Tre racconti - altrestorie

Tascabili Economici Newton
100 pagine 1000 lire
198
In copertina: Franz von Stuck, Salomé, 1906
Titolo originale: Trois contes (Un Coeur simple, La Legende de Saint Julien l'Hospitalier,
Hérodias)
Prima edizione: ottobre 1994
Tascabili Economici Newton
Divisione della Newton Compton editori s.r.l.
© 1994 Newton Compton editori s.r.l.
Roma, Casella postale 6214
ISBN 88-7983-716-8
Stampato su carta Libra Classic della Cartiera di Kajaani
distribuito dalla Fennocarta s.r.l, Milano
Copertina stampata su cartoncino Fine Art Board della Cartiera di Aanekoski
Gustave Flaubert
Tre racconti
Un cuore semplice,
La leggenda di San Giuliano Ospitaliere,
Erodiade
Introduzione di Nicola Muschitiello
Traduzione di Maurizio Grasso
Edizione integrale
Tascabili Economici Newton
Introduzione
La scrittura dei Tre racconti è, per Flaubert, occasione di una raffinazione riflessiva delle sue opere precedenti; ed essi prendono per
noi un valore di precetto estetico definitivo. Composti tra l'ottobre del
1875 e il febbraio del 1877, e pubblicati nell'aprile di questo anno,
sono appunto un compiuto lascito letterario, tre anni avanti la morte
del testatore. Flaubert è sullo stremo, nel periodo più drammatico
della sua vita. Non sono cancellate in lui le cause dei suoi rammarichi: la sfavorevole accoglienza che ha sortito nel pubblico L'Educazione sentimentale e, di recente, La tentazione di Sant'Antonio, la
«stanza segreta del suo spirito», come intuisce precocemente Baudelaire, l'opera intorno alla quale ha lavorato più a lungo; e gli sono
morti antichi amici, e gli è morta la madre; ed ecco incombere adesso, nel 1875 appunto, il caso che si trovi in rovina per questo, che il
marito della nipote Caroline, al quale ha affidato l'amministrazione
dei suoi beni, poco manca non fallisca. E Flaubert si ritrova a dover
campare di non si sa che. A questo punto, interrompendo il lavoro
incominciato sulla grottesca epopea di Bouvard e Pécuchet, si dà a
scrivere, quasi esperimento fatto della propria forza che rimane, ciò
che lui chiama una «bagattella» (al modo stesso che Baudelaire
chiama «bagattelle» i suoi Piccoli poemi in prosa, con superbo avvilimento), cioè La leggenda di San Giuliano Ospitaliere, per comporre la quale già nel 1856 ha preso appunti dei quali però adesso
non si serve; e che Proust vedrà, sia detto subito, come la «più perfetta delle sue opere». È la tavola centrale del trittico che sono i Tre
racconti. La frase finale, che non è la fine del racconto ma una
giunta, modesta insieme e orgogliosa, fa cenno, straordinario per
Flaubert, a un motivo esterno, in forma di riscontro. Lo splendore
del suo testo e, richiamata, la mediocre figurazione della medesima
storia sulle vetrate della cattedrale di Rouen (che Flaubert vorrebbe
in appendice, sotto forma di disegno). «Voleva che il lettore ammirasse la differenza straordinaria che si riscontra fra il racconto splendidamente adorno e l'ingenua immagine provinciale», dice, senza
ombra di malizia, Marcel Schwob. Ma questo riferimento risponde
all'esigenza di una coda del soggetto svolto, e non costituisce la rive-
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NICOLA MUSCHITIELLO
lazione di una fonte. Seguendo il suo metodo speciale che consiste in
una elaborazione elettiva e riduttiva dei documenti di cui si serve per
apparecchiare le condizioni della sua scrittura, Flaubert si avvale
qui, oltre che di documenti particolari, di due testi canonici del Duecento: lo Speculum Historiale di Vincent de Beauvais e la Legenda
Aurea di Jacopo da Varazze. Relativamente a quest'ultimo testo,
Schwob appunta: «Bisogna leggere le storie di Giuliano nella Legenda Aurea per apprezzare il genio trasfiguratore di Gustave Flaubert».
E poi aggiunge che qui «Flaubert è riuscito a fondere e ad unire, in
un miracoloso smalto letterario, l'intero apparato cavalleresco e la
più semplice delle narrazioni religiose popolari». In questo racconto,
che è tolto in sostanza dall'agiografia, a risentire di intimi motivi
dell'autore, e che sembra fondato sul numero tre (il «tripartito vivere», diciamo così, di Giuliano messo in evidenza nella suddivisione
stessa del testo, la maledizione del cervo, e altre riprove), il contrappunto formale di Flaubert è al massimo grado. Notiamo, a titolo di
esempio, la contrapposizione del primo animale ucciso da Giuliano,
un piccolo topo bianco, a cui risponde l'ultimo, un cervo nero, con i
suoi sedici palchi e la freccia mortale piantata in fronte, quasi un
terzo corno.
Nell'imposta di sinistra del trittico, arde Un cuore semplice. Prima
di scrivere questo racconto, che dire straordinario è poco, Flaubert
ritorna in certi luoghi della sua infanzia: la spiaggia di Trouville e il
resto; e in effetti rivisita la sua infanzia col taccuino in mano, come a
pulire dagli sgorbi la memoria di quegli anni. Ma anche in questo
caso, compie piuttosto un 'operazione rituale, un riscontro preliminare, un atto ispettivo di cui purificarsi nello scrivere l'opera che ne
segue, nel giorno lustrale (che può durare anni) dedicato alla nominazione, al battesimo delle cose. Come fa diciotto anni avanti, nel
1858, quando sta scrivendo Salambò (va in Tunisia per visitare la
città fantasma di Cartagine). Per lui, infatti, gli oggetti tanto più si
prestano ad attivare la visione, quanto che scapitano come puramente possibili. È un atto di assunzione a se stesso, il suo, che prelude
all'esattezza essenziale, alla puntualità che serve la bellezza. Per questo, Flaubert chiede un pappagallo impagliato al museo di Rouen, e
lo tiene dinanzi a sé, mentre è dedito a scrivere appunto Un cuore
semplice, primo nella compaginazione dei Tre racconti (vuole «avere l'anima piena di pappagallo», dice). E soffre di non avere, in luogo del pappagallo, «una testa umana spiccata di fresco», arrivato al
terzo. Diciamo subito che Un cuore semplice è straordinario anche
per questo, che per la prima volta Flaubert ha voluto commuovere
(«Voglio impietosire, far piangere le anime sensibili, che una di queste son io»). Non è che non ci si commuova d'una scena magistralmente descritta; ma questa è commozione implicata dall'ammirazio-
INTRODUZIONE
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ne. Ma qui, Flaubert, uno scrittore che è sempre stato avverso, con
cuore rivoltato, all'amore coniugale e alla generazione, diventa padre
di una bambina dall'assurdo nome Félicité (un nome antifrastico),
che «per un niente veniva picchiata», buona e semplice come una
bestiola (che il «cuore spietato» Giuliano medesimo, nella crudezza
cruenta che mette alla santità, non sarebbe stato capace di uccidere),
una bambina che muore in forma di vecchina che tutta la vita ha
amato con candore. Padre celeste, qui, Flaubert. Il quale commenta:
«Stavolta, non diranno più che sono inumano». In questo racconto,
che (insieme con L'Educazione sentimentale) è il più riscontrabile
alla biografìa di uno scrittore che più di ogni altro sta intero nella
sua opera e invisibile in essa in virtù di un programma estetico di
«impersonalità» rigorosamente attuato, bisogna notare la singolare
occorrenza delle date. Le quali non servono a stabilire gli eventi in
maniera realmente memorabile, dando il senso di una esatta progressione cronologica, ma sono allo stesso titolo, o manco, degli
eventi accennati che servono a segnalare ai personaggi un certo
anno: così, il crollo di parte del tetto che poco manca non uccida
qualcuno, oppure l'offerta del pane benedetto quale incarico spettante alla signora Aubain. Lo scrupolo della datazione crea una illusione di precisione storica, e ha l'effetto perverso di rendere tutto più
vago e remoto. Anche qui, l'elevatezza del tono (come un risalto costante, un ripetuto battere della voce), l'ingrandimento dei particolari, sono segni fra altri di una volontà di magnificazione: simile all'impagliatore che indora «per amor di grandezza» la noce morsa dal
morto pappagallo «Loulou», Flaubert mira all'imponente, anche nel
descrivere i particolari (soprattutto nel descrivere i particolari, anzi);
e lo fa appunto «per amor di grandezza» («par amour du grandiose»).
Erodiade, imposta di destra del trittico, ha la condensazione dei
sogni. E porta al sanguinoso incendio di Salambò, il secondo romanzo di Flaubert; al modo che, per dichiarare l'attenenza di ambiente dei Tre racconti a opere precedenti e di maggior mole, è stato
proposto dalla critica che La leggenda di San Giuliano Ospitaliere
si annetta a La tentazione di Sant'Antonio, e Un cuore semplice a
Madame Bovary. Una inquietudine nuova si impadronisce di Flaubert, quasi a segnare il culmine di un'arte che tra poco tempo tacerà,
insieme con la vita stessa: «Sto male dalla paura che la Danza di
Salomè mi suscita. Temo d'abborracciarla. E poi, sono allo stremo
delle forze. È tempo di finirla, e per me di dormire infine». È un
sentimento, questo, assonante al sentimento da lui sperimentato prima della composizione di Un cuore semplice, quando appunto perlustra la sua infanzia, durante quella sua immersione nell'acqua ritrosa della memoria, che gli consente per altro di sentire umana-
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NICOLA MUSCHITIELLO
mente, non più difeso da una senilità connaturale, il peso vero dell'età: «Questa gita mi ha abbeverato di tristezza, costretto com'ero a un
bagno di ricordi. Sono vecchio, mio Dio, sono vecchio!» (ha cinquantasei anni). Pure in questo terzo racconto, Flaubert è tutto volto
verso il suo ideale di Arte (la maiuscola si impone). E a questa operazione riservata egli porta la lussuria ascetica di uno stilita. E qui
brucia le provviste della cultura, il numero di libri che legge prima di
pigliare la penna e scrivere qualche riga in un giorno, seduto al suo
tavolino rotondo, come per evocare gli spiriti, tutto solo. Il documento non gli serve neanche qui a disporre insieme e incrementare la
narrazione (com 'è nel contemporaneo realismo, in Zola, poniamo);
ma gli è insegnamento, alla lettera: gli indica dove portare le sue
provviste fantastiche; gli insegna un cammino occorrente, una via
orientativa contro l'antico bisogno infantile della stravaganza. In
fondo, Flaubert possiede già le immagini fondamentali che, concatenate, svolgono il racconto (come le immagini di un sogno, le quali,
cooperanti in un'ombra di storia, solamente dal pensiero allucinato e
ben desto possono essere elaborate e collegate in una storia possibile
e vera). «Esprimere la propria visione, senza intrusioni dell'intelligenza o della sensibilità: ecco quel che sta più a cuore a Flaubert...»,
scrive Proust; che, letterariamente lontano appunto da Flaubert,
come questi si voterà al martirio dell'Arte, a proclamarla: ed entrambi sono perciò simili al Battista di Erodiade, il quale, in rispetto al
Cristo, «perché lui cresca», diminuisce. È qui veramente simboleggiato il rapporto dell'Artista con l'Arte. Com'è per Baudelaire («Si deve
lavorare, se non per gusto, almeno per disperazione...»), la laboriosità nella letteratura diviene occupazione assoluta, rendendo inerte appunto la disperazione («la mia normale condizione», ammette Flaubert). Essa consente allo scrittore di conseguire, nella perfezione dello
stile, qualcosa che vale più che la gloria (del resto, incertissima): la
possibilità di piacersi (e Flaubert lo dichiara, rivelando una motivazione che ce lo rende prossimo, nel suo rigido sacerdozio letterario).
Lo stile, che gli «scorre nel sangue», si spande, in Erodiade, come il
sangue santo del Battista. Qui, nel dominio di una mossa elaboratissima che è stata commisurata con la «tecnica del cinema» (primi
piani, campi lunghi, e così via), è da dichiarare che trionfa apertamente il vero dell'Arte, il quale, attenendo al vero reale, lo condensa
in una unità di luogo e di tempo. All'occorrenza, Flaubert preferisce
l'inventare una città che non esiste (Sorek, nel repertorio di ciò che si
vede dalla roccaforte, nella prima pagina) al dire il falso su una città
che esiste (Gazer, da lui scelta al principio, che, per la sua posizione,
non poteva esser vista dalla roccaforte stessa). «Tutto ciò che si inventa, è vero», egli scrive (anche perché è rinvenuto, potremmo aggiungere). E perfino quel verso di Lucrezio incorporato al racconto, e
INTRODUZIONE
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citato a contrasto della resurrezione, è affatto appropriato a Flaubert,
che nella sola resurrezione del passato, compiuta attraverso una fattura estetica, crede, e che celebra, unica consolazione, l'annullamento dell'io nella corruzione finale.
Numerose sono le analogie e le simmetrie all'interno dei Tre racconti. Che, anzitutto, contengono la relazione di tre santi (Félicité,
cuore semplice, pareggia in santità Giuliano e, più remoto, il Battista). Una gran luce accompagna la fine della loro esistenza; luce che
pende all'azzurro (il colore della carta dove l'autore scrìve questi ultimi testi). Dal farsi della morte, ne viene una strana speranza (mai
Flaubert l'aveva fatta presentire). Una gloria assoluta e assolvente si
accompagna alla morte, appunto, in circostanze di estenuazione, e
quasi di schifo, per accennare una vittoria sulla ripugnanza della
vita, come anche l'avvento di una salvezza probabile. Perfino la testa
del Battista, un Golia spirituale ora «sceso tra i morti», dopo un'orrìbile processione sul repositorio di un piatto profano, conosce una
lenta e invisibile apoteosi nel giorno fatto. Il soggetto simbolico di
salvezza è, o diventa, smisurato. Il Lebbroso Dio si allunga e sale
portando con sé Giuliano, e sale il pappagallo Paràclito mostruosamente grande; laddove la testa mozzata del Battista, «estremamente
pesante» («très lourde»), suggerisce all'autore di terminare il racconto
con un significativo avverbio (a determinare, qui, il modo del Verbo): viene trasportata da tre persone, «a turno».
Per accennare, ora, la preminenza stilistica di questi Tre racconti,
prendiamone, a titolo di esempio, alcuni punti, secondo l'ordine in
cui sono stati compaginati da Flaubert. Nel primo, Un cuore semplice, troviamo, riferita a Félicité, questa frase: «Anche lei aveva
avuto, come chiunque altro, la sua storia d'amore».
E noi ci aspettiamo che subito se ne parli; ma segue un capoverso
che incomincia con «Suo padre...», e parla della infelice infanzia di
Félicité. È una transazione, ma sensibile, uno stacco anzi, sorprendente e pure indispensabile, perché immette nelle condizioni che consentono «la sua storia d'amore», la quale si prepara nel capoverso
successivo.
Ancora: «Si accordò con un vetturino a nolo, che la portava al
convento ogni martedì. Nel giardino c'è una terrazza dalla quale si
vede la Senna. Virginie vi passeggiava a braccetto con lei, sopra i
pampini caduti».
Qui (come in un luogo dell'Educazione sentimentale, notato da
Proust), l'«eterno imperfetto» di Flaubert è interrotto inopinatamente
(e ritorna poi impassibile e commovente) da un indicativo presente,
che è indice, se non di etemo, almeno di una condizione perdurante.
E: «Tutte le sue piccole cose occupavano una credenza nella camera a due letti. La signora Aubain le passava in rassegna il meno
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NICOLA MUSCHITIELLO
possibile. Un giorno d'estate si rassegnò: dall'armadio volò via una
nuvola di farfalle ("des papillons s'envolèrent de l'armoire").»
Lo sgomento di bellezza che ci coglie al pensiero che a volarsene sia
l'anima farfalla delle «piccole cose» della morta Virginie, come l'anima di lei dal corpo, per quel gesto inespresso della signora Aubain
sua madre, non viene avvilito dalla riflessione che verosimilmente si
tratta di tignole.
Nel secondo racconto, La leggenda di San Giuliano Ospitaliere,
troviamo questa piccola frase: «A furia di pregare le venne un figlio».
Lo straniamento qui è memorabile. Sembra quasi che Giuliano nasca da una Vergine (e che il castellano suo padre sia un padre putativo).
E: «Giuliano la raccolse». Che fa un intero capoverso. Raccolta, è
la torcia caduta alla moglie inorridita; torcia che permetterà a Giuliano di illuminare il suo proprio orrore.
Nell'ultimo racconto, Erodiade, c'è questo passaggio: «Il Proconsole ignorava l'evento, e trovò quella donna pericolosa; poiché Antipa
giurava che avrebbe fatto qualunque cosa per l'Imperatore, Vitellio
aggiunse...».
Il Proconsole e Vitellio sono la stessa persona; prima il titolo, poi il
nome. In Un cuore semplice (l'ultima parte), compare lo stesso
procedimento (prima una perifrasi qualificativa, «garzone del macellaio», poi il nome, «Fabu», improvvisamente).
E: «La testa entrò; e Mannaei la teneva per i capelli, all'estremità
del braccio, fiero degli applausi».
Badiamoci: in un clima di attesa odiosa, e odiosa frustrazione,
ecco la testa entrare (la testa!), priva di vita evidentemente, ma come
dotata di potenza ambulatorio; e il boia, che la regge in effetti, sembra stia compiendo un'azione incidentale e quasi superflua. Inoltre,
qui si verifica, in maniera impressionante, una singolare scelta di
stile di Flaubert, che consiste nell'usare la congiunzione e in forza di
pausa e disgiunzione.
Sono campioni di una situazione diffusa; saggi di una facoltà stilistica che sopravanza la fiducia del buon lettore.
NICOLA MUSCHITIELLO
Nota biobibliografica
LA VITA
Una biografia relativamente piatta, quella di Gustave Flaubert, se paragonata a
quelle tumultuose, «romantiche» o «maledette» di molti scrittori a lui contemporanei, corifei dell'intervento clamoroso nel sociale e nel politico, o veri e propri
scienziati dell'autodistruzione realizzata come gesto lungamente protratto in una
sorta di «sacra» allegoria del disprezzo per una società, quella del Secondo Impero, che rappresentava sotto forma di dura farsa ciò che era stata, col Primo,
un'avventurosa e esaltante tragedia. Una società, quella di Napoleone «il piccolo», violentemente benpensante, sordidamente bottegaia, affaristica e corrotta.
Bel Ami di Maupassant ne rappresenta i vari rampantismi in modo folgorante: e
non è certo un caso che il magnifico novelliere si consideri (e sia) allievo privilegiato del grande Flaubert, dal quale impara diligentemente il métier, la paziente
sapienza tecnica dell'arte di raccontare. Se si pensa all'esistenza solare di Hugo
da una parte, e dall'altra al percorso infernale di Baudelaire, si può ben dire che
la biografia dell'autore di Madame Bovary appare come quella di un eroico impiegato delle lettere la cui grandezza patetica sta tutta nel gusto, a suo modo perverso, di un martirio masochistico fortemente prosaico, quotidiano e ininterrotto.
Anche Flaubert, ovviamente, nutre nei confronti di quel mondo un disprezzo iroso e inguaribile: tutta la sua opera ne è piena. Riservatezza che pian piano diventa misantropia, sensibilità nevrotica, attenzione delicata ai legami familiari, obbligo interiore di obbedienza a un metodo produttivo non rapsodico ma fanaticamente sistematico, concorrono a fare di lui il primo esempio di scrittore moderno
nel quale la distanza dal flusso diretto della realtà esterna è la condizione necessaria per toccare i nervi scoperti di un'esperienza profonda.
Gustave Flaubert vide la luce il 13 dicembre 1821 nell'ospedale di Rouen, nel
quale il padre Achille-Cléophas esercitava funzioni di primario chirurgo. Compì i
primi studi nella città natale, in un ambiente studentesco acceso dalle idealità
romantiche e dai lasciti ardenti della rivoluzione del 1830, e fin dall'adolescenza
la sua immaginazione si sfogò nella scrittura di racconti, lunghe novelle, pièces
storiche. È dell'estate 1836 la prima folgorazione amorosa: una passione che sarà
sempre affettuosamente corrisposta ma mai soddisfatta, il grande cruccio sentimentale della sua vita. Sulla spiaggia di Trouville, ove la sua famiglia trascorreva
la villeggiatura, conosce Elise Foucault, compagna dell'editore musicale Schlesinger, di cui diventerà la moglie nel 1840. È un colpo di fulmine: il quindicenne
Gustave si innamora perdutamente della donna, che ha undici anni più di lui.
Soltanto trentacinque anni dopo, alla morte di Schlesinger, Flaubert oserà iniziare una lettera con «ma veille tendresse, ma toujours aimée», piuttosto che col
«chère madame» consueto. È un amore che si riversa in Mémoires d'unfou, composto da Gustave appena sedicenne; e che sarà poi il nucleo irradiante della prima Education sentimentale, nonché della versione definitiva del romanzo (18631869).
A Parigi, nel 1840, Flaubert si iscrive alla facoltà di legge dell'università, ma ha
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NOTA BIOBIBLIOGRAFICA
la testa e i progetti altrove. Segue svogliatamente le lezioni, e tre anni dopo abbandona gli studi. Risalgono a quest'epoca i primi contatti coi circoli letterari
della capitale, e in questi anni di incertezza e di profonde inquietudini prendono
a manifestarsi nel giovane Gustave i primi sintomi della malattia nervosa, probabilmente di carattere epilettico, la cui natura non fu mai individuata con precisione, che non sarà l'ultima delle ragioni del suo volontario confinarsi nella provincia di Rouen: nel capoluogo in un primo tempo, in seguito in una proprietà acquistata dal padre nella campagna di Croisset. Dopo la morte del padre (1846),
Flaubert vi si stabilirà definitivamente. Inizia poco dopo la stesura della prima
Tentation de Saint Antoìne.
In quel torno di tempo nasce la relazione con la scrittrice di successo Louise
Colet. E un amore che, dapprima violentemente passionale, si affievolisce pian
piano soprattutto per le sempre più lunghe assenze di Gustave dalla capitale, e
finisce per farsi rapporto psicologico e intellettuale. Il diagramma lo si può seguire lungo le linee del foltissimo epistolario cui dà luogo, e dal quale traspaiono
con grande lucidità le posizioni estetiche di Flaubert. Ma la lontananza e l'equivocità della situazione scavano tra i due amanti un fossato sempre più largo e
profondo. La rottura avviene nel 1855. In un romanzo à clef (Lui, 1860), la Colet
accusa: «Lontano da me, chiuso nel suo orgoglio laborioso e nell'eterna analisi di
se stesso, lui non mi amava affatto! L'amore era per lui solo dissertazione, lettera
morta!».
Nel 1849 la prima Tentation è terminata. Con l'amico Maxime Du Camp, anche
lui scrittore ma di proporzioni ben più modeste di quelle flaubertiane, compie un
lungo viaggio in Egitto, Palestina, Siria, Turchia, Grecia e Italia. Al ritorno comincia la pesantissima avventura della Bovary: un quinquennio di lavoro feroce e,
dopo la pubblicazione a puntate sulla Revue de Paris, un processo per oltraggio
alla morale pubblica e alla religione. Ma è comunque il successo: ormai lo scrittore è considerato l'indiscusso capofila della scuola realista. Il termine bovarìsmo
entra nell'uso comune. Emma Rouault, la protagonista del romanzo, occupa uno
dei posti d'onore nel pantheon dei personaggi della narrativa moderna.
Dal 1857 al 1862 Flaubert lavora alla composizione di Salammbó, la rutilante
storia cartaginese in cui domina l'eponima bellissima figlia di Amilcare. Anche
lei, come Emma, finirà tragicamente; e anche lei, è stato detto, è intrisa della
stessa vaga tristezza, curiosità e insoddisfazione della signora Bovary. Lo scrittore
è tormentato dall'insicurezza. E affascinato dal tema delle guerre puniche, che
sembra gli abbia suggerito alcuni anni prima Théophile Gautier, ma al tempo
stesso sente le sue forze insufficienti ad affrontarlo, con tutto il suo carico di
barbarie, di lussuria e di sangue. «Quanto più acquisto esperienza nella mia
arte», scrive a un'amica, «tanto più quest'arte mi diventa un supplizio: l'immaginazione resta stazionaria, il gusto aumenta, questo il guaio. Pochi uomini, credo,
hanno sofferto quanto me per la letteratura.» Ma la spinta al romanzo che
«deve» fare è troppo forte per poter essere esorcizzata e neutralizzata. Pur cambiando tema con un giro di trecentosessanta gradi, lo scrittore resta fedele al suo
metodo: una documentazione minuziosa fino al fanatismo, una cura maniacale
dei particolari, una mole di appunti nati dal vivo di una situazione, per quanto
remota sia nel tempo e nello spazio. Tutto ciò precipita, all'atto della scrittura,
nelle lente volute di un linguaggio sontuoso, gelidamente sovraccarico, algidamente sensuale. Salammbó è per Flaubert un'altra lotta col drago. Per potersi
sentire penetrato dal clima e dalle suggestioni visive e olfattive dei paesaggi africani, parte per la Tunisia dove trascorre due mesi, in solitudine, aggirandosi tra le
rovine di Cartagine.
II libro esce nel 1862. Debellata con quest'opera la sua febbre esotica, Flaubert
torna al romanzo «borghese» e di costume con la seconda (e definitiva) Education sentimentale (1869).
NOTA BIOBIBLIOGRAFICA
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A partire dal 1857, frattanto, lo scrittore aveva preso l'abitudine di passare l'inverno a Parigi. Scomparsi i suoi amici più intimi, Louis Bouilhet e Alfred Le
Poittevin, ormai in rotta con Maxime Du Camp, le sue frequentazioni letterarie si
incentrano su Théophile Gautier, Edmond de Goncourt e Turgenev, che tradurrà
in russo la Tentation de suini Antoine. Non manca nel suo percorso creativo qualche sfortunata esperienza teatrale. E del 1863 un dramma, Le Chàteau des coeurs,
che viene rifiutato da tutti i teatri parigini. Dieci anni dopo, un'altra pièce, Le
candidai, è un fiasco totale. Lo scrittore non riuscirà mai a farsene una ragione.
Duramente colpito da una serie di disgrazie, particolarmente la morte della madre e il tracollo economico che travolse il marito dell'amatissima nipote Caroline,
per sovvenire al quale lo scrittore dette fondo a tutte le sue sostanze, Flaubert si
concentrò sempre più nel lavoro letterario, ormai indispensabile anche al suo
mantenimento. Tra il 1875 e il 1876 compose la Legende de saint Julien l'Hospitalier, Un coeur simple e Hérodias, poi riuniti nel volume Trois contes. E intanto, da
molto tempo, lavorava a quella bibbia della stupidità umana che è Bouvard et
Pécuchet e che resta uno dei capolavori flaubertiani, pur nella sua incompiutezza
dovuta alla morte dell'autore. Il quale, drammaticamente scosso dagli avvenimenti del 1870, aveva abbandonato Croisset, dopo aver seppellito nel giardino
della sua casa alcuni manoscritti. Era ormai considerato un maestro della moderna letteratura, onorato dall'omaggio affettuoso di Alphonse Daudet, di Zola, di
Guy de Maupassant, del cui talento narrativo Flaubert può dirsi lo scopritore e il
valorizzatore primo.
Ridotto quasi in miseria, aveva accettato non senza riluttanza un sussidio governativo, ottenutogli per l'amabile interessamento degli amici parigini. L'8 maggio
1880 un malore improvviso lo stroncava. L'avventura umana e creativa di uno dei
massimi autori dei tempi moderni, che aveva sempre considerato la felicità «una
mania mediocre e pericolosa», si chiudeva seccamente. Flaubert non aveva ancora sessant'anni, e la propria ipotesi di felicità l'aveva affidata esclusivamente, e
per sempre, ai destini irrisolti dei suoi personaggi tragici.
L'OPERA
E da dire innanzitutto che un documento fondamentale, ricco al pari di una
miniera, per entrare nella vita e nel sistema delle idee estetiche di Flaubert, è la
Correspondance (9 volumi, Parigi 1926-33). Nel 1954 sono usciti a Parigi quattro
volumi di Correspondance inèdite. Esistono traduzioni parziali in italiano: Corrispondenza (due voli.), Lanciano, Carabba, 1931; Lettere, Torino, Einaudi, 1949.
Tradotte anche le Lettere a Luisa Colet (Milano, 1945).
La prima edizione completa delle opere di Flaubert, in 10 voli., è stata pubblicata nel 1874-75 (Oeuvres); per il centenario della nascita sono apparse le Oeuvres
complètes ìllustrées (14 voli., a cura di Albert Thibaudet e René Dumesnil, Parigi
1921-25).
Tutte le opere flaubertiane hanno avuto incessantemente traduzioni italiane
presso gli editori Mondadori, Einaudi, Editori Riuniti, Il Saggiatore, Sansoni e
altri.
