Anno 2015 n. 4, supplemento Diritto e Scienza DIRITTO E SCIENZA Rivista giuridica telematica Anno 2015 Aprile N. 4, supplemento Diritto e scienza 2015/4, supplemento Pag. 1 Anno 2015 n. 4, supplemento Diritto e Scienza L’algoritmo umano parte IV a cura di Francesco Bellomo Diritto e scienza 2015/4, supplemento Pag. 2 Anno 2015 n. 4, supplemento Diritto e Scienza PRESENTAZIONE DEL NUMERO Lo incontro nell’ascensore al piano terra del grand hotel Visconti – sede del corso milanese – in tenuta sportiva e chiaramente affaticato e gli domando: «Ma cosa fai?». «Consigliere, mi alleno». «Mah, non si direbbe». «Eh, purtroppo non riesco a rinunciare ai tre piaceri della vita». «E quali sarebbero?». «Cibo, alcool e donne». «Se non ti moderi sui primi due, dubito potrai godere del terzo». Qualche mese dopo questa dotta conversazione giunge la notizia che il soggetto in questione ha superato il concorso in magistratura. E come lui tanti. Un risultato statisticamente notevole, con un significato aggiuntivo: il progressivo tramonto della figura del magistrato burocrate. Operazione che vede nel genere femminile la punta più avanzata. Lezione in videoconferenza. Dunque io non sono a Milano. Ma le mie borsiste si. E pure l’immancabile squadra di calcio di serie A1. Il copione è identico. Prima la mora, agganciata in giardino con il pretesto dell’invito alla partita serale. Poi la bionda, attesa all’uscita dei bagni (dopo maldestro pedinamento, si presume), per formulare lo stesso invito fatto all’altra. Identico, oltre al procedimento, l’esito: il tenace individuo non poteva sapere che le borsiste sono contrattualmente vincolate al principio di selettività. 1 Per oscure ragioni, ogni squadra che gioca con il Milan o l’Inter, o con la nazionale, viene a quell’hotel. Diritto e scienza 2015/4, supplemento Pag. 3 Anno 2015 n. 4, supplemento Diritto e Scienza Ma il dato che interessa a fini scientifici è un altro. Dopo il primo fallimento, l’abbordatore pensa bene di acquisire informazioni e accerta che il suo obiettivo frequenta un corso di magistratura. A questo punto scatta l’inferenza – un’analogia direi – ed egli si apposta in prossimità dell’aula di lezione per verificare la presenza di altri obiettivi. Quindi agisce nuovamente. Orbene, l’idea che esponenti del mondo calcistico 2 possano pensare a un corso per la preparazione alla magistratura come luogo in cui trovare fanciulle avvenenti è un segno del cambiamento in atto. Tuttavia, ancora prevale il modello tradizionale dell’aspirante magistrato, che favorisce il fenomeno delle distorsioni emotive, inesauribile fonte di fallimenti. L’evidenza empirica dimostra come gli studenti migliori sovente si imbattano in debacle concorsuali: la fragilità emotiva – assecondata dalla concezione umanistica del diritto – è un grave limite nei giochi competitivi. Tra i vari indizi premonitori del fallimento si segnala la figura del fidanzato-cameriere3, ossia di colui che – anche tecnicamente – “serve” la compagna, dedita agli studi. A voler essere precisi il nomen di costui dovrebbe declinarsi come cameriere-fidanzato, posto che viene scelto come fidanzato proprio in quanto abile al servizio, e non già destinato a mansioni di servizio in quanto fidanzato, il che tutto sommato sarebbe – una tantum – accettabile. Sennonchè, abituate alla bontà d’animo del fedele compagno4, quando arriva la prova dove un certa dose di cattiveria agonistica è necessaria5, si trovano impreparate. Seguono accidenti vari di ordine psicologico, che fanno rendere l’interessata molto al di sotto del suo potenziale. Cioè, in sostanza – lo dico da appassionato – tipi che inseguono su un prato verde una palla per prenderla a calci. 3 Una variante del noto genus, che può assumere volta a volta le sembianze del fidanzato-tassista, idraulico, ecc. ecc. 4 I più preparati tra i miei lettori riusciranno a cogliere nella proposizione sfigato=buono una classica fallacia logica. 5 Nella teoria dell’agente superiore, ovviamente, le cose stanno diversamente. Non si tratta di essere “buoni” o “cattivi”, ma, semplicemente, neutrali. Concentrazione, distacco, comprensione del quadro generale e individuazione dei particolari significativi. 