Isis, la pornograa della morte e la strage in Israele

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RAFFAELLA
CASCIOLI
GABRIELLA
MONTELEONE
FRANCESCO
LO SARDO
FRANCESCO
MAESANO
VALENTINA
LONGO
FABRIZIA
BAGOZZI
Legge di stabilità,
in arrivo il
pacchetto comuni
Oggi ok del
senato su “toghe
responsabili”
Centrodestra:
Gal, il gruppo
“elezioni 2018”
M5S, regionali
emiliane: chi è
Giulia Gibertoni
Riforme, anche
la Francia ha
il suo articolo 18
Rifugiati, mission
impossible
per Alfano
I COMMENTI DI WWW.EUROPAQUOTIDIANO.IT
GIOVEDÌ 20 NOVEMBRE 2014
QQ CGIL-LEGA
QQ MEDIO ORIENTE
QQ MASSACRO NELLA SINAGOGA
Camusso
e Salvini,
paure
complementari
Il Libano
in equilibrio
ai confini
della guerra
QQ FABRIZIO
QQ RONDOLINO
QQ ENZO AMENDOLA
QQ BEIRUT
Isis, la pornografia
della morte e
la strage in Israele
S
on è retorico emozionarsi
alla vista di soldati italiani
che ti salutano affettuosamente
sul confine tra Libano e Israele.
Li incontriamo in rappresentanza dei 1200 italiani inquadrati
nella missione Unifil, guidati dal
generale Stefano Del Col e dal
capo della unità Onu, il generale
agrigentino Luciano Portolano,
scelto direttamente da Ban Kimoon per dirigere militari e civili
provenienti da ogni continente.
La linea blu che separa i due
paesi in guerra da decenni è a
pochi chilometri e dal 2006
questa missione è riuscita a pacificare uno dei confini più bollenti del pianeta, mentre le angosciose notizie provenienti da
Gerusalemme o dal confine
nord-orientale del Libano descrivono un Medio Oriente
sempre sull’orlo di nuove tragedie.
«Sono orgoglioso di guidare, da italiano, questa operazione internazionale. Non abbiamo solo compiti militari in
base alla risoluzione 1701 del
Consiglio di sicurezza Onu, ma
riuniamo le autorità locali, facilitiamo il confronto religioso
e con il mio team lanciamo progetti di cooperazione». Così il
generale Portolano descrive con
calma e professionalità il suo
operato.
Ispira una grande fiducia
quando racconta la routine dei
suoi militari che hanno portato
pace nel sud del Libano solo
con la presenza e la determinazione nel dialogare con le comunità. Un miracolo in un paese tristemente famoso per una
guerra civile durata dal 1975 al
1990 che ha dilaniato su linee
settarie intere fasce della popolazione.
Nella regione, il Libano è
stato precursore di una guerra
per procura combattuta con il
sostegno contrapposto di forze
regionali ed extraregionali che
oggi ha preso piede con analoghe atrocità in altri paesi del
Mediterraneo. Innanzitutto
nella limitrofa Siria, da sempre
protagonista nel bene e nel male della vita politica del paese
dei cedri.
segue
usanna Camusso e Matteo
Salvini condividono il nemico principale: la globalizzazione. La temono, la demonizzano, la combattono. E su
questa lotta costruiscono
identità e consenso, cultura
politica e partecipazione popolare. La globalizzazione –
delle merci, delle persone,
delle culture – fa istintivamente paura a molti, perché
ogni volta che s’affaccia un
cambiamento più o meno radicale una parte di noi si spaventa di fronte all’ignoto.
È su questa paura – la
paura del Novecento al cospetto del nuovo secolo – che
la Lega e la Cgil fanno leva sistematicamente (seppur,
com’è ovvio, da versanti assai
diversi) per dare rappresentanza all’unica vera opposizione sociale e culturale in
campo oggi in Italia: quella
che si muove sotto il segno
della reazione spaventata e
impaurita alla modernità, e
che non per caso è il rovescio
speculare della narrazione
renziana, che celebra invece
l’ignoto – ribattezzato ottimisticamente il “nuovo” – come occasione e opportunità
anziché come rischio e tramonto.
