“ALMA MATRIGNA” DI PIER LUIGI CELLI RO

“ALMA MATRIGNA” DI PIER LUIGI CELLI
RO
PRESENTAZIONE A CA’ FOSCARI, AULA BARATT O, 19 MARZO 2014
COMMENTI AL LIBRO
Michele Bugliesi
Il libro è sostanzialmente un inno alla conoscenza di tipo esperienziale, acquisita sul campo, al
cosiddetto "learning by doing". Un principio certo condivisibile, ma nel fare questo elogio, il
libro disconosce in modo troppo sommario il valore della curiosità e dell'approfondimento
dello studio "per se".
Non voglio certamente mettere in discussione l’efficacia del "learning by doing"
nell’apprendimento, ma insisto che l'università è un luogo dove si dovrebbe crescere prima
di tutto culturalmente, dove si acquisisce la passione per le materie di studio, ciascuna con le
sue pieghe nascoste che solo una volta scoperte, interpretate e capite a fondo ne rivelano la
vera essenza e quasi sempre la bellezza. Il momento in cui lo studio porta a "capire" ad
“entrare” nella materia è un momento magico che tutti coloro che hanno studiato a fondo
conoscono: è un momento di passione in cui "vedi chiaro", capisci che sei arrivato al senso
profondo. Sono momenti in cui si cresce e si conosce davvero.
Il libro invece tende a relegare la conoscenza acquisita con i metodi tradizionali della lezione
e dello studio come un insieme di "puri elementi teorici" connotati molto fortemente come
aridi quando non inutili. È difficile essere d'accordo con questa visione. I bravi docenti, a
lezione, sono in grado di far appassionare gli studenti sui temi, anche teorici, ma é aridi né
tantomeno inutili se trasferiti con la profondità che ne rivela la bellezza. Sono questi i veri
maestri di cui si parla nel libro (pag 67), quei maestri esistono, basta saperli identificare. Il
libro sembra intendere che gli unici maestri sono i "maestri di vita", i maestri “delle
competenze trasversali”, “della complessità", ma in verità esistono tante categorie di maestri,
e la complessità non è solo "la fuori" ma anche "qua dentro".
ADATTARSI RICHIEDE CONOSCENZA PROFONDA OLTRE CHE ESPERIENZIALE
Il libro ritorna ripetutamente sul concetto che riassumo citando un passaggio:
è illusorio immaginare che la comprensione del mondo "là fuori" possa passare solo
attraverso la trasmissione di conoscenze, per quanto ben fondate. Nessuna
conoscenza è autosufficiente né, pericolosamente, duratura
Condivisibile. Ma il libro pone questo stesso concetto in termini estremi e la sua soluzione è
che la durevolezza si acquisisce "contaminandosi" con il "là fuori". Insiste insomma sul
concetto per cui la capacità di muoversi "là fuori" in un mondo che cambia e che richiede
continuo adattamento si acquisisce solo attraverso la sperimentazione in prima persona del
"là fuori", durante la formazione universitaria.
Non sono d'accordo. È certamente utile acquisire contatto con l'esperienza professionale
anche durante la formazione, ma rimango convinto che apprendere le discipline in profondità
sia l'unico vero mezzo che noi possiamo dare ai nostri studenti perché siano in grado di
adattarsi e di capire le trasformazioni, nel lungo termine. Dobbiamo dare loro gli strumenti
perché siano in grado di continuare ad imparare, anche e soprattutto le novità che
incontreranno sul piano delle conoscenze tecniche.
E infine, ma non ultimo per importanza, noi non dobbiamo solo preparare gli studenti ad
adattarsi. Dobbiamo anche prepararli a determinare loro stessi le trasformazioni, non a
subire quelle esterne! Non voglio eccedere nella prosopopea, ma noi dovremmo, anche,
contribuire a creare la classe dirigente, che modifica l'esistente e lo innova, non vi si adatta.
In fondo, si può dire che il libro è ingeneroso non solo con i docenti (ne parlo tra poco), ma
con gli stessi studenti, il vero "core business" dello stesso libro. Perche? Perché nel
disconoscere l'importanza dello studio per se, disconosce agli studenti la capacità di acquisire
in modo autonomo una conoscenza esperienziale, frutto della loro creatività e capacità ad
innovare basata su quello che acquisiscono all'interno dell'università e quello che li investe,
indipendentemente da questo mondo, al di fuori. I ragazzi sanno fare sintesi, e spesso non
hanno bisogno di essere "spoon fed" (imboccati con il cucchiaino).
