su www.europaquotidiano.it RAFFAELLA CASCIOLI GABRIELLA MONTELEONE FRANCESCO LO SARDO FRANCESCO MAESANO VALENTINA LONGO FABRIZIA BAGOZZI Legge di stabilità, in arrivo il pacchetto comuni Oggi ok del senato su “toghe responsabili” Centrodestra: Gal, il gruppo “elezioni 2018” M5S, regionali emiliane: chi è Giulia Gibertoni Riforme, anche la Francia ha il suo articolo 18 Rifugiati, mission impossible per Alfano I COMMENTI DI WWW.EUROPAQUOTIDIANO.IT GIOVEDÌ 20 NOVEMBRE 2014 QQ CGIL-LEGA QQ MEDIO ORIENTE QQ MASSACRO NELLA SINAGOGA Camusso e Salvini, paure complementari Il Libano in equilibrio ai confini della guerra QQ FABRIZIO QQ RONDOLINO QQ ENZO AMENDOLA QQ BEIRUT Isis, la pornografia della morte e la strage in Israele S on è retorico emozionarsi alla vista di soldati italiani che ti salutano affettuosamente sul confine tra Libano e Israele. Li incontriamo in rappresentanza dei 1200 italiani inquadrati nella missione Unifil, guidati dal generale Stefano Del Col e dal capo della unità Onu, il generale agrigentino Luciano Portolano, scelto direttamente da Ban Kimoon per dirigere militari e civili provenienti da ogni continente. La linea blu che separa i due paesi in guerra da decenni è a pochi chilometri e dal 2006 questa missione è riuscita a pacificare uno dei confini più bollenti del pianeta, mentre le angosciose notizie provenienti da Gerusalemme o dal confine nord-orientale del Libano descrivono un Medio Oriente sempre sull’orlo di nuove tragedie. «Sono orgoglioso di guidare, da italiano, questa operazione internazionale. Non abbiamo solo compiti militari in base alla risoluzione 1701 del Consiglio di sicurezza Onu, ma riuniamo le autorità locali, facilitiamo il confronto religioso e con il mio team lanciamo progetti di cooperazione». Così il generale Portolano descrive con calma e professionalità il suo operato. Ispira una grande fiducia quando racconta la routine dei suoi militari che hanno portato pace nel sud del Libano solo con la presenza e la determinazione nel dialogare con le comunità. Un miracolo in un paese tristemente famoso per una guerra civile durata dal 1975 al 1990 che ha dilaniato su linee settarie intere fasce della popolazione. Nella regione, il Libano è stato precursore di una guerra per procura combattuta con il sostegno contrapposto di forze regionali ed extraregionali che oggi ha preso piede con analoghe atrocità in altri paesi del Mediterraneo. Innanzitutto nella limitrofa Siria, da sempre protagonista nel bene e nel male della vita politica del paese dei cedri. segue usanna Camusso e Matteo Salvini condividono il nemico principale: la globalizzazione. La temono, la demonizzano, la combattono. E su questa lotta costruiscono identità e consenso, cultura politica e partecipazione popolare. La globalizzazione – delle merci, delle persone, delle culture – fa istintivamente paura a molti, perché ogni volta che s’affaccia un cambiamento più o meno radicale una parte di noi si spaventa di fronte all’ignoto. È su questa paura – la paura del Novecento al cospetto del nuovo secolo – che la Lega e la Cgil fanno leva sistematicamente (seppur, com’è ovvio, da versanti assai diversi) per dare rappresentanza all’unica vera opposizione sociale e culturale in campo oggi in Italia: quella che si muove sotto il segno della reazione spaventata e impaurita alla modernità, e che non per caso è il rovescio speculare della narrazione renziana, che celebra invece l’ignoto – ribattezzato ottimisticamente il “nuovo” – come occasione e opportunità anziché come rischio e tramonto. La globalizzazione c’è sempre stata, almeno dai tempi di Alessandro il Grande. L’interazione, lo scontro e l’integrazione con i nostri simili sono una caratteristica costitutiva della nostra specie. Ma ciò che è naturale e necessario non per forza appare a tutti giusto o utile. Così, la progressiva e incessante integrazione dell’umanità in reti sempre più ampie, più fitte e più pervasive incontra ogni volta una diffusa ostilità – mai maggioritaria né vincente, però, come dimostra la storia della nostra civiltà. Oggi la globalizzazione si esprime prima di tutto nelle migrazioni: migrano le donne e gli uomini in cerca di un lavoro migliore, migrano i lavori in cerca di più produttività e meno costi. È normale che qualcuno si