La traduzione più recente dei Tre racconti è dovuta a Roberta Maccagnani
(«Oscar Classici», Mondadori, 1990). Una traduzione autorevole è quella di Lalla
Romano (Einaudi, 1980) e di Camillo Sbarbaro, proposta da Scheiwiller nel 1987.
Da ricordare infine la traduzione dovuta a Eugenia Scarpellini («I grandi libri»,
Garzanti, 1974), con una introduzione di Giovanni Giudici.
La Newton Compton ha pubblicato Madame Bovary, trad. di Ottavio Cecchi,
intr. di Mario Lunetta, 1994.
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NOTA BIOBIBLIOGRAFICA
Principali articoli e studi su Flaubert:
R. DUMESNIL, Flaubert, son hérédité, son milieu, sa méthode, Paris, Société Frangaise d'Imprimerie et de Librairie, 1906.
A. THIBAUDET, «Sur le style de Flaubert», in Nouvelle Revue Frangaise, marzo
1919, pp. 942-53.
M. PROUST, «A propos du style de Flaubert», in Nouvelle Revue Frangaise, 1 gennaio 1920, poi in Chroniques, Paris, Editions de la Nouvelle Revue Francaise,
1927 (trad. it. in Giornale di lettura, Torino, Einaudi 1958).
G. AUERBACH, Mimesis (cap. xvm), Berna, Francke, 1946 (trad. it. Mimesis, Torino, Einaudi 1956).
A. COLLING, Gustave Flaubert, Paris, Arthème Fayard, 1947.
R. BARTHES, «L'artisan du style», in Le degré zèro de l'écriture, Paris, Seuil 1953
(trad. it. Il grado zero della scrittura, Einaudi, Torino 1967).
v. BROMBERT, The Novels of Flaubert, Princeton, University Press 1966.
G. GENETTE, «Silences de Flaubert», in Figures, Paris, Seuil 1966 (trad. it. Figure.
Retorica e strutturalismo, Torino, Einaudi 1969, pp. 203-22).
M. BLANCHOT, L'entretien infini, Paris, Gallimard, 1969, pp. 487-95 (trad. it. L'infinito intrattenimento, Torino, Einaudi, 1977).
TRE RACCONTI
i
Un cuore semplice
I.
Per mezzo secolo, le borghesi di Pont-1'Évèque invidiarono alla
signora Aubain la sua domestica Félicité.
Per cento franchi all'anno cucinava e badava alla casa, cuciva,
lavava, stirava, sapeva imbrigliare un cavallo, ingrassare il pollame, montare il burro, e rimase fedele alla sua padrona, che da
parte sua non era una persona facile.
La signora Aubain aveva sposato un giovane bello ma spiantato,
che era morto all'inizio del 1809, lasciandole due figli ancora in
tenera età e una quantità di debiti. Fu allora costretta a vendere
le sue proprietà, tranne la fattoria di Toucques e quella di Geffosses, le cui rendite ammontavano a non più di cinquemila franchi, e lasciò la sua casa di Saint-Melaine per andare ad abitare in
un'altra meno dispendiosa, che era appartenuta ai suoi antenati
e si trovava dietro il mercato.
Questa casa, rivestita di ardesia, si trovava tra un passaggio e
una stradina che portava al fiume. Internamente c'erano dislivelli
che facevano inciampare. Uno stretto ingresso separava la cucina
dalla sala, dove la signora Aubain se ne stava tutto il giorno seduta accanto alla finestra in una sedia impagliata. Contro la parete intonacata erano allineate otto sedie di mogano. Un vecchio
pianoforte sopportava, sotto un barometro, il peso di una catasta
piramidale di scatole e di cartoni. Due poltroncine rivestite di
stoffa erano disposte ai due lati del camino di marmo giallo, stile
Luigi xv. La pendola, al centro, rappresentava il tempio di Vesta,
e in tutto l'appartamento c'era un odore di muffa, perché il pavimento era più basso del giardino.
Al primo piano c'era innanzitutto la camera della «Signora»,
grandissima, con una carta a fiori d'un colore pallido, nella quale
spiccava il ritratto del «Signore» in costume da moscardino. Comunicava con una camera più piccola, dove si trovavano due lettini, senza materasso. Seguiva il salotto, sempre chiuso, pieno di
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TRE RACCONTI
mobili coperti di lenzuola. Quindi un corridoio conduceva a uno
studio; libri e scartoffie riempivano gli scaffali di una biblioteca
che circondava su tre lati un vasto scrittoio di legno scuro. Il resto delle pareti spariva sotto disegni a sanguigna, pastelli di paesaggi e stampe di Audran, ricordi di un tempo migliore e di un
lusso svanito. Al secondo piano la stanza di Félicité prendeva
luce da un abbaino che affacciava sul prato.
Si alzava all'alba, per non perdere la messa, e lavorava fino a
sera senza fermarsi un istante; poi, terminata la cena, messe in
ordine le stoviglie e sprangata la porta, sepolto il ceppo nel camino con la cenere, si addormentava davanti al focolare con il rosario in mano. Nessuno era più ostinato di lei nel mercanteggiare.
Quanto a pulizia, lo scintillio delle sue pentole costituiva la disperazione delle altre domestiche. Economa, mangiava lentamente e con un dito raccoglieva sulla tavola le briciole del suo
pane - un pane da dodici libbre, cotto apposta per lei, e che
durava venti giorni.
In qualunque stagione portava un fazzoletto di cotone appuntato sulla schiena con una spilla, una cuffia che le nascondeva i
capelli, calze grigie, una sottana rossa, e sopra la camicetta un
grembiule con la pettorina, come le infermiere dell'ospedale.
Il suo viso era magro e la sua voce acuta. A venticinque anni
gliene davano quaranta. Superata la cinquantina, non dimostrò
più alcuna età; sempre silenziosa, la postura diritta e i gesti misurati, sembrava una donna di legno che funzionasse in modo automatico.
II.
Anche lei aveva avuto, come chiunque altro, la sua storia d'amore.
Suo padre, un muratore, era morto precipitando da un'impalcatura. Successivamente morì anche sua madre, le sue sorelle si
dispersero; un fattore la prese con sé e la mise, piccina com'era,
a badare alle vacche in campagna. Batteva i denti dal freddo nei
suoi miseri Straccetti, beveva carponi l'acqua degli stagni, per un
niente veniva picchiata, e alla fine fu cacciata per un furto di
trenta soldi che neppure aveva commesso. Entrò in un'altra fattoria, dove accudiva agli animali da cortile, e, dato che era simpatica ai padroni, suscitò le gelosie dei compagni.
Una sera d'agosto (allora aveva diciotto anni), la trascinarono
con loro alla festa di Colleville. D'improvviso si sentì smarrita,
stupefatta dal chiasso dei musicanti, dalle luci negli alberi, dai
UN CUORE SEMPLICE
21
costumi variopinti, dai merletti, dalle croci d'oro, da tutta quella
gente saltellante. Si teneva modestamente da parte, quando un
giovanotto dall'apparenza facoltosa e che fumava la pipa con i
gomiti sul timone di un carro, le si avvicinò per invitarla a ballare. Le pagò da bere, sidro e caffè, poi una focaccia, un fazzoletto
di seta, quindi, immaginando che lei se lo aspettasse, si offrì di
riaccompagnarla. Sul limitare di un campo di avena, la rovesciò
brutalmente al suolo. Félicité si impaurì e cominciò a gridare. Il
giovanotto si allontanò.
Un'altra sera, sulla strada di Beaumont, volle superare un grosso carro carico di fieno che avanzava lentamente, e sfiorando le
ruote riconobbe Théodore.
Lui la avvicinò tranquillamente, dicendo che bisognava perdonare, perché «era colpa del vino».
Lei non seppe che cosa rispondere; aveva voglia di fuggire.
Subito dopo il giovane cominciò a parlare del raccolto e dei
notabili del comune, del fatto che suo padre aveva abbandonato
Colleville per la tenuta degli Écots, dimodoché ora si trovavano a
essere vicini.
«Ah!», rispose Félicité.
Théodore aggiunse che i suoi volevano che si sistemasse. Del
resto, lui non aveva fretta e aspettava di incontrare una ragazza
che gli andasse a genio. Lei abbassò la testa. Lui allora le chiese
se pensasse al matrimonio. Félicité replicò sorridendo che non
era giusto prenderla in giro.
«Ma no, ve lo giuro!», e con il braccio sinistro le cinse la vita; lei
continuava a camminare, sostenuta dal suo abbraccio; rallentarono. Il vento era debole, le stelle brillavano, l'enorme carico di
fieno oscillava davanti a loro, e i quattro cavalli, scalpitando, sollevavano la polvere. Poi i due, senza preavviso, girarono a destra.
Lui la abbracciò ancora una volta. Félicité scomparve nell'ombra.
La settimana seguente, Théodore ottenne qualche appuntamento.
Si incontravano in fondo a un cortile, dietro un muro, sotto un
albero isolato. Lei non era poi così innocente come le signorine
di buona famiglia: gli animali l'avevano istruita; ma il buon senso
e l'istinto dell'onore le impedirono di capitolare. Questa resistenza esasperò l'amore di Théodore, al punto che, per soddisfarlo (o forse per pura ingenuità), le propose di sposarla. Lei
esitava a credergli. Lui si profuse in giuramenti.
Presto Théodore finì per confessare qualcosa di spiacevole; i
suoi genitori, l'anno precedente, avevano «comprato» un uomo
perché prestasse servizio militare al suo posto; ma da un giorno
all'altro poteva essere richiamato, e l'idea della leva lo terroriz-
22
TRE RACCONTI
zava. Questa codardia fu per Félicité una prova di tenerezza, e la
spinse a raddoppiare la sua. Scappava di notte e, arrivata all'appuntamento, Théodore la torturava con le sue ansie e le sue
istanze.
Finalmente, le annunciò che sarebbe andato di persona in Prefettura per prendere informazioni, che le avrebbe riferito la domenica successiva, tra le undici e mezzanotte.
Quando arrivò il momento, Félicité corse verso il suo innamorato.
Al suo posto trovò un suo amico.
Questi le disse che Félicité non doveva più rivederlo. Per sfuggire alla leva, Théodore aveva sposato una donna anziana e ricchissima di Toucques, la signora Lehoussais.
Fu un dolore sconvolgente. Félicité si gettò per terra, gridò, implorò il buon Dio, e continuò a gemere, tutta sola in mezzo alla
campagna, fino all'alba. Poi tornò alla fattoria e comunicò la sua
intenzione di andarsene; un mese dopo, saldati i suoi conti, raccolse tutto il suo piccolo bagaglio in un fazzoletto e si diresse
verso Pont-1'Évèque.
Davanti alla locanda interrogò una signora con una veletta da
vedova, che per l'appunto cercava una cuoca. La ragazza non sapeva fare molto, ma sembrava così piena di buona volontà e di
così poche pretese che la signora Aubain finì per dire:
«Va bene, vi assumo!».
Un quarto d'ora dopo, Félicité si era sistemata in casa Aubain.
In principio visse in una sorta di soggezione provocatale dal
«genere della casa» e dal ricordo del «Signore» che aleggiava
ovunque! Paul e Virginie, l'uno di sette, l'altra di appena quattro
anni, le sembravano fatti di una materia preziosa; li portava sulla
schiena come un cavallo, e la signora Aubain le proibì di baciarli
continuamente, cosa che la mortificò. Ciononostante si sentiva
felice. La mitezza di quell'ambiente aveva fatto svanire la sua
tristezza.
Tutti i giovedì, gli assidui della casa venivano a fare una partita
di «boston». Félicité preparava in anticipo le carte e gli scaldapiedi. Arrivavano alle otto in punto, e si congedavano sempre
prima che suonassero le undici.
Ogni lunedì mattina, il rigattiere che abitava sotto nel viale metteva in mostra per terra le sue ferraglie. La città si riempiva di un
ronzio di voci, in cui i nitriti dei cavalli, il belare degli agnelli, i
grugniti dei maiali si mescolavano con gli strepiti dei carri sulle
strade. Verso mezzogiorno, momento culminante del mercato, si
vedeva comparire sulla soglia di casa un contadino alto, col berretto all' indietro e il naso aquilino: era Robelin, il fattore di Gef-
UN CUORE SEMPLICE
23
fosses. Poco dopo era la volta di Liébard, il fattore di Toucques,
piccolo, rosso in volto, grasso, con indosso un vestito grigio e
gambali armati di speroni.
Tutti e due offrivano alla proprietaria polli e formaggi. Félicité
sventava invariabilmente le loro astuzie, e i fattori se ne andavano pieni di considerazione per lei.
A epoche indeterminabili, la signora Aubain riceveva la visita
del marchese di Gremanville, uno zio rovinato dalla crapula e
che viveva a Falaise nell'ultimo fazzoletto di terra che gli era rimasto. Si presentava sempre all'ora di pranzo, con un orrendo
barboncino le cui zampe insudiciavano tutti i mobili. Malgrado i
suoi sforzi per sembrare un gentiluomo, al punto di togliersi il
cappello ogni volta che diceva: «Il mio defunto padre», le cattive
abitudini lo vincevano, non perdeva occasione per versarsi da
bere e si lasciava sfuggire frasi indecenti. Félicité lo spingeva fuori educatamente: «Per oggi basta così, signor di Gremanville!
Alla prossima volta!». E richiudeva la porta.
Ma la apriva con piacere davanti al signor Bourais, un avvocato
a riposo. La sua cravatta bianca e la sua calvizie, la «lattuga»
della sua camicia, la sua ampia finanziera marrone, il suo modo
di fiutare tabacco curvando il braccio, tutta la sua persona producevano in lei quel turbamento in cui ci getta lo spettacolo degli
uomini straordinari.
Poiché amministrava le proprietà della «Signora», si chiudeva
con lei per ore nello studio del «Signore», temeva sempre di
compromettersi, nutriva un infinito rispetto per la magistratura e
aveva qualche pretesa di latinista.
Per istruire in modo piacevole i bambini, fece loro dono di un
atlante geografico illustrato, dove erano raffigurate scene di tutto
il mondo, antropofagi con copricapi di piume, una scimmia nell'atto di rapire una fanciulla, beduini nel deserto, una balena sul
punto di essere arpionata e così via.
Paul spiegò quelle stampe a Félicité. Questa fu tutta la sua educazione letteraria.
Quella dei bambini era curata da Guyot, un povero diavolo impiegato al municipio, famoso per la sua bella calligrafia, e che
affilava il suo temperino sugli stivali.
Quando il tempo era bello, si partiva di buon'ora in direzione
della fattoria di Geffosses.
Il cortile era in discesa, e la casa era nel mezzo; in lontananza si
scorgeva il mare, come una macchia grigia.
Félicité estraeva dalla sporta fette di carne fredda, e si pranzava
in un locale attiguo alla latteria. Era quanto restava di una villa
di campagna ormai scomparsa. La carta alle pareti, in brandelli,
24
TRE RACCONTI
tremava alla minima corrente d'aria. La signora Aubain stava a
fronte china, oppressa dai ricordi; i bambini non osavano più
dire una parola. «Su, andate a giocare!», diceva; loro non se lo
facevano ripetere due volte.
Paul saliva sul granaio, acciuffava gli uccelli, faceva rimbalzare i
sassolini sullo stagno, oppure percuoteva con un bastone le grosse botti che risuonavano come tamburi.
Virginie dava da mangiare ai conigli, si precipitava per cogliere i
fiordalisi e la rapidità delle sue gambe scopriva le sue mutandine
ricamate.
Una sera d'autunno si ritornò per i pascoli.
La luna, al suo primo quarto, illuminava una parte del cielo, e la
nebbia fluttuava come una sciarpa sul sinuoso paesaggio di Toucques. I buoi, distesi in mezzo ai prati, guardavano tranquillamente quei quattro individui che passavano. Al terzo pascolo alcuni
si alzarono, quindi circondarono il gruppetto. «Non abbiate paura!», disse Félicité; e, mormorando una sorta di nenia, accarezzò
sul dorso quello che si trovava più vicino; l'animale fece un voltafaccia e gli altri lo imitarono. Ma, superato il pascolo successivo,
si alzò un formidabile muggito. Era un toro, nascosto dalla nebbia. Avanzò verso le due donne. La signora Aubain stava per
mettersi a correre. «No! no! più piano!» Nondimeno affrettarono
il passo, sentendo alle loro spalle uno soffio sonoro che si avvicinava. I suoi zoccoli, come martelli, battevano l'erba del pascolo;
ora galoppava! Félicité si girò, e afferrò a due mani delle zolle di
terra che gettò negli occhi del toro. Quest'ultimo chinava il
muso, scuoteva le corna e tremava di furore muggendo orribilmente. La signora Aubain, al limite del pascolo con i due piccoli,
presa dal panico cercava di valicare il fossato. Félicité continuava
a indietreggiare davanti al toro, e non smetteva di scagliare zolle
di prato per accecarlo, gridando: «Sbrigatevi! sbrigatevi!».
La signora Aubain oltrepassò il fossato, spinse Virginie, poi
Paul, cadde parecchie volte nel tentativo di scalare la scarpata e,
incalzata dalla paura, alla fine ci riuscì.
Il toro aveva stretto Félicité contro una staccionata; la sua bava
schizzava sul volto della poveretta, un secondo di più e l'avrebbe
sventrata. La donna ebbe il tempo di incunearsi tra due pali e il
bestione, rimasto di stucco, si fermò.
Quell'avventura, per anni e anni, fu argomento di conversazione a Pont-PÉvèque. Félicité non ne trasse alcun motivo di vanto,
ritenendo di non aver fatto nulla di eroico.
Virginie la assorbiva quasi completamente, giacché a seguito di
quello spavento ebbe una malattia nervosa, e il dottor Poupart
consigliò dei bagni di mare a Trouville.
UN CUORE SEMPLICE
25
A quel tempo non erano ancora molto frequentati. La signora
Aubain prese informazioni, consultò Bourais, fece preparativi
come per un lungo viaggio.
I bagagli partirono con un giorno di anticipo, con il carro di
Liébard. Il giorno seguente questi portò con sé due cavalli, uno
dei quali aveva una sella da donna, munita di uno schienale di
velluto; un mantello arrotolato sulla groppa del secondo formava
una specie di seggio. La signora Aubain vi montò, dietro di lui.
Félicité prese con sé Virginie, mentre Paul inforcò l'asino di Lechaptoir, ottenuto in prestito a patto di averne gran cura.
La strada era così cattiva che i suoi otto chilometri richiesero
due ore. I cavalli affondavano nel fango fino ai pasturali, e per
uscirne provocavano bruschi scossoni con i fianchi, oppure inciampavano nelle carreggiate; altre volte erano costretti a saltare. La giumenta di Liébard in certi punti si fermava di colpo. Lui
attendeva pazientemente che l'animale si rimettesse in marcia, e
parlava di persone le cui proprietà costeggiavano la strada, aggiungendo alla loro storia le sue riflessioni morali. Così, in mezzo
a Théodore, mentre passavano sotto finestre circondate di cappucciati, Liébard disse alzando le spalle: «Ecco qua la signora
Lehoussais, che invece di prendersi un giovanotto...». Félicité
non udì il resto; i cavalli trottavano, l'asino galoppava; tutti imboccarono un sentiero, si aprì un cancello, apparvero due ragazzi, e si smontò di cavallo davanti al letamaio, proprio sulla soglia
della porta.
La vecchia Liébard, vedendo la sua padrona, si profuse in dimostrazioni di gioia. Le servì un pranzo a base di lombo di bue,
trippa, sanguinaccio, fricassea di pollo, sidro spumante, torta di
frutta e prugne sotto spirito, accompagnando il tutto con una serie di complimenti alla «Signora» che sembrava in ottima salute,
alla «Signorina» divenuta magnifica, al signorino Paul, singolarmente «sviluppato», senza dimenticare i defunti nonni, che i Liébard avevano conosciuto, essendo al servizio della famiglia da
parecchie generazioni. La fattoria aveva, come loro, un che di
antico. Le travi del tetto erano tarlate, le pareti nere di fumo, le
finestre grigie di polvere. Una scansia di rovere sopportava ogni
genere di utensili, brocche, piatti, scodelle di stagno, trappole
per lupi, cesoie per tosare le pecore; un'enorme siringa fece ridere i ragazzi. Non c'era un albero nei tre cortili che non avesse
una fungaia alla base o un ciuffo di vischio sui rami. Il vento ne
aveva abbattuti parecchi. Ma altri si erano ripresi nel mezzo, e
tutti erano piegati dal peso dei frutti. I tetti di paglia, simili a un
velluto bruno e di ineguale spessore, resistevano alle più forti
bufere. Ciononostante la rimessa andava in rovina. La signora
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TRE RACCONTI
Aubain disse che avrebbe provveduto, e ordinò di equipaggiare
nuovamente i cavalli.
Ci volle un'altra mezz'ora per arrivare a Trouville. La piccola
carovana fu appiedata per superare le Écores, una scogliera a
strapiombo sul mare; tre minuti più tardi, in fondo al molo, entrarono nel cortile dell'Agnello d'oro, dalla vecchia David.
Virginie, fin dai primi giorni, si sentì meno debole: era il risultato del cambiamento d'aria e dell'azione dei bagni. In mancanza
di un costume, li faceva in camicia; Félicité la rivestiva in un capanno dei doganieri utilizzato dai bagnanti.
Nel pomeriggio si andava con l'asino oltre le Rocce Nere, dalla
parte di Hennequeville. Dapprima il sentiero si inerpicava in
mezzo a terreni avvallati come i prati di un parco, quindi arrivava
su un altopiano dove si alternavano pascoli e campi coltivati. Sul
limitare del sentiero, nel folto dei rovi, cresceva l'agrifoglio; qua
e là, un grande albero morto formava zigzag con i rami nell'aria
azzurra.
Quasi sempre ci si riposava su una radura, avendo Deauville a
destra, Le Havre a sinistra e di fronte il pieno mare. Era scintillante di sole, liscio come uno specchio, talmente calmo che se ne
avvertiva appena il mormorio; qualche passero nascosto negli alberi pigolava, e tutto era ricoperto dalla volta immensa del cielo.
La signora Aubain, seduta, era assorta nel suo lavoro di cucito;
Virginie, al suo fianco, intrecciava giunchi; Félicité sarchiava fiori di lavanda; Paul si annoiava e voleva tornare.
Altre volte, superata la Toucques in battello, andavano in cerca
di conchiglie. La bassa marea lasciava nella secca ricci di mare,
pesci rossi, meduse; i ragazzi correvano per acciuffare i fiocchi di
schiuma trasportati dal vento. Le onde addormentate, ricadendo
sulla sabbia, si esaurivano sul bagnasciuga; la spiaggia si estendeva a perdita d'occhio, ma dalla parte della terra era delimitata
dalle dune che la separavano dal Marais, vasta prateria a forma
di ippodromo. Quando tornavano, Trouville, in fondo, ai piedi
del poggio, ingrandiva a ogni passo, e con tutte le sue case ineguali sembrava sbocciare in un allegro disordine.
Nei giorni in cui faceva troppo caldo non uscivano dalla stanza.
L'abbagliante chiarore dell'esterno stagliava barre di luce tra le
doghe delle persiane. Non un rumore in paese. In basso, sul marciapiede, non c'era anima viva. Quel silenzio diffuso aumentava
la tranquillità delle cose. In lontananza, i martelli dei calafati riparavano le carene, e una pesante brezza portava l'odore del catrame.
Il principale divertimento era il ritorno delle barche. Non appena oltrepassate le boe, cominciavano a bordeggiare. Le loro vele
UN CUORE SEMPLICE
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erano ammainate ai due terzi degli alberi e, con il trinchetto gonfio come un pallone, avanzavano, scivolavano nello sciabordio
delle onde, finché non si trovavano in pieno porto, dove bruscamente veniva gettata l'ancora. Dopodiché l'imbarcazione si
ormeggiava lungo il molo. I marinai scaraventavano sull'argine
pesci ancora palpitanti; una schiera di carretti li attendeva, e
donne coperte di cuffie si precipitavano a prendere le ceste e ad
abbracciare i loro uomini.
Una di queste, un giorno, avvicinò Félicité, che poco dopo entrò in casa tutta raggiante. Aveva ritrovato sua sorella; subito
dopo apparve Nastasie Barette, maritata Leroux, con un poppante al seno, un altro figlio nella mano destra e nella sinistra un
piccolo mozzo con i pugni sui fianchi e il berretto su un orecchio.
Un quarto d'ora dopo, la signora Aubain la congedò.
Si incontravano spesso dalle parti della cucina, o durante la passeggiata. Il marito non si faceva mai vedere.
Félicité si affezionò alla famiglia. Comprò loro una coperta, delle camicie, un fornello; evidentemente la sfruttavano. Questa sua
debolezza irritava la signora Aubain, che del resto non gradiva le
familiarità del nipote - dava del tu a suo figlio - e, dal momento
che Virginie cominciava a tossire e la bella stagione era finita,
tornò a Pont-1'Évèque.
Il signor Bourais la indottrinò sulla scelta di un collegio. Quello
di Caen era considerato il migliore. Paul vi fu iscritto, e salutò
tutti coraggiosamente, soddisfatto di andare a vivere in una casa
dove avrebbe avuto dei compagni.
La signora Aubain si rassegnò alla lontananza di suo figlio, che
del resto era indispensabile. Virginie ci pensò sempre meno. Félicité rimpiangeva i suoi schiamazzi. Ma fu distratta da una nuova
occupazione; a partire da Natale, accompagnò tutti i giorni la
piccina al catechismo.
III.
Dopo essersi genuflessa sulla porta, Félicité avanzava nella navata principale tra le due file di sedie, apriva il banco della signora Aubain, si sedeva e non smetteva di guardarsi attorno.
I ragazzi a destra, le fanciulle a sinistra riempivano gli stalli del
coro; il parroco stava in piedi vicino al leggio; in una vetrata dell'abside, lo Spirito Santo sovrastava la Vergine; un'altra la mostrava in ginocchio davanti a Gesù Bambino e, dietro il tabernacolo, una scultura lignea rappresentava san Michele che abbatte
il drago.
II sacerdote cominciò con un passo delle Sacre Scritture. Félici-
28
TRE RACCONTI
té credeva di vedere il paradiso, il diluvio, la torre di Babele,
città in fiamme, popoli che morivano, idoli rovesciati; di quell'abbacinamento serbò il rispetto verso l'Altissimo e il timore della
sua collera. Poi, ascoltando la Passione, pianse. Perché lo avevano crocifisso, lui che amava i bambini, nutriva le folle, guariva i
ciechi, e aveva voluto, per umiltà, nascere in mezzo ai poveri, nel
letame di una stalla? Le mietiture, i frantoi, le semine, tutte queste cose familiari di cui parla il Vangelo, erano ben presenti nella
sua vita; il passaggio di Dio le aveva santificate; Félicité amò più
teneramente gli agnelli per amore dell'Agnello di Dio e le colombe grazie allo Spirito Santo.
Di quest'ultimo stentava a concepire le sembianze; infatti non
era solo uccello, ma anche fuoco, e talvolta semplice soffio. E
forse sua è la luce che volteggia di notte ai bordi delle paludi, suo
l'alito che spinge le nubi, sua la voce che rende armoniose le
campane; così Félicité restava in adorazione, godendo della freschezza delle mura e della tranquillità della chiesa.
Quanto ai dogmi, non ne capiva un bel niente, né si affaticava
troppo per penetrarli. Il parroco parlava, i bambini recitavano le
preghiere, lei finiva per addormentarsi; si risvegliava di soprassalto, quando gli altri, andandosene, facevano risuonare il pavimento con gli zoccoli.
Fu così che, a furia di ascoltare, imparò il catechismo, dal momento che la sua educazione religiosa era stata molto trascurata
in gioventù; da allora imitò tutte le pratiche di Virginie, digiunò
come loro e si confessò con lei. Per il Corpus Domini fecero insieme un repositorio.
La prima comunione la tormentò con molto anticipo. Entrò in
agitazione per le scarpette, per il cappellino, per il libro, per i
guanti. Con quale emozione aiutò sua madre a vestirla!
Per tutta la messa provò angoscia. Il signor Bourais le nascondeva una parte del coro; ma proprio di fronte, la schiera delle
vergini inghirlandate di bianco sopra i loro veli abbassati, formava come un campo di neve; da lontano riconosceva la sua piccola
Virginie dal collo così leggiadro e dall'atteggiamento raccolto.
Suonò la campanella. Le teste si chinarono; vi fu un silenzio. Al
tuonare dell'organo, i cantori e la folla dei fedeli intonarono l'Agnus Dei; poi cominciò la sfilata dei ragazzi e, dopo di loro, si
alzarono le fanciulle. Passo dopo passo, a mani giunte, procedevano verso l'altare tutto illuminato, si genuflettevano sul primo
gradino, quindi ricevevano l'ostia e nello stesso ordine tornavano
al loro inginocchiatoio. Quando fu il turno di Virginie, Félicité si
sporse per vederla; e, con l'immaginazione che solo la vera tenerezza può dare, le sembrò di essere lei stessa quella bambina; la
UN CUORE SEMPLICE
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figura di Virginie diveniva la sua, il suo abitino la vestiva, il suo
cuore batteva forte nel petto di Félicité; al momento di aprire la
bocca e di ricevere l'ostia, Félicité chiuse le palpebre e per poco
non svenne.
