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Hermes
Collana diretta
da Pier Angelo Carozzi
20
Titolo originale: Porquoi saint Thomas a critiqué saint Augustin, 1926
© 2010 by Edizioni Medusa
Viale Abruzzi, 82 - 20131 Milano
[email protected]
ISBN 978-88-7698-203-3
Étienne Gilson
Tommaso
contro Agostino
Traduzione e cura
Cristiano Casalini
medusa
Introduzione
Prefazione
Divano orientale
Cristiano Casalini
Il movimento alternato delle figure con cui, nel tempo, è stato dato un
profilo al problema della causalità coincide con la storia del pensiero occidentale. Non una questione esornativa, ma il problema architettonico
principale, la testata d’angolo di ogni metafisica.
Ogni pensiero entrato a far parte del nostro canone filosofico ha dovuto fare fin da subito i conti con la modulazione del rapporto tra l’effetto
e la sua causa, e solo a partire da esso affrontare le questioni dell’origine e
ordine del cosmo, della conoscenza e della morale dell’uomo, dell’intelligenza e volontà di Dio. I sistemi articolati sulla base di queste modulazioni procedono dalla risposta che si è data al tema della causa, e si può
dunque dire che sia la vicenda storica della metafisica a esaurirsi dentro
questo tema piuttosto che il contrario.
Questo ha intravisto Heidegger quando, avendo rinunciato com’è noto
a completare il suo Sein und Zeit per mancanza di un linguaggio in grado
di oltrepassare la Metafisica, si è rivolto (dal 1927 in avanti) all’ascolto
della parola dei fisici presocratici, approdando, in limine vitae, prima
all’ispirazione della parola poetica e quindi alla sapienza orientale.
Del tutto insensibile al dilemma dell’uscita dalla modernità, che ancora oggi travaglia le più ispirate filosofie, Étienne Gilson affronta, nel 1926*,
da storico della filosofia medievale, il problema della causalità, e lo fa
com’è suo costume: individuando un momento cruciale del suo sviluppo,
interrogando con onestà carte e testi, sciogliendo alcuni luoghi comuni e
provando a trarre una tesi universale (che risulterà peraltro l’aspetto più
trascurato dai lettori iperspecialisti, tutti presi dal quell’avicennisant, sul
quale lo stesso Gilson invita a non soffermarsi più di tanto1).
Il momento cruciale è individuato da Gilson alla metà del XIII secolo.
L’Università di Parigi, disseminata sulle colline della rive gauche, non è
certo quella pioneristica delle scuole di Abelardo e dei primi chierici vagantes: il corpo docente si è trasformato in corporazione e la vera sfida per i
maestri secolari sembra ridursi alla resistenza nei confronti del tentativo
dei neonati ordini mendicanti – che rivendicano ai regolari la licentia
docendi in Teologia – di entrare a far parte dello Studium. Fin dagli anni 20,
cordiglieri di san Francesco e frati di san Domenico fondano i loro studi
generali nei conventi di Saint-Germain-des-Près e Saint-Jacques e vi impartiscono lezioni, ma sarà soltanto dopo oltre vent’anni che l’asprezza dello
6 / Cristiano Casalini
scontro tra papato e re di Francia costringerà Guglielmo di Saint-Amour2 all’esilio, e i suoi collaboratori ad accogliere ufficialmente i mendicanti nel
consortium magistrorum, confermando le cattedre “ereditarie” e inaugurando così le due tradizioni di pensiero che più tardi si struttureranno nella via Scoti e nella via Thomae.
Due tradizioni, si è detto: già questo potrebbe essere ritenuto indizio di
qualche elemento esterno3 per rischiarare quella che, per Gilson, rappresenta la vera rivoluzione epocale nella storia del pensiero: la comparsa di
san Tommaso d’Aquino. Ipotesi coraggiosa, anche se attenuata da Gilson
con l’escamotage di richiamare al lettore il crescente consenso su di essa,
e ancor più insolita per lui, che ci ha abituato al mestiere di cucire le epoche storiche e i sistemi filosofici l’uno con l’altro, senza lasciarsi ingannare dalla vulgata che ne fa delle monadi incomunicanti. Per Tommaso
Gilson fa uno strappo alla sua regola, e arriva a sostenere che, considerando il fondamento filosofico agostiniano del cristianesimo, incontrastato dall’antichità al medioevo, l’apparizione di una nuova e inaudita gnoseologia alla metà del Duecento ci consente di identificare nell’Aquinate il
filosofo della vera rupture.
Quando Tommaso appare sulla scena parigina, negli anni 50, l’agostinismo trionfa dalle cattedre francescane, grazie alla dottrina dell’illuminazione e al suo vibrato mistico, ma ha perso la sua spinta propulsiva
unitamente alla sua forma pura. Sono gli anni, infatti, della penetrazione
nell’università dei testi aristotelici commentati dai grandi arabi (Al Farabi, Avicenna e Averroè in particolare) e tradotti in Spagna assieme alle
opere di Avicebron (ebreo, ma scambiato per un arabo cristianizzato anche da Tommaso) e Mosè Maimonide, che rapidamente si diffondono in
tutta Europa. Quasi tutti gli accademici accolgono questo corpus come
una boccata d’ossigeno, e, nonostante le iniziali opposizioni del Concilio
provinciale di Parigi, trovano nella metafisica aristotelica un nuovo insperato gergo con cui riproporre il tradizionale illuminazionismo agostiniano. Così facendo, però, davanti agli occhi di Tommaso spunterà una
schiera di centauri teorici, tanto inconsistenti alla prova della coerenza
logica, quanto incapaci di conservare la grandezza religiosa originaria di
Agostino, nei confronti della quale l’Aquinate non nasconderà mai il
rispetto e l’ammirazione.
