che nel giro di poche settimane sono
state messe a disposizione di fan e curiosi su
VEVO. Tre brani uno diverso dall'altro, in un lavoro che per contro risulta straordinariamente
compatto: You And Me conquista con due voci
che armonizzano e si fondono sostenendosi e
dandosi forza – calda e pastosa quella di Green,
possente e a tratti roca quella della Moore – in
107
n o v e m b r e
Alessandro Liccardo
Yusuf / Cat Stevens - Tell 'Em I'm Gone
(Legacy Recordings,2014)
Genere: cantautori, folk
Co-prodotto da Rick Rubin, ospiti come Tinariwen, Will Oldham, Charlie Musselwhite,
Richard Thompson e Matt Sweeney. Premessa lapidaria per ritagliare i contorni di un
lavoro che non vuole essere solo il terzo dell'artista Yusuf (cinque anni dopo il buon Roadsinger) ed il venticinquesimo (se non abbiamo
contato male) per colui che un tempo era noto
come Cat Stevens. Rubin da questo punto
di vista è uno schiacciasassi: non lo coinvolgi
108
se non hai intenzioni forti e chiare. In questo
caso, ricollocarsi in un sound che odorasse di
radici folk blues ma che prevedesse precisi
effetti collaterali "esotici". I nomi summenzionati vanno letti in questo senso come delle
coordinate che stringono verso una ricerca di
rinnovata autenticità.
A Yusuf non spaventa ricostruirsi: lo ha fatto in
passato in maniera ben più invasiva e radicale.
Stavolta però, malgrado tutto questo sfoggio di
radici – diciamo così – attualizzate, le tessere
del puzzle non compongono un quadro convincente. Premetto che il suono è fantastico, i
pezzi hanno una coerenza e robustezza, inoltre
trovo che il coinvolgimento dei Tinariwen sia
particolarmente azzeccato, un colpo di genio
a dirla tutta. Ma tutta questa sovrastruttura
fa passare il protagonista come una specie di
intruso. Se escludiamo due pezzi come Dying
To Live (cover di Edgar Winter resa con la
trepidazione cardiaca del miglior Billy Joel) e
una Cat And The Dog Trap che tra morbidezze
folk e fragranze di vibrafono ammicca al garbo allusivo dello Stevens che fu, capita spesso
di pensare che il blues non sia esattamente la
tazza di tè del buon Yusuf.
Dalle vibrazioni arcaiche dell'iniziale I Was
Raised in Babylon fino agli archetipi d'affrancamento black della title-track, senti un bisogno quasi fisico di un altro interprete. Non
per fare i sensazionalisti ad ogni costo, ma in
un certo senso è il blues che te lo chiede. Mi
ha ricordato quello che provai sentendo per le
prime volte Steamroller di James Taylor, ma
almeno Taylor in quel caso usava il blues in maniera ironica. Stevens/Yusuf invece ti fa capire
di volerci stare dentro, ma proprio da un punto
di vista blues funziona tutto alla grande tranne
la sua interpretazione. Molto belle ad esempio
le pennate terrigne e l'armonica sfrangiata di
Big Boss Man (cover di Jimmy Reed), l'andazzo vaudeville di Gold Digger e la baldanza sou-
r e c e n s i o n i
buona si rivela l'idea di reinterpretare, reinventandola, No Ordinary Love (selezionata da
Love Deluxe di Sade).
Le tinte sono tenui, accennate e le luci soffuse,
in questo Rose Ave. che si candida ad essere
uno dei dischi più insoliti del 2014. C'è più
Green che Pink, ascoltandolo bene, ma questo
è anche un segno di intelligenza di un'artista
alla ricerca della credibilità che in fondo le
spetta, che è cresciuta insieme ai suoi fan e che
sente il bisogno di mettersi in discussione e
assecondare nuovi stimoli. E non certo perché
non sia più in grado di competere con le Miley
Cyrus del caso – il suo The Truth About Love
è stato disco d'oro e di platino in diversi Paesi, Italia compresa, quando altre sue colleghe
anche più giovani di lei sono all'eterna ricerca
di escamotage per tornare alla ribalta (sia esso
un featuring col produttore dance più quotato
del momento o un album swing con un veterano del genere). Per Dallas è stata un'occasione
ghiotta per ottenere la visibilità che finora non
aveva avuto, e visti i risultati bisogna dire che le
carte sono state giocate piuttosto bene da tutti
e due: ascoltare per credere. Chissà che non ci
sia un seguito…
7/10
Stefano Solventi
Zola Jesus - Taiga (Mute,2014)
Genere: industrial, noise, elettronica
Il cerchio aperto anni fa con l'irruzione a
gamba tesa di Nika Roza Danilova, in arte Zola
Jesus, nel panorama underground, dapprima
coi pezzi piccoli per l'onnipresente Sacred Bones, poi con album sempre più ingombranti per
densità, eco e rilevanza (The Spoils innanzitutto, poi Conatus), si chiude definitivamente
con questo Taiga.
