Tascabili Economici Newton 100 pagine 1000 lire 198 In copertina: Franz von Stuck, Salomé, 1906 Titolo originale: Trois contes (Un Coeur simple, La Legende de Saint Julien l'Hospitalier, Hérodias) Prima edizione: ottobre 1994 Tascabili Economici Newton Divisione della Newton Compton editori s.r.l. © 1994 Newton Compton editori s.r.l. Roma, Casella postale 6214 ISBN 88-7983-716-8 Stampato su carta Libra Classic della Cartiera di Kajaani distribuito dalla Fennocarta s.r.l, Milano Copertina stampata su cartoncino Fine Art Board della Cartiera di Aanekoski Gustave Flaubert Tre racconti Un cuore semplice, La leggenda di San Giuliano Ospitaliere, Erodiade Introduzione di Nicola Muschitiello Traduzione di Maurizio Grasso Edizione integrale Tascabili Economici Newton Introduzione La scrittura dei Tre racconti è, per Flaubert, occasione di una raffinazione riflessiva delle sue opere precedenti; ed essi prendono per noi un valore di precetto estetico definitivo. Composti tra l'ottobre del 1875 e il febbraio del 1877, e pubblicati nell'aprile di questo anno, sono appunto un compiuto lascito letterario, tre anni avanti la morte del testatore. Flaubert è sullo stremo, nel periodo più drammatico della sua vita. Non sono cancellate in lui le cause dei suoi rammarichi: la sfavorevole accoglienza che ha sortito nel pubblico L'Educazione sentimentale e, di recente, La tentazione di Sant'Antonio, la «stanza segreta del suo spirito», come intuisce precocemente Baudelaire, l'opera intorno alla quale ha lavorato più a lungo; e gli sono morti antichi amici, e gli è morta la madre; ed ecco incombere adesso, nel 1875 appunto, il caso che si trovi in rovina per questo, che il marito della nipote Caroline, al quale ha affidato l'amministrazione dei suoi beni, poco manca non fallisca. E Flaubert si ritrova a dover campare di non si sa che. A questo punto, interrompendo il lavoro incominciato sulla grottesca epopea di Bouvard e Pécuchet, si dà a scrivere, quasi esperimento fatto della propria forza che rimane, ciò che lui chiama una «bagattella» (al modo stesso che Baudelaire chiama «bagattelle» i suoi Piccoli poemi in prosa, con superbo avvilimento), cioè La leggenda di San Giuliano Ospitaliere, per comporre la quale già nel 1856 ha preso appunti dei quali però adesso non si serve; e che Proust vedrà, sia detto subito, come la «più perfetta delle sue opere». È la tavola centrale del trittico che sono i Tre racconti. La frase finale, che non è la fine del racconto ma una giunta, modesta insieme e orgogliosa, fa cenno, straordinario per Flaubert, a un motivo esterno, in forma di riscontro. Lo splendore del suo testo e, richiamata, la mediocre figurazione della medesima storia sulle vetrate della cattedrale di Rouen (che Flaubert vorrebbe in appendice, sotto forma di disegno). «Voleva che il lettore ammirasse la differenza straordinaria che si riscontra fra il racconto splendidamente adorno e l'ingenua immagine provinciale», dice, senza ombra di malizia, Marcel Schwob. Ma questo riferimento risponde all'esigenza di una coda del soggetto svolto, e non costituisce la rive- 8 NICOLA MUSCHITIELLO lazione di una fonte. Seguendo il suo metodo speciale che consiste in una elaborazione elettiva e riduttiva dei documenti di cui si serve per apparecchiare le condizioni della sua scrittura, Flaubert si avvale qui, oltre che di documenti particolari, di due testi canonici del Duecento: lo Speculum Historiale di Vincent de Beauvais e la Legenda Aurea di Jacopo da Varazze. Relativamente a quest'ultimo testo, Schwob appunta: «Bisogna leggere le storie di Giuliano nella Legenda Aurea per apprezzare il genio trasfiguratore di Gustave Flaubert». E poi aggiunge che qui «Flaubert è riuscito a fondere e ad unire, in un miracoloso smalto letterario, l'intero apparato cavalleresco e la più semplice delle narrazioni religiose popolari». In questo racconto, che è tolto in sostanza dall'agiografia, a risentire di intimi motivi dell'autore, e che sembra fondato sul numero tre (il «tripartito vivere», diciamo così, di Giuliano messo in evidenza nella suddivisione stessa del testo, la maledizione del cervo, e altre riprove), il contrappunto formale di Flaubert è al massimo grado. Notiamo, a titolo di esempio, la contrapposizione del primo animale ucciso da Giuliano, un piccolo topo bianco, a cui risponde l'ultimo, un cervo nero, con i suoi sedici palchi e la freccia mortale piantata in fronte, quasi un terzo corno. Nell'imposta di sinistra del trittico, arde Un cuore semplice. Prima di scrivere questo racconto, che dire straordinario è poco, Flaubert ritorna in certi luoghi della sua infanzia: la spiaggia di Trouville e il resto; e in effetti rivisita la sua infanzia col taccuino in mano, come a pulire dagli sgorbi la memoria di quegli anni. Ma anche in questo caso, compie piuttosto un 'operazione rituale, un riscontro preliminare, un atto ispettivo di cui purificarsi nello scrivere l'opera che ne segue, nel giorno lustrale (che può durare anni) dedicato alla nominazione, al battesimo delle cose. Come fa diciotto anni avanti, nel 1858, quando sta scrivendo Salambò (va in Tunisia per visitare la città fantasma di Cartagine). Per lui, infatti, gli oggetti tanto più si prestano ad attivare la visione, quanto che scapitano come puramente possibili. È un atto di assunzione a se stesso, il suo, che prelude all'esattezza essenziale, alla puntualità che serve la bellezza. Per questo, Flaubert chiede un pappagallo impagliato al museo di Rouen, e lo tiene dinanzi a sé, mentre è dedito a scrivere appunto Un cuore semplice, primo nella compaginazione dei Tre racconti (vuole «avere l'anima piena di pappagallo», dice). E soffre di non avere, in luogo del pappagallo, «una testa umana spiccata di fresco», arrivato al terzo. Diciamo subito che Un cuore semplice è straordinario anche per questo, che per la prima volta Flaubert ha voluto commuovere («Voglio impietosire, far piangere le anime sensibili, che una di queste son io»). Non è che non ci si commuova d'una scena magistralmente descritta; ma questa è commozione implicata dall'ammirazio- INTRODUZIONE 9 ne. Ma qui, Flaubert, uno scrittore che è sempre stato avverso, con cuore rivoltato, all'amore coniugale e alla generazione, diventa padre di una bambina dall'assurdo nome Félicité (un nome antifrastico), che «per un niente veniva picchiata», buona e semplice come una bestiola (che il «cuore spietato» Giuliano medesimo, nella crudezza cruenta che mette alla santità, non sarebbe stato capace di uccidere), una bambina che muore in forma di vecchina che tutta la vita ha amato con candore. Padre celeste, qui, Flaubert. Il quale commenta: «Stavolta, non diranno più che sono inumano». In questo racconto, che (insieme con L'Educazione sentimentale) è il più riscontrabile alla biografìa di uno scrittore che più di ogni altro sta intero nella sua opera e invisibile in essa in virtù di un programma estetico di «impersonalità» rigorosamente attuato, bisogna notare la singolare occorrenza delle date. Le quali non servono a stabilire gli eventi in maniera realmente memorabile, dando il senso di una esatta progressione cronologica, ma sono allo stesso titolo, o manco, degli eventi accennati che servono a segnalare ai personaggi un certo anno: così, il crollo di parte del tetto che poco manca non uccida qualcuno, oppure l'offerta del pane benedetto quale incarico spettante alla signora Aubain. Lo scrupolo della datazione crea una illusione di precisione storica, e ha l'effetto perverso di rendere tutto più vago e remoto. Anche qui, l'elevatezza del tono (come un risalto costante, un ripetuto battere della voce), l'ingrandimento dei particolari, sono segni fra altri di una volontà di magnificazione: simile all'impagliatore che indora «per amor di grandezza» la noce morsa dal morto pappagallo «Loulou», Flaubert mira all'imponente, anche nel descrivere i particolari (soprattutto nel descrivere i particolari, anzi); e lo fa appunto «per amor di grandezza» («par amour du grandiose»). Erodiade, imposta di destra del trittico, ha la condensazione dei sogni. E porta al sanguinoso incendio di Salambò, il secondo romanzo di Flaubert; al modo che, per dichiarare l'attenenza di ambiente dei Tre racconti a opere precedenti e di maggior mole, è stato proposto dalla critica che La leggenda di San Giuliano Ospitaliere si annetta a La tentazione di Sant'Antonio, e Un cuore semplice a Madame Bovary. Una inquietudine nuova si impadronisce di Flaubert, quasi a segnare il culmine di un'arte che tra poco tempo tacerà, insieme con la vita stessa: «Sto male dalla paura che la Danza di Salomè mi suscita. Temo d'abborracciarla. E poi, sono allo stremo delle forze. È tempo di finirla, e per me di dormire infine». È un sentimento, questo, assonante al sentimento da lui sperimentato prima della composizione di Un cuore semplice, quando appunto perlustra la sua infanzia, durante quella sua immersione nell'acqua ritrosa della memoria, che gli consente per altro di sentire umana- 10 NICOLA MUSCHITIELLO mente, non più difeso da una senilità connaturale, il peso vero dell'età: «Questa gita mi ha abbeverato di tristezza, costretto com'ero a un bagno di ricordi. Sono vecchio, mio Dio, sono vecchio!» (ha cinquantasei anni). Pure in questo terzo racconto, Flaubert è tutto volto verso il suo ideale di Arte (la maiuscola si impone). E a questa operazione riservata egli porta la lussuria ascetica di uno stilita. E qui brucia le provviste della cultura, il numero di libri che legge prima di pigliare la penna e scrivere qualche riga in un giorno, seduto al suo tavolino rotondo, come per evocare gli spiriti, tutto solo. Il documento non gli serve neanche qui a disporre insieme e incrementare la narrazione (com 'è nel contemporaneo realismo, in Zola, poniamo); ma gli è insegnamento, alla lettera: gli indica dove portare le sue provviste fantastiche; gli insegna un cammino occorrente, una via orientativa contro l'antico bisogno infantile della stravaganza. In fondo, Flaubert possiede già le immagini fondamentali che, concatenate, svolgono il racconto (come le immagini di un sogno, le quali, cooperanti in un'ombra di storia, solamente dal pensiero allucinato e ben desto possono essere elaborate e collegate in una storia possibile e vera). «Esprimere la propria visione, senza intrusioni dell'intelligenza o della sensibilità: ecco quel che sta più a cuore a Flaubert...», scrive Proust; che, letterariamente lontano appunto da Flaubert, come questi si voterà al martirio dell'Arte, a proclamarla: ed entrambi sono perciò simili al Battista di Erodiade, il quale, in rispetto al Cristo, «perché lui cresca», diminuisce. È qui veramente simboleggiato il rapporto dell'Artista con l'Arte. Com'è per Baudelaire («Si deve lavorare, se non per gusto, almeno per disperazione...»), la laboriosità nella letteratura diviene occupazione assoluta, rendendo inerte appunto la disperazione («la mia normale condizione», ammette Flaubert). Essa consente allo scrittore di conseguire, nella perfezione dello stile, qualcosa che vale più che la gloria (del resto, incertissima): la possibilità di piacersi (e Flaubert lo dichiara, rivelando una motivazione che ce lo rende prossimo, nel suo rigido sacerdozio letterario). Lo stile, che gli «scorre nel sangue», si spande, in Erodiade, come il sangue santo del Battista. Qui, nel dominio di una mossa elaboratissima che è stata commisurata con la «tecnica del cinema» (primi piani, campi lunghi, e così via), è da dichiarare che trionfa apertamente il vero dell'Arte, il quale, attenendo al vero reale, lo condensa in una unità di luogo e di tempo. All'occorrenza, Flaubert preferisce l'inventare una città che non esiste (Sorek, nel repertorio di ciò che si vede dalla roccaforte, nella prima pagina) al dire il falso su una città che esiste (Gazer, da lui scelta al principio, che, per la sua posizione, non poteva esser vista dalla roccaforte stessa). «Tutto ciò che si inventa, è vero», egli scrive (anche perché è rinvenuto, potremmo aggiungere). E perfino quel verso di Lucrezio incorporato al racconto, e INTRODUZIONE 11 citato a contrasto della resurrezione, è affatto appropriato a Flaubert, che nella sola resurrezione del passato, compiuta attraverso una fattura estetica, crede, e che celebra, unica consolazione, l'annullamento dell'io nella corruzione finale. Numerose sono le analogie e le simmetrie all'interno dei Tre racconti. Che, anzitutto, contengono la relazione di tre santi (Félicité, cuore semplice, pareggia in santità Giuliano e, più remoto, il Battista). Una gran luce accompagna la fine della loro esistenza; luce che pende all'azzurro (il colore della carta dove l'autore scrìve questi ultimi testi). Dal farsi della morte, ne viene una strana speranza (mai Flaubert l'aveva fatta presentire). Una gloria assoluta e assolvente si accompagna alla morte, appunto, in circostanze di estenuazione, e quasi di schifo, per accennare una vittoria sulla ripugnanza della vita, come anche l'avvento di una salvezza probabile. Perfino la testa del Battista, un Golia spirituale ora «sceso tra i morti», dopo un'orrìbile processione sul repositorio di un piatto profano, conosce una lenta e invisibile apoteosi nel giorno fatto. Il soggetto simbolico di salvezza è, o diventa, smisurato. Il Lebbroso Dio si allunga e sale portando con sé Giuliano, e sale il pappagallo Paràclito mostruosamente grande; laddove la testa mozzata del Battista, «estremamente pesante» («très lourde»), suggerisce all'autore di terminare il racconto con un significativo avverbio (a determinare, qui, il modo del Verbo): viene trasportata da tre persone, «a turno». Per accennare, ora, la preminenza stilistica di questi Tre racconti, prendiamone, a titolo di esempio, alcuni punti, secondo l'ordine in cui sono stati compaginati da Flaubert. Nel primo, Un cuore semplice, troviamo, riferita a Félicité, questa frase: «Anche lei aveva avuto, come chiunque altro, la sua storia d'amore». E noi ci aspettiamo che subito se ne parli; ma segue un capoverso che incomincia con «Suo padre...», e parla della infelice infanzia di Félicité. È una transazione, ma sensibile, uno stacco anzi, sorprendente e pure indispensabile, perché immette nelle condizioni che consentono «la sua storia d'amore», la quale si prepara nel capoverso successivo. Ancora: «Si accordò con un vetturino a nolo, che la portava al convento ogni martedì. Nel giardino c'è una terrazza dalla quale si vede la Senna. Virginie vi passeggiava a braccetto con lei, sopra i pampini caduti». Qui (come in un luogo dell'Educazione sentimentale, notato da Proust), l'«eterno imperfetto» di Flaubert è interrotto inopinatamente (e ritorna poi impassibile e commovente) da un indicativo presente, che è indice, se non di etemo, almeno di una condizione perdurante. E: «Tutte le sue piccole cose occupavano una credenza nella camera a due letti. La signora Aubain le passava in rassegna il meno 12 NICOLA MUSCHITIELLO possibile. Un giorno d'estate si rassegnò: dall'armadio volò via una nuvola di farfalle ("des papillons s'envolèrent de l'armoire").» Lo sgomento di bellezza che ci coglie al pensiero che a volarsene sia l'anima farfalla delle «piccole cose» della morta Virginie, come l'anima di lei dal corpo, per quel gesto inespresso della signora Aubain sua madre, non viene avvilito dalla riflessione che verosimilmente si tratta di tignole. Nel secondo racconto, La leggenda di San Giuliano Ospitaliere, troviamo questa piccola frase: «A furia di pregare le venne un figlio». Lo straniamento qui è memorabile. Sembra quasi che Giuliano nasca da una Vergine (e che il castellano suo padre sia un padre putativo). E: «Giuliano la raccolse». Che fa un intero capoverso. Raccolta, è la torcia caduta alla moglie inorridita; torcia che permetterà a Giuliano di illuminare il suo proprio orrore. Nell'ultimo racconto, Erodiade, c'è questo passaggio: «Il Proconsole ignorava l'evento, e trovò quella donna pericolosa; poiché Antipa giurava che avrebbe fatto qualunque cosa per l'Imperatore, Vitellio aggiunse...». Il Proconsole e Vitellio sono la stessa persona; prima il titolo, poi il nome. In Un cuore semplice (l'ultima parte), compare lo stesso procedimento (prima una perifrasi qualificativa, «garzone del macellaio», poi il nome, «Fabu», improvvisamente). E: «La testa entrò; e Mannaei la teneva per i capelli, all'estremità del braccio, fiero degli applausi». Badiamoci: in un clima di attesa odiosa, e odiosa frustrazione, ecco la testa entrare (la testa!), priva di vita evidentemente, ma come dotata di potenza ambulatorio; e il boia, che la regge in effetti, sembra stia compiendo un'azione incidentale e quasi superflua. Inoltre, qui si verifica, in maniera impressionante, una singolare scelta di stile di Flaubert, che consiste nell'usare la congiunzione e in forza di pausa e disgiunzione. Sono campioni di una situazione diffusa; saggi di una facoltà stilistica che sopravanza la fiducia del buon lettore. NICOLA MUSCHITIELLO Nota biobibliografica LA VITA Una biografia relativamente piatta, quella di Gustave Flaubert, se paragonata a quelle tumultuose, «romantiche» o «maledette» di molti scrittori a lui contemporanei, corifei dell'intervento clamoroso nel sociale e nel politico, o veri e propri scienziati dell'autodistruzione realizzata come gesto lungamente protratto in una sorta di «sacra» allegoria del disprezzo per una società, quella del Secondo Impero, che rappresentava sotto forma di dura farsa ciò che era stata, col Primo, un'avventurosa e esaltante tragedia. Una società, quella di Napoleone «il piccolo», violentemente benpensante, sordidamente bottegaia, affaristica e corrotta. Bel Ami di Maupassant ne rappresenta i vari rampantismi in modo folgorante: e non è certo un caso che il magnifico novelliere si consideri (e sia) allievo privilegiato del grande Flaubert, dal quale impara diligentemente il métier, la paziente sapienza tecnica dell'arte di raccontare. Se si pensa all'esistenza solare di Hugo da una parte, e dall'altra al percorso infernale di Baudelaire, si può ben dire che la biografia dell'autore di Madame Bovary appare come quella di un eroico impiegato delle lettere la cui grandezza patetica sta tutta nel gusto, a suo modo perverso, di un martirio masochistico fortemente prosaico, quotidiano e ininterrotto. Anche Flaubert, ovviamente, nutre nei confronti di quel mondo un disprezzo iroso e inguaribile: tutta la sua opera ne è piena. Riservatezza che pian piano diventa misantropia, sensibilità nevrotica, attenzione delicata ai legami familiari, obbligo interiore di obbedienza a un metodo produttivo non rapsodico ma fanaticamente sistematico, concorrono a fare di lui il primo esempio di scrittore moderno nel quale la distanza dal flusso diretto della realtà esterna è la condizione necessaria per toccare i nervi scoperti di un'esperienza profonda. Gustave Flaubert vide la luce il 13 dicembre 1821 nell'ospedale di Rouen, nel quale il padre Achille-Cléophas esercitava funzioni di primario chirurgo. Compì i primi studi nella città natale, in un ambiente studentesco acceso dalle idealità romantiche e dai lasciti ardenti della rivoluzione del 1830, e fin dall'adolescenza la sua immaginazione si sfogò nella scrittura di racconti, lunghe novelle, pièces storiche. È dell'estate 1836 la prima folgorazione amorosa: una passione che sarà sempre affettuosamente corrisposta ma mai soddisfatta, il grande cruccio sentimentale della sua vita. Sulla spiaggia di Trouville, ove la sua famiglia trascorreva la villeggiatura, conosce Elise Foucault, compagna dell'editore musicale Schlesinger, di cui diventerà la moglie nel 1840. È un colpo di fulmine: il quindicenne Gustave si innamora perdutamente della donna, che ha undici anni più di lui. Soltanto trentacinque anni dopo, alla morte di Schlesinger, Flaubert oserà iniziare una lettera con «ma veille tendresse, ma toujours aimée», piuttosto che col «chère madame» consueto. È un amore che si riversa in Mémoires d'unfou, composto da Gustave appena sedicenne; e che sarà poi il nucleo irradiante della prima Education sentimentale, nonché della versione definitiva del romanzo (18631869). A Parigi, nel 1840, Flaubert si iscrive alla facoltà di legge dell'università, ma ha 14 NOTA BIOBIBLIOGRAFICA la testa e i progetti altrove. Segue svogliatamente le lezioni, e tre anni dopo abbandona gli studi. Risalgono a quest'epoca i primi contatti coi circoli letterari della capitale, e in questi anni di incertezza e di profonde inquietudini prendono a manifestarsi nel giovane Gustave i primi sintomi della malattia nervosa, probabilmente di carattere epilettico, la cui natura non fu mai individuata con precisione, che non sarà l'ultima delle ragioni del suo volontario confinarsi nella provincia di Rouen: nel capoluogo in un primo tempo, in seguito in una proprietà acquistata dal padre nella campagna di Croisset. Dopo la morte del padre (1846), Flaubert vi si stabilirà definitivamente. Inizia poco dopo la stesura della prima Tentation de Saint Antoìne. In quel torno di tempo nasce la relazione con la scrittrice di successo Louise Colet. E un amore che, dapprima violentemente passionale, si affievolisce pian piano soprattutto per le sempre più lunghe assenze di Gustave dalla capitale, e finisce per farsi rapporto psicologico e intellettuale. Il diagramma lo si può seguire lungo le linee del foltissimo epistolario cui dà luogo, e dal quale traspaiono con grande lucidità le posizioni estetiche di Flaubert. Ma la lontananza e l'equivocità della situazione scavano tra i due amanti un fossato sempre più largo e profondo. La rottura avviene nel 1855. In un romanzo à clef (Lui, 1860), la Colet accusa: «Lontano da me, chiuso nel suo orgoglio laborioso e nell'eterna analisi di se stesso, lui non mi amava affatto! L'amore era per lui solo dissertazione, lettera morta!». Nel 1849 la prima Tentation è terminata. Con l'amico Maxime Du Camp, anche lui scrittore ma di proporzioni ben più modeste di quelle flaubertiane, compie un lungo viaggio in Egitto, Palestina, Siria, Turchia, Grecia e Italia. Al ritorno comincia la pesantissima avventura della Bovary: un quinquennio di lavoro feroce e, dopo la pubblicazione a puntate sulla Revue de Paris, un processo per oltraggio alla morale pubblica e alla religione. Ma è comunque il successo: ormai lo scrittore è considerato l'indiscusso capofila della scuola realista. Il termine bovarìsmo entra nell'uso comune. Emma Rouault, la protagonista del romanzo, occupa uno dei posti d'onore nel pantheon dei personaggi della narrativa moderna. Dal 1857 al 1862 Flaubert lavora alla composizione di Salammbó, la rutilante storia cartaginese in cui domina l'eponima bellissima figlia di Amilcare. Anche lei, come Emma, finirà tragicamente; e anche lei, è stato detto, è intrisa della stessa vaga tristezza, curiosità e insoddisfazione della signora Bovary. Lo scrittore è tormentato dall'insicurezza. E affascinato dal tema delle guerre puniche, che sembra gli abbia suggerito alcuni anni prima Théophile Gautier, ma al tempo stesso sente le sue forze insufficienti ad affrontarlo, con tutto il suo carico di barbarie, di lussuria e di sangue. «Quanto più acquisto esperienza nella mia arte», scrive a un'amica, «tanto più quest'arte mi diventa un supplizio: l'immaginazione resta stazionaria, il gusto aumenta, questo il guaio. Pochi uomini, credo, hanno sofferto quanto me per la letteratura.» Ma la spinta al romanzo che «deve» fare è troppo forte per poter essere esorcizzata e neutralizzata. Pur cambiando tema con un giro di trecentosessanta gradi, lo scrittore resta fedele al suo metodo: una documentazione minuziosa fino al fanatismo, una cura maniacale dei particolari, una mole di appunti nati dal vivo di una situazione, per quanto remota sia nel tempo e nello spazio. Tutto ciò precipita, all'atto della scrittura, nelle lente volute di un linguaggio sontuoso, gelidamente sovraccarico, algidamente sensuale. Salammbó è per Flaubert un'altra lotta col drago. Per potersi sentire penetrato dal clima e dalle suggestioni visive e olfattive dei paesaggi africani, parte per la Tunisia dove trascorre due mesi, in solitudine, aggirandosi tra le rovine di Cartagine. II libro esce nel 1862. Debellata con quest'opera la sua febbre esotica, Flaubert torna al romanzo «borghese» e di costume con la seconda (e definitiva) Education sentimentale (1869). NOTA BIOBIBLIOGRAFICA 15 A partire dal 1857, frattanto, lo scrittore aveva preso l'abitudine di passare l'inverno a Parigi. Scomparsi i suoi amici più intimi, Louis Bouilhet e Alfred Le Poittevin, ormai in rotta con Maxime Du Camp, le sue frequentazioni letterarie si incentrano su Théophile Gautier, Edmond de Goncourt e Turgenev, che tradurrà in russo la Tentation de suini Antoine. Non manca nel suo percorso creativo qualche sfortunata esperienza teatrale. E del 1863 un dramma, Le Chàteau des coeurs, che viene rifiutato da tutti i teatri parigini. Dieci anni dopo, un'altra pièce, Le candidai, è un fiasco totale. Lo scrittore non riuscirà mai a farsene una ragione. Duramente colpito da una serie di disgrazie, particolarmente la morte della madre e il tracollo economico che travolse il marito dell'amatissima nipote Caroline, per sovvenire al quale lo scrittore dette fondo a tutte le sue sostanze, Flaubert si concentrò sempre più nel lavoro letterario, ormai indispensabile anche al suo mantenimento. Tra il 1875 e il 1876 compose la Legende de saint Julien l'Hospitalier, Un coeur simple e Hérodias, poi riuniti nel volume Trois contes. E intanto, da molto tempo, lavorava a quella bibbia della stupidità umana che è Bouvard et Pécuchet e che resta uno dei capolavori flaubertiani, pur nella sua incompiutezza dovuta alla morte dell'autore. Il quale, drammaticamente scosso dagli avvenimenti del 1870, aveva abbandonato Croisset, dopo aver seppellito nel giardino della sua casa alcuni manoscritti. Era ormai considerato un maestro della moderna letteratura, onorato dall'omaggio affettuoso di Alphonse Daudet, di Zola, di Guy de Maupassant, del cui talento narrativo Flaubert può dirsi lo scopritore e il valorizzatore primo. Ridotto quasi in miseria, aveva accettato non senza riluttanza un sussidio governativo, ottenutogli per l'amabile interessamento degli amici parigini. L'8 maggio 1880 un malore improvviso lo stroncava. L'avventura umana e creativa di uno dei massimi autori dei tempi moderni, che aveva sempre considerato la felicità «una mania mediocre e pericolosa», si chiudeva seccamente. Flaubert non aveva ancora sessant'anni, e la propria ipotesi di felicità l'aveva affidata esclusivamente, e per sempre, ai destini irrisolti dei suoi personaggi tragici. L'OPERA E da dire innanzitutto che un documento fondamentale, ricco al pari di una miniera, per entrare nella vita e nel sistema delle idee estetiche di Flaubert, è la Correspondance (9 volumi, Parigi 1926-33). Nel 1954 sono usciti a Parigi quattro volumi di Correspondance inèdite. Esistono traduzioni parziali in italiano: Corrispondenza (due voli.), Lanciano, Carabba, 1931; Lettere, Torino, Einaudi, 1949. Tradotte anche le Lettere a Luisa Colet (Milano, 1945). La prima edizione completa delle opere di Flaubert, in 10 voli., è stata pubblicata nel 1874-75 (Oeuvres); per il centenario della nascita sono apparse le Oeuvres complètes ìllustrées (14 voli., a cura di Albert Thibaudet e René Dumesnil, Parigi 1921-25). Tutte le opere flaubertiane hanno avuto incessantemente traduzioni italiane presso gli editori Mondadori, Einaudi, Editori Riuniti, Il Saggiatore, Sansoni e altri. La traduzione più recente dei Tre racconti è dovuta a Roberta Maccagnani («Oscar Classici», Mondadori, 1990). Una traduzione autorevole è quella di Lalla Romano (Einaudi, 1980) e di Camillo Sbarbaro, proposta da Scheiwiller nel 1987. Da ricordare infine la traduzione dovuta a Eugenia Scarpellini («I grandi libri», Garzanti, 1974), con una introduzione di Giovanni Giudici. La Newton Compton ha pubblicato Madame Bovary, trad. di Ottavio Cecchi, intr. di Mario Lunetta, 1994. 