The Great War: Breakthroughs

ISTITUTO COMPRENSIVO
DI SCUOLA MATERNA, ELEMENTARE E MEDIA
29010 MONTICELLI D’ONGINA (PC) - Via M. della Libertà, 2
un Po di ricordi
laboratorio pomeridiano della Scuola media di Monticelli d’Ongina
a.s. 2013-2014
UN PO DI RICORDI……
Durante questo anno è stato attivato il laboratorio pomeridiano UN PO DI RICORDI,
aperto agli alunni delle classi prime e seconde della scuola secondaria di primo grado di
Monticelli d’Ongina. Con la professoressa Scaravella ci siamo ritrovati ogni martedì
pomeriggio a fare attività di ricerca, rielaborazione, approfondimento e interviste,
seguendo due argomenti che ci interessavano particolarmente.
Il primo è stato il nostro amato Po. Riprendendo il discorso iniziato l’anno scorso con il
concorso Fai sulla Bella Venezia, abbiamo studiato i miti del nostro fiume, a partire da
quello di Fetonte, fino ad arrivare alla lettura di brani degli ultimi due libri scritti sul Po:
“Morimondo” di Paolo Rumiz e “Il grande fiume Po” di Guido Conti. Tra un racconto e
l’altro abbiamo fatto la conoscenza di esperti e persone che hanno vissuto sul fiume e che
ci hanno spiegato molte cose sul rapporto tra la Monticelli di una volta e il Po.
E’ stato bello conoscere i nostri compaesani più grandi che ci hanno raccontato anche
come si divertivano i ragazzi come noi . Ringraziamo tutti quelli che ci hanno aiutato
fornendo materiale e perdendo un po’ del loro tempo per venire a scuola o per riceverci.
Qui troverete un po’ del materiale che abbiamo raccolto. Forse non è il più importante ma
è quello che, a dei ragazzi della nostra età, è sembrato più insolito e curioso.
Abbiamo poi integrato il nostro lavoro con quello del laboratorio della 2 A Un Po di versi,
scoprendo così poeti locali che, in italiano o in dialetto, hanno voluto rendere omaggio al
nostro fiume.
Nella seconda parte del laboratorio abbiamo invece proseguito lo studio della storia del
‘900 , iniziato l’anno scorso col professor Freda, arrivando anche a conoscere la storia
contemporanea delle nazioni di alcuni nostri alunni, cioè la Costa d’Avorio, il Burkina Faso,
la Nigeria e la Romania. Oltre alle dispense di storia, abbiamo utilizzato diversi siti Internet
che tengono aggiornati su ciò che avviene attualmente in queste nazioni: Peacereporter,
Amnesty International, Emergency e diversi numeri della rivista Internazionale. Abbiamo
conosciuto realtà lontane dalla nostra e tanti tristi fatti che avvengono nel mondo e che
non ci saremmo mai immaginati, come lo sfruttamento di minori come noi nelle industrie
del cacao.
Abbiamo così conosciuto argomenti che di solito non si imparano a scuola come il nostro
passato, sia quello del nostro paese che quello relativo al dopoguerra italiano, o la storia
delle nazioni dei nostri compagni e adesso ci sembra di capirli meglio. E’ stato bello usare
diversi mezzi e linguaggi, molti dei quali per noi sconosciuti, e soprattutto lavorare in un
gruppo con compagni delle altre classi che sono diventati nostri amici.
Le allieve e gli allievi
Affousiata, Rebecca, Mayssae, Ondin, Davide, Yassine, Soulimane, Daniele, Riccardo,
Simon, Fabio, Christian e Samuele
IL PO IN VERSI…
ritroviamo l’amore per il Po nella poesia del poeta dialettale più famoso di Monticelli, Arrigo
Gottardi
“ Tramunt a Po”
Quand guardi l sul ca s cucia addrè l Piuper
e vadi l’aria e l ciel rusrus bisius,
davanti a n quadr atzè spetaculus
am manca la parola,al fià,l penser.
Gh’è fin la pascarola e l trampulier
ca lassa lè d pascà ,e fat curius,
i guarda al disc ad fog meraviglius,
ch’incendia al ciel e c brusa l’albarer.
Adasa l’aria a l’ha ciapà l viulat
e ind al brasèr gh’è na qual lingua gialda,
velada ad nigui ca par fom d’incendi.
L’acqua ca cura in Po me piumb bluat,
la fa qul vers ad quand a la sa scalda …
e do o tre steli ig noda den stupendi.
Arrigo Gottardi
UN PO DI STORIA…
L’ARRIVO DEGLI INGLESI DELLA RAF ALL’ISOLA
Durante la guerra erano frequenti le incursioni notturne di Pippo.
Quasi quasi faceva compagnia. Una notte del 1994 in cui il guardiacaccia Cattadori era di
turno a vigilare che non si facessero vivi i cacciatori di frodo avvistò in cielo il mitico Pippo
dopodiché sentì un tonfo. L’aereo era finito in Po. Ne vennero fuori due giovani inglesi di
circa 25 anni, magri, slavati, con due lunghe barbe da frati rosse. Erano in buone
condizioni e per un po’ rimasero all’Isola. Il guardiacaccia li trovò nascosti sotto delle
frasche e gli chiesero un badile per potersi fare un rifugio. Gli abitanti del posto portavano
loro del cibo: latte, pesce del fiume e anche sigarette. I due inglesi impararono a cacciare i
fagiani prendendoli con un laccio. Divennero molto amici col “Gnagno” e dopo la guerra
tornarono a trovarlo portandogli dei regali in segno di riconoscenza per l’aiuto che aveva
dato loro. Uno di loro poi andò a Castelnuovo dove fu subito arrestato.
La loro presenza movimentò abbastanza la vita dell’Isola; si può dire che i due inglesi
furono per un po’ un’attrazione locale e tutti facevano a gara per vedere come fossero fatti
questi due stranieri…
A PROPOSITO DI PIPPO…
Pippo era il nome con cui venivano chiamati, nelle fasi finali della seconda guerra mondiale, gli aerei da
caccia notturna che compivano solitarie incursioni nel nord Italia. Arrivavano in volo radente, per evitare
la contraerea, sganciando bombe o mitragliando nel buio della notte.
