Relazione Maugeri (Danno da concambio incongruo)

BOZZA
del 4 giugno 2014
MARCO MAUGERI (*)
IL DANNO DA CONCAMBIO “INCONGRUO”: SPUNTI DI RIFLESSIONE
Sommario: 1. Premessa. – 2. Il concambio congruo. – 3. Il danno da concambio “incongruo”:
la qualificazione. – 4. (Segue): la quantificazione. – 5. (Segue): la lesione dei diritti amministrativi. –
6. (Segue): il risarcimento in forma specifica.
1. La analisi delle caratteristiche del danno da concambio “incongruo”
richiede di partire da una premessa metodologica di fondo: quella per la quale, nel
campo delle valutazioni giuridicamente rilevanti di beni o diritti, non vi è spazio per
un unico valore che si tratta oggettivamente di accertare, quanto soltanto per
plurime configurazioni di valore dipendenti dalla prospettiva di chi valuta e dalla
sua situazione individuale (in termini di disponibilità finanziarie, di funzione di
utilità, etc.). Dinanzi a questa (ineliminabile) soggettività estimativa e al fine di
evitare che essa sconfini nell’arbitrio, l’ordinamento interviene precostituendo lo
scopo del processo di valutazione e stabilendo la gerarchia degli interessi da
osservare, con la conseguenza che l’esito di quel processo dovrà considerarsi
“corretto”, e quindi insindacabile in sede giudiziaria, non in quanto esprima il
valore “vero” del bene valutato – locuzione la quale, come osservato, può assumere
nel discorso giuridico portata unicamente descrittiva – bensì in ragione della sua
conformità allo scopo in considerazione del quale la norma ha imposto la
valutazione.
Se così è, e non vi è modo di dubitarne, si coglie subito il motivo per il quale
l’esame delle coordinate del danno da concambio incongruo non possa prescindere
da un chiarimento almeno dei seguenti interrogativi: quale sia la funzione del
«rapporto di cambio», o, meglio, il contenuto precettivo del principio che ne
impone la «congruità»; e quale sia la natura della situazione soggettiva protetta da
quel principio. Solo dopo avere, sinteticamente, ricordato tali aspetti sarà possibile
dedicare qualche considerazione agli elementi costitutivi del danno da squilibrio nel
concambio e ai criteri per la sua quantificazione: ciò anche tenendo a mente
l’indicazione di portata generale secondo cui è la natura del diritto/interesse
(*) Professore ordinario di diritto commerciale nell’Università Europea di Roma.
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pregiudicato a condizionare la selezione delle forme di tutela per la sua riparazione,
non viceversa [I.PAGNI, 2004].
Prima di procedere però a siffatta analisi conviene peraltro precisarne subito i
confini, vuoi sul piano soggettivo, ossia con riguardo al tipo di società cui si volgerà
la presente relazione, vuoi sul piano oggettivo, ossia con riguardo al tipo di danno
che si tratta di quantificare (e prima ancora di “qualificare”).
In ordine al primo profilo, può sottolinearsi come, risolvendosi
l’inadeguatezza del concambio in vizi o lacune del procedimento di valutazione
delle imprese partecipanti alla fusione, risulta coerente circoscrivere il
ragionamento a società per le quali, esistendo un termine di riferimento offerto dal
mercato (le quotazioni del titolo azionario), più elevata si presenta l’eventualità che
gli esiti della valutazione siano contestati perché distanti dalle indicazioni
desumibili da quel parametro. In altre parole, se al centro dell’indagine si pone un
problema di «danno», e quindi l’esistenza di una controversia circa la sua
riparabilità, logico è concentrare l’attenzione sulle società in relazione alle quali più
è probabile che quel problema venga sollevato in sede giudiziale (1).
Il tipo di pregiudizio inferto da un concambio “incongruo” si presta a sua
volta ad esser distinto non solo, ed ovviamente, da quello riconducibile alla
eventualità di una mancata fusione per “recesso unilaterale” di una delle società
dall’accordo di fusione – atteso che un concambio erroneo in tanto ha modo di
penalizzare il socio in quanto la fusione si sia perfezionata – ma anche dall’ipotesi
della fusione c.d. «inopportuna» la quale, concernendo l’inidoneità dell’operazione
a incrementare il valore patrimoniale dell’entità da essa risultante, si mostra del
tutto estranea alla tematica della distribuzione di quel valore tra le compagini delle
società partecipanti [J.ADOLFF, 2007].
Già in linea di principio, del resto, appare discutibile la stessa configurabilità
di una siffatta ipotesi di danno [v., però, P.BELTRAMI, 2008], se si considera come la
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Si spiega, per quanto detto nel testo, la ragione per la quale i precedenti giurisprudenziali
editi in materia di richieste di sospensione della deliberazione di fusione e di risarcimento del
relativo danno riguardino pressoché tutti società quotate in borsa e abbiano preso avvio da doglianze
radicate nella mancata o inesatta applicazione di metodi di mercato (Trib. Genova, 21 dicembre
2000: peso eccessivo assegnato al criterio della capitalizzazione di borsa; Trib. Milano, 10 dicembre
2007: mancata considerazione del danno da perdita della quotazione; Trib. Milano, 27 novembre
2008: mancata considerazione del metodo dei multipli di mercato).
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scelta di reputare illecita la programmazione ed esecuzione di una fusione poi
dimostratasi “non conveniente” per una delle società partecipanti si risolva, in
definitiva, nel negare discrezionalità agli amministratori in ordine
all’apprezzamento dei motivi dell’integrazione: una discrezionalità che invece
l’ordinamento riconosce loro non solo su un piano generale [E.LA MARCA, 2012] ma
anche con specifico riguardo alla fusione (art. 2501-quinquies: illustrazione delle
ragioni economiche della fusione, allora liberamente considerabili dagli
amministratori) e proprio in quanto atto di gestione del patrimonio sociale [G.FERRI
jr, 1998]. Ciò che insomma si tratta di evitare è che, in forza della norma dell’art.
2504-quater, comma 2, c.c., gli amministratori siano chiamati a rispondere ex post
dell’insuccesso economico dell’operazione; che, in altri termini, si finisca con il
qualificare alla stregua di un danno antigiuridico risarcibile la “fusione in quanto
tale”.
2. Ciò premesso, e per entrare nel merito del tema assegnato a queste brevi
riflessioni, conviene muovere dal dato pacifico secondo cui il rapporto di
concambio fissa la proporzione nella quale le azioni o quote della società
incorporanda verranno sostituite, nel patrimonio dei singoli soci, da azioni o quote
della società incorporante [L.A.BIANCHI, 2002]. Tale proporzione designa, dunque, il
peso che ciascuna compagine sociale avrà nell’entità allargata risultante dalla
integrazione e dipende, a sua volta, da un’altra – e logicamente antecedente –
relazione valoristica: quella tra i capitali economici delle società partecipanti alla
fusione come stimati dagli amministratori ai fini dell’integrazione. Al rapporto di
cambio pare potersi, allora, ascrivere un significato sia «negoziale» che
propriamente «organizzativo» [G.FERRI jr, 1998].