16 NOTA BIOBIBLIOGRAFICA Principali articoli e studi su Flaubert: R. DUMESNIL, Flaubert, son hérédité, son milieu, sa méthode, Paris, Société Frangaise d'Imprimerie et de Librairie, 1906. A. THIBAUDET, «Sur le style de Flaubert», in Nouvelle Revue Frangaise, marzo 1919, pp. 942-53. M. PROUST, «A propos du style de Flaubert», in Nouvelle Revue Frangaise, 1 gennaio 1920, poi in Chroniques, Paris, Editions de la Nouvelle Revue Francaise, 1927 (trad. it. in Giornale di lettura, Torino, Einaudi 1958). G. AUERBACH, Mimesis (cap. xvm), Berna, Francke, 1946 (trad. it. Mimesis, Torino, Einaudi 1956). A. COLLING, Gustave Flaubert, Paris, Arthème Fayard, 1947. R. BARTHES, «L'artisan du style», in Le degré zèro de l'écriture, Paris, Seuil 1953 (trad. it. Il grado zero della scrittura, Einaudi, Torino 1967). v. BROMBERT, The Novels of Flaubert, Princeton, University Press 1966. G. GENETTE, «Silences de Flaubert», in Figures, Paris, Seuil 1966 (trad. it. Figure. Retorica e strutturalismo, Torino, Einaudi 1969, pp. 203-22). M. BLANCHOT, L'entretien infini, Paris, Gallimard, 1969, pp. 487-95 (trad. it. L'infinito intrattenimento, Torino, Einaudi, 1977). TRE RACCONTI i Un cuore semplice I. Per mezzo secolo, le borghesi di Pont-1'Évèque invidiarono alla signora Aubain la sua domestica Félicité. Per cento franchi all'anno cucinava e badava alla casa, cuciva, lavava, stirava, sapeva imbrigliare un cavallo, ingrassare il pollame, montare il burro, e rimase fedele alla sua padrona, che da parte sua non era una persona facile. La signora Aubain aveva sposato un giovane bello ma spiantato, che era morto all'inizio del 1809, lasciandole due figli ancora in tenera età e una quantità di debiti. Fu allora costretta a vendere le sue proprietà, tranne la fattoria di Toucques e quella di Geffosses, le cui rendite ammontavano a non più di cinquemila franchi, e lasciò la sua casa di Saint-Melaine per andare ad abitare in un'altra meno dispendiosa, che era appartenuta ai suoi antenati e si trovava dietro il mercato. Questa casa, rivestita di ardesia, si trovava tra un passaggio e una stradina che portava al fiume. Internamente c'erano dislivelli che facevano inciampare. Uno stretto ingresso separava la cucina dalla sala, dove la signora Aubain se ne stava tutto il giorno seduta accanto alla finestra in una sedia impagliata. Contro la parete intonacata erano allineate otto sedie di mogano. Un vecchio pianoforte sopportava, sotto un barometro, il peso di una catasta piramidale di scatole e di cartoni. Due poltroncine rivestite di stoffa erano disposte ai due lati del camino di marmo giallo, stile Luigi xv. La pendola, al centro, rappresentava il tempio di Vesta, e in tutto l'appartamento c'era un odore di muffa, perché il pavimento era più basso del giardino. Al primo piano c'era innanzitutto la camera della «Signora», grandissima, con una carta a fiori d'un colore pallido, nella quale spiccava il ritratto del «Signore» in costume da moscardino. Comunicava con una camera più piccola, dove si trovavano due lettini, senza materasso. Seguiva il salotto, sempre chiuso, pieno di 20 TRE RACCONTI mobili coperti di lenzuola. Quindi un corridoio conduceva a uno studio; libri e scartoffie riempivano gli scaffali di una biblioteca che circondava su tre lati un vasto scrittoio di legno scuro. Il resto delle pareti spariva sotto disegni a sanguigna, pastelli di paesaggi e stampe di Audran, ricordi di un tempo migliore e di un lusso svanito. Al secondo piano la stanza di Félicité prendeva luce da un abbaino che affacciava sul prato. Si alzava all'alba, per non perdere la messa, e lavorava fino a sera senza fermarsi un istante; poi, terminata la cena, messe in ordine le stoviglie e sprangata la porta, sepolto il ceppo nel camino con la cenere, si addormentava davanti al focolare con il rosario in mano. Nessuno era più ostinato di lei nel mercanteggiare. Quanto a pulizia, lo scintillio delle sue pentole costituiva la disperazione delle altre domestiche. Economa, mangiava lentamente e con un dito raccoglieva sulla tavola le briciole del suo pane - un pane da dodici libbre, cotto apposta per lei, e che durava venti giorni. In qualunque stagione portava un fazzoletto di cotone appuntato sulla schiena con una spilla, una cuffia che le nascondeva i capelli, calze grigie, una sottana rossa, e sopra la camicetta un grembiule con la pettorina, come le infermiere dell'ospedale. Il suo viso era magro e la sua voce acuta. A venticinque anni gliene davano quaranta. Superata la cinquantina, non dimostrò più alcuna età; sempre silenziosa, la postura diritta e i gesti misurati, sembrava una donna di legno che funzionasse in modo automatico. II. Anche lei aveva avuto, come chiunque altro, la sua storia d'amore. Suo padre, un muratore, era morto precipitando da un'impalcatura. Successivamente morì anche sua madre, le sue sorelle si dispersero; un fattore la prese con sé e la mise, piccina com'era, a badare alle vacche in campagna. Batteva i denti dal freddo nei suoi miseri Straccetti, beveva carponi l'acqua degli stagni, per un niente veniva picchiata, e alla fine fu cacciata per un furto di trenta soldi che neppure aveva commesso. Entrò in un'altra fattoria, dove accudiva agli animali da cortile, e, dato che era simpatica ai padroni, suscitò le gelosie dei compagni. Una sera d'agosto (allora aveva diciotto anni), la trascinarono con loro alla festa di Colleville. D'improvviso si sentì smarrita, stupefatta dal chiasso dei musicanti, dalle luci negli alberi, dai UN CUORE SEMPLICE 21 costumi variopinti, dai merletti, dalle croci d'oro, da tutta quella gente saltellante. Si teneva modestamente da parte, quando un giovanotto dall'apparenza facoltosa e che fumava la pipa con i gomiti sul timone di un carro, le si avvicinò per invitarla a ballare. Le pagò da bere, sidro e caffè, poi una focaccia, un fazzoletto di seta, quindi, immaginando che lei se lo aspettasse, si offrì di riaccompagnarla. Sul limitare di un campo di avena, la rovesciò brutalmente al suolo. Félicité si impaurì e cominciò a gridare. Il giovanotto si allontanò. Un'altra sera, sulla strada di Beaumont, volle superare un grosso carro carico di fieno che avanzava lentamente, e sfiorando le ruote riconobbe Théodore. Lui la avvicinò tranquillamente, dicendo che bisognava perdonare, perché «era colpa del vino». Lei non seppe che cosa rispondere; aveva voglia di fuggire. Subito dopo il giovane cominciò a parlare del raccolto e dei notabili del comune, del fatto che suo padre aveva abbandonato Colleville per la tenuta degli Écots, dimodoché ora si trovavano a essere vicini. «Ah!», rispose Félicité. Théodore aggiunse che i suoi volevano che si sistemasse. Del resto, lui non aveva fretta e aspettava di incontrare una ragazza che gli andasse a genio. Lei abbassò la testa. Lui allora le chiese se pensasse al matrimonio. Félicité replicò sorridendo che non era giusto prenderla in giro. «Ma no, ve lo giuro!», e con il braccio sinistro le cinse la vita; lei continuava a camminare, sostenuta dal suo abbraccio; rallentarono. Il vento era debole, le stelle brillavano, l'enorme carico di fieno oscillava davanti a loro, e i quattro cavalli, scalpitando, sollevavano la polvere. Poi i due, senza preavviso, girarono a destra. Lui la abbracciò ancora una volta. Félicité scomparve nell'ombra. La settimana seguente, Théodore ottenne qualche appuntamento. Si incontravano in fondo a un cortile, dietro un muro, sotto un albero isolato. Lei non era poi così innocente come le signorine di buona famiglia: gli animali l'avevano istruita; ma il buon senso e l'istinto dell'onore le impedirono di capitolare. Questa resistenza esasperò l'amore di Théodore, al punto che, per soddisfarlo (o forse per pura ingenuità), le propose di sposarla. Lei esitava a credergli. Lui si profuse in giuramenti. Presto Théodore finì per confessare qualcosa di spiacevole; i suoi genitori, l'anno precedente, avevano «comprato» un uomo perché prestasse servizio militare al suo posto; ma da un giorno all'altro poteva essere richiamato, e l'idea della leva lo terroriz- 22 TRE RACCONTI zava. Questa codardia fu per Félicité una prova di tenerezza, e la spinse a raddoppiare la sua. Scappava di notte e, arrivata all'appuntamento, Théodore la torturava con le sue ansie e le sue istanze. Finalmente, le annunciò che sarebbe andato di persona in Prefettura per prendere informazioni, che le avrebbe riferito la domenica successiva, tra le undici e mezzanotte. Quando arrivò il momento, Félicité corse verso il suo innamorato. Al suo posto trovò un suo amico. Questi le disse che Félicité non doveva più rivederlo. Per sfuggire alla leva, Théodore aveva sposato una donna anziana e ricchissima di Toucques, la signora Lehoussais. Fu un dolore sconvolgente. Félicité si gettò per terra, gridò, implorò il buon Dio, e continuò a gemere, tutta sola in mezzo alla campagna, fino all'alba. Poi tornò alla fattoria e comunicò la sua intenzione di andarsene; un mese dopo, saldati i suoi conti, raccolse tutto il suo piccolo bagaglio in un fazzoletto e si diresse verso Pont-1'Évèque. Davanti alla locanda interrogò una signora con una veletta da vedova, che per l'appunto cercava una cuoca. La ragazza non sapeva fare molto, ma sembrava così piena di buona volontà e di così poche pretese che la signora Aubain finì per dire: «Va bene, vi assumo!». Un quarto d'ora dopo, Félicité si era sistemata in casa Aubain. In principio visse in una sorta di soggezione provocatale dal «genere della casa» e dal ricordo del «Signore» che aleggiava ovunque! Paul e Virginie, l'uno di sette, l'altra di appena quattro anni, le sembravano fatti di una materia preziosa; li portava sulla schiena come un cavallo, e la signora Aubain le proibì di baciarli continuamente, cosa che la mortificò. Ciononostante si sentiva felice. La mitezza di quell'ambiente aveva fatto svanire la sua tristezza. Tutti i giovedì, gli assidui della casa venivano a fare una partita di «boston». Félicité preparava in anticipo le carte e gli scaldapiedi. Arrivavano alle otto in punto, e si congedavano sempre prima che suonassero le undici. Ogni lunedì mattina, il rigattiere che abitava sotto nel viale metteva in mostra per terra le sue ferraglie. La città si riempiva di un ronzio di voci, in cui i nitriti dei cavalli, il belare degli agnelli, i grugniti dei maiali si mescolavano con gli strepiti dei carri sulle strade. Verso mezzogiorno, momento culminante del mercato, si vedeva comparire sulla soglia di casa un contadino alto, col berretto all' indietro e il naso aquilino: era Robelin, il fattore di Gef- UN CUORE SEMPLICE 23 fosses. Poco dopo era la volta di Liébard, il fattore di Toucques, piccolo, rosso in volto, grasso, con indosso un vestito grigio e gambali armati di speroni. Tutti e due offrivano alla proprietaria polli e formaggi. Félicité sventava invariabilmente le loro astuzie, e i fattori se ne andavano pieni di considerazione per lei. A epoche indeterminabili, la signora Aubain riceveva la visita del marchese di Gremanville, uno zio rovinato dalla crapula e che viveva a Falaise nell'ultimo fazzoletto di terra che gli era rimasto. Si presentava sempre all'ora di pranzo, con un orrendo barboncino le cui zampe insudiciavano tutti i mobili. Malgrado i suoi sforzi per sembrare un gentiluomo, al punto di togliersi il cappello ogni volta che diceva: «Il mio defunto padre», le cattive abitudini lo vincevano, non perdeva occasione per versarsi da bere e si lasciava sfuggire frasi indecenti. Félicité lo spingeva fuori educatamente: «Per oggi basta così, signor di Gremanville! Alla prossima volta!». E richiudeva la porta. Ma la apriva con piacere davanti al signor Bourais, un avvocato a riposo. La sua cravatta bianca e la sua calvizie, la «lattuga» della sua camicia, la sua ampia finanziera marrone, il suo modo di fiutare tabacco curvando il braccio, tutta la sua persona producevano in lei quel turbamento in cui ci getta lo spettacolo degli uomini straordinari. Poiché amministrava le proprietà della «Signora», si chiudeva con lei per ore nello studio del «Signore», temeva sempre di compromettersi, nutriva un infinito rispetto per la magistratura e aveva qualche pretesa di latinista. Per istruire in modo piacevole i bambini, fece loro dono di un atlante geografico illustrato, dove erano raffigurate scene di tutto il mondo, antropofagi con copricapi di piume, una scimmia nell'atto di rapire una fanciulla, beduini nel deserto, una balena sul punto di essere arpionata e così via. Paul spiegò quelle stampe a Félicité. Questa fu tutta la sua educazione letteraria. Quella dei bambini era curata da Guyot, un povero diavolo impiegato al municipio, famoso per la sua bella calligrafia, e che affilava il suo temperino sugli stivali. Quando il tempo era bello, si partiva di buon'ora in direzione della fattoria di Geffosses. Il cortile era in discesa, e la casa era nel mezzo; in lontananza si scorgeva il mare, come una macchia grigia. Félicité estraeva dalla sporta fette di carne fredda, e si pranzava in un locale attiguo alla latteria. Era quanto restava di una villa di campagna ormai scomparsa. La carta alle pareti, in brandelli, 24 TRE RACCONTI tremava alla minima corrente d'aria. La signora Aubain stava a fronte china, oppressa dai ricordi; i bambini non osavano più dire una parola. «Su, andate a giocare!», diceva; loro non se lo facevano ripetere due volte. Paul saliva sul granaio, acciuffava gli uccelli, faceva rimbalzare i sassolini sullo stagno, oppure percuoteva con un bastone le grosse botti che risuonavano come tamburi. Virginie dava da mangiare ai conigli, si precipitava per cogliere i fiordalisi e la rapidità delle sue gambe scopriva le sue mutandine ricamate. Una sera d'autunno si ritornò per i pascoli. La luna, al suo primo quarto, illuminava una parte del cielo, e la nebbia fluttuava come una sciarpa sul sinuoso paesaggio di Toucques. I buoi, distesi in mezzo ai prati, guardavano tranquillamente quei quattro individui che passavano. Al terzo pascolo alcuni si alzarono, quindi circondarono il gruppetto. «Non abbiate paura!», disse Félicité; e, mormorando una sorta di nenia, accarezzò sul dorso quello che si trovava più vicino; l'animale fece un voltafaccia e gli altri lo imitarono. Ma, superato il pascolo successivo, si alzò un formidabile muggito. Era un toro, nascosto dalla nebbia. Avanzò verso le due donne. La signora Aubain stava per mettersi a correre. «No! no! più piano!» Nondimeno affrettarono il passo, sentendo alle loro spalle uno soffio sonoro che si avvicinava. I suoi zoccoli, come martelli, battevano l'erba del pascolo; ora galoppava! Félicité si girò, e afferrò a due mani delle zolle di terra che gettò negli occhi del toro. Quest'ultimo chinava il muso, scuoteva le corna e tremava di furore muggendo orribilmente. La signora Aubain, al limite del pascolo con i due piccoli, presa dal panico cercava di valicare il fossato. Félicité continuava a indietreggiare davanti al toro, e non smetteva di scagliare zolle di prato per accecarlo, gridando: «Sbrigatevi! sbrigatevi!». La signora Aubain oltrepassò il fossato, spinse Virginie, poi Paul, cadde parecchie volte nel tentativo di scalare la scarpata e, incalzata dalla paura, alla fine ci riuscì. Il toro aveva stretto Félicité contro una staccionata; la sua bava schizzava sul volto della poveretta, un secondo di più e l'avrebbe sventrata. La donna ebbe il tempo di incunearsi tra due pali e il bestione, rimasto di stucco, si fermò. Quell'avventura, per anni e anni, fu argomento di conversazione a Pont-PÉvèque. Félicité non ne trasse alcun motivo di vanto, ritenendo di non aver fatto nulla di eroico. Virginie la assorbiva quasi completamente, giacché a seguito di quello spavento ebbe una malattia nervosa, e il dottor Poupart consigliò dei bagni di mare a Trouville. UN CUORE SEMPLICE 25 A quel tempo non erano ancora molto frequentati. La signora Aubain prese informazioni, consultò Bourais, fece preparativi come per un lungo viaggio. I bagagli partirono con un giorno di anticipo, con il carro di Liébard. Il giorno seguente questi portò con sé due cavalli, uno dei quali aveva una sella da donna, munita di uno schienale di velluto; un mantello arrotolato sulla groppa del secondo formava una specie di seggio. La signora Aubain vi montò, dietro di lui. Félicité prese con sé Virginie, mentre Paul inforcò l'asino di Lechaptoir, ottenuto in prestito a patto di averne gran cura. La strada era così cattiva che i suoi otto chilometri richiesero due ore. I cavalli affondavano nel fango fino ai pasturali, e per uscirne provocavano bruschi scossoni con i fianchi, oppure inciampavano nelle carreggiate; altre volte erano costretti a saltare. La giumenta di Liébard in certi punti si fermava di colpo. Lui attendeva pazientemente che l'animale si rimettesse in marcia, e parlava di persone le cui proprietà costeggiavano la strada, aggiungendo alla loro storia le sue riflessioni morali. Così, in mezzo a Théodore, mentre passavano sotto finestre circondate di cappucciati, Liébard disse alzando le spalle: «Ecco qua la signora Lehoussais, che invece di prendersi un giovanotto...». Félicité non udì il resto; i cavalli trottavano, l'asino galoppava; tutti imboccarono un sentiero, si aprì un cancello, apparvero due ragazzi, e si smontò di cavallo davanti al letamaio, proprio sulla soglia della porta. La vecchia Liébard, vedendo la sua padrona, si profuse in dimostrazioni di gioia. Le servì un pranzo a base di lombo di bue, trippa, sanguinaccio, fricassea di pollo, sidro spumante, torta di frutta e prugne sotto spirito, accompagnando il tutto con una serie di complimenti alla «Signora» che sembrava in ottima salute, alla «Signorina» divenuta magnifica, al signorino Paul, singolarmente «sviluppato», senza dimenticare i defunti nonni, che i Liébard avevano conosciuto, essendo al servizio della famiglia da parecchie generazioni. La fattoria aveva, come loro, un che di antico. Le travi del tetto erano tarlate, le pareti nere di fumo, le finestre grigie di polvere. Una scansia di rovere sopportava ogni genere di utensili, brocche, piatti, scodelle di stagno, trappole per lupi, cesoie per tosare le pecore; un'enorme siringa fece ridere i ragazzi. Non c'era un albero nei tre cortili che non avesse una fungaia alla base o un ciuffo di vischio sui rami. Il vento ne aveva abbattuti parecchi. Ma altri si erano ripresi nel mezzo, e tutti erano piegati dal peso dei frutti. I tetti di paglia, simili a un velluto bruno e di ineguale spessore, resistevano alle più forti bufere. Ciononostante la rimessa andava in rovina. La signora 26 TRE RACCONTI Aubain disse che avrebbe provveduto, e ordinò di equipaggiare nuovamente i cavalli. Ci volle un'altra mezz'ora per arrivare a Trouville. La piccola carovana fu appiedata per superare le Écores, una scogliera a strapiombo sul mare; tre minuti più tardi, in fondo al molo, entrarono nel cortile dell'Agnello d'oro, dalla vecchia David. Virginie, fin dai primi giorni, si sentì meno debole: era il risultato del cambiamento d'aria e dell'azione dei bagni. In mancanza di un costume, li faceva in camicia; Félicité la rivestiva in un capanno dei doganieri utilizzato dai bagnanti. Nel pomeriggio si andava con l'asino oltre le Rocce Nere, dalla parte di Hennequeville. Dapprima il sentiero si inerpicava in mezzo a terreni avvallati come i prati di un parco, quindi arrivava su un altopiano dove si alternavano pascoli e campi coltivati. Sul limitare del sentiero, nel folto dei rovi, cresceva l'agrifoglio; qua e là, un grande albero morto formava zigzag con i rami nell'aria azzurra. Quasi sempre ci si riposava su una radura, avendo Deauville a destra, Le Havre a sinistra e di fronte il pieno mare. Era scintillante di sole, liscio come uno specchio, talmente calmo che se ne avvertiva appena il mormorio; qualche passero nascosto negli alberi pigolava, e tutto era ricoperto dalla volta immensa del cielo. La signora Aubain, seduta, era assorta nel suo lavoro di cucito; Virginie, al suo fianco, intrecciava giunchi; Félicité sarchiava fiori di lavanda; Paul si annoiava e voleva tornare. Altre volte, superata la Toucques in battello, andavano in cerca di conchiglie. La bassa marea lasciava nella secca ricci di mare, pesci rossi, meduse; i ragazzi correvano per acciuffare i fiocchi di schiuma trasportati dal vento. Le onde addormentate, ricadendo sulla sabbia, si esaurivano sul bagnasciuga; la spiaggia si estendeva a perdita d'occhio, ma dalla parte della terra era delimitata dalle dune che la separavano dal Marais, vasta prateria a forma di ippodromo. Quando tornavano, Trouville, in fondo, ai piedi del poggio, ingrandiva a ogni passo, e con tutte le sue case ineguali sembrava sbocciare in un allegro disordine. Nei giorni in cui faceva troppo caldo non uscivano dalla stanza. L'abbagliante chiarore dell'esterno stagliava barre di luce tra le doghe delle persiane. Non un rumore in paese. In basso, sul marciapiede, non c'era anima viva. Quel silenzio diffuso aumentava la tranquillità delle cose. In lontananza, i martelli dei calafati riparavano le carene, e una pesante brezza portava l'odore del catrame. Il principale divertimento era il ritorno delle barche. Non appena oltrepassate le boe, cominciavano a bordeggiare. Le loro vele UN CUORE SEMPLICE 27 erano ammainate ai due terzi degli alberi e, con il trinchetto gonfio come un pallone, avanzavano, scivolavano nello sciabordio delle onde, finché non si trovavano in pieno porto, dove bruscamente veniva gettata l'ancora. Dopodiché l'imbarcazione si ormeggiava lungo il molo. I marinai scaraventavano sull'argine pesci ancora palpitanti; una schiera di carretti li attendeva, e donne coperte di cuffie si precipitavano a prendere le ceste e ad abbracciare i loro uomini. Una di queste, un giorno, avvicinò Félicité, che poco dopo entrò in casa tutta raggiante. Aveva ritrovato sua sorella; subito dopo apparve Nastasie Barette, maritata Leroux, con un poppante al seno, un altro figlio nella mano destra e nella sinistra un piccolo mozzo con i pugni sui fianchi e il berretto su un orecchio. Un quarto d'ora dopo, la signora Aubain la congedò. Si incontravano spesso dalle parti della cucina, o durante la passeggiata. Il marito non si faceva mai vedere. Félicité si affezionò alla famiglia. Comprò loro una coperta, delle camicie, un fornello; evidentemente la sfruttavano. Questa sua debolezza irritava la signora Aubain, che del resto non gradiva le familiarità del nipote - dava del tu a suo figlio - e, dal momento che Virginie cominciava a tossire e la bella stagione era finita, tornò a Pont-1'Évèque. Il signor Bourais la indottrinò sulla scelta di un collegio. Quello di Caen era considerato il migliore. Paul vi fu iscritto, e salutò tutti coraggiosamente, soddisfatto di andare a vivere in una casa dove avrebbe avuto dei compagni. La signora Aubain si rassegnò alla lontananza di suo figlio, che del resto era indispensabile. Virginie ci pensò sempre meno. Félicité rimpiangeva i suoi schiamazzi. Ma fu distratta da una nuova occupazione; a partire da Natale, accompagnò tutti i giorni la piccina al catechismo. III. Dopo essersi genuflessa sulla porta, Félicité avanzava nella navata principale tra le due file di sedie, apriva il banco della signora Aubain, si sedeva e non smetteva di guardarsi attorno. I ragazzi a destra, le fanciulle a sinistra riempivano gli stalli del coro; il parroco stava in piedi vicino al leggio; in una vetrata dell'abside, lo Spirito Santo sovrastava la Vergine; un'altra la mostrava in ginocchio davanti a Gesù Bambino e, dietro il tabernacolo, una scultura lignea rappresentava san Michele che abbatte il drago. II sacerdote cominciò con un passo delle Sacre Scritture. Félici- 28 TRE RACCONTI té credeva di vedere il paradiso, il diluvio, la torre di Babele, città in fiamme, popoli che morivano, idoli rovesciati; di quell'abbacinamento serbò il rispetto verso l'Altissimo e il timore della sua collera. Poi, ascoltando la Passione, pianse. Perché lo avevano crocifisso, lui che amava i bambini, nutriva le folle, guariva i ciechi, e aveva voluto, per umiltà, nascere in mezzo ai poveri, nel letame di una stalla? Le mietiture, i frantoi, le semine, tutte queste cose familiari di cui parla il Vangelo, erano ben presenti nella sua vita; il passaggio di Dio le aveva santificate; Félicité amò più teneramente gli agnelli per amore dell'Agnello di Dio e le colombe grazie allo Spirito Santo. Di quest'ultimo stentava a concepire le sembianze; infatti non era solo uccello, ma anche fuoco, e talvolta semplice soffio. E forse sua è la luce che volteggia di notte ai bordi delle paludi, suo l'alito che spinge le nubi, sua la voce che rende armoniose le campane; così Félicité restava in adorazione, godendo della freschezza delle mura e della tranquillità della chiesa. Quanto ai dogmi, non ne capiva un bel niente, né si affaticava troppo per penetrarli. Il parroco parlava, i bambini recitavano le preghiere, lei finiva per addormentarsi; si risvegliava di soprassalto, quando gli altri, andandosene, facevano risuonare il pavimento con gli zoccoli. Fu così che, a furia di ascoltare, imparò il catechismo, dal momento che la sua educazione religiosa era stata molto trascurata in gioventù; da allora imitò tutte le pratiche di Virginie, digiunò come loro e si confessò con lei. Per il Corpus Domini fecero insieme un repositorio. La prima comunione la tormentò con molto anticipo. Entrò in agitazione per le scarpette, per il cappellino, per il libro, per i guanti. Con quale emozione aiutò sua madre a vestirla! Per tutta la messa provò angoscia. Il signor Bourais le nascondeva una parte del coro; ma proprio di fronte, la schiera delle vergini inghirlandate di bianco sopra i loro veli abbassati, formava come un campo di neve; da lontano riconosceva la sua piccola Virginie dal collo così leggiadro