Le azioni dei “Pippo” erano state programmate dagli Alleati con la complessa operazione denominata
“Night Intruder” (intruso notturno) e affidata ai piloti della RAF. Gli aerei decollavano dalle basi alleate di
Falconara Marittima e Foggia, in formazioni da cinque velivoli per ogni missione che poi si dividevano
per raggiungere le zone o gli obiettivi rispettivamente assegnati.
Colpendo principalmente nell’oscurità, i “Pippo” rappresentavano una presenza misteriosa e
incombente. Senza dubbio furono un’efficace arma psicologica nei confronti delle popolazioni di
campagna. Pippo era il nome con cui venivano popolarmente chiamati, nelle fasi finali della seconda
guerra mondiale, gli aerei da caccia notturna che compivano solitarie incursioni nel nord Italia.
Le incursioni dei "Pippo" avvennero in tutto il Nord Italia, a partire dagli ultimi mesi del 1943 e fino alla
Liberazione, con lo scopo di eseguire azioni continue di disturbo, volte a dimostrare l'impossibilità della
neonata Repubblica Sociale Italiana a garantire la sicurezza del territorio.
Colpendo principalmente nell'oscurità, i "Pippo" rappresentavano una presenza misteriosa e
incombente. Senza dubbio furono un'efficace arma psicologica nei confronti delle popolazioni rurali,
surrogatoria delle azioni di bombardamento strategico utilizzate sui grandi agglomerati urbani. Questo
tipo di minaccia, con apparizioni casuali, poteva colpire anche i piccoli abitati che si sentivano al sicuro
dai bombardamenti massicci.
IL PO E LE SUE TRAGEDIE…
Era un giorno d' estate del 1937e i ragazzi del posto trovavano sollievo dalla calura sulle
rive di Po dove prendevano il sole e facevano delle nuotate. Improvvisamente Carlo
Azzoni , un ragazzo monticellese di 16 anni , vide una ragazza in Po che, probabilmente
incappata nei malefici mulinelli, stava annegando. Carlo, pur non sapendo nuotare, si
gettò in acqua per salvarla. Rampini , un altro ragazzo presente, vedendo la scena cercò
di aiutare Carlo e la ragazza ma non ci riuscì . Rampini si salvò ma gli altri due no .
Antonietta, la sorella di Carlo, fu mandata a dormire dalle cugine Brigida e Giovanna,
come si usava allora in caso di lutto. Al nonno del povero affogato non venne detto niente.
Lo diceva sempre ai suoi nipoti di non andare a bagnarsi in Po…troppo pericoloso….
Quando il funerale del ragazzo passò in paese Mina, la mamma del famoso poeta
monticellese Arrigo Gottardi e grande amica del nonno di Carlo, fu mandata a farlo
parlare per distrarlo intanto che il funerale giungeva in via Martiri della Libertà (allora si
chiamava Corso Vittorio Emanuele) . Poco dopo l’ avvenimento, mentre l’anziano si
trovava in paese, un passante gli disse:”To ‘nvod Carlo l’ è ngà”. Allora il nonno mandò la
nipote Giovanna a casa del cugino Carlo a chiedere informazioni: lei al ritorno finse che la
notizia non fosse vera . Dopo alcuni giorni fu raccontato al vecchio Azzoni che Carlo era
morto di una appendicite fulminante mal curata e successivamente diventata peritonite. Il
nonno non seppe mai la verità fino alla sua morte .
Buca e mulinello erano le principali cause degli annegamenti a Po . Quando nel letto del
fiume c’è uno sprofondamento l’ acqua sovrastante prende forma di un piccolo vortice .
Molti incauti bagnanti hanno perso la vita a causa dei mulinelli del Po.
La Colonia…
Tra gli anni Trenta e gli anni Sessanta i bambini in età scolare si ritrovavano alla Colonia, il
centro elioterapico in riva a Po, di fianco alla S.C.O. Chalet, dove oggi si trova il Circolo
Arci.
Il nostro amico Catullo ricorda le sue estati di bambino alla Colonia, dove trascorreva il
tempo tra giochi e compiti sotto la sorveglianza delle maestre elementari, costrette così a
sorbirsi gli alunni anche in estate.
La signora Giulia ricorda che da bambina ci andava verso le otto: scendeva l’ argine dove
c’ era una bella casa molto larga, con intorno tanti alberi e tutte le tavole già preparate; si
mangiava la minestra a mezzogiorno e si faceva anche la merenda, poi si giocava e
faceva ginnastica. C’erano tante signorine che facevano marciare perché si era sotto il
fascismo, erano nel 1933 e Giulia era ancora una bambina. Verso le 10.00 c’erano Gego e
Gina che preparavano da mangiare in cucina. Gego era l’uomo che portava i ragazzi sulla
sponda del Po con un barcone su cui salivano tutti felici, cantando, poi andavano in mezzo
al fiume su un sabbione dove giocavano, raccoglievano qualche conchiglia e poi facevano
il bagno; ci si asciugava bene al sole e si giocava fino alle 11.30. Poi si risaliva sul barcone
e si tornava cantando: “Da bravo Gego da brava Netta, portaci la pappa che noi arriviamo
qua.” Arrivati, ognuno si sedeva al suo posto e mangiava la minestra. Davano dei ‘sifoloni’
con la conserva, c’era il formaggino, un pezzo di mortadella, dei panini che costavano
molto, ma in Colonia li davano. Era pane bianco con farina bianca: era buono.
Alla fine del pranzo i bambini facevano un pisolino: non c’ erano le brandine per cui
dormivano appoggiati sul tavolo. Preparavano poi le fette di pane perché le davano a
merenda con marmellata di albicocche o di prugne, contenuta in bei mastelloni di latta.
Verso le 17.00 tornavano a casa e ognuno andava per la sua strada. Giulia andava a casa
per l’argine e, cercando di non farsi vedere, mangiava le mele.
Allora la frutta non si usava perche’ i fruttivendoli non c’ erano. Mangiavano la frutta solo
quelli che l’ avevano nell’ orto o quelli che la raccoglievano direttamente dagli alberi.
