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Golden Eyes
Ingo Potrykus se ne stava con il viso chino verso la sua scrivania, sorretto da una mano che gli reggeva la
testa, così come un tronco pare reggere la chioma d’un salice piangente. Ma i suoi occhi non versavano
lacrime, non s’accendevano di rabbia nè di venuzze rossastre. Erano sempre chiusi, le palpebre serrate su
quei due fari azzurri, un tempo tanto brillanti, curiosi e indagatori, specchio dell’animo intelligente e
benevolo di cui essi erano la porta luminosa. Ogni vitalità sembrava ora scomparsa da quell’uomo e dai suoi
occhi. L’attesa. L’attesa, la perenne attesa che ormai costituiva una costante nella sua vita, l’aveva straziato e
divorato, privato d’ogni speranza. Da questo suo sonno cosciente e silenziosamente disperato emerse al
veloce arrivo di Lily, la nipotina di cinque anni. Ella, avvolta in un vestitino bianco, gli si fermò accanto,
interrompendo la puerile corsa senza meta. Parve ad Ingo che la bambina fosse stupita di trovarlo lì, da solo,
come se avesse compreso come egli si sentisse. “Che fai, nonno?”, chiese la piccola spalancando i suoi occhi
ingenui. Ingo abbozzò un sorriso, poi con il dorso della mano le sfiorò a turno le gote bianchissime e,
chinatosi verso di lei, le sussurrò “Nulla piccola Lily. Il nonno è solo un po’ stanco”. La bambina parve poco
convinta e continuava a fissarlo, mettendolo in una specie di strano imbarazzo, qualcosa di più rispetto a
quello che un po’ tutti provano quando, in treno o nella sala d’attesa del dentista, si vieni fissati da un
bambino, senza nessuna ragione apparente. L’uomo cominciò a chiedersi cosa mai potesse dire per colmare
l’ingenua curiosità di quegli occhietti: come spiegare la sofferenza ad una bambina? Come dirle che bisogna
essere buoni, nonostante molto spesso siano proprio i buoni a soffrire ed i cattivi ad averla vinta? Ma non
servì risposta a queste: la bambina d’improvviso gli sorrise e scappò via correndo chissà dove, proprio come
da chissà dove era giunta correndo. Vedendo quella macchietta bianca allontanarsi, Ingo si rese conto
dell’insensatezza delle sue precedenti domande: non c’è bisogno di spiegare sofferenza e malvagità ai
bambini. Mentre i grandi s’impegnano a cercare un modo per farlo, essi crescono ed imparano le cose sulla
propria pelle. Quell’arrivo improvviso aveva come destato Ingo, che prese a guardarsi attorno, spaesato. Gli
occhi dell’uomo vagarono brevemente per la stanza cercando qualche appiglio mentale che gli ricordasse di
dove fosse, di quanto tempo avesse trascorso fuori dal mondo. A riportarlo alla realtà del suo studiolo
casalingo, illuminato da un raggio primaverile, fu una foto attaccata in una specie di bacheca appesa al muro,
poco sopra la scrivania. In quella fotografia figurava egli stesso con un bambino, più o meno coetaneo della
piccola Lily all’epoca in cui essa fu scattata, ovvero nella prima metà degli anni ’80. Era stata scattata in
Bangladesh, presso un poverissimo villaggio del quale Potrykus, nonostante gli sforzi, non ricordava il
nome. Ma del bambino sì, di quel bambino che sorrideva vispo in quella foto, il nome lo ricordava e ne
ricordava soprattutto la storia. Il piccolo Batu era orfano: i suoi genitori erano entrambi morti durante i
disordini del 1981, i quali videro la caduta di un crudele dittatore, il generale Rahman, e l’ascesa di un
dittatore forse ancora più spietato, il generale Ershad, appoggiato dagli Stati Uniti poiché anti-comunista.
Batu viveva con l’anziana nonna, in condizioni di povertà estrema. E per di più il piccolo aveva perso la vista
all’età di tre anni, come conseguenza della mancanza di vitamina A e proto vitamina A nella sua carente
alimentazione. Ingo Potrykus aveva trascorso nel suo villaggio una settimana, poi non v’era più tornato. Ma
col cuore non potè che rimanergli legato per sempre. Infatti, proprio il giorno della sua partenza, il piccolo
Batu morì per una febbre improvvisa che il suo debole corpo non potè tollerare.