e dall'atteggiamento raccolto. Suonò la campanella. Le teste si chinarono; vi fu un silenzio. Al tuonare dell'organo, i cantori e la folla dei fedeli intonarono l'Agnus Dei; poi cominciò la sfilata dei ragazzi e, dopo di loro, si alzarono le fanciulle. Passo dopo passo, a mani giunte, procedevano verso l'altare tutto illuminato, si genuflettevano sul primo gradino, quindi ricevevano l'ostia e nello stesso ordine tornavano al loro inginocchiatoio. Quando fu il turno di Virginie, Félicité si sporse per vederla; e, con l'immaginazione che solo la vera tenerezza può dare, le sembrò di essere lei stessa quella bambina; la UN CUORE SEMPLICE 29 figura di Virginie diveniva la sua, il suo abitino la vestiva, il suo cuore batteva forte nel petto di Félicité; al momento di aprire la bocca e di ricevere l'ostia, Félicité chiuse le palpebre e per poco non svenne. L'indomani, di buon'ora, si presentò in sacrestia per ricevere la comunione dal parroco. La prese con devozione, ma non provò le stesse delizie. La signora Aubain voleva fare di sua figlia una persona ben istruita e, dal momento che Guyot non poteva insegnarle né la musica né l'inglese, decise di metterla a pensione dalle Orsoline di Honfleur. La bambina non ebbe nulla da obiettare. Félicité sospirava, trovava la signora insensibile. Ma poi pensò che forse la sua padrona aveva ragione. Erano cose che andavano oltre le sue competenze. Finalmente, un giorno, una vecchia carrozza si fermò davanti alla porta; ne discese una suora che veniva a prendere la signorina. Félicité caricò i bagagli sull'imperiale, si raccomandò al vetturino, mise nel cofano sei vasi di marmellata e una dozzina di pere, con un mazzo di violette. Virginie, all'ultimo momento, fu presa da grandi singhiozzi; abbracciava sua madre, che la baciava sulla fronte ripetendole: «Su! coraggio! coraggio!». Alzarono il predellino, e la carrozza partì. Allora la signora Aubain ebbe un cedimento; quella sera tutti gli amici, i Lormeau, la signorina Lechaptois, le signorine Rochefeuille, il signor di Houppeville e il signor Bourais si presentarono per consolarla. In principio rinunciare a sua figlia fu per lei molto doloroso. Ma tre volte alla settimana ne riceveva una lettera, gli altri giorni le scriveva, passeggiava in giardino, leggeva un po', e in questo modo colmava il vuoto delle ore. Al mattino, per abitudine, Félicité entrava nella camera di Virginie e guardava le pareti. Si annoiava perché non doveva più pettinarle i capelli, allacciarle le scarpette, rincalzarle la coperta, perché non vedeva più continuamente la sua gentile figura, perché non la teneva per mano quando uscivano insieme. Trovatasi senza occupazioni, tentò di fare qualche merletto. Le sue dita troppo pesanti rompevano i fili; non capiva più niente, aveva perduto il sonno, era «minata», come diceva lei. Per «distrarsi un po'», chiese il permesso di ricevere visite da suo nipote Victor. Arrivava la domenica dopo la messa, rubizzo in volto, a petto nudo, portando con sé l'odore della campagna che aveva attraversato. Lei apparecchiava immediatamente la tavola. Pranzava- 30 TRE RACCONTI no l'uno di fronte all'altra e, poiché Félicité mangiava il meno possibile per tenere in serbo la dispensa, lo ingozzava di cibo a tal punto che il ragazzo finiva per addormentarsi. Al primo rintocco del vespro lei lo svegliava, gli spazzolava i pantaloni, gli annodava la cravatta, e andava in chiesa a braccetto con lui, piena di un orgoglio materno. I genitori lo incaricavano sempre di portare indietro qualcosa, un pacchetto di zucchero, un pane di sapone, un po' di acquavite, talvolta addirittura del denaro. Portava i suoi panni logori da raccomodare, e Félicité accettava l'incombenza, felice di avere un'occasione per farlo tornare. Nel mese di agosto suo padre lo portò con sé in barca. Era l'epoca delle vacanze. Il ritorno dei bambini la consolò. Ma Paul si era fatto capriccioso, e Virginie non aveva più l'età per essere trattata confidenzialmente. Questo creava una specie di disagio, una barriera tra loro. Victor andò successivamente a Morlaix, a Dunkerque, a Brighton; al ritorno da ogni viaggio, aveva sempre un regalo per lei. La prima volta fu una scatola coperta di conchiglie; la seconda una tazzina da caffè; la terza, un pupazzo di pan pepato. Si faceva più bello, più robusto, aveva un paio di baffetti, uno sguardo buono e sincero e un cappello di cuoio, portato all' indietro come un pilota. La divertiva raccontandole storie intercalate di termini marinareschi. Un lunedì, era il 14 luglio 1819 (Félicité non dimenticò mai la data), Victor le disse che aveva avuto un contratto per un imbarco a lungo termine, e che, di lì a due notti, avrebbe raggiunto con il battello di Honfleur la sua goletta, che doveva salpare da Le Havre prossimamente. Forse sarebbe rimasto fuori per due anni. La prospettiva di un'assenza tanto prolungata costernò Félicité, e per salutarlo ancora una volta, quel mercoledì sera, dopo la cena della Signora, si infilò le soprascarpe e divorò le quattro leghe che separano Pont-1'Évèque da Honfleur. Quando giunse davanti al Calvaire, invece di prendere a sinistra andò a destra; si smarrì nei cantieri, tornò sui suoi passi; certa gente incontrata strada facendo le disse che doveva spicciarsi. Fece il giro della darsena piena di navi, urtò gli ormeggi; poi il terreno cominciò a prendere una pendenza verso il basso, le luci si incrociarono, e Félicité credette di essere impazzita vedendo dei cavalli in cielo. Sul molo ce n'erano altri che nitrivano, spaventati dal mare. Un paranco li sollevava e li depositava nell'imbarcazione, dove i viaggiatori si accalcavano tra i fusti di sidro, i panieri di formaggio e i sacchi di frumento; si sentivano cantare i galli, il capitano UN CUORE SEMPLICE 31 bestemmiava; c'era un mozzo che, indifferente a tutto questo, se ne stava con i gomiti sul parapetto. Félicité, che dapprincipio non lo aveva riconosciuto, gridava: «Victor!». Alzò la testa; lei si lanciò, ma d'improvviso ritirarono la passerella. Il battello, che le donne alavano cantando, uscì dal porto. La chiglia scricchiolava, pesanti onde frustavano la prua. Poi la vela virò e non si vide più nessuno; sul mare argentato dalla luna, la nave formava una macchia nera che impallidiva sempre più, finché s'inabissò e scomparve. Félicité, passando davanti al Calvaire, volle raccomandare a Dio quanto aveva di più caro; pregò a lungo, in piedi, il viso inondato di lacrime, gli occhi verso le nuvole. La città dormiva, i doganieri erano di ronda, l'acqua precipitava ininterrottamente dalle bocche della chiusa, con un rumore di torrente. Suonarono le due. Il parlatorio non sarebbe stato aperto prima dell'alba; un ritardo avrebbe di certo contrariato la Signora; ma nonostante il suo desiderio di abbracciare Virginie, tornò a casa. Le cameriere della locanda si svegliavano quando Félicité entrò a Pont-1'Évéque. Quel povero ragazzo sarebbe dunque stato per mesi in balia delle onde! I suoi viaggi precedenti non l'avevano spaventata; dall'Inghilterra, dalla Bretagna si tornava; ma l'America, le Colonie, le Isole, erano qualcosa di sperduto in una regione incerta, all'altro capo del mondo. Da allora, Félicité pensò esclusivamente a suo nipote. Nei giorni di sole era tormentata dall'idea che soffrisse la sete; quando c'era tempesta, temeva i fulmini. Ascoltando il vento che brontolava nel camino e portava via le tegole, lo vedeva battuto da quella stessa tempesta, in cima a un albero fracassato, con il corpo all' indietro sotto un getto di schiuma; oppure - reminiscenza dell'atlante illustrato - era mangiato dai selvaggi, rapito in una foresta dalle scimmie, moriva su una spiaggia deserta. Delle sue inquietudini non parlava con nessuno. La signora Aubain ne nutriva altre a causa di sua figlia. Le brave suore trovavano che era affettuosa, ma cagionevole. La minima emozione la affaticava. Dovette rinunciare al pianoforte. Sua madre esigeva dal convento una corrispondenza regolare. Un mattino che il portalettere non era venuto, si spazientì; faceva su e giù nella stanza, dalla poltrona alla finestra. Era davvero straordinario! Da quattro giorni, nessuna notizia! Per consolarla con il suo esempio, Félicité le disse: «Io, Signora, non ne ricevo da sei mesi!...». «E da chi?...» 32 TRE RACCONTI La serva replicò bonariamente: «Ma... da mio nipote!». «Ah! vostro nipote!» E, scrollando le spalle, ricominciò la sua passeggiata, come a dire: «E chi ci pensava!... E poi, che volete che me ne importi! Un mozzo, un pezzente, bell'affare!... mentre mia figlia... Pensate un po'!...». Félicité, benché cresciuta in mezzo alle asprezze, si indignò contro la Signora, ma poi dimenticò. Le sembrava naturalissimo che si potesse perdere la testa per via della piccina. I due ragazzi avevano per lei la stessa importanza; uno stretto legame li univa nel suo cuore, e il loro destino doveva essere comune. II farmacista le disse che la nave di Victor era giunta all'Avana. Aveva letto la notizia in un giornale locale. Per via dei sigari, Félicité immaginava L'Avana come un paese nel quale non si faceva altro che fumare, con Victor che si aggirava tra i negri in una nube di tabacco. Si poteva tornare di là via terra «in caso di bisogno»? Quanto distava da Pont-1'Évèque? Per saperlo interrogò il signor Bourais. Questi prese l'atlante, quindi cominciò a dare delucidazioni sulla longitudine; aveva un bel sorriso da pedante davanti all'aria stupefatta di Félicité. Alla fine, con il suo portalapis, indicò nelle frastagliature di una chiazza di forma ovale un punto nero, impercettibile, aggiungendo: «È qui». Lei si chinò sulla carta; quel reticolo di linee colorate le affaticava la vista senza dirle un bel nulla; dal momento che Bourais la invitava a esprimere le sue perplessità, lo pregò di mostrarle la casa in cui abitava Victor. Bourais alzò le braccia, starnutì, rise sguaiatamente; tanto candore lo mandava in visibilio, e Félicité non ne comprendeva il motivo - lei che forse si aspettava di vedere addirittura il ritratto di suo nipote, tanto la sua intelligenza era limitata! Quindici giorni dopo Liébard, come al solito all'ora del mercato, entrò in cucina e le consegnò una lettera inviatale da suo cognato. Poiché nessuno dei due sapeva leggere, Félicité dovette ricorrere alla padrona. La signora Aubain, che contava i punti del suo lavoro a maglia, lo posò accanto a sé, aprì la busta, ebbe un sussulto e, con voce bassa, con uno sguardo profondo: «Vi annunciano... una disgrazia... vostro nipote...». Era morto. Non dicevano altro. Félicité cadde su una sedia, appoggiando la testa sul tramezzo, e chiuse le palpebre, che d'improvviso si arrossarono. Poi, con la fronte bassa, le mani pendule, lo sguardo fisso, a tratti ripeteva: UN CUORE SEMPLICE 33 «Povero ragazzo! povero ragazzo!». Liébard la guardava sospirando. La signora Aubain tremava un poco. Le propose di andare a trovare sua sorella a Trouville. Félicité rispose, con un gesto, che non ce n'era bisogno. Vi fu un silenzio. Il buon Liébard giudicò opportuno ritirarsi. Allora Félicité disse: «Che cosa vuole che importi, a loro!». Chinò di nuovo la testa; macchinalmente, di tanto in tanto, sollevava i lunghi ferri da calza sul tavolo da lavoro. Nel cortile passarono alcune donne con una carretta nella quale sgocciolava un bucato. Vedendole dalla finestra, Félicité si ricordò del suo; avendolo messo a mollo il giorno prima, ora doveva sciacquarlo, sicché uscì dall'appartamento. L'asse e la tinozza erano in riva alla Toucques. Gettò sulla sponda un mucchio di camicie, si rimboccò le maniche, prese la mestola; i forti colpi che dava si sentivano fin nei giardini del circondario. I prati erano deserti, il vento agitava il fiume; nel fondo aleggiavano erbe lunghe come chiome di cadaveri a galla sull'acqua. Félicité soffocava il suo dolore, fino a sera fu coraggiosissima; ma una volta nella sua camera vi si abbandonò, gettandosi sul materasso, con il volto nel cuscino e i pugni contro le tempie. Molto più tardi venne a sapere le circostanze della fine di Victor dal suo stesso capitano. L'avevano salassato troppo all'ospedale, per la febbre gialla. Avevano dovuto tenerlo quattro medici. Era morto immediatamente, e il capo aveva detto: «Bene! ancora uno!». I suoi genitori l'avevano sempre trattato duramente. Félicité preferì non rivederli; quanto a loro, non fecero alcun tentativo, per dimenticanza, o per un incallimento da miserabili. Virginie era sempre più debole. I mancamenti d'aria, la tosse, una febbre continua e le venature agli zigomi rivelavano qualche grave malattia. Il dottor Poupart aveva consigliato un soggiorno in Provenza. La signora Aubain vi si decise; avrebbe subito ripreso sua figlia in casa, non fosse stato per il clima di Pont-PÉvèque. Si accordò con un vetturino a nolo, che la portava al convento ogni martedì. Nel giardino c'è una terrazza dalla quale si vede la Senna. Virginie vi passeggiava a braccetto con lei, sopra i pampini caduti. Talvolta il sole, attraversando le nubi, la costringeva 34 TRE RACCONTI a battere le palpebre, mentre contemplava le vele in lontananza e tutto l'orizzonte, dal castello di Tancarville fino ai fari di Le Havre. Poi ci si riposava sotto il pergolato. Sua madre si era procurata una botticella di ottimo vino di Malaga e, ridendo all'idea di essere brilla, ne beveva due dita, mai di più. Le tornarono le forze. L'autunno passò dolcemente. Félicité rassicurava la signora Aubain. Ma, una sera che era stata nei dintorni per certe commissioni, davanti all'uscio si imbatté nel calesse del dottor Poupart; era nell'ingresso. La signora Aubain si annodava il cappello. «Datemi lo scaldino, la borsa, i guanti; presto!» Virginie aveva avuto una flussione di petto; forse il caso era disperato. «Non ancora!», disse il medico, ed entrambi salirono nella vettura, sotto i fiocchi di neve che mulinavano. Tra poco sarebbe scesa la notte. Faceva un gran freddo. Félicité si precipitò in chiesa per accendere un cero. Quindi corse dietro il calesse, che raggiunse un'ora più tardi; saltò agilmente nella parte posteriore, dove si sorreggeva al passamano, quando le sorse una riflessione: «Il cortile non era chiuso! E se fossero entrati dei ladri?». Scese giù. L'indomani all'alba si presentò in casa del dottore. Era tornato e ripartito subito per la campagna. Decise allora di restare nella locanda, pensando che qualcuno avrebbe portato una lettera. Finalmente, a giorno fatto, prese la diligenza di Lisieux. Il convento si trovava in fondo a un sentiero scosceso. A metà percorso udì strani suoni, una campana a morto. «È per qualcun altro», pensò; picchiò violentemente il martello. Di lì a qualche minuto sentì uno strascicare di ciabatte, la porta si socchiuse, apparve una suora. La religiosa, con un'aria compunta, le disse che «era appena trapassata». In quel preciso istante la campana di Saint-Léonard suonò di nuovo. . Félicité arrivò al secondo piano. Dalla soglia della camera, vide Virginie distesa sulla schiena, con le mani giunte, la bocca aperta e la testa all' indietro sotto una croce nera piegata verso di lei, tra le tende immobili, meno pallide del suo volto. La signora Aubain, ai piedi del capezzale che stringeva tra le braccia, singhiozzava come fosse in agonia. La madre superiora era in piedi, sulla destra. Tre candelieri formavano macchie rosse sul canterano, e la nebbia tingeva di bianco le finestre. Alcune suore portarono via la signora Aubain. Per due notti, Félicité non lasciò la morta. Ripeteva le stesse UN CUORE SEMPLICE 35 preghiere, gettava acqua benedetta sulle lenzuola, tornava a sedersi e a contemplarla. Alla fine della prima veglia notò che il volto era diventato giallo, le labbra bluastre, il naso più sottile, gli occhi scavati. Li baciò parecchie volte, e non avrebbe provato un immenso stupore se Virginie li avesse riaperti; per simili anime il soprannaturale è una cosa semplicissima. La lavò, l'avvolse nel sudario, la calò nella bara, depose una corona, le ravviò i capelli. Erano biondi, e straordinariamente lunghi per la sua età. Félicité ne tagliò una grossa ciocca, insinuandone metà nel proprio petto, decisa a non separarsene mai più. Il corpo fu trasportato a Pont-1'Évèque, secondo le volontà della signora Aubain, che seguiva il corteo funebre in una vettura chiusa. Dopo la messa, ci vollero ancora tre quarti d'ora per arrivare al cimitero. Paul camminava in testa al corteo e singhiozzava. Dietro di lui c'era il signor Bourais, quindi i notabili del paese, le donne coperte ammantate di nero, e in ultimo Félicité. Pensava a suo nipote e, non avendo potuto rendergli quelle onoranze, si sentiva doppiamente triste, come se avessero seppellito anche lui con l'altra. La disperazione della signora Aubain fu illimitata. Dapprima si ribellò contro Dio, accusandolo di essere ingiusto per averle preso sua figlia - proprio con lei, che non aveva mai fatto del male, e la cui coscienza era pura! - Ma no! avrebbe dovuto portarla nel Mezzogiorno. Altri dottori l'avrebbero salvata! Si accusava, voleva raggiungerla, gridava in preda alla disperazione durante i suoi sogni. Soprattutto uno la ossessionava. Suo marito, vestito da marinaio, tornava da un lungo viaggio, e piangendo le diceva che aveva ricevuto l'ordine di portar via Virginie. Allora si accordavano per trovare da qualche parte un nascondiglio. Una volta tornò dal giardino sconvolta. Pochi istanti prima (indicava il luogo dove era accaduto) le erano apparsi padre e figlia, l'uno accanto all'altro; non facevano niente, e la guardavano. Per parecchi mesi restò chiusa nella sua camera, come inerte. Félicité le faceva bonariamente la predica; doveva conservarsi per suo figlio, in ricordo di «lei». «Lei?», replicava la signora Aubain, come risvegliata. «Ah! sì!... sì!... Non dimenticatela!» Alludeva al cimitero, che le avevano scrupolosamente proibito. Félicité ci andava tutti i giorni. Alle quattro precise costeggiava le case, saliva sul poggio, apriva la cancellata, e arrivava davanti alla tomba di Virginie. Era una colonnina di marmo rosa, con una lapide in basso, e attorno una 36 TRE RACCONTI ringhiera metallica che racchiudeva un giardinetto. Le aiuole sparivano sotto un letto di fiori. Félicité ne inumidiva le foglie, rinnovava la sabbia, si metteva in ginocchio per zappettare meglio la terra. La signora Aubain, quando potè venire, provò un gran sollievo, una specie di consolazione. Gli anni passarono, tutti uguali e senza avvenimenti, tranne la ricorrenza delle grandi festività: Pasqua, l'Assunzione, Ognissanti. Qualche evento interno creava una data, cui fare riferimento più tardi. Così, nel 1825, due muratori intonacarono l'ingresso; nel 1827, un pezzo di tetto, cadendo, per poco non uccise un uomo. Nell'estate del 1828 toccò alla signora offrire il pane benedetto; Bourais in quell'epoca si assentò misteriosamente, e i vecchi conoscenti se ne andarono uno dopo l'altro: Guyot, Liébard, la signora Lechaptois, Robelin, lo zio Gremanville, paralizzato da molto tempo. Una notte il postiglione della corriera postale annunciò a Pontl'Evèque la Rivoluzione di Luglio. Pochi giorni dopo fu nominato un nuovo sottoprefetto: il barone di Larsonnière, ex console in America, e che aveva in casa, oltre a sua moglie, una cognata con tre signorine, già grandicelle. Si vedevano ogni tanto sul prato, vestite di camicette svolazzanti; possedevano un negro e un pappagallo. La signora Aubain ricevette una loro visita, e non mancò di ricambiarla. Quando apparivano in lontananza, Félicité accorreva per avvisarla. Ma una sola cosa era in grado di commuoverla: le lettere di suo figlio. Non riusciva a dedicarsi ad alcuna carriera, perché era assorbito dalla vita dei caffè. La madre pagava i suoi debiti; lui ne contraeva di nuovi. E i sospiri che la signora Aubain faceva lavorando a maglia accanto alla finestra arrivavano a Félicité, che in cucina girava il suo arcolaio. Passeggiavano insieme lungo la spalliera del frutteto; parlavano sempre di Virginie, chiedendosi se la tal cosa le sarebbe piaciuta, che cosa avrebbe probabilmente detto nella tal occasione. Tutte le sue piccole cose occupavano una credenza nella camera a due letti. La signora Aubain le passava in rassegna il meno possibile. Un giorno d'estate si rassegnò: dall'armadio volò via una nuvola di farfalle. I suoi vestiti erano appesi sotto una mensola dove c'erano tre bambole, dei cerchi, una cucinetta, il catino che usava per lavarsi. Trassero fuori anche le gonne, le calze, i fazzoletti, e li stesero sui due letti prima di ripiegarli. Il sole illuminava quei poveri oggetti, ne metteva in luce le macchie e certe pieghe dovute ai movimenti del corpo. L'aria era calda e azzurra, un merlo fischiava, tutto sembrava vivere in una profonda dolcezza. Ritrovarono un UN CUORE SEMPLICE 37 piccolo cappello di felpa, dal pelo lungo, color marrone; era tutto mangiato dalle tarme. Félicité lo chiese per sé. I loro occhi si fissarono a vicenda, si riempirono di lacrime; infine la padrona aprì le braccia, la serva vi si gettò; si strinsero, appagando il loro dolore in un bacio che le rendeva uguali. Era la prima volta nella loro vita. La signora Aubain infatti non aveva un carattere espansivo. Félicité gliene fu riconoscente come di un regalo, e da allora la amò con una dedizione animale e una venerazione religiosa. La bontà del suo cuore si dispiegò. Quando udiva per strada i tamburi di un reggimento in marcia, si metteva davanti alla porta con una brocca di sidro e offriva da bere ai soldati. Curò i malati di colera. Proteggeva i profughi polacchi; uno addirittura dichiarò di volerla sposare. Ma poi litigarono, perché un mattino, di ritorno dall'angelus, lei lo trovò in cucina, dove si era introdotto e preparato una salsa agrodolce, che stava mangiando tranquillamente. Dopo i polacchi, fu il turno di papà Colmiche, un vecchio che a quanto dicevano aveva preso parte agli orrori nel '93. Viveva in riva al fiume, tra le macerie di un porcile. I monelli lo guardavano dalle brecce del muro, e gli lanciavano sassolini che cadevano sul suo pagliericcio, dove giaceva continuamente scosso da attacchi di tosse, con i capelli lunghissimi, le palpebre infiammate, e un tumore al braccio più grosso della testa. Félicité gli procurò della biancheria, tentò di ripulire il suo tugurio, e avrebbe voluto trovargli una sistemazione nei pressi del forno, senza che questo recasse fastidio alla Signora. Quando il cancro si crepò, lei lo medicò tutti i giorni, a volte gli portava una focaccia, lo metteva al sole su una balla di paglia; il povero vecchio, sbavando e tremando, la ringraziava con la sua voce spenta, temeva di perderla, protendeva le mani non appena lei si allontanava. Morì; Félicité fece dire una messa per l'eterno riposo della sua anima. Quel giorno provò una grande felicità: all'ora di pranzo, il negro della signora di Larsonnière si presentò, tenendo il pappagallo nella gabbia, con il trespolo, la catena e il chiavistello. Un biglietto della sua padrona annunciava che, a seguito della promozione di suo marito a prefetto, sarebbero partiti quella sera stessa; la pregava di accettare quell'uccello come ricordo, in testimonianza della sua deferenza. Il pappagallo era da tempo oggetto delle fantasie di Félicité, poiché veniva dall'America, e questa parola le ricordava Victor, al punto che aveva chiesto informazioni al negro. Una volta aveva perfino detto: «La Signora sarebbe felice di averlo!». 