Anselmo Grotti UN ALTRO FUTURO È POSSIBILE Il pensiero di Felice Balbo a cento anni dalla nascita «A chi dubita – e sono in molti – che la filosofia risponda ad una autentica esperienza umana, che la filosofia sia connessa con la vita, consiglierei la lettura delle opere di Felice Balbo» (Sofia Vanni Rovighi, 1967). Introduzione: 1913 N el gioco intellettuale di accostare i filosofi non per analogie di pensiero ma per dati esterni, è interessante trovare come il 1913 segni l’anno di nascita di personaggi come Paul Ricœur, Adam Schaff, Roger Garaudy, Albert Camus, Paul Grice. Autori che si sono formati negli stessi anni, con alcune tematiche comuni (il marxismo, l’esistenzialismo, l’umanesimo sofferto, la riflessione sulla comunicazione) e altre ovviamente molto diverse, in dipendenza dai contesti e dalle differenti sensibilità personali. Ci occupiamo però in questa sede di un autore nato proprio il 1° gennaio del 1913, in una casa importante e con un cognome famoso: Felice Balbo. Un filosofo che per almeno vent’anni ha svolto un ruolo di grande rilievo nel panorama politico e culturale, morto ancor giovane il 3 febbraio 1964, tanto che quest’anno possiamo ricordarlo sia nel centenario della nascita che nei cinquant’anni dalla morte. Forse ingiustamente troppo presto dimenticato. 1. Cenni biografici Felice Balbo, conte di Vinadio, nasce a Torino il 1° gennaio 19131. Porta l’impegnativo cognome dell’avo Cesare Balbo, filosofo e patriota, di cui è diretto discendente – tanto che nasce nella stessa casa che fu di Cesare. Non è parente invece di Italo Balbo, fascista inflessibile e celebrato trasvolatore dal triste destino. 1 È curioso che la prestigiosa Treccani nella gigantesca opera Dizionario biografico degli italiani scriva erroneamente nel vol. 34 (1988) che Balbo è nato nel 1914. Tra l’altro la voce è a firma di un importante studioso di Balbo, Giovanni Invitto. Si noti: sbaglia la Treccani e non Wikipedia… Egeria, n. 4, anno II (2013) Egeria 4-2013.indb 23 23 11/09/13 08.19 Anselmo Grotti Come d’uso nelle nobili famiglie sabaude, fa le elementari in casa e il liceo classico al prestigioso Massimo D’Azeglio. Come compagni ha Cesare Pavese, Leone Ginzburg, Massimo Mila e Norberto Bobbio. Nonché Giulio Einaudi, che ad appena 21 anni fonda la casa editrice Einaudi. Tutti sono studenti dell’amatissimo professor Augusto Monti (che li ricorderà ad uno ad uno nel suo bel libro I miei conti con la scuola, Einaudi, Torino 1965). Nel 1933 Balbo cerca con buon impegno di diventare il patrono degli studenti incerti: si iscrive a filosofia, poi a medicina, poi a giurisprudenza, poi va a fare il servizio militare negli alpini. Nel 1938 infine si laurea in Filosofia del diritto. Una incipiente esperienza di lavoro in Fiat è subito interrotta dalla guerra: dapprima la breve e vigliacca campagna occidentale contro la Francia e successivamente il fronte albanese. Si ammala gravemente a Valona, rischiando la morte. Nella lunga degenza in ospedale «si converte» alla fede cattolica (da cui si era allontanato). Nel 1941 entra come consulente alla casa editrice Einaudi. Grazie all’incoraggiamento di Giaime Pintor, scrive il suo primo libro importante, L’uomo senza miti. Nel dicembre Balbo si trasferisce a Roma. Qui si lega con Antonio Tatò, Franco Rodano, Fedele D’Amico, Adriano Ossicini. Con loro lavorerà al movimento politico culturale denominato, dopo varie esitazioni, Partito della sinistra cristiana (1943-46). Sempre a Roma conosce Lola Berardelli. Nel 1944 Leone Ginzburg è arrestato, torturato e ucciso. Anche Lola Berardelli viene arrestata. Rilasciata, si sposa nel dicembre con Balbo (anche lui è brevemente arrestato nel marzo 1945). Nella prima estate del dopoguerra incontra Natalia Ginzburg, vedova di Leone, e diventa suo amico fraterno (la Ginzburg ha lasciato pagine bellissime su Balbo nello struggente Lessico famigliare del 1963). Pubblica L’uomo senza miti, dedicato a Giaime Pintor, morto attraversando la linea del fronte. Dal 1946 lavora alla Einaudi, a Torino: dirige le collane filosofiche assieme a Norberto Bobbio e Giorgio Colli; collabora con Cesare Pavese, Michele Ranchetti e Italo Calvino. Pubblica Il laboratorio dell’uomo. Negli anni dal ’47 al ’49 si allontana dalla militanza politica diretta e dal Pci. Nel 1950 (Pavese muore suicida il 27 agosto) lascia la casa editrice Einaudi e si trasferisce a Roma, dove lavora alla breve stagione della rivista «Cultura e realtà» (con Mario Motta, Fedele D’Amico, Augusto Del Noce, Giorgio Sebregondi, Italo Calvino). Dal ’51 al ’53 guida un gruppo di giovani studiosi di scienze sociali. Dal 1956 lavora alla formazione dei quadri dell’Iri e contemporaneamente insegna filosofia morale alla Facoltà di Magistero di Roma. Si occupa di autori come Karl Mannheim, Simone Weil, Leo Strauss, Max Scheler. Nel 1960 introduce lo «studio di caso» nell’insegnamento della filosofia. Nel 1962 pubblica Idee per una filosofia dello sviluppo umano. Nel novembre 1963 è colpito da un violento infarto polmonare, che lo porta a morte il 3 febbraio 1964. Sul tavolo di lavoro, incompiuto, c’è il suo ultimo contributo: Essere e progresso. 24 Egeria 4-2013.indb 24 11/09/13 08.19 Un altro futuro è possibile 2. Cenni bibliografici Opere di Balbo Nel 1966 Boringhieri pubblica in modo meritorio l’opera omnia di Balbo: Felice Balbo. Opere 1945-1964. Anche se in realtà alcuni scritti minori rimangono fuori dal testo, si tratta di un punto di riferimento imprescindibile. Tra l’altro vi compare l’inedito e incompiuto Essere e progresso. Un testo importante, rilevante anche da un punto di vista quantitativo, di cui Balbo aveva cominciato la riorganizzazione e deciso il titolo. Nel 1988 Anna Giannatiempio Quinzio pubblica una raccolta del suo insegnamento di filosofia morale nella Facoltà di Magistero denominandolo Felice Balbo, Lezioni di etica. L’ultimo «regalo» di Balbo possiamo trovarlo in Lettere a Ludovica (Archinto, Milano 2008). La destinataria delle lettere è Ludovica Nagel, nata a Monaco da padre tedesco e madre americana ma italiana dall’infanzia. I mittenti invece sono tre: Cesare Pavese, Natalia Ginzburg e proprio Felice Balbo. Una storia toccante di amicizia, ma anche la testimonianza della passione di Balbo per la comunicazione e la cibernetica. Opere su Balbo Non è compito di questo contributo soffermarsi in modo esaustivo sulla bibliografia critica relativa a Felice Balbo. Mi limito quindi ad alcune indicazioni sommarie. Dopo alcuni brevi ma attenti interventi di Napoleoni, Antonini, Vanni Rovighi, Fabro e Meneghetti (tra il 1964 e il 1970), compare una serie di interpretazioni che legano Balbo alla sola esperienza della «sinistra cristiana»: Antonetti, Casula, Cocchi, Montesi, Del Noce. Si tratta di testi pubblicati tra il 1972 e il 1976: risentono molto dell’impostazione ideologica di quegli anni e concentrandosi in modo ossessivo sulla questione dei «cattolici comunisti» tradiscono l’ampiezza del pensiero di Balbo. Poco importa se lo fanno per incensarlo o per denigrarlo. Al cambio del decennio compaiono: Le idee di Felice Balbo. Una filosofia pragmatica dello sviluppo di Giovanni Invitto (1979) e Felice Balbo e la filosofia dell’essere di Vittorio Possenti (in «Rivista di filosofia neoscolastica», 1980; l’articolo è poi divenuto una monografia nel 1986). Nel 1981 Luciano Bazzoli, economista, pubblica Felice Balbo. Dal marxismo ad «economia umana» (Morcelliana)2. Il testo di Invitto è il primo interamente dedicato a Balbo ma – nel legittimo tentativo di superare l’etichetta di ideologo cattocomunista – finisce in un fraintendimento sostanziale del suo pensiero. Invitto parla di dimensione «pragmatica» del pensiero di Balbo, addirittura di una priorità dei bisogni umani sulla loro teorizzazione, di un 2 Cf. anche L. La Puma, Le idee di Felice Balbo, in «Studi storici», 1 (1981), 209-212. 25 Egeria 4-2013.indb 25 11/09/13 08.19 Anselmo Grotti privilegiamento delle soluzioni effettive rispetto ai fondamenti teorici. Come – spero – sarà chiaro nelle pagine successive, Balbo è stato certamente un uomo attento come pochi altri pensatori al ruolo vitale della filosofia, non solo in campo culturale e politico ma anche economico. Tuttavia lo ha fatto da una salda posizione teoretica e da una ben precisa consapevolezza intellettuale. Il termine «pragmatismo» in riferimento a Balbo appare francamente inadatto. Possenti non cade in questo equivoco. Molto bella la sua intuizione secondo cui «la novitas di Balbo […] nasce non paradossalmente dal suo collegamento alla tradizione autentica»3, anche se la sua interpretazione della tomista filosofia dell’essere non rispecchia a mio avviso l’autentica posizione di Balbo. Chi scrive ha a suo tempo pubblicato un testo (Saggio su Felice Balbo, Boringhieri, Torino 1984) guidato da un’ipotesi di lavoro molto diversa. Balbo prende atto delle rovine e delle sconfitte storiche dell’empirismo come delle filosofie dell’assoluto. In Balbo la filosofia dell’essere non è la semplice riproposizione nel XX secolo della filosofia tomista, ma la presa di congedo dal metafisicismo e dall’empirismo. Ma di questo parleremo nel paragrafo successivo. Nel 1985 esce il volume a cura di Giorgio Campanini e Giovanni Invitto Felice Balbo tra filosofia e società (Franco Angeli), seguito da un ulteriore testo di Invitto nel 1988: Felice Balbo. Il superamento delle ideologie (Studium). Di Balbo si è occupato anche il XXIX Congresso nazionale della Società filosofica italiana nel 19874. La figura di Balbo è presente nelle più importanti storie della filosofia italiana del Novecento5, mentre non sono mancati altri interventi più recenti6. In occasione del centenario della nascita «Avvenire» gli dedica la sua pagina culturale del 24 maggio 2013. Prosegue ancora una volta la tradizione discutibile di definire Balbo per identificazione con qualche altra cosa: in questo caso viene definito «il Mounier italiano»7. I contributi, misurati e chiari, sono di Giorgio Campanini e Vittorio Possenti. 3 V. Possenti, Felice Balbo e la filosofia dell’essere, in «Rivista di filosofia neoscolastica», 72 (1980), 313-315 passim. 4 Il convegno era dedicato al tema: «La filosofia tra tecnica e mito». Su Balbo cf. il contributo di F. Tricomi, Felice Balbo: per una filosofia come lavoro tecnico non mitico, in Società filosofica italiana, La filosofia tra tecnica e mito, Atti del XXIX Congresso nazionale, a cura di R. Gatti, Porziuncola, S. Maria degli Angeli (PG) 1987. 5 Spiace però che sia del tutto assente in opere come l’Enciclopedia Zanichelli e la Garzantina. 