L'indomani, di buon'ora, si presentò in sacrestia per ricevere la
comunione dal parroco. La prese con devozione, ma non provò
le stesse delizie.
La signora Aubain voleva fare di sua figlia una persona ben
istruita e, dal momento che Guyot non poteva insegnarle né la
musica né l'inglese, decise di metterla a pensione dalle Orsoline
di Honfleur.
La bambina non ebbe nulla da obiettare. Félicité sospirava, trovava la signora insensibile. Ma poi pensò che forse la sua padrona aveva ragione. Erano cose che andavano oltre le sue competenze.
Finalmente, un giorno, una vecchia carrozza si fermò davanti
alla porta; ne discese una suora che veniva a prendere la signorina. Félicité caricò i bagagli sull'imperiale, si raccomandò al vetturino, mise nel cofano sei vasi di marmellata e una dozzina di
pere, con un mazzo di violette.
Virginie, all'ultimo momento, fu presa da grandi singhiozzi; abbracciava sua madre, che la baciava sulla fronte ripetendole: «Su!
coraggio! coraggio!». Alzarono il predellino, e la carrozza partì.
Allora la signora Aubain ebbe un cedimento; quella sera tutti
gli amici, i Lormeau, la signorina Lechaptois, le signorine Rochefeuille, il signor di Houppeville e il signor Bourais si presentarono per consolarla.
In principio rinunciare a sua figlia fu per lei molto doloroso. Ma
tre volte alla settimana ne riceveva una lettera, gli altri giorni le
scriveva, passeggiava in giardino, leggeva un po', e in questo
modo colmava il vuoto delle ore.
Al mattino, per abitudine, Félicité entrava nella camera di Virginie e guardava le pareti. Si annoiava perché non doveva più
pettinarle i capelli, allacciarle le scarpette, rincalzarle la coperta,
perché non vedeva più continuamente la sua gentile figura, perché non la teneva per mano quando uscivano insieme. Trovatasi
senza occupazioni, tentò di fare qualche merletto. Le sue dita
troppo pesanti rompevano i fili; non capiva più niente, aveva perduto il sonno, era «minata», come diceva lei.
Per «distrarsi un po'», chiese il permesso di ricevere visite da
suo nipote Victor.
Arrivava la domenica dopo la messa, rubizzo in volto, a petto
nudo, portando con sé l'odore della campagna che aveva attraversato. Lei apparecchiava immediatamente la tavola. Pranzava-
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TRE RACCONTI
no l'uno di fronte all'altra e, poiché Félicité mangiava il meno
possibile per tenere in serbo la dispensa, lo ingozzava di cibo a
tal punto che il ragazzo finiva per addormentarsi. Al primo rintocco del vespro lei lo svegliava, gli spazzolava i pantaloni, gli
annodava la cravatta, e andava in chiesa a braccetto con lui, piena di un orgoglio materno.
I genitori lo incaricavano sempre di portare indietro qualcosa,
un pacchetto di zucchero, un pane di sapone, un po' di acquavite,
talvolta addirittura del denaro. Portava i suoi panni logori da
raccomodare, e Félicité accettava l'incombenza, felice di avere
un'occasione per farlo tornare.
Nel mese di agosto suo padre lo portò con sé in barca.
Era l'epoca delle vacanze. Il ritorno dei bambini la consolò. Ma
Paul si era fatto capriccioso, e Virginie non aveva più l'età per
essere trattata confidenzialmente. Questo creava una specie di
disagio, una barriera tra loro.
Victor andò successivamente a Morlaix, a Dunkerque, a Brighton; al ritorno da ogni viaggio, aveva sempre un regalo per lei.
La prima volta fu una scatola coperta di conchiglie; la seconda
una tazzina da caffè; la terza, un pupazzo di pan pepato. Si faceva più bello, più robusto, aveva un paio di baffetti, uno sguardo
buono e sincero e un cappello di cuoio, portato all' indietro come
un pilota. La divertiva raccontandole storie intercalate di termini
marinareschi.
Un lunedì, era il 14 luglio 1819 (Félicité non dimenticò mai la
data), Victor le disse che aveva avuto un contratto per un imbarco a lungo termine, e che, di lì a due notti, avrebbe raggiunto con
il battello di Honfleur la sua goletta, che doveva salpare da Le
Havre prossimamente. Forse sarebbe rimasto fuori per due anni.
La prospettiva di un'assenza tanto prolungata costernò Félicité,
e per salutarlo ancora una volta, quel mercoledì sera, dopo la
cena della Signora, si infilò le soprascarpe e divorò le quattro
leghe che separano Pont-1'Évèque da Honfleur.
Quando giunse davanti al Calvaire, invece di prendere a sinistra
andò a destra; si smarrì nei cantieri, tornò sui suoi passi; certa
gente incontrata strada facendo le disse che doveva spicciarsi.
Fece il giro della darsena piena di navi, urtò gli ormeggi; poi il
terreno cominciò a prendere una pendenza verso il basso, le luci
si incrociarono, e Félicité credette di essere impazzita vedendo
dei cavalli in cielo.
Sul molo ce n'erano altri che nitrivano, spaventati dal mare. Un
paranco li sollevava e li depositava nell'imbarcazione, dove i
viaggiatori si accalcavano tra i fusti di sidro, i panieri di formaggio e i sacchi di frumento; si sentivano cantare i galli, il capitano
UN CUORE SEMPLICE
31
bestemmiava; c'era un mozzo che, indifferente a tutto questo, se
ne stava con i gomiti sul parapetto. Félicité, che dapprincipio
non lo aveva riconosciuto, gridava: «Victor!». Alzò la testa; lei si
lanciò, ma d'improvviso ritirarono la passerella.
Il battello, che le donne alavano cantando, uscì dal porto. La
chiglia scricchiolava, pesanti onde frustavano la prua. Poi la vela
virò e non si vide più nessuno; sul mare argentato dalla luna, la
nave formava una macchia nera che impallidiva sempre più, finché s'inabissò e scomparve.
Félicité, passando davanti al Calvaire, volle raccomandare a
Dio quanto aveva di più caro; pregò a lungo, in piedi, il viso
inondato di lacrime, gli occhi verso le nuvole. La città dormiva, i
doganieri erano di ronda, l'acqua precipitava ininterrottamente
dalle bocche della chiusa, con un rumore di torrente. Suonarono
le due.
Il parlatorio non sarebbe stato aperto prima dell'alba; un ritardo avrebbe di certo contrariato la Signora; ma nonostante il suo
desiderio di abbracciare Virginie, tornò a casa. Le cameriere della locanda si svegliavano quando Félicité entrò a Pont-1'Évéque.
Quel povero ragazzo sarebbe dunque stato per mesi in balia
delle onde! I suoi viaggi precedenti non l'avevano spaventata;
dall'Inghilterra, dalla Bretagna si tornava; ma l'America, le Colonie, le Isole, erano qualcosa di sperduto in una regione incerta,
all'altro capo del mondo.
Da allora, Félicité pensò esclusivamente a suo nipote. Nei giorni di sole era tormentata dall'idea che soffrisse la sete; quando
c'era tempesta, temeva i fulmini. Ascoltando il vento che brontolava nel camino e portava via le tegole, lo vedeva battuto da
quella stessa tempesta, in cima a un albero fracassato, con il corpo all' indietro sotto un getto di schiuma; oppure - reminiscenza
dell'atlante illustrato - era mangiato dai selvaggi, rapito in una
foresta dalle scimmie, moriva su una spiaggia deserta. Delle sue
inquietudini non parlava con nessuno.
La signora Aubain ne nutriva altre a causa di sua figlia.
Le brave suore trovavano che era affettuosa, ma cagionevole.
La minima emozione la affaticava. Dovette rinunciare al pianoforte.
Sua madre esigeva dal convento una corrispondenza regolare.
Un mattino che il portalettere non era venuto, si spazientì; faceva su e giù nella stanza, dalla poltrona alla finestra. Era davvero
straordinario! Da quattro giorni, nessuna notizia!
Per consolarla con il suo esempio, Félicité le disse:
«Io, Signora, non ne ricevo da sei mesi!...».
«E da chi?...»
32
TRE RACCONTI
La serva replicò bonariamente:
«Ma... da mio nipote!».
«Ah! vostro nipote!» E, scrollando le spalle, ricominciò la sua
passeggiata, come a dire: «E chi ci pensava!... E poi, che volete
che me ne importi! Un mozzo, un pezzente, bell'affare!... mentre
mia figlia... Pensate un po'!...».
Félicité, benché cresciuta in mezzo alle asprezze, si indignò contro la Signora, ma poi dimenticò.
Le sembrava naturalissimo che si potesse perdere la testa per
via della piccina.
I due ragazzi avevano per lei la stessa importanza; uno stretto
legame li univa nel suo cuore, e il loro destino doveva essere
comune.
II farmacista le disse che la nave di Victor era giunta all'Avana.
Aveva letto la notizia in un giornale locale.
Per via dei sigari, Félicité immaginava L'Avana come un paese
nel quale non si faceva altro che fumare, con Victor che si aggirava tra i negri in una nube di tabacco. Si poteva tornare di là via
terra «in caso di bisogno»? Quanto distava da Pont-1'Évèque?
Per saperlo interrogò il signor Bourais.
Questi prese l'atlante, quindi cominciò a dare delucidazioni sulla longitudine; aveva un bel sorriso da pedante davanti all'aria
stupefatta di Félicité. Alla fine, con il suo portalapis, indicò nelle
frastagliature di una chiazza di forma ovale un punto nero, impercettibile, aggiungendo: «È qui». Lei si chinò sulla carta; quel
reticolo di linee colorate le affaticava la vista senza dirle un bel
nulla; dal momento che Bourais la invitava a esprimere le sue
perplessità, lo pregò di mostrarle la casa in cui abitava Victor.
Bourais alzò le braccia, starnutì, rise sguaiatamente; tanto candore lo mandava in visibilio, e Félicité non ne comprendeva il motivo - lei che forse si aspettava di vedere addirittura il ritratto di
suo nipote, tanto la sua intelligenza era limitata!
Quindici giorni dopo Liébard, come al solito all'ora del mercato, entrò in cucina e le consegnò una lettera inviatale da suo cognato. Poiché nessuno dei due sapeva leggere, Félicité dovette
ricorrere alla padrona.
La signora Aubain, che contava i punti del suo lavoro a maglia,
lo posò accanto a sé, aprì la busta, ebbe un sussulto e, con voce
bassa, con uno sguardo profondo:
«Vi annunciano... una disgrazia... vostro nipote...».
Era morto. Non dicevano altro.
Félicité cadde su una sedia, appoggiando la testa sul tramezzo,
e chiuse le palpebre, che d'improvviso si arrossarono. Poi, con la
fronte bassa, le mani pendule, lo sguardo fisso, a tratti ripeteva:
UN CUORE SEMPLICE
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«Povero ragazzo! povero ragazzo!».
Liébard la guardava sospirando. La signora Aubain tremava un
poco.
Le propose di andare a trovare sua sorella a Trouville.
Félicité rispose, con un gesto, che non ce n'era bisogno.
Vi fu un silenzio. Il buon Liébard giudicò opportuno ritirarsi.
Allora Félicité disse:
«Che cosa vuole che importi, a loro!».
Chinò di nuovo la testa; macchinalmente, di tanto in tanto, sollevava i lunghi ferri da calza sul tavolo da lavoro.
Nel cortile passarono alcune donne con una carretta nella quale
sgocciolava un bucato.
Vedendole dalla finestra, Félicité si ricordò del suo; avendolo
messo a mollo il giorno prima, ora doveva sciacquarlo, sicché
uscì dall'appartamento.
L'asse e la tinozza erano in riva alla Toucques. Gettò sulla
sponda un mucchio di camicie, si rimboccò le maniche, prese la
mestola; i forti colpi che dava si sentivano fin nei giardini del
circondario. I prati erano deserti, il vento agitava il fiume; nel
fondo aleggiavano erbe lunghe come chiome di cadaveri a galla
sull'acqua. Félicité soffocava il suo dolore, fino a sera fu coraggiosissima; ma una volta nella sua camera vi si abbandonò, gettandosi sul materasso, con il volto nel cuscino e i pugni contro le
tempie.
Molto più tardi venne a sapere le circostanze della fine di
Victor dal suo stesso capitano. L'avevano salassato troppo all'ospedale, per la febbre gialla. Avevano dovuto tenerlo quattro
medici. Era morto immediatamente, e il capo aveva detto:
«Bene! ancora uno!».
I suoi genitori l'avevano sempre trattato duramente. Félicité
preferì non rivederli; quanto a loro, non fecero alcun tentativo,
per dimenticanza, o per un incallimento da miserabili.
Virginie era sempre più debole.
I mancamenti d'aria, la tosse, una febbre continua e le venature
agli zigomi rivelavano qualche grave malattia. Il dottor Poupart
aveva consigliato un soggiorno in Provenza. La signora Aubain vi
si decise; avrebbe subito ripreso sua figlia in casa, non fosse stato
per il clima di Pont-PÉvèque.
Si accordò con un vetturino a nolo, che la portava al convento
ogni martedì. Nel giardino c'è una terrazza dalla quale si vede la
Senna. Virginie vi passeggiava a braccetto con lei, sopra i pampini caduti. Talvolta il sole, attraversando le nubi, la costringeva
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TRE RACCONTI
a battere le palpebre, mentre contemplava le vele in lontananza
e tutto l'orizzonte, dal castello di Tancarville fino ai fari di Le
Havre. Poi ci si riposava sotto il pergolato. Sua madre si era procurata una botticella di ottimo vino di Malaga e, ridendo all'idea
di essere brilla, ne beveva due dita, mai di più.
Le tornarono le forze. L'autunno passò dolcemente. Félicité
rassicurava la signora Aubain. Ma, una sera che era stata nei dintorni per certe commissioni, davanti all'uscio si imbatté nel calesse del dottor Poupart; era nell'ingresso. La signora Aubain si
annodava il cappello.
«Datemi lo scaldino, la borsa, i guanti; presto!»
Virginie aveva avuto una flussione di petto; forse il caso era
disperato.
«Non ancora!», disse il medico, ed entrambi salirono nella vettura, sotto i fiocchi di neve che mulinavano. Tra poco sarebbe
scesa la notte. Faceva un gran freddo.
Félicité si precipitò in chiesa per accendere un cero. Quindi
corse dietro il calesse, che raggiunse un'ora più tardi; saltò agilmente nella parte posteriore, dove si sorreggeva al passamano,
quando le sorse una riflessione: «Il cortile non era chiuso! E se
fossero entrati dei ladri?». Scese giù.
L'indomani all'alba si presentò in casa del dottore. Era tornato
e ripartito subito per la campagna. Decise allora di restare nella
locanda, pensando che qualcuno avrebbe portato una lettera. Finalmente, a giorno fatto, prese la diligenza di Lisieux.
Il convento si trovava in fondo a un sentiero scosceso. A metà
percorso udì strani suoni, una campana a morto. «È per qualcun
altro», pensò; picchiò violentemente il martello.
Di lì a qualche minuto sentì uno strascicare di ciabatte, la porta
si socchiuse, apparve una suora.
La religiosa, con un'aria compunta, le disse che «era appena
trapassata». In quel preciso istante la campana di Saint-Léonard
suonò di nuovo.
. Félicité arrivò al secondo piano.
Dalla soglia della camera, vide Virginie distesa sulla schiena,
con le mani giunte, la bocca aperta e la testa all' indietro sotto
una croce nera piegata verso di lei, tra le tende immobili, meno
pallide del suo volto. La signora Aubain, ai piedi del capezzale
che stringeva tra le braccia, singhiozzava come fosse in agonia.
La madre superiora era in piedi, sulla destra. Tre candelieri formavano macchie rosse sul canterano, e la nebbia tingeva di
bianco le finestre. Alcune suore portarono via la signora Aubain.
Per due notti, Félicité non lasciò la morta. Ripeteva le stesse
UN CUORE SEMPLICE
35
preghiere, gettava acqua benedetta sulle lenzuola, tornava a sedersi e a contemplarla. Alla fine della prima veglia notò che il
volto era diventato giallo, le labbra bluastre, il naso più sottile,
gli occhi scavati. Li baciò parecchie volte, e non avrebbe provato
un immenso stupore se Virginie li avesse riaperti; per simili
anime il soprannaturale è una cosa semplicissima. La lavò, l'avvolse nel sudario, la calò nella bara, depose una corona, le ravviò
i capelli. Erano biondi, e straordinariamente lunghi per la sua
età. Félicité ne tagliò una grossa ciocca, insinuandone metà nel
proprio petto, decisa a non separarsene mai più.
Il corpo fu trasportato a Pont-1'Évèque, secondo le volontà
della signora Aubain, che seguiva il corteo funebre in una vettura
chiusa.
Dopo la messa, ci vollero ancora tre quarti d'ora per arrivare al
cimitero. Paul camminava in testa al corteo e singhiozzava.
Dietro di lui c'era il signor Bourais, quindi i notabili del paese, le
donne coperte ammantate di nero, e in ultimo Félicité. Pensava a
suo nipote e, non avendo potuto rendergli quelle onoranze, si
sentiva doppiamente triste, come se avessero seppellito anche lui
con l'altra.
La disperazione della signora Aubain fu illimitata.
Dapprima si ribellò contro Dio, accusandolo di essere ingiusto
per averle preso sua figlia - proprio con lei, che non aveva mai
fatto del male, e la cui coscienza era pura! - Ma no! avrebbe
dovuto portarla nel Mezzogiorno. Altri dottori l'avrebbero salvata! Si accusava, voleva raggiungerla, gridava in preda alla disperazione durante i suoi sogni. Soprattutto uno la ossessionava.
Suo marito, vestito da marinaio, tornava da un lungo viaggio, e
piangendo le diceva che aveva ricevuto l'ordine di portar via Virginie. Allora si accordavano per trovare da qualche parte un nascondiglio.
Una volta tornò dal giardino sconvolta. Pochi istanti prima (indicava il luogo dove era accaduto) le erano apparsi padre e figlia,
l'uno accanto all'altro; non facevano niente, e la guardavano.
Per parecchi mesi restò chiusa nella sua camera, come inerte.
Félicité le faceva bonariamente la predica; doveva conservarsi
per suo figlio, in ricordo di «lei».
«Lei?», replicava la signora Aubain, come risvegliata. «Ah! sì!...
sì!... Non dimenticatela!» Alludeva al cimitero, che le avevano
scrupolosamente proibito.
Félicité ci andava tutti i giorni.
Alle quattro precise costeggiava le case, saliva sul poggio, apriva
la cancellata, e arrivava davanti alla tomba di Virginie. Era una
colonnina di marmo rosa, con una lapide in basso, e attorno una
36
TRE RACCONTI
ringhiera metallica che racchiudeva un giardinetto. Le aiuole
sparivano sotto un letto di fiori. Félicité ne inumidiva le foglie,
rinnovava la sabbia, si metteva in ginocchio per zappettare meglio la terra. La signora Aubain, quando potè venire, provò un
gran sollievo, una specie di consolazione.
Gli anni passarono, tutti uguali e senza avvenimenti, tranne la
ricorrenza delle grandi festività: Pasqua, l'Assunzione, Ognissanti. Qualche evento interno creava una data, cui fare riferimento più tardi. Così, nel 1825, due muratori intonacarono l'ingresso; nel 1827, un pezzo di tetto, cadendo, per poco non uccise
un uomo. Nell'estate del 1828 toccò alla signora offrire il pane
benedetto; Bourais in quell'epoca si assentò misteriosamente, e i
vecchi conoscenti se ne andarono uno dopo l'altro: Guyot, Liébard, la signora Lechaptois, Robelin, lo zio Gremanville, paralizzato da molto tempo.
Una notte il postiglione della corriera postale annunciò a Pontl'Evèque la Rivoluzione di Luglio. Pochi giorni dopo fu nominato un nuovo sottoprefetto: il barone di Larsonnière, ex console
in America, e che aveva in casa, oltre a sua moglie, una cognata
con tre signorine, già grandicelle. Si vedevano ogni tanto sul
prato, vestite di camicette svolazzanti; possedevano un negro e
un pappagallo. La signora Aubain ricevette una loro visita, e non
mancò di ricambiarla. Quando apparivano in lontananza, Félicité
accorreva per avvisarla. Ma una sola cosa era in grado di commuoverla: le lettere di suo figlio.
Non riusciva a dedicarsi ad alcuna carriera, perché era assorbito
dalla vita dei caffè. La madre pagava i suoi debiti; lui ne contraeva di nuovi. E i sospiri che la signora Aubain faceva lavorando a maglia accanto alla finestra arrivavano a Félicité, che in
cucina girava il suo arcolaio.
Passeggiavano insieme lungo la spalliera del frutteto; parlavano
sempre di Virginie, chiedendosi se la tal cosa le sarebbe piaciuta,
che cosa avrebbe probabilmente detto nella tal occasione.
Tutte le sue piccole cose occupavano una credenza nella camera a due letti. La signora Aubain le passava in rassegna il
meno possibile. Un giorno d'estate si rassegnò: dall'armadio volò
via una nuvola di farfalle.
I suoi vestiti erano appesi sotto una mensola dove c'erano tre
bambole, dei cerchi, una cucinetta, il catino che usava per lavarsi.
Trassero fuori anche le gonne, le calze, i fazzoletti, e li stesero
sui due letti prima di ripiegarli. Il sole illuminava quei poveri oggetti, ne metteva in luce le macchie e certe pieghe dovute ai movimenti del corpo. L'aria era calda e azzurra, un merlo fischiava,
tutto sembrava vivere in una profonda dolcezza. Ritrovarono un
UN CUORE SEMPLICE
37
piccolo cappello di felpa, dal pelo lungo, color marrone; era tutto
mangiato dalle tarme. Félicité lo chiese per sé. I loro occhi si
fissarono a vicenda, si riempirono di lacrime; infine la padrona
aprì le braccia, la serva vi si gettò; si strinsero, appagando il loro
dolore in un bacio che le rendeva uguali.
Era la prima volta nella loro vita. La signora Aubain infatti non
aveva un carattere espansivo. Félicité gliene fu riconoscente
come di un regalo, e da allora la amò con una dedizione animale
e una venerazione religiosa.
La bontà del suo cuore si dispiegò.
Quando udiva per strada i tamburi di un reggimento in marcia,
si metteva davanti alla porta con una brocca di sidro e offriva da
bere ai soldati. Curò i malati di colera. Proteggeva i profughi polacchi; uno addirittura dichiarò di volerla sposare. Ma poi litigarono, perché un mattino, di ritorno dall'angelus, lei lo trovò in
cucina, dove si era introdotto e preparato una salsa agrodolce,
che stava mangiando tranquillamente.
Dopo i polacchi, fu il turno di papà Colmiche, un vecchio che a
quanto dicevano aveva preso parte agli orrori nel '93. Viveva in
riva al fiume, tra le macerie di un porcile. I monelli lo guardavano dalle brecce del muro, e gli lanciavano sassolini che cadevano sul suo pagliericcio, dove giaceva continuamente scosso da
attacchi di tosse, con i capelli lunghissimi, le palpebre infiammate, e un tumore al braccio più grosso della testa. Félicité gli
procurò della biancheria, tentò di ripulire il suo tugurio, e
avrebbe voluto trovargli una sistemazione nei pressi del forno,
senza che questo recasse fastidio alla Signora. Quando il cancro
si crepò, lei lo medicò tutti i giorni, a volte gli portava una focaccia, lo metteva al sole su una balla di paglia; il povero vecchio,
sbavando e tremando, la ringraziava con la sua voce spenta, temeva di perderla, protendeva le mani non appena lei si allontanava. Morì; Félicité fece dire una messa per l'eterno riposo della
sua anima.
Quel giorno provò una grande felicità: all'ora di pranzo, il
negro della signora di Larsonnière si presentò, tenendo il pappagallo nella gabbia, con il trespolo, la catena e il chiavistello. Un
biglietto della sua padrona annunciava che, a seguito della promozione di suo marito a prefetto, sarebbero partiti quella sera
stessa; la pregava di accettare quell'uccello come ricordo, in testimonianza della sua deferenza.
Il pappagallo era da tempo oggetto delle fantasie di Félicité,
poiché veniva dall'America, e questa parola le ricordava Victor,
al punto che aveva chiesto informazioni al negro. Una volta
aveva perfino detto: «La Signora sarebbe felice di averlo!».
38
TRE RACCONTI
Il negro aveva riferito la frase alla sua padrona, la quale, non
potendo portare la bestia con sé, se ne sbarazzava in questo
modo.
IV.
Si chiamava Lulù. Il corpo era verde, l'estremità delle ali rosa,
la fronte azzurra e la gola dorata.
Lulù aveva l'estenuante mania di mordere il trespolo, si strappava le piume, spargeva i suoi bisogni, faceva schizzare fuori
l'acqua della sua vaschetta; la signora Aubain, non potendone
più, lo regalò definitivamente a Félicité.
Cominciò ad ammaestrarlo; presto ripetè: «Bel ragazzo! Servo
vostro, signore! Ave Maria!». Aveva trovato posto vicino alla
porta, e parecchi si stupirono che non rispondesse al nome di
Jacquot, dato che tutti i pappagalli si chiamano Jacquot. Lo paragonavano a un tacchino, a un ceppo: altrettante pugnalate per
Félicité! Strana ostinazione di Lulù: smetteva di parlare non appena lo si cominciava a guardare!
Ciononostante cercava la compagnia; infatti la domenica,
mentre quelle signorine Rochefeuille, il signor di Houppeville e
nuovi invitati abituali: Onfroy lo speziale, il signor Varin e il capitano Mathieu, facevano la loro partita a carte, Lulù picchiava
sul vetro con le ali, e si dimenava tanto furiosamente che era
impossibile ascoltarsi a vicenda.
L'aspetto di Bourais doveva indubbiamente sembrargli buffo.
Appena lo vedeva cominciava a ridere, a ridere con tutte le sue
forze. Gli scoppiettìi del suo verso rimbalzavano nel cortile, l'eco
li ripeteva, i vicini si affacciavano alle finestre e ridevano anche
loro; sicché, per non essere visto dal pappagallo, il signor Bourais
strisciava rasente i muri, dissimulando il suo profilo sotto il cappello, raggiungeva il fiume, quindi entrava dalla porta che dava
sul giardino; gli sguardi che inviava all'uccello non erano certo
teneri.
Una volta Lulù aveva ricevuto un buffetto dal garzone del macellaio, perché aveva insinuato la testa nel suo cesto; da allora
tentava sempre di pizzicarlo attraverso la camicia. Fabu minacciava di torcergli il collo, anche se non era crudele, malgrado i
tatuaggi sulle braccia e i folti favoriti. Al contrario! aveva piuttosto una specie di debole per il pappagallo, al punto di volergli
insegnare, per un gioviale buonumore, qualche bestemmia. Félicité, spaventata dalle sue maniere, sistemò il pappagallo in cucina. Tolse via la catena, dimodoché ora razzolava per la casa.
Quando scendeva le scale, appoggiava sui gradini la curva del
UN CUORE SEMPLICE
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becco, sollevava la zampa destra, poi la sinistra; Félicité aveva
paura che una simile ginnastica gli provocasse qualche stordimento. Si ammalò; non riusciva più a mangiare e a parlare. Sotto
la lingua aveva un ispessimento, come talvolta ne hanno le galline. Félicité lo guarì strappando quella membrana con le unghie.
Il signor Paul, un giorno, ebbe l'imprudenza di soffiargli sulle
narici un po' di fumo del suo sigaro; un'altra volta che la signora
Lormeau lo infastidiva con la punta dell'ombrello, inghiottì la
ghiera; alla fine si perse.
Félicité l'aveva deposto sull'erba per rinfrescarlo; si assentò un
minuto e, quando tornò, niente più pappagallo! In principio cominciò a cercarlo tra i cespugli, in riva al fiume o sopra i tetti,
senza prestare ascolto alla padrona che le diceva: «State attenta!
siete impazzita!». Successivamente ispezionò tutti i giardini di
Pont-1'Évèque; fermava i passanti: «Avete visto per caso il mio
pappagallo?». A quelli che non lo conoscevano ne dava una descrizione. D'un tratto, credette di distinguere, dietro i mulini, ai
piedi della costa, qualcosa di verde che volteggiava. Ma giunta in
cima alla costa, niente! Un venditore ambulante le disse che l'aveva visto poco prima, a Melarne, nella bottega della vecchia
Simon. Vi corse subito. Là non sapevano che cosa andasse cercando. Alla fine tornò a casa, sfinita, con le ciabatte ridotte in
brandelli e la morte nell'anima; seduta sulla panca, accanto alla
Signora, stava raccontando tutte le sue traversie, quando un leggero peso le piombò sulla spalla: Lulù! Che diavolo aveva fatto?
Forse se ne era andato un po' in giro nei dintorni!
Félicité faticò a rimettersi, o meglio non si rimise mai più.
A seguito di un raffreddore le venne un'angina; poco tempo
dopo un mal d'orecchi. Tre anni più tardi era sorda; parlava a
voce alta, perfino in chiesa. Benché i suoi peccati avrebbero potuto, senza alcun disonore per lei né inconvenienti di sorta per la
gente, propagarsi in tutti gli angoli della diocesi, il parroco giudicò opportuno ricevere la sua confessione esclusivamente in sacrestia.