spaventi. segue N QQ GUIDO MOLTEDO QQ DETROIT M artedì, qualche ora dopo la strage nella sinagoga ultra-ortodossa di Gerusalemme ovest, i media israeliani si sono visti recapitare, via email, sei fotografie scattate sulla scena del massacro, due delle quali particolarmente raccapriccianti. Il mittente era l’ufficio stampa del governo che aveva inviato sul posto il suo fotografo, Kobi Gideon, unico a poter riprendere la carneficina. Nel riferire la notizia, Haaretz enfatizza la portata dell’iniziativa del governo Netanyhau. Pur non essendo una novità – una decina d’anni fa, in seguito a un’ondata di attentati suicidi, furono diffuse le immagini di cadaveri negli autobus carbonizzati – il giornale progressista la considera un’operazione di «pornographic public diplomacy». A che servirà? «C’è molto da dubitare – scrive Haaretz – che farà conquistare a Israele più sostenitori all’estero. Più probabile che semplicemente infiammerà l’opinione pubblica d’Israele contro i palestinesi, aumenterà l’ostilità degli arabi e servirà da arma nelle mani di coloro che incitano alla vendetta». La guerra delle immagini cruente, l’escalation del macabro, coinvolge tutti nel conflitto mediorientale, che ormai è un insieme di tanti conflitti fuori controllo. Il sangue esibito, i cadaveri straziati, l’obbrobrio di una strage, non sono più solo oggetto dell’interesse morboso dei media in competizione tra loro. La “pornografia della morte” è messa in scena dagli stessi protagonisti, i buoni e i cattivi, le vittime e i carnefici, chi è nel giusto e chi è nel torto, ognuno ovviamente ritagliando per sé la parte positiva. Quando, nel corso dell’ultima guerra di Gaza, le foto dei bambini colpiti dai bombardamenti fecero il giro del mondo, il governo israeliano condannò l’uso di quelle immagini da parte di Hamas e s’indignò per la loro risonanza nei media occidentali. Fu coniato, dal professor Richard Landes, il termine Pallywood (palestinese più Hollywood) per indicare «la manipolazione dei media, la loro distorsione e la completa truffa da parte dei palestinesi (…) col fine di vincere la guerra mediatica e della propaganda contro Israele». Fu Landes a definire quel tipo di operazione «pornografia della morte». È una spirale che si sviluppa in parallelo a quella del conflitto, alimen- tandosi reciprocamente. Così, alle immagini cruente della sinagoga insanguinata si accompagnano quelle di palestinesi di Gaza che festeggiano la carneficina, un paio di guerriglieri che innalzano l’ascia da macellaio – l’arma della strage – e il fucile, si scambiano dolci e inneggiano all’azione dei “martiri”, come li definisce la radio della Striscia. Nei telegiornali statunitensi, e non solo, l’orrore di Gerusalemme e le scene del tripudio di Gaza seguono di qualche giorno l’ultimo filmato fatto circolare dall’Isis, la decapitazione del cooperante americano Peter Kassig. La somma degli eventi e la loro risonanza producono il risultato evidente di rafforzare la percezione di un mondo arabo e islamico, non importano le distinzioni al suo interno, sanguinario, cruento, di cui l’Occidente e il suo principale alleato in Medio Oriente devono avere paura. Non si sa se deliberatamente, gli strateghi della comunicazione di Bibi hanno immesso altro materiale nell’information cycle internazionale egemonizzato dai tagliagole dell’Isis, di fatto rafforzandone l’impatto. Certo, la strage, fosse pure opera di due cani sciolti, è stata concepita – a partire dall’uso stesso della mannaia – come un’azione in sintonia con il codice sanguinario in voga ed era comunque destinata a entrare, insieme con le scene di festa a Gaza, nel ciclo delle notizie dominato dai macabri uomini in nero dell’Isis. Proprio per questo colpisce la decisione del governo israeliano di dare rilievo, questa volta, agli effetti sanguinari della vicenda. Già, non è questo che vogliono gli uomini in nero dell’Isis? Alimentare il terrore psicologico nelle case degli occidentali, fare adepti anche nell’Occidente stesso proprio diffondendo l’esaltazione della crudeltà più agghiacciante? Non è questo che vogliono gli elementi più estremisti a Gaza e nella stessa comunità araba d’Israele, dove cercano di penetrare e fare proseliti Isis e al Qaeda? Negli Stati Uniti si sta finalmente ragionando sulla