2 Diritto e scienza 2015/4, supplemento Pag. 4 Anno 2015 n. 4, supplemento Diritto e Scienza Ben inteso, il cameriere-fidanzato è solo una delle molteplici combinazioni esistenziali adottate per sfuggire alla legge della giungla. Il classico vizio di scappare, dimenticando che a correre – molto più velocemente – è il tempo (tempus fugit). Capita, poi, che qualcuna di loro ce la faccia ugualmente, illudendo chi osserva che il metodo sia giusto. Ma quante riescono sul totale? Si obietterà che questo, in fondo, è frutto del diritto all’autodeterminazione, che comprende la libertà di fallire in nome di scelte di vita più consone al proprio gusto. Vero, ma non esistono diritti illimitati. Il diritto all’autodeterminazione incontra un limite nel principio di non contraddizione: chi conduce un’esistenza vittima di stati confusionali e shock emotivi, come può aspirare a giudicare quella altrui? Diritto e scienza 2015/4, supplemento Pag. 5 Anno 2015 n. 4, supplemento Diritto e Scienza CAUSALITA’ E AGENTE SUPERIORE Anche per valutare l’eccezionalità della concausa sopravvenuta è necessario formulare un giudizio controfattuale, eliminando mentalmente il fattore in esame e chiedendosi non già se l’evento si sarebbe prodotto ugualmente (la risposta è ovviamente negativa), bensì quale sarebbe stata la sua probabilità di realizzazione6. Se la probabilità è assai bassa, significa che astrattamente l’incidenza del fattore sopravvenuto nel decorso causale è assai alta: “eccezionale” è, nella comune accezione, ciò che ha una minima probabilità di verificarsi. Si tratta, però, di un giudizio puramente statistico, effettuato sulla base della legge di copertura, insufficiente a spiegare il ruolo per il diritto avuto dall’azione colpevole nel processo di produzione dell’evento. Ciò che è determinante, a tal fine, è stabilire se l’agente avesse o meno il “dominio” causale del fatto, pur se in presenza di un fattore naturalisticamente preponderante. L’art. 41, comma 2 c.p. seleziona quando un antecedente causale riferibile a un uomo sia giuridicamente significativo, perché esprime un idoneo collegamento con l’evento: solo in tal senso l’illecito può dirsi “personale”. Tale collegamento sussiste ogniqualvolta l’azione colpevole orienti lo sviluppo del processo causale, benchè caratterizzato da fattori posteriori che sprigionano maggiore forza. Ne deriva che l’eccezionalità della causa sopravvenuta, da sé sufficiente a generare l’evento, non può essere apprezzata solo sul piano naturalistico, dovendosi tenere conto del suo significato sociale, nel contesto originato dalla condotta illecita. Poiché il parametro di riferimento è la dominabilità da parte dell’agente del decorso causale, è di intuitiva evidenza come il relativo giudizio debba considerare il tipo di agente. Al riguardo si devono applicare le note figure dell’agente modello e dell’agente superiore. In ordine all’agente modello, il problema che si pone è la base cognitiva del giudizio ipotetico, ossia quali sono gli elementi del fatto che il giudice deve considerare: solo quelli inerenti alla condotta dell’agente, anche quelli inerenti al contesto in cui si sviluppa il processo causale noti dall’agente, tutti quelli esistenti e conoscibili dall’osservatore in base alla migliore scienza ed esperienza del momento storico. La prima soluzione contraddice il parametro della dominabilità, che è legato alle conoscenze causali dell’agente. È evidente che non si può ignorare la conoscenza che l’agente abbia della situazione di fatto in cui si inserisce la sua condotta, perché da ciò dipende la possibilità di orientare il decorso causale7. 6 Il ricorso a enunciati ipotetici, che apparentemente convertono un giudizio storico in uno prognostico, è un espediente del ragionamento. Qui, come nel giudizio condizionalistico, non si tratta di formulare previsioni sul futuro, ma di ricostruire il passato, accertando la rilevanza di un accadimento nel processo di produzione di un evento posteriore. A mutare è solo il criterio di qualificazione, che nel giudizio sulla condizione è la necessità, nel giudizio sulla causa efficiente è la sufficienza. 