Definito dalla stessa come il proprio reale esordio – bizzarria acchiappa like o reale volontà
di tagliare i ponti col passato da parte della
signorina dietro la sigla, non è dato sapere –,
Taiga segna l'approdo sulle lande targate Mute
e l'ennesimo appiattimento delle asperità che
segnavano la (ormai ex, per lo meno per come
la conoscevamo) Zola Jesus. Ispirato da "taiga", nome russo che indica la foresta boreale
e che nell'ottica della Danilova diviene luogo
di riflessione sulle proprie lontane origini, e di
conseguenza sulle dicotomie abitato/deserto
o civilizzato/selvaggio (e, ancora, vivo/morto,
percepito/celato, visibile/invisibile ad libitum),
l'album si avvale di una produzione eccelsa, di
una estrema cura per il dettaglio, di una maniacale attenzione per le atmosfere. A venire
eccessivamente levigate, però, sono quelle ruvidezze che erano l'estremo tratto distintivo di
una musica in potenza "pop" ma ammantata da
una coltre di disagio e alienazione umorale e da
un immaginario ben definito (l'ala "femminile"
dell'industrial meno estremo, tutto l'universo
goth inglese, le heavenly voices riprese dal giro
moan-wave, ecc.) che avevano fatto dell'americana un punto di riferimento per molti.
La caligine in cui annegavano le melodie degli
esordi si è diradata e restano soltanto "plasticosi" esercizi di stile, indigesti nel loro essere
sopra le righe in maniera artificiosa. Insomma
della "estrema filiazione della terrifica trimurti
Diamanda Galas/Lydia Lunch/Siouxsie" (Comunale dixit) non resta ormai nulla, e al loro
posto regna una versione synth-pop ripulita e
translucida di quel suono affine ad act come
Goldfrapp et similia. Il risultato sono momenti
troppo spesso imbarazzanti (Nail, Dangerous
Days, Hunger) o semplicemente poco ispirati
(Taiga, Lawless), eccessivamente appiattiti da
una produzione troppo vogliosa di mostrarsi "patinata" e appetibile per un pubblico più
ampio.
E' paradossale come la scelta di un titolo dal
significato forte qual è Taiga rischi di divenire una sorta di nefasto presagio su quello che
sarà il futuro di Zola Jesus, persa in una terra
di nessuno: troppo pulita per il gusto underground e troppo poco accessibile per il mainstream.
5/10
n o v e m b r e
r e c e n s i o n i
thern di The Devil Came From Kansas (firmata
Procol Harum), per non dire del piglio sanguigno di Editing Floor Blues con quel passo
da Muddy Waters sotto anfetamina, mentre la
palma della migliore intuizione potrebbe andare ad una You Are My Sunshine (antico hit di
Jimmie Davis e Charles Mitchell) riformattata come torrido soul blues innervato di ruvidità
desertiche.
Nel complesso quindi è un disco che sembra
confezionato per blandire un target ben preciso: i sostenitori della vecchia perduta autenticità. Brandendo la fama di Cat Stevens/
Yusuf come un brand. Ma davvero – dopo molti
ascolti – ancora dubito che sotto tutto questo
bello e a tratti ottimo sfoggio di mestiere ci sia
sostanza da conservare.
5.5/10
Stefano Pifferi
109
I n c h e s # 5 3
S o m e
G i m m e
110
Da laggiù arriva sempre roba interessante. E quel “laggiù” non contiene nessuna sorpresa o
ipotetica subordinazione rispetto al “lassù” ma soltanto una mera indicazione geografica e
una grossa verità. Basta guardarsi un paio delle uscire che segnaliamo questo mese per rendersene conto. Cominciamo con Bzzzz l’aka con cui si presenta Alberto Tanese e la Musica
per Organi Caldi, col primo già parte di CAPase non a caso editi su nastro nel Live Split
con Above The Tree proprio dalla seconda: label piccola, casalinga ma dal catalogo tanto
eclettico quanto ammirevole nel suo circumnavigare tutte le lande out delle musiche d’oggi. Il caso di Bzzzz è esemplare: un disco nato dall’“intento sonico di portare l’ascoltatore
dalla fase di veglia a quella r.e.m.” quanto da una “naturale attitudine a far addormentare le
persone” del suo autore. Oneiros non è affatto soporifero ma è perfettamente “soporifero”
nella semplicità, totalmente efficace, con cui tratta l’obbiettivo della propria indagine, in
particolare in pezzi come DreamingOfFly (stratificazioni alla Pan American) o DreamingDances (oblungazioni folky alla Six Organs).