Il terreno su cui esplode la contraddizione della scuola agostiniana
pare essere quello della conoscenza, ma il nucleo in realtà sta nel problema della causa. Per dimostrarlo, e per dimostrare che Tommaso ne è consapevole, Gilson ricostruisce un segmento genealogico che ha un inizio
preciso e un termine più sfumato, così da lasciare al lettore la suggestione
del finale aperto. L’inizio non è, come ci potrebbe aspettare, Agostino. Gilson dichiara subito che c’è uno scarto tra il suo pensiero e quello dei suoi sostenitori duecenteschi: uno scarto tale da legittimare l’ipotesi, semmai, che
qualcosa sia stato giustapposto nel corso del tempo alle sue dottrine e che
proprio questo stia all’origine della reazione tomistica nei confronti della
Introduzione / 7
dottrina del Padre della Chiesa. Questo “accidente” della storia è invece
rinvenibile, nella sua massima coerenza, nella dottrina di una scuola araba,
quella degli ashariti, ala radicale dei mutakallimun, ovvero di quei teologi
musulmani che non avevano accettato l’accoglimento della filosofia razionalistica greca nel mondo islamico a opera di filosofi naturali come Al Farabi e Avicenna, e di cui soltanto un secolo prima di Tommaso Al Ghazali
era divenuto il campione indiscusso4, guadagnandosi il titolo di “Onore degli Imam”.5
Tommaso conosce gli ashariti grazie ai testi di Mosè Maimonide, e
uno dei meriti storiografici di Gilson qui è questo schiarimento sulla loro
identità: quando nelle Summae o nelle Quaestiones disputatae si incontrano le teorie dei Loquentes devono essere subito ricondotte a quelle di
“coloro che professano il Calam”.
Il cosmo dei motecallemin6 assomiglia molto più a quello di Heisenberg che non a quello di Tommaso: atomi, istanti, accidenti danno vita a
un mondo di punti irrelati da cui il principio di causalità viene espunto
d’emblée. Non c’è posto per l’invenzione aristotelica delle “cause seconde” – poste tra l’atto singolo di un qualsiasi ente e la Causa prima, il divino
motore immobile – a partire dalla quale lo Stagirita ha elaborato un sistema modale di cause distinte in materiale, formale, efficiente, finale, che rimarrà a fondamento del paradigma scientifico fino alla rivoluzione newtoniana.
Nessuna causa seconda se non si danno sostanze che, possedendo una
forma propria, abbiano il potere di compiere azioni naturali, e nel mondo
dei motecallemin sono precisamente queste che vengono a mancare: ogni
cambiamento è giustificabile solo grazie a uno specifico intervento miracoloso della Causa Prima. Poiché esistono solo atomi e accidenti, non è
possibile alcuna azione transitiva tra i corpi: quello che noi, osservando
un’azione, ne riteniamo l’effetto non è che la comparsa di un accidente in
un nuovo soggetto. Comparsa che è frutto diretto della volontà di Dio,
senza la quale peraltro non potrebbe durare più di un istante.7
Questa dottrina è gravida di conseguenze, e ha il vantaggio teoretico
di rappresentare, agli occhi di Tommaso, un errore cristallino. In contrasto con la testimonianza più evidente dei sensi, che ci mostra una natura
operante meccanicamente come un orologio perfetto; con la possibilità
stessa della scienza, dato che la conoscenza della natura di un corpo viene
sbarrata nella risalita dall’effetto alla sua causa; in contrasto infine con la
dignità di Dio, la cui creazione sarebbe inferiore perfino a quella di un
artigiano: gli ashariti costituiscono gli antipodi perfetti del tomismo.
Al dio-califfo, capriccioso e volubile, vittima della sua stessa creazione perché costretto a intervenire in ogni occasione per far funzionare le
cose, Tommaso oppone infatti quella che ritiene la caratteristica essenziale dell’Assoluto, ossia l’agire razionale rispetto allo scopo: un Dio, quindi, che ordina i mezzi in vista dei fini, le cause in vista degli effetti. Un Dio
che conferisce un ordine naturale alle cose e razionalmente lo rispetta,
8 / Cristiano Casalini
limitando al massimo l’intervento miracoloso.8 Una volta dotato il mondo
di ingranaggi (le forme sostanziali) a Dio basta caricare la molla con l’atto
della Creazione, per poi ritirarsi a contemplare il suo automa.