trappola mediatica organizzata dall’Isis nei confronti dell’opinione pubblica americana e occidentale. Se quella dell’11 settembre fu una serie coordinata di atti di terrorismo che sconvolse l’America anche perché mise improvvisamente a nudo la vulnerabilità nei suoi confini stessi e nei suoi stessi centri nevralgici, oggi la strategia “pornografica” dell’Isis accompagna le sue azioni sul terreno con una continua e crescente narrativa destabilizzante a base di scene che suscitano raccapriccio, colpendo le zone più sensibili della psiche dello spettatore. segue Il governo Netanyahu diffonde le foto shock. Il rischio di alimentare ciò che si combatte EDITORIALE Torna il partito Rai, chissà se Renzi reagisce QQ STEFANO QQ MENICHINI L e persone sono quasi sempre sostituibili, e ieri i consiglieri d’amministrazione della Rai hanno confermato che il loro tempo è abbondantemente scaduto anche se il loro mandato dovrebbe trascinarsi fino al giugno prossimo. Micidiale a loro carico la coincidenza degli eventi: il voto a maggioranza (opposizione di Todini, astensione di Tarantola, dissenso di Gubitosi) col quale è stato deciso il ricorso avverso il prelievo di 150 milioni poi confluito nell’operazione governativa degli 80 euro è arrivato nelle stesse ore nelle quali si tiravano le somme della privatizzazione di RaiWay, anch’essa fortemente voluta dal governo Renzi più o meno nello stesso periodo e contro lo stesso fronte che si batte per non cedere un euro del tesoretto aziendale allo sforzo di risanamento generale. Il raffronto tra i due eventi è imbarazzante. La quota di minoranza della società delle torri Rai ha attirato sottoscrittori da tutto il mondo, con una presenza massiccia di grandi fondi d’investimento. Un aumento in Borsa di oltre il 4 per cento. Un afflusso di denaro di gran lunga superiore alla dimensione del prelievo dei 150 milioni. Risorse messe a disposizione dell’innovazione. Un esempio raro, ma importantissimo in un momento di crisi, di ciò che significa valorizzare gli asset del paese. Una figuraccia per il partito trasversale della conservazione integrale, dai sindacati interni a Maurizio Gasparri, eroe eponimo dell’attuale governance di viale Mazzini. Appunto, la governance. Perché mentre i nomi sono appunto sostituibili, ciò a cui ancora non s’è messo mano è il sistema, fermo al metodo Gasparri di dieci anni fa, che è come dire la preistoria non solo per la politica ma anche per le telecomunicazioni, per la finanza, per le logiche aziendali. Un po’ per volontà, un po’ per una questione di priorità, qui la mano dell’inversione di rotta renziana non s’è ancora vista. L’ultima volta che la sinistra s’è affacciata al tema fu quando Bersani, nel 2012, stretto tra la morsa anticasta e gli obblighi che la legge assegna al parlamento sostanzialmente svicolò, rimettendo alla mitica “società civile” la scelta dei due consiglieri spettanti al centrosinistra. segue Chiuso in redazione alle 20,30 su www.europaquotidiano.it GIOVEDÌ 20 NOVEMBRE 2014 ••• CGIL-LEGA ••• Camusso e Landini, paure complementari SEGUE DALLA PRIMA FABRIZIO RONDOLINO L a paura degli extracomunitari, indicati a torto (ma con indubbia efficacia psicologica) come causa della disoccupazione e della criminalità urbana, ha al fondo lo stesso sapore della paura che i lavoratori dipendenti a tempo indeterminato nutrono nei confronti della flessibilità dilagante, di- pinta con altrettanta efficacia come precarietà e sfruttamento. I precari sono gli extracomunitari del mondo del lavoro, e incutono lo stesso timore ai “garantiti”. La richiesta della Cgil di estendere a tutti i diritti acquisiti di una minoranza suona come opposta alla pretesa della Lega di espellere gli stranieri: l’una sarebbe inclusiva, l’altra esclusiva. Ma tutti sanno che l’organizzazione del lavoro novecentesca – peraltro avversata dal movimento operaio alme- no finché Gramsci non spiegò in Americanismo e fordismo la sua ineluttabile modernità – non è ripristinabile, proprio come non lo sono il latifondo o il feudalesimo. Anziché opposte, le posizioni di Camusso e Salvini sono dunque complementari: invece di immaginare una società multietnica e multicontrattuale, difendono i diritti e gli statuti del passato sotto la bandiera della paura, e su questo macinano