In vero, nella prospettiva delle società partecipanti alla fusione, quel rapporto
costituisce il risultato di una trattativa, ossia il prezzo che l’incorporante si dichiara
disposta a versare per acquisire il patrimonio dell’incorporanda: una connotazione,
questa, che ben segnala la presenza nella fusione di un «fenomeno circolatorio»
[P.SPADA, 2009] e che in altri ordinamenti è fatta palese dallo stesso linguaggio
normativo [cfr. il § 5, Nr. 2, del Umwandlungsgesetz tedesco].
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Al tempo stesso però il concambio esprime, nella prospettiva dei soci, il
criterio in forza del quale verranno ripartite, all’interno della compagine allargata, le
pretese residuali sui flussi finanziari generati dalla entità post-fusione nonché i
poteri amministrativi funzionali alla gestione (indiretta) di quei flussi [A.GENOVESE,
2007]: un aspetto, questo, che, per un verso, richiede l’esigenza di una approvazione
assembleare (cioè dell’organo competente ad assumere le decisioni idonee a
incidere formalmente sul contenuto e la conformazione della partecipazione sociale)
e che, per altro verso, spiega perché quella approvazione si imponga, come è a dirsi
per ogni vicenda propriamente organizzativa, anche al socio dissenziente, il quale
infatti subisce il «concambio» della partecipazione senza possibilità di sottrarsi ai
suoi effetti (come sarebbe libero di fare, invece, ove si trattasse di una ipotesi di
«scambio» delle partecipazioni: e v. ovviamente l’istituto dell’offerta pubblica il cui
successo presuppone, appunto, una «adesione» individuale dei soci della target).
2.1. Questa duplice colorazione funzionale del concambio aiuta a
comprendere perché la legge imponga che esso sia «congruo», non invece “vero”, e
perché i metodi utilizzati per la sua determinazione debbano essere «adeguati», non
invece “esatti”.
Ciò dipende, in primo luogo e come già osservato, dalla circostanza della
inidoneità di locuzioni quali “vero” o “esatto” a individuare il nucleo logico del
processo di valutazione giuridicamente rilevante. Vi è, però, di più e cioè che il
concetto elastico di congruità consente di evitare che gli amministratori siano tenuti
ad adottare uno specifico metodo di valutazione [P.G.MARCHETTI, 1991]: a differenza
di quanto previsto dalla disciplina del recesso da società quotate (art. 2437-ter,
comma 3, c.c.) e a significativa riprova, ancora una volta, della diversità della
fusione da vicende relative al “disinvestimento” della partecipazione. Con il
riferimento a quel concetto, in altri termini, la legge intende aprire spazio
all’eventualità che il concambio da fusione sia “negoziato” alla stregua di un prezzo
e quindi ammettere la legittimità di un esito deliberativo in forza del quale la
maggioranza dei soci di una compagine sociale si dichiara disposta ad accettare un
concambio meno conveniente (2) in considerazione dell’interesse comune a fruire
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In quanto vicino, se il sacrificio concerne i soci della incorporanda, all’estremo “inferiore”
del range di valori identificati dagli organi amministrativi o invece prossimo, se il sacrificio
concerne i soci della incorporante, all’estremo “superiore” di quel range.
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dei vantaggi industriali e finanziari (sinergie/economie di scala) altrimenti non
conseguibili in difetto della integrazione.
2.2. Evidenti sono anche i confini entro i quali si muove un tale atteggiamento
normativo e, in particolar modo, i limiti di legittimità del sacrificio così imposto alla
minoranza dissenziente.
Per un verso, quel sacrificio si giustifica, infatti, nella misura in cui,
trattandosi di fusione tra società indipendenti, esso sia egualmente imposto anche
alla maggioranza e vi sia dunque una “garanzia” di correttezza del processo
negoziale. Logico appare ritenere, conseguentemente, che l’inquadramento possa
essere diverso e più stringente, anche in ordine alla intensità del controllo
giudiziale, quando l’operazione intervenga tra entità correlate e, segnatamente, tra
la società che esercita attività di direzione e coordinamento e una o più società
eterodirette: quando, in altri termini, il conflitto di interessi in ordine alla
definizione del concambio non si ponga più tra diverse compagini sociali (c.d.
conflitto “orizzontale”) bensì all’interno di una di esse e cioè tra capogruppo e
azionisti “esterni” della controllata (c.d. conflitto “verticale”) [J.ADOLFF, 2007].
Poiché però la relazione di concambio, sebbene “negoziata”, non può
diventare “irragionevole”, si spiega d’altro canto la rilevanza che assume, ai fini
della correttezza sostanziale del procedimento, il confronto tra i valori dei capitali
economici delle società coinvolte nell’operazione e, quindi, tra i valori unitari delle
azioni ricavati per «derivazione» da quel confronto. Infatti, la relazione tra i valori
«derivati» delle azioni individua il criterio inderogabile per “porre in equilibrio” gli
interessi dei diversi soci, servendo a “compensare” quelli dell’incorporanda per la
perdita della loro partecipazione e a tenere indenni quelli dell’incorporante dal
rischio di una diluizione patrimoniale dipendente dall’allargamento della
compagine sociale.
Ne consegue, in questa prospettiva, che gli spazi di negoziazione del
concambio – pur, come detto, espressamente riconosciuti dalla legge – non possono
concernere quel punto di equilibrio, dovendo piuttosto restare circoscritti al solo
aspetto della ripartizione tra le compagini sociali del plusvalore generato
dall’operazione: nell’assunto, allora, che il valore prospettico del capitale della
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società risultante dalla fusione sia superiore alla sommatoria dei valori attribuibili
su base stand-alone alle società che vi partecipano.
2.3. La portata ascritta al principio di congruità del rapporto di cambio
consente di precisare anche il perimetro del sindacato giudiziale sulla sua
osservanza [per l’inquadramento del problema v. L.A.BIANCHI, 2013]. Non è, in primo
luogo, ipotizzabile che il giudice sia al riguardo vincolato dalle scelte compiute
dagli amministratori delle società partecipanti alla fusione nella selezione dei criteri
con i quali misurare il valore delle rispettive imprese. Convince di ciò il dettato
dell’art. 2501-sexies c.c. che, prescrivendo all’esperto di pronunciarsi non solo sulla
congruità del concambio ma, prima ancora, sui metodi applicati per la sua
determinazione, apre consapevolmente spazio a un controllo giudiziale sulla loro
«adeguatezza». Tale verifica incontra però un duplice ordine di limitazioni.
