I dettagli - Istituto Comprensivo "Galileo Galilei"

A.G.D.G.A.D.U.
Grande Oriente di Italia – Palazzo Giustiniani
R. L. Leonessa Arnaldo nr. 951 all’Or. di Brescia
Libertà: anatomia di un’idea a noi così cara.
Il concetto di libertà si allarga e si restringe, a seconda del periodo e del quadro storico di riferimento. I
concetti giuspolitici, nascono ed evolvono come le specie naturali, adattandosi ai mutamenti dell’ambiente.
È proprio ciò che è accaduto al concetto di libertà.
Libertà e schiavitù
Libertà e schiavitù sono nozioni strettamente connesse, soprattutto dal punto di vista storico. Le prime
concettualizzazioni della libertà sono relative all’istituto della schiavitù. Il senso originario del termine
libertà è relativo allo status personale e sociale di NON-SCHIAVITU’, e ciò ha influenzato notevolmente
l’evolversi stesso del concetto, fino ai nostri giorni.
All’inizio di tutto c’è la cosiddetta libertà naturale.
L’idea di libertà – come esistente in natura, ma anche in senso normativo, cioè spettante per natura – si
precisa nel diritto romano. Già in un passo dei Digesta giustinianei, si trova questa definizione: “la libertà è
la facoltà naturale di chi può fare ciò che vuole, se non gli è proibito con la forza o dal diritto”. Nel mondo
classico, l’idea di L. pare associata allo stereotipo dei popoli barbari, segnatamente a quelli nordici. Per il
mondo greco, si pensi al passo della Politica di Aristotele, per il quale “i popoli che abitano nelle regioni
fredde e quelli d’Europa sono pieni di coraggio ma difettano d’intelligenza e di capacità nelle arti, per cui
vivono sì liberi, ma senza organizzazione politica”; mentre per il mondo romano, si pensi alla
rappresentazione dei Germani tracciata da Tacito, nella quale alla libertà è associata una connotazione di
arretratezza: “il fatto di essere liberi […] crea loro lo svantaggio di […] perdere due o tre giorni per […]
riunirsi”. In pratica, vi era, secondo i classici, una libertà garantita dalle leggi (quella delle civiltà antiche) e
una (quella naturale) garantita dalla assenza delle leggi (quella dei popoli barbarici).
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Il concetto di libertà è originario dell’Occidente, in particolare della civiltà greco-romana. Come ha
osservato Moses Finley, “è impossibile tradurre la parola libertà in una qualunque lingua antica del vicino
oriente, compreso l’ebraico, così come è impossibile tradurla in qualsiasi lingua dell’estremo oriente”.
Verosimilmente il concetto di libertà deriva dalla specializzazione di vocaboli indoeuropei indicanti
rispettivamente gli appartenenti e gli estranei a un gruppo: ovvero NOI e gli ALTRI. Per Emile Benveniste,
sia il greco “eleutheros” sia il latino “liber” deriverebbero da una radice indoeuropea “-leudh”, indicante
crescita o sviluppo, specializzatasi nell’antico slavo per indicare il popolo d’appartenenza, e nel greco antico
e in latino per indicare, originariamente, gli appartenenti all’etnia e/o comunità di stirpe. Insomma, “il
senso originario di “libertà” non è “liberato da qualcosa”; è quello invece dell’appartenenza a una razza
etnica. Va notato che l’origine del concetto risiede in una dimensione sociale, diversamente da come
modernamente si è poi sedimentato, ossia come esperienza, quella della libertà, vissuta individualmente. Il
collegamento tra schiavitù e opposizione noi/altri, sta nel fatto che lo schiavo è l’altro di cui si ha più
facilmente esperienza nel mondo antico, ossia, nella comunità domestica, come la definiva Aristotele, la
cellula-base della società (oikia). Il servo domestico, in origine, era definito oikeis; solo in seguito, con il
diffondersi dello schiavismo, si distingueranno in veri e propri schiavi (doulos) e semplici servi, o più in
generale, schiavo e libero (eleutheros). Lo schiavo era considerato uno straniero, un barbaro catturato in
guerra e poi venduto da mercante a mercante. Al significato principale in cui “libero” significava
l’appartenente alla stirpe si è sovrapposto un significato secondario, destinato ad affermarsi, in cui il
termine indica la condizione distintiva del figlio-di-famiglia rispetto allo schiavo: l’essere non-schiavo, quindi
libero. È qui il nesso originario tra libertà e schiavitù. Il significato originario e archetipico di libertà è
dunque quello di libertà come status. Si perde, nel tempo, l’accezione di appartenente al gruppo, e si
afferma quella legata allo status personale.