6 G. Spelli, Profetismo e sconfitte nelle politiche di sviluppo. Felice Balbo e Giorgio Seriani Sebregondi, in Id., Merci e persone. L’agire morale nell’economia, Rubettino 2002, 23-43; L. De Pascalis, Felice Balbo. Per un radicale reinizio filosofico, in «Segni e Comprensione», 45 (2002), 105-109. Contiene belle testimonianze su Balbo la biografia di padre Camillo De Piaz, che conobbe Balbo: cf. G. Gozzini, Sulla frontiera. Camillo De Piaz, la Resistenza, il Concilio e oltre, Scheiwiller, Milano 2006; N. Ricci, Cattolici e marxismo. Filosofia e politica in Augusto Del Noce, Felice Balbo e Franco Rodano, Franco Angeli, Milano 2008; G. Turbanti, Felice Balbo: il cristianesimo nella sfida della modernità, in «Storia e Futuro», 19 (2009); interessanti spunti su Balbo sono presenti in E. Baroni – G. Rivolta, Libertà personale e bene comune. Cinque rivoluzioni per cambiare se stessi e il mondo, Ipoc, Vimodrone 2011. 7 Il riferimento comunque non è incongruo. Balbo incontra Mounier a Roma nel 1949. L’influenza di Mounier in Italia era molto forte, basti pensare ad Adriano Olivetti. Balbo però aveva abbandonato l’idea 26 Egeria 4-2013.indb 26 11/09/13 08.19 Un altro futuro è possibile 3. Sei tesi Possiamo avvicinarci alla filosofia di Balbo attraverso la formulazione di sei tesi fondamentali rintracciabili nel suo intero percorso intellettuale ed esistenziale. – Esiste nell’uomo, come singolo e come società, uno scarto tra la sua consistenza effettiva e quella possibile. – Tra l’uomo e l’universo, tra l’uomo singolo e gli altri esiste una qualche comunicazione. – Pur in presenza in ogni uomo dello iato tra l’esistente e il possibile, sussiste sempre – in modi differenti – la capacità di giudizio morale. – L’azione di erosione dello scarto è il lavoro umano, libera creatività che si innesta in un supporto materiale necessitato. – Questa azione di erosione (o di costruzione, se si preferisce) si ripete con ogni individuo, ma contemporaneamente si accumula nella società umana. La storia, pur non essendo guidata da nessuna necessità immanente, non è ciclica o assente. – Sussiste comunque uno spazio vuoto, un non coincidere di forma e formulazione, di significato e significante, di linguaggio naturale e linguaggio formalizzato che deve impedire il «mito», l’autodefinizione dell’uomo come «causa sui», la consacrazione di una società «perfetta» o, al contrario, la resa alle sole logiche di mercato e al riduzionismo iperliberista. 4. Il mondo della tecnologia. Natura e cultura La filosofia di Balbo ha fatto definitivamente i conti con la modernità, con la storia, con la cultura e la tecnologia. Allo stesso tempo sa che il trans- e il postumanesimo non sono un dato necessario, ma la spia di una distonia tra lo sviluppo quantitativo e l’evoluzione della nostra consapevolezza. Le grandi strutture collettive rese possibili dalla tecnologia trionfano, con la stessa paurosa indifferenza delle forze della natura, contro le velleitarie rivoluzioni, rivolte o riforme politiche […]. Il fatto è che oggi l’umanità è completamente all’oscuro sulle vie e sui modi della sua emancipazione dal mortale pericolo dell’automatismo degli organismi artificiali e dei loro effetti prossimi e remoti. Naturalmente il primo nemico è la scettica convinzione non solo diffusa, ma regnante, almeno in modo inconscio, della inevitabilità del processo di proliferazione continua e dominante degli organismi artificiali. Oggi si fa una identificazione semplice tra il progresso e il processo storico e i caratteri e i modi con cui esso si è verificato fino ad oggi: soprattutto si considera immutabile proprio ciò che che i partiti comunisti occidentali potessero avere un ruolo nella rivoluzione del personalismo, diversamente da quanto riteneva Mounier. 27 Egeria 4-2013.indb 27 11/09/13 08.19 Anselmo Grotti invece ha da mutarsi e accettabile ciò che invece l’umanità degna di questo nome non può accettare e cioè precisamente il dominio bruto dell’organismo artificiale8. «Natura» è un termine molto complesso e con un ruolo difficilmente sopravvalutabile nella storia della cultura e della società. In questa sede ci limitiamo solo a degli accenni in merito a due aspetti: il rapporto della natura con la cultura (questione antropologica) e quello della natura con la grazia (questione teologica). Gli uomini non si accontentano del mondo così come esso è. Lo trasformano attraverso la tecnica (costruzione dell’artificiale: modifica del mondo fisico) e attraverso la politica (costruzione di significati, norme, comportamenti: modifica del mondo concettuale). Tutti assieme questi interventi prendono il nome di «cultura». È possibile distinguere queste due realtà? In linea teorica sì. Mangiare, riprodursi, dormire sono fatti «della natura». Cucinare il cibo in un modo o in un altro, corteggiare il partner in un modo o nell’altro, sono fatti «della cultura». Di fatto però questa divisione non è possibile. Gli esseri umani hanno in comune con tutti gli esseri animali dei bisogni naturali, ma non possono non esprimerli in modalità culturali. Il bambino fin da piccolo impara le regole che la società nella quale vive ha elaborato nel tempo per regolare ad esempio le modalità «culturali» di fare pipì. I vestiti rispondono al bisogno naturale di proteggerci; al tempo stesso esprimono un significato culturale. Anche se andiamo in giro nudi (periodicamente emergono movimenti in questo senso) esprimiamo una posizione culturale, non è un comportamento assolutamente paragonabile alla nudità naturale degli animali. Di volta in volta la modificazione della natura ad opera della cultura ha ricevuto e riceve giudizi contrastanti. Per alcuni si tratta di civilizzazione: «nozze, tribunali ed are» hanno reso umani quelli che un tempo erano simili alle bestie. Per altri si tratta di corruzione: la natura è buona se incontaminata: l’ingresso della cultura, della tecnica, delle convenzioni sociali e politiche la guasta. Può sembrare un paradosso che proprio da Rousseau in poi (cioè dallo sviluppo della società tecnologica) questa posizione sia apparentemente così forte. Attenzione a questo punto alla duplicità che può assumere l’elogio indiscriminato della natura. Natura contro Politica. Da un punto di vista richiamarsi alla natura significa criticare le tecniche manipolatorie che hanno portato alcuni gruppi sociali ad avere un’ingiustificata predominanza su altri. «Quando Adamo zappava ed Eva filava, dov’era il gentiluomo?». In natura siamo tutti eguali, è la legge degli uomini che crea le divisioni sociali. Eppure lo stesso ragionamento può essere applicato al contrario. Già alcuni sofisti sostenevano che in natura vige il diritto del più forte, e che i deboli hanno inventato le leggi per contrastare i signori nel loro naturale desiderio di supremazia. 8 F. Balbo, L’emancipazione umana dell’uomo, in Opere 1945-1964, Boringhieri, Torino 1966, 571. D’ora in poi tutte le citazioni di Balbo faranno riferimento a questo testo. 28 Egeria 4-2013.indb 28 11/09/13 08.19 Un altro futuro è possibile Natura contro Tecnica. Ancora più forte appare oggi l’idea che la natura sia il luogo della salute, della positività primigenia del mondo: cibi naturali, cure secondo natura, critiche a ciò che è artificiale, artificioso, finto. Eppure è l’uso antinaturale degli antibiotici a salvarci dalle infezioni; è la coltivazione della terra (anche la coltivazione tradizionale è tecnica e non semplice raccolta di erbe spontanee) a sfamarci. L’ecologia ha una storia «progressista» ma anche una corrente crudele e persino nazista alle spalle. «Naturale» in ambito umano non può che integrarsi con «culturale», a partire da ciò che abbiamo di più intimo e specifico: la parola. Gli studiosi chiamano lingua il dato naturale che ci predispone a parlare (anatomia del cavo orale, struttura del cervello, frequenze percepite dall’udito) e linguaggio la plurale, mutevole e complicata cultura che usiamo tutti i giorni per parlare e per scrivere. È una consapevolezza importante da acquisire, per sfuggire alle tante mediocrità che sentiamo in giro con i correlati rischi di moralismo (incapacità di vedere la necessità dell’artificiale che renda umana la natura) e cinismo (la convinzione che ogni forma di artificio è legittima perché non c’è nessuna natura). È importante non fare confusione. C’è una bella differenza tra un cuore artificiale e un cuore finto, o no? «Natura» è il riconoscimento di qualcosa non fatto da noi e che dobbiamo rispettare. È quindi legittimo dire che non è lecito «andare contro natura». Ma bisogna stare molto attenti. In natura chi è fragile soccombe. Noi riteniamo invece che gli umani debbano soprattutto prendersi cura di chi è debole. In natura chi ha fame fa di tutto per sfamarsi. Noi pensiamo però che si possa scegliere di digiunare. Di non rispondere alle offese. Di perdonare. In un certo senso sono comportamenti «contro natura». Ma molto più umani del loro contrario. Quando si parla di esseri umani natura non è un feticcio o una divinità pagana da adorare, ma il riconoscimento di un primato della gratitudine del dono che sa custodire rispetto al compiacimento del possesso che desidera manipolare. Balbo scrive nel 1945: Chi ha fatto quelle luci, orari, macchine, parole, ecc.? Sono cose come la natura? come le piante? come le stelle? o anche come il fango di una strada, le malattie, il vento? o ancora come gli uomini di carne ed ossa che vediamo in noi e attorno a noi? […] Sono natura o sono storia? […] Non sono piante, non sono natura. Sono più per noi che le piante e la natura […]; ma sono anche molto peggio per noi che la pura natura esterna9. 9 Il laboratorio dell’uomo, 153 (paragrafo che riprende l’articolo apparso l’anno precedente ne «Il Politecnico», L’altro pericolo). 29 Egeria 4-2013.indb 29 11/09/13 08.19 Anselmo Grotti E così nel 1962: «Tutte le tradizioni e i sistemi sono in crisi e i fatti precedono caoticamente le idee e gli strumenti di controllo»10. Lo sviluppo delle «macchine sociali» e della «macchine cibernetiche» procede impetuoso, e Balbo sa che lo sforzo della filosofia (e della democrazia) è quello di generare sempre e di nuovo la capacità di indirizzare lo sviluppo verso l’umano e non verso il semplice accumulo. Il mondo che si fa complesso costruisce macchine cibernetiche per organizzare la vita degli uomini e la comunicazione che costruisce la polis. Ma ci sono grandi incognite in questa operazione: Nessuna organizzazione, in quanto macchina sociale, può, come tale, lavorare per lo sviluppo ossia può, per sua natura, determinarlo. Ciò è escluso dalle connotazioni della macchina sociale: essa infatti è una unità gerarchica di operazioni esecutive condotte in base a obiettivi, scopi e fini già determinati in funzione dell’affermazione della macchina sociale stessa da chi è in posizioni di controllo e che devono essere raggiunti e non discussi, né ricercati, né inventati da tutti gli altri che in essa o attorno ad essa operano11. Il passaggio citato è rivelatore. Balbo sta facendo un’analogia tra i processi sociali delle grandi organizzazioni economiche e politiche da un lato e le strutture di programmazione ad algoritmi della nascente cibernetica. È impressionante che nel panorama della filosofia italiana del 1962 Balbo riesca a citare nella nota a piè di pagina a questo passo due autori come Wiener e la Weil. Di Wiener cita Introduzione alla cibernetica e di Simone Weil Oppression et liberté. Balbo di fatto ha la consapevolezza che il futuro si sta giocando sempre più sul tema della comunicazione e del ruolo che in essa assumono gli esseri umani. Ma quale era lo «stato dell’arte» del tema della comunicazione negli anni della produzione filosofica di Balbo? Nel 1948 il matematico e ingegnere Shannon pubblica Una teoria matematica della comunicazione12. Shannon, bravissimo nella gestione della comunicazione tra macchine13, è stato utilizzato anche in ambito sociologico, operando un riduzionismo discutibile. Nel 1953 è stato Newcomb a superare gli evidenti limiti del modello di Shannon: non ci si occupa soltanto della comunicazione tra due o più soggetti, ma si pone la questione anche della situazione o contesto comunicativo entro cui avviene l’evento della comunicazione, in cui il ruolo emittente/ricevente è intercambiabile. Idee per una filosofia dello sviluppo umano, 361. Idee per una filosofia dello sviluppo umano, 507. 