LE COMPETENZE TECNICHE (I FONDAMENTALI) CONTANO, DOPOTUTTO
Ho già detto che l'interpretazione che il libro dà di una idea condivisibile (il learning by doing)
è a mio avviso incompleta, incompiuta, e in parte distorta. Aggiungo un ulteriore
considerazione a chiarimento della critica di "incompletezza". A pag 39, ad esempio, si dice:
le conoscenza, per quanto fondate, non sono più sufficienti. Bisogna metterle al
lavoro, già nel periodo di studio, adottando modelli di impegno che abilitino a
prendere confidenza con gli altri: l'organizzazione, il confronto, la negoziazione, la
gestione dei conflitti.
Ora io vedo qui molto chiara l'influenza forte della formazione di sociologo dell’autore, e
della sua esperienza professionale nella gestione delle risorse umane. E non ho dubbi che nel
lavoro (io, per quanto conta, ho "lavorato") sia importante la capacità di fare "team work”. E
tuttavia:
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Questo tipo di formazione è ormai da tempo già parte dei corsi universitari: il team
work è parte delle nostre modalità didattiche, sia in fase di studio sia in fase di
valutazione di esame, sia in fase di lavoro di tesi e stage.
Gli elementi che il libro evidenzia non danno il dovuto peso alla componente tecnica.
Io credo che chiunque, quando deve entrare in sala operatoria speri di avere un
buon team, ma anche un bravo chirurgo, tecnicamente preparato. Credo che tutti noi
quando usa la nostra applicazione di home banking speriamo di usare software
scritto da team di software engineers preparati tecnicamente. Allo stesso modo,
quando chiediamo una consulenza finanziaria ci aspettiamo un parere competente, e
quando leggiamo un testo, ascoltiamo una critica letteraria, chiediamo una
consulenza tecnica ci aspettiamo professionalità e competenze specifiche. E quando
quando mandiamo i nostri figlia scuola confidiamo di affidarli a bravi insegnanti,
preparati nelle loro materie.
Allora io dico che sarei contento di avere una università che sa formare solide competenze
culturali, e tecnico-scientifiche. Non è tutto, ma sarebbe già molto.
LA RICERCA È PARTE INTEGRANTE DEL PROCESSO DI FORMAZIONE UNIVERSITARIA
Il libro non sembra riconoscere il ruolo della ricerca nella formazione, mentre il fatto che la
ricerca e la didattica sono riunite all'interno dello stesso perimetro che determina il valore
aggiunto della formazione universitaria, che può e deve trasferire nella formazione la
conoscenza acquisita nella ricerca.
All'inverso, il libro enfatizza esclusivamente il valore della conoscenza esperienziale, quella
che sia acquisisce "là fuori" nel mondo del lavoro e aziendale. Questa a mio avviso è una
prospettiva troppo limitata e non fedele al "core business" più volte evocato dal libro: il "core
business" dell'università è più articolato di quanto il libro rappresenti. La ricerca in sé, poi,
viene identificata come una attività esclusivamente volta a scalare le classifiche basate sugli
indici bibliometrici / quantitativi che determinano le carriere.
LE ESPERIENZE INTERNAZIONALI NON HANNO UN RUOLO?
Il libro non parla dell'importanza delle esperienze internazionali che hanno portato più di
20 anni di Erasmus e altri programmi di scambio internazionale.
Di nuovo, tutto il sapere esperienziale è legato al mondo dell'azienda, in un quadro che
complessivamente è un po’ asfissiante. Non vorrei suonare troppo retorico, ma uno dei
messaggi più significativi agli studenti che io abbia mai sentito è quello di Steve Jobs a
Stanford. "Stay hungry, stay foolish": è un messaggio che evoca elementi di creatività,
fantasia e passione che stentano a emergere nel libro.
QUALE MESSAGGIO PER GLI STUDENTI DAL LIBRO?