Presso i greci.
I greci hanno concettualizzato solo la libertà collettiva-pubblica-politica, e non individuale-privata-civile. Si
trovano, nel mondo greco, rivendicazioni della libertà politica, ma non della libertà dai vincoli famigliari,
anzi deplorata, e considerata peraltro un effetto della democrazia ateniese. Nel greco classico, non è tanto
il singolo a potersi dire libero in opposizione a schiavo, quanto la città a qualificarsi libera, nel senso di non
dipendente da altre città. Di fondo, libertà della città e libertà del singolo coincidevano. I greci riconoscono
il valore della libertà politica, ma non quello della libertà individuale: quest’ultima appare come un
perturbamento dell’ordine, prodotto dalla democrazia ateniese: la libertà democratica appare ai filosofi
come asservimento alle passioni popolari, e la democrazia, quale governo della massa, sembra l’ultimo
regime politico in cui la voce della ragione possa sovrastare quella dei demagoghi. Platone e Aristotele
criticheranno la libertà democratica, sostenendo che questa consiste nel fare ciò che si vuole: sicché
“ciascuno vive come gli piace, seguendo il suo piacere”; ma si tratta di una sciocchezza, “perché vivere in
conformità con le istituzioni della polis deve ritenersi non schiavitù, ma salvezza”.
Presso i romani.
Nel mondo classico tutto era schiavitù, e solo una minoranza era non-schiava.
Anche nel mondo romano la libertas politica del cittadino corona una struttura sociale di tipo gentilizio
nella quale il pater familias governa su tutto ciò che è la casa ed i suoi componenti. Avrebbe poco senso
parlare di libertà individuale, in quanto essa toccava in sorte solo ad una ristretta minoranza di persone. Ma
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sarebbe un errore dire che i romani non abbiano conosciuto libertà pubbliche, anzi. L’esperienza romana
gioca un ruolo decisivo nella evoluzione del concetto di libertà individuale. I romani distinguevano una sfera
pubblica, relativa agli interessi del popolo, e una sfera privata, relativa ai singoli. Ma soprattutto era
fondamentale il ruolo giocato dal diritto. Il significato di libertas, nei lessici latini, è “status libertatis”,
indicante il regime giuridico dell’uomo libero in opposizione a quello schiavo. Un secondo significato di
libertas, è pubblicistico: indica una forma di governo, e non i diritti e le libertà del singolo cittadino. Il
termine connota lo stesso assetto istituzionale della respublica romana, il quale di fatto non conosce rex o
regnum svincolati dalle leggi della stessa respublica. Si tratta delle idee che ispireranno le concezioni
repubblicane della libertà, riconcettualizzate nell’Ottocento come libertà degli antichi (Constant). Va
sottolineato però che il rapporto fra privato e repubblica resta sempre diverso dalla moderna relazione
individuo-stato: il romano è libero nella, non dalla respublica, perché sono sempre le leggi repubblicane a
permettergli di sfuggire alla fatalità delle dipendenza personale.
Figure della Libertà.
L’opposizione libero/schiavo, nata nell’ambito domestico, nel tempo si disloca in quello politico.
Col tempo l’opposizione libero/schiavo viene trasposta dallo stoicismo alla relazione fra singolo e società o
umanità (libertà del saggio) e poi dal cristianesimo – da Paolo di Tarso a Martin Lutero – al rapporto fra
singolo e Dio (libertà cristiana e/o del cristiano). Mentre le libertà in senso lato politiche torneranno ad
essere rivendicate solo nel Medioevo.
“La libertà del saggio”.
