“Corri, non ti voltare”. Era la sola frase che riusciva a ripetersi nella

“Corri, non ti voltare”. Era la sola frase che riusciva a ripetersi nella notte gelida di
febbraio. Le parole gli si fermavano sulla lingua senza riuscire ad animare le labbra.
Attraversò la strada e si fermò all'angolo. Uno sguardo alle proprie spalle. Nessuno sulle
sue tracce. Davanti la via saliva leggermente verso la stazione, sulla destra i portici e
poco più in là quella porta che rappresentava la salvezza. Il caldo di una casa, di un letto
e qualcosa da mangiare, forse. E poi lei, che lo aspettava. Attese qualche minuto, giusto
per essere sicuro che nessuno lo seguisse. Il fiato si condensava in grandi nuvole di
fumo, il freddo gli mordeva le ossa. In quattro passi fu sull'altro marciapiede, raggiunse i
portici, li oltrepassò rasentando il muro e fu davanti alla porta. Tre colpi rapidi, una
pausa, e altri due. Vide lo spioncino aprirsi, la luce dell'interno sparire immediatamente
dietro ad una testa. La porta si aprì e fu al sicuro. “Finalmente, ti stavamo aspettando,
sei sicuro che nessuno ti abbia seguito?”. La sua voce tradiva l'emozione. Era la prima
volta che entrava in casa sua, del resto non erano nemmeno fidanzati. Riuscì a sfiorarle
le dita, prima che suo padre si materializzasse alle sue spalle. “Buonasera – disse
stringedogli la mano – entri”. Riuscì a proferire solo un “grazie”, anche se l'occasione
avrebbe richiesto almeno una presentazione. Ovviamente si conoscevano, la città era
piccola, ma solo di vista, nessuno li aveva mai presentati formalmente. “Venga, qui non
può stare, non sarebbe sicuro”. Il vecchio lo condusse al piano superiore e poi su per
una scala stretta e ripida. “Dovrà sistemarsi lassù, Silvia le porterà due pasti al giorno e
anche il giornale, spero che per lei vada bene. Buonanotte”. Ancora una volta tutto
quello che riuscì a dire fu “grazie”. Nel piccolo spazio tra il soffitto e il tetto, la prima
cosa che percepì fu il gelo. Spifferi d'aria correvano da tutte le parti e la luce della
candela continuava a vacillare di fronte a quei violenti attacchi. Nell'angolo un
materasso sfondato e qualche coperta. Vi ci si infilò vestito alla ricerca di un po' di
calore. Ma quei maledetti piedi non ne volevano sapere di scaldarsi, continuò a
massaggiarli, ma era talmente esausto che crollò. A svegliarlo fu lei. Doveva già essere
giorno fatto perché la luce filtrava dalle travi del tetto disegnando figure geometriche
sul pavimento. Gli portò da mangiare, delle candele e il giornale. “La milizia sta cercando
tutti gli uomini in età da soldato” gli disse sbattendo il giornale a terra. Il titolo parlava
chiaro: “Mussolini chiama l'Italia all'estremo sacrificio”. “Ma quale sacrificio, ma quale
Italia?” pensò “Di Italie ne esistono almeno tre e non vale la pena di morire per nessuna
di esse. Cosa dovrei fare? Arruolarmi nella milizia e combattere i partigiani? Sparare
contro i miei fratelli, i miei concittadini? Oppure scappare in montagna e passare dalla
loro parte per fare la stessa cosa, ma almeno avrei la scusa di farlo in nome della libertà,
della democrazia, addirittura della giustizia. Tutti mi chiedono di uccidere e forse di
morire per delle parole, degli ideali. Vogliono che mi sacrifichi per il potere. Per il loro
potere. No, io voglio una cosa sola, voglio vivere”. In realtà c'era un'altra cosa che
voleva, lei. Ma Silvia si fermava giusto il tempo necessario, lo guardava mangiare con
uno sguardo allo stesso tempo apprensivo e protettivo e poi spariva lasciandolo solo a
battere i denti, con l'unica compagnia del giornale che parlava di trionfi, grande
offensive e ritirate strategiche, della fine imminente della guerra e della vittoria a
portata di mano. La cosa andò avanti per tre giorni, poi una mattina, più presto del
solito perché la luce si vedeva appena, Silvia salì in soffitta. “Te ne devi andare – disse
senza nemmeno augurargli il buongiorno – la milizia sta perquisendo casa per casa, non
è più sicuro stare qui”. Modi bruschi significano pericolo imminente. Non c'era da
discutere, bisognava solo agire. “Andate in stazione, salga su un treno e cerchi di
tornare questa notte, i soldi glieli darà Silvia. Buona fortuna”. Questa volta riuscì ad
aggiungere un “addio” al solito “grazie”. Una volta in strada vennero investiti dal vento.