Ed è proprio questa sostanzialità, conferita da Tommaso alla struttura
causale dell’ordine di natura, a generare le condizioni per quello che sarà
concepito come the advancement of learning.9 Il campo della disputa non
è infatti tripartito, come amano pensare per lo più gli storici neotomisti10,
ma (come Gilson si avvede in questo saggio) nettamente bipartito: da un
lato coloro che guardano a un Dio pura volontà, che tutto il mondo compenetra, e che fanno di ogni scienza teologia; dall’altro quei novatores, a
cui appartiene anche Tommaso, che sottolineano l’inaggirabilità della
causazione naturale avviata da un Dio pura ragione, e pertanto la centralità dell’interrogazione filosofica. La testimonianza c’è ed è di prima mano: si deve a John Peckham, nella lettera al vescovo di Lincoln:
Io non sono assolutamente contrario agli studi filosofici, nella misura in
cui essi possono essere di utilità alla comprensione dei misteri teologici, mentre disapprovo fortemente le innovazioni linguistiche irriverenti, introdotte negli ultimi vent’anni nel cuore della teologia contro la
verità filosofica, e a detrimento dei Padri, le cui posizioni non vengono
più tenute in conto e apertamente disprezzate. Qual è la dottrina più vera? Quella dei figli di san Francesco [...] o l’altra, molto recente e quasi
agli antipodi, che riempie tutto il mondo di schermaglie verbali, e che con
la propria forza indebolisce e distrugge la dottrina di Agostino riguardo
le regole eterne e la luce immutabile, le facoltà dell’anima, le ragioni
seminali incluse nella materia, e innumerevoli questioni del genere?11
Secondo questa testimonianza, tomismo e agostinismo si differenziano in ultima analisi per il ruolo che assegnano alla filosofia (ivi compresa la
filosofia naturale, cioè la scienza) rispetto alla teologia. Dovendo scegliere tra la fedeltà teologica ad Agostino e la libertà filosofica degli aristotelici, Tommaso opta per questa seconda e getta le basi per la più tarda fondazione iuxta propria principia della scienza. Quello che verrà poi ritenuto
lo scontro tra pensiero secolarizzato e dogmatismo confessionale, nasconderà invece il persistere di due filoni che, attraversando le epoche come lo
spirito di Hegel, si ripresenteranno puntualmente anche nell’età moderna.
Uno, erede del ragionare asharita, avicenniano e agostiniano, in fondo platonico; l’altro, basato sull’osservazione empirica, ma in realtà erede della
convinzione tomista nelle cause seconde e nelle regole aristoteliche del
discorso scientifico.
L’errore filosofico fondamentale del primo filone consiste, secondo
Tommaso, nello schiacciamento teoretico dei corpi sulla nozione di materia pura, che è potenziale e passiva in senso assoluto. Questo per Tommaso significa rifiutare il concetto aristotelico di corpo come “composto”,
nel quale forma e materia possono essere separate solo in astratto e che al
Introduzione / 9
contrario appare per lui come la condizione necessaria della realtà. Vuol
dire anche rinunciare ad attribuire ai corpi una qualche forma di attività,
che dunque il mondo deve per forza ricevere dall’esterno. Per Tommaso,
invece, ogni corpo, seppure in grado diverso, è passivo per la materia, ma
attivo in virtù della sua forma. Dunque anche a quei corpi che occupano
gerarchicamente il luogo più lontano dalla Causa prima si deve riconoscere
un grado, seppur minimo, di attività.
Sono gli argomenti che l’Aquinate evidenzia chiaramente quando affronta, con inconsueto tono incalzante, le posizioni del mai amato Avicebron12, da lui ritenuto fedele allo spirito della dottrina asharita. A testimonianza di questo, in un celebre passo del suo Fons vitae, Ibn Gabirol afferma che la ragione dell’esistenza delle cose non si trova nella loro natura,
ma nella scienza della Volontà che ha conferito loro l’essere mediante un
processo di impressione della forma in un sostrato materiale. Ma, poiché
questo sostrato è assolutamente passivo, ne deriva che l’attività dei corpi
che si constata nel mondo non è che il palco su cui va in scena la metamorfica rappresentazione dell’unica efficacia di Dio. Il mondo di Avicebron è quindi “appeso”13 alla volontà di Dio, la quale, benché unica e semplice, agisce direttamente tanto nelle cose quanto nelle loro operazioni.
Per Tommaso si tratta di una contraddizione insolubile: se la causa è unica e assolutamente semplice, non può produrre effetti molteplici. A meno
che non ci si immagini, come aveva fatto in precedenza Avicenna, una cosmologia la cui meccanica costituisce, di fatto, un monumento alla mediazione dialettica. La produzione degli esseri nella loro molteplicità non
poteva non essere il frutto di una serie di derivazioni che, dall’unità perfetta
originante, doveva discendere per via triadica14 fino al mondo sublunare. Il
prodotto ultimo di questa scala è l’intelligenza agente nella quale la cosmologia si fonde finalmente col problema delle cause seconde e della conoscenza dell’uomo. Essa è il dator formarum che, anziché generare corpo e
anima di un’ulteriore sfera, genera le singole anime umane e i quattro elementi primi. È qui che salta il meccanismo triadico – plurale sì, ma governabile da qualsiasi abile dialettico – e che entra finalmente in gioco tutta
la varietà del molteplice, riproponendo tuttavia il problema, di fatto solo rimandato da Avicenna, del rapporto tra il semplice e il plurale.
Per affrontarlo, il filosofo si sposta al tavolo delle discipline e, anziché
argomentare sul rapporto tra l’unicità della causa prima e la molteplicità
dei movimenti astronomici dal punto di vista della fisica, si concentra
sulla relazione tra l’intelletto unico e gli individui umani nel processo conoscitivo.