La globalizzazione c’è sempre stata, almeno dai tempi di
Alessandro il Grande. L’interazione, lo scontro e l’integrazione con i nostri simili sono una
caratteristica costitutiva della
nostra specie. Ma ciò che è naturale e necessario non per forza appare a tutti giusto o utile.
Così, la progressiva e incessante integrazione dell’umanità in
reti sempre più ampie, più fitte
e più pervasive incontra ogni
volta una diffusa ostilità – mai
maggioritaria né vincente, però, come dimostra la storia
della nostra civiltà.
Oggi la globalizzazione si
esprime prima di tutto nelle
migrazioni: migrano le donne e
gli uomini in cerca di un lavoro
migliore, migrano i lavori in
cerca di più produttività e meno costi. È normale che qualcuno si spaventi.
segue
N
QQ GUIDO MOLTEDO
QQ DETROIT
M
artedì, qualche ora dopo la strage nella sinagoga ultra-ortodossa di Gerusalemme
ovest, i media israeliani si sono visti recapitare,
via email, sei fotografie scattate sulla scena del
massacro, due delle quali particolarmente raccapriccianti. Il mittente era l’ufficio stampa del
governo che aveva inviato sul posto il suo fotografo, Kobi Gideon, unico a poter riprendere la carneficina.
Nel riferire la notizia, Haaretz enfatizza la
portata dell’iniziativa del governo Netanyhau. Pur
non essendo una novità – una decina d’anni fa, in
seguito a un’ondata di attentati suicidi, furono
diffuse le immagini di cadaveri negli autobus carbonizzati – il giornale progressista la considera
un’operazione di «pornographic public diplomacy».
A che servirà? «C’è molto da dubitare – scrive
Haaretz – che farà conquistare a Israele più sostenitori all’estero. Più probabile che semplicemente
infiammerà l’opinione
pubblica d’Israele contro i
palestinesi, aumenterà l’ostilità degli arabi e servirà
da arma nelle mani di coloro che incitano alla vendetta».
La guerra delle immagini cruente, l’escalation
del macabro, coinvolge
tutti nel conflitto mediorientale, che ormai è un
insieme di tanti conflitti
fuori controllo. Il sangue
esibito, i cadaveri straziati, l’obbrobrio di una strage, non sono più solo oggetto dell’interesse morboso dei media in competizione tra loro. La “pornografia della morte” è messa in scena dagli
stessi protagonisti, i buoni e i cattivi, le vittime e
i carnefici, chi è nel giusto e chi è nel torto, ognuno ovviamente ritagliando per sé la parte positiva.
Quando, nel corso dell’ultima guerra di Gaza,
le foto dei bambini colpiti dai bombardamenti
fecero il giro del mondo, il governo israeliano
condannò l’uso di quelle immagini da parte di
Hamas e s’indignò per la loro risonanza nei media
occidentali. Fu coniato, dal professor Richard
Landes, il termine Pallywood (palestinese più Hollywood) per indicare «la manipolazione dei media, la loro distorsione e la completa truffa da
parte dei palestinesi (…) col fine di vincere la
guerra mediatica e della propaganda contro Israele». Fu Landes a definire quel tipo di operazione
«pornografia della morte». È una spirale che si
sviluppa in parallelo a quella del conflitto, alimen-
tandosi reciprocamente. Così, alle immagini
cruente della sinagoga insanguinata si accompagnano quelle di palestinesi di Gaza che festeggiano la carneficina, un paio di guerriglieri che innalzano l’ascia da macellaio – l’arma della strage – e
il fucile, si scambiano dolci e inneggiano all’azione dei “martiri”, come li definisce la radio della
Striscia.
