ItaOggi036 (DF).indd - Unione Giovani Dottori Commercialisti ed

36
Giovedì 10 Luglio 2014
D OT TO R I C O M M E R C I A L I ST I
Le ultime riforme in tema di controlli non tengono conto delle mutate condizioni economiche
Sindaci in funzione anti-default
Obbligo legato anche a patrimonio netto e indebitamento
E
DI GIOVANNI RUBIN*
PIER LUIGI MARCHINI**
A
distanza di due anni
circa dall’ultimo intervento normativo
(art. 35 dl 9 febbraio 2012, n. 5) il legislatore
ha modifi cato nuovamente
le regole relative alla governance delle società a responsabilità limitata.
Dopo averne frettolosamente ridisegnato le caratteristiche di composizione
dei controlli interni, abolendo l’obbligatorietà di un organo collegiale e concedendo
all’assemblea la facoltà di
scegliere alternativamente tra un revisore legale
dei conti e un c.d. «sindaco
unico», l’articolo 20, comma
8, del dl 24 giugno 2014, n.
91 (c.d. «Decreto Renzi») interviene nuovamente, abrogando il secondo comma
dell’art. 2477 c.c., rubricato
«Sindaco e revisione legale
dei conti».
Dal 25 giugno 2014, quindi, la nomina dell’organo di
controllo, sia monocratico
che collegiale, o del revisore,
nelle società a responsabilità limitata, non è più obbligatoria qualora il capitale
sociale non sia inferiore a
quello minimo stabilito per
le società per azioni.
Di conseguenza, secondo la
norma novellata, la nomina
dell’organo di controllo o del
revisore diviene obbligatoria
solamente quando:
a. la società a responsabilità limitata è tenuta alla
redazione del bilancio consolidato;
b. la società a responsabilità limitata controlla una
società obbligata alla revisione legale dei conti;
c. la società a responsabilità limitata ha superato due
dei limiti indicati nel primo
comma dell’art. 2435-bis
c.c.
Parafrasando la lettera
«c)» testé menzionata, i limiti di cui all’art. 2435-bis
c.c. sono così individuati:
- totale attivo dello stato patrimoniale pari a
4.400.000 euro;
- ricavi delle vendite e
delle prestazioni pari a
8.800.000 euro;
- numero di dipendenti
occupati in media durante
l’esercizio pari a cinquanta
unità.
Tralasciando ogni scontato commento sulle situazioni
paradossali che d’ora innanzi possono manifestarsi (una
spa con capitale di 200.000
euro obbligata al collegio
sindacale e una srl con capitale di 4.000.000 di euro
non obbligata ad alcun controllo), non si può non prendere atto di come il capitale
sociale perda il ruolo di principale indice e misura della
complessità organizzativa
degli enti dotati di personalità giuridica e della rischiosità per i creditori connessa
alla responsabilità limitata
dei soci.
La dottrina aziendalistica
e la miglior prassi contabile
(Oic 28) definiscono il patrimonio netto come una posta
meramente «ideale», individuabile per differenza tra
attivo e passivo.
L’integrità del capitale
sociale, che costituisce appunto quella parte ideale del
patrimonio netto che misura i conferimenti iniziali dei
soci, è da sempre stata vista
come una garanzia a tutela
dei creditori sociali e, più in
generale, di tutti gli stakeholders.
La scelta condivisibile del
legislatore di abbandonare
ogni riferimento all’ammontare del capitale sociale quale parametro per rendere
obbligatoria una vigilanza
professionalmente qualificata sembra essere netta
e coerente con altri recenti
provvedimenti che hanno
visto affi evolire sempre di
più il «classico» principio
dell’integrità del capitale
stesso come tutela a favore
dei creditori sociali.