Belle estati, quelle alla Colonia…
gli esercizi ginnici…
poi la merenda
le solerti cuoche…
e il lavoro nell’orto
il momento del pasto…
e quello per prendere il sole
I RICORDI DI ISIDE….
Iside e’ una dolce signora di quasi 87 anni. Vive ancora all’ Isola Serafini, in una villetta
vicino al famoso ristorante. Aveva 18 anni quando con suo marito andò ad abitare nella
casa pochi metri dietro alla Bella Venezia dove i suoi suoceri avevano un po’ di terra da
coltivare. Era il 1944. Rimasero lì fino al 1963. Suo marito era “äl Gnagno”, il mitico
pescatore della zona. Riforniva gli allevamenti ittici di Brescia, Padova e di tante altre città
del Nord. Di notte “buttava giù” le reti e le canne e al mattino presto le andava a ritirare
colme di pesci che metteva in un vivaio (“la balera”) a spurgare. Era un gran pescatore
anche se, come capita spesso, a lui il pesce non piaceva. Pescava una volta alla
settimana, poi passava gli altri giorni a riparare le reti e a lavorare in campagna. Iside
ricorda quando di sabato, finita la guerra, si organizzavano delle gran feste alla Bella
Venezia dove confluivano tanti giovani anche da Monticelli. La damigiana era la grande
protagonista di quelle serate.
Iside ricorda distintamente anche la grande piena del 1951. Lei rimase per 21 giorni nella
parte alta della casa, mentre tutti gli altri si erano rifugiati alla Casa Nuova dei Zangrandi,
spostandosi con la barca: “ … e ogni mezza ora l’ acqua saliva di un gradino della scala!”.
Gli occhi azzurri di Iside si velano di malinconia quando ripensa ai suoi tre bambini che
crescevano liberi e felici alla Bella Venezia, circondati dai boschi e dalla natura.
Un giorno suo marito e il signor Zangrandi tornarono dal mercato di Piacenza con un asino
al quale piaceva stare con i bambini. E quindi per stare con loro se ne scappava
continuamente dalla stalla. Quando lei cercava i figli che andavano a giocare nei boschi, le
bastava cercare l’asino per trovarli.
Per la spesa al lunedì e al giovedì veniva “äl basulòn” che nel suo camioncino aveva di
tutto, dai generi alimentari al vestiario. Dal momento che, tra le tante cose, la piena del ‘51
aveva rovinato il forno, ogni giorno arrivava da Monticelli un fornaio a consegnare il pane.
Quando c’era la neve, solo il signor Zangrandi poteva andare in paese con il suo “lisòt”,
una specie di slitta trainata dai cavalli prima e successivamente dal trattore. Allora offriva
un passaggio a tutte le donne che avevano bisogno di andare a Monticelli, caricandone
anche quattro o cinque alla volta
Iside rimpiange quegli anni e quel posto.: “Se potessi, ci tornerei anche subito alla Bella
Venezia”.
IL RACCONTO DI LUIGI SCARAMUZZA…
“Avevo otto anni quando andai a vivere alla Bella Venezia con la mia famiglia. Eravamo in
sei, io, i miei genitori, i miei fratelli più grandi Nando e Angelo e mia sorella Anna. Era il
1935. Ci rimasi fino al 1954. Mio padre lavorava come “obbligato” nella stalla insieme a
mio fratello più grande Nando. Quando poi questo andò a militare lo sostituì l’altro mio
fratello. Partito per la guerra anche lui, andai nella stalla io.
Alla Bella Venezia eravamo in sei famiglie a viverci, tutti alle dipendenze del signor
Eugenio Zangrandi, il nostro padrone . Lui abitava alla Ca’ Nova in una residenza poco
lontana da quella dove abitavamo noi. Gli lavoravamo le sue 500 pertiche, e lui ci
rispettava più da padre che da padrone. Sua moglie, la signora Gina, aveva la premura di
non farci mai mancare una merenda e un bicchiere di vino bianco ogni giorno. Le famiglie
più numerose come la mia avevano la disponibilità di quattro stanze. Le nostre erano
proprio nella colombaia. Per i bagni, ci si arrangiava nei cespugli dietro la concimaia (la
pìla). Eravamo circa otto bambini a giocare sull’aia, a divertirci andando per nidi (gnài).
Cercavamo i nidi dei merli per mangiare i piccoli uccellini. Andavamo per gnài e per
lumache, che cercavano di notte con le lampade. O andavamo a pescare nelle lanche.
Venivano anche molti bresciani per gnài.
La povertà aveva creato una solidarietà incredibile. Tutti noi dell’Isola Serafini ci sentivamo
fratelli. Non avevamo niente, ma vivevamo un’epoca d’oro sul Po. Ci divertivamo facendo
le “società”, cioè mettendoci insieme per organizzare le feste allietate dalla fisarmonica del
maestro Garilli. Una volta lui s’era perso nella nebbia e lo trovammo grazie al suono del
suo strumento. Perché anche la nebbia di una volta era diversa da quella di adesso. Era
più fitta, non ti faceva vedere niente e la Bella Venezia scompariva dal paesaggio. Eppure,
era bello.
A quattordici anni cominciai a lavorare nella stalla. Mi alzavo alle quattro per accudire le
bestie. Poi andai a lavorare nei boschi vicini di proprietà dei Fermi. Cavavamo le piante col
badile, con una grossa zappa (äl sapòn), con la scure. Si strappavano dalla terra poi si
facevano a pezzi secondo le dimensioni richieste dalle ditte. Oppure si mettevano insieme
le fascine da vendere ai fornai che le usavano per alimentare il fuoco con cui cuocevano il
pane. Come Rusòn, che aveva la panetteria dove ora c’è la farmacia. D’inverno
tagliavamo i pali di salice per fare gli zoccoli (i supèi) mentre quelli più piccoli finivano sulle
colline per le viti.