Sia nel mondo greco, con il declino della polis, sia nel mondo romano, con la caduta della repubblica, il
concetto di libertà si disloca in una nuova sfera: quella del rapporto del singolo con tutti i suoi simili. I
termini eleutheria e libertas subiscono una torsione, trasformandosi in ciò che viene definita libertà del
saggio, di derivazione platonica. Già in Platone infatti era apparsa l’idea secondo la quale l’autentico
elemento distintivo fra libero e schiavo è il possesso della ragione. Chi possiede la ragione è libero e
destinato a comandare, gli altri sono schiavi e destinati ad obbedire (anche solo in senso figurato). Il
soggetto non è veramente libero quando soddisfa i propri desideri, ma quando li controlla, proprio come la
città è veramente libera non quando vi si disfrenano le passioni popolari, ma quando vi governano i
migliori, i filosofi. Nel diverso contesto dei regni ellenistici e dell’impero romano la stessa idea produce
conseguenze diverse, che troveranno compiuta espressione nello stoicismo di Zenone di Cizio: solo il saggio
è libero, mentre gli stolti sono schiavi; la libertà è infatti la possibilità di agire autonomamente, mentre la
schiavitù ne è la privazione.
La libertà, nell’Impero, è ormai un fatto quasi intellettuale, non potendo essere altrimenti. La libertà del
saggio, di matrice stoica, è il rifugio insomma nella cittadella interiore.
La libertà cristiana.
La libertà, con lo stoicismo, diventa libertà intellettuale e morale: il saggio è libero. Lo stesso accade con la
concezione cristiana della libertà: il cristiano può dirsi libero, solo nel senso figurato di non schiavo delle
leggi (giudaiche o romane), o del mondo dei sensi e del peccato: “la verità vi renderà liberi”, annuncia Gesù.
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La libertà cristiana è, in origine, essenzialmente spirituale, compatibile con qualsiasi forma di asservimento
personale. E anche nella concezione paolina, la libertà non è assenza di regole: la libertà è in realtà
obbedienza a una “legge perfetta”, la “legge della libertà”. Predicando di un’anima individuale, la libertà
cristiana contribuisce effettivamente a rendere pensabile il soggetto stesso della libertà moderna: la
persona e/o l’individuo.
Le libertà feudali e cetuali.
Nel lungo periodo che è comune qualificare come Medioevo – dalla caduta dell’Impero Romano alla
scoperta dell’America – non si trova molto più di questo ultimo concetto.
Nel senso stretto del termine, feudalesimo indica la peculiare organizzazione giuspolitica diffusasi, fra il 900
e il 1250, a partire dal territorio fra il Reno e la Loira. Il feudalesimo nasce con esigenze difensive e
amministrative del territorio. In un mondo in cui difesa e amministrazione non possono essere più
finanziate dalle imposte, anche per l’esiguità della circolazione monetaria, tali funzioni vengono delegate ai
signori feudali.
In un contesto culturale dominato da raffigurazioni gerarchiche dell’ordine cosmico e caratterizzato da
quella che è stata chiamata la concezione discendente del potere, l’ordine politico si presta a essere
concepito come una piramide, nella quale i superiori concedono terre e protezione agli inferiori in cambio
di servizi e obbedienza.
All’organizzazione feudale, succedette, dal Trecento, lo stato per ceti, che aspirava ad essere anch’esso una
soluzione alle questioni della difesa e dell’amministrazione. Organi rappresentativi di clero, nobili e
cittadini vennero periodicamente chiamati in assemblee per decidere su tasse e difesa del territorio.
È proprio in questo passaggio da stato feudale a cetuale che vanno considerate le libertà feudali e cetuali.
I popoli germanici che avevano smantellato l’impero romano ed edificato l’ordine feudale avevano
introdotto una nuova declinazione del dirsi liberi. Libertà significò innanzitutto esenzione dagli obblighi
corrispondenti alla protezione feudale. Quelle che si chiamavano libertates, privilegia o freiheiten erano
dunque essenzialmente immunità dagli obblighi feudali, normalmente opposte a qualche pretesa signorile
e concesse caso per caso, di solito a comunità.
Libertà del Cristiano
Come disse Hegel: l’unica libertà universale conosciuta dagli antichi è quella cristiana: ed è in Germania,
con Lutero, che essa riceve la sua prima concettualizzazione moderna, nella prima metà del Cinquecento.