Da un lato, e proprio in quanto la legge esige che il concambio sia «congruo»,
non invece “esatto”, una revisione delle determinazioni pattizie contenute nel
progetto di fusione potrà concepirsi solo nella misura in cui non sia irrilevante lo
scostamento tra il concambio negoziato e quello giudizialmente “rivisitato”.
Dall’altro, quella stessa esigenza di congruità preclude al giudice ogni
possibilità di affermare la responsabilità degli organi amministrativi ove questi
abbiano adottato metodi di stima delle aziende ragionevoli e generalmente
consolidati, ancorché, nel caso concreto, un diverso criterio di valutazione avrebbe
condotto a un risultato più favorevole per la minoranza [C.SANTAGATA, 2004]. E ciò
per la semplice, ma decisiva, considerazione che ogni miglioramento del concambio
per la compagine sociale dell’incorporanda (incorporante) si traduce in una
corrispondente alterazione di segno opposto per la compagine dell’incorporante
(incorporanda) e dunque in una violazione dello scopo normativo che presiede alla
definizione del concambio la quale mira, come osservato, alla ricerca di un punto di
equilibrio tra interessi confliggenti, non invece alla sistematica predominanza di un
gruppo di soci a scapito dell’altro.
3. Passando ad affrontare il tema della qualificazione del danno da concambio
incongruo, le considerazioni che precedono consentono, in primo luogo, di
sottolineare come la posizione giuridica del socio suscettibile di esser lesa si presti
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ad essere scomposta in due distinte situazioni di interesse: da un lato, l’interesse
alla «conservazione» del valore della partecipazione, salvaguardato dalla
assegnazione di una partecipazione di valore corrispondente a quello delle azioni o
quote detenute nella società incorporanda [L.A.BIANCHI, 2002]; dall’altro, l’interesse a
beneficiare del «risultato» positivo dell’integrazione (cioè della quota di incremento
del valore del patrimonio della società post-fusione imputabile alla integrazione) in
misura proporzionalmente non inferiore al contributo recato dalla propria società
alla realizzazione di quel risultato [e v., per la distinzione tra “Kompensationsebene” e
“Partizipationsebene” nella ricostruzione della posizione di interesse del socio nelle operazioni
straordinarie, J.ADOLFF, 2007].
Mentre, però, quest’ultima posizione di interesse risulta
liberamente disponibile dalla maggioranza assembleare, almeno nel caso di fusione
tra società indipendenti (in quanto la maggioranza si trova a subire quello stesso
sacrificio la cui sopportazione essa impone alla minoranza), non altrettanto può
dirsi per l’aspettativa al mantenimento del valore della partecipazione che si mostra,
come detto, insensibile a qualunque forma di “negoziazione”: trattandosi, in questo
caso, di salvaguardare un valore già presente nella sfera patrimoniale del singolo
azionista e quindi di impedire, senza il suo consenso, un atto in senso lato
espropriativo della maggioranza [v. C.SANTAGATA, 2004: « diritto individuale dell’azionista»
alla conservazione del valore della partecipazione].
In questa prospettiva deve inserirsi, del resto, anche il diffuso convincimento
circa la ammissibilità della corresponsione, da parte (dei soci) di una società, di un
“premio” di controllo in favore (dei soci) dell’altra società; convincimento che
merita di esser condiviso a condizione che il rapporto di cambio “negoziato”
assicuri in ogni caso ai soci della società acquirente (i) non solo una partecipazione
di valore sostanzialmente pari a quella detenuta prima dell’operazione ma (ii) anche
una quota del plusvalore generato dalla fusione, ancorché – evidentemente (3) – in
misura non proporzionale al rapporto tra i pesi economici esibiti dalle società
antecedentemente alla fusione.
3.1. Se si condivide quanto appena rilevato risulterà chiaro perché il
pregiudizio da concambio incongruo si caratterizzi come un danno «collettivo»
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Evidentemente perché, se la partecipazione alle sinergie di fusione fosse rigorosamente
proporzionale ai pesi relativi delle società ante-fusione, non vi sarebbe spazio per un “premio” di
controllo in senso proprio.
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nella misura in cui investe necessariamente tutti i soci della compagine
“penalizzata” (per sottovalutazione della propria impresa o sopravvalutazione delle
altre società partecipanti alla fusione) [R.MÜLLER-ERZBACH, 1948: “Gemeinschaden”]: in
vero, il concambio o è congruo o è incongruo, ma non può atteggiarsi, per i soci di
una stessa compagine sociale, come congruo per alcuni e incongruo per altri
[G.FERRI jr, 1998].
Questo elemento di oggettività della lesione indotta da un cambio squilibrato
delle azioni spiega perché, in altri sistemi, la pronuncia giudiziale volta a
“correggerne” gli effetti economici ponendo in capo all’incorporante l’obbligo di
versare un indennizzo monetario ai soci dell’incorporata operi secondo il modo
tipico di una regola organizzativa e ridondi dunque a beneficio dell’intera
compagine sociale: anche di chi, cioè, non abbia formulato istanza di miglioramento
del concambio né sia intervenuto nel procedimento giudiziale volto alla
determinazione del concambio (che sarebbe stato invece) congruo [c.d. “inter-omnes
Wirkung”: cfr. § 13 del SpruchG tedesco].
La soluzione fatta propria dall’ordinamento italiano si discosta da un siffatto
modello poiché l’accento viene posto sulla idoneità del comportamento degli
amministratori a colpire un bene – il valore attuale della partecipazione – già di
spettanza del singolo socio e quindi a danneggiarne «direttamente» il patrimonio.
Un profilo, questo, che rende conto del frequente accostamento, sul piano
sistematico, della figura di responsabilità in esame a quella considerata dall’art.
2395 c.c. [B.LIBONATI, 1979; C.ANGELICI, 1992].
3.2. A tale inquadramento, peraltro, viene spesso “affiancata”, o meglio
contrapposta, l’affermazione di una autonoma responsabilità della società
incorporanda (e quindi della società incorporante in forza del subentro nei rapporti
giuridici passivi gravanti sulla prima), alla quale resterebbe imputato l’atto
deliberativo illegittimo dell’organo assembleare che abbia approvato il rapporto di
cambio incongruo [Trib. Milano, 2 novembre 2000; Trib. Milano, 27 novembre 2008].
Orbene, in questa sede non preme analizzare il fondamento teorico di tale
costruzione [v., ad es., le considerazioni critiche di M.CASSOTTANA, 2001], quanto piuttosto
interrogarsi sulle istanze “equitative” che ne costituiscono l’ispirazione e cioè sulla
necessità di evitare che lo strumento della tutela risarcitoria si presenti meno
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incisivo rispetto al rimedio reale che sarebbe stato esperibile in difetto della
preclusione inflitta al socio dall’art. 2504-quater c.c. Queste istanze vengono,
appunto, soddisfatte immaginando una responsabilità oggettiva della società e
ponendo in capo all’attore un onere probatorio non dissimile da quello che egli
avrebbe dovuto assolvere nel giudizio di impugnazione della deliberazione
assembleare di fusione [risolvendosi, in sostanza, l’agevolazione processuale nel
sollevare l’attore dall’onere di provare il dolo o la colpa degli amministratori].