38 TRE RACCONTI Il negro aveva riferito la frase alla sua padrona, la quale, non potendo portare la bestia con sé, se ne sbarazzava in questo modo. IV. Si chiamava Lulù. Il corpo era verde, l'estremità delle ali rosa, la fronte azzurra e la gola dorata. Lulù aveva l'estenuante mania di mordere il trespolo, si strappava le piume, spargeva i suoi bisogni, faceva schizzare fuori l'acqua della sua vaschetta; la signora Aubain, non potendone più, lo regalò definitivamente a Félicité. Cominciò ad ammaestrarlo; presto ripetè: «Bel ragazzo! Servo vostro, signore! Ave Maria!». Aveva trovato posto vicino alla porta, e parecchi si stupirono che non rispondesse al nome di Jacquot, dato che tutti i pappagalli si chiamano Jacquot. Lo paragonavano a un tacchino, a un ceppo: altrettante pugnalate per Félicité! Strana ostinazione di Lulù: smetteva di parlare non appena lo si cominciava a guardare! Ciononostante cercava la compagnia; infatti la domenica, mentre quelle signorine Rochefeuille, il signor di Houppeville e nuovi invitati abituali: Onfroy lo speziale, il signor Varin e il capitano Mathieu, facevano la loro partita a carte, Lulù picchiava sul vetro con le ali, e si dimenava tanto furiosamente che era impossibile ascoltarsi a vicenda. L'aspetto di Bourais doveva indubbiamente sembrargli buffo. Appena lo vedeva cominciava a ridere, a ridere con tutte le sue forze. Gli scoppiettìi del suo verso rimbalzavano nel cortile, l'eco li ripeteva, i vicini si affacciavano alle finestre e ridevano anche loro; sicché, per non essere visto dal pappagallo, il signor Bourais strisciava rasente i muri, dissimulando il suo profilo sotto il cappello, raggiungeva il fiume, quindi entrava dalla porta che dava sul giardino; gli sguardi che inviava all'uccello non erano certo teneri. Una volta Lulù aveva ricevuto un buffetto dal garzone del macellaio, perché aveva insinuato la testa nel suo cesto; da allora tentava sempre di pizzicarlo attraverso la camicia. Fabu minacciava di torcergli il collo, anche se non era crudele, malgrado i tatuaggi sulle braccia e i folti favoriti. Al contrario! aveva piuttosto una specie di debole per il pappagallo, al punto di volergli insegnare, per un gioviale buonumore, qualche bestemmia. Félicité, spaventata dalle sue maniere, sistemò il pappagallo in cucina. Tolse via la catena, dimodoché ora razzolava per la casa. Quando scendeva le scale, appoggiava sui gradini la curva del UN CUORE SEMPLICE 39 becco, sollevava la zampa destra, poi la sinistra; Félicité aveva paura che una simile ginnastica gli provocasse qualche stordimento. Si ammalò; non riusciva più a mangiare e a parlare. Sotto la lingua aveva un ispessimento, come talvolta ne hanno le galline. Félicité lo guarì strappando quella membrana con le unghie. Il signor Paul, un giorno, ebbe l'imprudenza di soffiargli sulle narici un po' di fumo del suo sigaro; un'altra volta che la signora Lormeau lo infastidiva con la punta dell'ombrello, inghiottì la ghiera; alla fine si perse. Félicité l'aveva deposto sull'erba per rinfrescarlo; si assentò un minuto e, quando tornò, niente più pappagallo! In principio cominciò a cercarlo tra i cespugli, in riva al fiume o sopra i tetti, senza prestare ascolto alla padrona che le diceva: «State attenta! siete impazzita!». Successivamente ispezionò tutti i giardini di Pont-1'Évèque; fermava i passanti: «Avete visto per caso il mio pappagallo?». A quelli che non lo conoscevano ne dava una descrizione. D'un tratto, credette di distinguere, dietro i mulini, ai piedi della costa, qualcosa di verde che volteggiava. Ma giunta in cima alla costa, niente! Un venditore ambulante le disse che l'aveva visto poco prima, a Melarne, nella bottega della vecchia Simon. Vi corse subito. Là non sapevano che cosa andasse cercando. Alla fine tornò a casa, sfinita, con le ciabatte ridotte in brandelli e la morte nell'anima; seduta sulla panca, accanto alla Signora, stava raccontando tutte le sue traversie, quando un leggero peso le piombò sulla spalla: Lulù! Che diavolo aveva fatto? Forse se ne era andato un po' in giro nei dintorni! Félicité faticò a rimettersi, o meglio non si rimise mai più. A seguito di un raffreddore le venne un'angina; poco tempo dopo un mal d'orecchi. Tre anni più tardi era sorda; parlava a voce alta, perfino in chiesa. Benché i suoi peccati avrebbero potuto, senza alcun disonore per lei né inconvenienti di sorta per la gente, propagarsi in tutti gli angoli della diocesi, il parroco giudicò opportuno ricevere la sua confessione esclusivamente in sacrestia. Ronzii illusori finivano di sconvolgerle la mente. Spesso la padrona le diceva: «Mio Dio! come siete stupida!». Félicité replicava: «Sì, Signora», cercando qualcosa attorno a sé. La sparuta cerchia delle sue idee si restrinse ancor di più, lo squillo delle campane, il muggito dei buoi per lei non esistevano più. Tutti gli esseri funzionavano con il silenzio dei fantasmi. Un solo rumore arrivava ora alle sue orecchie, la voce del pappagallo. Come a volerla distrarre, riproduceva il ticchettio del girarrosto, il richiamo acuto del pescivendolo, la sega del falegname che abi- 40 TRE RACCONTI tava di fronte; e, al suono del campanello, imitava la signora Aubain: «Félicité! la porta! la porta!». Avevano dei dialoghi, lui sillabando a sazietà le tre frasi del suo repertorio, lei rispondendo con parole senza più costrutto, ma nelle quali effondeva tutto il suo cuore. Nel suo isolamento Lulù era quasi un figlio, un innamorato. Scalava le sue dita, le mordeva le labbra, le artigliava lo scialletto e, quando lei chinava la fronte scrollando il capo alla maniera delle balie, le grandi ali della cuffia e le ali dell'uccello fremevano insieme. Quando si addensavano le nubi e i tuoni brontolavano, il pappagallo gridava, rammentando forse le folate delle sue foreste natie. Lo scroscio dell'acqua eccitava il suo delirio; volteggiava, sconvolto, volava sul soffitto, si rovesciava, e attraverso la finestra andava a sguazzare nel giardino; ma subito dopo tornava ad appollaiarsi su un alare, e, saltellando per far asciugare le piume, mostrava ora la coda ora il becco. Un mattino di quel terribile inverno del 1837, dopo averlo messo davanti al camino per via del gran freddo, Félicité lo trovò morto, nella sua gabbia, con la testa reclinata e gli artigli aggrappati al fil di ferro. Probabilmente lo aveva ucciso una congestione. Sospettò un avvelenamento da prezzemolo e, malgrado l'assenza di qualunque prova, i suoi sospetti caddero su Fabu. Pianse talmente che la sua padrona le disse: «Ebbene! fatelo impagliare!». Félicité chiese consiglio al farmacista, che era sempre stato buono con il pappagallo. Questi scrisse a Le Havre. Fu incaricato della cosa un certo Fellacher. Ma, visto che la diligenza talvolta smarriva i colli, Félicité decise di portarlo di persona fino a Honfleur. I meli spogli si susseguivano lungo la strada. Il ghiaccio copriva i fossati. I cani abbaiavano attorno ai cascinali; con le mani sotto la mantella, le sue ciabattine nere e la sua sporta, Félicité camminava rapidamente in mezzo alla carreggiata. Attraversò la foresta, superò Haut-Chéne, raggiunse Saint-Gautien. Dietro di lei, in una nube di polvere e trascinata dal pendio, una corriera postale si precipitava giù come un ciclone. Vedendo quella donna che non si faceva da parte, il conducente si drizzò sopra il mantice, il postiglione cominciò a gridare, mentre i quattro cavalli ormai intrattenibili acceleravano l'andatura; i primi due la sfiorarono; con uno strattone alle briglie, l'uomo li deviò fuori strada, ma furioso alzò il braccio e in piena corsa, con la sua enorme frusta, le inflisse dal ventre ai capelli un tale colpo da farla cadere sulla schiena. UN CUORE SEMPLICE 41 Il suo primo gesto, quando riprese conoscenza, fu di aprire la cesta. Lulù fortunatamente era indenne. Sentì un bruciore alla guancia destra; vi portò le mani, e le vide rosse. Il sangue scorreva. Si sedette su un cumulo di sassi, si tamponò il viso con un fazzoletto, poi mangiò una crosta di pane, messa nel paniere per precauzione; si consolava della ferita guardando l'uccello. Arrivata in cima a Ecquemauville, intravide le luci di Honfleur che scintillavano nella notte come una miriade di stelle; il mare, più lontano, si profilava confusamente. Allora la colse un momento di scoramento; la miseria della sua infanzia, la delusione del suo primo amore, la partenza di suo nipote, la morte di Virginie, come ondate di una marea, tornarono tutte assieme e, salendole alla gola, la soffocarono. In seguito volle parlare al capitano del battello; e, senza rivelare ciò che inviava, gli fece delle raccomandazioni. Fellacher tenne a lungo il pappagallo. Lo prometteva sempre per la settimana successiva; dopo sei mesi, annunciò l'invio di una cassa; ma poi non se ne seppe più nulla. Bisognava proprio credere che Lulù non sarebbe tornato mai più. «Me l'avranno rubato», pensava. Ma alla fine arrivò: splendido, ritto su un ramo d'albero avvitato in uno zoccolo di mogano, con una zampa in aria, la testa obliqua, nell'atto di mordere una noce, che l'impagliatore per amor di grandezza aveva dorato. Félicité lo chiuse nella sua camera. Quel posto, in cui poca gente era ammessa, aveva a un tempo l'aspetto della cappella e del bazar, tanti erano gli oggetti religiosi e le cose eteroclite che conteneva. Un grande armadio era d'impaccio nell'apertura della porta. Di fronte alla finestra a strapiombo sul giardino, un occhio di bue dava sul cortile; su un tavolo accanto alla branda giacevano una brocca, due pettini e un cubo di sapone azzurro in un piatto sbreccato. Sulle pareti si vedevano: rosari, medaglie, parecchie Madonnine, un'acquasantiera di noce di cocco; sul comò, coperto di una tovaglia come un altare, la scatola di conchiglie che le aveva regalato Victor; poi un innaffiatoio e un pallone, alcuni quaderni, l'atlante illustrato, un paio di stivali; al chiodo dello specchio, appeso con i suoi nastri, il cappello di felpa! Félicité spingeva questo genere di culto al punto di conservare una vecchia finanziera del padrone. Tutto il vecchiume che la signora Aubain non voleva più, lei lo prendeva per la sua camera. Così c'erano fiori artificiali sull'orlo del comò, e il ritratto del conte d'Artois nella strombatura dell'abbaino. 42 TRE RACCONTI Tramite un'assicella, Lulù fu sistemato sull'aggetto del camino. Ogni mattino, svegliandosi, Félicité lo scorgeva al chiarore dell'alba, rammentava allora i giorni perduti, e insignificanti azioni fin nei minimi particolari, senza dolore, piena di tranquillità. Non comunicando con nessuno, viveva in un torpore da sonnambula. Le processioni del Corpus Domini la rianimavano. Andava a chiedere ai vicini lumini e stuoini per abbellire il repositorio eretto per strada. In chiesa, contemplava sempre lo Spirito Santo, e osservò che aveva qualcosa del pappagallo. Questa somiglianza le parve ancor più evidente in un'immagine di Epinal che rappresentava il battesimo di Nostro Signore. Con le sue ali di porpora e il suo corpo di smeraldo, era davvero il ritratto di Lulù. Lo comprò e lo appese al posto del conte d'Artois, dimodoché, con una sola occhiata, poteva vederli entrambi. Si associarono nel suo pensiero, e il pappagallo si trovò santificato in virtù di questo rapporto con lo Spirito Santo che ai suoi occhi diveniva sempre più vivo e intelligibile. Il Padre, per annunciarsi, non aveva potuto scegliere una colomba, perché quegli animali non hanno voce, ma piuttosto un antenato di Lulù. E Félicité pregava guardando l'effigie, ma di tanto in tanto si girava un po' verso l'uccello. Ebbe voglia di entrare nella congregazione delle figlie di Maria. La signora Aubain la dissuase. Si presentò un evento straordinario: il matrimonio di Paul. Dopo essere stato prima praticante presso un notaio, poi nel commercio, alla dogana, alle imposte, dopo aver tentato di entrare perfino nell'amministrazione forestale, a trentasei anni, tutt'a un tratto, per un'ispirazione celeste, aveva scoperto la sua strada: l'ufficio del Registro! e vi mostrava tali capacità che un verificatore gli aveva offerto sua figlia, promettendogli la sua protezione. Paul, divenuto serio, la portò da sua madre. La futura moglie denigrò le usanze di Pont-1'Évèque, fece la gran dama, offese Félicité. La signora Aubain, dopo che se ne fu andata, provò un gran sollievo. La settimana successiva si seppe della morte del signor Bourais, in bassa Bretagna, in un albergo. La voce di un suicidio fu confermata; qualcuno sollevò dubbi sulla sua probità. La signora Aubain studiò i suoi conti, e non tardò a scoprire una sequela di nefandezze: storno di arretrati, vendite di legname dissimulate, false quietanze, ecc. Per giunta, aveva un figlio naturale, e «una relazione con una persona di Dozulé». Queste turpitudini la afflissero molto. Nel marzo del 1853 fu UN CUORE SEMPLICE 43 colpita da un dolore al petto; la sua lingua sembrava coperta di fumo, le sanguisughe non riuscirono a calmare l'oppressione; e la nona sera spirò, all'esatta età di settantadue anni. Sembrava meno vecchia per via dei capelli castani, che incorniciavano il suo volto pallido, lievemente butterato. La rimpiansero pochi amici, perché i suoi modi avevano un'alterigia che teneva lontani. Félicité la pianse, non come si possono piangere i padroni. Il fatto che la Signora fosse morta prima di lei turbava le sue idee, le sembrava contrario all'ordine delle cose, inammissibile e mostruoso. Dieci giorni dopo (il tempo di accorrere da Besancon) arrivarono gli eredi. La nuora frugò i cassetti, scelse dei mobili, vendette gli altri, dopodiché se ne tornarono al loro ufficio del Registro. La poltrona della signora Aubain, il suo tavolino, il suo scaldino, le otto sedie non c'erano più! Il posto lasciato vuoto dalle stampe si stagliava in gialli quadrati sui tramezzi. Avevano portato via i due lettini con i loro materassi, e nell'armadio non era rimasto più nulla delle piccole cose di Virginie! Félicité salì nella sua stanza con il cuore pieno di tristezza. L'indomani trovò un cartello affisso sulla porta; lo speziale le gridava nell'orecchio che la casa era in vendita. Barcollò, e fu costretta a sedersi. Ciò che la desolava più di tutto era dover abbandonare la sua camera, così comoda per il povero Lulù. Avvolgendolo in uno sguardo d'angoscia, implorava lo Spirito Santo, e da allora contrasse l'abitudine idolatra di dire le sue orazioni inginocchiata davanti al pappagallo. Talvolta il sole, penetrando dall'abbaino, colpiva il suo occhio vitreo, e ne faceva sprigionare un raggio luminoso che la mandava in estasi. Aveva una rendita di trecentottanta franchi, lascito della sua padrona. L'orto le forniva legumi. Quanto agli indumenti, possedeva di che vestirsi fino alla fine dei suoi giorni, e risparmiava sull'illuminazione andando a letto al calar del sole. Non usciva quasi mai, per evitare di passare davanti alla bottega del rigattiere, dove erano esposti alcuni dei vecchi mobili di casa. Dall'epoca del suo stordimento trascinava una gamba; e, dato che le sue forze venivano meno, la vecchia Simon, rovinatasi con la drogheria, veniva tutte le mattine a spaccarle la legna e a pompare l'acqua dal pozzo. La sua vista si indebolì. Le persiane non si aprivano più. Molti anni passarono. E la casa non si affittava, non si vendeva. 44 TRE RACCONTI Nel timore di essere cacciata, Félicité non chiedeva le necessarie riparazioni. Le impalcature del tetto marcivano; per un inverno intero il traversino del letto fu bagnato. Dopo Pasqua, sputò sangue. Allora la vecchia Simon chiamò un dottore. Félicité volle sapere che cosa aveva. Ma, troppo sorda per sentire, riuscì a captare una sola parola: «Polmonite». Non la conosceva, e replicò dolcemente: «Ah! come la Signora», trovando naturale seguire la sua padrona. Si avvicinava l'epoca dei repositori. Il primo era sempre ai piedi della costa, il secondo davanti alla posta, il terzo verso la metà della strada. Qualche rivalità si creò a proposito di quest'ultimo; alla fine le parrocchiane scelsero il cortile della signora Aubain. Le oppressioni e la febbre aumentarono. Félicité era addolorata di non poter fare nulla per il repositorio. Se almeno avesse potuto mettervi qualcosa! Allora pensò al pappagallo. Non era opportuno, commentarono le vicine. Ma il parroco diede il permesso; lei ne fu talmente felice che lo pregò di accettare, quando sarebbe morta, Lulù, la sua sola ricchezza. Dal martedì al sabato, vigilia del Corpus Domini, tossì più frequentemente. La sera il suo viso era congestionato, le labbra incollate alle gengive, aveva conati di vomito; l'indomani, alle prime luci del giorno, sentendosi molto giù, fece chiamare un prete. Tre brave donne la circondavano durante l'estrema unzione. In seguito dichiarò che aveva bisogno di parlare a Fabu. Arrivò col vestito della domenica, a disagio in quell'atmosfera lugubre. «Perdonatemi», gli chiese con uno sforzo, come per stendere le braccia, «credevo che l'aveste ucciso voi!» Che cos'erano mai queste dicerie? Averlo sospettato di un delitto, un uomo come lui! Si indignò, stava per fare uno scandalo. «Non è più in sé, non vedete?» Félicité di tanto in tanto parlava alle ombre. Le brave donne si allontanarono. La Simon mangiò. Un po' più tardi prese Lulù e, avvicinandolo a Félicité: «Su, ditegli addio!». Benché non fosse un cadavere, i vermi lo divoravano; una delle ali era rotta, la stoppa usciva fuori dal ventre. Ma lei, cieca al presente, lo baciò sulla fronte, tenendolo sulla guancia. La Simon lo riprese per metterlo nel repositorio. UN CUORE SEMPLICE 45 V. Dai prati emanava un odore d'estate; le mosche ronzavano; il sole faceva luccicare il fiume e riscaldava le tegole d'ardesia. Mamma Simon, tornata nella camera, dormiva placidamente. La svegliarono i rintocchi delle campane; la gente usciva dal vespro. Il delirio di Félicité si placò. Pensando alla processione, la vedeva come se la stesse seguendo. Tutti i bambini delle scuole, i cantori e i pompieri camminavano sui marciapiedi, mentre in mezzo alla strada procedevano nell'ordine: lo svizzero armato della sua alabarda, lo scaccino con una grande croce, l'istitutore che sorvegliava i monelli, la suora preoccupata per le sue educande; tre delle più graziose, ricce come angioletti, lanciavano in aria petali di rose; il diacono moderava la musica con le braccia, e due incensieri si giravano a ogni passo verso il Santissimo Sacramento, portato sotto un baldacchino rosso vivo tenuto da quattro fabbricieri, dal parroco nella sua bella pianeta. Un fiume di gente si accalcava al seguito, tra le tovaglie bianche che coprivano i muri delle case; la processione raggiunse così i piedi della costa. Un sudore freddo inumidiva le tempie di Félicité. La Simon la tergeva con un panno, dicendosi che un giorno ci sarebbe passata anche lei. Il mormorio della folla aumentò, per un attimo fu fortissimo, poi si allontanò. Una fucilata fece tremare fragorosamente i vetri delle finestre. Erano i postiglioni che salutavano l'ostensorio. Félicité roteò le pupille e disse, con quanta voce potè: «Sta bene?». Era tormentata dal pappagallo. L'agonia cominciò. Un rantolo sempre più precipitoso le sollevava le costole. Bolle di schiuma spuntavano agli angoli della bocca, tutto il suo corpo tremava. Presto si distinse il boato degli oficleidi, le voci bianche dei bambini, quelle profonde degli uomini. Tutto taceva a intervalli, e il calpestio dei passi, smorzato dai fiori, assomigliava al rumore di un gregge al pascolo. I preti apparvero nel cortile. La Simon si arrampicò su una sedia per arrivare all'altezza dell'occhio di bue, dal quale poteva dominare il repositorio. Ghirlande verdi pendevano dall'altare ornato di falpalà a punto inglese. Al centro c'era una piccola teca contenente delle reliquie, due aranci negli angoli, e per tutta la sua lunghezza candelieri d'argento e vasi di porcellana, da cui spuntavano girasoli, 46 TRE RACCONTI gigli, peonie, digitali, ciuffi di ortensie. Questo ammasso di colori sfavillanti digradava obliquamente dal gradino più alto al tappeto, prolungandosi sul selciato; cose rare attiravano gli sguardi. Una zuccheriera di argento dorato era cinta da una ghirlanda di violette, pendenti in pietra d'Alencon brillavano sul muschio, due paraventi cinesi mostravano i loro paesaggi. Di Lulù, nascosto sotto le rose, si intravedeva soltanto la fronte turchina, simile a un medaglione di lapislazzuli. I fabbricieri, i cantori, i bambini si schierarono sui tre lati del cortile. Il prete salì lentamente i gradini e depose sul pizzo il suo grande sole d'oro raggiante. Tutti si inginocchiarono. Si fece un gran silenzio. Gli incensieri, oscillando ampiamente, scivolavano sulle loro catenelle. Un vapore azzurro salì verso la camera di Félicité. Lei protese le narici, aspirandolo con una sensualità mistica; poi chiuse le palpebre. Le sue labbra sorridevano. I battiti del suo cuore rallentarono, uno dopo l'altro, talvolta più vaghi, più dolci, come una fontana che si esaurisce, come un'eco che svanisce; e, quando esalò l'ultimo respiro, credette di vedere, nei cieli dischiusi, un pappagallo gigantesco planare sopra la sua testa. La leggenda di San Giuliano Ospitaliere I. Il padre e la madre di Giuliano abitavano in un castello in mezzo ai boschi, sul declivio di una collina. Le torri ai quattro angoli avevano tetti aguzzi, ricoperti di scaglie di piombo, e il basamento delle mura poggiava su blocchi di roccia che precipitavano ripidamente fin nel fondo dei fossati. I selciati del cortile erano lucidi come la pavimentazione di una chiesa. Lunghe grondaie a forma di draghi con la gola reclina convogliavano l'acqua piovana verso la cisterna; e sui davanzali delle finestre, in ogni piano, in un vaso di argilla dipinta, sbocciava un basilico o un eliotropio. Una seconda cinta, fatta di pali, racchiudeva prima un frutteto, poi un'aiuola dove combinazioni di fiori disegnavano cifre, quindi un pergolato con qualche amaca per prendere il fresco, e un gioco della pallamaglio che costituiva il divertimento dei paggi. Dall'altra parte c'erano il canile, le scuderie, il forno, il frantoio e i granai. Un pascolo verde si estendeva tutt'attorno, cinto a sua volta da una fitta siepe di rovi. Si viveva in pace da così gran tempo che la saracinesca non si abbassava più; i fossati erano pieni d'acqua; le rondini facevano il nido nelle feritoie della merlatura; e l'arciere che per tutto il giorno andava su e giù nella cortina, non appena il sole si faceva troppo forte rientrava nella garitta e si addormentava come un monaco. All'interno rilucevano ovunque le ferramenta; gli arazzi nelle camere proteggevano dal freddo; gli armadi straripavano di biancheria, le botti di vino giacevano accatastate nelle cantine, i forzieri di quercia scricchiolavano sotto il peso dei sacchi di monete. Nella sala d'armi, tra gli stendardi e le teste impagliate di animali selvatici, si vedevano armi di tutti i tempi e di tutte le nazioni, dalle fronde degli Amaleciti e dai giavellotti dei Garamanti fino alle daghe dei Saraceni e ai giachi di maglia dei Normanni. II grande spiedo della cucina poteva arrostire un bue; la cappel- 48 TRE RACCONTI la era sontuosa come l'oratorio di un re. C'era perfino, in un luogo appartato, un bagno alla romana, ma il buon signore se ne privava, considerandola un'usanza pagana. Sempre avvolto in una pelliccia di volpe, si aggirava per la magione, rendeva giustizia ai vassalli, pacificava le liti tra i vicini. Durante l'inverno guardava i fiocchi di neve cadere o si faceva leggere delle storie. Non appena tornava la bella stagione, se ne andava con la sua mula per i sentieri, costeggiando i campi di grano verdeggianti, parlando con i manenti, cui dava consigli. Dopo molte avventure galanti, aveva preso in moglie una fanciulla di alto lignaggio. Era di pelle bianchissima, un po' fiera e seria. Il suo cappello a cono sfiorava l'architrave delle porte; lo strascico della sua veste di panno era lungo tre passi. La sua servitù era sottoposta a regole come all'interno di un monastero; ogni mattino distribuiva i compiti alle serve, sorvegliava la preparazione delle marmellate e degli unguenti, filava alla conocchia o ricamava tovaglie d'altare. A furia di pregare Dio le venne un figlio. Allora vi furono grandi festeggiamenti, e un banchetto che durò per tre giorni e quattro notti, alla luce delle torce, al suono delle arpe, su un tappeto di foglie. Vi si mangiarono le più rare spezie, con polli grossi come montoni; per divertimento, un nano uscì da un pasticcio e, non essendoci scodelle a sufficienza, dato che la folla aumentava sempre più, si fu costretti a bere nei corni da caccia e negli elmi. La novella puerpera non potè assistere a quelle feste. Se ne stava tranquilla nel suo letto. Una sera si svegliò, e intravide, sotto un raggio di luna che entrava dalla finestra, come un'ombra mobile. Era un vecchio con un saio di bigello, un rosario alla vita, una bisaccia sulla spalla, e che aveva tutte le apparenze di un eremita. Si avvicinò al suo capezzale e, senza aprire le labbra, le disse: «Rallegrati, o madre! tuo figlio sarà un santo!». Lei stava per gridare; ma il vecchio, scivolando sul raggio di luna, si sollevò dolcemente nell'aria e poi scomparve. I canti del banchetto esplosero più fragorosi. La donna udì la voce degli angeli, e la sua testa ricadde sul guanciale, dominato da una reliquia di martire incorniciata di rubini. L'indomani, tutti i domestici interrogati dichiararono di non aver visto nessun eremita. Sogno o realtà, doveva essere un avvertimento del cielo; ma lei ebbe cura di non dire nulla a nessuno, nel timore che potessero accusarla di orgoglio. I convitati se ne andarono all'alba; il padre di Giuliano si trovava fuori della postierla, dove aveva appena accompagnato l'ulti- LA LEGGENDA DI SAN GIULIANO OSPITALIERE 49 mo ospite, quando d'un tratto si vide di fronte, nella nebbia, un mendicante. Era uno zingaro dalla barba intrecciata, con anelli d'argento alle due braccia e le pupille fiammeggianti. Balbettò con aria ispirata queste parole: «Ah! ah! tuo figlio!... molto sangue!... molta gloria!... sempre felice! La famiglia di un imperatore!». E, chinandosi per raccogliere l'elemosina, si confuse con l'erba e svanì. Il buon castellano si guardò a destra e a manca, chiamò più forte che potè. Nessuno! Il vento fischiava, le brume mattutine si diradavano. Attribuì quella visione alla sua stanchezza mentale e alle poche ore di sonno. «Se ne parlo con qualcuno, si burlerà di me», si disse. Tuttavia gli splendori predetti a suo figlio lo abbagliavano, quantunque la promessa non fosse chiara e lui dubitasse perfino di averla udita. Gli sposi si nascosero reciprocamente il loro segreto. Ma entrambi amavano il loro bambino del medesimo amore; e, rispettandolo come un segno di Dio, ebbero per la sua persona infiniti riguardi. Il suo lettino era imbottito della piuma più soffice; al di sopra bruciava perennemente una lampada a forma di colomba; tre balie lo cullavano; e, ben stretto nelle sue fasce, con il colorito roseo e gli occhi azzurri, con il mantellino di broccato e la cuffia intessuta di perle, assomigliava a Gesù Bambino. I primi denti spuntarono senza che piangesse una sola volta. Quando ebbe sette anni, sua madre gli insegnò a cantare. Per farne un bimbo coraggioso, suo padre lo issò su un grosso cavallo. Giuliano sorrideva felice, e non tardò a conoscere tutti i segreti relativi ai destrieri. Un vecchio e dottissimo monaco gli insegnò le Sacre Scritture, la numerazione araba, l'alfabeto latino, e anche a dipingere miniature sulla carta velina. Studiavano insieme, in cima a una torre, lontani dai rumori. Terminata la lezione, scendevano in giardino dove, passeggiando, passo dopo passo, studiavano i fiori. Talvolta si vedeva camminare in fondo alla vallata una fila di bestie da soma, guidate da un uomo vestito all'orientale. Il castellano, riconosciuto in lui un mercante, gli mandava incontro un valletto. Lo straniero prendeva confidenza e cambiava strada; introdotto nel parlatorio, estraeva dai suoi scrigni velluti e sete, gioielli, aromi, cose singolari di uso ignoto; alla fine il buon forestiero se ne andava con un buon profitto, senza aver subito alcuna violenza. Altre volte bussava alla porta un gruppo di pellegrini. I loro indumenti zuppi fumavano davanti al focolare; e, quan- 50 TRE RACCONTI do erano sazi, raccontavano i loro viaggi: naufragi in mari tempestosi, lunghe marce a piedi su sabbie cocenti, la ferocia dei pagani, le caverne della Siria, il Presepe e il Santo Sepolcro. Poi staccavano dal loro mantello conchiglie e le offrivano al giovane signore. Spesso il castellano festeggiava i suoi vecchi compagni d'armi. Bevendo rievocavano le loro guerre, gli assalti alle fortezze con i colpi delle macchine da guerra e le prodigiose ferite. Giuliano, che li ascoltava, si eccitava al punto di gridare; allora suo padre non nutriva più dubbi che sarebbe diventato un conquistatore. Ma la sera, all'uscita dall'angelus, quando passava tra i poveri chini per reverenza, attingeva alla borsa con tanta modestia e con un'aria così nobile che sua madre contava di vederlo in futuro arcivescovo. Il suo posto nella cappella era accanto ai suoi genitori; e, per quanto si prolungassero le funzioni, restava genuflesso sul suo inginocchiatoio, con le mani giunte e il berretto in terra. Un giorno, durante la messa, alzando la testa intravide un topolino bianco che usciva da un buco nel muro. Scodinzolò sul primo gradino dell'altare e, dopo due o tre svolte a destra e a sinistra, fuggì nella stessa direzione. La domenica seguente, l'idea di poterlo rivedere turbò Giuliano. Il topolino infatti tornò, ogni domenica lui se lo attendeva, e ne era infastidito; cominciò a odiarlo a tal punto da decidere di liberarsene. Dopo aver chiuso la porta e disseminato sui gradini le briciole di un dolce, si appostò davanti al buco con una bacchetta in mano. Dopo molto tempo spuntò un muso roseo, poi l'intero topolino. Gli inflisse un leggero colpo, e rimase stupefatto che quel corpicino non si muovesse. Una goccia di sangue macchiava il pavimento. La asciugò rapidamente con la manica, gettò fuori il topo e non disse niente a nessuno. Uccellini d'ogni specie beccavano i semi del giardino. Ebbe idea di mettere dei piselli in una canna cava. Quando sentiva un cinguettio in un albero, si avvicinava