Mentre le singole anime dell’uomo, come «frammenti di una sfera che
non è venuta all’esistenza» partecipano della semplicità dell’intelletto separato, e quindi non costituiscono una significativa difficoltà, la varietà
degli elementi primi impone l’introduzione di un concetto che riesca a
smussare quello che appare come un vero e proprio salto logico: contraddizione che, conducendo necessariamente ad affermare l’intelletto agente
10 / Cristiano Casalini
unico, implica la crisi delle cause seconde e, alla fine, la negazione del libero arbitrio. Per Avicenna la materia degli elementi è unica, ma non le
forme: come può dunque l’intelligenza unica attribuire forme diverse a
una materia altrettanto unica senza dividersi? Il concetto che Ibn Sina introduce è quello di praeparatio, cioè di un’azione che coinvolge la materia
disponendola a ricevere, al momento opportuno, la forma che l’Intelligenza separata le attribuisce.
Di qui, la dottrina della conoscenza è già sufficientemente chiara, e
avrà lunga fortuna nella storia del problema dell’anima: alle anime individuali degli uomini appartiene un complesso sistema sensoriale che culmina nell’immaginazione con la facoltà cogitativa, ovvero con quell’operazione che dispone (prepara) il fantasma – una sorta di rappresentazione
dell’oggetto appercepito – all’impressione della forma, con la quale si
può dire si effettui il vero atto di conoscenza. Secondo Tommaso, il processo conoscitivo avicenniano imbocca la strada contromano e manifesta
la sua contraddittorietà: anziché procedere dalla materia e depurarla per
via d’astrazione onde ricevere la forma pura e universale, esso si innesca
quando un’anima interamente vòlta al sensibile, concentrata com’è sull’atto della praeparatio, viene investita dall’idea, proveniente dall’intelletto
agente e puramente formale. L’intelligenza dell’uomo è, dunque, separata
dalla sua anima individuale e, per conoscere, è come se l’uomo dovesse volgersi a essa dandole le spalle.
Una volta acquisita l’impalcatura fisica e conoscitiva dell’aristotelismo mediato dagli arabi, l’illuminazionismo agostiniano darà vita a tante
varianti quante sono le combinazioni degli elementi principali della conoscenza secondo Aristotele: separatezza o meno dell’intelligenza agente dall’individuo, esistenza o meno dell’intelletto possibile-materiale. Posta la
separatezza come la via più facile per un agostiniano, portato a concepire
l’atto della conoscenza come un atto di illuminazione proveniente da qualcosa di esterno e superiore all’individuo, vi sarà chi, seguendo Avicenna,
identificherà l’intelletto agente di Aristotele col Dio di Agostino – e per
costoro Gilson conierà il famoso “agostinismo avicennizzante”: è la corrente che prenderà avvio dal traduttore spagnolo di Avicenna, Domenico
Gundisalvi, e che troverà la prima sistematizzazione in Guglielmo d’Alvernia, vescovo di Parigi. Saranno poi John Peckham e Ruggero Bacone,
ispirati da Roberto Grossatesta e Adam di Marsh, a proseguire la scuola,
entrando in aperta polemica proprio con Tommaso d’Aquino. Vi sarà, invece, chi, come Alessandro di Hales, Jean de la Rochelle e san Bonaventura, rifiutando il presupposto principale degli avicennizzanti – che, cioè,
le cose vadano allo stesso modo per l’uomo come per Dio – distingueranno la conoscenza umana delle cose naturali e soprannaturali, ponendo
l’intelletto agente dentro l’uomo, come “lume naturale” per la prima classe
di enti, e riservando la necessità dell’illuminazione divina alla seconda.
Per Gilson, questi saranno gli “agostiniani aristotelizzanti”.
Introduzione / 11
Sul fronte opposto, il vero protagonista di questo saggio sarà proprio quel
Guglielmo d’Alvernia, avicennisant malgré lui, che Gilson addita come
massimamente incoerente15 e sul quale non risparmia l’ironia, citando a piene mani le testimonianze scarse d’aplomb del suo giovane auditore Ruggero Bacone. Questo vecchio vescovo di Parigi, che pare aver speso una vita a contestare l’Intelligenza agente di Avicenna con la scusa di rifiutarne
l’intera cosmologia, ha invece ottenuto, secondo Gilson, proprio di rafforzare la definizione della dottrina di Dio-intelletto agente, che connota essenzialmente l’“agostinismo avicennizzante”. L’incoerenza di Guglielmo
starebbe nel ritenere di poter rigettare la teoria del movimento dei corpi celesti e costruire una dottrina dell’anima e della sua conoscenza che riproduce, sul terreno della gnoseologia, la stessa struttura del cosmo avicenniano.
Il problema da cui muove Guglielmo è infatti quello che abbiamo già
visto negli arabi: come sia possibile che dall’uno possa derivare il molteplice. È qui che l’Alverniate paga il suo tributo all’avicennismo e si mette
in una luce negativa per lo storico Gilson. Anziché porsi il problema dal
punto di vista della produzione degli esseri, Guglielmo si interroga direttamente sull’anima dell’uomo, domandandosi come avvenga che un’anima assolutamente impartibilis (e spirituale, dirà Guglielmo riprendendo la
metafora dell’uomo velato16) possa concepire idee molteplici senza perdere la sua sempliclità. Per rispondere, non si può ricorrere alla distinzione tra l’anima e le sue facoltà, come farà invece Tommaso: dietro ciò che
noi interpretiamo come atti prodotti dalle singole facoltà, per Guglielmo
c’è sempre l’unica sostanza dell’anima che esercita in modi diversi le sue
funzioni, come accade all’uomo nei confronti delle sue varie funzioni
sociali.