Il punto però, ad avviso di chi scrive e proprio avendo presente gli obiettivi di
“agevolazione” processuale alla base della predetta impostazione, non merita di
essere sopravvalutato.
Di là da ogni considerazione sulla possibilità di costruire, nella fattispecie in
esame, la responsabilità degli amministratori di cui all’art. 2395 c.c. come «quasicontrattuale», atteso che le scelte compiute in sede di definizione del concambio
realizzano una interferenza certamente non occasionale ma anzi addirittura
programmata nella sfera giuridica dei soci, appare difficile immaginare, se non in
casi marginali, che la doglianza relativa alla incongruità del processo estimativo
seguito nella definizione del concambio possa disgiungersi da una censura di
imperizia degli amministratori. Gli è infatti che la dimostrazione di
irragionevolezza delle stime presuppone la colposa inosservanza o comunque
l’erronea applicazione di consolidati metodi valutativi, cioè la prova di un
comportamento idoneo a concretizzare, anche nel suo profilo soggettivo della colpa,
l’illecito previsto dall’art. 2395 c.c. [E.LA MARCA, 2012].
3.3. Nell’area tematica del danno da concambio incongruo non si presta
invece ad esser ricondotto, se non in senso lato (e quindi improprio), il pregiudizio
derivante al socio dalla vendita dei titoli a condizioni di mercato negativamente
incise dall’annuncio dell’operazione.
Tra le due figure di danno, beninteso, non esiste alcuna radicale
contrapposizione, se è vero che, costituendo la divulgazione al pubblico dei termini
di una fusione accadimento idoneo a influenzare le scelte dell’investitore razionale
– il quale arbitrerà tra azioni della società (apparentemente) “sottovalutata” e azioni
della società (apparentemente) “sopravvalutata” – si assiste anche in tal caso alla
lesione di una prerogativa già imputata al patrimonio del singolo azionista: quella
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costituita dal potere di determinarsi liberamente nelle decisioni di acquisto o vendita
dei titoli e di realizzarne il valore senza subire alterazioni anomale nel corso di
borsa [G.GUIZZI, 2005]. Tuttavia, non solo quest’ultima fonte di danno non sembra
presentare contrassegni tali da renderla concettualmente autonoma dalla più
generale vicenda del danno da informazione decettiva al mercato [A.R.ADIUTORI,
2000], ma – ed è quel che rileva in questa sede – diverse risultano essere, rispetto al
danno da concambio, sia la natura del bene tutelato che la sfera di coloro cui spetta
la legittimazione a chiederne l’eliminazione.
In vero, mentre nel caso di rapporto di cambio incongruo, il fine cui si volge
l’obbligazione risarcitoria è quello di reintegrare il pregiudizio inferto al valore
«fondamentale» dell’azione dalla sostituzione con quote di minor valore,
nell’ipotesi di negoziazione indotta da una informazione erronea, il termine di
riferimento della pretesa risarcitoria risulta essere piuttosto il valore di «scambio»
della partecipazione, cioè il prezzo che sarebbe stato possibile conseguire in assenza
di quella informazione [sulla rilevanza della distinzione tra valore «fondamentale» e valore di
«scambio» della partecipazione ai fini dell’inquadramento delle norme che governano i processi di
valutazione giuridicamente rilevanti, sia consentito il rinvio a M.MAUGERI, 2014].
Appare logico
allora ritenere che, nel primo caso, abilitato ad agire ai sensi dell’art. 2504-quater
sia solo chi ha conservato la partecipazione in portafoglio sino al momento di
produzione degli effetti della fusione; nel secondo, invece, unicamente chi abbia
optato per il suo disinvestimento prima di quella data [e sempre che sia attestabile,
secondo un principio di causalità adeguata, sia il nesso tra divulgazione al mercato del comunicato
contenente l’indicazione del concambio e deprezzamento del titolo, sia il nesso tra tale
deprezzamento e la scelta di disinvestire].
Nella prospettiva testé delineata, si comprende infine anche la necessità di
escludere che, in sede di accertamento del danno da concambio incongruo, assuma
rilievo l’andamento delle quotazioni successivo all’annuncio dell’operazione e in
particolar modo: (i) da un lato, che l’attore possa allegare, a dimostrazione di quel
danno, la flessione subita dal prezzo delle azioni a seguito del comunicato stampa
concernente i termini economici della fusione [v., infatti, puntualmente, Trib. Milano, 27
novembre 2008] o che il giudice possa radicare su quella flessione il diniego di tutela
cautelare [diversamente, Trib. Milano, 10 dicembre 2007]; (ii) dall’altro, che l’incorporante
possa a sua volta paralizzare la pretesa attorea adducendo l’aumento del prezzo di
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borsa delle proprie azioni: circostanza, questa, idonea semmai a dare concretezza al
danno sofferto dai soci dell’incorporanda i quali, ove il concambio fosse stato sin
dall’inizio equilibrato, avrebbero “spalmato” un siffatto aumento su un maggior
numero di azioni [e v. infatti, nuovamente, Trib. Milano, 27 novembre 2008].
4. Non meno delicata si rivela la ricerca di affidabili criteri per la
determinazione quantitativa del danno da incongruità del concambio.
4.1. L’avvicinamento alla individuazione di tali criteri non può prescindere
dal consueto rilievo in dottrina secondo cui, anche nel caso di fusione, il contenuto
dell’obbligazione di risarcimento andrebbe scisso nelle usuali componenti del
«danno emergente» e del «lucro cessante» (art. 1223 c.c.): anche se poi non vi è
univocità di vedute in ordine alla esatta caratterizzazione di queste componenti o
almeno di quella relativa al mancato guadagno, ora identificato nel lucro cessante
presente (=mancato investimento della somma non percepita in investimenti
alternativi certi alla data di consumazione del danno) o nei profitti che l’azionista
pretermesso avrebbe ritratto dalle azioni “mancanti” (=dividendi o somme
rivenienti dalla cessione di diritti di opzione che sarebbero spettati a quelle azioni)
[A.VICARI, 2004] e nel lucro cessante futuro (mancata facoltà di investire la somma
non percepita in generici investimenti futuri ancora incerti alla data dell’evento
dannoso) [A.VICARI, 2004; A.GENOVESE, 2007]; ora invece «nel valore che sarebbe stato
ipoteticamente acquisito dalla partecipazione ove si fosse realizzata una fusione (o
qualsiasi altra operazione di ristrutturazione) più conveniente con società dotata di
maggiori risorse» [C.SANTAGATA, 2004].