12 Si tratta di un articolo diviso in due parti comparso nella rivista «Bell System Technical Journal», 27 (1948). 13 Shannon già nel 1938 aveva dimostrato come la sequenza acceso/spento di interruttori elettrici segua la logica booleana della matematica. Lo stesso termine «bit» (per indicare l’unità minima di informazione) che tutti conosciamo deve a lui la nascita. 10 11 30 Egeria 4-2013.indb 30 11/09/13 08.19 Un altro futuro è possibile L’Italia della ricostruzione, del fascino del modello imprenditoriale americano, della spinta innovatrice dell’Iri e delle aziende private è molto attenta al dibattito filosofico, sociologico e industriale statunitense. Anche Balbo coglie l’importanza di questi aspetti. Ma – contrariamente ad altri – li sa leggere con un’impostazione filosofica. Ed è proprio la matura consapevolezza della tradizione filosofica a permettergli a un tempo la sensibilità alle tematiche contemporanee e il loro radicamento in una robusta innervatura filosofica. Scrive nel 1962: «La verità filosofica autentica si ha solo se il suo atto è distinguibile dal segno, dal pragma, così che la verità può essere ritrovata più ricca e più piena dopo la fine, la rottura, l’abbandono di una determinata formula»14. Balbo affronta con il suo lessico filosofico un po’ aristotelico e un po’ dialettico una tematica di grande rilevanza contemporanea: il rapporto tra l’informazione e il suo supporto, potremmo dire tra bit e atomo. Il secondo Novecento è dominato dalla «svolta linguistica», un evento che ha letteralmente spalancato gli orizzonti a tutto l’insieme delle cosiddette «scienze cognitive». Non è questa la sede per affrontare le varie modalità con le quali è stata interpretata questa linguistic turn. Resta comunque il fatto che il linguaggio è compreso come orizzonte di fondo, ambiente nel quale si possono incontrare temi come la dinamica della comunicazione, il rapporto significato/significante, la pluralità dei linguaggi. Il linguaggio è – secondo Aristotele ma anche secondo la Bibbia – ciò che fa tale l’essere umano. E tuttavia Balbo sta ben attento a non giustificare nessuna deriva gnostica. Il corpo non è un elemento spurio o residuale, ma è indissolubilmente connesso con l’informazione – e la stessa filosofia: La filosofia ha una dimensione, aspetto o realtà corporale, ossia è anche un corpo […]. Così la filosofia accetta nel suo intimo, in qualche modo, la materialità, la contingenza, la corruttibilità, la finitezza, la rischiosità e l’incertezza di ogni germinazione del cosmo, ecc.15. La sua biblioteca non a caso comprende le opere di Teilhard de Chardin. La sua «iperfisica» (così la chiama Balbo) ha un ruolo determinante nella formazione specialmente delle ultime opere balbiane. A Chardin si deve la nascita dello stesso termine «noosfera» (1947). Mentre Shannon si limita a esportare in ambito umano i principi di comunicazione dell’elettrotecnica, Teilhard de Chardin comprende che l’insieme dei prodotti culturali umani, attraverso il linguaggio e tutti i sistemi tecnologici di comunicazione, creano un ambiente, un ecosistema della mente, o meglio delle menti interconnesse tra loro. Bit e atomi sono entrambi in gioco in questa fisica che si apre in modo del tutto nuovo alla meta-fisica: sono nette le sue riflessioni quando ha l’occasione di visitare un ciclotrone a Berkeley nell’estate del 14 15 Idee per una filosofia dello sviluppo umano, 425. Essere e progresso, 651s. 31 Egeria 4-2013.indb 31 11/09/13 08.19 Anselmo Grotti 195216. Comprende che quelle «enormi turbine atomiche» (e cosa avrebbe detto se avesse potuto visitare il Cern di Ginevra!) richiamano tutti gli altri macchinari che, da mezzo secolo, continuano a crescere in tutte le direzioni, sotto i nostri occhi, come altrettanti alberi giganteschi […]. Sotto l’estrema varietà di forme e di approcci, non è forse riconoscibile, in ciascuno di questi snodi di attività umana, lo stesso processo in successione: un processo di collegamento e di sintesi17. La progressiva convergenza della mente umana e l’interazione reciproca degli esseri umani, spesso oggi definita come intelligenza collettiva o – meglio – intelligenza connettiva, trova in Teilhard de Chardin una grande ricchezza di osservazioni. Né lui né Balbo hanno conosciuto Internet: ma non ne sarebbero certo rimasti spiazzati. Impressionante questo passo di Teilhard de Chardin: Fino all’Uomo, si può dire che la Natura lavorasse a fabbricare «l’unità o granulo di pensiero». Ora sembriamo essere decisamente lanciati verso delle «costruzioni di granuli di pensiero», nella direzione di un «pensiero di pensieri», secondo le leggi di qualche iper-chimica gigantesca – sempre più in alto nell’abisso degli infinitamente complessi. Sintesi umana; impresa magnifica ma anche, facciamo bene attenzione, operazione delicata e lunga, che non può riuscire (come ogni altro sforzo della Vita) se non attraverso molteplici tentativi e dopo molta sofferenza. Ricordiamoci bene che in materia di cuori e di cervelli, assai più che in materia di atomi, non potrebbe essere buona qualsiasi forma di combinazione. Per un ceppo umano che è riuscito a forzare la soglia della Riflessione, quanti milioni di altri «phila» sono falliti! Il pro- 16 P. Teilhard de Chardin, Verso la convergenza. L’attivazione dell’energia nell’umanità, Il Segno dei Gabrielli Editori, S. Pietro in Cairano 2004. L’edizione originale francese è del 1953. Moltissime delle opere di Teilhard de Chardin sono state pubblicate dopo la sua morte, avvenuta nel 1955. Che Balbo lo citasse esplicitamente tra i suoi autori di riferimento fa comprendere come fosse presente in lui un fiuto particolare per le opere filosofiche. In Italia Teilhard de Chardin viene conosciuto solo dopo il fortunato libro di G. Vigorelli, Il gesuita proibito, edito presso Il Saggiatore nel febbraio 1963, pochi giorni dopo la morte di Balbo. Quanto poi alla ricezione, non sempre fu fortunata. Ad esempio Eugenio Montale gli dedica una poesia piuttosto velenosa in Satura: «Paleontologo e prete, ad abundantiam uomo di mondo, se vuoi farci credere che un sentore di noi si stacchi dalla crosta di quaggiù, meno crosta che paniccia, per allogarsi poi nella noosfera che avvolge le altre sfere o è in condominio e sta nel tempo (!), ti dirò che la pelle mi si aggriccia quando ti ascolto» (Eugenio Montale, Satura: 1962-1970, Mondadori, Milano 1971). 17 Teilhard de Chardin, Verso la convergenza, 292 (fa parte della sezione Osservando un ciclotrone. Riflessioni sulla concentrazione su di sé dell’energia umana). 32 Egeria 4-2013.indb 32 11/09/13 08.19 Un altro futuro è possibile blema che si pone, economicamente e socialmente, all’Uomo moderno (poiché lo voglia o no è votato alla Sintesi), è dunque di scoprire, tra le diverse forme possibili di collettivizzazione aperte davanti a lui, quella buona (cioè quella che continua più direttamente la Psicogenesi (o Noogenesi) da cui è uscito. Evitare gli intoppi, e trovare l’uscita in avanti dell’Evoluzione!18 Lo aveva capito Teilhard de Chardin: siamo destinati a essere ancora più social, più connessi nel web e nelle menti. Ma non ogni connessione è buona. Per questo occorre non lasciare questo processo al caso (meglio: ai gruppi di potere) e occorre prendersi consapevolmente cura della buona comunicazione. Balbo è attento a queste dinamiche, e il suo autore di riferimento è Tommaso. Proprio la riflessione su Tommaso lo porta a riflettere sul tema della comunicazione19. Un san Tommaso «che non è neoscolastico» (Laboratorio dell’uomo), mentre ha molto da dire sul tema molto contemporaneo del rapporto tra informazione e supporto: «l’intelletto e la volontà, pur trascendendo realmente l’esperienza sensibile (interna ed esterna), non realizzano la loro virtualità, non si attuano […] se non attraverso fatti o prodotti sensibili, materiali ossia individuati»20. Balbo non esita neppure a chiamare direttamente in causa le categorie aristoteliche, tanto che così definisce la causa materiale: «Causa materiale è ciò che individua, sensibilizza l’unità formale, ossia è tutto l’insieme sensibile del segno, della parola, della proposizione, del gesto, della macchina, ecc.»21. Si può dire quindi che la forma dà all’ente storico l’esistere come ente storico in senso proprio, e che la formula in senso latissimo o «materia signata» […] dà all’ente storico l’esistere come ente naturale strumentale che dura nel tempo e si situa nello spazio. È questo secondo modo di esistere che permette all’uomo […] di comunicare con se stesso e con gli altri uomini, di convivere, di collaborare e infine di svilupparsi come genere umano22. La scelta tomista è costante. Manca invece il riferimento ad Agostino, che pure avrebbe molto da dire sul rapporto vox/significatum oppure signum/significatum/ res23. Da rilevare il fatto che un commentatore rimproveri Balbo proprio della posi- Teilhard de Chardin, Verso la convergenza, 49-50. Su questo tema si vedano i lavori di A. Di Maio: Il concetto di comunicazione in Tommaso d’Aquino, in I fondamenti del comunicare, a cura di G. Piaia, Gregoriana, Padova 1994, 41-64; Il concetto di comunicazione in Tommaso d’Aquino e la «communicatio spiritualis sapientiae». Indagine lessicale e dottrinale [Excerpta ex Dissertatione], Pontificia Università Gregoriana, Roma 1995; Il concetto di comunicazione. Saggio di lessicografia filosofica e teologica sul tema di ‘communicare’ in Tommaso d’Aquino, con prefazione di padre Roberto Busa, Pontificia Università Gregoriana, Roma 1998. 20 La filosofia dopo Marx, 267. 21 La filosofia dopo Marx, 267. 