Bisogna allora concentrarsi sulla fisiologia della conoscenza, che si
compone di tre atti: sensazione, astrazione e inferenza. Gilson non si interessa qui del primo aspetto, e si sofferma sull’astrazione, che a suo avviso rappresenta il campo in cui si dispiega pienamente il ragionamento di
Guglielmo: essa è di due gradi ben distinti, immaginativo e intellettuale.
Il problema è il passaggio dal primo al secondo, cioè il salto dal sensibile
alla conoscenza intelligibile. Il De anima di Aristotele offriva, come sempre, un’espressione che poteva essere considerata una fonte autoritativa
definitiva o un ostacolo ben arduo da superare: l’uomo non può pensare (e
quindi conoscere) sine phantasmate. Guglielmo fa sua quest’espressione,
ma con una torsione di significato del concetto di phantasma che quasi
stupisce Gilson per lo spudorato candore con cui viene dichiarata: “phantasma”, ovvero “segno” o “forma”. Basta questa identificazione per rovesciare in senso platonico il testo di Aristotele: l’uomo non può pensare un
oggetto senza la forma intelligibile che lo rappresenta.
Guglielmo trasforma il fantasma in idea17, e il problema per lui diviene semmai quello di spiegarne l’origine: chi imprime la forma che trasforma la sensazione in conoscenza? Non i principi primi, come vorrebbe
Platone, perché astratti e universali, mentre l’atto conoscitivo è sempre di
12 / Cristiano Casalini
un oggetto particolare; ma un ente altrettanto particolare che sia causa di
quest’impressione, e che Guglielmo identifica alla fine con quel Creatore
«che esprime luminosamente e rappresenta tutte le cose».
L’illuminazione agostiniana è dunque riaffermata sotto le spoglie di
un’intelligenza agente separata, che ricorda molto da vicino (troppo, se si
considera che è stata in precedenza negata dallo stesso Guglielmo) quella
di Avicenna.
Quanto all’“inferenza”, Gilson ritiene che costituisca l’aspetto insieme più controverso e originale del pensiero di Guglielmo. Egli formula la
questione con un interrogativo che riguarda il fondamento e le regole di
legittimità scientifica del discorso umano: come può l’idea di una causa produrre quella del suo effetto? Il fatto che la risposta parta dalla negazione
della somiglianza tra il prodotto e la sua causa, fa sì che la conclusione
dell’Alverniate richiami direttamente la teoria dei motecallemin da cui
siamo partiti: l’idea della causa non è che l’occasione per la formazione
dell’idea del suo effetto.
Ma l’insorgenza abituale e ripetuta delle stesse idee a seguito di una
medesima causa stabilisce un curioso, e decisivo, parallelo tra quello che
siamo soliti considerare il massimo livello di astrattezza simbolica, cioè
le condizioni logiche del discorso, e ciò che, al contrario, ci appare come
quello più bassamente sensitivo, ovvero l’istinto animale. La stessa fecondità intellettuale corre tra l’uomo che, pensando scientificamente, concepisce un’inferenza e il ragno che, sfiorata la tela con un dito dall’“etologo” Guglielmo, scatta immaginando un lauto pasto. Scartata infatti la teoria dell’anamnesi platonica, e l’intrinsecismo à la Anassagora (secondo
cui l’anima produrrebbe da sé le idee, divenendo contraddittoriamente produttrice e ricevente di idee che non possiede), Guglielmo deve infatti concepire una produttività originaria delle idee attraverso l’anima indivisibile,
ritrovandosi così in un’inedita identificazione dell’atto di conoscenza intellettuale con l’imprinting animale.
Se questo è l’aspetto più originale dell’Alverniate, sorge il sospetto sulla nota sibillina di Gilson nella quale lo storico presenta la dottrina di Guglielmo come una sorta di zibaldone a cui si può far dir di tutto, a causa dell’incoerenza essenziale del suo pensiero. La conclusione dell’Alverniate costituisce al contrario uno degli esiti più coerenti del filone di pensiero che,
volgendosi all’indietro oltre Avicenna e i teologi arabi, guarda dritto negli
occhi Platone. A questa sorgente Tommaso si oppone con vigore. Fermato
sul problema dell’intelligenza agente, Guglielmo sembra perdersi nel tentativo di liberare l’anima dall’abbraccio di Avicenna; finalmente sbrigliato,
l’Alverniate raggiunge proprio le conclusioni che rappresenteranno, agli
occhi di Tommaso, il difetto capitale del platonismo. È davvero possibile
che questo sia sfuggito a Gilson?
La tesi che egli ha dichiarato all’inizio del saggio è che l’aristotelismo
arabo sia entrato come un virus nella circolazione delle idee agostiniane,
Introduzione / 13
provocandone l’inarrestabile malattia. Tuttavia, dall’esposizione che Gilson fa di questo composito corpus, emerge con sempre maggior evidenza
il fatto che l’aggettivo “arabo” non significhi altro per lui se non il travisamento platonico18 dello Stagirita, che maschera dietro la nomenclatura
aristotelica un fondamentale estrinsecismo.19
Circoscrivere l’affaire Platone non è più possibile, anche se questo significa coinvolgere direttamente Agostino nella critica di Tommaso. Fin
quando si limita questa critica all’influsso arabo sul movimento agostiniano, infatti, il vescovo di Ippona resta al riparo dalla scure tomista; ma,
posta la derivazione di questo influsso dalla fonte primaria, anche la posizione di Agostino si fa pericolosamente più esposta. Né basta, come ci
ricorda a più riprese Gilson, sottolineare il metodo rispettoso, ossequioso,
con cui il dottore angelico tratta la massima autorità teologica riconosciuta ai suoi tempi: se il titolo episcopale metteva al riparo Guglielmo d’Alvernia dalle critiche più mordaci dei suoi auditori, cosa potremmo aspettarci da Tommaso nei confronti di un Padre della Chiesa? Occorre dire, semmai, che questo metodo cela al contrario la posizione antitetica di Tommaso rispetto al platonismo: poco importa se questo trascini con sé perfino
un’autorità come Agostino.