consenso. Si tratta, tecnicamente, di forze reazionarie, che cioè reagiscono alla modernizzazione in nome di valori, principi, assetti e poteri rimessi in discussione o apertamente contestati dai fatti. La convergenza della Cgil sul referendum contro la legge Fornero promosso dalla Lega non è dunque una semplice coincidenza o una curiosità politologica: è piuttosto il simbolo di un’affinità culturale profonda, destinata a pesare – auspicabilmente senza successo – nei tornanti insidiosi che ci aspettano. @frondolino ••• MEDIO ORIENTE ••• Il Libano in equilibrio ai confini della guerra SEGUE DALLA PRIMA ENZO AMENDOLA BEIRUT C ome nel 2005, quando l’opinione pubblica internazionale puntò il dito contro le autorità di Damasco per il barbaro assassinio del premier libanese dell’epoca Rafiq al Hariri. Da quella carneficina il paese si divise in due fronti contrapposti che portarono alla cacciata finale delle forze siriane occupanti il Libano. Quella scissione politica, in una nazione in cui la costituzione suddivide i vertici istituzionali secondo linee settarie tra sunniti, sciiti e cristiani, si è accentuata maggiormente con l’esplosione della guerra civile siriana. Infatti, il braccio militare di Hezbollah ha schierato le sue milizie (oltre 25mila componenti) a difesa della dittatura di Bashar al Assad, risultando decisiva nel respingere le variegate forze anti-regime lungo l’asse che collega Aleppo a Damasco e corre lungo il confine tra Siria e Libano. Per tutti gli osservatori la tragedia siriana, con una ennesima proxy war lungo composizioni religiose e setta- rie che si diramano dalle principali capitali della regione, da Teheran a Riyad e Ankara, avrebbe distrutto necessariamente anche la tenuta di un paese diviso come il Libano. «Siamo nel mezzo di un bel caos creativo in Medio Oriente», sorride cinicamente il leader druso libanese Walid Jumblatt, descrivendo una regione in totale sommovimento dove gli assetti postcoloniali stanno saltando impietosamente con la caduta dei regimi e i proclami dell’autoeletto califfo al Baghdadi. «La situazione peggiora col passare del tempo e le ferite in Siria non si rimargineranno presto visto che sono prevalsi gli estremismi più fanatici», continua Jumblatt. Non a caso la dissoluzione della Siria e il collasso dell’Iraq qui vengono vissute con estrema angoscia. «A sud c’è Israele e a est siamo circondati dalla Siria. Non ci rimane che il mare, ma noi libanesi non siamo grandi nuotatori», scherzano i deputati alla commissione esteri del parlamento. E tutte le figure di primo livello delle coalizioni partitiche settarie contrapposte, dall’ex premier Najib Mikati a Fouad Siniora, descrivono con preoccupazione gli effetti consolidati della guerra di Assad con un milione e mezzo di siriani che ha varcato il confine e si è rifugiato in Libano. A questo dato poi si aggiungono i 500mila palestinesi che affollano i 12 campi profughi del paese, uomini e donne che non godono di nessuno status giuridico di cittadinanza e sono confinati tra l’inquietudine e gli istinti di ribellismo diffusi soprattutto tra i più giovani. Come per la vicina Giordania anche il Libano paga un tributo di ospitalità altissimo se si considera che i due milioni di rifugiati (siriani e palestinesi) rischiano di far saltare il delicato equilibrio etnico e religioso tra i cinque milioni di abitanti libanesi. «Meno male che a sud c’è Unifil e meno male che l’operazione è guidata da voi italiani», ripetono i nostri interlocutori e lo sottolinea con forza il presidente del parlamento Nabih Berri, vecchio dominus sciita della politica locale. Non sono frasi di circostanza, ma un sospiro di sollievo vista la preoccupazione per il confine nord est con la Siria dove la vicinanza dei soldati di Hezbollah, delle milizie qaediste di Jabhat al Nusra e dell’Isis sempre considerato marginale ma che oggi – forte dei suoi 85mila uomini e di un check di sostegno di 3 miliardi di dollari sottoscritto dai sauditi – rappresenta l’unità nazionale al di là delle divisioni settarie interne. All’esercito tutti affidano il compito salvifico di preservare i confini dall’intrusione di gruppi o di cellule terroristiche siriane pronte alla destabilizzazione. I militari libanesi hanno realizzato, per rafforzare l’obiettivo