Quegli erano anni di guerra. Quella che aveva portato via dalla stalla i miei fratelli. Mio
padre era stato soldato nella guerra del 15-18, ora toccava ai suoi figli. Gli echi di quel
conflitto si sentivano anche da noi, c’erano i giovani che partivano e “Pippo” che sganciava
bombe anche qui. Quando arrivava di notte io correvo sotto la porta perché, a quei tempi,
era risaputo che la porta, se crolla la casa, è l’ultima a venire giù.
Intanto i miei fratelli erano tornati, ma poco dopo furono richiamati alle armi dai
“repubblichini” e loro non si presentarono e si nascosero nel bosco. Il giorno di San
Giovanni del 1944 Repubblichini e Tedeschi vennero a cercarli. Loro contavano di
scappare attraverso la colombaia, erano già pronti a questa evenienza, ma quelli
circondarono tutta la Bella Venezia. Di scappar fuori non c’era verso. Allora uno si attaccò
alla catena del camino e vi restò appeso, l’altro si nascose nella “meza”, un tavolo con
sotto attaccata una cassapanca che faceva da credenza.
Nel 1951, poi, vivemmo la grande piena. Quando l’acqua tornò a calare facemmo alla
residenza l’unico lavoro di “sistemazione” nei 20 anni che sono stato lì: lo ”stabilito”,
l’intonaco. Che voleva dire passare la calce sul muro.
Me ne sono andato dalla Bella Venezia dopo aver preso moglie, nel 1954, per andare a
coltivare della terra che i padroni avevano a Vigolo Marchesi. Ero più utile là. Anche mia
moglie era originaria di Isola Serafini. Noi della Bella Venezia abitavamo troppo lontano
per poter andare a scuola a Monticelli (all’Isola la scuola arrivava fino alla terza
elementare) o per andare in paese a cercare la compagnia di una donna.
Sarebbe stato bello continuare a vivere alla Bella Venezia, in quella colombaia così bella
da lontano che tutti ci invidiavano e che ci faceva anche sentire speciali, ma poi il padrone
decise di trasferirsi lì, così tutti i dipendenti che vi abitavano dovettero allontanarsi.
Penso sempre a quei tempi, all’Isola, alla Bella Venezia. Ero felice in quel mondo. Quello
che mi manca, più della gioventù, era quel sentirsi tutti fratelli, quella condivisione totale,
quella gioia di piccole cose, quella grande solidarietà.
Non avevamo niente, ma nello stesso tempo avevamo tutto. Ora hanno
tutto, ma non sono felici.”
LE RICETTE DEL PO DI UNA VOLTA…
Riproponiamo alcune ricette tramandate da anni che appartengono alla tradizione
culinaria del nostro Po. Sono semplici ma gustose e sempre attuali, tanto che
costituiscono ancora oggi, il piatto forte delle trattorie lungo il fiume.
Naturalmente al primo posto non possiamo non mettere le ALBORELLE FRITTE. Trattasi
di piccoli pesciolini tipici che, dopo essere stati puliti, vengono messi a friggere in una
larga padella di ferro con abbondante olio.
Proseguiamo poi con un piatto che una volta si usava mangiare a Natale: PESCE GATTO
O ANGUILLA IN UMIDO
INGREDIENTI:
Piselli
Pomodori
Burro
Cipolla
Pulire bene il pesce . in una padella far rosolare la cipolla col burro, infarinare il pesce,
metterlo in padella, farlo rosolare, poi aggiungere un bicchiere di vino bianco e sale: far
cuocere lentamente. Aggiungere il passato di pomodoro e, a piacere, anche i piselli
precedentemente cotti. Cuocere ancora per alcuni minuti. Alla fine aggiungere un tritolo di
prezzemolo e aglio.
Ora non si può più per motivi ambientali, ma una volta al primo inizio di primavera la
gente, spinta anche dalla povertà, faceva gara per andare lungo il Po a raccogliere i vartìs.
Sono germogli del luppolo, pianta perenne, rampicante, con fusto volubile, gracile, un po’
angoloso, coperto di corti peli. Crescono spontaneamente lungo i canali, intrecciandosi
alle siepi dei rovi o tronchi degli alberi. Nella cucina locale venivano utilizzati come una
verdura ma soprattutto nella frittata ai vartìs
INGREDIENTI
Vartìs
Formaggio
Uova
Sale
Pane grattugiato
In una pentola, con abbondante acqua salata scottare i vartìs per 10 minuti, toglierli dall’
acqua e strizzarli. In un tegamino friggere una piccola cipolla o uno scalogno, aggiungere i
vartìs e cuocere per altri 10 minuti.
Intanto preparare una frittata ben sbattuta con formaggio, sale, uova e pane. Aggiungere i
vartìs, amalgamare bene e versare il tutto in un tegame unto con poco olio: cuocere
lentamente e ..... buon appetito!
LA FISARMONICA – UN RACCONTO DI PIERO CATTIVELLI
Piero Cattivelli era nato all’Isola nel 1924. Lavorava per la questura e verso i 25 anni è stato trasferito a
Genova, dove poi si è licenziato per aprire una libreria. Aveva sempre amato la scrittura, il teatro e il suo Po
che il mare di Genova non era riuscito a fargli dimenticare. Gli piaceva raccontare aneddoti sul suo paese e
spesso recitava piccole scenette. Dicono fosse una macchietta. Piero è morto nel 2002. Ha lasciato questa
novella, La Fisarmonica, che riesce a farci rivivere nell’Isola di una volta, quando alla gente bastava essere
felice con un po’ di musica in compagnia e la nebbia era davvero una coltre che copriva irrimediabilmente
tutto….
“Negli anni trenta quel lembo di terra emiliana era quasi interamente circondata dal Po. Il
paese, una delle tante frazioni del Comune che lì confinava con la Lombardia, non era un
vero e proprio paese: non aveva nemmeno la chiesa , o meglio, non l’aveva più poiché il
Po, agli inizi del secolo se l’era portata via con uno dei suoi periodici scodinzolamenti.
Cinque o sei case allineate lungo la strada che in quel punto faceva una curva
secca: un’osteria con tre campi da gioco per bocce, una scuola con una sola aula per le
prime tre classi delle elementari e un piccolo emporio dove, d’estate, si potevano gustare
degli squisiti gelati. La strada poi si insinuava nella grande penisola che, proprio da questo
nucleo di case, iniziava ad allargarsi.