7 Nell’esempio di scuola del soggetto animato dalla volontà di uccidere, che insegue la vittima designata su un altipiano esplodendo colpi d’arma da fuoco al suo indirizzo, è rilevante – al fine di stabilirne la Diritto e scienza 2015/4, supplemento Pag. 6 Anno 2015 n. 4, supplemento Diritto e Scienza La seconda soluzione, più appropriata, non è però coerente con un giudizio di tipo oggettivo, qual è quello sulla causalità, e conduce a risultati incongrui8. Corretta è la terza soluzione, con la precisazione che, essendo operato un giudizio ipotetico escludente il fattore sopravvenuto, questo non può che svolgersi con riferimento al momento in cui la condotta illecita è stata posta in essere, sicchè il giudice deve limitarsi a valutare la possibilità che detto fattore sopraggiunga, alle luce delle circostanze esistenti in quel momento. Allargando la base delle conoscenze utilizzabili nel giudizio ipotetico si facilita la prognosi e, quindi, si restringe l’area dei fattori eccezionali, con conseguente espansione della causalità, ma tale effetto da un lato è insito nel sistema, che riconosce alle cause sopravvenute efficacia interruttiva qualora “da sole sufficienti”, dall’altro è attenuato dalla collocazione temporale del giudizio, che di regola impedisce di intuire uno sviluppo causale altamente improbabile anche in presenza di una completa conoscenza della situazione. Così, ad esempio, nel caso di ferimento di una persona che muore in ospedale per lo scoppio di un ordigno collocato dai terroristi, il giudice – nel valutare al momento del ferimento le probabilità di morte della vittima in ospedale – deve considerare la possibilità dell’attentato terroristico in base alla situazione esistente in quel momento e inserire tale possibilità nella previsione dello sviluppo causale: la probabilità di verificazione dell’evento concreto al momento del ferimento resta estremamente bassa, sicchè il fattore sopravvenuto risulta eccezionale. L’accoglimento della tesi oggettiva in ordine alla natura del giudizio ipotetico non fa perdere rilievo alle conoscenze dell’agente, le quali sono indicative del concreto controllo che egli esercita sul decorso causale e, quindi, influenzano il calcolo probabilistico del giudice. Oltre alle informazioni possedute in concreto, rilevano le conoscenze e le capacità psico-fisiche di cui l’agente è dotato in generale9. Sotto tali aspetti si coglie il riflesso dell’inquadramento dell’imputato nella categoria dell’agente superiore, definito come il «signore della materia» proprio perché maggiormente in grado di dirigere i processi causali. Appare chiaro, allora, come il paradigma della “eccezionalità” trovi diversa applicazione allorquando ad agire sia un soggetto “superiore”. Al riguardo occorre distinguere tra agente superiore particolare e generale. L’agente superiore generale è, a sua volta, “eccezionale”, dunque tutto ciò che è umanamente dominabile, in base alla migliore scienza ed esperienza del momento responsabilità per la morte dovuta alla caduta accidentale in un dirupo, causata dalla fuga – la conoscenza che l’agente abbia dello stato dei luoghi ed, eventualmente, anche delle concrete possibilità difensive della vittima. 8 Restando all’esempio appena fatto, il giudice non può non tener conto dei deficit motori della vittima, ignorati dall’agente ma tali da agevolare obiettivamente l’incidente durante la fuga, rendendo così tale accadimento più probabile. 9 Conoscenza delle leggi di funzionamento del mondo, intuizione, calcolo matematico, distacco emotivo, forza, velocità e coordinamento neuro-muscolare: conoscenze e attitudini che consentono all’individuo di prevedere lo sviluppo della realtà e orientarlo. Diritto e scienza 2015/4, supplemento Pag. 7 Anno 2015 n. 4, supplemento Diritto e Scienza storico, è a lui ascrivibile10. In altri termini, la qualità di agente superiore generale incide sulla componente sociale del giudizio sulla causa sopravvenuta, essendo egli in grado di assolvere lo standard richiesto per la dominabilità di decorsi causali in cui intervengono fattori imponderabili o ingovernabili dall’agente modello. Nella misura in cui l’agente superiore è in grado di intuire il sopraggiungere di un fattore ignoto ai più e di modellare su di esso la propria condotta, egli è responsabile dell’evento che ne derivi, anche se il fattore sopravvenuto è preponderante dal punto di vista naturalistico nella sua causazione. L’agente superiore particolare ha pure caratteristiche di eccezionalità, limitatamente al settore di realtà in cui si svolge il reato. Valgono, quindi, considerazioni in larga parte analoghe. La differenza tra le due figure si apprezza con riferimento alle ipotesi in cui il fattore sopravvenuto sia totalmente eccentrico rispetto alla serie causale attivata dalla condotta. Nel citato esempio dell’inseguimento armato