accortamente, quindi alzava la cerbottana e gonfiava le guance; le bestiole gli piovevano sulle spalle così copiosamente che non poteva fare a meno di ridere, felice della sua malizia. Un mattino, mentre tornava attraverso la cortina, vide sulla cresta del bastione un grosso piccione che si pavoneggiava al sole. Giuliano si fermò per osservarlo; poiché in quel punto del muro c'era una breccia, si trovò tra le mani una scheggia di pietra. Alzò il braccio, e la pietra abbatté l'uccello che cadde tutto d'un pezzo nel fossato. LA LEGGENDA DI SAN GIULIANO OSPITALIERE 51 Si precipitò in fondo, lacerandosi i vestiti tra gli sterpi, frugando dappertutto, più lesto di un giovane cane. Il piccione, con le ali spezzate, palpitava, sospeso tra i rami di un ligustro. L'averlo trovato ancora in vita irritò il fanciullo. Cominciò a strangolarlo; le convulsioni dell'uccello gli facevano battere il cuore, lo riempivano di una voluttà selvaggia e tumultuosa. Al definitivo irrigidimento, si sentì mancare. La sera, durante la cena, suo padre dichiarò che alla sua età doveva apprendere l'arte venatoria; andò a cercare un vecchio manoscritto che conteneva, in una serie di domande e di risposte, tutto lo scibile sulla caccia. Un maestro vi insegnava all'allievo l'arte di addestrare i cani e i falchi, di tendere le trappole, come riconoscere il cervo dai suoi escrementi, la volpe dalle sue impronte, il lupo dalle zampate, il modo migliore per seguire le loro tracce, in quale modo si scovano, dove si trovano di solito le loro tane, quali sono i venti più propizi, con l'enumerazione dei vari versi e le regole sulla porzione di preda da lasciare ai cani, Quando Giuliano riuscì a ripetere a memoria tutte queste cose, suo padre compose apposta per lui una muta di cani. Vi figuravano innanzitutto ventiquattro levrieri barbareschi, più veloci di gazzelle, ma facili a infiammarsi; poi diciassette coppie di cani bretoni, picchiettati di bianco su un pelo rosso, di un affidamento incrollabile, forti di petto e grandi abbaiatori. Per l'assalto al cinghiale e per le pericolose fughe simulate, c'erano quaranta cani grifoni pelosi come orsi. Mastini di Tartaria, alti quasi quanto asini, color fuoco, dal dorso largo e dal garretto diritto, erano destinati a inseguire gli uri. Il manto nero degli spagnoli riluceva come seta; il guaito dei talbots valeva quello dei canori inglesi. In un cortile appartato ringhiavano, scuotendo la loro catena e roteando le pupille, otto alani, bestie formidabili che assaltano al ventre i cavalieri e non hanno paura dei leoni. Tutti mangiavano pane di frumento, bevevano in trogoli di pietra, e portavano nomi sonori. La falconeria forse era superiore alla muta; il buon signore, a furia di denaro, si era procurato terzuoli del Caucaso, sagri di Babilonia, girifalchi di Alemagna, e falchi pellegrini, catturati sulle scogliere, in riva a mari freddi, in lontani paesi. Alloggiavano sotto una tettoia coperta di stoppia e, legati in ordine di grandezza sul trespolo, avevano davanti a loro una zolla erbosa dove di tanto in tanto venivano deposti per potersi sgranchire. Furono confezionati ogni sorta di reti, trabocchetti, ordigni. Spesso si portavano in campagna cani da piuma, che si metteva- 52 TRE RACCONTI no subito in posizione di ferma. Allora i bracchieri, avanzando passo dopo passo, stendevano con precauzione sui loro corpi impassibili un'immensa rete. Un comando li faceva abbaiare; le quaglie si involavano; e le dame nei dintorni, invitate con i loro consorti, i figli, le domestiche, tutti vi si gettavano sopra, e le prendevano facilmente. Altre volte, per stanare le lepri, si batteva il tamburo; le volpi cadevano nei fossati, oppure una trappola, scattando, imprigionava un lupo per la zampa. Ma Giuliano disprezzava quei comodi artifici; preferiva cacciare lontano dalla gente, con il suo cavallo e il suo falco. Era quasi sempre un grande falco di Scizia, bianco come la neve. Il suo cappuccio di cuoio era sormontato da un pennacchio, sonagli d'oro tremavano alle sue zampe turchine: stava immobile sul braccio del suo padrone mentre il cavallo galoppava e la pianura scorreva tutt'attorno. Giuliano, sciogliendo la fune, lo liberava all'improvviso; il coraggioso animale saliva dritto nell'aria come una freccia; si vedevano due macchie ineguali volteggiare, congiungersi, poi sparire nelle altitudini azzurre. Il falco non tardava a scendere dilaniando qualche uccello, e andava nuovamente a posarsi sul guanto di ferro, con le ali ancora frementi. Giuliano cacciò in questo modo l'airone, il nibbio, la cornacchia, l'avvoltoio. Gli piaceva seguire, suonando la tromba, i suoi cani che correvano sul pendio delle colline, saltavano i ruscelli, risalivano i boschi; e, quando il cervo cominciava a gemere sotto i loro morsi, lui lo abbatteva rapidamente, poi si dilettava ad assistere alla furia dei mastini che lo divoravano, fatto a pezzi nella sua pelle ancora fumante. Nei giorni nebbiosi si inoltrava in una palude per appostare le oche, le lontre e le anatre selvatiche. Tre scudieri, fin dall'alba, lo attendevano ai piedi della scalinata; e per quanto il vecchio monaco, sporgendosi dal suo abbaino, gli facesse segno di tornare, Giuliano non si voltava. Andava incontro al sole cocente, alla pioggia, alla tempesta, beveva l'acqua delle sorgenti con la mano, trottando mangiava frutti selvatici, se era stanco si riposava sotto una quercia; e rincasava nel cuore della notte, coperto di sangue e di fango, con le spine nei capelli e indosso l'odore degli animali selvatici. Divenne come loro. Quando sua madre lo abbracciava, lui accettava freddamente quella stretta, sembrava sognare cose remote. Uccìse orsi a coltellate, tori con l'ascia, cinghiali con lo spiedo; una volta, avendo a disposizione un semplice bastone, si difese LA LEGGENDA DI SAN GIULIANO OSPITALIERE 53 contro un branco di lupi che divoravano cadaveri ai piedi di una forca. Un mattino d'inverno partì prima che facesse giorno, ben equipaggiato, con una balestra sulle spalle e una faretra appesa all'arcione. Il suo ginnetto danese, seguito da due bassotti, marciando di pari passo faceva rimbombare il suolo. Il ghiaccio formava cristalli sul suo mantello, soffiava una brezza violenta. Un lato dell'orizzonte si schiarì; e, nel biancore del nuovo giorno, intravide conigli saltellare intorno alle loro tane. I due bassotti si precipitarono subito su di loro; e, qua e là, in men che non si dica, spezzavano loro la schiena. Ben presto entrò in un bosco. In cima a un ramo, un gallo selvatico intirizzito dal freddo dormiva con la testa sotto l'ala. Giuliano, con un fendente di spada, gli falciò le due zampe e, senza raccoglierlo, continuò per la sua strada. Tre ore dopo, si trovò sul picco di una montagna talmente alta che il cielo sembrava quasi nero. Dinanzi a lui, una roccia simile a una vasta muraglia si inabissava a strapiombo su un precipizio; all'estremità, due caproni selvatici guardavano il baratro. Poiché non aveva frecce (il suo cavallo infatti era rimasto indietro), ebbe idea di calarsi fino alla loro altezza; semicurvo, a piedi nudi, arrivò infine al primo caprone e gli affondò il pugnale nel costato. Il secondo, terrorizzato, saltò nel vuoto. Giuliano si lanciò per colpirlo e, scivolando col piede destro, cadde sul cadavere dell'altro, con la faccia sull'abisso e le due braccia spalancate. Sceso di nuovo in pianura, seguì dei salici che costeggiavano un fiume. Le gru, volando basse, di tanto in tanto sfioravano la sua testa. Giuliano le abbatteva con lo scudiscio, e non ne mancava una. Intanto l'aria, fattasi più tiepida, aveva sciolto la brina, ampie nuvole di vapore aleggiavano, spuntò il sole. Il giovane vide scintillare in gran lontananza un lago gelato, dall'aspetto plumbeo. In mezzo al lago c'era un animale che Giuliano non conosceva, un castoro dal muso nero. Malgrado la distanza, lo abbatté con una freccia; fu molto dispiaciuto di non poter portare con sé la pelle. Poi si inoltrò in un viale costeggiato da alberi enormi, che con la cima delle loro fronde formavano una sorta di arco di trionfo all'ingresso di una foresta. Un capriolo balzò fuori da una macchia, un daino balenò in un crocicchio, un tasso sbucò da una tana, un pavone spiegò la sua coda sul prato; e, quando li ebbe uccisi tutti, si presentarono altri caprioli, altri daini, altri tassi, 54 TRE RACCONTI altri pavoni, e merli, gazze, puzzole, volpi, ricci, linci, un'infinità di animali, a ogni passo più numerosi. Si aggiravano attorno a lui, tremanti, con uno sguardo pieno di dolcezza e di supplica. Ma Giuliano non si stancava di uccidere, di volta in volta tendendo la balestra, sguainando la spada, brandendo il coltello, e non pensava a niente, non c'era nulla di cui serbasse un preciso ricordo. Era a caccia in un paese qualunque, da un tempo indeterminato, allo stesso modo come sapeva di esistere, poiché tutto si compiva con la facilità dei sogni. Uno spettacolo straordinario lo fermò. Un branco di cervi gremiva un vallone a forma di circo; ammucchiati, gli uni a ridosso degli altri, si riscaldavano con i loro aliti che si vedevano fumare nella bruma. La speranza di una simile carneficina per qualche minuto lo fece soffocare di piacere. Poi smontò da cavallo, si rimboccò le maniche e cominciò a tirare. Al sibilo della prima freccia, tutti i cervi girarono la testa contemporaneamente. Si crearono dei vuoti nel branco; sì levarono versi lamentosi, e un grande movimento agitò la mandria. La sponda del vallone era troppo alta per essere valicata. Balzavano entro la cinta, cercando di scappare. Giuliano mirava e tirava; le frecce cadevano come raggi di una pioggia tempestosa. I cervi, resi furiosi, si urtavano, si impennavano, salivano gli uni sugli altri; i loro corpi con le ramificazioni aggrovigliate formavano un vasto cumulo che spostandosi si demoliva. Alla fine morirono, distesi sulla sabbia, con la bava sulle narici, le viscere di fuori, i ventri palpitanti che si abbassavano a intervalli. Poi tutto fu immobile. Stava per scendere la notte; al di là del bosco, negli interstizi dei rami, il cielo era rosso come una tovaglia insanguinata. Giuliano si appoggiò a un albero. Contemplava con occhio attonito l'enormità del massacro, non rendendosi conto di come avesse potuto portarlo a termine. Dall'altra parte del vallone, ai limiti della foresta, intravide un cervo con la sua compagna e il suo piccolo. Il cervo, che era nero e di taglia gigantesca, aveva sedici ramificazioni e una barba bianca. La cerva, bionda come le foglie morte, brucava l'erba; il cerbiatto picchiettato, senza interrompere la marcia della madre, le succhiava una mammella. La balestra vibrò ancora una volta. Il cerbiatto stramazzò subito, morto. Allora sua madre, guardando il cielo, bramì con una voce profonda, straziante, umana. Esasperato, Giuliano con un colpo in pieno petto la abbatté. LA LEGGENDA DI SAN GIULIANO OSPITALIERE 55 Il grande cervo, che lo aveva visto, fece un balzo. Giuliano scagliò contro di esso l'ultima freccia, che lo colpì in piena fronte, e vi restò piantata. Il grande cervo sembrò non sentirla; scavalcando i cadaveri, continuò ad avanzare; stava per piombargli addosso, per sventrarlo. Giuliano indietreggiava in preda a un indicibile spavento. Il prodigioso animale si fermò; con gli occhi in fiamme, solenne come un patriarca e come un giustiziere, mentre una campana lontana suonava, ripetè tre volte: «Maledetto! maledetto! maledetto! Un giorno, cuore spietato, assassinerai tuo padre e tua madre». Piegò le ginocchia, chiuse dolcemente le palpebre, e morì. Giuliano fu stupefatto, poi oppresso da un improvviso sfinimento; e un disgusto, un'immensa tristezza lo invasero. Con la fronte tra le mani, pianse a lungo. Il suo cavallo si era perduto; i suoi cani lo avevano abbandonato; la solitudine che lo avviluppava gli sembrò gravida di pericoli indefiniti e minacciosi. Allora, incitato dalla paura, cominciò a correre attraverso la campagna, scelse a caso un sentiero, e si trovò quasi immediatamente alla porta del castello. Quella notte non dormì. Sotto l'oscillazione della lampada sospesa, rivedeva sempre il grande cervo nero. La sua predizione lo ossessionava; Giuliano lottava contro di essa. «No! no! no! non voglio ucciderli!» Poi pensava: «E se invece lo volessi?...». E aveva paura che il diavolo gliene ispirasse il desiderio. Per tre mesi sua madre, in preda all'angoscia, pregò al capezzale del suo letto, mentre suo padre, gemendo, percorreva incessantemente i corridoi del castello. Mandò a chiamare i mastri speziali più famosi, i quali prescrissero una quantità di droghe. Il male di Giuliano, dicevano, era causato da un vento funesto o da un desiderio d'amore. Ma il giovane, a tutte le domande, scuoteva il capo. Le forze gli tornarono; faceva brevi passeggiate nel cortile, con il vecchio monaco e il buon signore che lo sostenevano ciascuno per un braccio. Quando si fu ristabilito completamente, si ostinò a non cacciare mai più. Suo padre, per farlo felice, gli fece dono di una grande spada saracena. La spada era in cima a un pilastro, in una panoplia. Per raggiungerla, fu necessaria una scala. Giuliano vi salì. La spada, troppo pesante, gli sfuggì dalle dita, e cadendo sfiorò il buon signore al punto che la sua guarnacca ne fu tranciata; Giuliano credette di avere ucciso suo padre, e svenne. 56 TRE RACCONTI Da allora ebbe paura delle armi. Il solo vedere una lama sguainata lo faceva impallidire. Questa sua debolezza era una desolazione per la famiglia. Alla fine il vecchio monaco, in nome di Dio, del suo onore e di quello dei suoi antenati, gli ingiunse di riprendere i suoi esercizi da gentiluomo. Non c'era giorno che gli scudieri non si distraessero maneggiando la verretta. Ben presto Giuliano vi eccelse. Riusciva a scagliare la sua nel collo delle bottiglie, strappava i denti delle banderuole, colpiva a cento passi i chiodi delle porte. Una sera d'estate, in quell'ora in cui la bruma rende indistinte le cose, mentre si trovava sotto il pergolato del giardino, intravide in fondo due ali bianche che volteggiavano all'altezza della spalliera. Non ebbe il minimo dubbio che si trattasse di una cicogna; lanciò il suo giavellotto. Si udì un grido straziante. Era sua madre, il cui cappello dai lunghi nastri era rimasto inchiodato sul muro. Giuliano fuggì dal castello, e non si fece mai più vivo. II. Si arruolò in una banda di avventurieri di passaggio. Conobbe la fame, la sete, le febbri e i pidocchi. Si abituò al fracasso delle mischie e all'aspetto dei moribondi. Il vento conciò la sua pelle. Le sue membra si indurirono al contatto con le armature; e poiché era molto forte, coraggioso, temperante, accorto, ottenne senza fatica il comando di una compagnia. All'inizio delle battaglie incitava i suoi soldati con un gran gesto della spada. Con una corda di nodi scalava le mura delle fortezze, di notte, sballottato dalla tempesta, mentre le fiammelle di pece bollente si incollavano alla sua corazza, e i merli grondavano resina bollente e piombo fuso. Più di una volta l'impatto di una pietra fracassò il suo scudo. Ponti troppo carichi di uomini crollarono sotto i suoi piedi. Facendo volteggiare la sua mazza, si liberò di quattordici cavalieri. Sfidò in campo chiuso tutti coloro che si offrirono. Più di venti volte fu dato per morto. Grazie al favore divino, si salvò sempre; giacché proteggeva gli uomini di chiesa, gli orfani, le vedove, e soprattutto i vecchi. Quando ne vedeva uno camminare davanti a sé, gridava per vedere il suo volto, come se avesse paura di ucciderlo per sbaglio. Schiavi fuggiaschi, contadini ribelli, bastardi senza fortuna, intrepidi d'ogni sorta affluirono sotto la sua bandiera, e alla fine si creò un suo esercito. LA LEGGENDA DI SAN GIULIANO OSPITALIERE 57 L'esercito si accrebbe. Divenne famoso. Lo ricercarono. Di volta in volta accorse in aiuto del Delfino di Francia e del Re d'Inghilterra, dei templari di Gerusalemme e del Surena dei Parti, del negus d'Abissinia e dell'imperatore di Calicut. Combatté scandinavi rivestiti di squame di pesce, negri armati di rondacce di pelle d'ippopotamo e che montavano asini rossi, indiani colore dell'oro che brandivano sopra i loro diademi larghe sciabole, più brillanti di specchi. Vinse i trogloditi e gli antropofagi. Attraversò regioni così torride che sotto il calore del sole le capigliature si accendevano da sole, come torce; altre così gelide che le braccia, staccandosi dal tronco, cadevano per terra; e paesi dove c'era tanta nebbia che si marciava circondati di fantasmi. Repubbliche in difficoltà lo consultarono. Nelle trattative con gli ambasciatori otteneva condizioni insperate. Se un monarca si comportava troppo male, Giuliano arrivava bruscamente e gli faceva le sue rimostranze. Affrancò interi popoli. Liberò regine imprigionate in imprendibili torri. Fu lui, e non altri, a uccidere il biscione di Milano e il drago di Oberbirbach. Orbene, l'imperatore d'Occitania, dopo il trionfo sui Musulmani spagnoli, si era unito in concubinato con la sorella del califfo di Cordoba; e ne accudiva una figlia, che aveva educato cristianamente. Ma il califfo, fingendo di volersi convertire, venne a rendergli visita accompagnato da una folta scorta, massacrò tutta la guarnigione e lo scaraventò in una segreta, dove lo trattava duramente al fine di ottenerne i tesori. Giuliano accorse in suo aiuto, distrusse l'esercito degli infedeli, assediò la città, uccise il califfo, tagliò la sua testa e la gettò come una palla dall'alto dei bastioni. Quindi liberò l'imperatore dalla sua prigione, e lo rimise sul trono, in presenza di tutta la sua corte. L'imperatore, come premio per un simile servigio, gli offrì ceste piene di monete d'oro; Giuliano non accettò. Credendo che ne desiderasse di più, gli offrì i tre quarti delle sue ricchezze; nuovo rifiuto; poi, di condividere il suo regno; Giuliano lo ringraziò; e l'imperatore piangeva di sconforto, non sapendo in quale modo testimoniargli la propria riconoscenza, quando si diede un colpo sulla fronte e disse una parola all'orecchio di un cortigiano; le tende di una tappezzeria si scostarono, e apparve una fanciulla. I suoi grandi occhi neri brillavano come due lumi dolcissimi. Un sorriso incantevole traspariva dalle labbra. I riccioli della capigliatura si impigliavano alle pietre preziose della sua veste socchiusa, e, sotto la trasparenza della tunica, si indovinava la giovinezza del suo corpo. Era minuta e rotondetta, e aveva la vita sottile. 58 TRE RACCONTI Giuliano fu subito pazzo d'amore, tanto più in quanto fino ad allora aveva condotto una vita casta. Così ricevette in moglie la figlia dell'imperatore, insieme a un castello che lei aveva ereditato da parte di madre. Al termine delle nozze si salutarono, dopo infinite gentilezze da una parte e dall'altra. Era un palazzo di marmo bianco, costruito in stile moresco, su un promontorio, in mezzo a un bosco di aranci. Terrazze di fiori digradavano fino alle sponde di un golfo, dove conchiglie rosa scricchiolavano sotto i passi. Dietro il castello si estendeva una foresta a forma di ventaglio. Il cielo era sempre azzurro, e gli alberi si chinavano l'uno dopo l'altro sotto la brezza del mare e il vento delle montagne, che in lontananza chiudevano l'orizzonte. Le camere ombrose erano rischiarate dalle incrostazioni a mosaico delle pareti. Alte colonnette, esili come giunchi, sostenevano la volta delle cupole, decorate in rilievi che imitavano le stalattiti delle grotte. C'erano getti d'acqua nelle sale, mosaici nei cortili, pareti decorate a festoni, mille raffinatezze architettoniche, e ovunque un silenzio tale da potersi udire il fruscio di una sciarpa o l'eco di un sospiro. Giuliano aveva smesso di guerreggiare. Si riposava, circondato da un popolo tranquillo; ogni giorno, una folla gli passava davanti, con genuflessioni e baciamano all'orientale. Vestito di porpora, se ne stava affacciato al davanzale di una finestra, rievocando le cacce di un tempo; avrebbe voluto correre sul deserto dietro le gazzelle e gli struzzi, nascondersi tra i bambù alla posta dei leopardi, attraversare foreste piene di rinoceronti, raggiungere la cima dei monti più inaccessibili per avvistare meglio le aquile, combattere gli orsi bianchi sui ghiacci marini. Talvolta, in un sogno, si vedeva come il nostro comune padre Adamo al centro del Paradiso, in mezzo a tutti gli animali; allungando le braccia, dava loro la morte; oppure essi sfilavano, a due a due, in ordine di grandezza, dagli elefanti e i leoni fino agli ermellini e alle anatre, come il giorno in cui entrarono nell'arca di Noè. Dall'ombra di una caverna, Giuliano dardeggiava su di loro giavellotti infallibili; ne venivano altri; la strage non aveva mai fine; e si svegliava roteando occhi inferociti. Certi principi suoi amici lo invitarono a cacciare. Rifiutò sempre, credendo, con questa sorta di penitenza, di sfuggire alla sua sventura; gli sembrava infatti che dalla morte degli animali dipendesse la morte dei suoi genitori. Ma soffriva nel non poterli vedere, e questo suo desiderio divenne insopportabile. LA LEGGENDA DI SAN GIULIANO OSPITALIERE 59 Sua moglie, per distrarlo, fece venire a corte giocolieri e danzatrici. Passeggiava insieme a lui, in una lettiga aperta, in mezzo alla campagna; altre volte, distesi a bordo di una scialuppa, guardavano i pesci girellare nell'acqua, chiara come il cielo. Spesso lei lanciava fiori sul viso di Giuliano; accovacciata ai suoi piedi, traeva melodie da un mandolino a tre corde; poi, posando sulla sua spalla le sue mani giunte, diceva con voce timida: «Che cosa avete, mio signore?». Lui non rispondeva, oppure scoppiava in lacrime; finalmente, un giorno, confessò il suo orribile pensiero. Lei cercò di combatterlo, ragionando lucidamente: suo padre e sua madre probabilmente erano già morti; seppure li avesse riveduti, perché mai, e con quale scopo, sarebbe arrivato a un simile abominio? Dunque il suo timore non era fondato, e doveva riprendere a cacciare. Giuliano sorrideva ascoltandola, ma non si decideva ad appagare il suo desiderio. Una sera d'agosto erano nella loro camera, lei si era appena coricata e lui era inginocchiato per recitare le sue preghiere, quando udì il guaito di una volpe, poi qualche passo leggero sotto la finestra; nell'ombra intravide come forme animali. La tentazione era troppo forte. Staccò dal muro la faretra. Lei parve sorpresa. «Lo faccio per obbedirti!», disse Giuliano, «all'alba sarò di ritorno.» Eppure lei aveva il presentimento di un'avventura funesta. Giuliano la rassicurò, poi uscì, stupito dell'incoerenza del suo umore. Poco tempo dopo, un paggio venne ad annunciare che due sconosciuti, in assenza del signore, chiedevano urgentemente della castellana. Subito dopo entrarono nella camera un vecchio e una vecchia, curvi, polverosi, vestiti di tela, sostenuti da un bastone. Presero coraggio e dichiararono che portavano a Giuliano notizie dei suoi genitori. Lei si chinò per ascoltarli. Ma, dopo uno sguardo d'intesa, i due le chiesero se Giuliano li amava sempre, se parlava di loro qualche volta. «Oh! sì!», disse la moglie. Allora esclamarono: «Ebbene! siamo noi!», e si sedettero, poiché erano sfiniti dalla fatica. Nulla poteva assicurare alla giovane donna che il suo sposo fosse loro figlio. 