Io non so quale fosse l'intento dell’autore, ma non credo che questo sia un libro che fa bene
all'università o agli studenti a cui sembra indirizzato. Un decalogo (a pag 111) che inizia con
la seguente premessa:
Il successo del tempo che passerete in università sta tutto nella usa fine: è tale perché
finisce, e vale per quanto vi porta al "dopo", "in tempo"
è quanto di più riduttivo si possa portare come messaggio ad uno studente che voglia
studiare per crescere. L'università è, o dovrebbe essere, un momento di crescita soprattutto
"durante", che certo alla fine deve acquisire allo studente un risultato, ma che svolge la sua
funzione primaria in itinere. Di nuovo si ritorna ad una visione del tutto "finalizzata al
risultato", in cui la metrica è solo aziendale e nulla è riconosciuto all'esperienza culturale e di
vita.
QUALE UNIVERSITÀ FOTOGRAFA IL LIBRO?
In ultimo, ho volutamente glissato sin qui su un aspetto che però non vorrei tralasciare.
Oltre al "learning by doing", c'è un altro elemento che pare trasparire come obiettivo preciso
del libro, quasi che il learning by doing sia un pretesto per portare l'argomento dove si vuole,
ovvero alla decisa e sistematica demolizione dell'organizzazione universitaria in tutti suoi
aspetti.
Certo ogni organizzazione ha le sue colpe, e l'università non è una eccezione. Ma l'esercizio
di delegittimazione che ormai è dilagante e a cui questo libro partecipa non è utile.
Le accuse l’autore muove al sistema, oltre a quella di non essere in grado di offrire la
formazione esperienziale che si ritiene fondamentale, sono di una genericità e di un
qualunquismo che francamente quasi imbarazzano. Cito alcuni passaggi a caso:
[l'università non è in grado di preparare al lavoro perché popolata di docenti] la
maggioranza dei quali non ha alcuna esperienza di vita di lavoro effettivo
L'accademia gira intorno a se stessa, ai propri riti [...] alla convinzione tramandata
nel tempo che guardare dalla turris eburnea [ancora!] del posto finalmente occupato
nell'empireo dell'ordinariato abiliti comunque a sentenze inattaccabili, idonei a
decidere e competenti per ogni intervento
[l'Università è un mondo dove] la tentazione di salvaguardare la posizione, dopo
anni, anche umilianti, passati per conquistarla, predispone quasi naturalmente i
professori a investire sul ruolo, le regole artificiali che lo regolano, la tradizione di
separatezza rispetto a quanto si muove al di fuori; in una parola a guardarsi alle spalle
più che a guardarsi avanti.
Queste e le altre molte affermazioni che si ritrovano frequenti nelle pagine dipingono una
università che nel frattempo è cambiata. I nostri corsi di studio hanno molti degli elementi
che il libro descrive, ma fortunatamente hanno anche molto di quello che ho detto in queste
note. L'università è un mondo in grande trasformazione che sta reagendo con energia quasi
inaspettata ad una politica che da anni la sta asfissiando con riduzioni di finanziamenti,
vincoli sulla programmazione, e blocchi delle assunzioni.
Con tutti i difetti del nostro sistema universitario, i nostri studenti sono apprezzati, i nostri
ragazzi verificano con mano quando vanno a studiare con Erasmus quanto in realtà le nostre
università siano in grado di dare una formazione competitiva. E trovano lavoro,
probabilmente perché in Europa il tessuto produttivo è più reattivo di quanto non sia in
questo nostro, un po' disastrato paese.
Con tutti i suoi difetti, il nostro sistema universitario è sempre nei primi 7 del mondo per
risultati nella ricerca (misurati su indicatori forse non condivisibili, ma condivisi sul piano
internazionale). E se poi normalizzassimo i risultati per numero di ricercatori (perché è bene
ricordare che il rapporto ricercatori / popolazione italiano è il più basso dell'Europa e del
mondo, anche grazie a tutte le norme sul turn-over) saremmo al 2 o 3 posto, in molte
discipline.
PER CONCLUDERE
Non intendo certo negare i limiti di varia natura nel nostro sistema. Ma sono convinto che è
un sistema che merita di essere valutato per quello che è, che merita rispetto perché assolve
con efficacia al proprio ruolo, e che se deve migliorare, e deve certamente migliorare, non
può farlo, o fa più fatica del necessario a farlo, in un clima di costante delegittimazione e
riduzione di finanziamenti.
Tutti dobbiamo capirlo: noi all'interno, operando per imparare a comunicare e sintonizzarci
sulle necessità e sui desiderata; tutti gli altri all'esterno, per dare un contributo che sarà
comunque acquisito, ma che è più utile se non accompagnato da eccessi di denigrazione.