Ronzii illusori finivano di sconvolgerle la mente. Spesso la padrona le diceva: «Mio Dio! come siete stupida!». Félicité replicava: «Sì, Signora», cercando qualcosa attorno a sé.
La sparuta cerchia delle sue idee si restrinse ancor di più, lo
squillo delle campane, il muggito dei buoi per lei non esistevano
più. Tutti gli esseri funzionavano con il silenzio dei fantasmi. Un
solo rumore arrivava ora alle sue orecchie, la voce del pappagallo.
Come a volerla distrarre, riproduceva il ticchettio del girarrosto,
il richiamo acuto del pescivendolo, la sega del falegname che abi-
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TRE RACCONTI
tava di fronte; e, al suono del campanello, imitava la signora Aubain: «Félicité! la porta! la porta!».
Avevano dei dialoghi, lui sillabando a sazietà le tre frasi del suo
repertorio, lei rispondendo con parole senza più costrutto, ma
nelle quali effondeva tutto il suo cuore. Nel suo isolamento Lulù
era quasi un figlio, un innamorato. Scalava le sue dita, le mordeva le labbra, le artigliava lo scialletto e, quando lei chinava la
fronte scrollando il capo alla maniera delle balie, le grandi ali
della cuffia e le ali dell'uccello fremevano insieme.
Quando si addensavano le nubi e i tuoni brontolavano, il pappagallo gridava, rammentando forse le folate delle sue foreste
natie. Lo scroscio dell'acqua eccitava il suo delirio; volteggiava,
sconvolto, volava sul soffitto, si rovesciava, e attraverso la finestra andava a sguazzare nel giardino; ma subito dopo tornava ad
appollaiarsi su un alare, e, saltellando per far asciugare le piume,
mostrava ora la coda ora il becco.
Un mattino di quel terribile inverno del 1837, dopo averlo
messo davanti al camino per via del gran freddo, Félicité lo trovò
morto, nella sua gabbia, con la testa reclinata e gli artigli aggrappati al fil di ferro. Probabilmente lo aveva ucciso una congestione. Sospettò un avvelenamento da prezzemolo e, malgrado
l'assenza di qualunque prova, i suoi sospetti caddero su Fabu.
Pianse talmente che la sua padrona le disse: «Ebbene! fatelo
impagliare!».
Félicité chiese consiglio al farmacista, che era sempre stato
buono con il pappagallo.
Questi scrisse a Le Havre. Fu incaricato della cosa un certo Fellacher. Ma, visto che la diligenza talvolta smarriva i colli, Félicité
decise di portarlo di persona fino a Honfleur.
I meli spogli si susseguivano lungo la strada. Il ghiaccio copriva i
fossati. I cani abbaiavano attorno ai cascinali; con le mani sotto
la mantella, le sue ciabattine nere e la sua sporta, Félicité camminava rapidamente in mezzo alla carreggiata.
Attraversò la foresta, superò Haut-Chéne, raggiunse Saint-Gautien.
Dietro di lei, in una nube di polvere e trascinata dal pendio, una
corriera postale si precipitava giù come un ciclone. Vedendo
quella donna che non si faceva da parte, il conducente si drizzò
sopra il mantice, il postiglione cominciò a gridare, mentre i
quattro cavalli ormai intrattenibili acceleravano l'andatura; i
primi due la sfiorarono; con uno strattone alle briglie, l'uomo li
deviò fuori strada, ma furioso alzò il braccio e in piena corsa, con
la sua enorme frusta, le inflisse dal ventre ai capelli un tale colpo
da farla cadere sulla schiena.
UN CUORE SEMPLICE
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Il suo primo gesto, quando riprese conoscenza, fu di aprire la
cesta. Lulù fortunatamente era indenne. Sentì un bruciore alla
guancia destra; vi portò le mani, e le vide rosse. Il sangue scorreva.
Si sedette su un cumulo di sassi, si tamponò il viso con un fazzoletto, poi mangiò una crosta di pane, messa nel paniere per precauzione; si consolava della ferita guardando l'uccello.
Arrivata in cima a Ecquemauville, intravide le luci di Honfleur
che scintillavano nella notte come una miriade di stelle; il mare,
più lontano, si profilava confusamente. Allora la colse un momento di scoramento; la miseria della sua infanzia, la delusione
del suo primo amore, la partenza di suo nipote, la morte di Virginie, come ondate di una marea, tornarono tutte assieme e, salendole alla gola, la soffocarono.
In seguito volle parlare al capitano del battello; e, senza rivelare
ciò che inviava, gli fece delle raccomandazioni.
Fellacher tenne a lungo il pappagallo. Lo prometteva sempre
per la settimana successiva; dopo sei mesi, annunciò l'invio di
una cassa; ma poi non se ne seppe più nulla. Bisognava proprio
credere che Lulù non sarebbe tornato mai più. «Me l'avranno
rubato», pensava.
Ma alla fine arrivò: splendido, ritto su un ramo d'albero avvitato in uno zoccolo di mogano, con una zampa in aria, la testa
obliqua, nell'atto di mordere una noce, che l'impagliatore per
amor di grandezza aveva dorato.
Félicité lo chiuse nella sua camera.
Quel posto, in cui poca gente era ammessa, aveva a un tempo
l'aspetto della cappella e del bazar, tanti erano gli oggetti religiosi e le cose eteroclite che conteneva.
Un grande armadio era d'impaccio nell'apertura della porta. Di
fronte alla finestra a strapiombo sul giardino, un occhio di bue
dava sul cortile; su un tavolo accanto alla branda giacevano una
brocca, due pettini e un cubo di sapone azzurro in un piatto
sbreccato. Sulle pareti si vedevano: rosari, medaglie, parecchie
Madonnine, un'acquasantiera di noce di cocco; sul comò, coperto di una tovaglia come un altare, la scatola di conchiglie che
le aveva regalato Victor; poi un innaffiatoio e un pallone, alcuni
quaderni, l'atlante illustrato, un paio di stivali; al chiodo dello
specchio, appeso con i suoi nastri, il cappello di felpa! Félicité
spingeva questo genere di culto al punto di conservare una vecchia finanziera del padrone. Tutto il vecchiume che la signora
Aubain non voleva più, lei lo prendeva per la sua camera. Così
c'erano fiori artificiali sull'orlo del comò, e il ritratto del conte
d'Artois nella strombatura dell'abbaino.
42
TRE RACCONTI
Tramite un'assicella, Lulù fu sistemato sull'aggetto del camino.
Ogni mattino, svegliandosi, Félicité lo scorgeva al chiarore dell'alba, rammentava allora i giorni perduti, e insignificanti azioni
fin nei minimi particolari, senza dolore, piena di tranquillità.
Non comunicando con nessuno, viveva in un torpore da sonnambula. Le processioni del Corpus Domini la rianimavano. Andava a chiedere ai vicini lumini e stuoini per abbellire il repositorio eretto per strada.
In chiesa, contemplava sempre lo Spirito Santo, e osservò che
aveva qualcosa del pappagallo. Questa somiglianza le parve
ancor più evidente in un'immagine di Epinal che rappresentava il
battesimo di Nostro Signore. Con le sue ali di porpora e il suo
corpo di smeraldo, era davvero il ritratto di Lulù.
Lo comprò e lo appese al posto del conte d'Artois, dimodoché,
con una sola occhiata, poteva vederli entrambi. Si associarono
nel suo pensiero, e il pappagallo si trovò santificato in virtù di
questo rapporto con lo Spirito Santo che ai suoi occhi diveniva
sempre più vivo e intelligibile. Il Padre, per annunciarsi, non
aveva potuto scegliere una colomba, perché quegli animali non
hanno voce, ma piuttosto un antenato di Lulù. E Félicité pregava
guardando l'effigie, ma di tanto in tanto si girava un po' verso
l'uccello.
Ebbe voglia di entrare nella congregazione delle figlie di Maria.
La signora Aubain la dissuase.
Si presentò un evento straordinario: il matrimonio di Paul.
Dopo essere stato prima praticante presso un notaio, poi nel
commercio, alla dogana, alle imposte, dopo aver tentato di entrare perfino nell'amministrazione forestale, a trentasei anni,
tutt'a un tratto, per un'ispirazione celeste, aveva scoperto la sua
strada: l'ufficio del Registro! e vi mostrava tali capacità che un
verificatore gli aveva offerto sua figlia, promettendogli la sua
protezione.
Paul, divenuto serio, la portò da sua madre.
La futura moglie denigrò le usanze di Pont-1'Évèque, fece la
gran dama, offese Félicité. La signora Aubain, dopo che se ne fu
andata, provò un gran sollievo.
La settimana successiva si seppe della morte del signor Bourais,
in bassa Bretagna, in un albergo. La voce di un suicidio fu confermata; qualcuno sollevò dubbi sulla sua probità. La signora
Aubain studiò i suoi conti, e non tardò a scoprire una sequela di
nefandezze: storno di arretrati, vendite di legname dissimulate,
false quietanze, ecc. Per giunta, aveva un figlio naturale, e «una
relazione con una persona di Dozulé».
Queste turpitudini la afflissero molto. Nel marzo del 1853 fu
UN CUORE SEMPLICE
43
colpita da un dolore al petto; la sua lingua sembrava coperta di
fumo, le sanguisughe non riuscirono a calmare l'oppressione; e la
nona sera spirò, all'esatta età di settantadue anni.
Sembrava meno vecchia per via dei capelli castani, che incorniciavano il suo volto pallido, lievemente butterato. La rimpiansero
pochi amici, perché i suoi modi avevano un'alterigia che teneva
lontani.
Félicité la pianse, non come si possono piangere i padroni. Il
fatto che la Signora fosse morta prima di lei turbava le sue idee,
le sembrava contrario all'ordine delle cose, inammissibile e mostruoso.
Dieci giorni dopo (il tempo di accorrere da Besancon) arrivarono gli eredi. La nuora frugò i cassetti, scelse dei mobili, vendette gli altri, dopodiché se ne tornarono al loro ufficio del Registro.
La poltrona della signora Aubain, il suo tavolino, il suo scaldino, le otto sedie non c'erano più! Il posto lasciato vuoto dalle
stampe si stagliava in gialli quadrati sui tramezzi. Avevano portato via i due lettini con i loro materassi, e nell'armadio non era
rimasto più nulla delle piccole cose di Virginie! Félicité salì nella
sua stanza con il cuore pieno di tristezza.
L'indomani trovò un cartello affisso sulla porta; lo speziale le
gridava nell'orecchio che la casa era in vendita.
Barcollò, e fu costretta a sedersi.
Ciò che la desolava più di tutto era dover abbandonare la sua
camera, così comoda per il povero Lulù. Avvolgendolo in uno
sguardo d'angoscia, implorava lo Spirito Santo, e da allora contrasse l'abitudine idolatra di dire le sue orazioni inginocchiata
davanti al pappagallo. Talvolta il sole, penetrando dall'abbaino,
colpiva il suo occhio vitreo, e ne faceva sprigionare un raggio
luminoso che la mandava in estasi.
Aveva una rendita di trecentottanta franchi, lascito della sua
padrona. L'orto le forniva legumi. Quanto agli indumenti, possedeva di che vestirsi fino alla fine dei suoi giorni, e risparmiava
sull'illuminazione andando a letto al calar del sole.
Non usciva quasi mai, per evitare di passare davanti alla bottega
del rigattiere, dove erano esposti alcuni dei vecchi mobili di casa.
Dall'epoca del suo stordimento trascinava una gamba; e, dato
che le sue forze venivano meno, la vecchia Simon, rovinatasi con
la drogheria, veniva tutte le mattine a spaccarle la legna e a pompare l'acqua dal pozzo.
La sua vista si indebolì. Le persiane non si aprivano più. Molti
anni passarono. E la casa non si affittava, non si vendeva.
44
TRE RACCONTI
Nel timore di essere cacciata, Félicité non chiedeva le necessarie riparazioni. Le impalcature del tetto marcivano; per un inverno intero il traversino del letto fu bagnato. Dopo Pasqua,
sputò sangue.
Allora la vecchia Simon chiamò un dottore. Félicité volle sapere
che cosa aveva. Ma, troppo sorda per sentire, riuscì a captare
una sola parola: «Polmonite». Non la conosceva, e replicò dolcemente: «Ah! come la Signora», trovando naturale seguire la sua
padrona.
Si avvicinava l'epoca dei repositori.
Il primo era sempre ai piedi della costa, il secondo davanti alla
posta, il terzo verso la metà della strada. Qualche rivalità si creò
a proposito di quest'ultimo; alla fine le parrocchiane scelsero il
cortile della signora Aubain.
Le oppressioni e la febbre aumentarono. Félicité era addolorata
di non poter fare nulla per il repositorio. Se almeno avesse potuto mettervi qualcosa! Allora pensò al pappagallo. Non era opportuno, commentarono le vicine. Ma il parroco diede il permesso; lei ne fu talmente felice che lo pregò di accettare, quando
sarebbe morta, Lulù, la sua sola ricchezza.
Dal martedì al sabato, vigilia del Corpus Domini, tossì più frequentemente. La sera il suo viso era congestionato, le labbra incollate alle gengive, aveva conati di vomito; l'indomani, alle
prime luci del giorno, sentendosi molto giù, fece chiamare un
prete.
Tre brave donne la circondavano durante l'estrema unzione. In
seguito dichiarò che aveva bisogno di parlare a Fabu.
Arrivò col vestito della domenica, a disagio in quell'atmosfera
lugubre.
«Perdonatemi», gli chiese con uno sforzo, come per stendere le
braccia, «credevo che l'aveste ucciso voi!»
Che cos'erano mai queste dicerie? Averlo sospettato di un delitto, un uomo come lui! Si indignò, stava per fare uno scandalo.
«Non è più in sé, non vedete?»
Félicité di tanto in tanto parlava alle ombre. Le brave donne si
allontanarono. La Simon mangiò.
Un po' più tardi prese Lulù e, avvicinandolo a Félicité:
«Su, ditegli addio!».
Benché non fosse un cadavere, i vermi lo divoravano; una delle
ali era rotta, la stoppa usciva fuori dal ventre. Ma lei, cieca al
presente, lo baciò sulla fronte, tenendolo sulla guancia. La
Simon lo riprese per metterlo nel repositorio.
UN CUORE SEMPLICE
45
V.
Dai prati emanava un odore d'estate; le mosche ronzavano; il
sole faceva luccicare il fiume e riscaldava le tegole d'ardesia.
Mamma Simon, tornata nella camera, dormiva placidamente.
La svegliarono i rintocchi delle campane; la gente usciva dal vespro. Il delirio di Félicité si placò. Pensando alla processione, la
vedeva come se la stesse seguendo.
Tutti i bambini delle scuole, i cantori e i pompieri camminavano
sui marciapiedi, mentre in mezzo alla strada procedevano nell'ordine: lo svizzero armato della sua alabarda, lo scaccino con
una grande croce, l'istitutore che sorvegliava i monelli, la suora
preoccupata per le sue educande; tre delle più graziose, ricce
come angioletti, lanciavano in aria petali di rose; il diacono moderava la musica con le braccia, e due incensieri si giravano a
ogni passo verso il Santissimo Sacramento, portato sotto un baldacchino rosso vivo tenuto da quattro fabbricieri, dal parroco
nella sua bella pianeta. Un fiume di gente si accalcava al seguito,
tra le tovaglie bianche che coprivano i muri delle case; la processione raggiunse così i piedi della costa.
Un sudore freddo inumidiva le tempie di Félicité. La Simon la
tergeva con un panno, dicendosi che un giorno ci sarebbe passata
anche lei.
Il mormorio della folla aumentò, per un attimo fu fortissimo,
poi si allontanò.
Una fucilata fece tremare fragorosamente i vetri delle finestre.
Erano i postiglioni che salutavano l'ostensorio. Félicité roteò le
pupille e disse, con quanta voce potè:
«Sta bene?». Era tormentata dal pappagallo.
L'agonia cominciò. Un rantolo sempre più precipitoso le sollevava le costole. Bolle di schiuma spuntavano agli angoli della
bocca, tutto il suo corpo tremava.
Presto si distinse il boato degli oficleidi, le voci bianche dei
bambini, quelle profonde degli uomini. Tutto taceva a intervalli,
e il calpestio dei passi, smorzato dai fiori, assomigliava al rumore
di un gregge al pascolo.
I preti apparvero nel cortile. La Simon si arrampicò su una
sedia per arrivare all'altezza dell'occhio di bue, dal quale poteva
dominare il repositorio.
Ghirlande verdi pendevano dall'altare ornato di falpalà a punto
inglese. Al centro c'era una piccola teca contenente delle reliquie, due aranci negli angoli, e per tutta la sua lunghezza candelieri d'argento e vasi di porcellana, da cui spuntavano girasoli,
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TRE RACCONTI
gigli, peonie, digitali, ciuffi di ortensie. Questo ammasso di colori
sfavillanti digradava obliquamente dal gradino più alto al tappeto, prolungandosi sul selciato; cose rare attiravano gli sguardi.
Una zuccheriera di argento dorato era cinta da una ghirlanda di
violette, pendenti in pietra d'Alencon brillavano sul muschio,
due paraventi cinesi mostravano i loro paesaggi. Di Lulù, nascosto sotto le rose, si intravedeva soltanto la fronte turchina,
simile a un medaglione di lapislazzuli.
I fabbricieri, i cantori, i bambini si schierarono sui tre lati del
cortile. Il prete salì lentamente i gradini e depose sul pizzo il suo
grande sole d'oro raggiante. Tutti si inginocchiarono. Si fece un
gran silenzio. Gli incensieri, oscillando ampiamente, scivolavano
sulle loro catenelle.
Un vapore azzurro salì verso la camera di Félicité. Lei protese
le narici, aspirandolo con una sensualità mistica; poi chiuse le
palpebre. Le sue labbra sorridevano. I battiti del suo cuore rallentarono, uno dopo l'altro, talvolta più vaghi, più dolci, come
una fontana che si esaurisce, come un'eco che svanisce; e,
quando esalò l'ultimo respiro, credette di vedere, nei cieli dischiusi, un pappagallo gigantesco planare sopra la sua testa.
La leggenda di San Giuliano Ospitaliere
I.
Il padre e la madre di Giuliano abitavano in un castello in mezzo ai boschi, sul declivio di una collina.
Le torri ai quattro angoli avevano tetti aguzzi, ricoperti di
scaglie di piombo, e il basamento delle mura poggiava su blocchi
di roccia che precipitavano ripidamente fin nel fondo dei fossati.
I selciati del cortile erano lucidi come la pavimentazione di una
chiesa. Lunghe grondaie a forma di draghi con la gola reclina
convogliavano l'acqua piovana verso la cisterna; e sui davanzali
delle finestre, in ogni piano, in un vaso di argilla dipinta, sbocciava un basilico o un eliotropio.
Una seconda cinta, fatta di pali, racchiudeva prima un frutteto,
poi un'aiuola dove combinazioni di fiori disegnavano cifre, quindi un pergolato con qualche amaca per prendere il fresco, e un
gioco della pallamaglio che costituiva il divertimento dei paggi.
Dall'altra parte c'erano il canile, le scuderie, il forno, il frantoio e
i granai. Un pascolo verde si estendeva tutt'attorno, cinto a sua
volta da una fitta siepe di rovi.
Si viveva in pace da così gran tempo che la saracinesca non si
abbassava più; i fossati erano pieni d'acqua; le rondini facevano
il nido nelle feritoie della merlatura; e l'arciere che per tutto il
giorno andava su e giù nella cortina, non appena il sole si faceva
troppo forte rientrava nella garitta e si addormentava come un
monaco.
All'interno rilucevano ovunque le ferramenta; gli arazzi nelle
camere proteggevano dal freddo; gli armadi straripavano di biancheria, le botti di vino giacevano accatastate nelle cantine, i forzieri di quercia scricchiolavano sotto il peso dei sacchi di monete.
Nella sala d'armi, tra gli stendardi e le teste impagliate di animali selvatici, si vedevano armi di tutti i tempi e di tutte le nazioni, dalle fronde degli Amaleciti e dai giavellotti dei Garamanti
fino alle daghe dei Saraceni e ai giachi di maglia dei Normanni.
II grande spiedo della cucina poteva arrostire un bue; la cappel-
48
TRE RACCONTI
la era sontuosa come l'oratorio di un re. C'era perfino, in un
luogo appartato, un bagno alla romana, ma il buon signore se ne
privava, considerandola un'usanza pagana.
Sempre avvolto in una pelliccia di volpe, si aggirava per la magione, rendeva giustizia ai vassalli, pacificava le liti tra i vicini.
Durante l'inverno guardava i fiocchi di neve cadere o si faceva
leggere delle storie. Non appena tornava la bella stagione, se ne
andava con la sua mula per i sentieri, costeggiando i campi di
grano verdeggianti, parlando con i manenti, cui dava consigli.
Dopo molte avventure galanti, aveva preso in moglie una fanciulla di alto lignaggio.
Era di pelle bianchissima, un po' fiera e seria. Il suo cappello a
cono sfiorava l'architrave delle porte; lo strascico della sua veste
di panno era lungo tre passi. La sua servitù era sottoposta a regole come all'interno di un monastero; ogni mattino distribuiva i
compiti alle serve, sorvegliava la preparazione delle marmellate e
degli unguenti, filava alla conocchia o ricamava tovaglie d'altare.
A furia di pregare Dio le venne un figlio.
Allora vi furono grandi festeggiamenti, e un banchetto che durò
per tre giorni e quattro notti, alla luce delle torce, al suono delle
arpe, su un tappeto di foglie. Vi si mangiarono le più rare spezie,
con polli grossi come montoni; per divertimento, un nano uscì da
un pasticcio e, non essendoci scodelle a sufficienza, dato che la
folla aumentava sempre più, si fu costretti a bere nei corni da
caccia e negli elmi.
La novella puerpera non potè assistere a quelle feste. Se ne
stava tranquilla nel suo letto. Una sera si svegliò, e intravide, sotto un raggio di luna che entrava dalla finestra, come un'ombra
mobile. Era un vecchio con un saio di bigello, un rosario alla vita,
una bisaccia sulla spalla, e che aveva tutte le apparenze di un
eremita. Si avvicinò al suo capezzale e, senza aprire le labbra, le
disse:
«Rallegrati, o madre! tuo figlio sarà un santo!».
Lei stava per gridare; ma il vecchio, scivolando sul raggio di
luna, si sollevò dolcemente nell'aria e poi scomparve. I canti del
banchetto esplosero più fragorosi. La donna udì la voce degli angeli, e la sua testa ricadde sul guanciale, dominato da una reliquia di martire incorniciata di rubini.
L'indomani, tutti i domestici interrogati dichiararono di non
aver visto nessun eremita. Sogno o realtà, doveva essere un avvertimento del cielo; ma lei ebbe cura di non dire nulla a nessuno, nel timore che potessero accusarla di orgoglio.
I convitati se ne andarono all'alba; il padre di Giuliano si trovava fuori della postierla, dove aveva appena accompagnato l'ulti-
LA LEGGENDA DI SAN GIULIANO OSPITALIERE
49
mo ospite, quando d'un tratto si vide di fronte, nella nebbia, un
mendicante. Era uno zingaro dalla barba intrecciata, con anelli
d'argento alle due braccia e le pupille fiammeggianti. Balbettò
con aria ispirata queste parole:
«Ah! ah! tuo figlio!... molto sangue!... molta gloria!... sempre
felice! La famiglia di un imperatore!».
E, chinandosi per raccogliere l'elemosina, si confuse con l'erba
e svanì.
Il buon castellano si guardò a destra e a manca, chiamò più
forte che potè. Nessuno! Il vento fischiava, le brume mattutine si
diradavano.
Attribuì quella visione alla sua stanchezza mentale e alle poche
ore di sonno. «Se ne parlo con qualcuno, si burlerà di me», si
disse. Tuttavia gli splendori predetti a suo figlio lo abbagliavano,
quantunque la promessa non fosse chiara e lui dubitasse perfino
di averla udita.
Gli sposi si nascosero reciprocamente il loro segreto. Ma entrambi amavano il loro bambino del medesimo amore; e, rispettandolo come un segno di Dio, ebbero per la sua persona infiniti
riguardi. Il suo lettino era imbottito della piuma più soffice; al di
sopra bruciava perennemente una lampada a forma di colomba;
tre balie lo cullavano; e, ben stretto nelle sue fasce, con il colorito roseo e gli occhi azzurri, con il mantellino di broccato e la
cuffia intessuta di perle, assomigliava a Gesù Bambino. I primi
denti spuntarono senza che piangesse una sola volta.
Quando ebbe sette anni, sua madre gli insegnò a cantare. Per
farne un bimbo coraggioso, suo padre lo issò su un grosso cavallo. Giuliano sorrideva felice, e non tardò a conoscere tutti i segreti relativi ai destrieri.
Un vecchio e dottissimo monaco gli insegnò le Sacre Scritture,
la numerazione araba, l'alfabeto latino, e anche a dipingere miniature sulla carta velina. Studiavano insieme, in cima a una torre, lontani dai rumori.
Terminata la lezione, scendevano in giardino dove, passeggiando, passo dopo passo, studiavano i fiori.
Talvolta si vedeva camminare in fondo alla vallata una fila di
bestie da soma, guidate da un uomo vestito all'orientale. Il castellano, riconosciuto in lui un mercante, gli mandava incontro
un valletto. Lo straniero prendeva confidenza e cambiava strada;
introdotto nel parlatorio, estraeva dai suoi scrigni velluti e sete,
gioielli, aromi, cose singolari di uso ignoto; alla fine il buon forestiero se ne andava con un buon profitto, senza aver subito alcuna violenza. Altre volte bussava alla porta un gruppo di pellegrini. I loro indumenti zuppi fumavano davanti al focolare; e, quan-
50
TRE RACCONTI
do erano sazi, raccontavano i loro viaggi: naufragi in mari tempestosi, lunghe marce a piedi su sabbie cocenti, la ferocia dei pagani, le caverne della Siria, il Presepe e il Santo Sepolcro. Poi staccavano dal loro mantello conchiglie e le offrivano al giovane signore.
Spesso il castellano festeggiava i suoi vecchi compagni d'armi.
Bevendo rievocavano le loro guerre, gli assalti alle fortezze con i
colpi delle macchine da guerra e le prodigiose ferite. Giuliano,
che li ascoltava, si eccitava al punto di gridare; allora suo padre
non nutriva più dubbi che sarebbe diventato un conquistatore.
Ma la sera, all'uscita dall'angelus, quando passava tra i poveri
chini per reverenza, attingeva alla borsa con tanta modestia e
con un'aria così nobile che sua madre contava di vederlo in futuro arcivescovo.
Il suo posto nella cappella era accanto ai suoi genitori; e, per
quanto si prolungassero le funzioni, restava genuflesso sul suo
inginocchiatoio, con le mani giunte e il berretto in terra.
Un giorno, durante la messa, alzando la testa intravide un topolino bianco che usciva da un buco nel muro. Scodinzolò sul primo gradino dell'altare e, dopo due o tre svolte a destra e a sinistra, fuggì nella stessa direzione. La domenica seguente, l'idea di
poterlo rivedere turbò Giuliano. Il topolino infatti tornò, ogni
domenica lui se lo attendeva, e ne era infastidito; cominciò a
odiarlo a tal punto da decidere di liberarsene.
Dopo aver chiuso la porta e disseminato sui gradini le briciole
di un dolce, si appostò davanti al buco con una bacchetta in
mano.
Dopo molto tempo spuntò un muso roseo, poi l'intero topolino.
Gli inflisse un leggero colpo, e rimase stupefatto che quel corpicino non si muovesse. Una goccia di sangue macchiava il pavimento. La asciugò rapidamente con la manica, gettò fuori il topo
e non disse niente a nessuno.
Uccellini d'ogni specie beccavano i semi del giardino. Ebbe idea
di mettere dei piselli in una canna cava. Quando sentiva un cinguettio in un albero, si avvicinava accortamente, quindi alzava la
cerbottana e gonfiava le guance; le bestiole gli piovevano sulle
spalle così copiosamente che non poteva fare a meno di ridere,
felice della sua malizia.
Un mattino, mentre tornava attraverso la cortina, vide sulla cresta del bastione un grosso piccione che si pavoneggiava al sole.
Giuliano si fermò per osservarlo; poiché in quel punto del muro
c'era una breccia, si trovò tra le mani una scheggia di pietra. Alzò
il braccio, e la pietra abbatté l'uccello che cadde tutto d'un pezzo
nel fossato.
LA LEGGENDA DI SAN GIULIANO OSPITALIERE
51
Si precipitò in fondo, lacerandosi i vestiti tra gli sterpi, frugando
dappertutto, più lesto di un giovane cane.
Il piccione, con le ali spezzate, palpitava, sospeso tra i rami di
un ligustro.
L'averlo trovato ancora in vita irritò il fanciullo. Cominciò a
strangolarlo; le convulsioni dell'uccello gli facevano battere il
cuore, lo riempivano di una voluttà selvaggia e tumultuosa. Al
definitivo irrigidimento, si sentì mancare.