L’altro “laggiù” del mese è un po’ più a ovest, in quella Napoli che sempre ci sorprende in
ambiti “altri”. La bontà dell’ultimo, al solito ottimo A Spirale in coppia coi russi Astma
(su cui torneremo a breve) viene confermata da Nero Diaspora, nuovo progetto che vede
coinvolto Fabrizio Elvetico di Illachime Quartet accompagnato da Rossella Cangini – voce
e loops, con cui già aveva condiviso l’album Trail Of Monologue – e dalla chitarra preparata di Gandolfo Pagano. Nero Diaspora, parole del trio, “intende la sperimentazione come
un percorso attraverso le memorie sonore” da cui esce questo Mirrors/Miroirs/Specchi,
ottimo lavoro di improvvisazione e riflessione sul ruolo dell’improvvisazione che assume
forme mutevole e cangianti, in particolare quando a prendere il sopravvento è la voce galasiana della Cangini (Miroir #2 è pura tensione vocal-percussiva) o le atmosfere plumbee
(Specchio #5 Su E. Sanguineti). In uscita free per la netlabel Brusio, ma se ne auspica una
versione fisica, visto il livello eccelso.
Altra segnalazione dovuta del mese è il nastro Aktion No1, coproduzione tra label sorelle (Angst, Scorze e Suicide Autoproduzioni) e musicisti affini come Negativeself, IRS, A
Happy Death, Autocancrena e Cassandra, ritrovatisi in quel coacervo di brutture sonore
che fu il primo Roma La Drona, festival made in Dal Verme in cui droni e rumore nero pece
si sono alternati per un paio di serate sulle assi del locale di Roma est. Questo Aktion No 1,
I n c h e s # 5 3
S o m e
G i m m e
da leggersi anche come dichiarazione d’intenti oblomoviano, racchiude la performance dei
suddetti come collettivo Oidocrop666. Nero pece le musiche e nero pece il nastro, copertina inclusa, quasi a mettere in guardia l’ascoltatore: da qui non si esce vivi a furia di ondate
harsh-noise e brutture free, clangori post-industriali e droni come se piovesse.
Proseguiamo con due uscite su 10 pollici, formato tanto discograficamente insolito quanto
esteticamente fascinoso. La prima vede il ritorno di una nuova promessa svedese che tante
soddisfazioni ci sta dando ultimamente. Parliamo di Varg (nome d’arte verosimilmente
mutuato dal ben più celebre Vikernes), giovane producer dal background indiscutibilmente
black metal e dal forte gusto per le pagine più tetre della storia della propria terra. Comparso sulla scena da poco più di un anno ma con all’attivo già diverse uscite per la Northern
Electronics di Abdulla Rashim e Semantica di Enrique Mena (aka Svreca), il capellone di
Stoccolma è anche tenutario della tape-label Blodörn e metà del duo Ulwhednar. Quasi
in contemporanea con il nuovo album di questi ultimi esce anche The Masters Prayer
In Six Article, EP di sei pezzi per la locale Sorgenfri Inspelningar. Il sound di Varg (che
qui appare volutamente come Grav) è un misto brutale di dark ambient e techno nordica,
tutto registrato in presa diretta su nastro rigorosamente in monofonia. Un ottimo esempio
è Mandrake, The Headless Rider Of The North, il cui video è ovviamente in bianco&nero. La
copertina con le runiche incisioni rupestri sigilla il tutto in maniera impeccabile.
Il secondo 10” del lotto vede la collaborazione di tre figure che più controverse non si può.
Cosa nasce infatti quando un teologo esperto di satanismo (Josef Dvorak), un artista/
performer di spettacoli S/M (Fuckhead) e un losco figuro come Albin Julius (Der Blutharsch) si mettono a lavorare insieme? Sous l’Arbre de Science è la risposta. Edito dalla
WKN dello stesso Julius, le quattro tracce di questo EP suonano un po’ come i riti satanici
di Dvorak messi in musica dai due austriaci. Tappetoni ambient su cui scandire formule
magiche, beat Motorik tipicamente kraut e synth che svisano mentre l’Azionista Viennese
rende omaggio al suo Lucifero. Il tutto ha un mood tanto immediato quanto efficace, come
un misticismo prêt-à-porter un po’ ruffiano ma decisamente intrigante.