In realtà, la peculiarità della posizione di interesse del socio rende labile la
possibilità stessa di una siffatta distinzione. La necessaria funzionalizzazione
lucrativa dell’operazione societaria (art. 2247 c.c.) induce, infatti, ad adottare una
concezione unitaria di danno alla partecipazione in forza della quale il danno
emergente non può che risolversi in una riduzione delle potenzialità di guadagno
dell’investimento cagionata dall’illecito degli amministratori. Questa
considerazione – oltre a radicarsi, sul piano sistematico, nell’esigenza di superare
una prospettiva ricostruttiva del concetto di partecipazione ancora radicata sulla
figura statica del diritto soggettivo (l’unica per la quale, a ben vedere, ha senso
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discernere il momento del “danno” da quello del “mancato profitto”) – trova
conferma nella stessa scienza aziendalistica la quale mostra di far dipendere il
(calcolo del) «valore» della partecipazione, e quindi l’eventualità di una sua perdita,
dalla capacità dell’impresa di generare flussi di cassa futuri, ossia dalla sua
«lucratività» [A.DAMORADAN-O.ROGGI, 2011: «il valore di un’azione è dato dal valore attuale dei
dividendi attesi»].
In questa prospettiva, e volendo esemplificare il ragionamento con riguardo
agli utili della società incorporante che il socio dell’incorporanda avrebbe percepito
ove gli fosse stato assegnato un numero “esatto” di azioni in sede di concambio, il
fondamento della pretesa risarcitoria dovrebbe precisarsi nel seguente modo: (i) ove
quegli utili siano imputabili esclusivamente alla società incorporanda (nel senso che
sarebbero stati conseguiti da quest’ultima anche ove non si fosse estinta per
fusione), essi saranno già stati computati ai fini del calcolo della perdita di valore
della partecipazione (danno emergente), sicché non pare esservi spazio per una loro
considerazione anche a titolo di “lucro cessante”; (ii) ove, per contro, quegli utili
siano riconducibili, in tutto o in parte, alle sinergie generate dalla fusione, il socio
dell’incorporanda potrà lamentare un danno risarcibile per la quota degli stessi che
gli sarebbe spettata ove si fosse addivenuti sin dall’inizio alla determinazione di un
concambio rispettoso del contributo recato da ciascuna compagine alla
realizzazione di quegli utili.
Proprio quest’ultima considerazione induce a ritenere che, in realtà,
l’inquadramento sistematico del pregiudizio che si sta esaminando non possa
prescindere dalla scelta compiuta in chiave di ricostruzione della posizione di
interesse del socio suscettibile di esser lesa dalla arbitrarietà del concambio; che, in
altri termini, la scomposizione concettuale da effettuare a tal fine non sia tra danno
emergente e lucro cessante bensì tra mancata compensazione del valore originario
dell’investimento (v. di seguito sub 4.2) e mancata partecipazione al valore delle
sinergie conseguite in forza dell’integrazione (v. di seguito sub 4.3).
4.2. La reintegrazione della componente di danno consistente nella «mancata
compensazione» del valore originario dell’investimento si risolve nell’esigenza di
riportare il patrimonio del socio nella condizione in cui si sarebbe trovato se
l’illecito non fosse stato perpetrato. La sequenza logica da rispettare nel calcolo di
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questa voce richiede pertanto al giudice: (i) in primo luogo, di «rideterminare» il
rapporto di cambio congruo e, quindi, il valore «fondamentale» unitario delle azioni
da porre a base di quel rapporto; (ii) in secondo luogo, di individuare, per differenza
tra la misura del concambio congruo e quella del concambio effettivamente
praticato, il maggiore (o, se a lamentare il danno siano gli azionisti “esterni” della
incorporante, il minore) numero di azioni che l’incorporante stessa avrebbe dovuto
emettere e (iii) infine, di moltiplicare il numero così ottenuto per il valore unitario
«rideterminato» delle azioni dell’incorporante (4).
Non è difficile evidenziare come l’esame dei valori delle azioni da porre a
confronto debba aver luogo stimando i capitali economici delle società emittenti su
base stand-alone. Assumendo che l’interesse leso rilevante da restaurare sia quello
alla conservazione del valore partecipativo preesistente alla fusione, appare infatti
logico calcolare questa grandezza depurandola da ogni effetto, positivo o negativo,
che, risultando conseguenza immediata o indiretta della fusione, non può dirsi
elemento costitutivo di quel valore.
4
Per un significativo riscontro comparatistico (e una puntuale applicazione) del percorso
logico menzionato nel testo v., con riferimento alla controversia Deutsche Telekom AG/T-Online
AG, le decisioni rese: in primo grado, da LG Frankfurt, 13 marzo 2010 (in www.openjur.de) e in
appello da OLG Frankfurt, 3 settembre 2010 (in http://openjur.de/u/306185.html).
A taluni dubbi dà luogo, invece, il percorso seguito da Trib. Genova 21 dicembre 2000 che,
dopo aver contestato l’eccessivo peso attribuito dagli amministratori in sede di concambio alla
capitalizzazione di borsa delle due società partecipanti alla fusione, ha inteso commisurare il danno
proprio al «prezzo medio di borsa» delle azioni dell’incorporante (quale esistente alla data di
«conversione dei titoli»). In realtà, secondo quanto detto nel testo, il valore unitario dell’azione
dell’incorporante da impiegarsi per calcolare l’entità del risarcimento dovrebbe identificarsi con il
valore unitario «rideterminato» in sede giudiziale. Non pare del tutto coerente, cioè, prima
contestare l’utilizzo del prezzo di borsa ai fini della determinazione del concambio e poi servirsene
per quantificare il danno.
In una logica parzialmente diversa si muove, a sua volta, Trib. Milano, 27 novembre 2008,
che identifica il danno nella differenza tra il valore unitario pre-fusione delle azioni
dell’incorporanda, come rideterminato in sede giudiziale, e il (minor) valore unitario post-fusione di
ogni azione dell’incorporante: entrambi come (correttamente) rideterminati in sede giudiziale
[concambio originario 0,7878; concambio rideterminato 1,0251; valore unitario rideterminato
dell’azione della società incorporanda pre-fusione: 3,0339 Euro; valore unitario dell’azione
assegnata in concambio: Euro 2,4806 (ottenuto moltiplicando il rapporto di cambio originario di
0,7878 per il valore unitario di ogni singola azione della società post-fusione pari a Euro 3,1488).
Danno: Euro 0,5533, ottenuto per differenza tra il valore unitario pre-fusione delle azioni
dell’incorporanda (Euro 3,0339) e il valore unitario post-fusione delle azioni dell’incorporante
(Euro 2,4806)]. Un iter logico, questo, che si presenta ineccepibile nella misura in cui non si tenga
conto delle sinergie derivanti dall’operazione e si assuma, dunque, piena coincidenza tra il valore
unitario delle azioni dell’incorporante prima della fusione e il loro valore unitario post-fusione.