Nei telegiornali statunitensi, e non solo, l’orrore di Gerusalemme e le scene del tripudio di
Gaza seguono di qualche giorno l’ultimo filmato
fatto circolare dall’Isis, la decapitazione del cooperante americano Peter Kassig. La somma degli
eventi e la loro risonanza producono il risultato
evidente di rafforzare la percezione di un mondo
arabo e islamico, non importano le distinzioni al
suo interno, sanguinario, cruento, di cui l’Occidente e il suo principale alleato in Medio Oriente
devono avere paura.
Non si sa se deliberatamente, gli strateghi
della comunicazione di Bibi hanno immesso altro
materiale nell’information cycle internazionale
egemonizzato dai tagliagole dell’Isis, di fatto rafforzandone l’impatto. Certo, la strage, fosse pure
opera di due cani sciolti, è stata concepita – a
partire dall’uso stesso della mannaia – come un’azione in sintonia con il codice sanguinario in voga
ed era comunque destinata a
entrare, insieme con le scene di
festa a Gaza, nel ciclo delle notizie dominato dai macabri
uomini in nero dell’Isis. Proprio per questo colpisce la decisione del governo israeliano
di dare rilievo, questa volta,
agli effetti sanguinari della vicenda.
Già, non è questo che vogliono gli uomini in nero dell’Isis? Alimentare il terrore psicologico nelle case degli occidentali, fare adepti anche nell’Occidente stesso
proprio diffondendo l’esaltazione della crudeltà
più agghiacciante? Non è questo che vogliono gli
elementi più estremisti a Gaza e nella stessa comunità araba d’Israele, dove cercano di penetrare e fare proseliti Isis e al Qaeda?
Negli Stati Uniti si sta finalmente ragionando
sulla trappola mediatica organizzata dall’Isis nei
confronti dell’opinione pubblica americana e occidentale. Se quella dell’11 settembre fu una serie
coordinata di atti di terrorismo che sconvolse
l’America anche perché mise improvvisamente a
nudo la vulnerabilità nei suoi confini stessi e nei
suoi stessi centri nevralgici, oggi la strategia “pornografica” dell’Isis accompagna le sue azioni sul
terreno con una continua e crescente narrativa
destabilizzante a base di scene che suscitano raccapriccio, colpendo le zone più sensibili della psiche dello spettatore.
segue
Il governo
Netanyahu
diffonde le foto
shock. Il rischio
di alimentare ciò
che si combatte
EDITORIALE
Torna il partito
Rai, chissà se
Renzi reagisce
QQ STEFANO
QQ MENICHINI
L
e persone sono quasi sempre sostituibili, e ieri i consiglieri d’amministrazione della Rai hanno confermato che il loro tempo è abbondantemente scaduto anche se il loro mandato dovrebbe trascinarsi fino al giugno prossimo. Micidiale a loro carico
la coincidenza degli eventi: il voto a
maggioranza (opposizione di Todini,
astensione di Tarantola, dissenso di
Gubitosi) col quale è stato deciso il ricorso avverso il prelievo di 150 milioni
poi confluito nell’operazione governativa degli 80 euro è arrivato nelle stesse ore nelle quali si tiravano le somme
della privatizzazione di RaiWay,
anch’essa fortemente voluta dal governo Renzi più o meno nello stesso
periodo e contro lo stesso fronte che si
batte per non cedere un euro del tesoretto aziendale allo sforzo di risanamento generale.
Il raffronto tra i due eventi è imbarazzante. La quota di minoranza
della società delle torri Rai ha attirato
sottoscrittori da tutto il mondo, con
una presenza massiccia di grandi fondi d’investimento. Un aumento in
Borsa di oltre il 4 per cento. Un afflusso di denaro di gran lunga superiore
alla dimensione del prelievo dei 150
milioni. Risorse messe a disposizione
dell’innovazione. Un esempio raro, ma
importantissimo in un momento di
crisi, di ciò che significa valorizzare gli
asset del paese. Una figuraccia per il
partito trasversale della conservazione
integrale, dai sindacati interni a Maurizio Gasparri, eroe eponimo dell’attuale governance di viale Mazzini.