La sera, durante la cena, suo padre dichiarò che alla sua età
doveva apprendere l'arte venatoria; andò a cercare un vecchio
manoscritto che conteneva, in una serie di domande e di risposte, tutto lo scibile sulla caccia. Un maestro vi insegnava all'allievo l'arte di addestrare i cani e i falchi, di tendere le trappole, come riconoscere il cervo dai suoi escrementi, la volpe dalle
sue impronte, il lupo dalle zampate, il modo migliore per seguire
le loro tracce, in quale modo si scovano, dove si trovano di solito
le loro tane, quali sono i venti più propizi, con l'enumerazione
dei vari versi e le regole sulla porzione di preda da lasciare ai
cani,
Quando Giuliano riuscì a ripetere a memoria tutte queste cose,
suo padre compose apposta per lui una muta di cani.
Vi figuravano innanzitutto ventiquattro levrieri barbareschi, più
veloci di gazzelle, ma facili a infiammarsi; poi diciassette coppie
di cani bretoni, picchiettati di bianco su un pelo rosso, di un affidamento incrollabile, forti di petto e grandi abbaiatori. Per l'assalto al cinghiale e per le pericolose fughe simulate, c'erano quaranta cani grifoni pelosi come orsi. Mastini di Tartaria, alti quasi
quanto asini, color fuoco, dal dorso largo e dal garretto diritto,
erano destinati a inseguire gli uri. Il manto nero degli spagnoli
riluceva come seta; il guaito dei talbots valeva quello dei canori
inglesi. In un cortile appartato ringhiavano, scuotendo la loro catena e roteando le pupille, otto alani, bestie formidabili che assaltano al ventre i cavalieri e non hanno paura dei leoni.
Tutti mangiavano pane di frumento, bevevano in trogoli di pietra, e portavano nomi sonori.
La falconeria forse era superiore alla muta; il buon signore, a
furia di denaro, si era procurato terzuoli del Caucaso, sagri di
Babilonia, girifalchi di Alemagna, e falchi pellegrini, catturati
sulle scogliere, in riva a mari freddi, in lontani paesi. Alloggiavano sotto una tettoia coperta di stoppia e, legati in ordine di grandezza sul trespolo, avevano davanti a loro una zolla erbosa dove
di tanto in tanto venivano deposti per potersi sgranchire.
Furono confezionati ogni sorta di reti, trabocchetti, ordigni.
Spesso si portavano in campagna cani da piuma, che si metteva-
52
TRE RACCONTI
no subito in posizione di ferma. Allora i bracchieri, avanzando
passo dopo passo, stendevano con precauzione sui loro corpi impassibili un'immensa rete. Un comando li faceva abbaiare; le
quaglie si involavano; e le dame nei dintorni, invitate con i loro
consorti, i figli, le domestiche, tutti vi si gettavano sopra, e le
prendevano facilmente.
Altre volte, per stanare le lepri, si batteva il tamburo; le volpi
cadevano nei fossati, oppure una trappola, scattando, imprigionava un lupo per la zampa.
Ma Giuliano disprezzava quei comodi artifici; preferiva cacciare
lontano dalla gente, con il suo cavallo e il suo falco. Era quasi
sempre un grande falco di Scizia, bianco come la neve. Il suo
cappuccio di cuoio era sormontato da un pennacchio, sonagli
d'oro tremavano alle sue zampe turchine: stava immobile sul
braccio del suo padrone mentre il cavallo galoppava e la pianura
scorreva tutt'attorno. Giuliano, sciogliendo la fune, lo liberava
all'improvviso; il coraggioso animale saliva dritto nell'aria come
una freccia; si vedevano due macchie ineguali volteggiare, congiungersi, poi sparire nelle altitudini azzurre. Il falco non tardava
a scendere dilaniando qualche uccello, e andava nuovamente a
posarsi sul guanto di ferro, con le ali ancora frementi.
Giuliano cacciò in questo modo l'airone, il nibbio, la cornacchia, l'avvoltoio.
Gli piaceva seguire, suonando la tromba, i suoi cani che correvano sul pendio delle colline, saltavano i ruscelli, risalivano i boschi; e, quando il cervo cominciava a gemere sotto i loro morsi,
lui lo abbatteva rapidamente, poi si dilettava ad assistere alla furia dei mastini che lo divoravano, fatto a pezzi nella sua pelle
ancora fumante.
Nei giorni nebbiosi si inoltrava in una palude per appostare le
oche, le lontre e le anatre selvatiche.
Tre scudieri, fin dall'alba, lo attendevano ai piedi della scalinata; e per quanto il vecchio monaco, sporgendosi dal suo abbaino,
gli facesse segno di tornare, Giuliano non si voltava. Andava incontro al sole cocente, alla pioggia, alla tempesta, beveva l'acqua
delle sorgenti con la mano, trottando mangiava frutti selvatici, se
era stanco si riposava sotto una quercia; e rincasava nel cuore
della notte, coperto di sangue e di fango, con le spine nei capelli
e indosso l'odore degli animali selvatici. Divenne come loro.
Quando sua madre lo abbracciava, lui accettava freddamente
quella stretta, sembrava sognare cose remote.
Uccìse orsi a coltellate, tori con l'ascia, cinghiali con lo spiedo;
una volta, avendo a disposizione un semplice bastone, si difese
LA LEGGENDA DI SAN GIULIANO OSPITALIERE
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contro un branco di lupi che divoravano cadaveri ai piedi di una
forca.
Un mattino d'inverno partì prima che facesse giorno, ben equipaggiato, con una balestra sulle spalle e una faretra appesa all'arcione.
Il suo ginnetto danese, seguito da due bassotti, marciando di
pari passo faceva rimbombare il suolo. Il ghiaccio formava cristalli sul suo mantello, soffiava una brezza violenta. Un lato dell'orizzonte si schiarì; e, nel biancore del nuovo giorno, intravide
conigli saltellare intorno alle loro tane. I due bassotti si precipitarono subito su di loro; e, qua e là, in men che non si dica,
spezzavano loro la schiena.
Ben presto entrò in un bosco. In cima a un ramo, un gallo selvatico intirizzito dal freddo dormiva con la testa sotto l'ala. Giuliano, con un fendente di spada, gli falciò le due zampe e, senza
raccoglierlo, continuò per la sua strada.
Tre ore dopo, si trovò sul picco di una montagna talmente alta
che il cielo sembrava quasi nero. Dinanzi a lui, una roccia simile
a una vasta muraglia si inabissava a strapiombo su un precipizio;
all'estremità, due caproni selvatici guardavano il baratro. Poiché
non aveva frecce (il suo cavallo infatti era rimasto indietro), ebbe
idea di calarsi fino alla loro altezza; semicurvo, a piedi nudi, arrivò infine al primo caprone e gli affondò il pugnale nel costato. Il
secondo, terrorizzato, saltò nel vuoto. Giuliano si lanciò per colpirlo e, scivolando col piede destro, cadde sul cadavere dell'altro,
con la faccia sull'abisso e le due braccia spalancate.
Sceso di nuovo in pianura, seguì dei salici che costeggiavano un
fiume. Le gru, volando basse, di tanto in tanto sfioravano la sua
testa. Giuliano le abbatteva con lo scudiscio, e non ne mancava
una.
Intanto l'aria, fattasi più tiepida, aveva sciolto la brina, ampie
nuvole di vapore aleggiavano, spuntò il sole. Il giovane vide scintillare in gran lontananza un lago gelato, dall'aspetto plumbeo.
In mezzo al lago c'era un animale che Giuliano non conosceva,
un castoro dal muso nero. Malgrado la distanza, lo abbatté con
una freccia; fu molto dispiaciuto di non poter portare con sé la
pelle.
Poi si inoltrò in un viale costeggiato da alberi enormi, che con la
cima delle loro fronde formavano una sorta di arco di trionfo
all'ingresso di una foresta. Un capriolo balzò fuori da una macchia, un daino balenò in un crocicchio, un tasso sbucò da una
tana, un pavone spiegò la sua coda sul prato; e, quando li ebbe
uccisi tutti, si presentarono altri caprioli, altri daini, altri tassi,
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TRE RACCONTI
altri pavoni, e merli, gazze, puzzole, volpi, ricci, linci, un'infinità
di animali, a ogni passo più numerosi. Si aggiravano attorno a lui,
tremanti, con uno sguardo pieno di dolcezza e di supplica. Ma
Giuliano non si stancava di uccidere, di volta in volta tendendo
la balestra, sguainando la spada, brandendo il coltello, e non
pensava a niente, non c'era nulla di cui serbasse un preciso ricordo. Era a caccia in un paese qualunque, da un tempo indeterminato, allo stesso modo come sapeva di esistere, poiché tutto si
compiva con la facilità dei sogni. Uno spettacolo straordinario lo
fermò. Un branco di cervi gremiva un vallone a forma di circo;
ammucchiati, gli uni a ridosso degli altri, si riscaldavano con i
loro aliti che si vedevano fumare nella bruma.
La speranza di una simile carneficina per qualche minuto lo
fece soffocare di piacere. Poi smontò da cavallo, si rimboccò le
maniche e cominciò a tirare.
Al sibilo della prima freccia, tutti i cervi girarono la testa contemporaneamente. Si crearono dei vuoti nel branco; sì levarono
versi lamentosi, e un grande movimento agitò la mandria.
La sponda del vallone era troppo alta per essere valicata. Balzavano entro la cinta, cercando di scappare. Giuliano mirava e tirava; le frecce cadevano come raggi di una pioggia tempestosa. I
cervi, resi furiosi, si urtavano, si impennavano, salivano gli uni
sugli altri; i loro corpi con le ramificazioni aggrovigliate formavano un vasto cumulo che spostandosi si demoliva.
Alla fine morirono, distesi sulla sabbia, con la bava sulle narici,
le viscere di fuori, i ventri palpitanti che si abbassavano a intervalli. Poi tutto fu immobile.
Stava per scendere la notte; al di là del bosco, negli interstizi dei
rami, il cielo era rosso come una tovaglia insanguinata.
Giuliano si appoggiò a un albero. Contemplava con occhio attonito l'enormità del massacro, non rendendosi conto di come
avesse potuto portarlo a termine.
Dall'altra parte del vallone, ai limiti della foresta, intravide un
cervo con la sua compagna e il suo piccolo.
Il cervo, che era nero e di taglia gigantesca, aveva sedici ramificazioni e una barba bianca. La cerva, bionda come le foglie morte, brucava l'erba; il cerbiatto picchiettato, senza interrompere la
marcia della madre, le succhiava una mammella.
La balestra vibrò ancora una volta. Il cerbiatto stramazzò subito, morto. Allora sua madre, guardando il cielo, bramì con una
voce profonda, straziante, umana. Esasperato, Giuliano con un
colpo in pieno petto la abbatté.
LA LEGGENDA DI SAN GIULIANO OSPITALIERE
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Il grande cervo, che lo aveva visto, fece un balzo. Giuliano
scagliò contro di esso l'ultima freccia, che lo colpì in piena fronte, e vi restò piantata.
Il grande cervo sembrò non sentirla; scavalcando i cadaveri,
continuò ad avanzare; stava per piombargli addosso, per sventrarlo. Giuliano indietreggiava in preda a un indicibile spavento.
Il prodigioso animale si fermò; con gli occhi in fiamme, solenne
come un patriarca e come un giustiziere, mentre una campana
lontana suonava, ripetè tre volte:
«Maledetto! maledetto! maledetto! Un giorno, cuore spietato,
assassinerai tuo padre e tua madre».
Piegò le ginocchia, chiuse dolcemente le palpebre, e morì.
Giuliano fu stupefatto, poi oppresso da un improvviso sfinimento; e un disgusto, un'immensa tristezza lo invasero. Con la fronte
tra le mani, pianse a lungo.
Il suo cavallo si era perduto; i suoi cani lo avevano abbandonato; la solitudine che lo avviluppava gli sembrò gravida di pericoli
indefiniti e minacciosi. Allora, incitato dalla paura, cominciò a
correre attraverso la campagna, scelse a caso un sentiero, e si
trovò quasi immediatamente alla porta del castello.
Quella notte non dormì. Sotto l'oscillazione della lampada sospesa, rivedeva sempre il grande cervo nero. La sua predizione lo
ossessionava; Giuliano lottava contro di essa. «No! no! no! non
voglio ucciderli!» Poi pensava: «E se invece lo volessi?...». E aveva paura che il diavolo gliene ispirasse il desiderio.
Per tre mesi sua madre, in preda all'angoscia, pregò al capezzale del suo letto, mentre suo padre, gemendo, percorreva incessantemente i corridoi del castello. Mandò a chiamare i mastri
speziali più famosi, i quali prescrissero una quantità di droghe. Il
male di Giuliano, dicevano, era causato da un vento funesto o da
un desiderio d'amore. Ma il giovane, a tutte le domande, scuoteva il capo.
Le forze gli tornarono; faceva brevi passeggiate nel cortile, con
il vecchio monaco e il buon signore che lo sostenevano ciascuno
per un braccio.
Quando si fu ristabilito completamente, si ostinò a non cacciare
mai più.
Suo padre, per farlo felice, gli fece dono di una grande spada
saracena.
La spada era in cima a un pilastro, in una panoplia. Per raggiungerla, fu necessaria una scala. Giuliano vi salì. La spada, troppo
pesante, gli sfuggì dalle dita, e cadendo sfiorò il buon signore al
punto che la sua guarnacca ne fu tranciata; Giuliano credette di
avere ucciso suo padre, e svenne.
56
TRE RACCONTI
Da allora ebbe paura delle armi. Il solo vedere una lama sguainata lo faceva impallidire. Questa sua debolezza era una desolazione per la famiglia.
Alla fine il vecchio monaco, in nome di Dio, del suo onore e di
quello dei suoi antenati, gli ingiunse di riprendere i suoi esercizi
da gentiluomo.
Non c'era giorno che gli scudieri non si distraessero maneggiando la verretta. Ben presto Giuliano vi eccelse. Riusciva a scagliare la sua nel collo delle bottiglie, strappava i denti delle banderuole, colpiva a cento passi i chiodi delle porte.
Una sera d'estate, in quell'ora in cui la bruma rende indistinte
le cose, mentre si trovava sotto il pergolato del giardino, intravide in fondo due ali bianche che volteggiavano all'altezza della
spalliera. Non ebbe il minimo dubbio che si trattasse di una cicogna; lanciò il suo giavellotto.
Si udì un grido straziante.
Era sua madre, il cui cappello dai lunghi nastri era rimasto inchiodato sul muro.
Giuliano fuggì dal castello, e non si fece mai più vivo.
II.
Si arruolò in una banda di avventurieri di passaggio.
Conobbe la fame, la sete, le febbri e i pidocchi. Si abituò al
fracasso delle mischie e all'aspetto dei moribondi. Il vento conciò
la sua pelle. Le sue membra si indurirono al contatto con le armature; e poiché era molto forte, coraggioso, temperante, accorto, ottenne senza fatica il comando di una compagnia.
All'inizio delle battaglie incitava i suoi soldati con un gran gesto
della spada. Con una corda di nodi scalava le mura delle fortezze, di notte, sballottato dalla tempesta, mentre le fiammelle di
pece bollente si incollavano alla sua corazza, e i merli grondavano resina bollente e piombo fuso. Più di una volta l'impatto di
una pietra fracassò il suo scudo. Ponti troppo carichi di uomini
crollarono sotto i suoi piedi. Facendo volteggiare la sua mazza, si
liberò di quattordici cavalieri. Sfidò in campo chiuso tutti coloro
che si offrirono. Più di venti volte fu dato per morto.
Grazie al favore divino, si salvò sempre; giacché proteggeva gli
uomini di chiesa, gli orfani, le vedove, e soprattutto i vecchi.
Quando ne vedeva uno camminare davanti a sé, gridava per vedere il suo volto, come se avesse paura di ucciderlo per sbaglio.
Schiavi fuggiaschi, contadini ribelli, bastardi senza fortuna, intrepidi d'ogni sorta affluirono sotto la sua bandiera, e alla fine si
creò un suo esercito.
LA LEGGENDA DI SAN GIULIANO OSPITALIERE
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L'esercito si accrebbe. Divenne famoso. Lo ricercarono.
Di volta in volta accorse in aiuto del Delfino di Francia e del Re
d'Inghilterra, dei templari di Gerusalemme e del Surena dei Parti, del negus d'Abissinia e dell'imperatore di Calicut. Combatté
scandinavi rivestiti di squame di pesce, negri armati di rondacce
di pelle d'ippopotamo e che montavano asini rossi, indiani colore
dell'oro che brandivano sopra i loro diademi larghe sciabole, più
brillanti di specchi. Vinse i trogloditi e gli antropofagi. Attraversò regioni così torride che sotto il calore del sole le capigliature si
accendevano da sole, come torce; altre così gelide che le braccia,
staccandosi dal tronco, cadevano per terra; e paesi dove c'era
tanta nebbia che si marciava circondati di fantasmi.
Repubbliche in difficoltà lo consultarono. Nelle trattative con
gli ambasciatori otteneva condizioni insperate. Se un monarca si
comportava troppo male, Giuliano arrivava bruscamente e gli faceva le sue rimostranze. Affrancò interi popoli. Liberò regine imprigionate in imprendibili torri. Fu lui, e non altri, a uccidere il
biscione di Milano e il drago di Oberbirbach.
Orbene, l'imperatore d'Occitania, dopo il trionfo sui Musulmani spagnoli, si era unito in concubinato con la sorella del califfo
di Cordoba; e ne accudiva una figlia, che aveva educato cristianamente. Ma il califfo, fingendo di volersi convertire, venne a rendergli visita accompagnato da una folta scorta, massacrò tutta la
guarnigione e lo scaraventò in una segreta, dove lo trattava duramente al fine di ottenerne i tesori.
Giuliano accorse in suo aiuto, distrusse l'esercito degli infedeli,
assediò la città, uccise il califfo, tagliò la sua testa e la gettò come
una palla dall'alto dei bastioni. Quindi liberò l'imperatore dalla
sua prigione, e lo rimise sul trono, in presenza di tutta la sua
corte.
L'imperatore, come premio per un simile servigio, gli offrì ceste
piene di monete d'oro; Giuliano non accettò. Credendo che ne
desiderasse di più, gli offrì i tre quarti delle sue ricchezze; nuovo
rifiuto; poi, di condividere il suo regno; Giuliano lo ringraziò; e
l'imperatore piangeva di sconforto, non sapendo in quale modo
testimoniargli la propria riconoscenza, quando si diede un colpo
sulla fronte e disse una parola all'orecchio di un cortigiano; le
tende di una tappezzeria si scostarono, e apparve una fanciulla.
I suoi grandi occhi neri brillavano come due lumi dolcissimi. Un
sorriso incantevole traspariva dalle labbra. I riccioli della capigliatura si impigliavano alle pietre preziose della sua veste socchiusa, e, sotto la trasparenza della tunica, si indovinava la giovinezza del suo corpo. Era minuta e rotondetta, e aveva la vita
sottile.
58
TRE RACCONTI
Giuliano fu subito pazzo d'amore, tanto più in quanto fino ad
allora aveva condotto una vita casta.
Così ricevette in moglie la figlia dell'imperatore, insieme a un
castello che lei aveva ereditato da parte di madre. Al termine
delle nozze si salutarono, dopo infinite gentilezze da una parte e
dall'altra.
Era un palazzo di marmo bianco, costruito in stile moresco, su
un promontorio, in mezzo a un bosco di aranci. Terrazze di fiori
digradavano fino alle sponde di un golfo, dove conchiglie rosa
scricchiolavano sotto i passi. Dietro il castello si estendeva una
foresta a forma di ventaglio. Il cielo era sempre azzurro, e gli
alberi si chinavano l'uno dopo l'altro sotto la brezza del mare e il
vento delle montagne, che in lontananza chiudevano l'orizzonte.
Le camere ombrose erano rischiarate dalle incrostazioni a mosaico delle pareti. Alte colonnette, esili come giunchi, sostenevano la volta delle cupole, decorate in rilievi che imitavano le
stalattiti delle grotte.
C'erano getti d'acqua nelle sale, mosaici nei cortili, pareti decorate a festoni, mille raffinatezze architettoniche, e ovunque un
silenzio tale da potersi udire il fruscio di una sciarpa o l'eco di un
sospiro.
Giuliano aveva smesso di guerreggiare. Si riposava, circondato
da un popolo tranquillo; ogni giorno, una folla gli passava davanti, con genuflessioni e baciamano all'orientale.
Vestito di porpora, se ne stava affacciato al davanzale di una
finestra, rievocando le cacce di un tempo; avrebbe voluto correre
sul deserto dietro le gazzelle e gli struzzi, nascondersi tra i bambù alla posta dei leopardi, attraversare foreste piene di rinoceronti, raggiungere la cima dei monti più inaccessibili per avvistare meglio le aquile, combattere gli orsi bianchi sui ghiacci marini.
Talvolta, in un sogno, si vedeva come il nostro comune padre
Adamo al centro del Paradiso, in mezzo a tutti gli animali; allungando le braccia, dava loro la morte; oppure essi sfilavano, a due
a due, in ordine di grandezza, dagli elefanti e i leoni fino agli
ermellini e alle anatre, come il giorno in cui entrarono nell'arca
di Noè. Dall'ombra di una caverna, Giuliano dardeggiava su di
loro giavellotti infallibili; ne venivano altri; la strage non aveva
mai fine; e si svegliava roteando occhi inferociti.
Certi principi suoi amici lo invitarono a cacciare. Rifiutò sempre, credendo, con questa sorta di penitenza, di sfuggire alla sua
sventura; gli sembrava infatti che dalla morte degli animali dipendesse la morte dei suoi genitori. Ma soffriva nel non poterli
vedere, e questo suo desiderio divenne insopportabile.
LA LEGGENDA DI SAN GIULIANO OSPITALIERE
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Sua moglie, per distrarlo, fece venire a corte giocolieri e danzatrici.
Passeggiava insieme a lui, in una lettiga aperta, in mezzo alla
campagna; altre volte, distesi a bordo di una scialuppa, guardavano i pesci girellare nell'acqua, chiara come il cielo. Spesso lei
lanciava fiori sul viso di Giuliano; accovacciata ai suoi piedi, traeva melodie da un mandolino a tre corde; poi, posando sulla sua
spalla le sue mani giunte, diceva con voce timida: «Che cosa avete, mio signore?».
Lui non rispondeva, oppure scoppiava in lacrime; finalmente,
un giorno, confessò il suo orribile pensiero.
Lei cercò di combatterlo, ragionando lucidamente: suo padre e
sua madre probabilmente erano già morti; seppure li avesse riveduti, perché mai, e con quale scopo, sarebbe arrivato a un simile
abominio? Dunque il suo timore non era fondato, e doveva riprendere a cacciare.
Giuliano sorrideva ascoltandola, ma non si decideva ad appagare il suo desiderio.
Una sera d'agosto erano nella loro camera, lei si era appena
coricata e lui era inginocchiato per recitare le sue preghiere,
quando udì il guaito di una volpe, poi qualche passo leggero sotto la finestra; nell'ombra intravide come forme animali. La tentazione era troppo forte. Staccò dal muro la faretra.
Lei parve sorpresa.
«Lo faccio per obbedirti!», disse Giuliano, «all'alba sarò di ritorno.»
Eppure lei aveva il presentimento di un'avventura funesta.
Giuliano la rassicurò, poi uscì, stupito dell'incoerenza del suo
umore.
Poco tempo dopo, un paggio venne ad annunciare che due
sconosciuti, in assenza del signore, chiedevano urgentemente
della castellana.
Subito dopo entrarono nella camera un vecchio e una vecchia,
curvi, polverosi, vestiti di tela, sostenuti da un bastone.
Presero coraggio e dichiararono che portavano a Giuliano notizie dei suoi genitori.
Lei si chinò per ascoltarli.
Ma, dopo uno sguardo d'intesa, i due le chiesero se Giuliano li
amava sempre, se parlava di loro qualche volta.
«Oh! sì!», disse la moglie.
Allora esclamarono: «Ebbene! siamo noi!», e si sedettero, poiché erano sfiniti dalla fatica.
Nulla poteva assicurare alla giovane donna che il suo sposo fosse loro figlio.
60
TRE RACCONTI
Loro ne fornirono la prova, descrivendo particolari segni che
Giuliano aveva sulla pelle.
Lei allora balzò giù dal letto, chiamò il suo paggio, e fece servire loro un pasto.
Benché avessero una gran fame, non potevano mangiare molto;
la giovane donna osservava in disparte i tremori delle loro mani
ossute, mentre prendevano i calici.
Fecero mille domande su Giuliano. Lei rispondeva a tutte, ma
ebbe cura di tacere sull'idea funebre che li riguardava.
Non vedendolo tornare, erano partiti dal loro castello; erano in
marcia da parecchi anni, dietro vaghe indicazioni, senza perdere
la speranza. C'era voluto talmente tanto denaro per i pedaggi dei
fiumi e nelle locande, per i diritti dei principi e le esigenze dei
ladri, che il fondo della loro borsa era vuoto e ora erano costretti
a mendicare. Ma che importanza aveva, dal momento che ora
avrebbero potuto riabbracciare loro figlio? Esaltavano la sua fortuna di avere una moglie così gentile, e non smettevano di contemplarla e di baciarla.
La ricchezza dell'appartamento li stupì molto; il vecchio, esaminando le pareti, domandò perché vi si trovasse il blasone dell'imperatore d'Occitania.
Lei replicò:
«È mio padre!».
Allora lui trasalì, rammentando la profezia dello zingaro; la vecchia pensava alla parola dell'eremita. Indubbiamente la gloria di
suo figlio era soltanto l'aurora di eterni splendori; e tutti e due
restavano allibiti, sotto la luce del candelabro che rischiarava la
tavola.
Dovevano essere stati bellissimi in gioventù. La madre aveva
ancora tutti i suoi capelli, le cui trecce sottili, simili a fiocchi di
neve, ricadevano fin sotto le guance; quanto al padre, con la sua
alta statura e la sua grande barba, assomigliava alla statua di una
chiesa.
La moglie di Giuliano li invitò a non aspettarlo in piedi. Li fece
coricare nel suo stesso letto, poi chiuse la finestra; i due vecchi si
addormentarono. Stava per fare giorno e, dietro la vetrata, gli
uccellini cominciavano a cantare.
Giuliano aveva attraversato il parco; ora camminava nella foresta con passo nervoso, godendo della soffice consistenza del
prato e della mitezza dell'aria.
Le ombre degli alberi si estendevano sui muschi. Talvolta la
luna proiettava macchie bianche sulle radure, e Giuliano esitava
ad avanzare, credendo di scorgere una pozza d'acqua, oppure la
LA LEGGENDA DI SAN GIULIANO OSPITALIERE
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superficie di tranquilli acquitrini si confondeva con il colore dell'erba. Ovunque regnava un gran silenzio; il giovane non trovò
nessuna delle bestie che, pochi minuti prima, erravano attorno al
suo castello.
La boscaglia si faceva sempre più fitta, l'oscurità divenne profonda. Folate di vento caldo passavano, cariche di deboli odori.
Affondava i piedi in mucchi di foglie morte, si appoggiò a una
quercia per riprendere fiato un istante.
D'improvviso, alle sue spalle, balzò una massa più nera del
buio, un cinghiale. Giuliano non ebbe il tempo di afferrare l'arco,
e se ne afflisse come di una iattura.
Poi, una volta uscito dal bosco, avvistò un lupo che costeggiava
una siepe.
Giuliano gli scagliò una freccia. Il lupo si fermò, girò la testa
per guardarlo e riprese la sua corsa. Trottava mantenendo sempre la stessa distanza, si fermava di tanto in tanto e, non appena
veniva avvistato, ricominciava a fuggire.
Giuliano percorse in quel modo una piana interminabile, poi
dei poggi sabbiosi, e infine si trovò su un altopiano che dominava
una vasta vallata. Pietre piatte erano disseminate in mezzo a sepolcri in rovina. Si barcollava su ossa di morti; qua e là, croci
tarlate pendevano penosamente. Ma c'erano forme che si agitavano nell'ombra indecisa delle tombe; ne spuntarono iene, atterrite, ansimanti. Facendo cigolare le unghie sul selciato, gli si avvicinarono e lo fiutarono con sbadigli che mettevano a nudo le
loro gengive. Giuliano sguainò la sciabola. Le iene fuggirono
contemporaneamente in tutte le direzioni e, continuando il loro
galoppo zoppicante e precipitoso, si persero in lontananza davanti a una nube di polvere.
Un'ora dopo, Giuliano incontrò in una forra un toro infuriato,
con le corna protese minacciosamente in avanti, e che scavava la
sabbia con la zampa. Giuliano gli puntò la lancia sotto la giogaia,
ma questa andò in pezzi, come se l'animale fosse stato di bronzo;
chiuse gli occhi, attendendo la morte. Quando li riaprì, il toro era
scomparso.
Allora la sua anima si accasciò per la vergogna. Un potere superiore neutralizzava la sua forza; per tornare a casa, rientrò nella
foresta.
Era ostruita di liane; mentre le tagliava con la sciabola, una faina si intrufolò bruscamente tra le sue gambe, una pantera fece
un balzo sopra la sua spalla, un serpente formò una spirale attorno a un frassino.
