Da “lavoce.info” di venerdì 28 febbraio 2014 Come uscire dal pantano delle detrazioni fiscali Ruggero Paladini e Vincenzo Visco La nostra imposta sul reddito ha un gravissimo difetto, dovuto alla previsione di detrazioni di imposta decrescenti. Una vera riforma non può quindi che porsi l’obiettivo di eliminarle, oltre che di rimodulare le aliquote. Ecco come farlo pur in presenza di vincoli di bilancio stringenti. L’ORIGINE DI UN PROBLEMA NOTO Su lavoce.info dell’11 febbraio è apparso un articolo di Nicola Borri, Salvatore Nisticò, Giuseppe Ragusa e Pietro Reichlin, in cui si propone un intervento di riforma dell’Irpef. L’articolo sottolinea l’esistenza di una differenza tra aliquote marginali nominali dell’imposta e aliquote effettive evidenziando che queste sarebbero sostanzialmente solo due (30 e 41 per cento) a fronte di cinque aliquote nominali comprese tra il 23 e il 43 per cento. Non si tratta di una novità, ma di un risultato ben noto, e da tempo, agli esperti di finanza pubblica e che rappresenta un gravissimo difetto della nostra imposta sul reddito, dovuto alla previsione di detrazioni di imposta decrescenti. Per esempio, nel 2002 esaminando il “primo modulo” della riforma Irpef di Silvio Berlusconi e Giulio Tremonti evidenziammo non solo che le aliquote effettive, a causa delle deduzioni decrescenti allora previste, erano quasi tutte di molto superiori a quelle formali, con il caso estremo dell’intervallo di reddito 25.301-26mila euro, dove l’aliquota effettiva superava il 50 per cento, ma anche che tra i 26mila e i 62.500 euro scendeva al 39 per cento, e sopra i 62.500 non andava oltre il 45 per cento: involontaria e inconsapevole adesione all’impostazione della tassazione ottimale di Mirrlees. (1) L’anomalia fu corretta col “secondo modulo”, ma ne rimasero altre che vennero sanate nel 2007, nei limiti delle ristrettezze di bilancio, passando alle detrazioni. Attualmente, all’interno di ciascun scaglione l’imposta si applica in base alla formula T=tY-(D-dY), dove T è l’imposta dovuta, Y è il reddito, t l’aliquota marginale nominale e DdY la detrazione decrescente. Ne segue che l’aliquota marginale effettiva è: dt/dy=t+d, più elevata dell’aliquota marginale nominale (t) e variabile in relazione al valore che d assume nei diversi scaglioni. L’esistenza di questo problema è ampiamente dibattuta nel Libro bianco sull’imposta sul reddito, presentato dal Governo Prodi nel 2008; se ne discute nel documento Nens “Prospettive di riforma fiscale” (ottobre 2010), cui hanno collaborato una ventina di economisti e giuristi, ed è ripresa in un lavoro di Vincenzo Visco del 2012, dove è anche presentata un’ipotesi di riforma. (2) Più recentemente, durante la discussione della Legge di stabilità, uno di noi (Paladini) ha fatto notare che la proposta di modifica introdotta al Senato riproduceva l’anomalia già presente nella riforma del 2002, creando implicitamente uno scaglione tra i 28mila e i 35mila euro con un’aliquota effettiva del 42,5 per cento, superiore a quella dello scaglione successivo tra 35mila e 55mila euro, 41,34 per cento, e anche di quello ancora successivo tra 55mila e 75mila, dove l’aliquota risultava pari al 41 per cento. (3) Grazie alla segnalazione, la Camera è stata in grado di correggere l’errore, sicché oggi le aliquote effettive dell’imposta sono: Si tratta quindi oggi di (quasi) sei scaglioni, e non di due. Vi è poi un “contributo di solidarietà” oltre i 300mila euro, introdotto a partire dal 2011 per un triennio, ma rinnovabile fino a raggiungimento del pareggio del bilancio (quindi per altri quattro anni). Il contributo è però deducibile, il che significa che l’incremento di imposta è di 1,65 per cento. La proposta di Borri, Nisticò, Ragusa e Reichlin ignora le modifiche introdotte dalla Legge di stabilità 2013, che mantiene le detrazioni decrescenti (pur cambiandone l’entità), ma cerca (correttamente) di far coincidere al 23 per