22 La filosofia dopo Marx, 268. 23 Si veda ad es. L. Alici - R. Piccolomini - A. Pieretti (a cura di), Verità e linguaggio. Agostino nella filosofia del Novecento, Città Nuova, Roma 2002. 18 19 33 Egeria 4-2013.indb 33 11/09/13 08.19 Anselmo Grotti zione da lui coerentemente verificata. Giancarlo Penati aveva recensito Idee per una filosofia dello sviluppo umano, rimproverando all’autore la mancanza di un chiaro «primato della teoresi»24. La risposta di Balbo è chiara: quella che per Penati è una mancanza, per Balbo è proprio la tesi fondamentale della sua filosofia. Il primato tomista dell’esse è rivendicato proprio nella direzione di una fuoriuscita della filosofia dalla convinzione del controllo sulla realtà: «La mia tesi è che il primato dell’esse escluda il primato della teoresi. Senza, beninteso, che ciò significhi primato della prassi. Semplicemente non c’è, a mio avviso, che un solo primato: quello dell’esse […] l’uomo non è teoresi»25. Attraverso questo passaggio Balbo collega la sua posizione sul tema della comunicazione alla sua antropologia. Ogni riduzionismo epistemologico è contrario alla complessità e storicità dell’essere umano. L’uomo è un essere linguistico, in lui il linguaggio non è uno strumento ma un ambiente vitale. «Razionale» significa «dotato di linguaggio relazionale» prima ancora che «di ragione argomentativa». Una linea di sviluppo della filosofia occidentale ha invece pagato un alto tributo all’ideologia riduzionista del razionalismo. Il sogno febbricitante di formalizzare in algoritmo ogni aspetto del reale si è infranto con i lavori di Hilbert e Gödel, ma rinasce ancora una volta nelle versioni «forti» dell’intelligenza artificiale e del transumanesimo delle tecnoscienze. 5. Natura e grazia In ambito teologico si è a volte contrapposto natura e grazia, come se la natura fosse il negativo e la grazia il superamento salvifico della natura. Un po’ ha inciso il desiderio di far comprendere la gratuità e la novità che la grazia divina porta nelle nostre vite, ma un po’ è stato il frutto di una teologia e di un’antropologia non adeguatamente mature e soprattutto non in linea con il vangelo. La contrapposizione dualistica tra Bene e Male (che spesso è letta come contrapposizione tra natura, corpo, storia da un lato e spirito, eternità, sacralità dall’altro) è pagana più che cristiana (pur avendo lasciato tracce significative nella storia del cristianesimo). «Gratia non tollit naturam, sed perficit» ha scritto san Tommaso26. La natura è essa stessa grazia: è stata creata da Dio, è stata nobilitata dall’incarnazione. Essa è «sorella» (san Francesco); rivela la mano di Dio (Ugo di San Vittore: la natura è «liber scriptum digito Dei»). Guglielmo di Saint-Thierry dice che «la vista, luce naturale dell’anima per vedere Dio, creata dall’Autore della natura, è la «Rivista di filosofia neoscolastica», 12 (1962). Alcune implicazioni filosofiche e alcune conseguenze pratiche del primato dell’esse, 491. 26 Tommaso, Summa theologiae I, q. 1, a. 8, ad 2: «Cum enim gratia non tollat naturam, sed perficiat, opertet quod naturalis ratio subserviat fidei, sicut et naturalis inclinatio voluntatis obsequitur caritati». 24 25 34 Egeria 4-2013.indb 34 11/09/13 08.19 Un altro futuro è possibile carità». È vero che il peccato ha inquinato la natura originariamente creata da Dio. Ma è ancor più vero che natura e grazia sono partecipazioni alla vita divina. È nelle vicende umane e nella loro natura che si offrono le occasioni di incarnazione della grazia. Il Vaticano II ha sottolineato l’importanza delle «realtà terrestri». Ma è solo una visione miope e incolta a pensare che lo stesso medioevo non comprendesse il ruolo della natura e della corporeità. Scrive Alano di Lilla (XII sec.): «Decens enim fuit ut tam corporea quam incorporea natura divinae bonitatis particeps fieret, et ea frueretur, et feliciter viveret». Dante ci ricorda che se la natura è figlia di Dio, in quanto suo creatore, la tecnologia gli è nipote, visto che in un certo senso è figlia dell’uomo, figlio di Dio. Ciò che fa la differenza tra custodire e possedere è ciò che fa la differenza tra collaborazione filiale alla creazione divina e diabolica volontà di potenza. Artista, artigiano, artificiale collaborano con natura e non la contraddicono. Il giardino di Eden non era una wilderness, un’area naturale sviluppatasi in modo casuale. Era un giardino: qualcosa di coltivato, curato, rispettato, fatto crescere. Luogo di relazione. 6. Il cristianesimo nella società liquida La critica al razionalismo si accompagna in Balbo a una precisa consapevolezza della sua specularità con la teocrazia medievale. Si tratta in entrambi i casi di forme teologiche spurie, con pesanti ricadute filosofiche e politiche. L’Illuminismo ha spezzato il modello teocratico precedente, ma non ha saputo evitare la deriva totalitaria successiva27: Non Hegel soltanto ma il razionalismo è tutto per essenza e per definizione «mistico», «teologico», ed «escatologico» ed è anche tutto empio, ateo, distruttore, ecc. La legge dei contrari non è la legge della realtà ma è certo la legge del razionalismo. […] il razionalismo moderno è il rovesciamento semplice della posizione medievale teocratica […]. Ossia mentre la teocrazia medievale era fondata su di una non sufficiente distinzione tra religione, teologia e filosofia, la «teocratizzazione dell’uomo» non può non divenire identificazione semplice della religione e della teologia con la filosofia28. Nei cinquant’anni trascorsi dalla morte di Balbo il mondo è certamente molto cambiato. È cambiato (e non una volta sola) anche il rapporto del cristianesimo con 27 Proprio nel 1947 Max Horkheimer e Theodor Adorno pubblicano La dialettica dell’Illuminismo. Abbandonata la tesi economicista del marxismo ortodosso, i due autori della Scuola di Francoforte mettono in evidenza il ruolo totalitario assunto dalla ragione strumentale della modernità. Sono gli stessi anni in cui Balbo elabora la sua uscita dal marxismo e la resa dei conti con il riduzionismo razionalistico, un percorso intellettuale ben rappresentato nei tre importanti saggi usciti ne «La rivista di filosofia» tra il 1949 e il 1950. 28 Filosofia dopo Marx significa uscita dal razionalismo, 296. 35 Egeria 4-2013.indb 35 11/09/13 08.19 Anselmo Grotti il mondo. Viviamo in quella che Baumann ha chiamato «società liquida». Se è venuto meno il progetto onnicomprensivo del razionalismo, quello che è rimasto non è troppo consolante: un «cielo di plastica» (Alici) che facciamo fatica a perforare. Negli anni Sessanta del secolo scorso era diffusa l’idea che l’uomo del futuro prossimo sarebbe stato «secolare», interessato esclusivamente all’orizzonte immanente della vita. Il teologo della Chiesa battista Harvey Cox pubblica nel 1965 La città secolare, fortunato best-seller che ha venduto più di due milioni di copie. Cox scrive che se il cristianesimo ha un futuro lo deve trovare nell’ambito sociale. Oggi molti sono concordi nel ritenere sbagliata questa diagnosi. Ma già quarant’anni fa il sacerdote statunitense – scrittore e sociologo – Andrew M. Greeley29 aveva scritto ne L’uomo non secolare. La persistenza della religione (prima edizione 1972) che l’uomo non è secolare, e che l’apertura dell’uomo al religioso è stabile dall’era glaciale in poi. Resta il fatto che le trasformazioni culturali che stiamo vivendo sono importanti e sempre più veloci. Il cristianesimo si manifesta necessariamente in una specifica cultura, assumendone il linguaggio e allo stesso tempo trasformandolo: un aspetto che Balbo aveva compreso in profondità. Lo stesso passaggio dal mondo ebraico a quello greco non fu senza contrasti. Cosa sarebbe accaduto se nei primi decenni di storia del cristianesimo non ci fosse stata l’apertura al mondo ellenistico? Altrettanto avvenne con il passaggio dalla cultura greca a quella latina. Non a caso esistono differenze ancora oggi tra cattolici d’Oriente e d’Occidente, per non parlare di quelle tra cattolici e ortodossi. Nell’alto medioevo poi ci fu l’ingresso della cultura germanica. Nell’Ottocento per molto tempo il cristianesimo si è opposto alla modernità: le encicliche di allora leggevano i fenomeni culturali dell’epoca come smarrimenti del pensiero e del costume, perdita della verità e sconvolgimento dell’ordine30. Il Vaticano II ha invece inaugurato un’era di apertura e di simpatia verso il mondo contemporaneo. Siamo abituati alle differenze tra le Chiese storiche: cattolica, ortodossa (dall’XI secolo), anglicana e protestante nelle sue varie denominazioni (dal XVI secolo). Ma nei primi anni Sessanta sta comparendo un’altra realtà: quelle delle Chiese postcoloniali. Si tratta di Chiese orgogliose delle loro categorie culturali (diverse da quelle modellate sulla grande filosofia europea), con un’organizzazione più flessibile, sensibili al linguaggio dei mezzi di comunicazione. C’è un paradosso nella cultura della modernità. Berger ha scritto che tale cultura è nata «da un gigantesco spostamento dal destino alla scelta nella condizione umana»31. Eppure oggi non crediamo più alla possibilità di dare un senso all’esistenza. Non esistono più, secondo tale cultura, «narrazioni» che magari si contrappongono. Restano solo Scomparso a 85 anni il 3 giugno 2013. G. Canobbio (a cura di), Dossier Cristianesimo in trasformazione, in «Dialoghi», 1 (2013), 28-71. 31 P.L. Berger, Una gloria remota. Avere fede nell’epoca del pluralismo, il Mulino, Bologna 1994, 90. 29 30 36 Egeria 4-2013.indb 36 11/09/13 08.19 Un altro futuro è possibile frammenti che non si possono mettere a confronto. C’è un grande supermarket, e gli scaffali sono pieni di merci per ogni gusto. Basta ovviamente pagare. Non si ritiene che in natura ci sia qualcosa «da scoprire»; casomai «da fabbricare». Scriveva Horkheimer a metà del Novecento: «La macchina ha gettato a terra il conducente, e corre cieca nello spazio»32. Il cristianesimo e la fede non sono necessariamente osteggiati, purché si rassegnino ad essere uno dei tanti prodotti disponibili negli scaffali del supermercato unico mondiale. Secondo il filosofo Salvatore Natoli la secolarizzazione ha vinto e il cristianesimo può sopravvivere alla fine della cristianità, ma plausibilmente solo in una versione profana. Il cerchio si chiude e apparentemente siamo tornati alla tesi de La città secolare. Per quello che valgono le suggestioni, La città secolare è stata probabilmente scritta da Cox negli stessi mesi nei quali Balbo aveva impostato Essere e progresso. Contesti certamente molto diversi, ma forse l’accostamento può essere utile per meglio comprendere la peculiarità della risposta offerta da Balbo. Si può essere allo stesso tempi uomini postmoderni e uomini credenti? Balbo si pone esplicitamente come filosofo credente. Lo fa con una grande chiarezza di posizione e di laicità. Scrive: Nel cercare di pormi a filosofare puramente come uomo del nostro tempo e non solo come filosofo o studioso di filosofia, non posso prescindere dall’essere, bene o male, filosofo e cattolico. Non è però irrilevante, anzi, a mio avviso, è decisivo che intenda pormi dal punto di vista dell’uomo del nostro tempo33. La ricerca di Balbo è libera e laica, senza essere schizofrenica. Scrive: «Temere la ragione o l’esperienza non significa solo mancare di ragione ed esperienza, significa mancare di fede»34. Non si dimentichi che Balbo scrive negli anni difficili del dopoguerra e morirà poco dopo l’apertura del concilio Vaticano II. Nei tardi anni Quaranta si consuma il dramma politico ma anche esistenziale di molti italiani divisi tra appartenenza politica, religiosa, familiare, sindacale, ecclesiale. Negli anni Cinquanta il Paese pone le premesse di un balzo economico senza precedenti ma vive la fatica di forti ingiustizie sociali e la stessa Chiesa fatica a superare quello che alcuni intellettuali cattolici hanno chiamato la volontà di onnipotenza35. Esiste an- M. Horkheimer, Eclisse della ragione [1947], Einaudi, Torino 1969, 113. Essere e progresso, 635. 