Silvia lo prese sotto braccio e si strinse a lui, forse non solo per il freddo. Lo costrinse a
camminare a passo svelto, insospettabile per una donna così minuta. La prima cosa che
videro sul piazzale della stazione proprio davanti all'ingresso della biglietteria fu una
pattuglia. “Baciami” si sentì sussurrare all'orecchio. Non era sicuro di aver capito, ma
quando vide la sua faccia avvicinarsi fece appena in tempo a chiudere gli occhi prima che
le loro labbra si toccassero. Sentì la sua lingua scivolare sulla sua e iniziare una lotta
dolce, una danza tra due ballerini che non sanno sincronizzare i loro movimenti. Sentì
anche il calore dopo tanto tempo, il calore del suo corpo che senza nemmeno
accorgersi stava stringendo, il calore del suo fiato che si mischiava con il suo. Era la
prima volta che baciava qualcuno ed era altrettanto sicuro che anche per lei fosse così.
Ma le sensazioni che gli trasmetteva la sua pelle erano nulla in confronto al bisogno
viscerale di affetto, di protezione, di rifugio dai venti freddi che si sentì montare dentro.
Furono i miliziani a dividerli bruscamente. “Favorisca i documenti” si sentì dire mentre la
stava ancora guardando negli occhi. “Il mio fidanzato è in licenza matrimoniale, ci
sposiamo sabato”. “Non ha chiesto a te, puttana” le disse il più alto in grado, un tizio
alto e magro che una cicatrice in testa talmente spessa che la ricrescita dei capelli non
riusciva a nascondere, posandole addosso i suoi occhi grigi. “I documenti? Si, certo, un
momento, che li cerc...” Non fece in tempo a finire la frase, il primo colpo non lo vide
nemmeno partire, ma sentì una fitta allo stomaco che gli tolse il respiro e lo piegò in
due. Silvia si mise ad urlare e fu questo l'ultimo suono che gli restò in testa primo che il
calcio del fucile gli colpisse la testa facendogli perdere i sensi. Si svegliò in una cella di
due metri per tre, buia e se possibile più gelida del solaio. La testa gli pensava, un grosso
bozzo gli era cresciuto sotto i capelli e sentiva in bocca l'odore del sangue. “Ma bene, il
signorino si è svegliato – disse una voce conosciuta al di là di una lama di luce – tra poco
veniamo a prenderti e ti facciamo vedere cosa succede agli imboscati come te”. Era
finita. Questo pensiero lo colse all'istante ma non con quell'irruenza che si sarebbe
aspettato, arrivò distrattamente, come se fosse un dato di fatto. Niente ansia, niente
paura, solo la certezza che il potere aveva messo le mani su di lui e lo teneva ben
stretto. In un modo o nell'altro si era preso il suo sangue. E Silvia? Cosa le avranno fatto?
Picchiata, incarcerata, violentata? Ecco cosa non poteva sopportare, il fatto che fosse il
responsabile delle sue sofferenze, forse della sua morte. “Guardia, guardia – si mise a
gridare – che cosa avete fatto alla mia ragazza?”. La fessura di luce tornò ad aprirsi
come un occhio verticale che scrutava nel buio. “La tua puttana vorrai dire? Non ti
preoccupare, è sana e salva ha fatto tanto di quel baccano e attirato tanta di quella
gente che abbiamo dovuta lasciarla andare. Peccato, perché i ragazzi avevano già delle
fantasie su di lei”. Se ne andò sghignazzando, ma lo sentì ancora dire “che imbecille” tra
un ululio e l'altro. Ma non ci mise molto a tornare, ma questa volta accompagnato da un
paio di ragazzini che non avranno avuto nemmeno l'età per arruolarsi. Gli
ammanettarono caviglie e polsi e lo trascinarono fuori da quel buco umido al freddo del
cortile. Non oppose resistenza, lei era salva e questo era quello che contava. In fondo
allo spiazzo c'era un muro, lo sistemarono con le spalle rivolte al plotone di esecuzione,
come un traditore. Chiuse gli occhi, strinse forte, sentì l'ordine e, per un attimo calore,
poi più niente.
Un vecchio salì i gradini del comando della milizia. Sapeva già cosa gli avrebbero detto,
solo la testardaggine degli anziani, resa ancora più ottusa dall'affetto, gli continuava a
dire che c'era ancora speranza. Dopo che si fu presentato, un giovane lo fece entrare
nell'ufficio del comandante. “Tenga – gli disse questi senza troppe cerimonie – questo è
il posto e l'autorizzazione, ma stia ben attento a non fare scenate. Le ho fatto un favore,
cerchi di non dimenticarselo quando tutto sarà finito”. Prese il biglietto e se ne andò.
Via Adua, tutti sapevano cosa c'era in quella via. Prese la bicicletta e una volta di fronte
all'ex scuola elementare, un edificio anonimo a due piani, mostrò alla sentinella i suoi
documenti. Dovette aspettare due ore prima che un infermiere si degnasse di
accompagnarlo in una piccola aula riadattata a cella frigo. Su tavoli d'acciaio stavano
stesi cinque cadaveri, uno aveva ancora il sangue rappreso dietro la nuca. “E' qui” gli
disse l'infermiere. L'uomo si avvicinò a sua figlia. Era nuda sotto il lenzuolo bianco, il
volto pesto e macchie blu sul collo e le braccia. Le prese una mano. Era fredda, come
ghiaccio.
Marco Bonitti