Era proprio per bambini come Batu, che il Professor Potrykus, docente d’ingegneria genetica delle piante per
l’Istituto Svizzero di Tecnologia, si era recato insieme a un team d’esperti nel Sud-Est asiatico.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha rivelato che di bambini come Batu ne esistono, in quella zona,
circa cento milioni. Il problema è il seguente: la carenza di vitamina A (VAD, ovvero vitamin A deficency)
porta svariati e gravissimi danni sui bambini. La prima conseguenza della VAD è la xeroftalmia, mancata
lubrificazione degli occhi, la quale causa dapprima cecità notturna e poi quella totale ed irreversibile. Poi, a
seguire: turbe dell’accrescimento, anemia, disfunzioni dell’apparato riproduttore, indebolimento del sistema
immunitario con conseguente aumento di suscettibilità a ogni tipo di malattia e, dunque, maggior mortalità.
La VAD colpisce in particolare quell’area della Terra poiché in essa molto alto è il tasso di malnutrizione ed,
a peggiorare la cosa, v’è che l’alimento più accessibile per le popolazioni a rischio di VAD è il riso, il quale
è carente in vitamina A e protovitamina A. Il Professor Potrykus, dopo un anno trascorso a contatto col
disagio di Paesi quali il Bangladesh e l’India, cominciò a lavorare ad un progetto estremamente ambizioso
negli obiettivi: la creazione, attraverso una modificazione genetica, di un riso (alimento disponibile in tutte le
stagioni) che producesse Protovitamina A all’interno del chicco. Tornato in Svizzera lavorò per lunghi anni a
questo progetto, anni di tentativi falliti, di nottate in laboratorio, di ricerca disperata di finanziamenti; ma nel
1999 Ingo Potrykus ottenne finalmente il prodotto che cercava. Lo chiamò Golden Rice, poiché esso aveva
un colore più giallastro rispetto al normale riso, colore il quale gli dava come una parvenza dorata. Ci riuscì
inserendo in “Oryza Sativa” di tipo indico due geni (psy e crt1), estratti a loro volta dal batterio “Erwinia
uredovora” e dal narciso. Ogni volta che mostrava uno dei suoi chicchi golden a una persona che non fosse
propriamente un uomo di scienze, Ingo si meravigliava e sorrideva nel guardare la semplicità con cui
l’osservatore scrutava il chicco senza rinvenirvi nulla di speciale. In realtà quel chicco era una goccia di
scienza, era la materializzazione di tutto ciò per cui egli aveva speso quattordici anni della sua vita. Ma non
rimproverava l’ingenuo, il quale né ben capiva cosa vi fosse dietro a quel chicco d’oro né poteva
immaginarne le potenzialità, e né tantomeno vedeva il suo mancato stupore come un affronto al suo lavoro e
alle sue fatiche: era solo contento, contento di aver raggiunto il successo, non per sé, ma per quelle
popolazioni che ne avrebbero potuto beneficiare. Molte volte nel corso degli anni aveva pensato di gettare
tutto al vento, di alzar bandiera bianca per un progetto che ad ogni fallimento sembrava più irrealizzabile: ma
poi tornava a casa e guardava gli occhi sordi di Batu in quella foto. Erano quegli occhi inutili, quegli occhi
storpiati, quegli occhi privati d’ogni luce, d’ogni volo d’uccello, d’ogni sorriso, quegli occhi martoriati dalla
fame e dalla povertà a dargli la forza di andare avanti. Ed ora quegli occhi, a progetto concluso, sembravano
invece sorridergli: il professore sapeva che la sua non poteva che essere un’impressione, che quegli occhi nei
quali per anni aveva visto solo miseria e richiesta d’aiuto ora divenissero sorridenti. Ma volle comunque
credere che essi fossero ora felici, che volessero ora ringraziarlo: quest’illusione fu l’unica piccola
soddisfazione personale che si concesse. Ciò che Ingo Potrykus non sapeva era che essa sarebbe stata pure
l’unica piccola ed illusoria soddisfazione che il mondo intero, a progetto portato a termine con successo, gli
avrebbe concesso.