34 Il laboratorio dell’uomo, 111. 35 Cf. ad es. Mario Vittorio Rossi (già presidente centrale dei giovani dell’Azione cattolica) e il suo I giorni dell’onnipotenza. Memorie di una esperienza cattolica, Borla, Roma 2000. Rossi si dimette nel 1954 dopo le dimissioni imposte da Luigi Gedda a don Arturo Paoli e per protesta contro lo scivolamento a destra della Dc. Da rilevare che «L’Osservatore Romano» sostiene che le motivazioni delle dimissioni sono «deviazioni dottrinali» (Faziose speculazioni, in «L’Osservatore Romano», 23 aprile 1954). Per comprendere il clima difficile di quegli anni possono servire le parole che Mario Rossi scrive: «Quando nostalgici di ieri e dittatori di oggi, sotto etichette diverse e affermando la loro sfiducia nell’uomo, insidiano la libertà e in 32 33 37 Egeria 4-2013.indb 37 11/09/13 08.19 Anselmo Grotti che un interessante carteggio tra Balbo e Dossetti, anche se non si è sviluppata una vera collaborazione36. Prima che emerga la primavera dello Spirito permessa dal concilio Vaticano II non mancano i tentativi di una ricostruzione della societas christiana e di un collateralismo molto stretto tra religione e politica. Si tratta di tentativi non privi a loro modo anche di nobiltà (non a caso proprio l’Azione cattolica fornisce in quegli anni personalità di primo piano alla politica della Dc) ma non esenti da rischi. Soprattutto è difficile il rapporto con il mondo post-illuminista. Il Vaticano II segnerà anche da questo punto di vista un passaggio fondamentale, soprattutto nella dichiarazione Dignitatis humanae (7 dicembre 1965). Balbo come si è detto muore agli inizi del 1964, non fa a tempo a vedere gli sviluppi del concilio. Ma aveva fatto a tempo a scrivere pagine molto importanti sul cristianesimo nella post-modernità. In quanto Cristo è stato vero uomo (in quanto tale ha detto parole umane oltre che divine) non poteva non «fare cultura» e quindi storia come ogni altro uomo e così cultura e storia anche il cristianesimo medievale e latino. E come ogni cultura è legata al tempo e al luogo, è naturale che Cristo e il Cristianesimo si condizionassero come tutti gli uomini al tempo e al luogo e che si desse il loro nome a quell’epoca che più fu permeata dalla loro diretta e maggiore influenza umana. Ma le culture, le strutture storico-civili cadono col tempo […]. Ma noi sappiamo che Cristo è vero uomo e vero Dio come il Cristianesimo è una comunità di uomini che è Chiesa, Corpo Mistico di Cristo. Per questo Egli emerge infinitamente ed eternamente dalla storia degli uomini, dalla loro civiltà e dalla loro cultura e naturalmente dalla stessa «civiltà cristiana» latina e medievale37. Al lettore attento non sfuggirà che i termini utilizzati e l’anno di pubblicazione (1946) rimandano alla polemica contingente che si era aperta con l’articolo di Elio Vittorini che sulle colonne de «Il politecnico» sottolineava l’importanza di Cristo e del cristianesimo esclusivamente come cultura. Ma le parole di Balbo vanno oltre l’occasione. Aprono una vera resa dei conti con l’identificazione tra cristianità e cri- nome della libertà si preparano a toglierla, noi ci prepariamo a difenderla e invitiamo tutta la gioventù a farsi portatrice di questo insostituibile valore umano ed a unirsi a noi per abbattere tutte le insidie che possano sminuire l’affermazione di questo ideale: l’ignoranza, lo scadimento del senso morale nella vita pubblica e privata, l’ingiustizia sociale. E questo in nome di tutti coloro che per una città di uomini liberi hanno sofferto fino a martirio» (citato da M. Lovatti, Giacinto Tredici vescovo di Brescia in anni difficili, Fondazione Civiltà Bresciana, Brescia 2009, 235). 36 «Per molte ragioni, che si dovranno meglio analizzare, l’incontro tra Balbo e Dossetti non portò ad una collaborazione diretta. Balbo continuò nel suo progetto di lavoro che ebbe un esito più distanziato e indiretto nella fondazione della rivista “Terza generazione”, i cui ideatori e collaboratori riconobbero tutti l’ispirazione di Balbo anche se egli vi collaborò solo con un articolo» (G. Turbanti, Felice Balbo: il cristianesimo nella sfida della modernità, in «Storia e Futuro», 19 [2009]). 37 Il laboratorio dell’uomo, 179. 38 Egeria 4-2013.indb 38 11/09/13 08.19 Un altro futuro è possibile stianesimo, tra incarnazione storica ed essenza del kerigma, tra Occidente e vangelo, tra ancien régime e fede. 7. Un altro futuro è possibile Cento anni dalla nascita e cinquant’anni dalla morte: come si è detto sono questi gli anniversari che ci riportano a Balbo nel 2013 e nel 2014. Ma non è solo il dato contingente dell’anniversario a suggerire la lettura dei suoi libri. Soprattutto è la necessità di capire se esista uno spiraglio per immaginare un futuro diverso. Almeno per capire se è ancora possibile parlare, tout court, di futuro. Il mondo oggi è certamente molto diverso da quello del 1964. Le pagine di Balbo sono legate in modo prevalente al clima di quegli anni? Vi si possono trovare spunti per intuire qualcosa di quello che poi è accaduto? Intanto: che cosa è accaduto? «Il futuro non è più quello di una volta»: una frase ben impostata, arguta e capace di farci pensare. Chi l’ha scritta? Il riferimento più affidabile (ma non l’unico) ci rimanda a un testo del 1931 di Paul Valéry38. La frase è diventata celebre dopo che il writer milanese Ivan Tresoldi l’ha scritta su di un muro alla stazione di Porta Genova a Milano nel 200239. Al di là delle questioni di paternità, credo che questa espressione ci sia molto utile per sintetizzare la presenza di più futuri nel nostro orizzonte culturale. Detto in estrema sintesi: siamo di fronte al passaggio da un futuro immaginato come promessa a un futuro temuto come minaccia. E – proseguono alcuni – patito come condanna. Ma da quanto tempo c’è il futuro? Da molto tempo, ma non da sempre. 38 La citazione «Il guaio del nostro tempo è che il futuro non è più quello di una volta» è spesso attribuita a Paul Valéry (Regards sur le monde actuel, 1931). A dire la verità nell’originale francese è un po’ diversa; «L’avenir est comme le reste : il n’est plus ce qu’il était» (P. Valéry, Notre destin et les lettres. Regards sur le monde actuel, in Œuvres, vol. II, Pléiade, Gallimard, Paris 1977, 1062). Il testo riporta acute riflessioni sulle mutazioni di lungo periodo, sul ruolo dell’innovazione tecnologica, sull’Europa, sulla globalizzazione e sull’ascesa potenziale della Cina. Valéry sostiene che nel XX secolo neppure Mefistofele potrebbe predire il futuro. Non possiamo più pensare ad esso con la fiducia nei nostri sistemi tradizionali di controllo. Nel presente contributo utilizzo la frase nella versione di Ivan Tresoldi per evidenziare il passaggio dal futuro-promessa al futuro-minaccia (e magari al futuro-condanna). Valéry opera un raffinato passaggio intermedio: la perdita di controllo sulle modalità di evolvere della storia genera la transizione da un futuro progettabile a un futuro imprevedibile e quindi minaccioso. 39 La Provincia di Milano nel 2009 ha affidato a Ivan Tresoldi l’esposizione «Poesia viva» nella quale la frase sul futuro era diventata un’installazione. Cf. http://www.poesiaviva.it/pv/ 39 Egeria 4-2013.indb 39 11/09/13 08.19 Anselmo Grotti 8. Il mondo che non conosce futuro C’è stato un tempo in cui il futuro non esisteva. È il tempo del mondo antico, compreso quello dei Greci. I Greci non credevano al futuro, probabilmente neppure erano in grado di porsi la questione. Il tempo non ha futuro, ma è svolgimento perenne di un ciclo di vita e di morte. Come avevano fatto molto tempo prima di loro i Sumeri, anche i Greci non hanno nessuna fiducia che questo circolo si possa spezzare. La morte incombe paziente e inesorabile su ogni cosa. Il terribile semidio Gilgamesh, signore di Uruk, dapprima lotta ferocemente con Enkidu, poi si lega a lui di profonda amicizia. Terribile sarà il suo dolore alla morte di Enkidu, con cui ha condiviso molte vicende. Gilgamesh andrà in fondo agli oceani e nel buio degli inferi per strappare agli dèi l’immortalità di Enkidu e sottrarlo all’Ade. Ma, nonostante a un certo punto sia arrivato a un passo dal suo obiettivo, Gilgamesh fallisce. Così lo interpella Siduri, la divina taverniera del giardino paradisiaco: Gilgamesh, dove stai andando? / La vita che tu cerchi, tu non la troverai. / Quando gli dèi crearono l’umanità, / essi assegnarono la morte per l’umanità, / tennero la vita nelle loro mani. / Così, Gilgamesh, riempi il tuo stomaco, / giorno e notte canta e danza, / che i tuoi vestiti siano puliti, / che la tua testa sia lavata, lavati con acqua, / gioisci del bambino che tiene stretta la tua mano, / possa tua moglie godere del tuo petto40. Gli uomini possono aspirare a un momento di felicità, quello che i Greci chiameranno akmè. Akmè significa «punta», «culmine». Potremmo tradurla anche con «fioritura», vertice, una sorta di apogeo. Non a caso nella Grecia arcaica e classica il termine è usato al posto della data di nascita (lo fa ad esempio Apollodoro di Atene nella sua Chronikà)41. Dopo la fioritura però la pianta appassisce e inevitabilmente muore. Una vicenda simile a quella di Gilgamesh capita anche in Grecia, al grande poeta Orfeo. Questa volta ad essere spezzato dalla morte non è l’amicizia virile di due eroi ma l’amore appassionato tra un uomo e una donna. Com’è noto, non c’era creatura vivente o elemento della natura che non fosse affascinato dalle parole e dalla musica di Orfeo. Egli ama, ricambiato, la bellissima Euridice. La quale però muore, morsa da un serpente mentre corre per sfuggire alle attenzioni di Aristeo. Orfeo, come Gilgamesh, è animato da un amore così grande che ha la forza di scendere nell’Ade. Il fascino della sua musica convince Caronte, ammansisce Cerbero, zittisce i giudici dei morti, tiene lontano le anime dei dannati ma soprattutto – e Tavoletta di Berlino e Londra 60-75. Redatta nel II secolo d.C., la cronaca si occupava del periodo dal 1184 a.C. (a quell’anno Apollodoro faceva risalire la guerra di Troia) al 144 a.C. (la Grecia passa alla provincia romana di Macedonia). L’opera non ci è pervenuta ma era assai diffusa; ne ha tratto molte notizie anche Diogene Laerzio. 