In primis non si può non
menzionare il quarto comma dell’art. 2463 c.c., come
novellato dal dl 76/2013, che
determina l’ammontare minimo del capitale sociale delle società a responsabilità limitata «in misura inferiore
a euro diecimila, pari ad almeno un euro». Ugualmente
si ricorda che l’art. 2463-bis
c.c., introdotto dal dl 1/2012,
ha istituito il modello della
società semplificata a responsabilità limitata, il cui
capitale sociale deve essere
obbligatoriamente «pari ad
almeno 1 euro e inferiore
all’importo di 10.000 euro».
Più recente è l’introduzione, avvenuta a opera del dl
83/2012, nel corpus della
legge fallimentare dell’art.
182-sexies, ai sensi del quale una società di capitali
assoggettata alle procedure
di concordato preventivo o
di accordo di ristrutturazione dei debiti può omettere
l’applicazione degli articoli
2446, 2447, 2482-bis e 2482ter c.c. in materia di riduzione del capitale per perdite
e soprattutto risulta inibita
l’operatività della causa di
scioglimento di cui all’art.
2484, n. 4, c.c. (perdita o riduzione del capitale sociale
al di sotto del limite legale
consentito). Da ultimo non
si può non menzionare l’art.
20, comma 7, dello stesso dl
91/2014, che ha ridotto il
limite minimo del capitale
sociale per le società per
azioni da 120.000 euro a
50.000 euro, rendendo mol-
to più appetibile rispetto al
passato il modello della società per azioni.
L’atteggiamento del legislatore non può non essere
apprezzato: anche in dottrina e nella prassi (Oic 5,
norme di comportamento del
collegio sindacale, principio
di revisione n. 570, documento Consob/Isvap/Banca
d’Italia n. 2/2009) il concetto dell’integrità del capitale
sociale nell’ottica della tutela dei creditori sociali sta
perdendo peso a favore del
più ampio concetto di «continuità aziendale», principio
che deve essere rispettato da
tutte le società in funzionamento e che deve essere
valutato in termini di equilibrio finanziario e patrimoniale sia attraverso parametri di natura quantitativa
(categoria a cui appartiene
il capitale sociale stesso) sia
attraverso informazioni di
natura qualitativa.
Considerato il momento
storico di crisi che la nostra
economia sta vivendo, l’obbligatorietà dei controlli interni nelle società di capitali
non può anacronisticamente
essere legata all’ammontare dei conferimenti dei soci,
ma deve necessariamente
essere parametrata ad altri
indicatori di «rischiosità» e
«complessità».
In materia di società a responsabilità limitata gli indici sopravvissuti alle modifiche apportate dal «Decreto
Renzi» e attualmente in vigore richiamano l’art. 2435bis c.c., il quale individua i
tre parametri soglia per l’obbligatorietà della redazione
del bilancio ordinario: l’attivo patrimoniale, i ricavi e il
numero di dipendenti.
Sorge spontanea una domanda: costituiscono effettivamente questi tre indicatori dei parametri adeguati
per l’individuazione delle società a responsabilità limitata meritevoli di maggiori
controlli?
E, considerato il ruolo ormai centrale del concetto
della «continuità aziendale»,
tali parametri sono in grado
di misurarla con efficacia?
Secondo il parere di chi
scrive la risposta non può
che essere negativa: è giusto sdoganare la perentorietà di un organo di controllo
da un voce di bilancio poco
significativa come il capitale
sociale, ma è necessario ricalibrare l’obbligatorietà dei
controlli su quelle società a
responsabilità limitata che
presentano indici di potenziale squilibrio finanziario e
patrimoniale, poiché questi
sono gli enti potenzialmente
più a rischio di cagionare un
danno economico per l’intera
collettività.
Il legislatore, fin dal 2003,
con la legge di riforma del diritto societario (dlgs 6/2003)
sembra quasi essersi giustificato a priori: è possibile
leggere, infatti, nella relazione illustrativa all’allora
novellato art. 2477 c.c. che
«l’utilizzazione di altri parametri [diversi dal capitale
sociale, dall’attivo patrimoniale, dai ricavi e dal numero dei dipendenti], come per
esempio quelli relativi alle
dimensioni del patrimonio
netto o dell’indebitamento,
potesse introdurre gravi elementi di incertezza in una
materia che richiede invece
sicurezza di disciplina».