Tra le sue foglie era nascosta una mostruosa taccola che stava
fissando Giuliano; qua e là, tra i rami apparirono una quantità di
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TRE RACCONTI
grandi scintille, come se il firmamento avesse fatto piovere nella
foresta tutte le sue stelle. Erano occhi di animali, gatti selvatici,
scoiattoli, gufi, pappagalli, scimmie.
Giuliano scagliò le sue frecce contro di loro; le frecce, con le
loro piume, si posavano sulle foglie come bianche farfalle. Lanciò loro delle pietre; le pietre, senza colpire nulla, ricadevano. Si
maledisse, avrebbe voluto colpirsi, urlò imprecazioni, soffocava
dalla rabbia.
E tutti gli animali che aveva inseguito si ripresentarono, formando attorno a lui uno stretto cerchio. Alcuni erano seduti sulla groppa, altri eretti in tutta la loro altezza. Giuliano restava al
centro, agghiacciato dal terrore, incapace del minimo movimento. Con uno sforzo supremo della sua volontà, fece un passo;
quelli che erano appollaiati sugli alberi spiegarono le ali, quelli
che si accalcavano al suolo spostarono le loro membra; e tutti lo
accompagnarono.
Le iene marciavano davanti a lui, il lupo e il cinghiale dietro. Il
toro, alla sua destra, ciondolava la testa; e, alla sua sinistra, il
serpente procedeva oscillando sull'erba, mentre la pantera, inarcando il dorso, avanzava con passo felpato e a grandi falcate.
Giuliano camminava più lentamente che poteva per non irritarli;
dal folto dei cespugli vedeva sbucare porcospini, volpi, vipere,
sciacalli, orsi.
Giuliano cominciò a correre; gli animali fecero altrettanto. Il
serpente sibilava, le maleodoranti bestie sbavavano. Il cinghiale
gli sfiorava i talloni con le zanne, il lupo il palmo della mano con
il pelo del muso. Le scimmie lo pizzicavano urlando, la faina si
rotolava sopra i suoi piedi. Un orso, con una zampata, gli tolse il
cappello; la pantera lasciò sprezzantemente cadere una freccia
che aveva ancora piantata nella gola.
La loro andatura sorniona trasudava ironia. Mentre lo osservavano con la coda dell'occhio, sembravano meditare un piano di
vendetta; assordato dal ronzio degli insetti, percosso dalle codate
degli uccelli, soffocato da tutti quei fiati, Giuliano camminava
con le braccia tese e le palpebre chiuse come un cieco, senza aver
neppure la forza di gridare: «pietà!».
Il canto di un gallo vibrò nell'aria. Altri gli risposero; faceva
giorno; e, al di là degli aranci, riconobbe la sommità del suo palazzo.
Poi, sul limitare di un campo, vide a tre passi di distanza pernici
rosse che svolazzavano tra le stoppie. Si sfilò il mantello e lo
lanciò sopra di loro a mo' di rete. Quando andò a scoprirle, ne
trovò una soltanto, morta da tempo, putrefatta.
Quella delusione lo esasperò più di tutte le altre. La sua sete di
LA LEGGENDA DI SAN GIULIANO OSPITALIERE
63
carneficina riprendeva il sopravvento; in mancanza di animali,
avrebbe voluto massacrare uomini.
Salì le tre terrazze, sfondò la porta con un pugno; ma, ai piedi
della scala, il ricordo della sua dolce compagna placò il suo cuore. Probabilmente dormiva, e lui l'avrebbe sorpresa nel sonno.
Dopo essersi tolto i sandali, aprì dolcemente la serratura, ed
entrò.
Le vetrate impiombate oscuravano il pallore dell'alba. Giuliano
inciampò con i piedi su alcuni indumenti che si trovavano per
terra; un po' più avanti, urtò una tavola piena di stoviglie. «Deve
aver mangiato», si disse; avanzava verso il letto, perduto nelle
tenebre, in fondo alla stanza. Quando ne raggiunse il bordo, per
baciare sua moglie si chinò sul guanciale dove le due teste riposavano l'una accanto all'altra. Allora avvertì sulla bocca la sensazione come di una barba.
Indietreggiò, credendo di essere impazzito; ma poi tornò accanto al letto, e le sue dita, palpando, incontrarono una lunghissima chioma. Per convincersi del suo errore, ripassò lentamente
la mano sul guanciale. Era proprio una barba, questa volta, e un
uomo! un uomo a letto con sua moglie!
Esplodendo in un'ira smisurata, si avventò sui due col pugnale;
pestava i piedi, schiumava, con urla da belva feroce. Infine si
placò. I moribondi, trafitti al cuore, non avevano avuto nemmeno il tempo di muoversi. Giuliano ascoltava i loro rantoli
quasi identici, e, a mano a mano che si affievolivano, un altro,
come remoto, li prolungava. Dapprima incerta, quella voce lamentosa si avvicinò, prese corpo, divenne crudele; e Giuliano riconobbe, terrorizzato, il bramito del grande cervo nero.
E quando si voltò, credette di vedere, nella cornice della porta,
il fantasma di sua moglie con una luce in mano.
Il chiasso dell'omicidio l'aveva richiamata. Le bastò un'ampia e
rapida occhiata per capire tutto: fuggendo per l'orrore, lasciò cadere la sua torcia.
Giuliano la raccolse.
Suo padre e sua madre erano davanti a lui, distesi supini con
uno squarcio nel petto; i loro volti, di una maestosa dolcezza,
sembravano custodire un eterno segreto. Schizzi e pozze di
sangue spiccavano sulla loro pelle bianca, sulle lenzuola, per
terra, su un Cristo d'avorio sospeso sopra l'alcova. Il riflesso
scarlatto della vetrata, ora colpito dal sole, illuminava quelle
macchie rosse, e le moltiplicava in tutto l'appartamento. Giuliano si avvicinò ai due morti, dicendosi, tentando di convincersi
che non era possibile, che si ingannava, che talvolta si danno somiglianze inesplicabili. Infine si chinò leggermente per osservare
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TRE RACCONTI
da vicino il vecchio; tra le palpebre semichiuse, intravide una pupilla che ardeva come una fiamma. Poi andò dalla parte opposta
del letto, dove giaceva l'altro corpo, i cui bianchi capelli mascheravano in parte il volto. Giuliano passò le dita sotto quelle
trecce, sollevò il capo; la guardava, sostenendola con il suo
braccio irrigidito, mentre con l'altra mano si faceva luce con la
torcia. Gocce di sangue filtravano dal materasso e cadevano a
una a una sul pavimento.
Al tramonto si presentò al cospetto di sua moglie e, con una
voce che non era la sua, le intimò in primo luogo di non rispondere, di non avvicinarlo, di non guardarlo neppure, e che doveva
seguire alla lettera, sotto pena di dannazione, tutti i suoi ordini,
che erano irrevocabili.
I funerali si sarebbero svolti secondo le istruzioni che si era curato di lasciare per iscritto, su un inginocchiatoio, nella camera
dei morti. Le lasciava il suo palazzo, i suoi vassalli, tutti i suoi
beni, senza tenere per sé neppure i vestiti che aveva indosso,
neppure i suoi sandali, che avrebbe ritrovato in cima alla scala.
Lei aveva obbedito alla volontà divina, occasionando il delitto,
e doveva pregare per la sua anima, perché lui ormai non esisteva
più.
Seppellirono i morti con magnificenza, nella chiesa di un monastero a tre giorni di cammino dal castello. Un monaco incappucciato seguì il corteo funebre, lontano da tutti gli altri, senza che
nessuno osasse rivolgergli la parola.
Per tutta la messa restò carponi in mezzo al portale, con le
braccia incrociate e la fronte nella polvere.
Dopo la sepoltura, lo videro incamminarsi sul sentiero che conduceva verso le montagne. Si voltò parecchie volte, e alla fine
scomparve.
III.
Se ne andò, mendicando il pane per il mondo.
Tendeva la mano ai cavalieri sulle strade, genuflettendosi si avvicinava ai mietitori, oppure restava immobile davanti al cancello
dei cortili; il suo viso era così triste che nessuno gli rifiutava mai
un'elemosina.
Per spirito di umiltà raccontava la sua storia; tutti allora lo rifuggivano, facendosi il segno della croce. Nei villaggi dove era già
passato, non appena lo riconoscevano sprangavano le porte, gli
urlavano minacce, gli lanciavano pietre. I più caritatevoli lascia-
LA LEGGENDA DI SAN GIULIANO OSPITALIERE
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vano una scodella sul davanzale delle finestre, ma poi chiudevano le imposte per non vederlo.
Respinto da tutti, evitava gli uomini; si nutrì di radici, di piante,
di frutti caduti dagli alberi, di conchiglie cercate lungo le spiagge.
Talvolta, alla svolta di un costone, vedeva sotto i suoi occhi una
confusione di tetti accalcati, guglie di pietra, ponti, torri, strade
buie che si intersecavano, e dalle quali saliva fino a lui un mormorio continuo.
Il bisogno di mescolarsi all'esistenza altrui lo induceva a scendere nelle città. Ma l'abbrutimento dei volti, il baccano dei mestieri, l'indifferenza dei discorsi raggelavano il suo cuore. Nei
giorni di festa, quando il campanone delle cattedrali infondeva
allegria nella popolazione fin dalle prime luci del giorno, osservava gli abitanti uscire dalle loro case, i balli nelle piazze, le fontane di cervogia nei crocicchi, i tendaggi di damasco davanti alle
residenze dei principi, e, sul far della sera, attraverso le vetrate
dei pianterreni, le lunghe tavolate di famiglia dove gli anziani
tenevano i bambini sulle ginocchia; il pianto lo soffocava, e se ne
ritornava verso la campagna.
Contemplava con slanci d'amore i puledri nei pascoli, gli uccelli
nei loro nidi, gli insetti sui fiori; tutti, al suo avvicinarsi, correvano lontano, si nascondevano terrorizzati, volavano via veloci
come il fulmine.
Cercò di nuovo la solitudine. Ma il vento recava al suo orecchio
come rantoli d'agonia; le lacrime della rugiada che cadevano al
suolo gli rammentavano altre gocce, più pesanti. Tutte le sere il
sole ricopriva di sangue le nubi; e ogni notte, in sogno, il parricidio si replicava.
Si fece un cilicio con delle punte di ferro. Si inerpicò in ginocchio su tutte le colline che avessero sulla loro cima una cappella.
Ma l'implacabile pensiero oscurava lo splendore dei tabernacoli,
lo torturava anche attraverso la macerazione della penitenza.
Non si ribellava contro Dio che gli aveva inflitto una simile punizione, tuttavia si disperava per esserne stato la causa.
La sua persona gli faceva un tale orrore che sperò di liberarsene
cacciandosi in ogni genere di pericoli. Salvò paralitici dagli incendi, fanciulli dal fondo dei burroni. L'abisso lo ripudiava, le
fiamme lo risparmiavano.
Il tempo non placò la sua sofferenza. Diveniva sempre più intollerabile. Decise di morire.
E, un giorno che si trovava sull'orlo di un pozzo, mentre si
chinava per valutare la profondità dell'acqua, vide apparire di
fronte a lui un vecchio scarno, dalla barba bianca e di un aspetto
così penoso che gli fu impossibile trattenere le lacrime. Anche
66
TRE RACCONTI
l'altro piangeva. Senza riconoscere la propria immagine, Giuliano rammentava vagamente un volto simile a quello. Lanciò un
grido: era suo padre; non pensò più a uccidersi.
Così, portando il peso del suo ricordo, attraversò molti paesi;
arrivò sulle sponde di un fiume il cui guado era molto rischioso, a
causa della violenza delle acque, e anche perché sulla riva c'era
una grande distesa di limo. Da tempo nessuno osava più oltrepassarlo.
Una vecchia barca, capovolta e in parte inabissata, faceva affiorare la prua tra i giunchi. Giuliano, esaminandola, scoprì un paio
di remi; gli venne così in mente di impiegare la sua esistenza al
servizio degli altri.
Cominciò col costruire sull'approdo una sorta di argine che
avrebbe permesso di scendere fino al canale; si spezzò le unghie
per rimuovere quelle enormi pietre, le poggiava sul ventre per
trasportarle, scivolava nella melma, vi affondava, più di una volta
rischiò di perire.
Pian piano riuscì a riparare l'imbarcazione con relitti di navi, e
si costruì un tugurio con fango argilloso e tronchi d'albero.
Poiché il varco era conosciuto, i viandanti si presentarono. Lo
chiamavano dall'altra sponda, agitando bandiere; Giuliano saltava rapidamente nella barca. Era pesantissima, e sempre sovraccarica di ogni genere di bagagli e fardelli, senza contare le bestie
da soma che, scalciando per la paura, accrescevano l'ingombro.
Non chiedeva nulla in cambio della sua fatica; qualcuno gli dava
resti di vettovaglie che traeva dalla bisaccia, o indumenti troppo
logori di cui voleva disfarsi. Gente brutale vociferava bestemmiando; Giuliano li riprendeva con dolcezza; costoro rispondevano con ingiurie. Si accontentava di benedirli.
Un tavolino, uno sgabello, un giaciglio di foglie morte e tre
coppe d'argilla costituivano tutto il suo arredo. Due fori nel
muro servivano da finestre. Da una parte si stendevano a perdita
d'occhio pianure incolte la cui superficie era ricoperta, qua e là,
di pallidi stagni; e il grande fiume, dinanzi a lui, scorreva con i
suoi flutti verdastri. In primavera, la terra umida aveva un odore
di marcio. Poi un vento disordinato sollevava la polvere formando mulinelli. Entrava dappertutto, impantanava l'acqua,
scricchiolava sotto le gengive. Un po' più tardi arrivavano nugoli
di zanzare, il cui ronzio e le cui punture non conoscevano requie,
di giorno come di notte. Sopravvenivano poi atroci gelate che
davano alle cose la rigidità della pietra, e ispiravano un folle bisogno di mangiare carne.
Passarono mesi senza che Giuliano vedesse nessuno. Spesso
chiudeva gli occhi, tentando, con la memoria, di tornare alla sua
LA LEGGENDA DI SAN GIULIANO OSPITALIERE
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giovinezza; appariva il cortile di un castello, con levrieri sulla
scalinata, domestici nella sala d'armi e, sotto un pergolato di
pampini, un adolescente dai capelli biondi tra un vecchio coperto
di pellicce e una dama dal grande cappello a cono; tutt'a un
tratto si trasformavano in cadaveri. Allora si gettava bocconi sul
pagliericcio, e ripeteva:
«Ah! povero padre! povera madre! povera madre!», e cadeva in
un deliquio in cui le visioni funebri si perpetuavano.
Una notte, mentre dormiva, credette di udire qualcuno che lo
chiamava. Tese l'orecchio ma non distinse altro che il mugghiare
dei flutti.
Ma la voce proseguì:
«Giuliano!».
Veniva dall'altra sponda, e ciò gli parve straordinario, data la
vastità del fiume.
Per la terza volta chiamarono:
«Giuliano!».
E quella voce sonora aveva l'intonazione di una campana da
chiesa.
Accesa la lanterna, Giuliano uscì dalla baracca. Un furioso uragano riempiva la notte. Le tenebre erano profonde, qua e là lacerate dal biancore delle onde che montavano.
Dopo un istante di esitazione, Giuliano sciolse gli ormeggi.
L'acqua divenne subito tranquilla, la barca vi scivolò sopra e raggiunse l'altra riva, dove un uomo era in attesa.
Era avvolto di una tela in brandelli, con il volto simile a una
maschera di gesso e due occhi più rossi di tizzoni. Avvicinando a
costui la lanterna, Giuliano si accorse che un'orrenda lebbra lo
ricopriva; eppure, nel suo contegno, c'era una sorta di regale
maestà.
Non appena entrò nella barca, questa affondò prodigiosamente,
schiacciata dal suo peso; uno scossone la fece riemergere, e Giuliano cominciò a vogare.
A ogni colpo di remo, la risacca dei flutti la sollevava per la
prua. L'acqua, più nera dell'inchiostro, scorreva furiosamente ai
due lati dello scafo. Scavava abissi, creava montagne, e la scialuppa vi saltava sopra, quindi ripiombava nelle profondità, dove
beccheggiava sballottata dal vento.
Giuliano protendeva il corpo, spiegava le braccia e, inarcuandosi sui piedi, si rovesciava con una torsione della vita per opporre maggior resistenza. La grandine sferzava le sue mani, la
pioggia scorreva nella sua schiena, la violenza dell'aria lo soffocava: si fermò. Allora il battello fu trascinato alla deriva. Ma,
68
TRE RACCONTI
rendendosi conto che si trattava di un evento straordinario, di un
ordine al quale non doveva disobbedire, si rimise ai remi; il battito degli scalmi interrompeva il clamore della tempesta.
La piccola lanterna ardeva davanti a lui. Uccelli svolazzanti la
nascondevano a tratti. Ma vedeva sempre le pupille del Lebbroso
che stava in piedi a poppa, immobile come una colonna.
Andò avanti così a lungo, molto a lungo!
Dopo che furono arrivati nel capanno, Giuliano chiuse la porta;
lo trovò seduto sullo sgabello. Quella specie di sudario che lo
copriva era sceso giù fino ai fianchi; le sue spalle, il petto, le
braccia magre sparivano sotto placche di pustole squamose.
Enormi rughe solcavano la fronte. Come uno scheletro, aveva un
foro al posto del naso; le sue labbra bluastre effondevano un
alito fitto come nebbia, e nauseabondo.
«Ho fame!», disse.
Giuliano gli diede ciò che possedeva, una vecchia fetta di lardo
e qualche crosta di pane nero.
Quando le ebbe divorate, la tavola, la scodella e il manico del
coltello avevano le stesse macchie che si vedevano sul suo corpo.
In seguito disse:
«Ho sete!».
Giuliano andò a cercare la sua brocca; mentre la prendeva, ne
scaturì un aroma che dilatò il suo cuore e le sue narici. Era vino;
che felice sorpresa! ma il Lebbroso protese il braccio, e in un
solo sorso vuotò l'intera brocca.
Poi disse:
«Ho freddo!».
Giuliano diede fuoco a un fascio di felci in mezzo alla capanna.
Il Lebbroso si avvicinò per riscaldarsi; e, accovacciato sui talloni, tremava con tutte le sue membra, perdeva le forze; i suoi
occhi non brillavano più, le sue ulcere colavano, e, con una voce
quasi del tutto spenta, mormorò: «Il tuo letto!».
Giuliano lo aiutò dolcemente a trascinarvisi, distese anzi su di
lui, per coprirlo, la tela della sua barca.
Il Lebbroso gemeva. Gli angoli della bocca mettevano a nudo i
denti, un rantolo precipitoso gli scuoteva il petto, il suo ventre, a
ogni respiro, si incavava fino alle vertebre.
Poi chiuse le palpebre.
«Nelle ossa ho una specie di gelo! Vieni accanto a me!»
E Giuliano, scostando la tela, si sdraiò sulle foglie morte, accanto a lui, fianco a fianco.
Il Lebbroso girò la testa.
«Spogliati, perché possa avvertire il calore del tuo corpo!»
Giuliano si tolse i vestiti; quindi, nudo come il giorno della sua
LA LEGGENDA DI SAN GIULIANO OSPITALIERE
69
nascita, si rimise nel letto; sentiva contro la sua coscia la pelle del
Lebbroso, più fredda di quella di un serpente, ruvida come una
lima.
Tentava di incoraggiarlo; l'altro rispondeva ansimando:
«Ah! Sto per morire!... Avvicinati! riscaldami! Non con le mani!
no! con tutto il corpo».
Giuliano si distese completamente su di lui, bocca contro bocca,
petto contro petto.
Allora il Lebbroso lo strinse; e i suoi occhi assunsero di colpo
una luce stellare; i capelli si allungarono come raggi di sole; il
soffio delle sue narici aveva la dolcezza delle rose; una nube di
incenso si alzò dal focolare, il fiume cantava. Intanto un'abbondanza di delizie, una gioia sovrumana scendeva come un'inondazione nell'anima di Giuliano in estasi; e colui le cui braccia continuavano a stringerlo cresceva, cresceva, raggiungendo con la
testa e con i piedi i due estremi della capanna. Il tetto volò via, il
firmamento si spiegò; e Giuliano ascese verso gli spazi azzurri,
faccia a faccia con Nostro Signore Gesù Cristo, che lo portava
con sé in cielo.
Questa è la storia di San Giuliano Ospitaliere, press'a poco
come la si può vedere, sulla vetrata di una chiesa, nel mio paese.
Erodiade
I.
La roccaforte di Macherus si ergeva a oriente del mar Morto, su
un picco di basalto a forma di cono. Quattro valli profonde la
circondavano, due sui fianchi, una di fronte, la quarta al di là. Le
case erano ammassate alla sua base, in una cinta muraria che
ondeggiava assecondando le irregolarità del terreno, e, tramite
un sinuoso camminamento scavato nella roccia, la città era collegata alla fortezza, le cui mura erano alte centoventi cubiti, con
un gran numero di angoli, merli e, qua e là, torri che facevano
quasi da fioroni a quella corona di pietre sospesa sopra l'abisso.
All'interno c'era un palazzo ornato di portici, e coperto da una
terrazza chiusa da una balaustra di legno di sicomoro, con una
serie di pali disposti per tendere un velario.
Un mattino, prima che facesse giorno, il Tetrarca Erode Antipa
venne ad affacciarvisi, e contemplò quella vista.
Le montagne, immediatamente sotto di lui, cominciavano a
svelare le loro creste, mentre la loro massa, fin nel profondo degli abissi, era ancora nell'ombra. La nebbia che fluttuava si
squarciò, e apparvero allora i contorni del mar Morto. L'alba,
che si alzava dietro Macherus, diffondeva un rosso chiarore. Presto illuminò le sabbie dell'approdo, le colline, il deserto e, più
lontano, tutti i monti della Giudea, inclinando le loro superfici
scabre e grigie. Engaddi, al centro, tracciava una striscia nera;
Ebron, nella depressione, si arrotondava a forma di cupola;
Escoi aveva melograni, Sorek vigne, Carmelo campi di sesamo; e
la torre Antonia, col suo cubo mostruoso, dominava Gerusalemme. Il Tetrarca distolse lo sguardo per contemplare, a destra, i
palmizi di Gerico; e pensò alle altre città della sua Galilea: Cafarnao, Endor, Nazareth, Tiberiade dove forse non sarebbe mai
più tornato. Intanto il Giordano scorreva nell'arida pianura. Interamente bianca, abbagliava come una coltre nevosa. Il lago,
ora, sembrava di lapislazzuli; e alla sua estremità meridionale,
dalla parte dello Yemen, Antipa riconobbe ciò che temeva di ve-
ERODIADE
71
dere. Tende scure vi erano disseminate; uomini armati di lance
circolavano tra i cavalli, e fuochi, spegnendosi, brillavano come
scintille che rasentavano il suolo.
Erano le truppe del re degli Arabi, del quale Antipa aveva ripudiato la figlia per prendere Erodiade, moglie di un suo fratello
che viveva in Italia, senza pretese di potere.
Antipa attendeva gli aiuti dei Romani; e poiché Vitellio, governatore della Siria, tardava a farsi vivo, era roso dall'inquietudine.
Forse Agrippa l'aveva fatto cadere in disgrazia presso l'Imperatore? Filippo, il suo terzo fratello, sovrano della Betania, si armava clandestinamente. I Giudei non volevano più saperne dei
suoi costumi idolatri, e tutti gli altri della sua dominazione; e così
esitava tra due progetti: rabbonire gli Arabi o concludere un'alleanza con i Parti; e, sotto il pretesto di festeggiare il suo compleanno, per quello stesso giorno aveva invitato a un gran banchetto i capi del suo esercito, gli intendenti delle sue terre, e i
notabili di Galilea.
Con uno sguardo acuto frugò tutte le strade. Erano deserte. Le
aquile volavano sopra la sua testa; i soldati, lungo i bastioni, dormivano addossati ai muri; niente si muoveva nel castello.
D'improvviso, una voce lontana, come sprigionatasi dalle profondità della terra, fece impallidire il Tetrarca. Si chinò per
ascoltare: era svanita. Ma poi riprese; e Antipa, battendo le
mani, gridò: «Mannaei! Mannaei!».
Si presentò un uomo, nudo fino alla cintola, come i massaggiatori delle terme. Era enorme, vecchio, scarno, e alla coscia portava un coltellaccio in una guaina di bronzo. La sua capigliatura,
sollevata da un pettine, esagerava l'ampiezza della sua fronte.
Una sonnolenza sbiadiva i suoi occhi, ma i suoi denti brillavano,
e i piedi nudi aderivano lievemente sul selciato: tutto il suo corpo
aveva la flessuosità di una scimmia, e il suo volto l'impassibilità
di una mummia.
«Dov'è?», domandò il Tetrarca.
Mannaei rispose, indicando con il pollice un oggetto alle loro
spalle:
«Laggiù! come sempre!».
«Mi era parso di udirlo!»
E Antipa, dopo aver fatto un profondo respiro, si informò su
laokanan, quello stesso che i Latini chiamavano san Giovanni
Battista. Si erano rifatti vivi quei due uomini, ammessi per indulgenza, il mese scorso, nella sua cella, si era saputo da allora che
cosa fossero venuti a fare?
Mannaei replicò:
«Hanno scambiato con lui parole misteriose, come i briganti, la
72
TRE RACCONTI
sera, ai crocicchi delle strade. In seguito sono partiti per l'Alta
Galilea, annunciando che avrebbero portato una grande novella».
Antipa abbassò la testa, poi, con aria spaventata:
«Sorveglialo! sorveglialo! E non lasciar entrare nessuno! Spranga la porta! Copri la fossa! Non devono nemmeno sospettare che
sia ancora vivo!».
Senza aver ricevuto quegli ordini, Mannaei li aveva già eseguiti;
infatti Iaokanan era ebreo, e lui odiava gli Ebrei come tutti i Samaritani.
Il loro tempio di Garizim, designato da Mosè per essere il centro di Israele, non esisteva più dal tempo del re Ircano; quello di
Gerusalemme suscitava in loro il furore di un oltraggio e di
un'ingiustizia permanente. Mannaei vi si era introdotto con l'intento di profanare l'altare con ossa di morti. I suoi compagni,
meno rapidi di lui, erano stati decapitati.
Lo intravide nell'intervallo tra due colline. Il sole faceva risplendere le sue mura di marmo bianco e le lamine d'oro del
tetto. Era come una montagna luminosa, qualcosa di sovrumano
che schiacciava tutto con la sua opulenza e con il suo orgoglio.
Allora stese le braccia in direzione di Sion; e, impettito, il volto
all'indietro, i pugni chiusi, gli lanciò un anatema, convinto che le
parole avessero un potere effettivo.
Antipa ascoltava, apparentemente senza scandalizzarsi.
Il Samaritano disse ancora:
«Talvolta si agita, vorrebbe fuggire, spera in una liberazione.
Altre volte ha l'aria tranquilla di un animale malato; oppure lo
vedo camminare nelle tenebre e ripetere: "Che importa? Perché
Lui cresca, bisogna che io diminuisca!".».
Antipa e Mannaei si guardarono. Ma il Tetrarca era stanco di
riflettere.
Tutti quei monti attorno a lui, come strati di grandi onde pietrificate, le nere voragini sul fianco delle scogliere, l'immensità azzurra del cielo, la luce violenta del giorno, la profondità degli
abissi lo turbavano; e si sentiva invaso dalla desolazione alla vista
del deserto, il quale, nello sconvolgimento delle sue terre, simulava anfiteatri e palazzi abbattuti. Il vento caldo, con l'odore dello zolfo, portava una sorta di esalazione di città maledette, sepolte più in profondità delle spiagge, sotto acque pesanti. Quei segni
di una collera immortale terrorizzavano il suo pensiero; restava
con i gomiti sulla balaustra, gli occhi fissi e le tempie nelle mani.
Qualcuno lo aveva toccato. Si girò. Erodiade era davanti a lui.
Una zimarra di porpora leggera la avvolgeva fino ai sandali.
Uscita in fretta e furia dalla sua camera, non aveva né collane né
ERODIADE
73
orecchini. Una treccia dei suoi neri capelli ricadeva su un braccio, e la sua estremità si insinuava tra i seni. Le narici, troppo
rialzate, palpitavano; la gioia di un trionfo le illuminava il volto;
con voce forte, scuotendo il Tetrarca:
«Cesare ci ama! Agrippa è in prigione!».
«Chi te lo ha detto?»
«Lo so!»
Aggiunse:
«È per aver augurato l'impero a Caio!».
Pur vivendo delle loro elemosine, aveva brigato per il titolo di
re, cui essi ambivano come lui. Ma in avvenire niente più paure!
«Le prigioni di Tiberio difficilmente si aprono, e talvolta non vi è
sicura neppure l'esistenza!»
Antipa la comprese; benché fosse sorella di Agrippa, la sua intenzione atroce gli sembrò giustificata. Quel genere di delitti erano una conseguenza delle cose, una fatalità nelle case reali. In
quella di Erode non si contavano più.
Quindi Erodiade illustrò la sua impresa: i clienti comprati, le
lettere scoperte, le spie a ogni porta, e infine come era riuscita a
sedurre Eutiche, il delatore. «Non mi è costato nulla! Per te non
ho forse fatto di più?... Ho abbandonato mia figlia!»