Chiudiamo il cerchio con una cassettina spuntata dal nulla e che tuttavia ha già fatto breccia nel cuore di chi scrive. Edita l’anno scorso dalla statunitense Fallow Field e riproposta
per il mercato (?) europeo della spagnole Burka For Everybody e III Arms, l’omonimo debutto su nastro di Masks Of Canaan consta di cinque pezzi senza titolo in perfetto equilibrio tra il neofolk più solenne (senza ombra però di quella posticcia pomposità che talvolta
mina le produzioni del genere), la darkwave della vecchia scuola inglese e le atmosfere
nordiche del black metal d’annata. Immaginate dei giri – appunto – black metal suonati
solo col basso, qualche chitarra acustica e una voce greve e funerea che poggia su un basamento di fruscii ambientali, e avrete un’idea di quanto sottilmente inquietante e avvolgente
possa essere questa tape. Non ci riuscite? Potete farvi un’idea voi stessi: c’è il free download
su Cvlt Nation.
111
Aa.Vv.
c l a ss i c
a l b u m
Disco Par-r-r-ty – Non Stop Music (Spring Records,1974)
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L’articolo principale del numero del 19 ottobre 1974 di Billboard segnalava che un crescente numero di negozi di dischi dell’area newyorkese stava trovando una nuova rilevante
fonte di incassi dalla vendita di “discotheque records”, con alcuni retailer che cominciavano già a riservare sezioni specifiche ai “disco disks”, successi nati nei club ancora prima
di qualsiasi passaggio in radio. A pagina 55 dello stesso numero un annuncio pubblicitario
presentava sei nuove release autunnali Spring/Event Records, tra cui “an all-star album of
non-stop dancing called Disco Par-r-rty”: è il lancio del primo disco-mix.
Nel numero successivo (26 ottobre) Billboard approfondiva in prima pagina la strategia
di marketing dietro questo primo album “non-stop”, pensato per contrastare la tendenza,
ai tempi già in atto, di utilizzare i “disco tapes”, registrazioni illegali su nastro delle serate
delle discoteche più in voga, per la sonorizzazione in-store di boutiques di abbigliamento,
negozi di scarpe, cartolerie, ecc. Le intenzioni dichiarate della Spring Records, label associata al gruppo PolyGram, erano quelle di creare “un classico”, l’album dance “definitivo”,
selezionando 14 hit datate 1970-1973. Pur non presentando brani recenti, l’album coglie
il nuovo spirito dei tempi, quando ancora il termine Disco non identificava uno stile ben
definito ma raggruppava tautologicamente le canzoni r’n’b, soul, funk suonate nelle discoteche. Gli artisti presenti fanno soprattutto parte del gruppo PolyGram, con James Brown
(qui con Sex Machine) e il suo entourage (Maceo Parker, Fred Wesley, Hank Ballard e
Lyn Collins, quest’ultima chiamata ad aprire le danze con la poi supercampionata Think),
i Mandrill e i migliori esponenti delle label Spring e Event (Joe Simon, Millie Jackson,
Act 1). Sono compresi due successi come la sexy Jungle Fever (dei Chakachas, Latin soul
band dal Belgio), che nel 1972 aveva anticipato di tre anni i gemiti donnasummeriani di
Love To Love You Baby, e Pepper Box, uno dei primi synth hit (sulla falsariga di Popcorn e
Apache). Chiudono l’album due “lenti” d’atmosfera: Why Can’t We Live Together di Timmy Thomas (dall’arrangiamento minimale drum machine + organo) e I’m Gonna Love You
Just A Little Bit More di Barry White, dominatore delle chart del momento.
Ascoltandolo quarant’anni dopo, l’edit senza pause del disco suona spesso secco e rudimentale, con pochissimi e brevi crossfades e tanti stacchi spesso brutali, inseguendo un
beat-mix ai tempi tecnicamente arduo: il risultato complessivo, soprattutto per la selezione
di canzoni presenti, rimane comunque trascinante. Non è chiaro peraltro se il responsabile del mix vada identificato nell’altrimenti sconosciuto Lenny Silva, nominato nei credits
come “compilatore” dell’album (mentre Alan Varner, indicato come “remix engineer”,
raggiunto via e-mail, non ricorda di aver avuto una parte attiva nella produzione).
Sempre nel numero del 26 ottobre 1974 Billboard comincerà a pubblicare classifiche Di-
sco: al primo posto c’è la versione di Never Can Say Goodbye di Gloria Gaynor. Can’t Get
Enough di Barry White è al Top tra gli album. Tra i singoli Do It (‘Til You’re Satisfied) dei
B.T. Express sale dal 24° al 18° posto (per arrivare al 2° qualche settimana dopo). Nello
stesso periodo la stazione radio newyorkese WPIX comincia a trasmettere il sabato sera
il primo programma dedicato “Disco 102”. Ottobre 1974: non più underground, la Febbre
esce allo scoperto.
7/10
Alessandro Pogliani
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