40 41 40 Egeria 4-2013.indb 40 11/09/13 08.19 Un altro futuro è possibile in modo inaspettato – commuove perfino Ade e Persefone. Piangono le Erinni, si ferma la ruota di Issione, cessano il loro pasto (a spese del fegato del gigante Tizio) gli avvoltoi, scompare il tormento della sete per Tantalo42. Orfeo ottiene ciò che desidera: il ritorno in vita di Euridice. Ma c’è un codicillo malvagio nella pietà di Ade: Orfeo dovrà precedere l’amata e non dovrà voltarsi per guardarla sino a che ella non sarà uscita dagli inferi. Esce Orfeo e cammina contando i passi, resiste al desiderio intenso di guardare Euridice. Ecco, è uscito e decide di voltarsi. Euridice però cammina piano, le fa male ancora la caviglia per il morso del serpente. Gli dèi degli inferi hanno vinto, neppure Orfeo è riuscito a conquistare la vita per la sua sposa. Dolcemente annota Ovidio che ella, morendo per la seconda volta, non si lamentò; e di che cosa avrebbe infatti dovuto lagnarsi se non d’essere troppo amata? Porse al marito l’estremo addio, che Orfeo a stento riuscì ad afferrare, e ripiombò di nuovo nel luogo donde s’era mossa43. Orfeo impazzisce dal dolore; Euridice comprende invece che agli umani è stata data solo la breve felicità dell’akmè: essere amati per un momento, e poi il dissolversi per sempre nel nulla. 9. Il futuro giudaico-cristiano: la promessa Il futuro compare invece con un piccolo popolo apparentemente di scarsa importanza: Israele. Nell’Antico Testamento si parla in più punti di ritorno all’esistenza terrena di persone defunte44. Con qualche anticipazione in Isaia (Is 25,8), il testo fondamentale è però Daniele 12,2 e soprattutto 2 Maccabei 7. I fedeli uccisi in odio alla loro fede confidano di riavere non semplicemente la vita terrena, ma «una vita nuova, eterna». Nel NT Gesù porta a compimento queste promesse e – in un certo senso – realizza quanto non era riuscito a Gilgamesh e Orfeo. Scende negli inferi (dopo essere «sceso» sulla terra con l’incarnazione) per amore degli uomini e li porta fuori dal regno della morte, dopo averne scardinato le porte. Le rappresentazioni bizantine di un Gesù che quasi strattona i morti afferrandoli saldamente per il braccio ci fanno comprendere la distanza da Orfeo che tiene esitante la mano di Euridice, con un amore sincero ma inadeguato allo scopo. Non solo la terra, ma anche i cieli si sono squarciati. È nato il futuro – che forse meglio si chiamerebbe qui avvenire, poiché si tratta di un dono di un Dio che porta Cf. Ovidio, Metamorfosi, X, 41-63. Ovidio, Metamorfosi, X, 61-63. 44 Ad es. il ritorno alla vita di bambini e di adulti defunti in 1Re 17,17-24. Oppure il ritorno alla vita delle ossa inaridite contemplate dal profeta Ezechiele (Ez 37,3) o Amos 5,2 e Osea 6,1. 42 43 41 Egeria 4-2013.indb 41 11/09/13 08.19 Anselmo Grotti nella sua stessa «ragione sociale», nel suo nome sapore di futuro: «Io sono colui che sarò / colui che viene». Un avvenire che è sulla soglia del «già» e del «non ancora». In Europa l’avvenire è diventato a poco a poco futuro, secolarizzandosi e affidando di volta in volta a realtà diverse il ruolo di «messia»: la scienza, la rivoluzione, l’economia. A fine Ottocento sino alla Grande guerra il futuro è la conquista progressiva e inarrestabile del controllo sul mondo e sull’uomo stesso. La politica garantisce il trionfo del «sol dell’avvenire»45, Freud assicura il prosciugamento delle forze inconsce fuori controllo: «Dov’era l’Es deve subentrare l’Io. Questa è l’opera della civiltà»46. Freud non ha particolare considerazione per l’idea di progresso, eppure il clima è tale che le sue posizioni sono acquisite alla voce «progresso del sapere». Da noi il poeta ufficiale Carducci compita: «Il mondo è bello, e santo l’avvenir»47. Come aveva profetizzato Nietzsche, l’eclissi della trascendenza porta con sé, sia pure con un certo slittamento letterale, anche l’eclissi del futuro. L’ultimo atto del tentativo di pensare al futuro senza trascendenza è forse quello di Camus: «La vera generosità verso il futuro consiste nel donare tutto al presente […]. Il futuro è la sola trascendenza degli uomini senza Dio»48. Anche in Italia gli anni Cinquanta conoscono il tema del futuro, non più così sereno come prima delle due guerre, ma ancora possibile: L’avvenire non è un probabile dono del cielo, ma è reale, legato al presente come una sbarra di ferro immersa nel buio, alla sua punta illuminata49. Come è noto il periodo tra la fine degli anni Cinquanta e i Sessanta del secolo scorso conosce un ritorno al tema del futuro. I rapidi progressi economici, sia pure non omogenei, si accompagnano a un rinnovato interesse per il futuro, la crescita, lo sviluppo. Balbo intercetta questa atmosfera, con il suo stile. Nel 1962 pubblica Idee per una filosofia dello sviluppo umano. Il suo lavoro maggiore, rimasto incompiuto, si intitola proprio Essere e progresso. Coglie alcune contraddizioni di queste tensioni verso il progresso, alcune fragilità, alcuni possibili punti di frattura. Anche la Chiesa cattolica è al centro di questa scommessa sul futuro, sull’idea che si possa dare uno sguardo positivo sulla storia e sul suo sviluppo. Lumen gentium, Gaudium et spes, Nostra aetate, Dignitatis humanae, Inter mirifica sono solo alcuni dei documenti conciliari che esprimono questa tensione. In Paolo VI si utilizza lo stesso termine «progresso» nell’importante enciclica Populorum progressio (1967). Nella storia della Chiesa il termine «progresso» era inteso soprattutto nel suo significato di 45 Ancora nel 1945 Mao poteva scrivere: «Il mondo progredisce, l’avvenire è radioso, nessuno può cambiare questo orientamento generale della storia» (Sui negoziati di Chiung-King). 46 S. Freud, Nuova serie di lezioni, in Opere, Boringhieri, Torino 1967-1993, vol. XI, Lezione 31, 190. 47 G. Carducci, Il canto dell’amore, in Giambi ed epodi, 1882. 48 A. Camus, L’uomo in rivolta, 1951. Camus è un coetaneo di Balbo: anche lui è nato nel 1913. 49 V. Brancati, Paolo il caldo. Il romanzo esce nel 1955, un anno dopo la morte del suo autore. 42 Egeria 4-2013.indb 42 11/09/13 08.19 Un altro futuro è possibile «camminare in avanti» (progredire), detto del fedele nel suo rapporto verso Dio50. Paolo VI senza rinnegare il significato tradizionale del termine lo amplia al riconoscimento che il cammino dei popoli denominati appunto «in via di sviluppo». Lo sviluppo viene visto in maniera ampia e positiva: «Lo sviluppo non si riduce alla semplice crescita economica. Per essere sviluppo autentico, dev’essere integrale, il che vuol dire volto alla promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo. [...] Nel disegno di Dio, ogni uomo è chiamato a uno sviluppo, perché ogni vita è vocazione»51. Al n. 87 Paolo giungerà a scrivere che «sviluppo è il nuovo nome della pace». 10. La scelta tra futuro-promessa e futuro-minaccia Se vogliamo capire cosa rende possibile pensare al futuro come promessa forse è bene andare a vedere due momenti chiave del secolo scorso. Il Novecento non è stato un secolo molto tranquillo, specialmente se lo interpretiamo nella versione del «secolo breve» 1914-1989. Eppure ci sono stati almeno due periodi di fiducia nel futuro, due periodi che hanno generato futuro in termini di cultura, di civiltà, di economia. Ma non dappertutto e non allo stesso modo. Vediamoli a ritroso: anni Sessanta e anni Trenta. Anni Sessanta. Si pensa al futuro come qualcosa di possibile quando ci si accorge che le cose progettate in effetti accadono, tutto sommato anche in tempi brevi. Quando Kennedy nel 1961 promette che gli USA invieranno un americano sulla Luna facendolo tornare sano e salvo, appare molto temerario. Gli USA sono in ritardo tecnologico sull’URSS, non hanno ancora fatto neppure un vero volo orbitale. Eppure nel 1969 la promessa viene mantenuta. In otto anni fu imparato tutto: a orbitare attorno alle Terra, ad agganciare due navicelle, a passeggiare nello spazio, a costruire un vettore gigantesco, a circumnavigare la Luna, finalmente a scendere, camminare, ritornare. Otto anni è un tempo brevissimo, tanto che qualcuno non ci ha creduto: troppo in fretta e troppo perfetto per le tecnologie di allora. Eppure una motivazione c’è: furono veramente otto anni straordinari di speranza. Era possibile immaginare un futuro che diventava realtà nel presente che avremmo abitato a breve, non nel futuro remoto. Questo modello non valeva solo per i viaggi spaziali. Se studiavi in un istituto tecnico miglioravi la tua posizione. Se facevi l’università potevi ragionevolmente sperare di migliorare come non mai la situazione sociale Ad es. Bonaventura da Bagnoregio parla di questo progresso mistico nell’Itinerarium mentis in Deum. Pensato da Bonaventura nel 1259 sul monte della Verna, è una sorta di ascesa verso Dio raccontata in sei capitoli: ascesa che culmina nell’autorivelazione di Dio nel capitolo VII. 51 Populorum progressio, 14-15. 