Dopo il suo divorzio, aveva lasciato a Roma la fanciulla, contando di avere altri figli dal Tetrarca. Non ne parlava mai. Antipa si domandò il perché di quell'accesso di tenerezza.
Avevano disteso il velario e portato per loro grandi cuscini.
Erodiade vi si accasciò, e pianse, voltando le spalle. Poi si passò
la mano sulle palpebre, disse che non voleva più pensarci, che
era felice; gli ricordò le loro chiacchierate laggiù, nell'atrio, gli
incontri alle terme, le passeggiate lungo la via Sacra, e le sere
nelle grandi ville al mormorio dei getti d'acqua, sotto archi fioriti, davanti alla campagna romana. Lo guardava come un tempo,
strofinandosi sul suo petto con gesti carezzevoli. Lui la respinse.
L'amore che tentava di rianimare era così lontano, ormai! E tutte le sue sciagure ne erano la conseguenza; la guerra, infatti, si
protraeva da quasi dodici anni! Aveva invecchiato il Tetrarca. Le
sue spalle si incurvavano sotto la toga scura, dagli orli violetti; i
capelli bianchi si confondevano con la barba, e il sole, attraversando il velo, inondava di luce la sua fronte corrucciata. Anche
quella di Erodiade aveva delle rughe; l'uno di fronte all'altra, si
consideravano con aria efferata.
I sentieri delle montagne cominciarono a popolarsi. Pastori
pungolavano buoi, bambini tiravano asini, palafrenieri conducevano cavalli. Chi scendeva dalle alture al di là di Macherus spariva dietro il castello; altri risalivano dalla forra sottostante e, rag-
74
TRE RACCONTI
giunta la città, scaricavano le proprie masserizie nei cortili. Erano fornitori del Tetrarca, o servitori che precedevano gli invitati.
Ma in fondo alla terrazza, a sinistra, apparve un Esseno, in tunica bianca, a piedi nudi, con un aspetto stoico. Mannaei, dalla
parte opposta, si stava precipitando brandendo il suo coltellaccio.
Erodiade gli gridò: «Uccidilo!».
«Fermo!», disse il Tetrarca.
Divenne immobile. L'altro anche.
Poi si ritirarono, ciascuno da una scala diversa, a ritroso, senza
perdersi di vista.
«Lo conosco!», disse Erodiade, «si chiama Fanuele, e cerca di
vedere laokanan, dal momento che sei stato così cieco da tenerlo
in vita.»
Antipa obiettò che un giorno sarebbe potuto essere utile. Le
sue invettive contro Gerusalemme accattivavano loro le simpatie
degli altri Ebrei.
«No!», replicò la donna, «accettano qualunque padrone, non
sono capaci di costituire una patria.» Quanto a colui che agitava
il popolo con speranze preservatesi dal tempo di Neemia, la politica migliore era di sopprimerlo.
Non c'era nessuna fretta, secondo il Tetrarca. laokanan pericoloso? Suvvia! E dava a vedere di riderne.
«Taci!», esclamò Erodiade, e raccontò di nuovo della sua umiliazione, quel giorno che andava verso Galaad per la raccolta del
balsamo. «C'era gente, in riva al fiume, che ammonticchiava i
suoi indumenti da una parte, mentre accanto a loro un uomo
parlava. Aveva una pelle di cammello avvolta attorno alla vita, e
la sua testa sembrava quella di un leone. Non appena mi vide, mi
sputò addosso tutte le maledizioni dei profeti. Le sue pupille avvampavano; la sua voce ruggiva; levava le braccia al cielo come
per strapparne il tuono. Impossibile fuggire! Le ruote del mio
carro erano insabbiate fino agli assi; così mi allontanai lentamente, riparandomi sotto il mantello, raggelata da quegli insulti che
cadevano come una pioggia tempestosa.»
laokanan le impediva di vivere. Quando lo catturarono e lo legarono con le corde, i soldati avevano l'ordine di pugnalarlo se
avesse opposto resistenza; lui si era mostrato mansueto. Avevano
introdotto dei serpenti nella sua cella; erano morti.
L'inutilità di quegli agguati esasperava Erodiade. D'altronde,
perché quella guerra contro di lei? Quale interesse lo spingeva? I
suoi discorsi gridati alle folle si erano diffusi, circolavano; Erodiade li udiva ovunque, riempivano l'aria. Alle legioni avrebbe
potuto contrapporre il suo coraggio. Ma quella forza, più perni-
ERODIADE
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ciosa delle spade, che non si riusciva ad afferrare, era stupefacente; la donna percorreva la terrazza, resa livida dalla collera,
incapace di esprimere con le parole ciò che la soffocava.
Temeva anche che il Tetrarca, cedendo all'opinione pubblica,
decidesse di ripudiarla. Allora tutto sarebbe stato perduto! Dalla
sua infanzia Erodiade nutriva il sogno di un grande impero. Per
coronarlo era giunta al punto di lasciare il suo primo sposo e di
unirsi all'attuale, che a suo giudizio l'aveva ingannata.
«Bel sostegno ho ricevuto, entrando nella tua famiglia!»
«Vale quanto la tua!», disse semplicemente il Tetrarca.
Erodiade si sentì ribollire nelle vene il sangue dei sacerdoti e
dei re suoi antenati.
«Ma se tuo nonno spazzava il tempio di Ascalona! Gli altri erano pecorai, banditi, capicarovana, un'orda tributaria di Giuda dai
tempi di David! Tutti i miei avi hanno sconfitto i tuoi! Il primo
dei Maccabei vi ha cacciato da Ebron, Ircano vi ha costretti a
circoncidervi!» E, sprizzando tutto il disprezzo della patrizia per
il plebeo, l'odio di Giacobbe contro Edom, Erodiade gli rimproverò la sua indifferenza alle offese, la sua debolezza verso i Farisei che lo tradivano, la sua pavidità nei confronti del popolo che
la detestava. «Sei come lui, ammettilo! rimpiangi la fanciulla araba che danza attorno alle pietre! Riprendila! Va a vivere con lei,
nella sua tenda! divora il suo pane cotto sotto la cenere! ingoia il
latte cagliato delle sue pecore! bacia le sue guance azzurre! e
dimenticami!»
Il Tetrarca non ascoltava più. Osservava la terrazza di una casa,
dove c'erano una ragazza e una vecchia che aveva un parasole
con un manico di giunco lungo come la canna di un pescatore. In
mezzo a un tappeto giaceva una gran cesta da viaggio aperta,
dalla quale traboccavano confusamente cinture, veli, orecchini
d'oro. A tratti la ragazza si chinava su quelle cose e le agitava in
aria. Era vestita alla maniera delle romane, con una tunica arricciata e un peplo a ghiande di smeraldo; fasce azzurre racchiudevano la sua capigliatura, di certo troppo pesante, perché, di tanto
in tanto, vi portava la mano. L'ombra del parasole vagava sopra
di lei, nascondendola per metà. Antipa vide due o tre volte il suo
collo delicato, la punta dell'occhio, l'angolo di una piccola bocca.
Ma, dai fianchi alla nuca, vedeva tutta la sua figura ergersi flessuosamente. Spiava quella cadenza, e la sua respirazione diventava più forte; nei suoi occhi avvampavano fiamme. Erodiade lo
osservava.
Antipa chiese: «Chi è?».
Lei rispose che non lo sapeva, e se ne andò, improvvisamente
placata.
76
TRE RACCONTI
Il Tetrarca era atteso sotto i portici da alcuni Galilei, il capo
scriba, quello dei pascoli, l'amministratore delle saline e un
ebreo di Babilonia al comando dei suoi cavalieri. Tutti lo salutarono con un'acclamazione. Dopodiché scomparve nelle stanze
interne.
All'angolo di un corridoio sbucò Fanuele.
«Ah! ancora tu? vieni certo per laokanan!»
«E per te! devo darti una notizia importante.»
E, senza lasciare Antipa, si introdusse dietro di lui in un buio
appartamento.
La luce penetrava da una grata che occupava l'intero cornicione
della finestra. Le pareti erano dipinte di un colore granata, quasi
nero. In fondo si profilava un letto d'ebano, con cinghie in pelle
di bue. Al di sopra uno scudo riluceva come un sole.
Antipa attraversò tutta la sala e si distese sul letto.
Fanuele restò in piedi. Alzò il braccio e, in un atteggiamento
ispirato:
«L'Altissimo invia ogni tanto sulla terra uno dei suoi figli. laokanan è uno di questi. Se lo opprimi, sarai punito».
«È lui che mi perseguita!», esclamò Antipa. «Ha preteso da me
un'azione impossibile. Da allora mi tormenta. E pensare che all'inizio non ero così duro con lui! È arrivato al punto di sguinzagliare da Macherus uomini che sconvolgono le mie province! Sia
maledetto! Dal momento che mi attacca, io mi difendo!»
«Le sue collere sono troppo violente», replicò Fanuele, «ma
non importa! Devi liberarlo.»
«Non si mettono in libertà le bestie furiose!», disse il Tetrarca.
L'Esseno rispose:
«Non preoccuparti! Andrà presso gli Arabi, i Galli, gli Sciti. La
sua opera deve estendersi fino in capo al mondo!».
Antipa sembrava assorto in una visione.
«La sua potenza è straordinaria... Malgrado tutto, lo amo!»
«Allora, perché non lo liberi?»
Il Tetrarca scrollò il capo. Temeva Erodiade, Mannaei e l'ignoto.
Fanuele tentò di persuaderlo, adducendo, a garanzia dei suoi
progetti, la promessa di sottomissione degli Esseni al re. La gente rispettava quegli uomini poveri, irriducibili ai supplizi, vestiti
di lino, e che leggevano il futuro nelle stelle.
Antipa rammentò una parola detta poco prima da Fanuele.
«Qual è questa cosa che mi annunciavi così importante?»
Arrivò un negro. Il suo corpo era bianco di polvere. Rantolava
e non potè dire altro che:
«Vitellio!».
ERODIADE
77
«Come! Sta arrivando?»
«L'ho visto! Fra meno di tre ore sarà qui!»
Le porte dei corridoi furono agitate come da un colpo di vento.
Un frastuono riempì il castello: chiasso di gente che correva, di
mobili trascinati, di argenterie che crollavano; e, dall'alto delle
torri, le buccine squillavano per avvertire gli schiavi dispersi.
II.
I bastioni erano pieni di gente quando Vitellio entrò nella corte.
Si appoggiava al braccio del suo interprete, seguito da una grande lettiga rossa ornata di pennacchi e di specchi; aveva indosso la
toga, il laticlavio, i calzari di un console e la sua persona era
circondata di littori.
Questi ultimi piantarono sulla porta i loro dodici fasci, bacchette legate da una cinghia con un'ascia nel mezzo. Tutti allora tremarono dinanzi alla maestà del popolo romano.
La lettiga, manovrata da otto uomini, si fermò. Ne uscì un adolescente con il ventre prominente, il viso butterato e le dita piene
di perle. Gli offrirono una coppa piena di vino aromatico. La
bevve, ne reclamò una seconda.
Il Tetrarca era caduto alle ginocchia del Proconsole, desolato,
diceva, di non essersi potuto preparare in anticipo al favore della
sua presenza. In caso contrario, avrebbe predisposto sulle strade
tutto ciò che si addiceva al rango dei Vitelli. Essi discendevano
dalla dea Vitellia. Una strada che dal Gianicolo conduceva al
mare portava ancora il loro nome. Questure e consolati non si
contavano nella famiglia; quanto a Lucio, ora suo ospite, bisognava essergli riconoscente in quanto vincitore dei Cliti e padre
di quel giovane Aulo che sembrava essere tornato nel suo dominio, poiché l'Oriente è la patria degli Dei. Queste iperboli furono
espresse in latino. Vitellio le accolse impassibilmente.
Rispose che il grande Erode era sufficiente per la gloria di una
nazione. Gli ateniesi gli avevano affidato la soprintendenza dei
giochi Olimpici. Aveva edificato templi in onore di Augusto, era
stato paziente, ingegnoso, terribile, e sempre fedele ai Cesari.
Tra le colonne dai capitelli bronzei si intravide Erodiade, che
incedeva con l'aria di un'imperatrice, in mezzo alle ancelle e agli
eunuchi che recavano vassoi d'argento dorato carichi di bruciaprofumi.
Il Proconsole fece tre passi verso di lei; e, dopo che la ebbe
salutata chinando la testa:
«Che felicità!», esclamò Erodiade, «che ormai Agrippa, il nemico di Tiberio, sia nell'impossibilità di nuocere!».
78
TRE RACCONTI
Il Proconsole ignorava l'evento, e trovò quella donna pericolosa; poiché Antipa giurava che avrebbe fatto qualunque cosa per
l'Imperatore, Vitellio aggiunse: «Anche se fosse a detrimento degli altri?».
Aveva preso ostaggi al re dei Parti, e l'Imperatore non ne era
stato messo al corrente; Antipa, presente alla conferenza, per
farsi valere ne aveva subito dato notizia. Donde quel profondo
odio, e il ritardo nel far pervenire i rinforzi.
Il Tetrarca balbettò qualcosa, ma Aulo disse ridendo:
«Calmati, ci sono qua io a proteggerti!».
Il Proconsole finse di non aver sentito. La fortuna del padre
dipendeva dalle macchie del figlio, e quel fiore dei fanghi di Capri gli procurava benefici talmente considerevoli da indurlo a circondarlo di riguardi, pur diffidando di lui, perché era velenoso.
Un tumulto si levò sotto la porta. Si introdusse una fila di muli
bianchi, montati da individui vestiti da sacerdoti. Erano Sadducei
e Farisei, spinti a Macherus dalla medesima ambizione: i primi
volevano ottenere il diritto di sacrificare, i secondi volevano conservarlo. I loro volti erano cupi, soprattutto quelli dei Farisei,
nemici di Roma e del Tetrarca. I lembi delle loro tuniche creavano loro impaccio nella calca; le tiare vacillavano sulle loro fronti,
sopra strisce di pergamena dove erano tracciate iscrizioni.
Quasi contemporaneamente arrivarono i soldati dell'avanguardia. Avevano insaccato i loro scudi, come precauzione contro la
polvere; dietro di loro c'era Marcello, luogotenente del Proconsole, con i pubblicani che reggevano sotto le ascelle le loro tavolette di legno.
Antipa nominò i suoi principali collaboratori: Tolmai, Kanthera, Sehon, Ammonio d'Alessandria, che gli comprava l'asfalto,
Naamann, capitano dei suoi veliti, Iasim il Babilonese.
Vitellio aveva notato Mannaei.
«Chi è costui?»
Il Tetrarca, con un gesto, fece intendere che era il boia.
Quindi presentò i Sadducei.
Gionata, un ometto disinvolto e che parlava greco, supplicò il
sovrano di onorarli di una visita a Gerusalemme. Probabilmente
ci sarebbe andato.
Eleazar, dal naso aquilino e dalla lunga barba, reclamò per i
Farisei il mantello del gran sacerdote trattenuto nella torre Antonia dall'autorità civile.
In seguito i Galilei denunciarono Ponzio Pilato. Col pretesto di
un folle che cercava i vasi d'oro di David in una caverna, in Samaria, aveva fatto uccidere parecchi abitanti; parlavano tutti as-
ERODIADE
79
sieme, Mannaei più violentemente degli altri. Vitellio assicurò
che i colpevoli sarebbero stati puniti.
Vi fu un improvviso vociferare di fronte a un portico dove i
soldati avevano deposto i loro scudi. Le fodere erano state tolte,
e sugli umboni spiccava la figura di Cesare. Per i Giudei era un'idolatria. Antipa li arringò, mentre Vitellio, nel colonnato, su un
alto seggio, era stupito del loro furore. Aveva fatto bene Tiberio
a esiliarne quattrocento in Sardegna. Ma in casa loro erano forti:
ordinò di ritirare gli scudi.
Allora circondarono il Proconsole, implorando riparazione alle
ingiustizie, privilegi, elargizioni. I loro vestiti erano laceri; si
schiacciavano l'un l'altro; per fare largo, schiavi armati di bastoni
picchiavano a destra e a manca. I più vicini alla porta furono
spinti verso il sentiero, mentre gli altri che lo salivano rifluirono;
due correnti si incrociavano in quella massa umana che oscillava,
compressa dalla cinta muraria.
Vitellio chiese il perché di tanta folla. Antipa ne rivelò la causa:
il banchetto in onore del suo compleanno; e mostrò parecchi dei
suoi che, sporgendosi dalle merlature, issavano immense ceste
piene di carne, frutta, legumi, antilopi e cicogne, enormi pesci
azzurri, grappoli d'uva, cocomeri, piramidi di melagrane. Aulo
non si trattenne più; si precipitò verso le cucine, incitato da una
golosità destinata a sorprendere l'universo intero.
Passando nei pressi di una cantina, intravide grosse pentole simili a corazze. Anche Vitellio scese a guardarle; pretese che gli
fossero aperte le camere sotterranee della fortezza.
Erano scavate nella roccia, con alte volte intervallate da pilastri.
La prima conteneva vecchie armature; ma la seconda traboccava
di picche che protendevano le loro punte aguzze, affioranti da
ciuffi di piume. La terza sembrava tappezzata di stuoie di canne,
tante erano le sottili frecce distese perpendicolarmente le une
accanto alle altre. Lame di scimitarra ricoprivano le pareti della
quarta. In mezzo alla quinta lunghe file di elmi formavano, con le
loro creste, come un battaglione di serpenti rossi. Nella sesta non
si vedevano altro che faretre; nella settima soltanto schinieri; nell'ottava bracciali; nelle seguenti, forche, ramponi, scale, cordami,
fino ai pali per le catapulte e ai sonagli per il pettorale dei dromedari! e siccome la montagna si andava sempre più allargando
alla sua base, cava come un'arnia d'api, al di sotto di quelle camere ve n'erano altre ancor più numerose e profonde.
Vitellio, il suo interprete Fineo e Sisenna, il capo dei pubblicani, le percorrevano alla luce delle torce, portate da tre eunuchi.
Nella penombra si distinguevano arnesi orrendi inventati dai
80
TRE RACCONTI
barbari: clave irte di chiodi, giavellotti che avvelenavano le ferite
procurate, tenaglie simili a mascelle di coccodrillo; insomma, a
Macherus il Tetrarca teneva in serbo munizioni da guerra per
quarantamila uomini.
Le aveva accumulate in previsione di un'alleanza tra i suoi nemici. Ma il Proconsole poteva credere o riferire che lo avesse
fatto per combattere i Romani, e chiedeva spiegazioni.
Non erano sue; molte servivano per difendersi dai briganti; del
resto erano necessarie anche contro gli Arabi; oppure, tutto ciò
era appartenuto a suo padre. E, invece di camminare dietro il
Proconsole, lo precedeva, a passi rapidi. Poi si schierò contro
una parete, mascherandola con la toga, con i gomiti sui fianchi;
ma l'architrave della porta superava la sua testa. Vitellio la notò,
e volle sapere che cosa vi fosse nascosto.
Soltanto il Babilonese poteva aprirla.
«Chiama il Babilonese!»
Lo aspettarono.
Suo padre era giunto dalle rive dell'Eufrate a offrire i suoi servigi al grande Erode, con cinque cavalieri, per difendere le sue
frontiere orientali. Dopo la divisione del regno, Iasim era rimasto con Filippo, e ora era al servizio di Antipa.
Si presentò con un arco sulla spalla e una frusta in mano. Cordoni variopinti serravano strettamente le sue gambe. Le sue grosse braccia sbucavano da una tunica senza maniche, e un berretto
di pelliccia metteva in ombra la sua faccia, la cui barba era arricciata ad anelli.
Sulle prime diede l'impressione di non capire l'interprete. Ma
Viteilio lanciò un'occhiata ad Antipa, che ripeté subito l'ordine.
Iasim manipolò con entrambe le mani la porta, che scivolò dentro la parete.
Dalle tenebre esalò un soffio d'aria calda. C'era un camminamento che scendeva sinuoso; vi si introdussero e arrivarono alle
soglie di una grotta, più estesa degli altri sotterranei.
In fondo un'arcata si apriva sul precipizio che da quel lato difendeva la roccaforte. Un caprifoglio, arrampicandosi sulla volta,
lasciava ricadere i suoi fiori in piena luce. Rasente il suolo gorgogliava un filo d'acqua.
C'erano molti cavalli bianchi, forse un centinaio, che mangiavano orzo su un asse posto al livello della loro bocca. Avevano tutti
la criniera dipinta d'azzurro, gli zoccoli in mezziguanti di sparteria, e i peli delle orecchie che svolazzavano sulla fronte, come
una parrucca. Con le loro lunghissime code si frustavano indolentemente i garretti. Il Proconsole restò muto per l'ammirazione.
ERODIADE
Hi
Erano animali meravigliosi, flessuosi come serpenti, leggeri
come uccelli. Scattavano con la freccia del cavaliere, rovesciavano i nemici mordendoli al ventre, uscivano indenni dal groviglio
delle rocce, saltavano sopra gli abissi, e il loro galoppo frenetico
nelle pianure durava un'intera giornata; bastava una parola per
fermarli. Non appena Iasim entrò, gli si avvicinarono come pecore quando appare il pastore; e, protendendo il lungo collo, lo
guardavano inquieti con i loro occhi da bambini. Come era suo
solito, Iasim lanciò dal fondo del petto un grido rauco che li mise
in allegria; si impennavano, affamati di spazio, non chiedendo
che di correre.
Antipa, nel timore che Vitellio potesse portarglieli via, li teneva
chiusi in quello speciale rifugio per animali, nell'evenienza di dover essere assediato.
«Questa scuderia è malsana», disse il Proconsole; «così rischi di
perderli! Sisenna, fanne l'inventario.»
Il pubblicano estrasse una tavoletta dalla cintura, contò i cavalli
e li registrò.
Gli agenti delle compagnie fiscali corrompevano i governatori
per spremere le province. Questo fiutava dappertutto, col suo
muso da faina e le sue strizzatine d'occhio.
Alla fine risalirono nella corte.
Qua e là, rosoni di bronzo in mezzo al selciato coprivano le
cisterne. Ne osservò uno, più grande di tutti, e che sotto i talloni
non aveva la stessa sonorità degli altri. Li percosse tutti alternativamente, poi urlò, pestando i piedi:
«Ci sono! ci sono! qui sotto c'è il tesoro di Erode!».
La ricerca dei suoi tesori era una smania fissa dei Romani.
Il Tetrarca giurò che non esistevano.
E allora, che cosa c'era là sotto?
«Niente! Un uomo, un prigioniero.»
«Mostracelo!», disse Vitellio.
Il Tetrarca non obbedì; i Giudei avrebbero scoperto il suo segreto. La sua riluttanza a rimuovere il rosone faceva spazientire
Vitellio.
«Sfondatelo!», gridò ai littori.
Mannaei aveva intuito che cosa avevano in mente. Vedendo
un'ascia, pensò che avrebbero decapitato Iaokanan. Bloccò il littore al primo colpo sulla piastra metallica, insinuò tra essa e il
selciato una sorta di grimaldello, poi, irrigidendo e sue lunghe e
magre braccia, la sollevò dolcemente fino a capovolgerla; tutti
ammirarono la forza di quel vecchio. Sotto il coperchio, che aveva un secondo strato di legno, c'era una botola delle stesse dimensioni. Con un pugno si piegò in due pannelli; si vide allora
82
TRE RACCONTI
un foro, e un'enorme fossa circondata da una scala senza rampa;
e coloro i quali si sporsero sul ciglio intravidero nel fondo qualcosa di vago e di spaventoso.
Un essere umano era disteso per terra, con lunghissimi capelli
che si confondevano con il pelo quasi animale che ricopriva la
sua schiena. Si alzò. La sua fronte raggiungeva una grata sigillata
orizzontalmente; di tanto in tanto spariva nelle profondità del
suo antro.
Il sole faceva luccicare la punta delle tiare, il pomo dei gladi,
riscaldava oltremodo i selciati; le colombe, spiccando il volo dai
fregi, volteggiavano attorno al cortile. Era l'ora in cui di solito
Mannaei gettava loro dei semi. Se ne stava accovacciato davanti
al Tetrarca, che era in piedi accanto a Vitellio. I Galilei, i sacerdoti, i soldati formavano un cerchio più arretrato; tutti tacevano,
nell'angoscia di ciò che sarebbe accaduto.
Dapprima si udì un gran sospiro, emesso da una voce cavernosa.
Erodiade lo sentì all'altro capo del palazzo. Vinta da una sorta
di malia, attraversò la folla; ora ascoltava, con una mano sulla
spalla di Mannaei e il corpo chino.
La voce si innalzò:
«Siate maledetti, Farisei e Sadducei, razza di vipere, otri gonfiati, sonagli chiassosi!».
Avevano riconosciuto Iaokanan. Il suo nome circolava. Accorse
altra gente.
«Sii maledetto, o popolo! siano maledetti i traditori di Giuda,
gli ubriachi di Efraim, e gli abitanti della grassa valle, che barcollano sotto i vapori del vino!
Che si disperdano come l'acqua che scorre, come una lumaca
che striscia, come l'aborto di una donna che non vede la luce.
Sarai costretto, o Moab, a rifugiarti nei cipressi come i passeri,
nelle caverne come gerboe. Le porte delle fortezze saranno frantumate più rapidamente che gusci di noce, le mura crolleranno,
le città bruceranno; e il flagello dell'Eterno non si fermerà. Agiterà le vostre membra nel vostro sangue, come lana nella tinozza
di un tintore. Vi dilanierà come un erpice fiammante e spargerà
sulle montagne i brandelli della vostra carne!»
Di quale conquistatore parlava? di Vitellio? Soltanto i Romani
potevano produrre un simile sterminio. Non fu trattenuto qualche lamento: «Basta! basta! fatelo finire!».
Iaokanan continuò ancora più forte:
«Accanto al cadavere delle loro madri, i bambini si trascineranno sulle ceneri. Di notte bisognerà cercarsi il pane tra le macerie,
a rischio delle spade. Gli sciacalli si contenderanno le ossa sulle
ERODIADE
83
pubbliche piazze, dove la sera discutevano gli anziani. Le tue vergini, inghiottendo le proprie lacrime, suoneranno la cetra nei
banchetti degli stranieri, e i tuoi figli più coraggiosi chineranno la
schiena, scorticata da fardelli troppo pesanti!».
Il popolo rivedeva i giorni del suo esilio, tutte le catastrofi della
sua storia. Erano le parole degli antichi profeti. Iaokanan le
scagliava, come colpi poderosi, una dopo l'altra.
Ma poi la voce si fece dolce, armoniosa, soave. Annunciava una
liberazione, splendori celesti, il neonato con un braccio nella caverna del drago, l'oro al posto dell'argilla e il deserto che sboccia
come una rosa: «Ciò che ora vale sessanta kiccar non costerà un
obolo. Fontane di latte sgorgheranno dalle rocce; ci si addormenterà nei frantoi col ventre pieno. Quando verrai, o te che
aspetto? Nella tua attesa tutti i popoli si inginocchiano, e il tuo
regno sarà eterno, Figlio di David!».
Il Tetrarca si gettò all'indietro: l'esistenza di un Figlio di David
lo oltraggiava come una minaccia.
Iaokanan lanciò un'invettiva contro la sua regalità: «Non c'è altro re al di fuori dell'Eterno!». Inveì anche contro i suoi giardini,
le sue statue, i suoi mobili d'avorio, come l'empio Achab!
Antipa spezzò la cordicella del sigillo appesa al suo petto, e lo
lanciò nella fossa, ordinandogli di tacere.
La voce rispose:
«Griderò come un orso, come un asino selvatico, come una
donna che partorisce!
Il castigo è già nel tuo incesto. Dio ti affligge con !a sterilità del
mulo!».
Si levò una risata, simile allo sciabordio delle onde.
Vitellio si ostinava a restare. L'interprete, impassibile, ripeteva
nella lingua dei Romani tutte le ingiurie che Iaokanan pronunciava nella sua. Il Tetrarca ed Erodiade erano costretti a subirle
due volte. Lui ansimava, mentre lei osservava attonita il fondo
del pozzo.
L'uomo terribile rovesciò il capo e, impugnando le sbarre, vi
incollò il viso, che sembrava un rovo dove scintillavano due tizzoni ardenti:
«Ah! sei tu, Gezabele?
Hai conquistato il suo cuore con lo scricchiolio dei tuoi calzari.
Nitrivi come una giumenta. Hai eretto la tua alcova sui monti per
compiervi i tuoi sacrifici!
Il Signore ti strapperà gli orecchini, le vesti di porpora, i veli di
lino, gli anelli alle braccia e alle caviglie, e i piccoli corni d'oro
che tremano sulla tua fronte, i tuoi specchi d'argento, i tuoi ventagli di piume di struzzo, le suole di madreperla che elevano la
84
TRE RACCONTI
tua statura, l'orgoglio dei tuoi diamanti, gli effluvi dei tuoi capelli, lo smalto delle tue unghie, tutti gli artifici della tua mollezza; e mancheranno le pietre per lapidare l'adultera!».