difensivo, anche accordi tattici con le milizie di Hezbollah nella Valle della Bekaa e nella zona di Baalbek, o con le milizie di autodifesa cristiane lungo il confine nord est. Nessun osservatore o leader politico libanese può prevedere la durata di queste scelte maturate nell’establishment locale poiché, se è consensuale il tentativo di una ermetica difesa dal ginepraio siriano, tutti temono una repentina scintilla che riapra la conflittualità interna. Di certo la posta in gioco oggi è la sopravvivenza del mosaico libanese e della sua ricetta, tortuosa e perennemente instabile, di far convivere identità diverse in una regione attraversata rischiano un attrito esplosivo. Come nell’agosto scorso, nella cittadina di confine di Arsal, quando negli scontri sono morti 21 soldati libanesi e altri 30 sono stati rapiti. Da quell’evento è discesa una nuova consapevolezza tra tutti gli attori politici e istituzionali di Beirut: fare fronte comune per preservare un “equilibrio instabile” interno, prima che la vicenda siriana accenda la miccia di una nuova guerra civile fratricida. Da questa intesa (non pubblica) le varie fazioni in lotta hanno fatto discendere delle scelte conseguenti sbloccando l’impasse sulla nomina di un nuovo governo e prolungando all’unanimità la durata della legislatura per raffreddare la contesa interna. Anche per i rifugiati siriani è partita una stretta significativa con il blocco degli accessi alle frontiere e la limitazione di forme di assimilazione nel territorio libanese per evitare, inoltre, il ripetersi della drammatica e controversa presenza dei profughi palestinesi presenti da anni in tutto il paese. Di questo clima si è giovato, paradosso di un paese diviso, il ruolo dell’esercito libanese, da da idee religiose e politiche di chiara marca fanatica e assolutistica. «Non c’è tempo da perdere. Bisogna lavorare nelle comunità locali a progetti di sviluppo», racconta Luca Renda, un altro italiano a capo di una missione Onu come quella del Undp in Libano. «Con la cooperazione italiana siamo riusciti a definire un programma denominato “Sistema Italia”, che vuole realizzare gemellaggi tra delle regioni italiane con alcune municipalità del posto su temi legati allo sviluppo e alla crescita civile ed economica». Molto, in conclusione, dipenderà dal successo di questi italiani nel paese dei cedri, a partire dai militari del generale Portolano, le Ong e le agenzie Onu come quella guidata da Renda. E molto dipenderà anche dal sostegno profuso dai paesi come l’Italia, per rafforzare una vocazione ad agire nel Mediterraneo, in un tempo in cui la recente (e ci auguriamo superata con la nuova Commissione Ue) strada pseudo-isolazionista e timida della politica europea ha creato distanze da colmare con i nostri partner di sempre. @amendolaenzo ••• MASSACRO IN SINAGOGA ••• ••• EDITORIALE ••• Isis, la pornografia della morte e la strage a Gerusalemme Torna il partito Rai, chissà se Renzi reagisce SEGUE DALLA PRIMA GUIDO MOLTEDO DETROIT S crive Marshall Sella su medium.com: «Al Qaeda ha dato vita a immagini iconiche sue proprie. La faccia di bin Laden, le torri che crollano, l’uomo che si getta giù dal grattacielo. Ma in quanto a sofisticazione mediatica quelli di al Qaeda erano giocatori da due soldi. Le icone che generavano potevano essere ritrasmesse ma non potevano evolvere e non potevano essere riprodotte a livello di massa. Le torri sono cadute una volta sola e non possono essere ridistrutte. Può darsi che al Qaeda se la cavi bene, nella scala dei mostri, ma adesso sembra ai margini, addirittura d’altri tempi». Dopo la decapitazione di James Foley, il primo dei tre americani giustiziati in video dall’Isis, un sondaggio Wall Street Journal/NBC News rivelava che l’atroce fine del connazionale era il fatto di cui, negli ultimi cinque anni, gli americani era maggiormente al corrente, più dell’uso delle ar- mi chimiche da parte di Assad, più della decisione della corte suprema sulla riforma sanitaria di Obama. E infatti, le elezioni di medio termine si sono giocate sulla paura del terrorismo islamista e di Ebola e sulla presunta incapacità del presidente a farvi fronte. Sono stati gli inglesi i primi a rendersi conto di fare il gioco dell’Isis rilanciando e dando rilievo alle immagini delle loro