Una dozzina di fattorie era disseminata nella vasta e pingue pianura i cui campi si
srotolavano con con irregolare geometria. Ad essa facevano da cornice estesi boschi di
pioppi e di salici a loro volta circondati dal Po che , serpeggiando tra Emilia e Lombardia,
arrivava a catturare le acque di uno dei maggiori affluenti di sinistra e, dopo un giro di vari
chilometri, ripiegava su se stesso conferendo alla penisola la forma di un grande frutto di
fico.
La vita e il lavoro nella frazione erano quasi esclusivamente legati alla terra, ai
boschi, alla pesca.
I vecchi allora, rudi e un po’ dispotici, lavoravano sodo e chiedevano ubbidienza,
senza peraltro imbrigliare eccessivamente i giovani che sottostavano, affrontando le
fatiche di un duro lavoro, con quel pizzico di spensieratezza propria della loro età, la cui
esuberanza trovava poi libero sfogo nei divertimenti preferiti, che potevano essere le
chiassose partite a bocce, in estate, all’osteria, o il gioco delle carte: briscola, tressette,
gilè o briscola scoperta. O ancora, interminabili battaglie alla “Muta”: gioco a pari e dispari
disputato solitamente da quattro giocatori, due contro due, in una silenziosa 8e da questo
il nome del gioco) quanto veloce girandola di mani e dita da parte dei contendenti, che
segnavano i punti conquistati tracciando rapide righe di gesso sul tavolo. Anche la “Morra”
costituiva un gradito passatempo ma, essendo questo gioco proibito nei locali pubblici,
trovava il suo svolgimento nelle case private. Altro divertimento assai appetito era il ballo.
Bastava la voglia di fare quattro salti e subito i giovani, benché non molti, una decina o
poco più, si passavano la voce, raccoglievano fra loro un po’ di soldi e formavano quella
che abitualmente veniva chiamata la “Società”, che consisteva appunto nel riunirsi ed
organizzare una festa da ballo.
Anche in quel fine gennaio venne deciso di fare la “Società”. Bruno, un po’ più
scaltro degli altri giovani nel contrattare e far di conto, venne incaricato di raccogliere i
fondi per l’acquisto dell’immancabile damigiana di vino e pagare l’orchestrina o
semplicemente un singolo fisarmonicista, come piu spesso avveniva.
Le giornate erano rigidissime, anche il lavoro nei boschi, benché tipico di questa
stagione, era notevolmente rallentato. La galaverna ricopriva piante, siepi e campi con un
biancore che toglieva la vista. Rari e frettolosi ciclisti con tabarro e passamontagna
percorrevano le nude strade non asfaltate che attraversavano la campagna. C’era aria di
neve. Infatti il cielo, prima sereno, si era fatto plumbeo e compatto e le nuvole sembravano
essere state passate con il frattazzo: segno inconfondibile della neve incombente.
Tugni, giovane e segaligno rappresentante delle tre attività preminenti della
Frazione, era infatti contadino, boscaiolo e abile pescatore, con il barroccio tirato dall’asino
di sua proprietà avrebbe provveduto al trasporto della damigiana di vino dal capoluogo alla
“Bella Venezia”, la fattoria dove lui abitava e dove si sarebbe svolta la festa da ballo.
La Bella Venezia era praticamente l’ultima cascina in fondo alla penisola ed era
situata a ridosso di un argine oltre al quale un ordinato pioppeto si stendeva fino a fondersi
con un bosco di salici che terminava, a sua volta, nel “sabbione” lambito dal Po.
Il motivo della scelta di questa fattoria per la festa, anziché un altro posto più
agevole da raggiungere per la maggior parte dei partecipanti, non era casuale ma aveva
uno scopo ben preciso e calcolato.
Per organizzare una festa da ballo bisognava chiedere il permesso ai carabinieri, la
cui stazione aveva sede nel capoluogo. Permesso che autorizzava sì il ballo ma obbligava
il maresciallo comandante della stazione ad inviare sul posto un paio di carabinieri per
l’ordine pubblico. Non servivano a nulla perché filava sempre tutto liscio ; risse o liti
nemmeno a parlarne o, se si verificavano, si trattava solo di dispute verbali coloritissime
che facevano più divertire che spaventare; la voglia di litigare soggiaceva sempre al
desiderio di divertirsi. Ma i carabinieri dovevano essere presenti.
Poteva però accadere che, per non privarsi di una coppia di militi magari utili per
servizi più impellenti, il maresciallo non desse il permesso richiesto, o che la faccenda
andasse quanto meno per le lunghe. Così, per non correre questi rischi, i nostri giovanotti
andavano a ballare “dimenticando” di chiedere la necessaria autorizzazione, nei posti più
disagiati da raggiungere, come appunto era la Bella Venezia, nell’intento di evitare
improvvise quanto spiacevoli sorprese da parte dei tutori dell’ordine.
Era un gelido venerdì quando Tugnin, durante il trasporto del vino,sostò all’osteria
per un goccio di bianco che lo riscaldasse un po’. Mentre beveva a lunghe e lente sorsate
gettò un’occhiata vagamente interessata alla partita di briscola scoperta nella quale erano
cocciutamente impegnati Libero e Natalino, due anziani contadini avversari naturali da
sempre e da sempre assidui ospiti dell’oste. La partita si trascinava però senza suscitargli
emozioni alcune, al contrario di quanto solitamente avveniva fra quei due antagonisti, per
cui Tugnin, buttando lì un buonasera mezzo masticato, riprese la via per la Bella Venezia.
C’era ancora un bel po’ di strada da fare e la sera incalzava. Con le prime ombre serali
giunse infine alla cascina e, mentre scaricava la damigiana, le orecchie del somarello che
ancora si trovava fra le stanghe del carretto vibrarono silenziose facendo frullare nell’aria i
primi fiocchi di neve.