che si conclude con la caduta accidentale della vittima, qualora l’agente sia un soggetto appartenente alle forze di polizia o ad altra categoria particolarmente abile nell’impiego delle armi e nel combattimento, e sia personalmente dotato in tali settori, il sopraggiungere della caduta durante la fuga è un accadimento normalmente dominabile. Diversa sarebbe l’ipotesi del suicidio della vittima, che è un fattore estraneo sul piano materiale alla condotta illecita, sicchè le caratteristiche di superiorità dell’agente non rilevano. L’applicazione della teoria dell’agente superiore all’istituto delle concause appare in linea con quella parte della dottrina che si sforza di collocare l’art. 41, comma 2 c.p. come deroga al principio dell’equivalenza delle condizioni, nel senso che esistono condotte che sono condizioni ma non causa, perché il loro ruolo condizionante è occasionale, vale a dire non riconducibile ad una regolarità causale espressa da leggi scientifiche11. Tale opinione va correttamente intesa, posto che la condotta dell’imputato ben può non ricadere sotto la legge di copertura del fattore sopravvenuto e però costituire condizione dell’evento in forza di un legame con la causa prossima riconosciuto da altra legge scientifica, essendo anzi questa l’ipotesi più frequente nella realtà, in cui dinamiche che conducono all’evento tipico sono comprensibili alla stregua di una pluralità combinata di paradigmi eziologici, ognuno dei quali funge da copertura di uno o più anelli della concatenazione degli eventi. Il senso di tale impostazione, allora, risiede nel fare riferimento alla condotta che è stata storicamente condicio sine qua non di una successione di avvenimenti coperta da leggi scientifiche soltanto nella sua parte finale, ossia quella in cui esplica efficacia diretta il fattore sopravvenuto. Ciò si sostiene possa avvenire in un solo caso: «quello in cui una condotta risulta, ex post, condicio sine qua non di una altrui opzione comportamentale, la quale soltanto 10 Non gli sono ascrivibili, invece, fenomeni che si sottraggono alla sfera di oggettiva prevedibilità o evitabilità, siano essi naturali o sociali. Così neppure l’agente superiore può essere chiamato a rispondere – salvo casi singolari – della morte in ospedale della persona ferita a causa di un’azione terroristica, trattandosi di un fattore che sfugge al suo controllo. 11 Cfr. A. VALLINI, Cause sopravvenute da sole sufficienti e nessi tra condotte, 11 Luglio 2012, http://www.penalecontemporaneo.it/. Diritto e scienza 2015/4, supplemento Pag. 8 Anno 2015 n. 4, supplemento Diritto e Scienza ha posto le premesse materiali di un decorso causale realmente “naturalistico”. In effetti, come ormai riconosciuto da ampia letteratura, le interdipendenze tra libere scelte umane possono pure esprimersi nelle forme di un condizionamento, ma non operano mai in applicazione di leggi causali in senso stretto: esse sono, al più, sussumibili in massime d’esperienza, le quali però, non costituendo in questo caso la formulazione sintetica di parametri eziologici naturalistici, non trovano cittadinanza nel contesto di una rigorosa teoria scientifica della causalità. Le leggi causali, per definizione, esprimono la necessità di certe successioni di accadimenti, mentre quel che anima l’azione di un uomo è sempre e comunque un atto psichico che non è mai ineluttabile. Viceversa, quando risulti che la condotta ha prodotto l’evento mediante l’attivazione di processi causali in tutto “naturalistici”, il nesso condizionalistico non può che essere interpretato alla luce di leggi scientifiche (dunque, in questo caso sì, condizione e causa sono un tutt’uno), non essendo ipotizzabili accadimenti meramente materiali che operino al di fuori dei vincoli della chimica, della fisica, della biologia»12. Benchè tale assunto non possa essere condiviso13, la tesi ha il merito di evidenziare come i problemi relativi all’applicazione dell’art. 41, comma 2 c.p. si pongano quasi sempre quando la causa sopravvenuta sia costituita da un’altra azione umana, motivata da quella antecedente. Ebbene, in questi casi il possesso di conoscenze e capacità superiori risalta di più, proprio perché nella serie causale interviene un fattore maggiormente condizionabile. Mentre in presenza di fenomeni fisici l’agente talvolta è impotente, per l’invincibilità delle forze naturali, di fronte a fenomeni