Con la sua concezione del cristianesimo, e della libertà del cristiano, Lutero non fece che esprimere motivi
della teologia dissidente che solo con la Riforma riuscirono a sopravvivere alle persecuzioni. Ne La Libertà
del Cristiano, Lutero dice: “un cristiano è libero signore di tutte le cose e non sottoposto ad alcuno. Un
cristiano è servo sollecito di tutte le cose e sottoposto a ognuno”. Libertà e schiavitù sono sia opposte sia
scambiate: il cristiano di Lutero è libero nella sfera spirituale (Cf. Paolo) anche se è schiavo nella sfera
sensibile, com’era già stato per gli stoici e per Paolo, e come ancora sarà per molti filosofi tedeschi. La
novità di Lutero è la tesi teologica per la quale la salvezza eterna è frutto esclusivo delle fede e non delle
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opere: “così vediamo che a un cristiano basta la fede, non ha bisogno alcuno di compiere alcuna opera per
essere giusto. Ma se egli non ha più bisogno di alcuna opera, è certamente sciolto da tutti i comandamenti
e da tutte le leggi, e se è sciolto da essi egli è certamente libero. Questa è quindi la libertà cristiana, essa
consiste unicamente nella fede, la quale fa si che non abbiamo bisogno di opere per conseguire giustizia e
beatitudine”.
LA LIBERTA’ GARANTITA DALLE LEGGI.
Tra XV e XVII sec. si affermano le concezioni della libertà riconducibili a Macchiavelli e a Hobbes.
Con Macchiavelli si afferma la concezione repubblicana o pre liberale della libertà garantita dalle leggi, che
prevarrà nel periodo delle grandi rivoluzioni occidentali (dall’inglese all’americana e francese), trovando la
sua più compiuta articolazione in autori come Locke, Montesquieu e Rousseau.
Con Hobbes invece nasce la concezione della libertà come assenza di leggi: concezione che nell’Ottocento
sostituirà quella repubblicana, così come il liberalismo prenderà il posto del repubblicanesimo.
La Libertà Repubblicana
Le origini risiedono nello sforzo dei Comuni italiani di affrancarsi dai signori feudali e poi, con il sostegno
della Chiesa, di emanciparsi anche dall’Impero. Libertas ancora è sinonimo di affrancamento dai poteri
signorili. Più tardi il termine slitterà verso l’indipendenza politica e l’autogoverno repubblicano. Ma è
nell’esperienza comunale fiorentina che l’idea comunale di libertà repubblicana trova la sua maggiore
tematizzazione nell’opera di Machiavelli. Egli non invoca a favore della libertà repubblicana “tanto l’amore
della gloria o l’ambizione personale, quanto la facoltà di godere liberamente le cose sue senza alcuno
sospetto, non dubitare dell’onore delle donne, di quel de’ figlioli, non temere di sé”. Si tratta di ragioni
relative a interessi privati. La libertà repubblicana serve anche come sicurezza personale, che in altre forme
sarebbe mercé dei capricci dei potenti. Il cittadino, partecipando alla formulazione delle leggi, deve
mirare alla sicurezza di sé, della roba e delle donne. Sono le leggi ad assicurare tale sicurezza. Le leggi
difendono il cittadino non dallo Stato, ma da qualunque soggetto possa sottrargli la vita, i beni e l’onore.
La Libertà come assenza di leggi.
In Inghilterra venne formulata una concezione opposta a quella della libertà repubblicana, destinata a
soppiantarla. L’autore fu Hobbes, e la teoria è quella dell’assenza delle leggi. Hobbes ne farà il presupposto
per una concezione assolutistica dello Stato.
Ecco come Hobbes definisce il diritto naturale e la libertà, nel Leviatano: “il diritto naturale è la libertà che
ogni uomo ha di usare il proprio potere come desidera per conservare la propria stessa natura, cioè la
propria vita, e quindi la libertà di fare ogni cosa che secondo il suo giudizio e la sua ragione considererà i
mezzi più adatti a quel fine. Per libertà s’intende l’assenza di impedimenti esterni: impedimenti che
possono togliere a un uomo parte del suo potere di fare ciò che vuole, ma che non possono privarlo
dell’uso del potere che gli è lasciato, secondo il suo giudizio e la sua ragione”.
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Hobbes introduce anche la distinzione tra right, diritto soggettivo – libertà di fare o di astenersi, e law,
legge o diritto oggettivo – ciò che determina o costringe a una di queste cose. Sicché si distinguono come
obbligo e libertà. La concezione della libertà come assenza di leggi è già tutta in questa assunzione, per la
quale dove c’è legge non c’è libertà, e viceversa.