50 43 Egeria 4-2013.indb 43 11/09/13 08.19 Anselmo Grotti ed economica. Anche nell’immaginario della cultura pop gli anni Sessanta passano come quelli dell’ottimismo, dello sviluppo e del futuro. Anni Trenta. Potrà invece sorprendere qualcuno inserire gli anni Trenta quale secondo esempio di fiducia nel futuro come promessa del Novecento. Quale futuro può essere immaginato in Europa in quel decennio, con i fascismi al potere, con lo stalinismo imperante, con il nazismo che pianifica la conquista del mondo e l’annientamento dei popoli «inferiori»? Forse solo il futuro lugubre del Reich millenario. Eppure la situazione al di là dell’Atlantico è molto diversa. Gli USA vivono drammaticamente il disastro della Grande depressione del 1929, pagando un prezzo sociale altissimo. Europa e America vivono entrambe la crisi, con le angosce e le tensioni che inevitabilmente ogni evento di simili proporzioni porta con sé. Tuttavia c’è una differenza fondamentale nel modo di reagire. Negli USA gli stimoli emozionali scatenati dal 1929 riescono a generare desiderio di futuro. In Europa invece dominano le paure collettive, il desiderio di un dux, un Führer, un piccolo padre, un caudillo52 cui affidarsi ciecamente, pronti a scambiare l’autodeterminazione e la libertà con una sicurezza illusoria. Negli USA il presidente Roosevelt lancia un importante programma di intervento nei settori dei trasporti, dell’agricoltura, dell’energia – ma anche della scuola. Diversamente che in Europa, negli USA si afferma un nazionalismo progressista – contrario al protezionismo – e un ampliamento del ruolo della classe media a svantaggio delle precedenti oligarchie. Scrittori come Steinbeck o Dos Passos celebrano l’idea che il futuro si possa costruire con le scelte personali. Balbo ha capito che la questione fondamentale è quella della scelta, il che implica un gigantesco sforzo culturale. Negli anni difficili del 1953 e 1954 è stato il promotore dell’esperienza di «Terza generazione»53, una rivista nella quale si è affrontato il tema dello sviluppo umano con grande chiarezza. Scrive a questo proposito Sobrero che non esiste solo un «capitale monetario» da investire nell’impresa, ma deve essere «scoperta e utilizzata la ricchezza globale di ogni persona considerata per se stessa mediante l’impiego di quel risparmio occulto che risiede quotidianamente nelle acquisite capacità personali di ognuno a farsi promotore di ricchezza, impiegando bene se stesso prima che la propria eventuale carta moneta»54. Nel 2003 due psichiatri pubblicano in Francia un libro destinato ad avere un grande successo (anche in Italia, grazie alla diffusione che ne ha fatto Galimberti): L’epoca delle passioni tristi55. Nella «Dichiarazione di intenti» che apre l’opera gli Tutti termini, come è evidente, che si rifanno a «capo», «guida». La rivista è edita da Ettore Sobrero, che proprio grazie a Balbo entra in contatto con molti intellettuali. La rivista pubblica interventi di Gino Giugni, Leopoldo Elia, Gianni Baget (poi anche Bozzo), Natalia Ginzburg. 54 E. Sobrero, Incontri reali e anche meno, Robin, Roma 2005, con Introduzione di B. Gambarotta, 33. 55 M. Benasayag – G. Schmit, L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, Milano 2004, più volte rieditato. 52 53 44 Egeria 4-2013.indb 44 11/09/13 08.19 Un altro futuro è possibile autori sostengono che siamo in presenza di un indubbio aumento di tristezza e di sofferenza psichica. Il futuro, sostengono, «cambia segno», non è lo stesso futuro di un tempo – anche solo di cinquant’anni fa. Anche per loro il futuro «non è più quello di una volta»56. In più troviamo un’eco secolarizzata della teologia cristiana del tempio: già e non ancora. Scrivono che nel 1963 (ancora una volta viene scelto questo anno!) tutti pensavano che, prima o poi, saremmo riusciti a guarire malattie gravi come il cancro […]. Ciò che si ignorava riguardo alle malattie era considerato in biologia non ancora conosciuto… In questa sfumature del non ancora risuonava la speranza e la promessa di una realizzazione futura, di un avvicinamento progressivo alla conoscenza. Lo stesso valeva per l’ingiustizia sociale, l’ignoranza eccetera57. Che qualcosa a un certo punto abbia cominciato ad andare storto nel rapporto con il tempo (passato/presente/futuro) lo si può capire anche da aspetti minimi della cultura pop. Ad esempio l’incredibile congelamento nella musica di consumo. Nel 1962 un gruppo di ragazzotti californiani mette insieme il gruppo (il «complesso») dei Beach Boys. Nell’estate del 2012 i Beach Boys pubblicano That’s why god made the radio. Sono tutti nati tra il 1940 e il ’42. Sono ancora qui a cantare come allora. A maggior ragione per i Beatles: dotati di quell’immortalità post-moderna e tecnologica che va al di là della morte dei componenti e delle evoluzioni dei superstiti. Questo congelamento del tempo è un dato di fatto e sostanzialmente ci sembra un fatto normale: ascoltiamo le stesse canzoni del 1963, conosciute, amate (e acquistate) anche dalle giovani generazioni. Per uscire un po’ da questa ipnosi può essere utile sottoporci a un’analogia un po’ straniante. Nel 2013 si ascoltano le canzoni di cinquant’anni prima, del 1963. Ma nel 1963 poteva accadere che si ascoltassero le canzoni di cinquant’anni prima, cioè del 1913? Confesso di non aver fatto studi approfonditi in proposito, ma ho qualche dubbio che nel 1963 si cantassero cose come The elevator man going up, going up, going up, going up! (Irving Berlin) oppure Everybody loves a chicken (Bobby Jones). Ma se lo smartphone (collegato via usb o meglio bluetooth al sistema audio dell’auto) lancia She loves you dei Beatles…, beh, lo canteranno anche i ragazzini. 11. Il futuro non è un algoritmo: rifiutare la hybris Schmit e Benasayag scrivono a un certo punto che nelle facoltà di medicina del tardo Ottocento circolavano voci sommesse, ma ritenute affidabili, che sarebbe stato possibile vincere la morte. C’è da chiedersi in sostanza se la crisi radicale dell’idea 56 57 Benasayag – Schmit, L’epoca delle passioni tristi, 18. Benasayag – Schmit, L’epoca delle passioni tristi, 18-19. 45 Egeria 4-2013.indb 45 11/09/13 08.19 Anselmo Grotti stessa di futuro non sia dipesa da un’alterazione idolatra e ideologica della progettabilità e programmabilità del futuro. Se il trasformarsi in minaccia dello svolgersi dei giorni non abbia qualcosa a che fare con la tracotanza che ci ha caratterizzato ogni volta che abbiamo preteso di aver scoperto il motore nascosto che fa andare la giostra. I Greci chiamavano hybris questa tracotanza, un misto di superbia, disprezzo di tutto, disubbidienza, autosufficienza, fiducia cieca nel proprio potere. Ma quando cresce la hybris cresce anche l’infelicità. Gli dèi puniscono gli uomini preda della tracotanza, fanno fallire i loro disegni e li gettano in una condizione di infelicità e di prostrazione, nell’isolamento e nell’infelicità. Se per i Greci ogni uomo deve affrontare costantemente nella sua vita questa tentazione, sono i Centauri a rappresentare per eccellenza l’accecamento dovuto alla tracotanza. L’eroe greco è tale perché cerca la sua grandezza ma allo stesso tempo è consapevole del limite che inevitabilmente lo circonda58. Balbo è molto preciso nell’individuare due fonti di hybris: la filosofia e la tecnocrazia. La filosofia: il marxismo «scientifico». Come si è detto più volte, per Balbo la ripresa della tomista filosofia dell’essere non è la semplice riproposizione della filosofia scolastica nel XX secolo, operazione insensata e impossibile. Ha però il ruolo di mettere in discussione un’idea di fondo della modernità: la riduzione della complessità del mondo a una tipologia di cause ben identificate o, al massimo, identificabili nel futuro. Questa riflessione da un punto di vista teorico coinvolge molti autori della modernità, ma da un punto di vista a lui coevo e globale ha un nome: la filosofia di Marx. Non dimentichiamo il clima culturale di quegli anni: caduto il fascismo, quasi tutti gli intellettuali formatisi su Croce passano al marxismo. In campo internazionale la contrapposizione tra i due blocchi è fortissima, sia pure con qualche effimera attenuazione. Il sistema sovietico appare ancora come un’alternativa credibile all’Occidente. L’URSS anzi è nettamente in vantaggio sugli USA nel settore spaziale. Balbo ha conosciuto molto bene e dall’interno il mondo degli intellettuali di sinistra tra Torino, Milano e Roma. Ha condiviso per un tratto di strada una sincera passione progressista presente nel gruppo einaudiano. Si pensi alla profonda umanità che si può trovare nell’ultima lettera di Giaime Pintor prima di essere ucciso: Musicisti e scrittori dobbiamo rinunciare ai nostri privilegi per contribuire alla liberazione di tutti. Contrariamente a quanto afferma una frase celebre, le rivoluzioni riescono quando le preparano i poeti e i pittori, purché i poeti e i pittori sappiano quale deve essere la loro parte […]. Quanto a me ti assicuro che l’idea di 58 Cf. ad es. il mito di Bellerofonte, che vuol rubare a Zeus i segreti del cosmo. Ma vale anche per tantissime altre situazioni: Icaro, Fetonte, i Proci, Serse, Aiace. A Olimpia il frontone del tempio è dominato da un Apollo vittorioso sulla hybris dei Centauri. 46 Egeria 4-2013.indb 46 11/09/13 08.19 Un altro futuro è possibile andare a fare il partigiano in questa stagione mi diverte pochissimo; non ho mai apprezzato come ora i pregi della vita civile e ho coscienza di essere un ottimo traduttore e un buon diplomatico, ma secondo ogni probabilità un mediocre partigiano. Tuttavia è l’unica possibilità aperta e l’accolgo59. Balbo dedica proprio a Pintor il suo libro L’uomo senza miti. «Senza miti» è un’espressione da prendere molto sul serio: indica proprio il rifiuto della hybris. Anche di quella della presunta «verità» del pensiero marxista, che ama autodefinirsi «scientifico»60. Scrive nel 1948: Fin quando la ragione scientifica marxista viene intesa come ragione scientifica assoluta, non è solo il profitto capitalistico o il feticcio ideologico ad opporsi alla rivoluzione. Nella esatta misura in cui la ragione scientifica è intesa e applicata come ragione scientifica assoluta è l’essere reale, la religione reale dell’uomo che si oppone nelle forme storiche più varie e attraverso lo stesso profitto e lo stesso feticcio ideologico61. La critica di Balbo al marxismo è soprattutto quella di essere una delle incarnazioni (quella predominante all’epoca) della hybris autosufficiente che si contrappone all’atteggiamento filosofico di ricerca. Non avrà timore neppure di usare l’espressione «pudore filosofico» come necessaria consapevolezza della non-risolubilità definitiva dell’umano. Beninteso, tale «pudore filosofico» non è la cristallizzazione del già noto, una fuga dal desiderio di conoscenza. Riguarda il metodo, non i contenuti. Anche la religione è soggetta alla hybris: anzi questo è il pericolo maggiore perché ciò che permette all’uomo la salvaguardia della sua umanità possibile è proprio l’appello al trascendente di fronte al pericolo costante di ontologizzare il già dato. Ma se il cristianesimo, trascendente per definizione, è imprigionato in un’insufficiente incarnazione storica, dove sarà possibile trovare armi contro il nonUomo («la Bestia», come lo chiama Balbo)? Senza il trascendente non è possibile un altro futuro62. G. Pintor, Il sangue d’Europa, Einaudi, Torino 1966, 187ss. Politicamente Balbo nel 1946 è tra quanti votano a favore dello scioglimento del Partito della sinistra cristiana e, con intellettuali come Sebregondi, Motta, Barca, Tatò, Rodano, aderisce al Pci. Non partecipa più alla vita del partito tra il 1947 e il 1948. Nel 1950 non rinnova la tessera. 61 Religione e ideologia religiosa, 239. 62 Su questa tematica si veda anche il recentissimo lavoro di S. Zizek e J. Milbank San Paolo Reloaded. Sul futuro del cristianesimo (Transeuropa, Massa 2013). Scrive Zizek, che non è credente: «Qui sta il messaggio del cristianesimo: la positività dell’Essere, l’ordine del cosmo regolato dalle proprie leggi, che è il dominio della finitudine e della mortalità, non è “tutto ciò che c’è”; c’è un’altra dimensione, la dimensione della vita vera dell’amore, accessibile a tutti noi attraverso la grazia divina, cosicché tutti possiamo parteciparvi». Il cristianesimo stabilisce «che io non sono soltanto ciò che sono, uomo, donna e così via; anzi, ciò che mi rende grande, o addirittura immortale, è il fatto che io non possa essere ridotto a ciò che sono nella mia esistenza particolare». 