decapitazioni. È avvenuto con l’uccisione del quarto ostaggio, il tassista di Manchester Alan Henning, con il rifiuto della stampa di pubblicarne la foto. The Independent scrisse allora che con la morte di Henning «i media finalmente cessano di suonare la musica dei terroristi. C’è voluta la morte di un cooperante inglese perché i giornali non pubblicassero le immagini della brutalità dell’Isis». Anche il video della morte di Abdul-Rahman Peter Kassig – un filmato di sedici minuti girato a Dabiq, che mostra anche la decapitazione di diversi soldati siriani – non ha avuto rimbalzo nei media americani, che, anche per rispetto della volontà dei dignitosissimi genitori del giovane, hanno piuttosto mandato in onda immagini di Kassig, che ne esaltano l’umanità, l’altruismo, la generosità. Mentre le notizie e i filmati dal fronte siriano-iracheno continuano a dipingere uno scenario di morte, distruzione e ferocia, con indicazioni contrastanti sulla capacità reale dell’Isis di portare avanti la sua offensiva con l’intensità e l’abilità bellica finora dimostrate, ci si chiede se e come proseguirà la sua campagna “pornografica”. Dopo la decapitazione di Kassag, sono due gli ostaggi occidentali nelle mani dell’Isis, un’americana ventiseienne, rapita in Siria dov’era in missione umanitaria (non se ne sa il nome) e il britannico John Cantlie, il giornalista costretto a simulare corrispondenze televisive da Kobane diffondendo la propaganda dell’Isis. Che ne sarà di loro? Cantlie potrà essere riutilizzato per altri “ser- vizi televisivi”? La giovane americana potrà essere scambiata con Aafia Siddiqui, la neuroscienziata pachistana considerata dall’intelligence americana la donna più pericolosa al mondo, condannata a 86 anni di prigione nel 2010 per aver pianificato attacchi chimici a New York? La NBC parla anche della richiesta di riscatto per l’americana, 6,6 milioni di dollari. Sta di fatto che il video dell’uccisione di Kassig non si conclude, diversamente dai precedenti, con l’annuncio di prossime esecuzioni di altri ostaggi occidentali. Se non ci saranno, come si spera, altre esecuzioni, resta il fatto che la miscela dell’Isis – barbarie medievale e abilità mediatica, nuovi media compresi – è riuscita a riportare l’America nel caos bellico dal quale a fatica era riuscita a uscire. E se non sarà più l’Isis a portare avanti questa «diabolical marketing strategy», come dice Marshall Sella, ci penserà qualche altro gruppo terroristico. @GuidoMoltedo SEGUE DALLA PRIMA STEFANO MENICHINI F ino a ieri, per due anni, è stato impossibile verificare i benefici di quella mossa: Gherardo Colombo e Benedetta Tobagi, non pervenuti. Ieri però sono tornati a far parlare di sé, votando per il ricorso aziendale contro il governo e dando la stura a ogni (improbabile) sospetto di vendetta trasversale ai danni di Renzi. Se a questa vicenda affianchiamo l’altra, incredibile, dei partiti (Cinquestelle in testa) che hanno offerto sponda a chi resiste alla riorganizzazione e razionalizzazione dell’offerta informativa Rai (sempre lo stesso partito trasversale della difesa dell’indifendibile), il cerchio è completo. Sarà una partitocrazia 2.0, ma sempre partitocrazia è, col baldo grillino Roberto Fico a guidare la Vigilanza Rai per le palazzine di Saxa Rubra, diffondendo la rassicurante idea che da quelle parti non si sposterà neanche un cassetto. «Difesa del servizio pubblico», la chiamano, come ogni volta che valori alti e importanti sono evocati per giustificare l’arroccamento: in questo caso, più che di fronte alle novità o alle ingerenze del governo, di fronte alla ragionevolissima possibilità di un default aziendale. Dopo lo scontro sui 150 milioni, Renzi s’è affacciato in Rai solo per i suoi frequenti messaggi agli italiani. È evidente come abbia voluto lasciare la situazione interna “evolvere” in modo autonomo, dovendosi occupare d’altro. Avrà fatto anche bene, certo il consiglio d’amministrazione non ha ripagato la cortesia. Ricordando a tutti che, per quanto l’agenda del premier sia affollata, è davvero arrivato il tempo, innanzi tutto nell’interesse della stessa Rai e dei suoi utenti, di cancellare il più famoso atto di governo dello statista Maurizio Gasparri. @smenichini
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