cento la prima aliquota effettiva e nominale ottenendo i seguenti scaglioni. Il problema è che questo intervento, pur avendo un costo non irrisorio (7 miliardi), non è in grado di risolvere il problema di fondo che è ancora più grave di quanto finora osservato, dal momento che le aliquote effettive sono più elevate per i lavoratori dipendenti che beneficiano di una detrazione più alta rispetto agli autonomi e ai pensionati, e ancora più alta per i contribuenti con carichi di famiglia, dal momento che anche queste detrazioni sono decrescenti. COME RISOLVERE LA QUESTIONE L’irrazionalità tecnica, ma anche economica (incentivi) di questo assetto è evidente. Una vera riforma non può quindi che porsi l’obiettivo di eliminare le detrazioni decrescenti, oltre che rimodulare le aliquote. Come farlo in presenza di vincoli di bilancio stringenti? Una soluzione viene prospettata dal lavoro di Visco del 2012, dove si propone di rendere piatte le detrazioni e ridurre l’aliquota del 23 per cento al 20 per cento, e quella del 38 per cento al 36. Come è ovvio, la perdita di gettito rispetto alla situazione preesistente (al tempo) sarebbe molto elevata (25-26 miliardi), ma il problema potrebbe essere affrontato votando la riforma a regime nella sua interezza e stabilendo che con decreto del ministro dell’Economia venga fissata, in base alle risorse disponibili, una percentuale di applicazione della riforma in riferimento alla situazione di partenza, in modo da rendere possibile la realizzazione graduale dell’intera operazione nel corso di una legislatura. Questo approccio è l’unico possibile per uscire dal pasticcio in cui ci siamo cacciati, rendendo la nostra imposta simile a quella degli altri paesi, facendo progressivamente coincidere apparenza e realtà, ed eliminando incentivi perversi. Numerose soluzioni tecniche alternative, anche meno costose di quella proposta, potrebbero essere individuate tenendo conto degli obiettivi di riduzione del cuneo fiscale o di aumento della domanda interna che si desidera perseguire, ma senza rinunciare all’obiettivo di fondo. Procedere per gradi è inutile e rischia di tradursi in uno spreco di risorse. Un’ultima notazione può essere utile. Negli ultimi anni in molti paesi l’imposizione sul reddito si è evoluta verso imposte “piatte” (con pochi, lunghi scaglioni) rispetto alle imposte tradizionali con molti scaglioni e molte aliquote (o addirittura con progressività continua, come in Germania). Le implicazioni distributive (e politiche) di queste riforme sono evidenziate del grafico seguente che riporta l’andamento dell’incidenza dell’imposta (aliquote medie) nei due casi. Come si vede, a parità di gettito, i meccanismi impositivi prevalenti penalizzano le classi medie a beneficio di quelle abbienti. Il contrario di quanto sarebbe necessario e utile, e il contrario di quanto avveniva negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso. È evidente quindi che l’imposta piatta è coerente con una alleanza politica “ricchi” e “poveri”, rispetto a una alleanza “classe media”-“poveri” che si esprime invece nell’andamento dell’imposta a scaglioni. In ogni caso è bene essere consapevoli che oggi in Italia sono le classi medie a essere (relativamente) penalizzate dall’Irpef e non quelle inferiori, e tenerne conto in sede di riforma. (1) Paladini R. e Visco V., “Nuova Irpef: apparenza e realtà: stravaganze e incongruenze”, Il Sole- 24 Ore, 20.11.2002. (2) Vedi, rispettivamente, Libro bianco sull’imposta sui redditi e il sostegno alle famiglie, Tributi, supplemento n1, 2009; Nens: Prospettive di riforma fiscale, ottobre 2010; e Visco V. (2012): “Prospettive di riforma fiscale in Italia”, Rivista di diritto finanziario e scienza delle finanze, Milano, Giuffrè. (3) Paladini R. (2013): “Cuneo, detrazioni Irpef e scaglioni fino a che punto il Parlamento è consapevole di quello che fa?” www.nens.it
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