La libertà di un suddito consiste solo in quelle cose che il sovrano ha omesso nel regolare le sue azioni. La
libertà dipende dal silenzio delle leggi. Ove il sovrano non detta alcuna legge, il suddito ha diritto di fare o
non fare, a sua discrezione.
Libertà e Legge
Hobbes in pratica dimostra la compatibilità della libertà con l’assolutismo. L’individuo è libero dove non
arriva la legge.
A questa teoria ribatte John Locke, con il testo I due trattati sul governo, pubblicato all’indomani della
Gloriosa Rivoluzione (1688). Nel Saggio sull’intelletto umano, egli definisce libertà come “l’idea di un
potere, in ogni agente, di compier o di omettere qualche particolare azione, in base alla sua determinazione
mentale”. Anche Locke, come Hobbes, oppone libertà naturale e libertà civile: la prima “consiste
nell’essere liberi da qualsiasi potere terreno superiore, e non dover sottostare alla volontà e all’autorità
legislativa di alcuno, bensì avere per propria regola solo il diritto naturale”; la seconda ”sta nel non dover
sottostare ad alcun altro potere legislativo che non sia quello stabilito per consenso nello Stato”.
Hobbes e Locke divergono proprio sulla concezione giuspolitica della libertà. In Locke l’accento batte sulla
regolamentazione, in Hobbes sulla sua assenza. Sia in H. che in L. l’uomo libero è soggetto alle leggi: nello
stato di natura è soggetto al diritto naturale, nello stato civile alle leggi prodotte dal potere legislativo. Ma
mentre il diritto naturale di H. è determinato dalle passioni, e non impedisce la guerra di tutti contro tutti, il
diritto naturale di L. consiste nella ragione, “la quale insegna a tutto il genere umano che nessuno deve
danneggiare la vita, la salute, la libertà e i possessi altrui”. Per entrambi, dunque, essere liberi significa
essere sicuri dalla violenza altrui: ma mentre H. definisce libertà come assenza di leggi, L. ne parla in
termini di “una regola fissa sotto la quale vivere”, come una libertà garantita dalle leggi.
Di più: L. sostiene che non potrebbe mai darsi libertà senza legge, perché ciò esporrebbe ognuno alla
violenza altrui. “Il fine della legge non è abolire o restringere, ma preservare ed estendere la libertà. […]
Dove non c’è legge, non c’è libertà […] la libertà consiste nell’essere liberi dalla costrizione e dalla violenza
altrui, il che non può darsi ove non c’è legge, e non consiste affatto in una libertà per ognuno di fare ciò che
gli piace: chi potrebbe essere libero ove chiunque potesse capricciosamente dominare su di lui? La libertà
consiste nella possibilità per chiunque di disporre e organizzare liberamente se stesso, le proprie azioni, i
propri beni e tutto ciò che gli spetta, nei limiti delle leggi cui sottostà, e perciò nel non essere soggetto
all’arbitraria volontà altrui, ma nel seguire liberamente la propria”.
L. in pratica condivide con il repubblicanesimo e con il costituzionalismo precedente e successivo, la
concezione della libertà garantita dalle leggi, e si articola attorno alla elementare esigenza di sicurezza
della persona e dei beni. Mentre in H. l’esigenza di sicurezza dalla violenza viene soddisfatta attribuendo
il monopolio della forza allo Stato, che quindi s’incarica della protezione degli individui, in L. l’individuo è
difeso dalla violenza ad opera delle leggi, prima naturali e poi civili, leggi che sono entrambe il frutto
della ragione.
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La Libertà-sicurezza
La concezione della libertà garantita dalle leggi, prima di Machiavelli e poi di Locke, trova la sua compiuta
espressione in Montesquieu, e si pone come concezione veramente pre-liberale, in quanto la libertà è vista
come sicurezza dalla violenza altrui, piuttosto che dal potere dello Stato.
Notoriamente egli distingue tra libertà politica, quella che attiene ai rapporti con la costituzione; e libertà
civile, quella che attiene ai rapporti con il cittadino.