Dunque, al Cur divus Thomas? che risuona nelle ultime pagine, Gilson
risponde raffigurandoci un Tommaso d’Aquino puro filosofo che, apparentemente confinate le conseguenze teologiche, costruisce il suo sistema
metafisico e, con esso, la sua via razionale a una fede che sembra quasi
assente nell’aristotelismo di cui si fa campione. È il filosofo, e cioè la pura
speculazione intellettuale, che Gilson ritrova in Tommaso e che rappresenta per lui la vera rivoluzione del tomismo. Rivoluzione compiuta in
nome della ragione: e la ragione del filosofo per Tommaso è il lume naturale individuale, cioè una facoltà puramente umana, cardine del sistema
delle cause seconde, che si interpone tra Dio e il creato come l’atmosfera
tra il sole e l’uomo. Difendere le cause seconde significa legittimare la ragione metafisica e, attraverso la metafisica, la professione del filosofo. Questa fu l’intenzione di Tommaso e rimane l’intenzione di Gilson, accomunati dal vivere in un tempo ostile alla causazione.
Per fare questo, tuttavia, Gilson deve ridisegnare la formazione del pensiero di Tommaso, riducendo il peso culturale di una corrente che si autorappresentava come puramente aristotelica: l’averroismo latino. Pochi i
passaggi sull’averroismo in questo scritto, e la ragione è ormai chiara: la
costruzione dell’aristotelismo tomistico sull’assunto della sua pura filosoficità doveva espungere l’influenza che Averroè, la vera filosofia à la
page del XIII secolo, poteva aver avuto sul giovane domenicano. Gilson
liquida la questione in poche parole: per abbandonare il platonico Avicenna e la sua intelligenza agente, Tommaso non poteva ricorrere ad
Averroè, il quale con l’unicità dell’intelletto agente e possibile costituiva
uno scandalo teologico; né poteva contestare un mezzo errore con un errore intero. Argomento debole, ma dal fine evidente: cancellare l’ipoteca
14 / Cristiano Casalini
averroista sulla tradizione aristotelica per consegnarla esclusivamente nelle
mani di san Tommaso, come se questi fosse soltanto filosofo e non soprattutto un buon cristiano.20
Dal lavoro di Gilson emerge una figura di Tommaso dai contorni nitidi, e posizionata in modo definito nei confronti dello stesso Agostino. È
qui che ritroviamo finalmente il Gilson a cui siamo abituati, cercatore di
filoni nella storia e instancabile indagatore di segni testuali della loro
continuità. Tommaso e Agostino sporgono qui, come volti in rilievo, ciascuno in una lunga teoria di filosofi, in testa a ognuna delle quali si stagliano ancora le sagome di Aristotele e Platone.
Da questo gioco di riconoscimenti, che trascende quel XIII secolo sul
quale si è posato l’occhio dello storico della filosofia, Gilson si lascia trasportare e, nonostante la tentazione di criticare quanti paiono aver esagerato la dicotomia tra l’essere agostiniani e l’essere tomisti, dissemina il
testo (o le note, come sempre lavorate a bulino) di riferimenti a dottrine
filosofiche successive (è il caso di Cartesio21 o di Malebranche22) che indicano il punto di fuga verso il quale si muoverà lo sviluppo di entrambi i
filoni. Per liberare l’orizzonte, è necessario far sparire anche personaggi
importanti dall’affresco.
L’aver amputato l’averroismo dalla ramificazione del pensiero aristotelico in Occidente all’altezza del nodo tomista, può apparire un gesto arbitrario, pietra dello scandalo per qualsiasi storico che pretenda verità dal
suo racconto. Ma non è forse quello dell’oblio, della dimenticanza il gesto
primario che scatena la chance della storia? «Certo noi abbiamo bisogno
di storia, ma ne abbiamo bisogno in modo diverso da come ne ha bisogno
l’ozioso raffinato nel giardino del sapere, sebbene costui guardi sdegnosamente alle nostre dure e sgraziate occorrenze e necessità».23 Gilson appartiene alla razza quasi estinta dei maestri, cioè degli studiosi consapevoli
che il concetto non è un fatto oggettivo, ma anzitutto conseguenza di una
decisione morale. Maestri che non forniscono sentenze da chiosare, depistano continuamente, costringono a riflettere, talvolta anche ad attaccare.
Forzando le indicazioni del suo oggetto di studio, Gilson procura insieme
un disegno storiografico nuovo e una concreta via da seguire.
* Questo saggio compave sulla rivista “Archives d’histoire doctrinale et littéraire du
Moyen Age”, 1926-1927, Vrin, Paris 1926, col titolo Porquoi saint Thomas a critiqué saint
Augustin.