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Dalla natura dell’interesse leso dovrebbe, inoltre, farsi discendere anche la
soluzione al problema della data rilevante ai fini della quantificazione del danno
risarcibile. La questione in dottrina non è pacifica essendovi chi propende per il
giorno nel quale la sentenza giudiziale è resa [C.SANTAGATA, 2004; A.VICARI, 2004],
preferendo altri metter capo al momento di produzione degli effetti economici e
reddituali della fusione, anche ove non coincidenti con quello di efficacia reale
dell’operazione [A.GENOVESE, 2007]. Entrambe le conclusioni si dimostrano, per vero,
sostenibili: la prima in quanto conforme ai principî generali in materia di
risarcimento del danno [R.NICOLÒ, 1962]; la seconda perché fondata comunque sul
momento di consumazione del danno nel patrimonio del singolo azionista. E
tuttavia esse non appaiono sino in fondo convincenti. In vero, la soluzione che si
affida alla data della pronuncia giudiziale finisce con l’assegnare rilievo decisivo
all’andamento economico della società risultante dalla fusione (e poi,
inevitabilmente, all’andamento delle sue quotazioni): così contraddicendo l’assunto
di fondo secondo cui l’interesse del socio che si tratta di riparare è quello alla
conservazione del valore patrimoniale preesistente alla fusione, indipendentemente
dunque dai suoi successivi esiti. La tesi che mette capo al momento di efficacia
contabile/reddituale della fusione, a sua volta, espone al rischio di un sensibile
disallineamento temporale con il momento rilevante ai fini della determinazione del
concambio (coincidente, al più tardi, con la data della approvazione consiliare del
progetto di fusione).
Preferibile appare allora una terza soluzione la quale si orienti alla data della
deliberazione assembleare di fusione: infatti, è a decorrere da tale approvazione
che, cristallizzandosi gli esiti delle valutazioni compiute dagli amministratori e
quindi il loro dovere di dare esecuzione alla volontà dei soci, il concambio acquista
stabilità e insensibilità alle variazioni prodotte nei patrimoni delle società
partecipanti dal normale esercizio delle rispettive imprese [fa eccezione, dunque,
l’ipotesi di eventi straordinari sopravvenuti il cui verificarsi obbliga gli amministratori a
(ri)negoziare i termini economici della fusione e a (ri)sottoporre ai soci i relativi esiti].
4.3. Discorso diverso va svolto per l’ipotesi in cui il concambio sia lesivo
dell’altra componente della posizione di interesse suscettibile di esser aggredita da
un concambio incongruo, cioè del diritto del socio di vedersi attribuita una
partecipazione ai guadagni derivanti dalla fusione (c.d. “Verbundeffekte”)
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proporzionale al peso valoristico della propria società. Si è già osservato, infatti,
come tale diritto si presenti disponibile dalla maggioranza assembleare nella fusione
tra imprese indipendenti; come, cioè, un problema di incongruità del criterio seguito
nella ripartizione di quei guadagni abbia modo di porsi solo nel caso in cui la
maggioranza riesca a bilanciare il danno di un concambio sfavorevole con i
vantaggi ricavabili dal fatto di trovarsi nel contempo anche “dall’altra parte della
barricata”.
La soluzione del problema deve tener conto, sul piano sistematico, della
scelta normativa di consacrare la direzione unitaria come modello di organizzazione
dell’attività di impresa e, in tale contesto, di legittimare la capogruppo alla
formulazione di istruzioni pregiudizievoli per il valore e la redditività della
partecipazione detenuta dai soci “esterni” della controllata a condizione che il
danno sia integralmente eliminato anche a seguito di operazioni a ciò dirette o
risulti mancante alla luce del risultato complessivo dell’attività di direzione e
coordinamento (art. 2497, comma 1, c.c.). Essa deve però anche tener conto, con
specifico riguardo al danno da fusione endogruppo, della difficoltà di procedere a
un computo certo, o anche solo ragionevolmente approssimativo, del contributo
impresso da ciascuna società alla redditività differenziale dell’entità post-fusione e,
conseguentemente, degli ostacoli probatori ai quali andrebbe incontro il socio
dell’impresa dominata ove, al fine di attivare la responsabilità della capogruppo ai
sensi dell’art. 2497 c.c., egli avesse l’onere di allegare e provare che il concambio
sia stato “negoziato” senza tener conto di quel contributo.
La sensazione è che, dinanzi a tale iato, il contemperamento tra le esigenze di
tutela dei soci “esterni” della controllata e le esigenze “gestorie” della capogruppo
possa realizzarsi soltanto ipotizzando l’esistenza di una norma implicita in forza
della quale l’apporto di ciascuna società alla produzione del reddito comune
dell’impresa post-fusione deve presumersi proporzionale al valore dei capitali
economici su base stand alone [J.ADOLFF, 2007]. Questa sarebbe, del resto, l’unica
prospettazione idonea a rendere ragione della prassi, affatto consolidata, consistente
nel determinare il valore delle entità coinvolte “senza considerare” eventuali
sinergie prodotte dalla aggregazione: una prassi che, in difetto di quella
presunzione, ben poco coerente si dimostrerebbe con la finalità ultima della
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operazione di fusione la quale risiede proprio nel conseguimento di obiettivi
reddituali e industriali non raggiungibili isolatamente dalle società partecipanti [e v.,
infatti, P.G.MARCHETTI, 1991].
Evidente dovrebbe risultare anche la agevolazione ricavabile dalla vigenza di
una siffatta regola per le fusioni endogruppo. In vero, ferma l’intangibilità del
diritto dei soci esterni alla assegnazione di un numero di azioni della capogruppo (5)
di valore pari a quello delle azioni detenute nella incorporanda, la sua condivisione
comporterebbe la illegittimità, in principio, di qualsivoglia concambio “negoziato”,
vale a dire l’esigenza che il concambio sia sempre quello “puro” a tutela
dell’investimento dei soci esterni della società diretta e coordinata [sulla distinzione tra
concambio “puro” e concambio “effettivo” v., nella letteratura aziendalistica, L.GUATRI-M.BINI,
2005; in quella giuridica, L.A.BIANCHI, 2002]:
ciò, a meno che l’ente di vertice riesca a
fornire la dimostrazione, ai sensi dell’art. 2497, comma 1, c.c., in ordine alla
sussistenza di concreti e tangibili vantaggi compensativi per la (partecipazione
della) minoranza causalmente riconducibili alla gestione integrata del gruppo.
4.4. Resta da stabilire, infine, se la quantificazione del danno risarcibile debba
avvenire secondo criteri soggettivi, ossia tenendo conto del lucro realizzabile dal
socio pretermesso alienando le azioni cui avrebbe avuto diritto in forza di un
concambio (sin dall’inizio) congruo e reinvestendo il ricavato in investimenti
alternativi (certi o incerti che siano al momento di consumazione del danno).