La festa era per il giorno seguente, sabato. Nella notte la neve scese fitta e copiosa,
cosicchè, nella mattina successiva, ci fu molto lavoro per gli spartineve e per gli abitanti
che dovevano liberare gli accessi alle case. Ma, nonostante l’abbondante nevicata, la sera
del sabato i giovani, con le loro compagne di ballo, avrebbero ugualmente raggiunto la
Bella venezia, rallegrati anzi da tanta neve che rendeva il posto ancora più appartato e
intriso di quel senso di intimità più profondamente complice delle vicende amorose che in
quelle circostanze nascevano, si rinnovavano e si consumavano con particolare
coinvolgimento da parte dei protagonisti.
Per lo svolgimento della festa era stata approntata una stanza di discreta ampiezza,
concessa per l’occasione dal proprietario, il vecchio Surghin, un po’ scorbutico ma sempre
sensibile alle necessità dei giovani. In questo locale, abitualmente usato come deposito di
attrezzi e liberato per la circostanza del suo contenuto, la damigiana di vino già
troneggiava sopra un tavolo collocato in un angolo. Nell’angolo opposto, su un altro tavolo,
era stata messa una sedia sulla quale si sarebbe seduto il fisarmonicista. Altre seggiole
erano state allineate lungo le pareti addobbate da vivaci festoni di carta colorata fabbricati
con sollecito entusiasmo dalle ragazze.
Nel capoluogo, dove abitava, il fisarmonicista, terminato il pasto serale, si mise a
tracolla il fedele strumento, si intabarrò e inforcata la bicicletta, partì per la Bella Venezia.
Stava scendendo la nebbia, c’era molta neve, ma gli spartineve avevano fatto il loro lavoro
e la vecchia Maino ubbidiva cigolando e sotto le sue ruote scricchiolava l’esile crosta di
neve rimasta sulla strada. Il percorso era abbastanza lungo e lui avrebbe potuto mettersi
in viaggio con la luce del giorno, fermarsi a mangiare un boccone all’osteria della frazione ,
che si trovava circa a metà strada, ed arrivare alla fattoria per le 20, ora di inizio della
festa. Preferì invece partire con il buio, dopo cena, per passare più inosservato ed evitare
possibilmente di imbattersi nei carabinieri, che a quell’ora sapeva difficilmente in giro e
nelle loro eventuali e imbarazzanti domande circa la sua meta.
Nel frattempo alla Bella Venezia , nella stanza promossa a sala da ballo, riscaldata
da un fuoco di ciocchi di rovere che scoppiettava nel vecchio ed annerito camino e
illuminata da due lampade a petrolio, poiché in quella zona l’elettricità ancora non arrivava,
andava aumentando il gruppo dei giovani che arrivavano alla spicciolata.
Saluti festosi, improvvisi scoppi di risate femminili sospettosamente ingenue,
sprazzi di allegre discussioni, ammiccamenti più o meno velati negli sguardi che si
incrociavano e le immancabili battute un po’ pesanti vivacizzavano l’ambiente in attesa
che il ballo avesse inizio.
Potevano essere le 20.30 quando qualcuno fece presente che il fisarmonicista non
era ancora arrivato:proprio lui ! puntuale com’era solitamente.
2Vacca l’siròt!” eslamò Aldo. Era la sua abituale e massima imprecazione, cosa
piuttosto insolita fra tanti fioriti bestemmiatori. Lui aveva sì portato mandolino e clarinetto,
strumenti che suonava egregiamente, ma non poteva certamente condurre il ballo senza
l’ausilio della fisarmonica.
Cominciò a diffondersi una certa inquietudine per questo insolito ritardo, Chi avanzò
l’ipotesi di un incidente di bicicletta: foratura o altro guasto. Chi pensò a una caduta, a un
malore. Certamente se il suonatore fosse rimasto a casa per cause non dipendenti dalla
sua volontà, avrebbe fatto in modo di informarli, di questo ne erano tutti più che sicuri.
Così, verso le 21, fu proposto che qualcuno andasse a dare un’occhiata lungo la via che
conduceva al capoluogo.
Portandosi dietro per precauzione una lampada a petrolio presa dalla vicina stalla,
Mario e Pepin, che si erano offerti di andare in perlustrazione, salirono sulle rispettive
biciclette e si avviarono per la strada ormai completamente affondata in una fittissima
nebbia in cui si stemperava il biancore della neve che appena si intravedeva.
Pedalando lenti nel pozzo di luce della lampada appesa la manubrio della bicicletta
di Mario, i due giovani percorsero qualche chilometro parlando tra loro a bassa voce,
come se l’assoluto silenzio nel quale erano immersi li coinvolgesse nella propria totale
quiete.
Ad un tratto però si arrestarono contemporaneamente e, nella spessa luce gialla
che li accompagnava, si guardarono in viso con un evidente interrogativo negli occhi.
Entrambi alzarono impercettibilmente il capo come chi cerca di seguire maggiormente
l’udito.
“la fisarmonica!” esclamò Pepin.
Mario annuì in silenzio. Era così infatti poiché, smorzato ma abbastanza chiaro,
giungeva
loro
il
noto
motivo
del
valzer
“Speranze
perdute”
che
scaturiva
inequivocabilmente da una fisarmonica.
Pepin e Mario cercarono, per quanto fosse loro possibile, di localizzare ka
provenienza della musica. Ma non era facile: tutta la nebbia attorno era impregnata di quel
gradevole motivo. Sembrava che la nebbia stessa sussurrasse loro, come ammonimento,
il titolo del celebre valzer e che, nello stesso momento, li incoraggiasse del contrario.
Scesi dalle biciclette, i due giovani continuarono il percorso a piedi, sul velo di neve
dura che crepitava sotto le scarpe, con la speranza di avvicinarsi alla fonte del suono. Per
un attimo sembrava che la musica si avvicinasse, ma un istante dopo pareva invece
affievolirsi. Poiché sapevano che nessuna abitazione si trovava negli immediati dintorni,
proseguirono ancora un po’ nella stessa direzione con il muto intendimento di tornare
indietro qualora si fossero accorti che la musica diventava più flebile.