60 TRE RACCONTI Loro ne fornirono la prova, descrivendo particolari segni che Giuliano aveva sulla pelle. Lei allora balzò giù dal letto, chiamò il suo paggio, e fece servire loro un pasto. Benché avessero una gran fame, non potevano mangiare molto; la giovane donna osservava in disparte i tremori delle loro mani ossute, mentre prendevano i calici. Fecero mille domande su Giuliano. Lei rispondeva a tutte, ma ebbe cura di tacere sull'idea funebre che li riguardava. Non vedendolo tornare, erano partiti dal loro castello; erano in marcia da parecchi anni, dietro vaghe indicazioni, senza perdere la speranza. C'era voluto talmente tanto denaro per i pedaggi dei fiumi e nelle locande, per i diritti dei principi e le esigenze dei ladri, che il fondo della loro borsa era vuoto e ora erano costretti a mendicare. Ma che importanza aveva, dal momento che ora avrebbero potuto riabbracciare loro figlio? Esaltavano la sua fortuna di avere una moglie così gentile, e non smettevano di contemplarla e di baciarla. La ricchezza dell'appartamento li stupì molto; il vecchio, esaminando le pareti, domandò perché vi si trovasse il blasone dell'imperatore d'Occitania. Lei replicò: «È mio padre!». Allora lui trasalì, rammentando la profezia dello zingaro; la vecchia pensava alla parola dell'eremita. Indubbiamente la gloria di suo figlio era soltanto l'aurora di eterni splendori; e tutti e due restavano allibiti, sotto la luce del candelabro che rischiarava la tavola. Dovevano essere stati bellissimi in gioventù. La madre aveva ancora tutti i suoi capelli, le cui trecce sottili, simili a fiocchi di neve, ricadevano fin sotto le guance; quanto al padre, con la sua alta statura e la sua grande barba, assomigliava alla statua di una chiesa. La moglie di Giuliano li invitò a non aspettarlo in piedi. Li fece coricare nel suo stesso letto, poi chiuse la finestra; i due vecchi si addormentarono. Stava per fare giorno e, dietro la vetrata, gli uccellini cominciavano a cantare. Giuliano aveva attraversato il parco; ora camminava nella foresta con passo nervoso, godendo della soffice consistenza del prato e della mitezza dell'aria. Le ombre degli alberi si estendevano sui muschi. Talvolta la luna proiettava macchie bianche sulle radure, e Giuliano esitava ad avanzare, credendo di scorgere una pozza d'acqua, oppure la LA LEGGENDA DI SAN GIULIANO OSPITALIERE 61 superficie di tranquilli acquitrini si confondeva con il colore dell'erba. Ovunque regnava un gran silenzio; il giovane non trovò nessuna delle bestie che, pochi minuti prima, erravano attorno al suo castello. La boscaglia si faceva sempre più fitta, l'oscurità divenne profonda. Folate di vento caldo passavano, cariche di deboli odori. Affondava i piedi in mucchi di foglie morte, si appoggiò a una quercia per riprendere fiato un istante. D'improvviso, alle sue spalle, balzò una massa più nera del buio, un cinghiale. Giuliano non ebbe il tempo di afferrare l'arco, e se ne afflisse come di una iattura. Poi, una volta uscito dal bosco, avvistò un lupo che costeggiava una siepe. Giuliano gli scagliò una freccia. Il lupo si fermò, girò la testa per guardarlo e riprese la sua corsa. Trottava mantenendo sempre la stessa distanza, si fermava di tanto in tanto e, non appena veniva avvistato, ricominciava a fuggire. Giuliano percorse in quel modo una piana interminabile, poi dei poggi sabbiosi, e infine si trovò su un altopiano che dominava una vasta vallata. Pietre piatte erano disseminate in mezzo a sepolcri in rovina. Si barcollava su ossa di morti; qua e là, croci tarlate pendevano penosamente. Ma c'erano forme che si agitavano nell'ombra indecisa delle tombe; ne spuntarono iene, atterrite, ansimanti. Facendo cigolare le unghie sul selciato, gli si avvicinarono e lo fiutarono con sbadigli che mettevano a nudo le loro gengive. Giuliano sguainò la sciabola. Le iene fuggirono contemporaneamente in tutte le direzioni e, continuando il loro galoppo zoppicante e precipitoso, si persero in lontananza davanti a una nube di polvere. Un'ora dopo, Giuliano incontrò in una forra un toro infuriato, con le corna protese minacciosamente in avanti, e che scavava la sabbia con la zampa. Giuliano gli puntò la lancia sotto la giogaia, ma questa andò in pezzi, come se l'animale fosse stato di bronzo; chiuse gli occhi, attendendo la morte. Quando li riaprì, il toro era scomparso. Allora la sua anima si accasciò per la vergogna. Un potere superiore neutralizzava la sua forza; per tornare a casa, rientrò nella foresta. Era ostruita di liane; mentre le tagliava con la sciabola, una faina si intrufolò bruscamente tra le sue gambe, una pantera fece un balzo sopra la sua spalla, un serpente formò una spirale attorno a un frassino. Tra le sue foglie era nascosta una mostruosa taccola che stava fissando Giuliano; qua e là, tra i rami apparirono una quantità di 62 TRE RACCONTI grandi scintille, come se il firmamento avesse fatto piovere nella foresta tutte le sue stelle. Erano occhi di animali, gatti selvatici, scoiattoli, gufi, pappagalli, scimmie. Giuliano scagliò le sue frecce contro di loro; le frecce, con le loro piume, si posavano sulle foglie come bianche farfalle. Lanciò loro delle pietre; le pietre, senza colpire nulla, ricadevano. Si maledisse, avrebbe voluto colpirsi, urlò imprecazioni, soffocava dalla rabbia. E tutti gli animali che aveva inseguito si ripresentarono, formando attorno a lui uno stretto cerchio. Alcuni erano seduti sulla groppa, altri eretti in tutta la loro altezza. Giuliano restava al centro, agghiacciato dal terrore, incapace del minimo movimento. Con uno sforzo supremo della sua volontà, fece un passo; quelli che erano appollaiati sugli alberi spiegarono le ali, quelli che si accalcavano al suolo spostarono le loro membra; e tutti lo accompagnarono. Le iene marciavano davanti a lui, il lupo e il cinghiale dietro. Il toro, alla sua destra, ciondolava la testa; e, alla sua sinistra, il serpente procedeva oscillando sull'erba, mentre la pantera, inarcando il dorso, avanzava con passo felpato e a grandi falcate. Giuliano camminava più lentamente che poteva per non irritarli; dal folto dei cespugli vedeva sbucare porcospini, volpi, vipere, sciacalli, orsi. Giuliano cominciò a correre; gli animali fecero altrettanto. Il serpente sibilava, le maleodoranti bestie sbavavano. Il cinghiale gli sfiorava i talloni con le zanne, il lupo il palmo della mano con il pelo del muso. Le scimmie lo pizzicavano urlando, la faina si rotolava sopra i suoi piedi. Un orso, con una zampata, gli tolse il cappello; la pantera lasciò sprezzantemente cadere una freccia che aveva ancora piantata nella gola. La loro andatura sorniona trasudava ironia. Mentre lo osservavano con la coda dell'occhio, sembravano meditare un piano di vendetta; assordato dal ronzio degli insetti, percosso dalle codate degli uccelli, soffocato da tutti quei fiati, Giuliano camminava con le braccia tese e le palpebre chiuse come un cieco, senza aver neppure la forza di gridare: «pietà!». Il canto di un gallo vibrò nell'aria. Altri gli risposero; faceva giorno; e, al di là degli aranci, riconobbe la sommità del suo palazzo. Poi, sul limitare di un campo, vide a tre passi di distanza pernici rosse che svolazzavano tra le stoppie. Si sfilò il mantello e lo lanciò sopra di loro a mo' di rete. Quando andò a scoprirle, ne trovò una soltanto, morta da tempo, putrefatta. Quella delusione lo esasperò più di tutte le altre. La sua sete di LA LEGGENDA DI SAN GIULIANO OSPITALIERE 63 carneficina riprendeva il sopravvento; in mancanza di animali, avrebbe voluto massacrare uomini. Salì le tre terrazze, sfondò la porta con un pugno; ma, ai piedi della scala, il ricordo della sua dolce compagna placò il suo cuore. Probabilmente dormiva, e lui l'avrebbe sorpresa nel sonno. Dopo essersi tolto i sandali, aprì dolcemente la serratura, ed entrò. Le vetrate impiombate oscuravano il pallore dell'alba. Giuliano inciampò con i piedi su alcuni indumenti che si trovavano per terra; un po' più avanti, urtò una tavola piena di stoviglie. «Deve aver mangiato», si disse; avanzava verso il letto, perduto nelle tenebre, in fondo alla stanza. Quando ne raggiunse il bordo, per baciare sua moglie si chinò sul guanciale dove le due teste riposavano l'una accanto all'altra. Allora avvertì sulla bocca la sensazione come di una barba. Indietreggiò, credendo di essere impazzito; ma poi tornò accanto al letto, e le sue dita, palpando, incontrarono una lunghissima chioma. Per convincersi del suo errore, ripassò lentamente la mano sul guanciale. Era proprio una barba, questa volta, e un uomo! un uomo a letto con sua moglie! Esplodendo in un'ira smisurata, si avventò sui due col pugnale; pestava i piedi, schiumava, con urla da belva feroce. Infine si placò. I moribondi, trafitti al cuore, non avevano avuto nemmeno il tempo di muoversi. Giuliano ascoltava i loro rantoli quasi identici, e, a mano a mano che si affievolivano, un altro, come remoto, li prolungava. Dapprima incerta, quella voce lamentosa si avvicinò, prese corpo, divenne crudele; e Giuliano riconobbe, terrorizzato, il bramito del grande cervo nero. E quando si voltò, credette di vedere, nella cornice della porta, il fantasma di sua moglie con una luce in mano. Il chiasso dell'omicidio l'aveva richiamata. Le bastò un'ampia e rapida occhiata per capire tutto: fuggendo per l'orrore, lasciò cadere la sua torcia. Giuliano la raccolse. Suo padre e sua madre erano davanti a lui, distesi supini con uno squarcio nel petto; i loro volti, di una maestosa dolcezza, sembravano custodire un eterno segreto. Schizzi e pozze di sangue spiccavano sulla loro pelle bianca, sulle lenzuola, per terra, su un Cristo d'avorio sospeso sopra l'alcova. Il riflesso scarlatto della vetrata, ora colpito dal sole, illuminava quelle macchie rosse, e le moltiplicava in tutto l'appartamento. Giuliano si avvicinò ai due morti, dicendosi, tentando di convincersi che non era possibile, che si ingannava, che talvolta si danno somiglianze inesplicabili. Infine si chinò leggermente per osservare 64 TRE RACCONTI da vicino il vecchio; tra le palpebre semichiuse, intravide una pupilla che ardeva come una fiamma. Poi andò dalla parte opposta del letto, dove giaceva l'altro corpo, i cui bianchi capelli mascheravano in parte il volto. Giuliano passò le dita sotto quelle trecce, sollevò il capo; la guardava, sostenendola con il suo braccio irrigidito, mentre con l'altra mano si faceva luce con la torcia. Gocce di sangue filtravano dal materasso e cadevano a una a una sul pavimento. Al tramonto si presentò al cospetto di sua moglie e, con una voce che non era la sua, le intimò in primo luogo di non rispondere, di non avvicinarlo, di non guardarlo neppure, e che doveva seguire alla lettera, sotto pena di dannazione, tutti i suoi ordini, che erano irrevocabili. I funerali si sarebbero svolti secondo le istruzioni che si era curato di lasciare per iscritto, su un inginocchiatoio, nella camera dei morti. Le lasciava il suo palazzo, i suoi vassalli, tutti i suoi beni, senza tenere per sé neppure i vestiti che aveva indosso, neppure i suoi sandali, che avrebbe ritrovato in cima alla scala. Lei aveva obbedito alla volontà divina, occasionando il delitto, e doveva pregare per la sua anima, perché lui ormai non esisteva più. Seppellirono i morti con magnificenza, nella chiesa di un monastero a tre giorni di cammino dal castello. Un monaco incappucciato seguì il corteo funebre, lontano da tutti gli altri, senza che nessuno osasse rivolgergli la parola. Per tutta la messa restò carponi in mezzo al portale, con le braccia incrociate e la fronte nella polvere. Dopo la sepoltura, lo videro incamminarsi sul sentiero che conduceva verso le montagne. Si voltò parecchie volte, e alla fine scomparve. III. Se ne andò, mendicando il pane per il mondo. Tendeva la mano ai cavalieri sulle strade, genuflettendosi si avvicinava ai mietitori, oppure restava immobile davanti al cancello dei cortili; il suo viso era così triste che nessuno gli rifiutava mai un'elemosina. Per spirito di umiltà raccontava la sua storia; tutti allora lo rifuggivano, facendosi il segno della croce. Nei villaggi dove era già passato, non appena lo riconoscevano sprangavano le porte, gli urlavano minacce, gli lanciavano pietre. I più caritatevoli lascia- LA LEGGENDA DI SAN GIULIANO OSPITALIERE 65 vano una scodella sul davanzale delle finestre, ma poi chiudevano le imposte per non vederlo. Respinto da tutti, evitava gli uomini; si nutrì di radici, di piante, di frutti caduti dagli alberi, di conchiglie cercate lungo le spiagge. Talvolta, alla svolta di un costone, vedeva sotto i suoi occhi una confusione di tetti accalcati, guglie di pietra, ponti, torri, strade buie che si intersecavano, e dalle quali saliva fino a lui un mormorio continuo. Il bisogno di mescolarsi all'esistenza altrui lo induceva a scendere nelle città. Ma l'abbrutimento dei volti, il baccano dei mestieri, l'indifferenza dei discorsi raggelavano il suo cuore. Nei giorni di festa, quando il campanone delle cattedrali infondeva allegria nella popolazione fin dalle prime luci del giorno, osservava gli abitanti uscire dalle loro case, i balli nelle piazze, le fontane di cervogia nei crocicchi, i tendaggi di damasco davanti alle residenze dei principi, e, sul far della sera, attraverso le vetrate dei pianterreni, le lunghe tavolate di famiglia dove gli anziani tenevano i bambini sulle ginocchia; il pianto lo soffocava, e se ne ritornava verso la campagna. Contemplava con slanci d'amore i puledri nei pascoli, gli uccelli nei loro nidi, gli insetti sui fiori; tutti, al suo avvicinarsi, correvano lontano, si nascondevano terrorizzati, volavano via veloci come il fulmine. Cercò di nuovo la solitudine. Ma il vento recava al suo orecchio come rantoli d'agonia; le lacrime della rugiada che cadevano al suolo gli rammentavano altre gocce, più pesanti. Tutte le sere il sole ricopriva di sangue le nubi; e ogni notte, in sogno, il parricidio si replicava. Si fece un cilicio con delle punte di ferro. Si inerpicò in ginocchio su tutte le colline che avessero sulla loro cima una cappella. Ma l'implacabile pensiero oscurava lo splendore dei tabernacoli, lo torturava anche attraverso la macerazione della penitenza. Non si ribellava contro Dio che gli aveva inflitto una simile punizione, tuttavia si disperava per esserne stato la causa. La sua persona gli faceva un tale orrore che sperò di liberarsene cacciandosi in ogni genere di pericoli. Salvò paralitici dagli incendi, fanciulli dal fondo dei burroni. L'abisso lo ripudiava, le fiamme lo risparmiavano. Il tempo non placò la sua sofferenza. Diveniva sempre più intollerabile. Decise di morire. E, un giorno che si trovava sull'orlo di un pozzo, mentre si chinava per valutare la profondità dell'acqua, vide apparire di fronte a lui un vecchio scarno, dalla barba bianca e di un aspetto così penoso che gli fu impossibile trattenere le lacrime. Anche 66 TRE RACCONTI l'altro piangeva. Senza riconoscere la propria immagine, Giuliano rammentava vagamente un volto simile a quello. Lanciò un grido: era suo padre; non pensò più a uccidersi. Così, portando il peso del suo ricordo, attraversò molti paesi; arrivò sulle sponde di un fiume il cui guado era molto rischioso, a causa della violenza delle acque, e anche perché sulla riva c'era una grande distesa di limo. Da tempo nessuno osava più oltrepassarlo. Una vecchia barca, capovolta e in parte inabissata, faceva affiorare la prua tra i giunchi. Giuliano, esaminandola, scoprì un paio di remi; gli venne così in mente di impiegare la sua esistenza al servizio degli altri. Cominciò col costruire sull'approdo una sorta di argine che avrebbe permesso di scendere fino al canale; si spezzò le unghie per rimuovere quelle enormi pietre, le poggiava sul ventre per trasportarle, scivolava nella melma, vi affondava, più di una volta rischiò di perire. Pian piano riuscì a riparare l'imbarcazione con relitti di navi, e si costruì un tugurio con fango argilloso e tronchi d'albero. Poiché il varco era conosciuto, i viandanti si presentarono. Lo chiamavano dall'altra sponda, agitando bandiere; Giuliano saltava rapidamente nella barca. Era pesantissima, e sempre sovraccarica di ogni genere di bagagli e fardelli, senza contare le bestie da soma che, scalciando per la paura, accrescevano l'ingombro. Non chiedeva nulla in cambio della sua fatica; qualcuno gli dava resti di vettovaglie che traeva dalla bisaccia, o indumenti troppo logori di cui voleva disfarsi. Gente brutale vociferava bestemmiando; Giuliano li riprendeva con dolcezza; costoro rispondevano con ingiurie. Si accontentava di benedirli. Un tavolino, uno sgabello, un giaciglio di foglie morte e tre coppe d'argilla costituivano tutto il suo arredo. Due fori nel muro servivano da finestre. Da una parte si stendevano a perdita d'occhio pianure incolte la cui superficie era ricoperta, qua e là, di pallidi stagni; e il grande fiume, dinanzi a lui, scorreva con i suoi flutti verdastri. In primavera, la terra umida aveva un odore di marcio. Poi un vento disordinato sollevava la polvere formando mulinelli. Entrava dappertutto, impantanava l'acqua, scricchiolava sotto le gengive. Un po' più tardi arrivavano nugoli di zanzare, il cui ronzio e le cui punture non conoscevano requie, di giorno come di notte. Sopravvenivano poi atroci gelate che davano alle cose la rigidità della pietra, e ispiravano un folle bisogno di mangiare carne. Passarono mesi senza che Giuliano vedesse nessuno. Spesso chiudeva gli occhi, tentando, con la memoria, di tornare alla sua LA LEGGENDA DI SAN GIULIANO OSPITALIERE 67 giovinezza; appariva il cortile di un castello, con levrieri sulla scalinata, domestici nella sala d'armi e, sotto un pergolato di pampini, un adolescente dai capelli biondi tra un vecchio coperto di pellicce e una dama dal grande cappello a cono; tutt'a un tratto si trasformavano in cadaveri. Allora si gettava bocconi sul pagliericcio, e ripeteva: «Ah! povero padre! povera madre! povera madre!», e cadeva in un deliquio in cui le visioni funebri si perpetuavano. Una notte, mentre dormiva, credette di udire qualcuno che lo chiamava. Tese l'orecchio ma non distinse altro che il mugghiare dei flutti. Ma la voce proseguì: «Giuliano!». Veniva dall'altra sponda, e ciò gli parve straordinario, data la vastità del fiume. Per la terza volta chiamarono: «Giuliano!». E quella voce sonora aveva l'intonazione di una campana da chiesa. Accesa la lanterna, Giuliano uscì dalla baracca. Un furioso uragano riempiva la notte. Le tenebre erano profonde, qua e là lacerate dal biancore delle onde che montavano. Dopo un istante di esitazione, Giuliano sciolse gli ormeggi. L'acqua divenne subito tranquilla, la barca vi scivolò sopra e raggiunse l'altra riva, dove un uomo era in attesa. Era avvolto di una tela in brandelli, con il volto simile a una maschera di gesso e due occhi più rossi di tizzoni. Avvicinando a costui la lanterna, Giuliano si accorse che un'orrenda lebbra lo ricopriva; eppure, nel suo contegno, c'era una sorta di regale maestà. Non appena entrò nella barca, questa affondò prodigiosamente, schiacciata dal suo peso; uno scossone la fece riemergere, e Giuliano cominciò a vogare. A ogni colpo di remo, la risacca dei flutti la sollevava per la prua. L'acqua, più nera dell'inchiostro, scorreva furiosamente ai due lati dello scafo. Scavava abissi, creava montagne, e la scialuppa vi saltava sopra, quindi ripiombava nelle profondità, dove beccheggiava sballottata dal vento. Giuliano protendeva il corpo, spiegava le braccia e, inarcuandosi sui piedi, si rovesciava con una torsione della vita per opporre maggior resistenza. La grandine sferzava le sue mani, la pioggia scorreva nella sua schiena, la violenza dell'aria lo soffocava: si fermò. Allora il battello fu trascinato alla deriva. Ma, 68 TRE RACCONTI rendendosi conto che si trattava di un evento straordinario, di un ordine al quale non doveva disobbedire, si rimise ai remi; il battito degli scalmi interrompeva il clamore della tempesta. La piccola lanterna ardeva davanti a lui. Uccelli svolazzanti la nascondevano a tratti. Ma vedeva sempre le pupille del Lebbroso che stava in piedi a poppa, immobile come una colonna. Andò avanti così a lungo, molto a lungo! Dopo che furono arrivati nel capanno, Giuliano chiuse la porta; lo trovò seduto sullo sgabello. Quella specie di sudario che lo copriva era sceso giù fino ai fianchi; le sue spalle, il petto, le braccia magre sparivano sotto placche di pustole squamose. Enormi rughe solcavano la fronte. Come uno scheletro, aveva un foro al posto del naso; le sue labbra bluastre effondevano un alito fitto come nebbia, e nauseabondo. «Ho fame!», disse. Giuliano gli diede ciò che possedeva, una vecchia fetta di lardo e qualche crosta di pane nero. Quando le ebbe divorate, la tavola, la scodella e il manico del coltello avevano le stesse macchie che si vedevano sul suo corpo. In seguito disse: «Ho sete!». Giuliano andò a cercare la sua brocca; mentre la prendeva, ne scaturì un aroma che dilatò il suo cuore e le sue narici. Era vino; che felice sorpresa! ma il Lebbroso protese il braccio, e in un solo sorso vuotò l'intera brocca. Poi disse: «Ho freddo!». Giuliano diede fuoco a un fascio di felci in mezzo alla capanna. Il Lebbroso si avvicinò per riscaldarsi; e, accovacciato sui talloni, tremava con tutte le sue membra, perdeva le forze; i suoi occhi non brillavano più, le sue ulcere colavano, e, con una voce quasi del tutto spenta, mormorò: «Il tuo letto!». Giuliano lo aiutò dolcemente a trascinarvisi, distese anzi su di lui, per coprirlo, la tela della sua barca. Il Lebbroso gemeva. Gli angoli della bocca mettevano a nudo i denti, un rantolo precipitoso gli scuoteva il petto, il suo ventre, a ogni respiro, si incavava fino alle vertebre. Poi chiuse le palpebre. «Nelle ossa ho una specie di gelo! Vieni accanto a me!» E Giuliano, scostando la tela, si sdraiò sulle foglie morte, accanto a lui, fianco a fianco. Il Lebbroso girò la testa. «Spogliati, perché possa avvertire il calore del tuo corpo!» Giuliano si tolse i vestiti; quindi, nudo come il giorno della sua LA LEGGENDA DI SAN GIULIANO OSPITALIERE 69 nascita, si rimise nel letto; sentiva contro la sua coscia la pelle del Lebbroso, più fredda di quella di un serpente, ruvida come una lima. Tentava di incoraggiarlo; l'altro rispondeva ansimando: «Ah! Sto per morire!... Avvicinati! riscaldami! Non con le mani! no! con tutto il corpo». Giuliano si distese completamente su di lui, bocca contro bocca, petto contro petto. Allora il Lebbroso lo strinse; e i suoi occhi assunsero di colpo una luce stellare; i capelli si allungarono come raggi di sole; il soffio delle sue narici aveva la dolcezza delle rose; una nube di incenso si alzò dal focolare, il fiume cantava. Intanto un'abbondanza di delizie, una gioia sovrumana scendeva come un'inondazione nell'anima di Giuliano in estasi; e colui le cui braccia continuavano a stringerlo cresceva, cresceva, raggiungendo con la testa e con i piedi i due estremi della capanna. Il tetto volò via, il firmamento si spiegò; e Giuliano ascese verso gli spazi azzurri, faccia a faccia con Nostro Signore Gesù Cristo, che lo portava con sé in cielo. Questa è la storia di San Giuliano Ospitaliere, press'a poco come la si può vedere, sulla vetrata di una chiesa, nel mio paese. Erodiade I. La roccaforte di Macherus si ergeva a oriente del mar Morto, su un picco di basalto a forma di cono. Quattro valli profonde la circondavano, due sui fianchi, una di fronte, la quarta al di là. Le case erano ammassate alla sua base, in una cinta muraria che ondeggiava assecondando le irregolarità del terreno, e, tramite un sinuoso camminamento scavato nella roccia, la città era collegata alla fortezza, le cui mura erano alte centoventi cubiti, con un gran numero di angoli, merli e, qua e là, torri che facevano quasi da fioroni a quella corona di pietre sospesa sopra l'abisso. All'interno c'era un palazzo ornato di portici, e coperto da una terrazza chiusa da una balaustra di legno di sicomoro, con una serie di pali disposti per tendere un velario. Un mattino, prima che facesse giorno, il Tetrarca Erode Antipa venne ad affacciarvisi, e contemplò quella vista. Le montagne, immediatamente sotto di lui, cominciavano a svelare le loro creste, mentre la loro massa, fin nel profondo degli abissi, era ancora nell'ombra. La nebbia che fluttuava si squarciò, e apparvero allora i contorni del mar Morto. L'alba, che si alzava dietro Macherus, diffondeva un rosso chiarore. Presto illuminò le sabbie dell'approdo, le colline, il deserto e, più lontano, tutti i monti della Giudea, inclinando le loro superfici scabre e grigie. Engaddi, al centro, tracciava una striscia nera; Ebron, nella depressione, si arrotondava a forma di cupola; Escoi aveva melograni, Sorek vigne, Carmelo campi di sesamo; e la torre Antonia, col suo cubo mostruoso, dominava Gerusalemme. Il Tetrarca distolse lo sguardo per contemplare, a destra, i palmizi di Gerico; e pensò alle altre città della sua Galilea: Cafarnao, Endor, Nazareth, Tiberiade dove forse non sarebbe mai più tornato. Intanto il Giordano scorreva nell'arida pianura. Interamente bianca, abbagliava come una coltre nevosa. Il lago, ora, sembrava di lapislazzuli; e alla sua estremità meridionale, dalla parte dello Yemen, Antipa riconobbe ciò che temeva di ve- ERODIADE 71 dere. Tende scure vi erano disseminate; uomini armati di lance circolavano tra i cavalli, e fuochi, spegnendosi, brillavano come scintille che rasentavano il suolo. Erano le truppe del re degli Arabi, del quale Antipa aveva ripudiato la figlia per prendere Erodiade, moglie di un suo fratello che viveva in Italia, senza pretese di potere. Antipa attendeva gli aiuti dei Romani; e poiché Vitellio, governatore della Siria, tardava a farsi vivo, era roso dall'inquietudine. Forse Agrippa l'aveva fatto cadere in disgrazia presso l'Imperatore? Filippo, il suo terzo fratello, sovrano della Betania, si armava clandestinamente. I Giudei non volevano più saperne dei suoi costumi idolatri, e tutti gli altri della sua dominazione; e così esitava tra due progetti: rabbonire gli Arabi o concludere un'alleanza con i Parti; e, sotto il pretesto di festeggiare il suo compleanno, per quello stesso giorno aveva invitato a un gran banchetto i capi del suo esercito, gli intendenti delle sue terre, e i notabili di Galilea. Con uno sguardo acuto frugò tutte le strade. Erano deserte. Le aquile volavano sopra la sua testa; i soldati, lungo i bastioni, dormivano addossati ai muri; niente si muoveva nel castello. D'improvviso, una voce lontana, come sprigionatasi dalle profondità della terra, fece impallidire il Tetrarca. Si chinò per ascoltare: era svanita. Ma poi riprese; e Antipa, battendo le mani, gridò: «Mannaei! Mannaei!». Si presentò un uomo, nudo fino alla cintola, come i massaggiatori delle terme. Era enorme, vecchio, scarno, e alla coscia portava un coltellaccio in una guaina di bronzo. La sua capigliatura, sollevata da un pettine, esagerava l'ampiezza della sua fronte. Una sonnolenza sbiadiva i suoi occhi, ma i suoi denti brillavano, e i piedi nudi aderivano lievemente sul selciato: tutto il suo corpo aveva la flessuosità di una scimmia, e il suo volto l'impassibilità di una mummia. «Dov'è?», domandò il Tetrarca. Mannaei rispose, indicando con il pollice un oggetto alle loro spalle: «Laggiù! come sempre!». «Mi era parso di udirlo!» E Antipa, dopo aver fatto un profondo respiro, si informò su laokanan, quello stesso che i Latini chiamavano san Giovanni Battista. Si erano rifatti vivi quei due uomini, ammessi per indulgenza, il mese scorso, nella sua cella, si era saputo da allora che cosa fossero venuti a fare? Mannaei replicò: «Hanno scambiato con lui parole misteriose, come i briganti, la 72 TRE RACCONTI sera, ai crocicchi delle strade. In seguito sono partiti per l'Alta Galilea, annunciando che avrebbero portato una grande novella». Antipa abbassò la testa, poi, con aria spaventata: «Sorveglialo! sorveglialo! E non lasciar entrare nessuno! Spranga la porta! Copri la fossa! Non devono nemmeno sospettare che sia ancora vivo!». Senza aver ricevuto quegli ordini, Mannaei li aveva già eseguiti; infatti Iaokanan era ebreo, e lui odiava gli Ebrei come tutti i Samaritani. Il loro tempio di Garizim, designato da Mosè per essere il centro di Israele, non esisteva più dal tempo del re Ircano; quello di Gerusalemme suscitava in loro il furore di un oltraggio e di un'ingiustizia permanente. Mannaei vi si era introdotto con l'intento di profanare l'altare con ossa di morti. I suoi compagni, meno rapidi di lui, erano stati decapitati. Lo intravide nell'intervallo tra due colline. Il sole faceva risplendere le sue mura di marmo bianco e le lamine d'oro del tetto. Era come una montagna luminosa, qualcosa di sovrumano che schiacciava tutto con la sua opulenza e con il suo orgoglio. Allora stese le braccia in direzione di Sion; e, impettito, il volto all'indietro, i pugni chiusi, gli lanciò un anatema, convinto che le parole avessero un potere effettivo. Antipa ascoltava, apparentemente senza scandalizzarsi. Il Samaritano disse ancora: «Talvolta si agita, vorrebbe fuggire, spera in una liberazione. Altre volte ha l'aria tranquilla di un animale malato; oppure lo vedo camminare nelle tenebre e ripetere: "Che importa? Perché Lui cresca, bisogna che io diminuisca!".». Antipa e Mannaei si guardarono. Ma il Tetrarca era stanco di riflettere. Tutti quei monti attorno a lui, come strati di grandi onde pietrificate, le nere voragini sul fianco delle scogliere, l'immensità azzurra del cielo, la luce violenta del giorno, la profondità degli abissi lo turbavano; e si sentiva invaso dalla desolazione alla vista del deserto, il quale, nello sconvolgimento delle sue terre, simulava anfiteatri e palazzi abbattuti. Il vento caldo, con l'odore dello zolfo, portava una sorta di esalazione di città maledette, sepolte più in profondità delle spiagge, sotto acque pesanti. Quei segni di una collera immortale terrorizzavano il suo pensiero; restava con i gomiti sulla balaustra, gli occhi fissi e le tempie nelle mani. Qualcuno lo aveva toccato. Si girò. Erodiade era davanti a lui. Una zimarra di porpora leggera la avvolgeva fino ai sandali. Uscita in fretta e furia dalla sua camera, non aveva né collane né ERODIADE 73 orecchini. Una treccia dei suoi neri capelli ricadeva su un braccio, e la sua estremità si insinuava tra i seni. Le narici, troppo rialzate, palpitavano; la gioia di un trionfo le illuminava il volto; con voce