Chi scrive ritiene, invece,
che il patrimonio netto e
il livello di indebitamento
siano i «grandi assenti» nel
testo dell’art. 2477 c.c.
Fa molto discutere gli operatori del diritto la carenza
nell’ordinamento italiano di
strumenti di prevenzione e
di procedure di allerta rispetto all’emersione di uno
stato di crisi irreversibile,
a cui la riforma della legge
fallimentare ha saputo dare
solo una timida, sebbene rivoluzionaria, risposta.
Forse si dovrebbe riconsiderare il ruolo del collegio sindacale e del sindaco
unico proprio secondo tale
chiave di lettura: un ruolo importante per l’intera
collettività da parte di professionisti che possiedono
adeguate competenze sia di
natura economica che di natura giuridica; in tal senso
basterebbe rivedere i parametri che rendono obbligatoria la nomina dell’organo di
controllo, introducendo degli
indici di solidità finanziaria
e patrimoniale, che tengano
conto dei «grandi assenti» nell’attuale normativa,
ossia il patrimonio netto e
l’ammontare dell’indebitamento. La scienza statistica
in quest’ottica può costituire
un valido supporto nell’individuazione di tali parametri.
Uno studio condotto
dall’Irdcec nel luglio del 2003
aveva già messo in evidenza
il ruolo positivo del collegio
sindacale nel prevenire ed
evitare la crisi societaria:
i dati desunti dal registro
delle imprese all’epoca della ricerca hanno evidenziato come i fallimenti fossero
nettamente inferiori nelle
società a responsabilità limitata in cui era presente il
collegio sindacale, essendo
stato, in media, dichiarato
fallito il 3,8% delle srl con
collegio sindacale a fronte
dell’ 8,8% delle srl prive di
collegio sindacale.
Il collegio sindacale o il
sindaco unico, quindi, possono essere assolutamente
considerati un valido strumento per prevenire il default e, laddove già sia in
atto un processo di sensibile peggioramento dei dati finanziari e patrimoniali, possono consentire l’emersione
tempestiva di uno stato di
crisi latente e consentire
l’adozione di rimedi efficaci,
già esistenti per legge, limitando così i danni per la
collettività.
È necessario, tuttavia, che
un ruolo di tal genere sia accompagnato da una maggior
consapevolezza delle responsabilità connesse a una funzione di natura pubblicistica
così importante, così come,
al contempo, da una più razionale valutazione del loro
operato e dei loro compiti
da parte di quei soggetti
che, nominati dal tribunale a seguito del verifi carsi
di uno stato di insolvenza
delle società, coinvolgono a
prescindere, e in modo automatico, i membri del collegio sindacale nelle promosse
azioni di responsabilità.
Diviene a tale fine fondamentale limitare il numero
degli incarichi, che ancora
oggi risultano eccessivamente concentrati nei professionisti di età più avanzata a
discapito della qualità del
lavoro svolto.
In particolare deve essere
abbandonato quel malcostume tutto italiano secondo cui
molti professionisti di età
più avanzata sono portati ad
affermare «vado in pensione,
mantengo solo gli incarichi
di componente del collegio
sindacale».
La revisione legale, come
più volte affermato, resta
un’importante funzione
dell’attività di dottore commercialista.
Dobbiamo essere noi giovani, che crediamo e investiamo in questa importante
funzione, coloro che devono
farsi portatori dell’effettivo
e fondamentale ruolo svolto
dal collegio sindacale, diffondendo presso tutti i dottori
commercialisti la corretta
mentalità secondo cui i collegi sindacali non devono
essere visti come un’attività meramente accessoria e
secondaria rispetto a quella
principale di consulenza.
* consigliere Ungdcec
** probiviro Ungdcec
Pagina a cura dell’