Appunto, la governance. Perché
mentre i nomi sono appunto sostituibili, ciò a cui ancora non s’è messo mano è il sistema, fermo al metodo Gasparri di dieci anni fa, che è
come dire la preistoria non solo per
la politica ma anche per le telecomunicazioni, per la finanza, per le
logiche aziendali.
Un po’ per volontà, un po’ per una
questione di priorità, qui la mano
dell’inversione di rotta renziana non
s’è ancora vista. L’ultima volta che la
sinistra s’è affacciata al tema fu quando Bersani, nel 2012, stretto tra la
morsa anticasta e gli obblighi che la
legge assegna al parlamento sostanzialmente svicolò, rimettendo alla mitica “società civile” la scelta dei due
consiglieri spettanti al centrosinistra.
segue
Chiuso in redazione alle 20,30
su www.europaquotidiano.it
GIOVEDÌ 20 NOVEMBRE 2014
••• CGIL-LEGA •••
Camusso e Landini, paure complementari
SEGUE DALLA PRIMA
FABRIZIO
RONDOLINO
L
a paura degli extracomunitari, indicati a torto
(ma con indubbia efficacia psicologica) come
causa della disoccupazione e della criminalità urbana, ha al fondo lo stesso sapore della paura che i
lavoratori dipendenti a tempo indeterminato nutrono nei confronti della flessibilità dilagante, di-
pinta con altrettanta efficacia come precarietà e
sfruttamento. I precari sono gli extracomunitari del
mondo del lavoro, e incutono lo stesso timore ai
“garantiti”.
La richiesta della Cgil di estendere a tutti i diritti acquisiti di una minoranza suona come opposta alla pretesa della Lega di espellere gli stranieri:
l’una sarebbe inclusiva, l’altra esclusiva. Ma tutti
sanno che l’organizzazione del lavoro novecentesca
– peraltro avversata dal movimento operaio alme-
no finché Gramsci non spiegò in Americanismo e
fordismo la sua ineluttabile modernità – non è ripristinabile, proprio come non lo sono il latifondo o
il feudalesimo. Anziché opposte, le posizioni di Camusso e Salvini sono dunque complementari: invece di immaginare una società multietnica e multicontrattuale, difendono i diritti e gli statuti del
passato sotto la bandiera della paura, e su questo
macinano consenso.
Si tratta, tecnicamente, di forze reazionarie,
che cioè reagiscono alla modernizzazione in nome
di valori, principi, assetti e poteri rimessi in discussione o apertamente contestati dai fatti. La convergenza della Cgil sul referendum contro la legge Fornero promosso dalla Lega non è dunque una semplice coincidenza o una curiosità politologica: è
piuttosto il simbolo di un’affinità culturale profonda, destinata a pesare – auspicabilmente senza
successo – nei tornanti insidiosi che ci aspettano.
@frondolino
••• MEDIO ORIENTE •••
Il Libano in equilibrio ai confini della guerra
SEGUE DALLA PRIMA
ENZO AMENDOLA
BEIRUT
C
ome nel 2005, quando l’opinione pubblica internazionale puntò il dito contro le autorità di Damasco per il barbaro assassinio del premier libanese dell’epoca Rafiq al
Hariri. Da quella carneficina il paese
si divise in due fronti contrapposti
che portarono alla cacciata finale
delle forze siriane occupanti il Libano. Quella scissione politica, in una
nazione in cui la costituzione suddivide i vertici istituzionali secondo linee settarie tra sunniti, sciiti e cristiani, si è accentuata maggiormente
con l’esplosione della guerra civile
siriana.
Infatti, il braccio militare di
Hezbollah ha schierato le sue milizie
(oltre 25mila componenti) a difesa
della dittatura di Bashar al Assad, risultando decisiva nel respingere le variegate forze anti-regime lungo l’asse
che collega Aleppo a Damasco e corre lungo il confine tra Siria e Libano.
Per tutti gli osservatori la tragedia siriana, con una ennesima proxy war
lungo composizioni religiose e setta-
rie che si diramano dalle principali
capitali della regione, da Teheran a
Riyad e Ankara, avrebbe distrutto
necessariamente anche la tenuta di
un paese diviso come il Libano.