Già dal 2000, l’anno immediatamente successivo a quello dell’uscita dell’articolo di Potrykus concernente il
Golden Rice sulla rivista Science, le polemiche erano divampate come più facilmente divampa il fuoco nella
casa di paglia d’un povero che in quella di mattoni d’un ricco. Che qualche ambientalista, qualcuno più
interessato ad imporre la propria idea di mondo e di natura agli altri che alle gravi condizioni di misera in cui
versano taluni popoli, si mettesse di traverso era più che prevedibile; ma ciò che avvenne contro Potrykus e il
suo riso fu una vera campagna diffamatoria. Uno dei pareri contrari che a Potrykus fece più male fu quello
della più che rispettabile Vandana Shiva, attivista e ambientalista indiana: ella arrivò, pur di screditare il
prodotto, a dire il riso dorato avrebbe ucciso milioni di persone poiché contenente dosi troppo alte di
vitamina A. Chi non avrebbe creduto a quella donna? Era l’immagine di una donna orientale che, emersa a
fatica dal suo mondo patriarcale e maschilista, s’era resa nota in Occidente, ove era diventata una specie di
simbolo dell’ambientalismo e della difesa dei diritti umani. In realtà la sua opinione partiva dal paradossale
errore di considerare il Golden Rice ricco di vitamina A, la quale effettivamente, se assunta in grandi
quantità, può essere tossica. In realtà esso contiene alte quantità di Beta-carotene, per nulla dannoso.
Potrykus rimase estremamente deluso: non conosceva la Shiva personalmente, ma fino ad allora l’aveva
sempre stimata e rispettata. Come poteva essere allora che ora non capisse che ciò che era nato sarebbe stato
uno strumento di salvezza per il suo popolo? Perché quest’ostinazione nell’attaccare tutto ciò che è scienza?
E poi contro Potrykus si scagliarono Greenpeace, i fanatici religiosi, i politici a cui la fame fa comodo per
tenere sotto il proprio giogo le popolazioni, con la vana promessa d’un domani migliore. Si arrivò ad
accusare il professore addirittura di voler “vendere” un prodotto-truffa, per puri scopi di lucro; si arrivò a
definire il Golden Rice “cavallo di troia delle multinazionali”. Produrre un Ogm di questo genere non è cosa
da poco ed è ovvio che per la ricerca ci vogliano soldi: dunque, è vero, le multinazionali finanziarono il
progetto ma scapparono a gambe levate quando si resero conto di non poterne ricavare, in seguito, chissà
quali profitti. Potrykus rimase solo col suo sogno irrealizzato, e forse ormai irrealizzabile. Quel chicco dorato
era una perla destinata a rimanere chiusa nel suo scrigno cristallino.
Erano passati gli anni; Ingo viveva nell’attesa di una telefonata, un’e-mail, una lettera che gli comunicasse
che qualcosa s’era mosso, che qualche società si fosse dichiarata disponibile a rifinanziare il progetto (pur
conscia di quanto esso avrebbe in futuro, potuto dimostrarsi poco remunerativo), che qualche esponente di
spicco della società civile prendesse una forte posizione a favore del Golden Rice. E invece nulla, solo
l’attesa. Attesa, delusione, dolore, rabbia e ancor’attesa. Ormai anche gli occhi di Batu, da quella foto,
avevano smesso di parlargli. Erano ritornati ed essere ciò che in realtà essi erano sempre stati: due occhi
impotenti ed inespressivi, divorati dalla malnutrizione e dalla miseria. Dal suo studiolo il professore
ripercorse tutto ciò con la mente, per poi recuperare come d’incanto il contatto con la realtà, ben percependo
la sedia sotto di sé, le venature del legno della scrivania sotto le sue dita. Tutto sembrava essere come al
solito: la solita stanchezza e il solito senso di sonnolenza. Allora perché riprovava così fortemente un dolore
con cui aveva imparato a convivere? Cosa c’era stato in quel giorno di nuovo, che lo aveva riportato alla
cecità di Batu e a quella, metaforica, degli uomini d’Occidente? Nel rifletterci guardò in basso: giaceva sullo
scrittoio un articolo di due economisti tedeschi. Ecco cos’era stato, quel dato riportato dall’articolo: “a partire
dal 2002 la mancata utilizzazione del Golden Rice è costato un totale 1.424.000 anni di vita nella sola India”.
Un milione quattrocentoventiquattromila anni. Come al solito Ingo Portykus, chiese a sé stesso, sottovoce:
“chi è il vero cieco, dinanzi a tutto questo?”.
FABIO MOCERINO, V.VIRGILIO N°18, 081 519 06 29
IV C1 – I.T.I.S. L. DA VINCI (NA)