umani, più aleatori ma anche più deboli, può esercitare un controllo tale da istituire un nesso di dipendenza tra la propria azione e quella posteriore incompatibile con la qualificazione di essa come fattore interrutivo del rapporto causale. Tale ipotesi più facilmente si realizza quando l’agente appartiene al genere superiore, come nell’esempio fatto in precedenza, dove l’abilità dell’inseguitore armato, 12 A. VALLINI , cit., 32 ss. I comportamenti umani obbediscono a leggi scientifiche (naturali, sociali o morali che siano) e, comunque, anche le massime d’esperienza fondate su induzioni pure sono utilizzabili nel giudizio causale. Si aggiunga che nulla nel testo dell’art. 41, comma 2 c.p. autorizza l’interprete a ritenere che la norma si riferisca alle sole condotte umane, anzi la previsione di cui all’art. 41, comma 3 c.p. dimostra esattamente il contrario, sancendo l’estensione della regola posta dal comma 2 all’ipotesi in cui la concausa sia costituita dalla condotta illecita altrui: se l’art. 41, comma 2 c.p. fosse riferibile alle condotte altrui, ciò dovrebbe valere anche – anzi a maggior ragione – per quelle illecite. La tesi esposta nel testo conduce anche a risultati incongrui, come nei noti esempi del paziente ricoverato a seguito di un’aggressione illecita, quindi morto per cause intervenute in ospedale o nel trasporto verso l’ospedale (errori medici, infezioni sopravvenute contratte in ospedale, incidenti per problemi strutturali degli edifici o per incidenti dell’ambulanza, ecc.), caratterizzati dal fatto che tra il ferimento iniziale ed il successivo incidente, intercorre una scelta umana – quella, appunto, di andare o essere portato in ospedale – che non sarebbe causata dal precedente ferimento e dall’esigenza di curare il malato (bensì psicologicamente, professionalmente, giuridicamente, deontologicamente motivata). In tutti questi casi l’autore dell’aggressione non sarebbe responsabile, a meno che la morte costituisca l’esito di un’evoluzione patologica che procede dall’aggressione stessa, nell’intero suo decorso decifrabile alla stregua di leggi scientifiche (il malato muore proprio per l’emorragia provocata dall’aggressione, per quanto successivamente mal curata; l’infezione contratta in ospedale, per negligenza nella cura dell’igiene da parte dell’azienda addetta alle pulizie, si inserisce nella ferita provocata dall’aggressione, trovando in essa una condizione per svilupparsi ecc.). 13 Diritto e scienza 2015/4, supplemento Pag. 9 Anno 2015 n. 4, supplemento Diritto e Scienza ostacolando il piano di fuga della persona offesa e aumentando il rischio per la stessa di essere colpita mortalmente, incrementa la probabilità di errore e, specificamente, di caduta lungo il precipizio. Un altro caso di scuola è emblematico: secondo l’impostazione prima esaminata, l’anestesista che dichiara trapiantabile un certo organo – in realtà colpito da metastasi – non risponde della morte del paziente per il tumore ingenerato dal trapianto dell’organo malato14. Ammesso che ciò sia esatto, se l’anestesista è un luminare di fama internazionale, la conclusione cambia, perché il suo parere è sostanzialmente insuperabile da parte del chirurgo. A.VALLINI, cit., 37: «In una vicenda del genere, il decesso costituisce l’esito di un processo biologico decifrabile alla luce di regolarità note alla scienza, che vedono come presupposto necessario la presenza dell’organo malato nel corpo del paziente, dunque indicano come “causa da sola sufficiente” il successivo trapianto d’organo. È vero che, in assenza di quella “dichiarazione di trapiantabilità”, il chirurgo non avrebbe attuato il trapianto (dunque quella dichiarazione si configura quale condicio sine qua non del concreto andamento degli eventi). È altrettanto vero, tuttavia, che non esiste alcuna legge scientifica secondo la quale, se un anestesista dichiara la trapiantabilità, ne deriva ineluttabilmente una successiva operazione di trapianto. Quest’ultima è pur sempre il risultato di un’opzione del chirurgo, magari motivata, interiormente, dall’esigenza di adeguarsi a regole di comportamento attinenti alla propria professione, ma comunque libera, non “causata”. Il chirurgo, a fronte di una dichiarazione di trapiantabilità, avrebbe anche potuto decidere di non procedere». 14 Diritto e scienza 2015/4, supplemento Pag. 10
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