«Siamo nel mezzo di un bel caos
creativo in Medio Oriente», sorride
cinicamente il leader druso libanese
Walid Jumblatt, descrivendo una regione in totale sommovimento dove
gli assetti postcoloniali stanno saltando impietosamente con la caduta
dei regimi e i proclami dell’autoeletto califfo al Baghdadi. «La situazione peggiora col passare del tempo
e le ferite in Siria non si rimargineranno presto visto che sono prevalsi
gli estremismi più fanatici», continua Jumblatt. Non a caso la dissoluzione della Siria e il collasso dell’Iraq qui vengono vissute con estrema
angoscia. «A sud c’è Israele e a est
siamo circondati dalla Siria. Non ci
rimane che il mare, ma noi libanesi
non siamo grandi nuotatori», scherzano i deputati alla commissione
esteri del parlamento.
E tutte le figure di primo livello
delle coalizioni partitiche settarie
contrapposte, dall’ex premier Najib
Mikati a Fouad Siniora, descrivono
con preoccupazione gli effetti consolidati della guerra di Assad con un
milione e mezzo di siriani che ha
varcato il confine e si è rifugiato in
Libano. A questo dato poi si aggiungono i 500mila palestinesi che affollano i 12 campi profughi del paese,
uomini e donne che non godono di
nessuno status giuridico di cittadinanza e sono confinati tra l’inquietudine e gli istinti di ribellismo diffusi soprattutto tra i più giovani.
Come per la vicina Giordania anche il Libano paga un tributo di ospitalità altissimo se si considera che i
due milioni di rifugiati (siriani e palestinesi) rischiano di far saltare il delicato equilibrio etnico e religioso tra i
cinque milioni di abitanti libanesi.
«Meno male che a sud c’è Unifil e
meno male che l’operazione è guidata
da voi italiani», ripetono i nostri interlocutori e lo sottolinea con forza il
presidente del parlamento Nabih
Berri, vecchio dominus sciita della
politica locale. Non sono frasi di circostanza, ma un sospiro di sollievo
vista la preoccupazione per il confine
nord est con la Siria dove la vicinanza
dei soldati di Hezbollah, delle milizie
qaediste di Jabhat al Nusra e dell’Isis
sempre considerato marginale ma
che oggi – forte dei suoi 85mila uomini e di un check di sostegno di 3
miliardi di dollari sottoscritto dai
sauditi – rappresenta l’unità nazionale al di là delle divisioni settarie
interne.
All’esercito tutti affidano il compito salvifico di preservare i confini
dall’intrusione di gruppi o di cellule
terroristiche siriane pronte alla destabilizzazione. I militari libanesi
hanno realizzato, per rafforzare l’obiettivo difensivo, anche accordi tattici con le milizie di Hezbollah nella
Valle della Bekaa e nella zona di Baalbek, o con le milizie di autodifesa
cristiane lungo il confine nord est.
Nessun osservatore o leader politico
libanese può prevedere la durata di
queste scelte maturate nell’establishment locale poiché, se è consensuale il tentativo di una ermetica difesa dal ginepraio siriano, tutti temono una repentina scintilla che riapra la conflittualità interna. Di certo la posta in gioco oggi è la sopravvivenza del mosaico libanese e della
sua ricetta, tortuosa e perennemente
instabile, di far convivere identità
diverse in una regione attraversata
rischiano un attrito esplosivo. Come
nell’agosto scorso, nella cittadina di
confine di Arsal, quando negli scontri
sono morti 21 soldati libanesi e altri
30 sono stati rapiti.
Da quell’evento è discesa una
nuova consapevolezza tra tutti gli
attori politici e istituzionali di Beirut: fare fronte comune per preservare un “equilibrio instabile” interno, prima che la vicenda siriana accenda la miccia di una nuova guerra
civile fratricida. Da questa intesa
(non pubblica) le varie fazioni in lotta hanno fatto discendere delle scelte conseguenti sbloccando l’impasse
sulla nomina di un nuovo governo e
prolungando all’unanimità la durata
della legislatura per raffreddare la
contesa interna.