Arrivati ad una curva, Mario , con l’aiuto della lampada a petrolio, scoprì delle tracce
di ruote di bicicletta che si discostavano dal bordo della via tracciata dallo spartineve per
inoltrarsi nei campi. Mario e Pepin lasciarono allora le biciclette sulla strada per seguire
quelle tracce.
Potevano aver percorso una ventina di metri quando la musica improvvisamente
cessò per essere sostituita un attimo dopo dalla voce inconfondibile del fisarmonicista che
gridava: “Son qui! Son qui!” .
Lo trovarono seduto sopra un tronco di gelso, tutto intabarrato e con la sua
fisarmonica sulle gionocchia. Li accolse il sorriso di sollievo dell’anziano suonatore il
quale, ormai non più angustiato e nemmeno tanto infreddolito per via del movimento che
l’uso della fisarmonica l’aveva costretto a fare, e raccontò con calma quanto gli era
successo.
Era dunque accaduto che, dopo un buon tratto di strada in aperta campagna, gli si
era guastato il fanale della bicicletta cosicchè, con quella nebbia spessa come ovatta, gli
fu improvvisamente molto difficile, se non impossibile, proseguire, non potendo vedere
nemmeno i bordi della strada. Volle continuare ugualmente in sella alla bicicletta ma, ad
un certo punto, si accorse di essere finito in mezzo alla neve alta, poiché l’accumulo della
stessa fra i parafanghi e le ruote gli aveva bloccato il mezzo. Così, dopo essersi
inutilmente guardato intorno tentando anche, ma invano, di ritornare sulle proprie tracce,
aveva dovuto arrendersi all’imprevista realtà: aveva completamente perduto il senso
dell’orientamento. Accidenti! E adesso come poteva uscire da quella stupida situazione?
Perché era stato così imprudente da voler proseguire a tutti i costi in bicicletta con quel
buoi pesto? Perché voleva essere puntuale, ecco si perché: puntuale, si. E ora?
“Che ti venga un canchero!” gridò all’ingrippata Maino, ed ebbe un improvviso
sussulto nell’udire la propria voce squarciare il silenzio. Ma si!!! Doveva farsi sentire! Non
poteva essersi allontanato di molto dalla strada ed era certo che sarebbero venuti a
cercarlo: doveva gridare. Lasciò cadere la bicicletta , ormai inutile e pesante, in mezzo alla
neve: si girò e urtò con la gambe contro qualcosa che doveva essere un tronco coricato, di
gelso forse; ci si sedette sopra con la neve che gli faceva da cuscino. Anche la
fisarmonica cominciava a pesare….
La fisarmonica…..Ma si! La fisarmonica!!! Non doveva sgolarsi lui, sarebbe stata lei,
la fedele compagna. Quale voce migliore della sua avrebbe potuto forare quella profonda
e silenziosa oscurità?
Quasi con frenesia armeggiò in modo da porsi lo strumento sulle ginocchia; stentò
non poco per colpa del tabarro, ma a quello non poteva rinunciare e non voleva rinunciare
con quel freddo boia…Finalmente, trovata la giusta posizione, cominiciò a suonare
“Speranze perdute” un po’ per istinto un po’ per scaramanzia.
Quando infine intravide quella tremolante macchia di luce che gli si avvicinava,
sapeva già di chi si trattava. Si congratulò mentalmente con se stesso per l’idea che
aveva avuto ed accarezzò istintivamente la fisarmonica, il cui mantice sembrò per un
istante sospirare.
Erano le 22 quando giunsero finalmente alla Bella Venezia e subito la “sala da
ballo” che li accolse si animò di chiassosi e soddisfatti commenti. Il fisarmonicista, mentre
Mario e Pepin raccontavano con dovizia di particolari l’accaduto, si rifocillò con una
robusta bevuta di vino quindi, senza por tempo in mezzo, prese il suo posto sulla sedia
sopra il tavolo ed attaccò con le vivaci note della “Mazurca variata” , conosciuta da tutti
semplicemente come la “Migliavacca”, dal nome del suo autore.
I ballerini iniziarono a volteggiare con manifesto entusiasmo allacciati alle proprie
compagne. C’erano ancora un bel po’ di ore davanti a loro, poiché la festa, come sempre,
non si sarebbe conclusa prima dell’alba.
Osservando le coppie che ballavano con vigore, Armando, autoproclamatosi
addetto alla damigiana, alzò la scodella colma di vino ed esclamò: “Se questo è un
castigo, Dio me ne mandi un altro!” e, dimenticando che di quei castighi se ne era già
inflitto più di uno, la vuotò d’un sol fiato La sua battuta era piuttosto consunta ma qualcuno
ancora rideva; lui, per esempio.
“Vacca l’siròt!!!” Fu il soddisfatto commento di Aldo che, nell’attesa del
fisarmonicista aveva alleggerito l’atmosfera con il suo mandolino. Era la seconda volta
quella sera che gli sfuggiva la sua consueta imprecazione e, per uno che parlava poco,
era già tanto. Ma quella era una sera speciale.
Più tardi, con il suo clarinetto, Aldo avrebbe dato una mano al suonatore di
fisarmonica; non era pagato per questo ma preferiva suonare, in fin dei conti non era poi
un gran ballerino.”
Piero Cattivelli
Per concludere - LA TESTIMONIANZA DI PAOLO ZILIANI
Paolo Ziliani è una delle più prestigiose firme del giornalismo sportivo italiano. Ha scritto
per diverse famose testate, è stato autore di programmi televisivi sul calcio e attualmente
pubblica i suoi articoli anche sul quotidiano Il fatto. Paolo Ziliani è stato un nostro
concittadino, cresciuto a Monticelli, paese della sua famiglia. Paolo Ziliani è anche lo zio
del nostro Samuele, che ha raccolto questa sua testimonianza.
“Nell’autunno del 1988 avevo 34 anni, facevo il giornalista ed ero appena passato dal
quotidiano “Il Giorno” a Fininvest, quella delle televisioni Canale 5, Italia 1 e Rete 4.
Fininvest mi aveva assunto perché voleva creare i primi programmi di calcio su Italia 1,
che sarebbero partiti nell’estate dell’89, ed io avrei dovuto idearli e tenerli a battesimo.