Orbene, malgrado l’indubbia opinabilità della questione, la quale viene infatti
diversamente risolta dalla dottrina [v. gli opposti orientamenti di A.GENOVESE, 2007 e di
C.ANGELICI, 2006], le riflessioni svolte in precedenza inducono a ritenere che la
liquidazione del pregiudizio debba avere luogo prescindendo da una considerazione
delle possibilità di guadagno conseguibili dal singolo socio sul mercato e, quindi,
secondo canoni rigorosamente oggettivi. E in vero, come più volte osservato, ciò
che la legge intende assicurare predicando la «congruità», anziché l’“esattezza”, del
rapporto di cambio è la tutela dell’interesse del socio a (continuare a) partecipare al
reddito generato dalla società risultante dalla fusione secondo proporzioni
economiche sostanzialmente equivalenti a quelle di cui già beneficiava in ragione
della sua posizione originaria. Un interesse, dunque, che si orienta alla
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O di altra società incorporante nella quale la capogruppo detenga una partecipazione di
entità e valore superiore a quella detenuta nella “sorella” incorporata.
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configurazione di valore acquisibile dal socio restando in società in forza del
“cambio” delle proprie azioni, non invece al valore (di scambio) acquisibile
liquidando le azioni ricevute dalla incorporante; se si vuole, un interesse a
reinvestire nella stessa impresa, sia pure modificata sul piano organizzativo e
patrimoniale dalla fusione, non invece a disinvestire per sfruttare le possibilità di
acquisto di partecipazioni o titoli di altre imprese disponibili in quel momento sul
mercato.
5. Alcuni sintetici cenni merita il problema della risarcibilità del pregiudizio
ai diritti amministrativi, vale a dire l’ipotesi in cui il socio abbia perso, a seguito
della diluizione indotta dal concambio incongruo, la posizione partecipativa
qualificata detenuta prima dell’operazione [in ragione della titolarità di uno dei
Minderheitsrechte quali, ad es., quelli menzionati dagli artt. 2367, 2393-bis, 2408, 2409 c.c.
o dall’art. 126-bis, comma 1, TUF]. A una soluzione affermativa del problema, va da
sé, non possono opporsi ostacoli di natura tecnica, giacché, come è stato osservato,
sono senz’altro ipotizzabili criteri per stimare il valore economico dei diritti
corporativi del socio [A.GENOVESE, 2007; P.BELTRAMI, 2012]. E una tale evenienza è, del
resto, espressamente contemplata dalla regola di neutralizzazione di cui all’art. 104bis, comma 5, TUF la quale – nel prevedere l’obbligo dell’offerente di
«corrispondere un equo indennizzo per il pregiudizio patrimoniale subito dai
titolari» delle speciali prerogative in punto di nomina e revoca degli organi sociali
sterilizzate dall’applicazione di quella regola – impone di procedere, in mancanza di
accordo tra le parti, al «raffronto tra la media dei prezzi di mercato del titolo nei
dodici mesi antecedenti la prima diffusione della notizia dell’offerta e l’andamento
dei prezzi successivamente all’esito positivo dell’offerta»: così riconoscendo
all’andamento delle quotazioni di borsa la capacità di esprimere affidabilmente
anche il valore di mercato di singoli poteri e diritti amministrativi inerenti all’unità
azionaria.
Non è questione, dunque, della possibilità teorica di ricomprendere, in linea
generale, anche la lesione dei poteri sociali di influenza nell’area del danno
individuale suscettibile di essere risarcito [F.GUERRERA, 2004].
Proprio la disposizione da ultimo citata in tema di breakthrough rule induce,
tuttavia, a nutrire forti perplessità nei confronti della tesi che dà ingresso alla tutela
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aquiliana della dimensione corporativa della partecipazione nel caso di concambio
iniquo. Essa dimostra infatti – in coerenza con quanto deve dirsi, su un piano
generale, per l’intera disciplina delle offerte pubbliche di acquisto obbligatorie –
come l’unico momento nel quale i diritti amministrativi assumono autonomo rilievo
sotto il profilo valoristico sia quello della circolazione della partecipazione, cioè
della realizzazione del suo valore di «scambio». Diversa è, invece, la situazione
qualora al centro del processo estimativo si ponga, come nel caso della fusione, il
valore «fondamentale» dell’azione: un valore che, ricavandosi da una suddivisione
dei flussi finanziari futuri dell’impresa per il numero di azioni in circolazione,
consente di diversificare la posizione dei singoli soci solo in ragione delle differenti
prerogative patrimoniali su quei flussi, non invece del peso partecipativo di
ciascuno. Si tratta, del resto, di una conclusione che a ben vedere non risulta
distante dall’orientamento incline a ritenere inammissibile, nella determinazione del
concambio, l’applicazione di premi di maggioranza o sconti di minoranza
[L.A.BIANCHI, 2002] e appunto in quanto irriducibili al contenuto logico di quella
suddivisione.
Non sembra che in questo modo si recidano intollerabilmente i margini di
protezione per il socio detentore della partecipazione rilevante danneggiata dal
concambio. Quei margini, infatti, possono recuperarsi sul piano che più è
congeniale alla natura “amministrativa” del diritto leso e cioè in sede di tutela
cautelare. Appare, in altri termini, coerente con l’assetto di interessi in campo che la
considerazione del danno alla posizione di potere del singolo socio trovi adeguato
spazio nella ponderazione giudiziale reclamata dall’art. 2378, comma 3, c.c. ai fini
della eventuale sospensione della deliberazione di fusione. Un passaggio,
quest’ultimo, che consentirebbe allora, se si vuole, di considerare il diniego di
ristoro pecuniario della lesione del diritto amministrativo alla stregua di una
particolare applicazione al caso di specie della norma generale contenuta nell’art.
1227 c.c.; che consentirebbe, in altri termini, di qualificare la condotta del socio
rilevante che sia rimasto inerte dinanzi alla approvazione assembleare del
concambio incongruo alla stregua di un suo “concorso” colposo nella causazione
del danno.
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6. Quest’ultima conclusione induce a chiedersi se, dinanzi all’ablazione di
diritti partecipativi qualificati, il socio dell’incorporanda sia legittimato a chiedere
una riparazione non monetaria e, segnatamente, un risarcimento in forma
“specifica” da attuarsi mediante assegnazione successiva di azioni della
incorporante in numero e di valore tali da rimuovere il pregiudizio subito: un
risultato, in vero, la cui ammissibilità è, come noto, ampiamente discussa in dottrina
[in senso affermativo P.LUCARELLI, 2001; A.VICARI, 2004; e soprattutto I.PAGNI, 2004; in senso
contrario G.FERRI jr, 1998; C.SANTAGATA, 2004; A.GENOVESE, 2007; P.BELTRAMI, 2008; E.LA
MARCA, 2012].