La libertà politica, distinta da libertà di fare ciò che si vuole, viene definita come rispetto della legge: “in
uno stato la libertà può solo consistere nel fare ciò che si deve volere, e nel non essere costretti a fare ciò
che non si deve volere. Occorre capire cosa sia l’indipendenza e cosa sia la libertà. La libertà è il diritto di
fare tutto ciò che le leggi permettono: se un cittadino potesse fare ciò che le leggi vietano, non vi sarebbe
più libertà, perché gli altri potrebbero fare altrettanto”. Ciò che caratterizza la libertà è la garanzia fornita
dalle leggi non contro lo Stato, ma contro gli altri cittadini. L’individuo deve essere difeso dagli altri individui
e non contro lo stato. Il rispetto delle leggi, sia da parte del cittadino sia da parte delle autorità, è il criterio
guida per stabilite quando vi sia libertà, allora l’elemento decisivo perché il potere controlli il potere non
sarà la separazione dei poteri ma, specificatamente, l’indipendenza di quello giudiziario.
La libertà civile si caratterizza invece come sicurezza. La libertà civile dipende dalle leggi, in particolare
penali. M. considera già la libertà politica come funzionale alla libertà civile, a sua volta concepita come
sicurezza individuale garantita dalle leggi, e ciò fisserà i termini del dibattito successivo.
La concezione della libertà garantita dalle leggi (meglio se poche), diverrà uno dei luoghi comuni
dell’illuminismo giuspolitico, ritrovandosi in Rousseau, Kant, fino al liberalismo tedesco, nonché presso i
padri fondatori degli stati uniti.
La Libertà Liberale
Fra Sette e Ottocento, all’indomani della rivoluzione francese, si forma la concezione liberale della libertà.
Le leggi e lo Stato, da sempre considerati i garanti della libertà, diventano i suoi potenziali nemici. Ciò si
situa proprio dopo la Rivoluzione Francese, ma soprattutto dopo le codificazioni sette-ottocentesche, che
imprimono un cambiamento allo status giuridico dei soggetti, i quali tradizionalmente subordinati al padre
(moglie, figli, schiavi, servi), vennero formalmente sottratti al potere domestico e sottoposti al potere
politico, cioè alla legge statale. Muta anche il ruolo della libertà rispetto agli altri concetti morali, giuridici e
politici: con Rousseau la libertà diviene un concetto etico.
La formazione di una concezione liberale della libertà come libertà DALLO Stato sarebbe stata
inimmaginabile nell’antichità o nel Medioevo, quando lo Stato (moderno) non esisteva, o anche nei primi
secoli dell’età moderno, quando esso era ancora troppo debole per poter attentare ad alcunché: le
minacce alla libertà personale, per millenni, non sono pervenute dal governo, ma dalla miriade di poteri
domestici, signorili o religiosi che si spartivano il controllo dell’esistenza umana. Quando però lo Stato
divenne una presenza familiare, e pretese di monopolizzare il potere solo allora si poté vederlo come un
possibile nemico della libertà e immaginare di ridimensionarlo, come farà il liberalismo, se non di
abbatterlo, come faranno l’anarchismo e il comunismo.
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La concezione della libertà come autonomia (l’ultima delle concezioni pre-liberali)
Rousseau equiparò umanità e libertà, fece del concetto di libertà il valore centrale dell’universo etico; si
pose la questione della compatibilità delle istituzioni politiche con la libertà naturale dell’uomo. Ipotizzò un
contratto sociale che legasse assieme ogni cittadino con tutti gli altri ma che per ciò stesso lo lasciasse
libero da ogni dipendenza personale. Egli pensa che il problema della indipendenza personale possa
risolversi facendo partecipare ogni cittadino alla legislazione, e rendendolo quindi autonomo, cioè
legislatore di se stesso, anche se poi la principale garanzia per la sicurezza individuale non consiste nella
partecipazione politica ma nella generalità della legge, cioè, nel fatto che non possono farsi leggi contro un
individuo.
La libertà per R. non è altro che l’obbedienza alla legge che ci siamo prescritti. Obbedendo alle leggi che
ho consentito, non faccio altro che obbedire a me stesso e quindi sono libero.