Mentre mi dedicavo al progetto, il programma “Dentro la Notizia” – che era una specie di
telegiornale sui generis, visto che non poteva andare in diretta – mi diede l’incarico di
tenere i rapporti con Gianni Brera, il grande giornalista sportivo che a quei tempi scriveva
per “Repubblica” e collaborava con le nostre tivù. Così, una volta la settimana, ma a volte
anche due, andavo a casa di Brera per raccogliere un suo commento sul campionato di
calcio, o su qualche altro fatto di sport, da mandare – appunto – “Dentro la Notizia”.
Gianni Brera era un tipo scorbutico e non faceva molto per metterti a tuo agio. Un
giorno, ad esempio, se la prese moltissimo perché avevo rifiutato di bere un bicchiere di
vino che mi aveva offerto: erano le 10 del mattino, non riuscivo proprio ad averne voglia.
La prese come un’offesa personale e quando tornai, le volte successive, stentò a
rivolgermi la parola. Lui fumava, beveva e diceva sempre cose bellissime. Ma era ruvido,
selvatico. Per quanti sforzi facessi, proprio non mi riusciva di entrare in sintonia con lui.
Poi, un giorno, dopo avermi squadrato ben bene, come se mi vedesse per la prima volta,
mi chiese da dove venissi. “Sono piacentino – gli risposi – i miei sono di Monticelli
d’Ongina”. Monticelli d’Ongina? Il paese sul Po?, chiese lui. Sì – gli dissi -, lo conosce?
Brera non disse nulla: ma si aprì in un inatteso sorriso e mi fece cenno di avvicinarmi. Lo
feci. Mi abbracciò.
Per Gianni Brera, che era nato nel 1919 a San Zenone Po, in provincia di Pavia, io ora
ero suo fratello. Un fratello più giovane. Un fratello di Po. Brera smise di scrivere –
scriveva sempre, quando arrivavo per l’intervista – e cominciò a chiedermi di Monticelli, di
Isola Serafini, del Po. Io gli dicevo cose un po’ così, di poco conto: ma lui mi guardava con
occhi spalancati, come se gli stessi raccontando l’ottava meraviglia del mondo, e non
voleva che smettessi. E sembrava voler sapere tutto, quanti fratelli avevo, che giochi
facevo da bambino, chi erano i miei genitori, che lavoro faceva mio papà e piccole cose
così. Proprio lui, l’uomo che sembrava quasi scocciato della mia presenza e mi guardava
di traverso, o non mi guardava affatto. Adesso, di colpo, quell’uomo mi trattava come un
figlio. Un figlio ritrovato. E tutto perché gli avevo detto che ero nato in riva al Po.
Per la prima volta, grazie a Brera, cominciai a riflettere sull’importanza delle nostre
origini: forse non ci avevo mai pensato. Secondo Brera, noi – lui ed io – non solo avevamo
avuto un papà e una mamma, ma avevamo avuto il Po: che era il padre di tutti, che era il
padre di tutto. Il padre di quelli nati sulle sue rive.
Cambiò tutto. Quell’uomo scorbutico e rude si trasformò, come d’incanto, nel più
affettuoso dei papà; e da papà da quel giorno mi trattò. Volle che frequentassi di più casa
sua, non necessariamente per motivi di lavoro; e un paio di volte volle che fossi ospite a
cena, al ristorante, in ritrovi di famiglia in cui io ero l’unico intruso. Ma non per lui. Perché
ero un figlio del Po.
Gianni Brera se ne andò una sera, qualche anno dopo, in un incidente stradale tra
Codogno e Casalpusterlengo: aveva 73 anni, era andato a cena al ristorante “Al Sole” di
Maleo, morì sul colpo. Era il 19 dicembre del ‘92, io ero a Cremona e sentii la notizia al
telegiornale della notte. Prima di andare a letto andai alla libreria e cercai il libro che mi
aveva regalato il giorno in cui gli dissi che ero piacentino e i miei erano di Monticelli
d’Ongina. Quel libro lo aveva scritto lui: il titolo era “Un PO d’atmosfera”. Ricordavo che
aveva voluto farmi una dedica e mi venne voglia di andare a rileggerla. Scritta con un
pennarello nero, diceva così.
“A Paolo Ziliani, piasintài, questi sinceri sproloqui sul nostro padre comune, con
affettuosa amicizia. Gioann Brera. (Milano, Natale 89)
Pensai. Che strana cosa! Il Po, un fiume, mi aveva fatto questo immenso regalo: l’affetto
di un uomo grande. Io, piccolo giornalista, entrato nel cuore del più grande dei giornalisti.
E tutto per merito di una parolina piccola piccola. Po. “
UN BREVE CENNO SU GIANNI BRERA
Giovanni Luigi Brera- Giornalista e scrittore (San Zenone Po 1919 - Codogno 1992); corrispondente
da Parigi della Gazzetta dello sport (dal 1945), ne fu poi direttore (1949-54). Collaborò al settimanale
Tempo (1954-56) e al quotidiano Il Giorno (1956-67), per poi dirigere il Guerin sportivo fino al 1973. Dal
1970 riprese a collaborare a Il Giorno, passando poi a La Repubblica (1982). È autore di numerosi libri
in cui analizza taluni fenomeni sportivi italiani: Addio bicicletta (1966), La pacciada (in collab. con L.
Veronelli, 1973), Storia critica del calcio italiano (1975). Ha scritto anche romanzi. Grazie alla sua
inventiva e alla sua padronanza della lingua italiana ha indubbiamente influenzato il giornalismo sportivo
italiano del XX secolo, basti vedere il numero di neologismi ancora in uso da lui introdotti nel linguaggio
calcistico. Di se stesso ha scritto: « Il mio vero nome è Giovanni Luigi Brera. Sono nato l'8 settembre
1919 a San Zenone Po, in provincia di Pavia, e cresciuto brado o quasi fra boschi, rive e mollenti (…) Io
sono padano di riva e di golena, di boschi e di sabbioni. E mi sono scoperto figlio legittimo del Po. »
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Le allieve e gli allievi del laboratorio ‘un PO di ricordi’, maggio 2014, Monticelli d’Ongina