Anche per i rifugiati siriani è
partita una stretta significativa con
il blocco degli accessi alle frontiere e
la limitazione di forme di assimilazione nel territorio libanese per evitare, inoltre, il ripetersi della drammatica e controversa presenza dei
profughi palestinesi presenti da anni
in tutto il paese. Di questo clima si è
giovato, paradosso di un paese diviso, il ruolo dell’esercito libanese, da
da idee religiose e politiche di chiara
marca fanatica e assolutistica.
«Non c’è tempo da perdere. Bisogna lavorare nelle comunità locali
a progetti di sviluppo», racconta Luca Renda, un altro italiano a capo di
una missione Onu come quella del
Undp in Libano. «Con la cooperazione italiana siamo riusciti a definire un programma denominato “Sistema Italia”, che vuole realizzare
gemellaggi tra delle regioni italiane
con alcune municipalità del posto su
temi legati allo sviluppo e alla crescita civile ed economica».
Molto, in conclusione, dipenderà dal successo di questi italiani nel
paese dei cedri, a partire dai militari
del generale Portolano, le Ong e le
agenzie Onu come quella guidata da
Renda. E molto dipenderà anche dal
sostegno profuso dai paesi come l’Italia, per rafforzare una vocazione
ad agire nel Mediterraneo, in un
tempo in cui la recente (e ci auguriamo superata con la nuova Commissione Ue) strada pseudo-isolazionista e timida della politica europea
ha creato distanze da colmare con i
nostri partner di sempre.
@amendolaenzo
••• MASSACRO IN SINAGOGA •••
••• EDITORIALE •••
Isis, la pornografia della morte e la strage a Gerusalemme
Torna il partito Rai,
chissà se Renzi reagisce
SEGUE DALLA PRIMA
GUIDO MOLTEDO
DETROIT
S
crive Marshall Sella su medium.com: «Al Qaeda ha
dato vita a immagini iconiche
sue proprie. La faccia di bin
Laden, le torri che crollano,
l’uomo che si getta giù dal grattacielo. Ma in quanto a sofisticazione mediatica quelli di al
Qaeda erano giocatori da due
soldi. Le icone che generavano
potevano essere ritrasmesse
ma non potevano evolvere e
non potevano essere riprodotte
a livello di massa. Le torri sono
cadute una volta sola e non
possono essere ridistrutte. Può
darsi che al Qaeda se la cavi
bene, nella scala dei mostri, ma
adesso sembra ai margini, addirittura d’altri tempi».
Dopo la decapitazione di
James Foley, il primo dei tre
americani giustiziati in video
dall’Isis, un sondaggio Wall
Street Journal/NBC News rivelava che l’atroce fine del connazionale era il fatto di cui,
negli ultimi cinque anni, gli
americani era maggiormente al
corrente, più dell’uso delle ar-
mi chimiche da parte di Assad,
più della decisione della corte
suprema sulla riforma sanitaria
di Obama. E infatti, le elezioni
di medio termine si sono giocate sulla paura del terrorismo
islamista e di Ebola e sulla presunta incapacità del presidente a farvi fronte.
Sono stati gli inglesi i primi
a rendersi conto di fare il gioco
dell’Isis rilanciando e dando
rilievo alle immagini delle loro
decapitazioni. È avvenuto con
l’uccisione del quarto ostaggio,
il tassista di Manchester Alan
Henning, con il rifiuto della
stampa di pubblicarne la foto.
The Independent scrisse allora
che con la morte di Henning «i
media finalmente cessano di
suonare la musica dei terroristi. C’è voluta la morte di un
cooperante inglese perché i
giornali non pubblicassero le
immagini della brutalità dell’Isis».
Anche il video della morte
di Abdul-Rahman Peter Kassig
– un filmato di sedici minuti
girato a Dabiq, che mostra anche la decapitazione di diversi
soldati siriani – non ha avuto
rimbalzo nei media americani,
che, anche per rispetto della
volontà dei dignitosissimi genitori del giovane, hanno piuttosto mandato in onda immagini di Kassig, che ne esaltano
l’umanità, l’altruismo, la generosità.