Se poi rifiuterò di obbedire alla legge, mi si sforzerà di obbedire…
Kant, invece, definisce invece la legge in termini di libertà, ossia il diritto è quell’insieme “delle condizioni
per mezzo delle quali l’arbitrio dell’uno può accordarsi con l’arbitrio dell’altro secondo una legge universale
della libertà”. Secondo questo principio universale del diritto, “qualsiasi azione è conforme al diritto
quando, per mezzo di essa, la libertà dell’arbitrio di ognuno può coesistere con la libertà di ogni altro
secondo una legge universale”. La libertà è una coesistenza di arbitrii garantita dalla legge.
Hegel assimila invece la libertà allo spirito, e cerca di tracciare una storia dell’umanità sotto la categoria
della libertà, ma di fondo mantiene l’impianto roussoviano-kantiano della libertà garantita dalla legge,
sebbene siamo in presenza di un ipertrofismo statalistico: “l’individuo obbedisce alle leggi e sa che in
questa obbedienza ha la sua libertà; […] nello Stato quindi sussiste l’autonomia degli individui” (Marx è un
hegeliano, ma a differenza di Hegel, egli penserà che la storia dell’umanità culminerà nell’abbattimento
dello stato, mentre Hegel pensa che culmini nello stato stesso).
Libertà e utilità
Bentham (nel filone di Hume, Mill e Paley) è colui che fonda l’utilitarismo, una corrente filosofica che
identifica la libertà come assenza di leggi, similmente a quanto ha fatto Hobbes. Tuttavia le dottrine
utilitaristiche si pongono agli antipodi della concezione liberale di libertà, tentano di togliere alla libertà il
posto centrale nell’universo etico assegnatole da Rousseau. Il vero valore da perseguire sarebbe quindi
l’utilità. Bentham fonda una concezione negativa di libertà: “l’idea di libertà non comporta nulla di positivo;
essa è meramente negativa, sicché l’ho definita come assenza di divieti.
“Quando una persona non è soggetta né a un obbligo né a un divieto rispetto a un atto, cioè non le viene
imposto né di farlo né di non farlo, essa si dice libera, o datata di libertà, rispetto a tale atto”. Sono qui in
aperta polemica con la concezione della libertà garantita dalle leggi, anche se Bentham poi considera la
sicurezza individuale il sommo bene da perseguire (ma che non va confuso con la libertà). “Libertà non è
niente di più niente di meno che l’assenza di coercizione”.
Più avanti, una torsione di questa interpretazione vedrà le leggi come un male necessario (Paine, Godwin e
Humboldt).
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La libertà dei moderni
Al centro della teoria liberale della libertà ci sono Madame de Stael e Benjamin Costant (che peraltro erano
amanti), il cui liberalismo è una prosecuzione ideale del loro repubblicanesimo.
Constant sostiene che la sovranità appartenga si al popolo, ma non è illimitata: “vi è invece una parte
dell’esistenza umana che resta necessariamente individuale e indipendente, e che è di diritto fuori da ogni
competenza sociale. La sovranità esiste solo in modo limitato e relativo. Dove comincia l’indipendenza
dell’esistenza individuale, là s’arresta la giurisdizione di tale sovranità”. Constant compie la mossa liberale
più tipica e che si identificherà con il liberalismo stesso: traccia attorno all’individuo una sorta di cerchio
magico, nel quale né lo Stato né la legislazione sono più autorizzati a penetrare.
Egli ritiene che la giustizia e la difesa siano le uniche funzioni irrinunciabili dello Stato e della legislazione. Lo
Stato minimo dovrebbe limitarsi a questo. Constant abbraccia la concezione della libertà come assenza di
leggi, ma in più la usa contro lo Stato. Tuttavia per Constant, come per Smith e Spencer (Herbert – lo stato è
un guardiano notturno), vi sarà sempre bisogno di uno Stato per proteggere ogni individuo da tutti gli altri,
e questo lo diversifica da Godwin e dagli anarco capitalisti.
Constant definisce la libertà dei moderni come “godimento pacifico dell’indipendenza privata”, arrivando
così alla piena formulazione della libertà negativa (libertà da), successivamente ripresa da Berlin in epoca
contemporanea.
A metà strada, successivamente, tra concezione repubblicana della libertà e concezione liberale, si
porranno altre figure di pensatori, come Alexis de Toqueville e Mill (Saggio sulla libertà), i quali mitigano le
teorie dell’uno e dell’altro filone, formulando vie mediane di garanzia della libertà individuale, pur in
presenza di una regolamentazione dello Stato.
Ho detto.
A. M. A.
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