forte, scuotendo il Tetrarca: «Cesare ci ama! Agrippa è in prigione!». «Chi te lo ha detto?» «Lo so!» Aggiunse: «È per aver augurato l'impero a Caio!». Pur vivendo delle loro elemosine, aveva brigato per il titolo di re, cui essi ambivano come lui. Ma in avvenire niente più paure! «Le prigioni di Tiberio difficilmente si aprono, e talvolta non vi è sicura neppure l'esistenza!» Antipa la comprese; benché fosse sorella di Agrippa, la sua intenzione atroce gli sembrò giustificata. Quel genere di delitti erano una conseguenza delle cose, una fatalità nelle case reali. In quella di Erode non si contavano più. Quindi Erodiade illustrò la sua impresa: i clienti comprati, le lettere scoperte, le spie a ogni porta, e infine come era riuscita a sedurre Eutiche, il delatore. «Non mi è costato nulla! Per te non ho forse fatto di più?... Ho abbandonato mia figlia!» Dopo il suo divorzio, aveva lasciato a Roma la fanciulla, contando di avere altri figli dal Tetrarca. Non ne parlava mai. Antipa si domandò il perché di quell'accesso di tenerezza. Avevano disteso il velario e portato per loro grandi cuscini. Erodiade vi si accasciò, e pianse, voltando le spalle. Poi si passò la mano sulle palpebre, disse che non voleva più pensarci, che era felice; gli ricordò le loro chiacchierate laggiù, nell'atrio, gli incontri alle terme, le passeggiate lungo la via Sacra, e le sere nelle grandi ville al mormorio dei getti d'acqua, sotto archi fioriti, davanti alla campagna romana. Lo guardava come un tempo, strofinandosi sul suo petto con gesti carezzevoli. Lui la respinse. L'amore che tentava di rianimare era così lontano, ormai! E tutte le sue sciagure ne erano la conseguenza; la guerra, infatti, si protraeva da quasi dodici anni! Aveva invecchiato il Tetrarca. Le sue spalle si incurvavano sotto la toga scura, dagli orli violetti; i capelli bianchi si confondevano con la barba, e il sole, attraversando il velo, inondava di luce la sua fronte corrucciata. Anche quella di Erodiade aveva delle rughe; l'uno di fronte all'altra, si consideravano con aria efferata. I sentieri delle montagne cominciarono a popolarsi. Pastori pungolavano buoi, bambini tiravano asini, palafrenieri conducevano cavalli. Chi scendeva dalle alture al di là di Macherus spariva dietro il castello; altri risalivano dalla forra sottostante e, rag- 74 TRE RACCONTI giunta la città, scaricavano le proprie masserizie nei cortili. Erano fornitori del Tetrarca, o servitori che precedevano gli invitati. Ma in fondo alla terrazza, a sinistra, apparve un Esseno, in tunica bianca, a piedi nudi, con un aspetto stoico. Mannaei, dalla parte opposta, si stava precipitando brandendo il suo coltellaccio. Erodiade gli gridò: «Uccidilo!». «Fermo!», disse il Tetrarca. Divenne immobile. L'altro anche. Poi si ritirarono, ciascuno da una scala diversa, a ritroso, senza perdersi di vista. «Lo conosco!», disse Erodiade, «si chiama Fanuele, e cerca di vedere laokanan, dal momento che sei stato così cieco da tenerlo in vita.» Antipa obiettò che un giorno sarebbe potuto essere utile. Le sue invettive contro Gerusalemme accattivavano loro le simpatie degli altri Ebrei. «No!», replicò la donna, «accettano qualunque padrone, non sono capaci di costituire una patria.» Quanto a colui che agitava il popolo con speranze preservatesi dal tempo di Neemia, la politica migliore era di sopprimerlo. Non c'era nessuna fretta, secondo il Tetrarca. laokanan pericoloso? Suvvia! E dava a vedere di riderne. «Taci!», esclamò Erodiade, e raccontò di nuovo della sua umiliazione, quel giorno che andava verso Galaad per la raccolta del balsamo. «C'era gente, in riva al fiume, che ammonticchiava i suoi indumenti da una parte, mentre accanto a loro un uomo parlava. Aveva una pelle di cammello avvolta attorno alla vita, e la sua testa sembrava quella di un leone. Non appena mi vide, mi sputò addosso tutte le maledizioni dei profeti. Le sue pupille avvampavano; la sua voce ruggiva; levava le braccia al cielo come per strapparne il tuono. Impossibile fuggire! Le ruote del mio carro erano insabbiate fino agli assi; così mi allontanai lentamente, riparandomi sotto il mantello, raggelata da quegli insulti che cadevano come una pioggia tempestosa.» laokanan le impediva di vivere. Quando lo catturarono e lo legarono con le corde, i soldati avevano l'ordine di pugnalarlo se avesse opposto resistenza; lui si era mostrato mansueto. Avevano introdotto dei serpenti nella sua cella; erano morti. L'inutilità di quegli agguati esasperava Erodiade. D'altronde, perché quella guerra contro di lei? Quale interesse lo spingeva? I suoi discorsi gridati alle folle si erano diffusi, circolavano; Erodiade li udiva ovunque, riempivano l'aria. Alle legioni avrebbe potuto contrapporre il suo coraggio. Ma quella forza, più perni- ERODIADE 75 ciosa delle spade, che non si riusciva ad afferrare, era stupefacente; la donna percorreva la terrazza, resa livida dalla collera, incapace di esprimere con le parole ciò che la soffocava. Temeva anche che il Tetrarca, cedendo all'opinione pubblica, decidesse di ripudiarla. Allora tutto sarebbe stato perduto! Dalla sua infanzia Erodiade nutriva il sogno di un grande impero. Per coronarlo era giunta al punto di lasciare il suo primo sposo e di unirsi all'attuale, che a suo giudizio l'aveva ingannata. «Bel sostegno ho ricevuto, entrando nella tua famiglia!» «Vale quanto la tua!», disse semplicemente il Tetrarca. Erodiade si sentì ribollire nelle vene il sangue dei sacerdoti e dei re suoi antenati. «Ma se tuo nonno spazzava il tempio di Ascalona! Gli altri erano pecorai, banditi, capicarovana, un'orda tributaria di Giuda dai tempi di David! Tutti i miei avi hanno sconfitto i tuoi! Il primo dei Maccabei vi ha cacciato da Ebron, Ircano vi ha costretti a circoncidervi!» E, sprizzando tutto il disprezzo della patrizia per il plebeo, l'odio di Giacobbe contro Edom, Erodiade gli rimproverò la sua indifferenza alle offese, la sua debolezza verso i Farisei che lo tradivano, la sua pavidità nei confronti del popolo che la detestava. «Sei come lui, ammettilo! rimpiangi la fanciulla araba che danza attorno alle pietre! Riprendila! Va a vivere con lei, nella sua tenda! divora il suo pane cotto sotto la cenere! ingoia il latte cagliato delle sue pecore! bacia le sue guance azzurre! e dimenticami!» Il Tetrarca non ascoltava più. Osservava la terrazza di una casa, dove c'erano una ragazza e una vecchia che aveva un parasole con un manico di giunco lungo come la canna di un pescatore. In mezzo a un tappeto giaceva una gran cesta da viaggio aperta, dalla quale traboccavano confusamente cinture, veli, orecchini d'oro. A tratti la ragazza si chinava su quelle cose e le agitava in aria. Era vestita alla maniera delle romane, con una tunica arricciata e un peplo a ghiande di smeraldo; fasce azzurre racchiudevano la sua capigliatura, di certo troppo pesante, perché, di tanto in tanto, vi portava la mano. L'ombra del parasole vagava sopra di lei, nascondendola per metà. Antipa vide due o tre volte il suo collo delicato, la punta dell'occhio, l'angolo di una piccola bocca. Ma, dai fianchi alla nuca, vedeva tutta la sua figura ergersi flessuosamente. Spiava quella cadenza, e la sua respirazione diventava più forte; nei suoi occhi avvampavano fiamme. Erodiade lo osservava. Antipa chiese: «Chi è?». Lei rispose che non lo sapeva, e se ne andò, improvvisamente placata. 76 TRE RACCONTI Il Tetrarca era atteso sotto i portici da alcuni Galilei, il capo scriba, quello dei pascoli, l'amministratore delle saline e un ebreo di Babilonia al comando dei suoi cavalieri. Tutti lo salutarono con un'acclamazione. Dopodiché scomparve nelle stanze interne. All'angolo di un corridoio sbucò Fanuele. «Ah! ancora tu? vieni certo per laokanan!» «E per te! devo darti una notizia importante.» E, senza lasciare Antipa, si introdusse dietro di lui in un buio appartamento. La luce penetrava da una grata che occupava l'intero cornicione della finestra. Le pareti erano dipinte di un colore granata, quasi nero. In fondo si profilava un letto d'ebano, con cinghie in pelle di bue. Al di sopra uno scudo riluceva come un sole. Antipa attraversò tutta la sala e si distese sul letto. Fanuele restò in piedi. Alzò il braccio e, in un atteggiamento ispirato: «L'Altissimo invia ogni tanto sulla terra uno dei suoi figli. laokanan è uno di questi. Se lo opprimi, sarai punito». «È lui che mi perseguita!», esclamò Antipa. «Ha preteso da me un'azione impossibile. Da allora mi tormenta. E pensare che all'inizio non ero così duro con lui! È arrivato al punto di sguinzagliare da Macherus uomini che sconvolgono le mie province! Sia maledetto! Dal momento che mi attacca, io mi difendo!» «Le sue collere sono troppo violente», replicò Fanuele, «ma non importa! Devi liberarlo.» «Non si mettono in libertà le bestie furiose!», disse il Tetrarca. L'Esseno rispose: «Non preoccuparti! Andrà presso gli Arabi, i Galli, gli Sciti. La sua opera deve estendersi fino in capo al mondo!». Antipa sembrava assorto in una visione. «La sua potenza è straordinaria... Malgrado tutto, lo amo!» «Allora, perché non lo liberi?» Il Tetrarca scrollò il capo. Temeva Erodiade, Mannaei e l'ignoto. Fanuele tentò di persuaderlo, adducendo, a garanzia dei suoi progetti, la promessa di sottomissione degli Esseni al re. La gente rispettava quegli uomini poveri, irriducibili ai supplizi, vestiti di lino, e che leggevano il futuro nelle stelle. Antipa rammentò una parola detta poco prima da Fanuele. «Qual è questa cosa che mi annunciavi così importante?» Arrivò un negro. Il suo corpo era bianco di polvere. Rantolava e non potè dire altro che: «Vitellio!». ERODIADE 77 «Come! Sta arrivando?» «L'ho visto! Fra meno di tre ore sarà qui!» Le porte dei corridoi furono agitate come da un colpo di vento. Un frastuono riempì il castello: chiasso di gente che correva, di mobili trascinati, di argenterie che crollavano; e, dall'alto delle torri, le buccine squillavano per avvertire gli schiavi dispersi. II. I bastioni erano pieni di gente quando Vitellio entrò nella corte. Si appoggiava al braccio del suo interprete, seguito da una grande lettiga rossa ornata di pennacchi e di specchi; aveva indosso la toga, il laticlavio, i calzari di un console e la sua persona era circondata di littori. Questi ultimi piantarono sulla porta i loro dodici fasci, bacchette legate da una cinghia con un'ascia nel mezzo. Tutti allora tremarono dinanzi alla maestà del popolo romano. La lettiga, manovrata da otto uomini, si fermò. Ne uscì un adolescente con il ventre prominente, il viso butterato e le dita piene di perle. Gli offrirono una coppa piena di vino aromatico. La bevve, ne reclamò una seconda. Il Tetrarca era caduto alle ginocchia del Proconsole, desolato, diceva, di non essersi potuto preparare in anticipo al favore della sua presenza. In caso contrario, avrebbe predisposto sulle strade tutto ciò che si addiceva al rango dei Vitelli. Essi discendevano dalla dea Vitellia. Una strada che dal Gianicolo conduceva al mare portava ancora il loro nome. Questure e consolati non si contavano nella famiglia; quanto a Lucio, ora suo ospite, bisognava essergli riconoscente in quanto vincitore dei Cliti e padre di quel giovane Aulo che sembrava essere tornato nel suo dominio, poiché l'Oriente è la patria degli Dei. Queste iperboli furono espresse in latino. Vitellio le accolse impassibilmente. Rispose che il grande Erode era sufficiente per la gloria di una nazione. Gli ateniesi gli avevano affidato la soprintendenza dei giochi Olimpici. Aveva edificato templi in onore di Augusto, era stato paziente, ingegnoso, terribile, e sempre fedele ai Cesari. Tra le colonne dai capitelli bronzei si intravide Erodiade, che incedeva con l'aria di un'imperatrice, in mezzo alle ancelle e agli eunuchi che recavano vassoi d'argento dorato carichi di bruciaprofumi. Il Proconsole fece tre passi verso di lei; e, dopo che la ebbe salutata chinando la testa: «Che felicità!», esclamò Erodiade, «che ormai Agrippa, il nemico di Tiberio, sia nell'impossibilità di nuocere!». 78 TRE RACCONTI Il Proconsole ignorava l'evento, e trovò quella donna pericolosa; poiché Antipa giurava che avrebbe fatto qualunque cosa per l'Imperatore, Vitellio aggiunse: «Anche se fosse a detrimento degli altri?». Aveva preso ostaggi al re dei Parti, e l'Imperatore non ne era stato messo al corrente; Antipa, presente alla conferenza, per farsi valere ne aveva subito dato notizia. Donde quel profondo odio, e il ritardo nel far pervenire i rinforzi. Il Tetrarca balbettò qualcosa, ma Aulo disse ridendo: «Calmati, ci sono qua io a proteggerti!». Il Proconsole finse di non aver sentito. La fortuna del padre dipendeva dalle macchie del figlio, e quel fiore dei fanghi di Capri gli procurava benefici talmente considerevoli da indurlo a circondarlo di riguardi, pur diffidando di lui, perché era velenoso. Un tumulto si levò sotto la porta. Si introdusse una fila di muli bianchi, montati da individui vestiti da sacerdoti. Erano Sadducei e Farisei, spinti a Macherus dalla medesima ambizione: i primi volevano ottenere il diritto di sacrificare, i secondi volevano conservarlo. I loro volti erano cupi, soprattutto quelli dei Farisei, nemici di Roma e del Tetrarca. I lembi delle loro tuniche creavano loro impaccio nella calca; le tiare vacillavano sulle loro fronti, sopra strisce di pergamena dove erano tracciate iscrizioni. Quasi contemporaneamente arrivarono i soldati dell'avanguardia. Avevano insaccato i loro scudi, come precauzione contro la polvere; dietro di loro c'era Marcello, luogotenente del Proconsole, con i pubblicani che reggevano sotto le ascelle le loro tavolette di legno. Antipa nominò i suoi principali collaboratori: Tolmai, Kanthera, Sehon, Ammonio d'Alessandria, che gli comprava l'asfalto, Naamann, capitano dei suoi veliti, Iasim il Babilonese. Vitellio aveva notato Mannaei. «Chi è costui?» Il Tetrarca, con un gesto, fece intendere che era il boia. Quindi presentò i Sadducei. Gionata, un ometto disinvolto e che parlava greco, supplicò il sovrano di onorarli di una visita a Gerusalemme. Probabilmente ci sarebbe andato. Eleazar, dal naso aquilino e dalla lunga barba, reclamò per i Farisei il mantello del gran sacerdote trattenuto nella torre Antonia dall'autorità civile. In seguito i Galilei denunciarono Ponzio Pilato. Col pretesto di un folle che cercava i vasi d'oro di David in una caverna, in Samaria, aveva fatto uccidere parecchi abitanti; parlavano tutti as- ERODIADE 79 sieme, Mannaei più violentemente degli altri. Vitellio assicurò che i colpevoli sarebbero stati puniti. Vi fu un improvviso vociferare di fronte a un portico dove i soldati avevano deposto i loro scudi. Le fodere erano state tolte, e sugli umboni spiccava la figura di Cesare. Per i Giudei era un'idolatria. Antipa li arringò, mentre Vitellio, nel colonnato, su un alto seggio, era stupito del loro furore. Aveva fatto bene Tiberio a esiliarne quattrocento in Sardegna. Ma in casa loro erano forti: ordinò di ritirare gli scudi. Allora circondarono il Proconsole, implorando riparazione alle ingiustizie, privilegi, elargizioni. I loro vestiti erano laceri; si schiacciavano l'un l'altro; per fare largo, schiavi armati di bastoni picchiavano a destra e a manca. I più vicini alla porta furono spinti verso il sentiero, mentre gli altri che lo salivano rifluirono; due correnti si incrociavano in quella massa umana che oscillava, compressa dalla cinta muraria. Vitellio chiese il perché di tanta folla. Antipa ne rivelò la causa: il banchetto in onore del suo compleanno; e mostrò parecchi dei suoi che, sporgendosi dalle merlature, issavano immense ceste piene di carne, frutta, legumi, antilopi e cicogne, enormi pesci azzurri, grappoli d'uva, cocomeri, piramidi di melagrane. Aulo non si trattenne più; si precipitò verso le cucine, incitato da una golosità destinata a sorprendere l'universo intero. Passando nei pressi di una cantina, intravide grosse pentole simili a corazze. Anche Vitellio scese a guardarle; pretese che gli fossero aperte le camere sotterranee della fortezza. Erano scavate nella roccia, con alte volte intervallate da pilastri. La prima conteneva vecchie armature; ma la seconda traboccava di picche che protendevano le loro punte aguzze, affioranti da ciuffi di piume. La terza sembrava tappezzata di stuoie di canne, tante erano le sottili frecce distese perpendicolarmente le une accanto alle altre. Lame di scimitarra ricoprivano le pareti della quarta. In mezzo alla quinta lunghe file di elmi formavano, con le loro creste, come un battaglione di serpenti rossi. Nella sesta non si vedevano altro che faretre; nella settima soltanto schinieri; nell'ottava bracciali; nelle seguenti, forche, ramponi, scale, cordami, fino ai pali per le catapulte e ai sonagli per il pettorale dei dromedari! e siccome la montagna si andava sempre più allargando alla sua base, cava come un'arnia d'api, al di sotto di quelle camere ve n'erano altre ancor più numerose e profonde. Vitellio, il suo interprete Fineo e Sisenna, il capo dei pubblicani, le percorrevano alla luce delle torce, portate da tre eunuchi. Nella penombra si distinguevano arnesi orrendi inventati dai 80 TRE RACCONTI barbari: clave irte di chiodi, giavellotti che avvelenavano le ferite procurate, tenaglie simili a mascelle di coccodrillo; insomma, a Macherus il Tetrarca teneva in serbo munizioni da guerra per quarantamila uomini. Le aveva accumulate in previsione di un'alleanza tra i suoi nemici. Ma il Proconsole poteva credere o riferire che lo avesse fatto per combattere i Romani, e chiedeva spiegazioni. Non erano sue; molte servivano per difendersi dai briganti; del resto erano necessarie anche contro gli Arabi; oppure, tutto ciò era appartenuto a suo padre. E, invece di camminare dietro il Proconsole, lo precedeva, a passi rapidi. Poi si schierò contro una parete, mascherandola con la toga, con i gomiti sui fianchi; ma l'architrave della porta superava la sua testa. Vitellio la notò, e volle sapere che cosa vi fosse nascosto. Soltanto il Babilonese poteva aprirla. «Chiama il Babilonese!» Lo aspettarono. Suo padre era giunto dalle rive dell'Eufrate a offrire i suoi servigi al grande Erode, con cinque cavalieri, per difendere le sue frontiere orientali. Dopo la divisione del regno, Iasim era rimasto con Filippo, e ora era al servizio di Antipa. Si presentò con un arco sulla spalla e una frusta in mano. Cordoni variopinti serravano strettamente le sue gambe. Le sue grosse braccia sbucavano da una tunica senza maniche, e un berretto di pelliccia metteva in ombra la sua faccia, la cui barba era arricciata ad anelli. Sulle prime diede l'impressione di non capire l'interprete. Ma Viteilio lanciò un'occhiata ad Antipa, che ripeté subito l'ordine. Iasim manipolò con entrambe le mani la porta, che scivolò dentro la parete. Dalle tenebre esalò un soffio d'aria calda. C'era un camminamento che scendeva sinuoso; vi si introdussero e arrivarono alle soglie di una grotta, più estesa degli altri sotterranei. In fondo un'arcata si apriva sul precipizio che da quel lato difendeva la roccaforte. Un caprifoglio, arrampicandosi sulla volta, lasciava ricadere i suoi fiori in piena luce. Rasente il suolo gorgogliava un filo d'acqua. C'erano molti cavalli bianchi, forse un centinaio, che mangiavano orzo su un asse posto al livello della loro bocca. Avevano tutti la criniera dipinta d'azzurro, gli zoccoli in mezziguanti di sparteria, e i peli delle orecchie che svolazzavano sulla fronte, come una parrucca. Con le loro lunghissime code si frustavano indolentemente i garretti. Il Proconsole restò muto per l'ammirazione. ERODIADE Hi Erano animali meravigliosi, flessuosi come serpenti, leggeri come uccelli. Scattavano con la freccia del cavaliere, rovesciavano i nemici mordendoli al ventre, uscivano indenni dal groviglio delle rocce, saltavano sopra gli abissi, e il loro galoppo frenetico nelle pianure durava un'intera giornata; bastava una parola per fermarli. Non appena Iasim entrò, gli si avvicinarono come pecore quando appare il pastore; e, protendendo il lungo collo, lo guardavano inquieti con i loro occhi da bambini. Come era suo solito, Iasim lanciò dal fondo del petto un grido rauco che li mise in allegria; si impennavano, affamati di spazio, non chiedendo che di correre. Antipa, nel timore che Vitellio potesse portarglieli via, li teneva chiusi in quello speciale rifugio per animali, nell'evenienza di dover essere assediato. «Questa scuderia è malsana», disse il Proconsole; «così rischi di perderli! Sisenna, fanne l'inventario.» Il pubblicano estrasse una tavoletta dalla cintura, contò i cavalli e li registrò. Gli agenti delle compagnie fiscali corrompevano i governatori per spremere le province. Questo fiutava dappertutto, col suo muso da faina e le sue strizzatine d'occhio. Alla fine risalirono nella corte. Qua e là, rosoni di bronzo in mezzo al selciato coprivano le cisterne. Ne osservò uno, più grande di tutti, e che sotto i talloni non aveva la stessa sonorità degli altri. Li percosse tutti alternativamente, poi urlò, pestando i piedi: «Ci sono! ci sono! qui sotto c'è il tesoro di Erode!». La ricerca dei suoi tesori era una smania fissa dei Romani. Il Tetrarca giurò che non esistevano. E allora, che cosa c'era là sotto? «Niente! Un uomo, un prigioniero.» «Mostracelo!», disse Vitellio. Il Tetrarca non obbedì; i Giudei avrebbero scoperto il suo segreto. La sua riluttanza a rimuovere il rosone faceva spazientire Vitellio. «Sfondatelo!», gridò ai littori. Mannaei aveva intuito che cosa avevano in mente. Vedendo un'ascia, pensò che avrebbero decapitato Iaokanan. Bloccò il littore al primo colpo sulla piastra metallica, insinuò tra essa e il selciato una sorta di grimaldello, poi, irrigidendo e sue lunghe e magre braccia, la sollevò dolcemente fino a capovolgerla; tutti ammirarono la forza di quel vecchio. Sotto il coperchio, che aveva un secondo strato di legno, c'era una botola delle stesse dimensioni. Con un pugno si piegò in due pannelli; si vide allora 82 TRE RACCONTI un foro, e un'enorme fossa circondata da una scala senza rampa; e coloro i quali si sporsero sul ciglio intravidero nel fondo qualcosa di vago e di spaventoso. Un essere umano era disteso per terra, con lunghissimi capelli che si confondevano con il pelo quasi animale che ricopriva la sua schiena. Si alzò. La sua fronte raggiungeva una grata sigillata orizzontalmente; di tanto in tanto spariva nelle profondità del suo antro. Il sole faceva luccicare la punta delle tiare, il pomo dei gladi, riscaldava oltremodo i selciati; le colombe, spiccando il volo dai fregi, volteggiavano attorno al cortile. Era l'ora in cui di solito Mannaei gettava loro dei semi. Se ne stava accovacciato davanti al Tetrarca, che era in piedi accanto a Vitellio. I Galilei, i sacerdoti, i soldati formavano un cerchio più arretrato; tutti tacevano, nell'angoscia di ciò che sarebbe accaduto. Dapprima si udì un gran sospiro, emesso da una voce cavernosa. Erodiade lo sentì all'altro capo del palazzo. Vinta da una sorta di malia, attraversò la folla; ora ascoltava, con una mano sulla spalla di Mannaei e il corpo chino. La voce si innalzò: «Siate maledetti, Farisei e Sadducei, razza di vipere, otri gonfiati, sonagli chiassosi!». Avevano riconosciuto Iaokanan. Il suo nome circolava. Accorse altra gente. «Sii maledetto, o popolo! siano maledetti i traditori di Giuda, gli ubriachi di Efraim, e gli abitanti della grassa valle, che barcollano sotto i vapori del vino! Che si disperdano come l'acqua che scorre, come una lumaca che striscia, come l'aborto di una donna che non vede la luce. Sarai costretto, o Moab, a rifugiarti nei cipressi come i passeri, nelle caverne come gerboe. Le porte delle fortezze saranno frantumate più rapidamente che gusci di noce, le mura crolleranno, le città bruceranno; e il flagello dell'Eterno non si fermerà. Agiterà le vostre membra nel vostro sangue, come lana nella tinozza di un tintore. Vi dilanierà come un erpice fiammante e spargerà sulle montagne i brandelli della vostra carne!» Di quale conquistatore parlava? di Vitellio? Soltanto i Romani potevano produrre un simile sterminio. Non fu trattenuto qualche lamento: «Basta! basta! fatelo finire!». Iaokanan continuò ancora più forte: «Accanto al cadavere delle loro madri, i bambini si trascineranno sulle ceneri. Di notte bisognerà cercarsi il pane tra le macerie, a rischio delle spade. Gli sciacalli si contenderanno le ossa sulle ERODIADE 83 pubbliche piazze, dove la sera discutevano gli anziani. Le tue vergini, inghiottendo le proprie lacrime, suoneranno la cetra nei banchetti degli stranieri, e i tuoi figli più coraggiosi chineranno la schiena, scorticata da fardelli troppo pesanti!». Il popolo rivedeva i giorni del suo esilio, tutte le catastrofi della sua storia. Erano le parole degli antichi profeti. Iaokanan le scagliava, come colpi poderosi, una dopo l'altra. Ma poi la voce si fece dolce, armoniosa, soave. Annunciava una liberazione, splendori celesti, il neonato con un braccio nella caverna del drago, l'oro al posto dell'argilla e il deserto che sboccia come una rosa: «Ciò che ora vale sessanta kiccar non costerà un obolo. Fontane di latte sgorgheranno dalle rocce; ci si addormenterà nei frantoi col ventre pieno. Quando verrai, o te che aspetto? Nella tua attesa tutti i popoli si inginocchiano, e il tuo regno sarà eterno, Figlio di David!». Il Tetrarca si gettò all'indietro: l'esistenza di un Figlio di David lo oltraggiava come una minaccia. Iaokanan lanciò un'invettiva contro la sua regalità: «Non c'è altro re al di fuori dell'Eterno!». Inveì anche contro i suoi giardini, le sue statue, i suoi mobili d'avorio, come l'empio Achab! Antipa spezzò la cordicella del sigillo appesa al suo petto, e lo lanciò nella fossa, ordinandogli di tacere. La voce rispose: «Griderò come un orso, come un asino selvatico, come una donna che partorisce! Il castigo è già nel tuo incesto. Dio ti affligge con !a sterilità del mulo!». Si levò una risata, simile allo sciabordio delle onde. Vitellio si ostinava a restare. L'interprete, impassibile, ripeteva nella lingua dei Romani tutte le ingiurie che Iaokanan pronunciava nella sua. Il Tetrarca ed Erodiade erano costretti a subirle due volte. Lui ansimava, mentre lei osservava attonita il fondo del pozzo. L'uomo terribile rovesciò il capo e, impugnando le sbarre, vi incollò il viso, che sembrava un rovo dove scintillavano due tizzoni ardenti: «Ah! sei tu, Gezabele? Hai conquistato il suo cuore con lo scricchiolio dei tuoi calzari. Nitrivi come una giumenta. Hai eretto la tua alcova sui monti per compiervi i tuoi sacrifici! Il Signore ti strapperà gli orecchini, le vesti di porpora, i veli di lino, gli anelli alle braccia e alle caviglie, e i piccoli corni d'oro che tremano sulla tua fronte, i tuoi specchi d'argento, i tuoi ventagli di piume di struzzo, le suole di madreperla che elevano la 84 TRE RACCONTI tua statura, l'orgoglio dei