Mentre le notizie e i filmati
dal fronte siriano-iracheno
continuano a dipingere uno
scenario di morte, distruzione
e ferocia, con indicazioni contrastanti sulla capacità reale
dell’Isis di portare avanti la sua
offensiva con l’intensità e l’abilità bellica finora dimostrate,
ci si chiede se e come proseguirà la sua campagna “pornografica”.
Dopo la decapitazione di
Kassag, sono due gli ostaggi
occidentali nelle mani dell’Isis,
un’americana ventiseienne, rapita in Siria dov’era in missione
umanitaria (non se ne sa il nome) e il britannico John Cantlie, il giornalista costretto a
simulare corrispondenze televisive da Kobane diffondendo
la propaganda dell’Isis. Che ne
sarà di loro? Cantlie potrà essere riutilizzato per altri “ser-
vizi televisivi”? La giovane
americana potrà essere scambiata con Aafia Siddiqui, la
neuroscienziata pachistana
considerata dall’intelligence
americana la donna più pericolosa al mondo, condannata a 86
anni di prigione nel 2010 per
aver pianificato attacchi chimici a New York? La NBC parla
anche della richiesta di riscatto per l’americana, 6,6 milioni
di dollari. Sta di fatto che il
video dell’uccisione di Kassig
non si conclude, diversamente
dai precedenti, con l’annuncio
di prossime esecuzioni di altri
ostaggi occidentali.
Se non ci saranno, come si
spera, altre esecuzioni, resta il
fatto che la miscela dell’Isis –
barbarie medievale e abilità
mediatica, nuovi media compresi – è riuscita a riportare
l’America nel caos bellico dal
quale a fatica era riuscita a
uscire. E se non sarà più l’Isis
a portare avanti questa «diabolical marketing strategy», come
dice Marshall Sella, ci penserà
qualche altro gruppo terroristico.
@GuidoMoltedo
SEGUE DALLA PRIMA
STEFANO
MENICHINI
F
ino a ieri, per due anni, è stato impossibile verificare i benefici di quella mossa: Gherardo
Colombo e Benedetta Tobagi,
non pervenuti. Ieri però sono
tornati a far parlare di sé, votando per il ricorso aziendale contro
il governo e dando la stura a ogni
(improbabile) sospetto di vendetta trasversale ai danni di Renzi.
Se a questa vicenda
affianchiamo l’altra, incredibile,
dei partiti (Cinquestelle in testa)
che hanno offerto sponda a chi
resiste alla riorganizzazione e
razionalizzazione dell’offerta
informativa Rai (sempre lo stesso
partito trasversale della difesa
dell’indifendibile), il cerchio è
completo. Sarà una partitocrazia
2.0, ma sempre partitocrazia è,
col baldo grillino Roberto Fico a
guidare la Vigilanza Rai per le
palazzine di Saxa Rubra,
diffondendo la rassicurante idea
che da quelle parti non si
sposterà neanche un cassetto.
«Difesa del servizio pubblico», la
chiamano, come ogni volta che
valori alti e importanti sono
evocati per giustificare
l’arroccamento: in questo caso,
più che di fronte alle novità o alle
ingerenze del governo, di fronte
alla ragionevolissima possibilità
di un default aziendale.
Dopo lo scontro sui 150
milioni, Renzi s’è affacciato in
Rai solo per i suoi frequenti
messaggi agli italiani. È evidente
come abbia voluto lasciare la
situazione interna “evolvere” in
modo autonomo, dovendosi
occupare d’altro.
Avrà fatto anche bene, certo il
consiglio d’amministrazione non
ha ripagato la cortesia.
Ricordando a tutti che, per
quanto l’agenda del premier sia
affollata, è davvero arrivato il
tempo, innanzi tutto
nell’interesse della stessa Rai e
dei suoi utenti, di cancellare il
più famoso atto di governo dello
statista Maurizio Gasparri.
@smenichini