1
Vedi il testo, n. 148: «Sembra che si possa designare senza inesattezze la posizione di
Guglielmo d’Alvernia, Ruggero Bacone, Roger Marston e forse J. Peckham, con l’espressione sgradevolmente pedante, ma chiara: agostinismo avicennizzante. È quella a cui noi ci
siamo fermati, pronti ad accettarne una migliore quando verrà proposta».
2
Quella dell’ingresso degli Ordini mendicanti nell’Università di Parigi è vicenda tortuosa, combattuta e, oggi, oggetto di abbondante letteratura. Guglielmo di Saint-Amour è decano secolare della facoltà di Teologia e, tra gli anni Cinquanta e Settanta, si renderà protagonista di una strenua difesa dei maestri parigini nei confronti della volontà papale di insediare i mendicanti sulle cattedre teologiche. Alessandro IV, prima con la bolla Nec insoli-
Introduzione / 15
tum, poi con la celebre Quasi lignum vitae del 1555 sancirà il definitivo ingresso degli ordini. Guglielmo di Saint-Amour scatenerà un putiferio pubblicando un anno dopo il Tractatus de periculis novissimorum temporum, putiferio a cui non si sottrarrà anche Tommaso
d’Aquino, uno dei predicatori a cui la bolla di Alessandro IV aveva dato una cattedra. La
vicenda si chiuderà con la sconfitta di Guglielmo.
3
La tesi esposta da Gilson in questo saggio è che la formazione della filosofia tomista
non abbia risentito di condizionamenti culturali o sociali esterni, ma che si sia costruita
seguendo l’interrogazione interiore di Tommaso: cosa che ne farebbe un caso di speculazione eccezionalmente coerente. Per sostenere questo, Gilson è costretto a sottolineare
la continuità tra il giovane autore del Commento alle Sentenze e quello maturo delle
Summae, che non sempre è stata confermata da altri studiosi.
4
A esso si oppose severamente Averroè, la cui Incoerenza dell’incoerenza dei filosofi,
per esempio, costituisce una critica a parte philosophiae dell’Incoerenza dei filosofi di Al
Ghazali, emblema dell’attacco sferrato dalla teologia e dalla mistica islamica del XII secolo al razionalismo.
5
Curiosamente, pochi anni prima della pubblicazione di questo saggio, Mustafa Kemal
proibiva nella giovane Turchia alcune traduzioni delle opere di Al-Ghazali, emblema del Califfato. Al-Ghazali si era macchiato, agli occhi di Atatürk, anche della colpa di aver combattutto l’ellenizzazione dell’Islam, avvenuta in seguito al diffondersi dei testi platonici e aristotelici due secoli prima per tutta la Mesopotamia, a opera dei falasifa, ovvero dei filosofi.
6
Sta per mutakallimun. Manteniamo in questo caso la dicitura di Gilson.
7
L’argomentazione torna nella terza meditazione metafisica di Cartesio, di cui notiamo
la somiglianza con la tesi attribuita ai loquentes dalla Guida dei perplessi di Maimonide.
8
Vedi Summa Theol. Ia, qu. 105, a. 6 ad 3m: Deus sic rebus certum ordinem inididit, ut
tamen sibi reservaret quid ipse aliquando aliter ex causa esset facturus. Unde cum prater
hunc ordinem agit, non mutatur. Cfr. Quaestiones disputatae, De Potentia, qu. 6 e Summa
Theol., Ia, 19, a. 4.
9
Ovvero il progressivo distacco della scienza dai suoi presupposti teologici, distacco
che di solito gli storici fissano a partire da quel naturalismo rinascimentale preteso osteggiato, nella sua impalcatura categoriale, dal tomismo tardo della controriforma. Questa la
vulgata diffusa almeno fino al Feyerabend di Contro il metodo (nella quale l’epistemologo
fa il contropelo alla tesi dell’illegittimità delle posizioni della Chiesa in merito).
10
Secondo questo disegno storiografico, Tommaso rappresenterebbe la terza via, la
sintesi tra le due posizioni contrapposte, sviluppando il vero pensiero di Agostino in una
sostanziale concordia tra i due: «La psicologia tomista costituisce indubbiamente il vertice
dell’antropologia medievale, anzi cristiana senz’altro: essa si è costituita nel superamento
del doppio scoglio di una concezione metafisica immatura della spiritualità dello spirito
umano (augustinismo) e di una concezione troppo rigida della detta spiritualità (averroismo) la quale finiva per togliere allo spirito umano l’attributo più caratteristico della “personalità”» (C. FABRO, L’Anima. Introduzione al problema dell’uomo, Studium, Roma 1955).
11
F. EHRLE, John Peckham über den Kampf des Augustinismus und Aristotelismus in der
zweiten Hälfte des 13. Jhs, in Zeitschrift f. kath. Theologie, 13, 1889, p. 186. La notizia è riportata in J.A. WEISHEIPL, Tommaso d’Aquino. Vita pensiero opere, Jaca Book, Milano 1987.
12
Si veda il De ente et essentia, dove Tommaso argomenta contro la dottrina dell’ilemorfismo, così fortunata ai suoi tempi, che concepiva una materia spirituale per riuscire a
dar conto della gerarchia celeste.
13
Vedi sotto, cap. II “Ibn Gabirol”: «Questa visione di un universo nato da una volontà,
dominato da essa e – per così dire – appeso a essa, è esattamente quella che ci suggerisce
tutta la dottrina di Gabirol: omnia quaecumque sunt, coarctata sunt sub voluntate, et omnia
pendent ex ea».