59 60 47 Egeria 4-2013.indb 47 11/09/13 08.19 Anselmo Grotti La tecnocrazia: «l’esteriorità meccanica e bruta». Balbo rimane sempre vicino alle problematiche dell’organizzazione del lavoro e del ruolo della tecnologia. Conosce com’è organizzata la Fiat, lavora all’Iri quando non era solo un carrozzone di Stato ma portava il Paese sulla scena internazionale, è al corrente dei successi della cibernetica e dell’informatica, anche in Italia63. Ne intuisce le potenzialità, è affascinato dalle promesse ma anche spaventato dalle derive antiumane. Già nel 1945 scrive che accanto al pericolo della reazione c’è quello della «esteriorità meccanica e bruta», che nasce «da un malsano rapporto fra tutte le strutture […] tecniche […] macchine e l’uomo»64. Ma è nel 1962 che definisce con chiarezza il criterio per un’antropologia aperta al futuro e capace di gestire le novità delle tecnoscienze: La prima e fondamentale implicazione di un approccio metafisico rigoroso nella considerazione dell’uomo balza all’occhio quando si pensi che tale considerazione include il futuro totale dell’essere umano e non solo l’esistente, inteso, questo, nel senso dell’esistenza umana sin qui realizzata […]. Non è più solo il reale che entra nella considerazione intellettiva, ma il possibile, nel senso di ciò che non è ancora reale, ma che sarà reale o potrà realizzarsi o è possibile che si realizzi65. Balbo parla di sviluppo umano molti anni prima del «benessere equo e sostenibile»66, molti anni prima del concetto di «felicità interna lorda» contrapposto a quello di «prodotto interno lordo» e alcuni anni prima dello stesso discorso di Kennedy del 1968: 63 Un dato poco conosciuto è la sua collaborazione tra il 1945 e il 1947 con la casa editrice Orma, caratterizzata da libri di ottima qualità. Lavora presso Orma anche Ettore Sottsass, architetto e marito di Fernanda Pivano. Il nome di Sottsass è legato anche all’informatica grazie al suo design rivoluzionario del calcolatore elettronico Elea 9003 prodotto dalla Olivetti a partire dal 1957. Il calcolatore elettronico, nato in Gran Bretagna negli anni della guerra, era pensato come una struttura gigantesca e programmabile solo via hardware (spinotti, connessioni fisiche, ecc.): Sottsass cambia completamente impostazione, disegna una serie di moduli di piccole dimensioni e inizia l’era della progettazione «user friendly», con un’interfaccia intuitiva e amichevole. Al design innovativo Olivetti accompagna una potenza di calcolo strabiliante per l’epoca e – prima al mondo – realizza un computer multitasking totalmente a transistor e non più a valvole. La versione del 1959 è rimasta per anni la più performante al mondo. In quegli anni l’Italia è in grado di puntare sul futuro, e c’è da chiedersi come sia stato possibile dilapidare un momento così felice della ricerca e dell’industria (fisica, chimica, cibernetica) più avanzate. Sottsass firma ancora nel 1984 il design del fortunatissimo M24 di Olivetti. Segnalo infine, come omaggio alla rivista che ospita l’articolo (edita dall’Issr di Arezzo), che un prezioso Elea 9003 (ne furono costruiti appena 40) si trova ancora funzionante presso l’Itis Fermi di Bibbiena (Arezzo): onore al merito di chi in Italia si prende cura della memoria: http://www. elea9003.it/. Balbo parla di cibernetica anche nelle Lettere a Ludovica, Archinto, Milano 2008. 64 L’altro pericolo, in «Il Politecnico», 39 (1945). L’incomprensione ricevuta da importanti intellettuali contemporanei testimonia la precocità, almeno in Italia, con cui Balbo aveva individuato il problema della tecnocrazia. 65 Opere, 442. 66 Cf. http://www.misuredelbenessere.it/ 48 Egeria 4-2013.indb 48 11/09/13 08.19 Un altro futuro è possibile Il Pil non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione né la devozione al nostro paese. Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta. Può dirci tutto sull’America, ma non se possiamo essere orgogliosi di essere americani67. È davvero lo Stato il punto focale della trasformazione? In anni carichi di ideologia (e un po’ di ideologia non era mancata neppure a lui stesso in precedenza) Balbo scriveva: La costruzione o la modifica dello Stato è l’ultimo problema [che dobbiamo] aver davanti […]. Primo problema […] è quello della piena manifestazione e messa in movimento delle reali possibilità umane, intellettuali, morali e tecniche68. Già attorno al 1953 Balbo sperimenta il lavoro in piccoli gruppi sia in ambiente intellettuale che operaio e rurale, con una forte attenzione sociologica. Anche Giorgio Ceriani Sebregondi assieme a Balbo aveva indicato le condizioni dello sviluppo stabile e diffuso. Così un recente studio descrive la sua impostazione, molto affine a quella di Balbo: Ceriani Sebregondi sosteneva che qualsiasi intervento esterno ha senso e funziona se impatta su una realtà locale che ha individuato la migliore combinazione dei fattori locali. Senza questo sforzo, quanto viene da fuori fatica a innestarsi. Occorre capovolgere l’ordine del giorno. Siamo cresciuti in una cultura che considera la comunità, le relazioni positive, la coesione sociale figlie di un territorio ricco che sta bene. È invece il contrario. La coesione sociale è una premessa e non l’effetto dello sviluppo69. Conclusioni. La filosofia come relazione Abbiamo detto in apertura che è un gioco mettere accanto dei filosofi uniti soltanto dalla data di nascita. E certamente pur sempre di un gioco si tratta. Ma a volte il gioco apre prospettive nuove e degne di interesse. Cento anni dopo la nascita e cinquanta dopo la precoce morte allontanano gli equivoci di corto respiro sulla lettura troppo «politica» di Balbo. Ne valorizzano invece aspetti fondamentali e di più ampio respiro (senza rinnegare la vocazione Robert Kennedy, discorso del 18 marzo 1968 all’Università del Kansas. Il piccolo gruppo di lavoro e la sua funzione nella grande organizzazione, in Termine e concetto di costume, Atti del 2° Convegno-laboratorio organizzato dal Centro internazionale delle arti e del costume in Venezia, 27-28-29 settembre 1956, Morcelliana, Brescia 1957, ripubblicato con alcune varanti in «Rivista di organizzazione aziendale», 4 (1958). 69 Mezzogiorno: troppi errori in Cassa, intervista di Giovanni Ruggiero a Carlo Borgomeo, in «Avvenire», 18 giugno 2013, 22. Borgomeo è autore dello studio L’equivoco del Sud, Laterza, Roma-Bari 2013. 67 68 49 Egeria 4-2013.indb 49 11/09/13 08.19 Anselmo Grotti civile del suo pensiero). E così si scoprono alcune evocazioni. Camus scrive: «La vera generosità verso il futuro consiste nel donare tutto al presente» (L’uomo in rivolta). Ma questo non deve significare negare i diritti del presente in nome di un ipotetico futuro. Al suo uomo senza qualità è forse preferibile il balbiano uomo senza miti. Il piccolo gioco intellettuale con cui abbiamo iniziato questo contributo svela adesso il suo nucleo: la possibilità di leggere questi autori sotto il tema del riconoscimento della relazionalità del filosofare, della necessità di operare l’ermeneutica del significato per accettare una volta per tutte la modernità senza rinunciare alla felicità del pensare. Il filosofo inglese Paul Grice sostiene l’intenzionalità comunicativa, vale a dire la necessità di comprendere un messaggio a partire dall’intenzione del comunicante. Qualcosa di estremamente importante a salvaguardia di una possibile riduzione algoritmica del linguaggio, una sorta di ripresa della hybris e del mito da cui Balbo non ha mai cessato di mettere in guardia. Grice inoltre è attento al ruolo dell’intersoggettività, al rapporto parlante-ascoltatore. Il che ci porta anche a Ricœur e ai grandi temi dell’ermeneutica, della comunicazione, del sospetto verso la hybris razionalista della modernità e dell’apertura verso il linguaggio. Ricœur parla più volte di «seconda ingenuità» come dell’atteggiamento che conosce il disincanto del mondo sacrale ma non si adegua al cinismo del non-pensiero. La seconda immediatezza che noi cerchiamo, la seconda ingenuità che attendiamo non è infatti più accessibile se non nell’ermeneutica: possiamo credere solo interpretando. È la modalità «moderna» della credenza nei simboli; espressione dell’affanno in cui si muove la modernità ed espressione del suo rimedio. Questo è il circolo: l’ermeneutica procede dalla comprensione di ciò che ha il compito di comprendere interpretando. Grazie però al circolo dell’ermeneutica posso ancora oggi comunicare col sacro, esplicitando la precomprensione che anima l’interpretazione. Così l’ermeneutica, conquista della «modernità», è uno dei modi attraverso i quali la «modernità» si supera in quanto oblio del sacro. Io credo che l’essere può ancora parlarmi, non più certo nella forma precritica della credenza immediata, ma come la seconda immediatezza a cui mira l’ermeneutica. Questa seconda ingenuità vuol essere l’equivalente post-critico della ierofania precritica70. Una «seconda ingenuità» che in Balbo è scelta di vita. Anche le testimonianze sulla sua vita quotidiana ci raccontano un uomo capace di ascoltare anche chi veniva in partenza bollato dagli altri come uno dal quale non può venir fuori nulla di buono. Narra dolcissima la Ginzburg: Pavese diceva: – Che bisogno c’è di proposte? Siamo pieni di proposte fino al collo! Me ne infischio delle proposte! Non voglio idee! – Giralo allora a Balbo, – diceva la voce. 70 P. Ricœur, Finitudine e colpa, il Mulino, Bologna 1970, 628. 50 Egeria 4-2013.indb 50 11/09/13 08.19 Un altro futuro è possibile Balbo, lui, dava retta a tutti. Non rifiutava mai un nuovo incontro. Balbo non aveva difese contro le proposte e le idee. Tutte le proposte e tutte le idee gli piacevano, lo sollecitavano, lo mettevano in fermento, e veniva a esporle a Pavese. Veniva là, piccolo, col suo naso rosso, serio come diveniva serio quando aveva una proposta da esporre, quando credeva d’aver messo gli occhi su di un caso umano nuovo, stupito come sempre si stupiva dinanzi a ogni nuova forma umana che si delineava sul suo orizzonte, sempre disposto a cogliere l’intelligenza ovunque, a vederla pullulare in ogni angolo dove s’eran posati i suoi piccoli occhi celesti, acuti e ingenui, sprovveduti e profondi. […] Pavese diceva: – Mi sembra una proposta cretina! Difenditi dai cretini! E Balbo rispondeva che, sì, era infatti in parte una proposta cretina, ma era però anche insieme non tanto cretina, e aveva un nocciolo buono, vitale, fecondo71. 71 N. Ginzburg, Lessico famigliare, Einaudi, Torino 1963, 158. 51 Egeria 4-2013.indb 51 11/09/13 08.19 Egeria 4-2013.indb 52 11/09/13 08.19
© Copyright 2024 ExpyDoc