Erodiade cercò con lo sguardo una difesa attorno a sé. I Farisei
abbassavano gli occhi ipocritamente. I Sadducei giravano la testa,
temendo di offendere il Proconsole. Antipa sembrava morire.
La voce si ingrossava, viaggiava, rotolava con strazi di tuono e,
grazie all'eco che la moltiplicava nella montagna, folgorava Macherus di innumerevoli lampi.
«Razzola nella polvere, figlia di Babilonia! Fa macinare la farina! Togliti la cintura, privati delle tue scarpe, rimboccati le maniche, guada i fiumi! la tua vergogna sarà scoperta, il tuo obbrobrio sarà palese! i tuoi singhiozzi ti spezzeranno i denti! L'Eterno
esecra il lezzo dei tuoi crimini! maledetta! maledetta! Crepa
come una cagna!»
La botola si richiuse, il coperchio fu di nuovo calato. Mannaei
voleva strangolare Iaokanan.
Erodiade scomparve. I Farisei erano scandalizzati. Antipa, in
mezzo a loro, si giustificava.
«È vero che si può sposare la moglie di un fratello, ma Erodiade
non era vedova, e perdipiù aveva una figlia, e in ciò sta l'abominio.»
«Errore! errore!», obiettò il sadduceo Gionata. «La Legge condanna questi matrimoni, senza però proscriverli assolutamente.»
«Non importa! Con me si è troppo ingiusti», diceva Antipa,
«dato che, in fondo, Assalonne si è giaciuto con le mogli di suo
padre, Giuda con la nuora, Amnone con la sorella, Lot con le
sue figlie.»
Aulo, che aveva dormito un poco, riapparve in quel preciso
istante. Quando fu informato della questione, approvò il Tetrarca. Non bisognava prendersi troppo disturbo per simili sciocchezze; se la rideva della riprovazione dei sacerdoti come del furore diIaokanan.
Erodiade, in mezzo alla scalinata, si rivolse a lui:
«Sbagli, mio signore! Egli incita il popolo a non pagare i tributi!».
«È vero?», chiese subito il pubblicano.
Le risposte furono unanimemente affermative. Il Tetrarca le
rafforzava.
Vitellio pensò che il prigioniero poteva fuggire; e siccome la
condotta di Antipa gli sembrava sospetta, stabilì sentinelle alle
porte, lungo le mura e nella corte del palazzo.
Dopodiché si diresse verso il suo appartamento. Le deputazioni
dei sacerdoti lo seguirono.
ERODIADE
85
Senza affrontare la questione della sacrificatura, ciascuno presentava le sue rimostranze.
Era assediato da tutti. Li congedò.
Gionata lo stava lasciando quando, tra le merlature, intravide
Antipa che parlava con un uomo dai capelli lunghi e dalla veste
bianca, un esseno; rimpianse di averlo sostenuto.
Una riflessione aveva consolato il Tetrarca. Iaokanan non dipendeva più da lui; se ne incaricavano i Romani. Che sollievo!
Nel frattempo Fanuele andava su e giù nel camminamento di
ronda.
Lo chiamò e, indicando i soldati:
«Sono loro i più forti! Non posso liberarlo! Non è colpa mia!».
Il cortile era deserto. Gli schiavi riposavano. Sotto il rossore del
cielo, che infuocava l'orizzonte, il minimo oggetto perpendicolare si stagliava in nero. Antipa distinse le saline sulla sponda
opposta del mar Morto; non vedeva più le tende degli Arabi.
Erano forse partiti? Sorgeva la luna; una sorta di pace scendeva
nel suo cuore.
Fanuele, mortificato, restava là, col mento chino sul petto. Infine rivelò ciò che aveva da dire.
Dall'inizio del mese studiava il cielo prima dell'alba, quando la
costellazione di Perseo si trova allo zenit. Agalah si mostrava appena, Algol era meno brillante, Mira Ceti era scomparsa; da
questi elementi divinava la morte di un uomo considerevole,
quella stessa notte, in Macherus.
Chi? Vitellio era troppo ben protetto. Iaokanan non sarebbe
stato giustiziato. «Dunque sono io!», pensò il Tetrarca.
Forse sarebbero tornati gli Arabi? Il Proconsole avrebbe scoperto i suoi rapporti con i Parti! Sicari di Gerusalemme scortavano i sacerdoti; sotto le tuniche nascondevano pugnali; e il Tetrarca non nutriva dubbi sulla sapienza di Fanuele.
Gli venne in mente di ricorrere a Erodiade, malgrado la
odiasse. Lei però gli avrebbe infuso un po' di coraggio; non tutti i
legami del sortilegio un tempo subito si erano spezzati.
Quando entrò nella sua camera, il cinnamomo fumava in una
vasca di porfido; ciprie, unguenti, drappeggi simili a nuvole, ricami più delicati di piume erano sparsi qua e là.
Non rivelò la predizione di Fanuele, né la sua paura degli Ebrei
e degli Arabi; lei lo avrebbe accusato di essere vile. Parlò soltanto dei Romani; Vitellio non gli aveva confidato nulla dei suoi
piani militari. Antipa lo supponeva amico di Caio, il quale a sua
volta frequentava Agrippa; lo avrebbero mandato in esilio, o magari scannato.
Erodiade, con una sprezzante indulgenza, tentò di rassicurarlo.
86
TRE RACCONTI
Infine trasse da un piccolo astuccio una bizzarra medaglia ornata
dal profilo di Tiberio. Bastava quella a far impallidire i littori e a
confutare qualunque accusa.
Antipa, commosso per la riconoscenza, le chiese come l'avesse
avuta.
«Me l'hanno regalata», rispose.
Da dietro una tenda di fronte sbucò un braccio nudo, un
braccio giovane, incantevole, che sembrava essere stato cesellato
nell'avorio da Policleto. In modo un po' goffo seppur grazioso,
vagava a tentoni per afferrare una tunica dimenticata su uno
sgabello accostato alla parete.
Una vecchia la porse dolcemente, scostando la tenda.
«È tua questa schiava?»
«Che cosa te ne importa?», rispose Erodiade.
III.
I convitati riempivano la sala del banchetto.
Aveva tre navate, come una basilica, separate da colonne di
legno di algumim, con capitelli di bronzo ricoperti di sculture.
Due gallerie a giorno la sovrastavano, mentre una terza fatta di
filigrana d'oro si incurvava nel fondo, di fronte a un'enorme centina che si delineava dalla parte opposta.
Candelabri accesi, sulle tavole allineate per l'intera lunghezza
della sala, formavano cespugli di fuoco tra le coppe di terracotta
dipinta e i piatti di rame, i cubi di neve e i cumuli d'uva; ma quei
chiarori rossastri si disperdevano rapidamente a causa dell'altezza dei soffitti, e punti luminosi brillavano, come stelle nella
notte, attraverso i rameggi. Attraverso la grande vetrata si scorgevano le torce sulle terrazze delle case, giacché Antipa festeggiava i suoi amici, il suo popolo e tutti coloro che si presentavano.
Schiavi vigili come cani, con le dita dei piedi nei sandali di
feltro, circolavano trasportando vassoi.
La tavola proconsolare occupava, sotto la tribuna dorata, un
palco di assi di sicomoro. Tappeti di Babilonia la racchiudevano
in una specie di padiglione.
Tre triclini d'avorio, uno di fronte e due disposti ai lati, ospitavano Vitellio, suo figlio e Antipa; il Proconsole era vicino alla
porta, a sinistra, Aulo a destra, il Tetrarca al centro.
Aveva un pesante mantello nero, la cui trama spariva sotto applicazioni di colore, un po' di belletto sugli zigomi, la barba tagliata a ventaglio, cipria azzurra nei capelli, stretti da un diadema
di pietre preziose. Vitellio serbava indosso il suo budriere di por-
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pora che cadeva diagonalmente su una toga di lino. Aulo si era
fatto annodare sulla schiena le maniche della sua veste di seta
violetta intessuta d'argento. Le trecce della sua acconciatura formavano come dei ripiani, e una collana di zaffiri scintillava sul
suo petto, grasso e bianco come quello di una donna. Accanto a
lui, accovacciato a gambe incrociate su una stuoia, c'era un fanciullo bellissimo, che sorrideva sempre. L'aveva visto nelle cucine
e non riusciva più a separarsene; poiché faticava a rammentare il
suo nome caldeo, lo chiamava semplicemente: «l'Asiatico». Di
tanto in tanto si stendeva sul triclinio. Allora i suoi piedi nudi
dominavano l'assemblea.
Da quella parte c'erano i sacerdoti e gli ufficiali di Antipa, abitanti di Gerusalemme, i notabili delle città greche; sotto il Proconsole, Marcello con i pubblicani, alcuni amici del Tetrarca,
persone eminenti dì Cana, Tolemaide, Gerico; poi, alla rinfusa,
montanari del Libano e vecchi soldati di Erode: dodici traci, un
gallo, due germani, cacciatori di gazzelle, pastori dell'Idumea, il
sultano di Palmira, marinai di Eziongaber. Ciascuno aveva davanti a sé una focaccia di pasta molle per asciugarsi le dita; le
braccia, protendendosi come colli d'avvoltoio, afferravano olive,
pistacchi, mandorle. Tutti i volti erano allegri, sotto corone di
fiori.
I Farisei le avevano rifiutate in quanto simbolo dell'indecenza
romana. Ebbero un tremito quando furono aspersi di galbano e
d'incenso, mistura riservata ai riti nel Tempio.
Aulo la usò per strofinarsi le ascelle; Antipa gliene promise un
carico intero, insieme a tre ceste di quell'autentico balsamo che
aveva indotto Cleopatra a vagheggiare la Palestina.
Un capitano della sua guarnigione di Tiberiade, sopraggiunto
un istante prima, si era sistemato alle sue spalle per informarlo di
qualche evento straordinario. Ma la sua attenzione si divideva tra
il Proconsole e quel che dicevano alle tavole vicine.
Vi si parlava di Iaokanan e della gente della sua razza; Simon di
Gitto lavava i peccati col fuoco. Un certo Gesù...
«Il peggiore di tutti», esclamò Eleazar. «Che spregevole ciarlatano!»
Dietro il Tetrarca si alzò un uomo, pallido come l'orlo della sua
clamide. Scese dal palco e, interpellando i Farisei:
«Menzogna! Gesù fa miracoli!».
Antipa era ansioso di vederne uno:
«Avresti dovuto portarcelo! Racconta!».
Allora raccontò che lui, Giacobbe, avendo una figlia malata, si
era recato a Cafarnao per supplicare il Maestro di volerla guarire. Il Maestro aveva risposto: «Ritorna a casa, tua figlia è gua-
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TRE RACCONTI
rita!». Difatti l'aveva trovata sulla soglia, essendosi alzata dal
letto quando la meridiana del palazzo segnava la terza ora, lo
stesso istante in cui egli aveva avvicinato Gesù.
Dovevano certamente esistere, obiettavano i Farisei, pratiche
ed erbe possenti! Perfino qui a Macherus si trovava talvolta il
baaras che rende invulnerabili; ma guarire senza vedere né toccare era una cosa impossibile, a meno che Gesù non impiegasse
il demonio.
E gli amici di Antipa, notabili di Galilea, proseguirono scuotendo la testa:
«Il demonio, è evidente».
Giacobbe, in piedi fra la loro tavola e quella dei sacerdoti, taceva con un'aria a un tempo altera e mite.
Gli altri lo incitavano a parlare: «Giustifica il suo potere!».
Allora curvò le spalle e, sottovoce, lentamente, come spaventato di se stesso:
«Dunque non sapete che è il Messia?».
Tutti i sacerdoti si guardarono; Vitellio chiese il significato della
parola. Il suo interprete impiegò un minuto per rispondere.
Chiamavano così un liberatore che avrebbe arrecato loro il godimento di tutti i beni e il dominio di tutti i popoli. Alcuni sostenevano che bisognava aspettarne due. Il primo sarebbe stato
vinto da Gog e Magog, demoni del Nord; ma il secondo avrebbe
sterminato il Principe del Male e, da secoli, lo attendevano da un
momento all'altro.
I sacerdoti si erano consultati, ed Eleazar prese la parola.
Innanzitutto il Messia doveva essere figlio di David e non di un
falegname; avrebbe convalidato la Legge, mentre quel Nazareno
la attaccava; e, argomento determinante, doveva essere preceduto dall'avvento di Elia.
Giacobbe replicò:
«Ma Elia è venuto!».
«Elia! Elia!», ripetè la folla fino all'estremità opposta della sala.
Tutti, con l'immaginazione, vedevano un vegliardo sotto un volo
di corvi, la folgore che incendiava un altare, pontefici idolatri
gettati nei torrenti; le donne, nelle tribune, pensavano alla vedova di Sarepta.
Giacobbe si sfiancava nel ripetere che lo conosceva! lo aveva
visto! e anche il popolo lo aveva visto!
«Il suo nome?»
Allora gridò con tutte le sue forze:
«Iaokanan!».
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Antipa si rovesciò come colpito in pieno petto. I Sadducei si
erano avventati su Giacobbe. Eleazar perorava per farsi ascoltare.
Quando tornò il silenzio, si aggiustò il mantello e, come un giudice, cominciò a porre domande.
«Poiché il profeta è morto...»
Un mormorio lo interruppe. Tutti credevano che Elia fosse soltanto scomparso.
Eleazar inveì contro la folla e, continuando il suo interrogatorio:
«Pensi che sia risuscitato?».
«Perché no?», disse Giacobbe.
I Sadducei scrollarono le spalle; Gionata, sgranando i suoi piccoli occhi, si sforzava di ridere come un buffone. Niente di più
sciocco che la pretesa del corpo alla vita eterna; e declamò, per il
Proconsole, questo verso di un poeta contemporaneo:
Nec crescit, nec post mortem durare videtur *-.
Ma Aulo era chino sul bordo del triclinio, con la fronte sudata,
il viso verdastro e i pugni sullo stomaco.
I Sadducei finsero una grande emozione; il giorno seguente furono reintegrati nell'onore della sacrificatura; Antipa sembrava
disperato; Vitellio restava impassibile. Tuttavia le sue angosce
erano violente; con suo figlio perdeva la sua fortuna.
Aulo non aveva finito di vomitare l'anima che volle mangiare di
nuovo.
«Datemi limatura di marmo, schisto di Naxos, acqua di mare,
qualunque cosa! E se facessi un bagno?»
Sgranocchiò della neve, poi, dopo aver tentennato tra una terrina di Commagena e dei merli rosa, si decise per le zucche al
miele. L'Asiatico lo contemplava: quell'enorme facoltà di ingurgitare denotava ai suoi occhi un essere prodigioso e di una razza
superiore.
Servirono rognoni di toro, ghiri, usignoli, polpette in foglie di
vite; intanto i sacerdoti discutevano di resurrezione. Ammonio,
allievo di Filone il Platonico, li giudicava stupidi, e lo diceva a dei
greci che si burlavano degli oracoli. Marcello e Giacobbe avevano fatto lega. Il primo narrava al secondo la felicità provata
sotto il battesimo di Mitra, e Giacobbe lo esortava a seguire
Gesù. I vini di palma e di tamerice, quelli di Safet e di Byblos,
scorrevano dalle anfore nei crateri, dai crateri nelle coppe, dalle
coppe nelle gole; si chiacchierava, i cuori si aprivano. Iasim,
«Non cresce, né sembra durare dopo la morte.»
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TRE RACCONTI
benché ebreo, non nascondeva più la sua adorazione per i pianeti. Un mercante di Afaka sbalordiva certi nomadi, descrivendo
i particolari del tempio di Ierapoli; costoro chiedevano quanto
sarebbe costato il pellegrinaggio. Altri restavano fedeli alla religione nativa. Un germano quasi cieco cantava un inno che celebrava quel promontorio della Scandinavia dove gli dèi appaiono
con i volti raggianti; la gente di Sichem non mangiò tortore, per
deferenza verso la colomba sacra Azima.
Parecchi parlavano in piedi, in mezzo alla sala; il vapore degli
aliti e il fumo dei candelabri formavano nell'aria una specie di
nebbia. Fanuele strisciò lungo il muro. Aveva nuovamente studiato il firmamento, ma non si avviava verso il Tetrarca, temendo
le macchie d'olio che, per gli Esseni, erano segno di grave contaminazione.
Risuonarono dei colpi contro la porta del castello.
Ora si sapeva che Iaokanan vi si trovava detenuto. Uomini muniti di torce si arrampicavano lungo il sentiero; una massa nera
formicolava nella scarpata; di tanto in tanto urlavano: «Iaokanan! Iaokanan!».
«Sta rovinando tutto!», disse Gionata.
«Non ci sarà più denaro per noi, se continua», aggiunsero i Farisei.
Si levarono recriminazioni:
«Proteggici!».
«Basta!»
«Tu abbandoni la religione!»
«Empio come ogni altro Erode!»
«Meno di voi!», replicò Antipa. «È stato mio padre a edificare il
vostro tempio!»
Allora i Farisei, figli dei proscritti, partigiani di Mattatia, rinfacciarono al Tetrarca i crimini della sua famiglia.
Avevano crani aguzzi, barbe ispide, mani deboli e malvagie, o la
faccia camusa, grandi occhi tondi, un aspetto da mastini. Una
dozzina, scribi e servi di sacerdoti, nutriti con lo scarto degli olocausti, si scagliarono ai piedi del palco; con i loro coltelli minacciavano Antipa, che li arringava, mentre i Sadducei lo difendevano blandamente. Intravide Mannaei, e gli fece segno di andarsene, poiché il contegno di Vitellio indicava eloquentemente che
non erano cose che lo riguardavano.
I Farisei, rimasti sui loro triclini, furono colti da un furore diabolico. Spezzarono i piatti che avevano davanti: era stato loro
servito lo stufato prediletto di Mecenate, e dell'asina selvatica,
una carne immonda.
Aulo li prese in giro a proposito della testa d'asino, che si di-
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ceva essi onorassero, e pronunciò altri sarcasmi sulla loro antipatia per il porco. Doveva certo essere perché quel bestione
aveva ucciso il loro Bacco; e loro amavano troppo il vino, dal
momento che era stata scoperta nel Tempio una vigna d'oro.
I sacerdoti non comprendevano le sue parole. Fineo, galileo per
nascita, si rifiutò di tradurle. Allora la collera di Aulo fu smisurata, tanto più in quanto l'Asiatico, impaurito, era scomparso; il
banchetto non gli piaceva, le portate erano volgari, non abbastanza artefatte! Si calmò alla vista di code di pecora siriaca, che
sono fagotti ni di grasso.
II carattere degli Ebrei sembrava orribile a Vitellio. Il loro Dio
poteva essere benissimo Moloch, nei cui altari si era imbattuto
strada facendo; e gli tornarono in mente i sacrifici di fanciulli,
con la storia dell'uomo che essi ingrassavano misteriosamente. Il
suo cuore di latino era disgustato dalla loro intolleranza, dalla
loro rabbia iconoclasta, dai loro ciechi impedimenti. Il Proconsole voleva andarsene. Aulo si rifiutò.
Con la veste abbassata fin sui fianchi, giaceva dietro un mucchio
di pietanze, troppo satollo per mangiarne ancora, e ostinandosi
tuttavia a non perderle di vista.
L'esaltazione del popolo cresceva. Si lasciarono andare a progetti di indipendenza. Si rammentava la gloria di Israele. Tutti i
conquistatori erano stati puniti: Antigone, Crasso, Varo...
«Miserabili!», disse il Proconsole; egli infatti comprendeva il siriaco; il suo interprete serviva unicamente a dargli il tempo di
pensare alle risposte.
Antipa, più svelto che poté, trasse la medaglia dell'Imperatore
e, osservandola con timore, la presentò dal lato dell'effigie.
I pannelli della tribuna d'oro si spalancarono d'improvviso e,
allo splendore dei ceri, tra le sue schiave e festoni di anemoni,
apparve Erodiade, coperta di una mitra assira tenuta salda sulla
fronte da un soggolo; i suoi capelli a spirali erano sparsi su un
peplo scarlatto, con uno spacco lungo tutte le maniche. In mezzo
ai due mostri di pietra, simili a quelli del tesoro degli Atridi, che
si ergevano accanto alla porta, sembrava Cibele circondata dai
suoi leoni; e dall'alto della balaustra che dominava Antipa, con
una patera in mano, gridò:
«Lunga vita a Cesare!».
L'omaggio fu ripetuto da Vitellio, da Antipa e dai sacerdoti.
Ma dal fondo della sala arrivò un mormorio di sorpresa e di
ammirazione. Era appena entrata una giovinetta.
Sotto un velo bluastro che nascondeva il seno e la testa, si distinguevano le arcate degli occhi, i calcedoni delle orecchie, il
candore della pelle. Un fazzoletto di seta cangiante le copriva le
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TRE RACCONTI
spalle ed era fermato da una cintura di metallo prezioso. I suoi
calzoni neri erano disseminati di mandragore, e con fare indolente faceva schioccare le piccole pantofole di piume di colibrì.
Salita in cima al palco, si tolse il velo. Era Erodiade, come era
un tempo, in gioventù. Subito dopo cominciò a danzare.
I suoi piedi passavano l'uno davanti all'altro, al ritmo del flauto
e di una coppia di crotali. Le sue braccia tonde sembravano richiamare qualcuno che fuggiva continuamente. Lei lo inseguiva,
più leggera di una farfalla; come una Psiche curiosa, come un'anima vagabonda, sembrava pronta a spiccare il volo.
I suoni funebri del flauto fenicio sostituirono i crotali. Alla
speranza era seguito l'abbattimento. I suoi atteggiamenti esprimevano sospiri, e tutta la sua persona un tale languore che non si
riusciva a capire se piangesse un dio oppure morisse delle sue
carezze. Con le palpebre socchiuse, si torceva, dimenava il ventre
con le ondulazioni di una mareggiata, faceva tremare i due seni,
ma il viso restava immobile, mentre i piedi non avevano un attimo di sosta.
Vitellio la paragonò a Mnester, il pantomimo. Aulo continuava
a vomitare. Il Tetrarca si perdeva in un sogno, e non pensava più
a Erodiade. Credette di vederla accanto ai Sadducei. La visione
si allontanò.
Non era una visione. Erodiade aveva fatto istruire, lontano da
Macherus, Salomè, sua figlia, pensando che il Tetrarca se ne sarebbe innamorato. L'idea era buona, ora Erodiade ne era certa!
Poi fu il turno dell'impeto amoroso che vuol essere appagato.
Salomè danzò come le sacerdotesse delle Indie, come le Nubiane
delle cateratte, come le baccanti di Lidia. Si rovesciava da tutte
le parti, simile a un fiore agitato dalla tempesta. I brillanti dei
suoi orecchi saltellavano, la seta sulle sue spalle assumeva mille
colori; dalle braccia, dai piedi, dalla veste scaturivano invisibili
scintille che facevano ardere gli uomini. Un'arpa cantò; la moltitudine rispose con acclamazioni. Senza flettere le ginocchia
mentre divaricava le gambe, si curvò al punto che il mento sfiorava il pavimento; e i nomadi abituati all'astinenza, i soldati romani esperti in dissolutezze, gli avari pubblicani, i vecchi sacerdoti inaciditi dalle dispute, tutti, dilatando le narici, palpitavano
di bramosia.
Quindi Salomè cominciò a girare attorno alla tavola di Antipa,
freneticamente, come in un rito di streghe. Con una voce interrotta da singhiozzi di voluttà, lui le diceva: «Vieni! vieni!». Lei
continuava a girare; i timpani tuonavano così forte da scoppiare,
la folla urlava. Ma il Tetrarca gridava più forte: «Vieni! vieni! Ti
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darò Cafarnao! la piana di Tiberiade! le mie fortezze! la metà del
mio regno!».
Salomè si chinò sulle mani, con i talloni rivolti in aria, e percorse così il palco come un grande scarabeo; poi, bruscamente, si
fermò.
La sua nuca e le sue vertebre formavano un angolo retto. Le
guaine variopinte che le avvolgevano le gambe, passandole sopra
le spalle, come arcobaleni, accompagnavano la sua figura a un
cubito dal suolo. Le sue labbra erano dipinte, le sopracciglia nerissime, gli occhi quasi terribili, e le goccioline che le imperlavano la fronte sembravano vapore su un marmo bianco.
Salomè non parlava. I due si guardarono.
Nella tribuna si sentì uno schioccare di dita. Lei vi salì, riapparve; e, con una pronuncia un po' blesa, con un'aria infantile
disse queste parole:
«Voglio che tu mi dia in un piatto la testa...». Aveva dimenticato quel nome, ma proseguì sorridendo: «La testa di Iaokanan!».
Il Tetrarca si accasciò su se stesso, distrutto.
Era vincolato dalla sua parola, e il popolo attendeva. Ma la
morte che gli era stata predetta, applicandosi a un altro, avrebbe
forse evitato la sua? Se Iaokanan era davvero Elia avrebbe potuto sottrarvisi; se non lo era, l'omicidio non aveva più importanza.
Mannaei era al suo fianco, e capì le sue intenzioni.
Vitellio Io chiamò per confidargli la parola d'ordine delle sentinelle messe a guardia della fossa.
Fu un sollievo. Di lì a un minuto tutto sarebbe finito!
Tuttavia Mannaei non era affatto preparato a quel compito.
Tornò, sconvolto.
Da quarant'anni esercitava la funzione di carnefice. Era stato
lui ad affogare Aristobulo, a bruciare vivo Mattatia, a decapitare
Zosima, Pappo, Giuseppe e Antipatro; eppure non osava uccidere Iaokanan! I suoi denti battevano, tutto il suo corpo tremava.
Davanti alla fossa aveva intravisto il Grande Angelo dei Samaritani, tutto coperto d'occhi e nell'atto di brandire un'immensa
spada, arroventata, dentellata come una fiamma. Due soldati ne
erano stati testimoni ed erano stati condotti per confermarlo.
Non avevano visto niente, salvo un capitano ebreo, che si era
precipitato su di loro e che ora non c'era più.
Il furore di Erodiade trovò sfogo in un torrente di ingiurie volgari e sanguinose. Si spezzò le unghie sulla grata della tribuna, i
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due leoni scolpiti sembravano mordere le sue spalle e ruggire
come lei.
Antipa la imitò, i sacerdoti, i soldati, i Farisei, tutti reclamavano
vendetta, mentre gli altri erano indignati che si rinviasse il loro
piacere.
Mannaei uscì nascondendosi il volto.
I convitati trovarono quella seconda attesa ancor più lunga
della prima. Si annoiavano.
D'un tratto, un rumore di passi echeggiò nei corridoi. Il disagio
diveniva intollerabile.
La testa entrò; e Mannaei la teneva per i capelli, all'estremità
del braccio, fiero degli applausi.
Dopo che l'ebbe messa su un piatto, la offrì a Salomè.
Lei salì rapidamente sulla tribuna; dopo parecchi minuti, la
testa fu riportata dalla stessa vecchia che il Tetrarca aveva notato
quel mattino sul terrazzo di una casa, e poco prima nella camera
di Erodiade.
Indietreggiava per non guardarla. Vitellio vi gettò uno sguardo
indifferente.
Mannaei scese dal palco, e la esibì ai capitani romani, quindi a
tutti coloro che mangiavano da quella parte.
Tutti la esaminarono.
La lama aguzza, scivolando dall'alto in basso, aveva troncato la
mascella. Una convulsione contraeva l'angolo della bocca.
Tracce di sangue già rappreso erano disseminate sulla barba. Le
palpebre chiuse erano livide come conchiglie; attorno, i candelabri erano raggianti.
La testa arrivò alla tavola dei sacerdoti. Un fariseo la voltò curiosamente; e Mannaei, dopo averla raddrizzata, la pose davanti
ad Aulo, che ne fu come ridestato. Attraverso l'apertura delle
ciglia, le pupille morte e le pupille spente sembravano dirsi qualcosa.
In seguito Mannaei la presentò ad Antipa. Le lacrime colarono
sulle guance del Tetrarca.
Le fiaccole si spensero. Gli invitati si congedarono; nella sala
restò soltanto Antipa, con le mani sulle tempie, lo sguardo
sempre fisso sulla testa tagliata, mentre Fanuele, in piedi in
mezzo alla navata principale, mormorava preghiere con le
braccia tese.
Nell'istante in cui sorgeva il sole arrivarono due uomini, inviati
tempo prima da Iaokanan, con la risposta così a lungo attesa.
La confidarono a Fanuele, che ne fu enormemente rallegrato.
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Poi mostrò loro il lugubre oggetto, sul vassoio, tra gli avanzi del
banchetto. Uno degli uomini disse:
«Consolati! È sceso tra i morti ad annunciare il Cristo!».
L'Esseno ora capiva quelle parole:
«Perché lui cresca, bisogna che io diminuisca».
E tutti e tre, presa la testa di laokanan, se ne andarono verso la
Galilea.
Poiché era estremamente pesante, la portarono a turno.
Indice
p.
7 Introduzione dì Nicola Muschitiello
13 Nota biobibliografica
TRE RACCONTI
19 Un cuore semplice
47 La leggenda di San Giuliano Ospitaliere
70 Erodiade
Tascabili Economici Newton, sezione dei Paperback
Pubblicazione settimanale 29 ottobre 1994
Direttore responsabile G.A. Cibotto
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