tuoi diamanti, gli effluvi dei tuoi capelli, lo smalto delle tue unghie, tutti gli artifici della tua mollezza; e mancheranno le pietre per lapidare l'adultera!». Erodiade cercò con lo sguardo una difesa attorno a sé. I Farisei abbassavano gli occhi ipocritamente. I Sadducei giravano la testa, temendo di offendere il Proconsole. Antipa sembrava morire. La voce si ingrossava, viaggiava, rotolava con strazi di tuono e, grazie all'eco che la moltiplicava nella montagna, folgorava Macherus di innumerevoli lampi. «Razzola nella polvere, figlia di Babilonia! Fa macinare la farina! Togliti la cintura, privati delle tue scarpe, rimboccati le maniche, guada i fiumi! la tua vergogna sarà scoperta, il tuo obbrobrio sarà palese! i tuoi singhiozzi ti spezzeranno i denti! L'Eterno esecra il lezzo dei tuoi crimini! maledetta! maledetta! Crepa come una cagna!» La botola si richiuse, il coperchio fu di nuovo calato. Mannaei voleva strangolare Iaokanan. Erodiade scomparve. I Farisei erano scandalizzati. Antipa, in mezzo a loro, si giustificava. «È vero che si può sposare la moglie di un fratello, ma Erodiade non era vedova, e perdipiù aveva una figlia, e in ciò sta l'abominio.» «Errore! errore!», obiettò il sadduceo Gionata. «La Legge condanna questi matrimoni, senza però proscriverli assolutamente.» «Non importa! Con me si è troppo ingiusti», diceva Antipa, «dato che, in fondo, Assalonne si è giaciuto con le mogli di suo padre, Giuda con la nuora, Amnone con la sorella, Lot con le sue figlie.» Aulo, che aveva dormito un poco, riapparve in quel preciso istante. Quando fu informato della questione, approvò il Tetrarca. Non bisognava prendersi troppo disturbo per simili sciocchezze; se la rideva della riprovazione dei sacerdoti come del furore diIaokanan. Erodiade, in mezzo alla scalinata, si rivolse a lui: «Sbagli, mio signore! Egli incita il popolo a non pagare i tributi!». «È vero?», chiese subito il pubblicano. Le risposte furono unanimemente affermative. Il Tetrarca le rafforzava. Vitellio pensò che il prigioniero poteva fuggire; e siccome la condotta di Antipa gli sembrava sospetta, stabilì sentinelle alle porte, lungo le mura e nella corte del palazzo. Dopodiché si diresse verso il suo appartamento. Le deputazioni dei sacerdoti lo seguirono. ERODIADE 85 Senza affrontare la questione della sacrificatura, ciascuno presentava le sue rimostranze. Era assediato da tutti. Li congedò. Gionata lo stava lasciando quando, tra le merlature, intravide Antipa che parlava con un uomo dai capelli lunghi e dalla veste bianca, un esseno; rimpianse di averlo sostenuto. Una riflessione aveva consolato il Tetrarca. Iaokanan non dipendeva più da lui; se ne incaricavano i Romani. Che sollievo! Nel frattempo Fanuele andava su e giù nel camminamento di ronda. Lo chiamò e, indicando i soldati: «Sono loro i più forti! Non posso liberarlo! Non è colpa mia!». Il cortile era deserto. Gli schiavi riposavano. Sotto il rossore del cielo, che infuocava l'orizzonte, il minimo oggetto perpendicolare si stagliava in nero. Antipa distinse le saline sulla sponda opposta del mar Morto; non vedeva più le tende degli Arabi. Erano forse partiti? Sorgeva la luna; una sorta di pace scendeva nel suo cuore. Fanuele, mortificato, restava là, col mento chino sul petto. Infine rivelò ciò che aveva da dire. Dall'inizio del mese studiava il cielo prima dell'alba, quando la costellazione di Perseo si trova allo zenit. Agalah si mostrava appena, Algol era meno brillante, Mira Ceti era scomparsa; da questi elementi divinava la morte di un uomo considerevole, quella stessa notte, in Macherus. Chi? Vitellio era troppo ben protetto. Iaokanan non sarebbe stato giustiziato. «Dunque sono io!», pensò il Tetrarca. Forse sarebbero tornati gli Arabi? Il Proconsole avrebbe scoperto i suoi rapporti con i Parti! Sicari di Gerusalemme scortavano i sacerdoti; sotto le tuniche nascondevano pugnali; e il Tetrarca non nutriva dubbi sulla sapienza di Fanuele. Gli venne in mente di ricorrere a Erodiade, malgrado la odiasse. Lei però gli avrebbe infuso un po' di coraggio; non tutti i legami del sortilegio un tempo subito si erano spezzati. Quando entrò nella sua camera, il cinnamomo fumava in una vasca di porfido; ciprie, unguenti, drappeggi simili a nuvole, ricami più delicati di piume erano sparsi qua e là. Non rivelò la predizione di Fanuele, né la sua paura degli Ebrei e degli Arabi; lei lo avrebbe accusato di essere vile. Parlò soltanto dei Romani; Vitellio non gli aveva confidato nulla dei suoi piani militari. Antipa lo supponeva amico di Caio, il quale a sua volta frequentava Agrippa; lo avrebbero mandato in esilio, o magari scannato. Erodiade, con una sprezzante indulgenza, tentò di rassicurarlo. 86 TRE RACCONTI Infine trasse da un piccolo astuccio una bizzarra medaglia ornata dal profilo di Tiberio. Bastava quella a far impallidire i littori e a confutare qualunque accusa. Antipa, commosso per la riconoscenza, le chiese come l'avesse avuta. «Me l'hanno regalata», rispose. Da dietro una tenda di fronte sbucò un braccio nudo, un braccio giovane, incantevole, che sembrava essere stato cesellato nell'avorio da Policleto. In modo un po' goffo seppur grazioso, vagava a tentoni per afferrare una tunica dimenticata su uno sgabello accostato alla parete. Una vecchia la porse dolcemente, scostando la tenda. «È tua questa schiava?» «Che cosa te ne importa?», rispose Erodiade. III. I convitati riempivano la sala del banchetto. Aveva tre navate, come una basilica, separate da colonne di legno di algumim, con capitelli di bronzo ricoperti di sculture. Due gallerie a giorno la sovrastavano, mentre una terza fatta di filigrana d'oro si incurvava nel fondo, di fronte a un'enorme centina che si delineava dalla parte opposta. Candelabri accesi, sulle tavole allineate per l'intera lunghezza della sala, formavano cespugli di fuoco tra le coppe di terracotta dipinta e i piatti di rame, i cubi di neve e i cumuli d'uva; ma quei chiarori rossastri si disperdevano rapidamente a causa dell'altezza dei soffitti, e punti luminosi brillavano, come stelle nella notte, attraverso i rameggi. Attraverso la grande vetrata si scorgevano le torce sulle terrazze delle case, giacché Antipa festeggiava i suoi amici, il suo popolo e tutti coloro che si presentavano. Schiavi vigili come cani, con le dita dei piedi nei sandali di feltro, circolavano trasportando vassoi. La tavola proconsolare occupava, sotto la tribuna dorata, un palco di assi di sicomoro. Tappeti di Babilonia la racchiudevano in una specie di padiglione. Tre triclini d'avorio, uno di fronte e due disposti ai lati, ospitavano Vitellio, suo figlio e Antipa; il Proconsole era vicino alla porta, a sinistra, Aulo a destra, il Tetrarca al centro. Aveva un pesante mantello nero, la cui trama spariva sotto applicazioni di colore, un po' di belletto sugli zigomi, la barba tagliata a ventaglio, cipria azzurra nei capelli, stretti da un diadema di pietre preziose. Vitellio serbava indosso il suo budriere di por- ERODIADE 87 pora che cadeva diagonalmente su una toga di lino. Aulo si era fatto annodare sulla schiena le maniche della sua veste di seta violetta intessuta d'argento. Le trecce della sua acconciatura formavano come dei ripiani, e una collana di zaffiri scintillava sul suo petto, grasso e bianco come quello di una donna. Accanto a lui, accovacciato a gambe incrociate su una stuoia, c'era un fanciullo bellissimo, che sorrideva sempre. L'aveva visto nelle cucine e non riusciva più a separarsene; poiché faticava a rammentare il suo nome caldeo, lo chiamava semplicemente: «l'Asiatico». Di tanto in tanto si stendeva sul triclinio. Allora i suoi piedi nudi dominavano l'assemblea. Da quella parte c'erano i sacerdoti e gli ufficiali di Antipa, abitanti di Gerusalemme, i notabili delle città greche; sotto il Proconsole, Marcello con i pubblicani, alcuni amici del Tetrarca, persone eminenti dì Cana, Tolemaide, Gerico; poi, alla rinfusa, montanari del Libano e vecchi soldati di Erode: dodici traci, un gallo, due germani, cacciatori di gazzelle, pastori dell'Idumea, il sultano di Palmira, marinai di Eziongaber. Ciascuno aveva davanti a sé una focaccia di pasta molle per asciugarsi le dita; le braccia, protendendosi come colli d'avvoltoio, afferravano olive, pistacchi, mandorle. Tutti i volti erano allegri, sotto corone di fiori. I Farisei le avevano rifiutate in quanto simbolo dell'indecenza romana. Ebbero un tremito quando furono aspersi di galbano e d'incenso, mistura riservata ai riti nel Tempio. Aulo la usò per strofinarsi le ascelle; Antipa gliene promise un carico intero, insieme a tre ceste di quell'autentico balsamo che aveva indotto Cleopatra a vagheggiare la Palestina. Un capitano della sua guarnigione di Tiberiade, sopraggiunto un istante prima, si era sistemato alle sue spalle per informarlo di qualche evento straordinario. Ma la sua attenzione si divideva tra il Proconsole e quel che dicevano alle tavole vicine. Vi si parlava di Iaokanan e della gente della sua razza; Simon di Gitto lavava i peccati col fuoco. Un certo Gesù... «Il peggiore di tutti», esclamò Eleazar. «Che spregevole ciarlatano!» Dietro il Tetrarca si alzò un uomo, pallido come l'orlo della sua clamide. Scese dal palco e, interpellando i Farisei: «Menzogna! Gesù fa miracoli!». Antipa era ansioso di vederne uno: «Avresti dovuto portarcelo! Racconta!». Allora raccontò che lui, Giacobbe, avendo una figlia malata, si era recato a Cafarnao per supplicare il Maestro di volerla guarire. Il Maestro aveva risposto: «Ritorna a casa, tua figlia è gua- 88 TRE RACCONTI rita!». Difatti l'aveva trovata sulla soglia, essendosi alzata dal letto quando la meridiana del palazzo segnava la terza ora, lo stesso istante in cui egli aveva avvicinato Gesù. Dovevano certamente esistere, obiettavano i Farisei, pratiche ed erbe possenti! Perfino qui a Macherus si trovava talvolta il baaras che rende invulnerabili; ma guarire senza vedere né toccare era una cosa impossibile, a meno che Gesù non impiegasse il demonio. E gli amici di Antipa, notabili di Galilea, proseguirono scuotendo la testa: «Il demonio, è evidente». Giacobbe, in piedi fra la loro tavola e quella dei sacerdoti, taceva con un'aria a un tempo altera e mite. Gli altri lo incitavano a parlare: «Giustifica il suo potere!». Allora curvò le spalle e, sottovoce, lentamente, come spaventato di se stesso: «Dunque non sapete che è il Messia?». Tutti i sacerdoti si guardarono; Vitellio chiese il significato della parola. Il suo interprete impiegò un minuto per rispondere. Chiamavano così un liberatore che avrebbe arrecato loro il godimento di tutti i beni e il dominio di tutti i popoli. Alcuni sostenevano che bisognava aspettarne due. Il primo sarebbe stato vinto da Gog e Magog, demoni del Nord; ma il secondo avrebbe sterminato il Principe del Male e, da secoli, lo attendevano da un momento all'altro. I sacerdoti si erano consultati, ed Eleazar prese la parola. Innanzitutto il Messia doveva essere figlio di David e non di un falegname; avrebbe convalidato la Legge, mentre quel Nazareno la attaccava; e, argomento determinante, doveva essere preceduto dall'avvento di Elia. Giacobbe replicò: «Ma Elia è venuto!». «Elia! Elia!», ripetè la folla fino all'estremità opposta della sala. Tutti, con l'immaginazione, vedevano un vegliardo sotto un volo di corvi, la folgore che incendiava un altare, pontefici idolatri gettati nei torrenti; le donne, nelle tribune, pensavano alla vedova di Sarepta. Giacobbe si sfiancava nel ripetere che lo conosceva! lo aveva visto! e anche il popolo lo aveva visto! «Il suo nome?» Allora gridò con tutte le sue forze: «Iaokanan!». ERODIADE 89 Antipa si rovesciò come colpito in pieno petto. I Sadducei si erano avventati su Giacobbe. Eleazar perorava per farsi ascoltare. Quando tornò il silenzio, si aggiustò il mantello e, come un giudice, cominciò a porre domande. «Poiché il profeta è morto...» Un mormorio lo interruppe. Tutti credevano che Elia fosse soltanto scomparso. Eleazar inveì contro la folla e, continuando il suo interrogatorio: «Pensi che sia risuscitato?». «Perché no?», disse Giacobbe. I Sadducei scrollarono le spalle; Gionata, sgranando i suoi piccoli occhi, si sforzava di ridere come un buffone. Niente di più sciocco che la pretesa del corpo alla vita eterna; e declamò, per il Proconsole, questo verso di un poeta contemporaneo: Nec crescit, nec post mortem durare videtur *-. Ma Aulo era chino sul bordo del triclinio, con la fronte sudata, il viso verdastro e i pugni sullo stomaco. I Sadducei finsero una grande emozione; il giorno seguente furono reintegrati nell'onore della sacrificatura; Antipa sembrava disperato; Vitellio restava impassibile. Tuttavia le sue angosce erano violente; con suo figlio perdeva la sua fortuna. Aulo non aveva finito di vomitare l'anima che volle mangiare di nuovo. «Datemi limatura di marmo, schisto di Naxos, acqua di mare, qualunque cosa! E se facessi un bagno?» Sgranocchiò della neve, poi, dopo aver tentennato tra una terrina di Commagena e dei merli rosa, si decise per le zucche al miele. L'Asiatico lo contemplava: quell'enorme facoltà di ingurgitare denotava ai suoi occhi un essere prodigioso e di una razza superiore. Servirono rognoni di toro, ghiri, usignoli, polpette in foglie di vite; intanto i sacerdoti discutevano di resurrezione. Ammonio, allievo di Filone il Platonico, li giudicava stupidi, e lo diceva a dei greci che si burlavano degli oracoli. Marcello e Giacobbe avevano fatto lega. Il primo narrava al secondo la felicità provata sotto il battesimo di Mitra, e Giacobbe lo esortava a seguire Gesù. I vini di palma e di tamerice, quelli di Safet e di Byblos, scorrevano dalle anfore nei crateri, dai crateri nelle coppe, dalle coppe nelle gole; si chiacchierava, i cuori si aprivano. Iasim, «Non cresce, né sembra durare dopo la morte.» 90 TRE RACCONTI benché ebreo, non nascondeva più la sua adorazione per i pianeti. Un mercante di Afaka sbalordiva certi nomadi, descrivendo i particolari del tempio di Ierapoli; costoro chiedevano quanto sarebbe costato il pellegrinaggio. Altri restavano fedeli alla religione nativa. Un germano quasi cieco cantava un inno che celebrava quel promontorio della Scandinavia dove gli dèi appaiono con i volti raggianti; la gente di Sichem non mangiò tortore, per deferenza verso la colomba sacra Azima. Parecchi parlavano in piedi, in mezzo alla sala; il vapore degli aliti e il fumo dei candelabri formavano nell'aria una specie di nebbia. Fanuele strisciò lungo il muro. Aveva nuovamente studiato il firmamento, ma non si avviava verso il Tetrarca, temendo le macchie d'olio che, per gli Esseni, erano segno di grave contaminazione. Risuonarono dei colpi contro la porta del castello. Ora si sapeva che Iaokanan vi si trovava detenuto. Uomini muniti di torce si arrampicavano lungo il sentiero; una massa nera formicolava nella scarpata; di tanto in tanto urlavano: «Iaokanan! Iaokanan!». «Sta rovinando tutto!», disse Gionata. «Non ci sarà più denaro per noi, se continua», aggiunsero i Farisei. Si levarono recriminazioni: «Proteggici!». «Basta!» «Tu abbandoni la religione!» «Empio come ogni altro Erode!» «Meno di voi!», replicò Antipa. «È stato mio padre a edificare il vostro tempio!» Allora i Farisei, figli dei proscritti, partigiani di Mattatia, rinfacciarono al Tetrarca i crimini della sua famiglia. Avevano crani aguzzi, barbe ispide, mani deboli e malvagie, o la faccia camusa, grandi occhi tondi, un aspetto da mastini. Una dozzina, scribi e servi di sacerdoti, nutriti con lo scarto degli olocausti, si scagliarono ai piedi del palco; con i loro coltelli minacciavano Antipa, che li arringava, mentre i Sadducei lo difendevano blandamente. Intravide Mannaei, e gli fece segno di andarsene, poiché il contegno di Vitellio indicava eloquentemente che non erano cose che lo riguardavano. I Farisei, rimasti sui loro triclini, furono colti da un furore diabolico. Spezzarono i piatti che avevano davanti: era stato loro servito lo stufato prediletto di Mecenate, e dell'asina selvatica, una carne immonda. Aulo li prese in giro a proposito della testa d'asino, che si di- ERODIADE 91 ceva essi onorassero, e pronunciò altri sarcasmi sulla loro antipatia per il porco. Doveva certo essere perché quel bestione aveva ucciso il loro Bacco; e loro amavano troppo il vino, dal momento che era stata scoperta nel Tempio una vigna d'oro. I sacerdoti non comprendevano le sue parole. Fineo, galileo per nascita, si rifiutò di tradurle. Allora la collera di Aulo fu smisurata, tanto più in quanto l'Asiatico, impaurito, era scomparso; il banchetto non gli piaceva, le portate erano volgari, non abbastanza artefatte! Si calmò alla vista di code di pecora siriaca, che sono fagotti ni di grasso. II carattere degli Ebrei sembrava orribile a Vitellio. Il loro Dio poteva essere benissimo Moloch, nei cui altari si era imbattuto strada facendo; e gli tornarono in mente i sacrifici di fanciulli, con la storia dell'uomo che essi ingrassavano misteriosamente. Il suo cuore di latino era disgustato dalla loro intolleranza, dalla loro rabbia iconoclasta, dai loro ciechi impedimenti. Il Proconsole voleva andarsene. Aulo si rifiutò. Con la veste abbassata fin sui fianchi, giaceva dietro un mucchio di pietanze, troppo satollo per mangiarne ancora, e ostinandosi tuttavia a non perderle di vista. L'esaltazione del popolo cresceva. Si lasciarono andare a progetti di indipendenza. Si rammentava la gloria di Israele. Tutti i conquistatori erano stati puniti: Antigone, Crasso, Varo... «Miserabili!», disse il Proconsole; egli infatti comprendeva il siriaco; il suo interprete serviva unicamente a dargli il tempo di pensare alle risposte. Antipa, più svelto che poté, trasse la medaglia dell'Imperatore e, osservandola con timore, la presentò dal lato dell'effigie. I pannelli della tribuna d'oro si spalancarono d'improvviso e, allo splendore dei ceri, tra le sue schiave e festoni di anemoni, apparve Erodiade, coperta di una mitra assira tenuta salda sulla fronte da un soggolo; i suoi capelli a spirali erano sparsi su un peplo scarlatto, con uno spacco lungo tutte le maniche. In mezzo ai due mostri di pietra, simili a quelli del tesoro degli Atridi, che si ergevano accanto alla porta, sembrava Cibele circondata dai suoi leoni; e dall'alto della balaustra che dominava Antipa, con una patera in mano, gridò: «Lunga vita a Cesare!». L'omaggio fu ripetuto da Vitellio, da Antipa e dai sacerdoti. Ma dal fondo della sala arrivò un mormorio di sorpresa e di ammirazione. Era appena entrata una giovinetta. Sotto un velo bluastro che nascondeva il seno e la testa, si distinguevano le arcate degli occhi, i calcedoni delle orecchie, il candore della pelle. Un fazzoletto di seta cangiante le copriva le 92 TRE RACCONTI spalle ed era fermato da una cintura di metallo prezioso. I suoi calzoni neri erano disseminati di mandragore, e con fare indolente faceva schioccare le piccole pantofole di piume di colibrì. Salita in cima al palco, si tolse il velo. Era Erodiade, come era un tempo, in gioventù. Subito dopo cominciò a danzare. I suoi piedi passavano l'uno davanti all'altro, al ritmo del flauto e di una coppia di crotali. Le sue braccia tonde sembravano richiamare qualcuno che fuggiva continuamente. Lei lo inseguiva, più leggera di una farfalla; come una Psiche curiosa, come un'anima vagabonda, sembrava pronta a spiccare il volo. I suoni funebri del flauto fenicio sostituirono i crotali. Alla speranza era seguito l'abbattimento. I suoi atteggiamenti esprimevano sospiri, e tutta la sua persona un tale languore che non si riusciva a capire se piangesse un dio oppure morisse delle sue carezze. Con le palpebre socchiuse, si torceva, dimenava il ventre con le ondulazioni di una mareggiata, faceva tremare i due seni, ma il viso restava immobile, mentre i piedi non avevano un attimo di sosta. Vitellio la paragonò a Mnester, il pantomimo. Aulo continuava a vomitare. Il Tetrarca si perdeva in un sogno, e non pensava più a Erodiade. Credette di vederla accanto ai Sadducei. La visione si allontanò. Non era una visione. Erodiade aveva fatto istruire, lontano da Macherus, Salomè, sua figlia, pensando che il Tetrarca se ne sarebbe innamorato. L'idea era buona, ora Erodiade ne era certa! Poi fu il turno dell'impeto amoroso che vuol essere appagato. Salomè danzò come le sacerdotesse delle Indie, come le Nubiane delle cateratte, come le baccanti di Lidia. Si rovesciava da tutte le parti, simile a un fiore agitato dalla tempesta. I brillanti dei suoi orecchi saltellavano, la seta sulle sue spalle assumeva mille colori; dalle braccia, dai piedi, dalla veste scaturivano invisibili scintille che facevano ardere gli uomini. Un'arpa cantò; la moltitudine rispose con acclamazioni. Senza flettere le ginocchia mentre divaricava le gambe, si curvò al punto che il mento sfiorava il pavimento; e i nomadi abituati all'astinenza, i soldati romani esperti in dissolutezze, gli avari pubblicani, i vecchi sacerdoti inaciditi dalle dispute, tutti, dilatando le narici, palpitavano di bramosia. Quindi Salomè cominciò a girare attorno alla tavola di Antipa, freneticamente, come in un rito di streghe. Con una voce interrotta da singhiozzi di voluttà, lui le diceva: «Vieni! vieni!». Lei continuava a girare; i timpani tuonavano così forte da scoppiare, la folla urlava. Ma il Tetrarca gridava più forte: «Vieni! vieni! Ti ERODIADE 93 darò Cafarnao! la piana di Tiberiade! le mie fortezze! la metà del mio regno!». Salomè si chinò sulle mani, con i talloni rivolti in aria, e percorse così il palco come un grande scarabeo; poi, bruscamente, si fermò. La sua nuca e le sue vertebre formavano un angolo retto. Le guaine variopinte che le avvolgevano le gambe, passandole sopra le spalle, come arcobaleni, accompagnavano la sua figura a un cubito dal suolo. Le sue labbra erano dipinte, le sopracciglia nerissime, gli occhi quasi terribili, e le goccioline che le imperlavano la fronte sembravano vapore su un marmo bianco. Salomè non parlava. I due si guardarono. Nella tribuna si sentì uno schioccare di dita. Lei vi salì, riapparve; e, con una pronuncia un po' blesa, con un'aria infantile disse queste parole: «Voglio che tu mi dia in un piatto la testa...». Aveva dimenticato quel nome, ma proseguì sorridendo: «La testa di Iaokanan!». Il Tetrarca si accasciò su se stesso, distrutto. Era vincolato dalla sua parola, e il popolo attendeva. Ma la morte che gli era stata predetta, applicandosi a un altro, avrebbe forse evitato la sua? Se Iaokanan era davvero Elia avrebbe potuto sottrarvisi; se non lo era, l'omicidio non aveva più importanza. Mannaei era al suo fianco, e capì le sue intenzioni. Vitellio Io chiamò per confidargli la parola d'ordine delle sentinelle messe a guardia della fossa. Fu un sollievo. Di lì a un minuto tutto sarebbe finito! Tuttavia Mannaei non era affatto preparato a quel compito. Tornò, sconvolto. Da quarant'anni esercitava la funzione di carnefice. Era stato lui ad affogare Aristobulo, a bruciare vivo Mattatia, a decapitare Zosima, Pappo, Giuseppe e Antipatro; eppure non osava uccidere Iaokanan! I suoi denti battevano, tutto il suo corpo tremava. Davanti alla fossa aveva intravisto il Grande Angelo dei Samaritani, tutto coperto d'occhi e nell'atto di brandire un'immensa spada, arroventata, dentellata come una fiamma. Due soldati ne erano stati testimoni ed erano stati condotti per confermarlo. Non avevano visto niente, salvo un capitano ebreo, che si era precipitato su di loro e che ora non c'era più. Il furore di Erodiade trovò sfogo in un torrente di ingiurie volgari e sanguinose. Si spezzò le unghie sulla grata della tribuna, i 94 TRE RACCONTI due leoni scolpiti sembravano mordere le sue spalle e ruggire come lei. Antipa la imitò, i sacerdoti, i soldati, i Farisei, tutti reclamavano vendetta, mentre gli altri erano indignati che si rinviasse il loro piacere. Mannaei uscì nascondendosi il volto. I convitati trovarono quella seconda attesa ancor più lunga della prima. Si annoiavano. D'un tratto, un rumore di passi echeggiò nei corridoi. Il disagio diveniva intollerabile. La testa entrò; e Mannaei la teneva per i capelli, all'estremità del braccio, fiero degli applausi. Dopo che l'ebbe messa su un piatto, la offrì a Salomè. Lei salì rapidamente sulla tribuna; dopo parecchi minuti, la testa fu riportata dalla stessa vecchia che il Tetrarca aveva notato quel mattino sul terrazzo di una casa, e poco prima nella camera di Erodiade. Indietreggiava per non guardarla. Vitellio vi gettò uno sguardo indifferente. Mannaei scese dal palco, e la esibì ai capitani romani, quindi a tutti coloro che mangiavano da quella parte. Tutti la esaminarono. La lama aguzza, scivolando dall'alto in basso, aveva troncato la mascella. Una convulsione contraeva l'angolo della bocca. Tracce di sangue già rappreso erano disseminate sulla barba. Le palpebre chiuse erano livide come conchiglie; attorno, i candelabri erano raggianti. La testa arrivò alla tavola dei sacerdoti. Un fariseo la voltò curiosamente; e Mannaei, dopo averla raddrizzata, la pose davanti ad Aulo, che ne fu come ridestato. Attraverso l'apertura delle ciglia, le pupille morte e le pupille spente sembravano dirsi qualcosa. In seguito Mannaei la presentò ad Antipa. Le lacrime colarono sulle guance del Tetrarca. Le fiaccole si spensero. Gli invitati si congedarono; nella sala restò soltanto Antipa, con le mani sulle tempie, lo sguardo sempre fisso sulla testa tagliata, mentre Fanuele, in piedi in mezzo alla navata principale, mormorava preghiere con le braccia tese. Nell'istante in cui sorgeva il sole arrivarono due uomini, inviati tempo prima da Iaokanan, con la risposta così a lungo attesa. La confidarono a Fanuele, che ne fu enormemente rallegrato. ERODIADE 95 Poi mostrò loro il lugubre oggetto, sul vassoio, tra gli avanzi del banchetto. Uno degli uomini disse: «Consolati! È sceso tra i morti ad annunciare il Cristo!». L'Esseno ora capiva quelle parole: «Perché lui cresca, bisogna che io diminuisca». E tutti e tre, presa la testa di laokanan, se ne andarono verso la Galilea. Poiché era estremamente pesante, la portarono a turno. Indice p. 7 Introduzione dì Nicola Muschitiello 13 Nota biobibliografica TRE RACCONTI 19 Un cuore semplice 47 La leggenda di San Giuliano Ospitaliere 70 Erodiade Tascabili Economici Newton, sezione dei Paperback Pubblicazione settimanale 29 ottobre 1994 Direttore responsabile G.A. Cibotto Registrazione del Tribunale di Roma n. 16024 del 27 agosto 197? Fotocomposizione: Centro Fotocomposizione s.n.c, Città di Castello (PO Stampato per conto della Newton Compton editori s.r.l, Roma presso la Rotolito Lombarda Sp.A., Pioltello (MI) Distribuzione nazionale per le edicole: A. Pieroni s.r.l. Viale Vittorio Veneto 28 - 20124 Milano - telefono 02-29000221 telex 332379 PIERON I - telefax 02-6597865 Consulenza diffusionale: Eagle Press s.r.l, Roma
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