Orbene, deve escludersi che a tale ammissibilità possano opporsi ostacoli di
natura pratica. Se, infatti, si intendesse riferire quegli ostacoli ai problemi legati alla
individuazione dei soggetti attivamente legittimati, visto che alcuni dei vecchi soci
dell’incorporanda potrebbero aver alienato (e, trattandosi di società quotata,
avranno senza meno alienato) le azioni assegnate loro in concambio, sarebbe
agevole replicare che la verifica della legittimazione non sarebbe più complessa di
quella da esperirsi nel caso di risarcimento per equivalente [ove si tratterebbe comunque
di verificare se l’attore rivestiva la qualità di socio dell’incorporanda al momento di produzione degli
effetti della fusione: v. supra, par. 3.3.].
Non v’è dubbio d’altro canto che, nel periodo compreso tra la data di
perfezionamento della fusione e la data della pronuncia giudiziale, la società
incorporante potrebbe aver deliberato modificazioni del capitale o aver effettuato
altre operazioni straordinarie (trasformazioni, fusioni, scissioni) idonee a modificare
radicalmente cifra e composizione del capitale nominale. Ma ciò varrebbe al più a
impedire l’eventuale applicazione del rimedio nel singolo caso, non certamente a
escluderne la configurabilità in via generale: una eventualità, del resto, immanente
alla stessa conformazione dell’istituto di cui si sta ora ragionando (e v., infatti, l’art.
2058 c.c.: «...qualora sia in tutto o in parte possibile»).
Si può sottolineare, inoltre, che la riparazione “in natura” del diritto leso
avrebbe l’indiscutibile vantaggio di preservare la società dal rischio di esborsi
monetari potenzialmente rilevanti e di tutelarne così l’interesse a evitare la
distrazione di risorse stabilmente destinate all’attività d’impresa. Un aspetto,
questo, non del tutto trascurabile in chiave sistematica, se è vero che tra i problemi
“irrisolti” della fattispecie del danno da concambio incongruo vi è quello della
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disciplina da applicare ove la società non abbia poste di netto disponibili per far
fronte alle pretese risarcitorie dei vecchi soci dell’incorporanda.
Meritevole di precisazione appare anche il richiamo alla norma del primo
comma dell’art. 2504-quater c.c. e alla (indiscutibile) irregredibilità degli effetti
organizzativi prodotti dalla pubblicità della fusione, almeno considerando come, a
differenza di quanto è a dirsi per la sanzione (questa, sì, realmente ripristinatoria)
costituita dalla Entschmelzung, l’attribuzione in via riparatoria di azioni
dell’incorporante non metta in discussione l’avvenuta produzione del valore
organizzativo del concambio [P.LUCARELLI, 2001] ed anzi, a ben vedere, la
presupponga sul piano logico.
Tuttavia, non può omettersi di rilevare che la (ri)assegnazione di azioni
dell’incorporante in chiave satisfattiva della domanda formulata ai sensi dell’art.
2504-quater, comma 2, c.c. incide non solo sulla posizione del socio istante ma
anche (e inevitabilmente) su quella dei consoci. Si intende dire che, se una
successiva “integrazione” del concambio mediante assegnazione di azioni
dell’incorporante ai soci pretermessi dell’incorporata non attenta al valore
organizzativo dell’atto di fusione ormai iscritto, e appare per questo astrattamente
ipotizzabile, l’assolvimento dell’obbligo risarcitorio da parte della convenuta
richiede a sua volta un atto con valore prettamente «organizzativo»: dovendosi
procedere alla emissione di nuove azioni (da liberare tramite compensazione con il
credito vantato dal socio a titolo risarcitorio nei confronti della società) o comunque
alla assegnazione di azioni preesistenti in portafoglio (e quindi alla distribuzione
della correlativa voce di netto appostata a bilanciamento di quelle azioni). E non
sembra che, in mancanza di un norma espressa, vi sia spazio per soddisfare una
pretesa tipicamente «individuale» (quale quella nascente dalla azione di danni
prevista dall’art. 2504-quater c.c.), con un atto di portata «sociale»: che, in altri
termini, sia possibile conseguire quel risultato in presenza di un assetto normativo
che attribuisce efficacia meramente intersoggettiva al giudicato formatosi sulla
sentenza di condanna della incorporante al risarcimento del danno patito dai soci
dell’incorporata (6).
6
E si cfr., da un lato, la disposizione dell’art. 2377, comma 7, c.c. e, dall’altro, quella
dell’art. 2909 c.c. All’argomento speso nel testo contro l’accessibilità del rimedio in forma specifica
nei confronti della società incorporante potrebbe forse affiancarsene un altro legato alla eventualità
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Quanto appena osservato, però, lascia aperta la astratta esperibilità del
rimedio ove l’azione si diriga nei confronti non della società incorporante bensì del
suo azionista di controllo e nel presupposto di un “abuso” deliberativo perpetrato da
quest’ultimo in danno della minoranza [v., infatti, M.S.SPOLIDORO, 1994]. Una
soluzione, questa, che non pone il tema della rilevanza organizzativa dell’atto
adempitivo, trattandosi di regolare obblighi inerenti ai rapporti tra soci: una
soluzione, inoltre, la quale si mostra coerente con la portata “negoziale” che si è
visto in precedenza permeare larga parte della disciplina positiva del concambio da
fusione.
che l’attore scelga di “arbitrare” tra risarcimento monetario e istanza di riparazione ai sensi dell’art.
2058 c.c. al fine di lucrare in ogni caso sull’andamento dei corsi di borsa verificatosi dalla data della
fusione al momento della pronuncia giudiziale. In vero, se il prezzo di borsa è aumentato rispetto a
quello assunto a base della “rideterminazione” del concambio in sede giudiziale, il socio opterà per
il risarcimento in forma specifica potendo rivendere le azioni a prezzo maggiorato. Nell’ipotesi
inversa opterà per la reintegrazione monetaria, potendo reinvestire il ricavato per acquistare un
numero di azioni più elevato rispetto a quello al quale avrebbe avuto diritto in forza del concambio
“rettificato”. E’ vero, in tale ultima ipotesi, che, ove gli fossero state da subito attribuite tali azioni,
il socio avrebbe anche potuto sottrarsi al loro successivo deprezzamento vendendole per tempo: ma
si tratta di scenario la cui riprova è impossibile a fornirsi, pure considerando la ben nota “resistenza”
degli investitori a cedere sul mercato ribassista azioni acquistate a prezzo più elevato e così a
rendere definitiva la perdita sull’investimento (v. sul punto, discorrendo di un “Dispositionseffekt”,
T.BAUMS, 2009). Si realizzarebbe, così, un esito operativo non del tutto in linea con lo scopo
dell’azione di cui all’art. 2504-quater, comma 2, c.c., la quale tende a riportare il patrimonio del
soggetto leso nella medesima situazione in cui si sarebbe trovato ove gli fosse stato assegnato in
concambio, sin dall’inizio, il numero “esatto” di azioni dell’incorporante.
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