16 / Cristiano Casalini
14
Il sistema cosmologico di Avicenna può essere riassunto seguendo il movimento di
generazione della prima sfera: avendo identificato la causa prima con Dio, Avicenna pone
il primo intelletto come frutto dell’autocontemplazione divina. Pensandosi come contingente e possibile rispetto alla sua causa, il primo intelletto genera il corpo della prima sfera;
pensandosi come necessario rispetto alla sua causa, genera invece un secondo intelletto,
che procederà allo stesso modo con la terza sfera e così via fino all’ultima, ovvero quella
della Luna.
15
Nel quadro della concordia Thomae et Augustini (da lui compendiata in Agostino e
Tommaso. Concordanze e sviluppi), Amato Masnovo, capostipite del neotomismo dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, riesce invece a valorizzare senza sospetti né ombre la
figura di Guglielmo d’Alvernia, a cui dedica i tre volumi Da Guillaume d’Auvergne a
Tommaso d’Aquino, Vita e Pensiero, Milano 19452.
16
Vedi sotto, nt. 18.
17
Contrariamente alla linea ermeneutica inaugurata da Alessandro di Afrodisia, che, attraverso la necessità del fantasma per pensare, radica la conoscenza dell’uomo nel sensibile: tanto da arrivare perfino a mettere a rischio l’immortalità dell’anima, come avviene
per esempio nel caso cinquecentesco di Pomponazzi (De immortalitate animae, 1516).
18
Qui Gilson lascia intravedere una possibile origine di questo travisamento nei cristiani di Siria, che provocano la diffusione del corpus platonico e aristotelico in Oriente: visione storiografica su cui secondo alcuni moderni, come per esempio Pasquale Porro, grava
l’ipoteca di un “velato eurocentrismo”, uno slogan, peraltro frequente presso gli storici
contemporanei nei confronti di quelli della generazione passata, che meriterebbe di essere
almeno articolato e chiarito.
19
Altrove, Gilson identificherà il problema di questa dottrina nel suo risolversi in un paradossale materialismo: l’istinto animale e la conoscenza intellettuale, l’idea dell’anima come della stessa sostanza di Dio sono, infatti, tesi che ci conducono a non riconoscere nel cosmo altro che corpi. Vedi il capitolo sulla critica di Tommaso all’agostinismo avicennizzante.
20
La forza di persuasione degli argomenti averroistici è un fatto scomodo per il filosofo
neotomista. Se ne duole anche Cornelio Fabro: «L’averroismo, anche se sconfitto dall’Angelico, si camuffò sotto un tessuto di sottigliezze e distinzioni che gli permisero di riaffiorare tenace nei secoli seguenti fino alle soglie del moderno. Ben altra quindi sarebbe
stata la fisionomia spirituale dell’Europa moderna, e quante dolorose vicende non sarebbero state risparmiate alla cristianità, se la cultura cattolica – invece di polverizzarsi nelle polemiche di Scuola – avesse seguìto ad avanzare sulla via aperta da Tommaso!» (Op.cit.).
21
Gilson ritrova nel metodo cartesiano un’impronta fortemente scolastica, e per evidenziarla, tra gli altri esempi, si serve della metafora avicenniana dell’homo fluctuans che il filosofo rinnoverebbe per dimostrare l’assoluta spiritualità e semplicità dell’anima. Il tema
interessa molto Gilson, che pubblica nel giro di cinque anni due saggi sulla questione. Tuttavia, mentre nell’uso cartesiano della metafora di Avicenna si riconosce oggi una semplice eco, in quanto sfruttata per altre finalità rispetto all’originale, non è lo stesso per il ricorso alla volontà divina per giustificare la permanenza nell’essere delle cose. Vedi sopra, nt. 7.
22
Quanto debba l’occasionalismo di Malebranche alla dottrina asharita, lo testimonia,
tra gli altri, Voltaire in Micromega, senza troppa simpatia: «Allora Monsieur Micromega,
rivolgendo la parola a un altro sapiente che teneva sul suo pollice, gli chiese cosa fosse la
sua anima, e cosa facesse. “Proprio nulla, disse il filosofo malebranchista: è Dio che fa tutto
per me; vedo tutto in lui, faccio tutto in lui; è lui che fa tutto senza che io me ne impicci”.
“Tanto varrebbe non esistere”, riprese il sapiente di Sirio».
23
F. NIETZSCHE, Sull’utilità e il danno della storia per la vita [tr.it. di S. Giametta],
Adelphi, Milano 1973, p. 3.
Tommaso contro Agostino
Tommaso contro Agostino
Tommaso contro Agostino / 19
Ci si trova comunemente concordi nel considerare la sostituzione di una nuova sintesi dottrinale a quella di sant’Agostino come
l’evento filosofico più importante del XIII secolo. Se si dovesse
indicare il punto di crisi in cui si effettua la dissociazione tra l’antica scolastica e la nuova, converrebbe senza dubbio optare per la
teoria della conoscenza. Prima di san Tommaso d’Aquino, è pressoché unanime l’accordo nel sostenere la dottrina agostiniana dell’illuminazione divina; dopo san Tommaso d’Aquino, quest’accordo cessa di esistere: a tal punto che lo stesso Giovanni Duns Scoto,
dottore francescano, abbandonerà su questo punto essenziale la tradizione agostiniana di cui il suo Ordine era stato fino a quel momento il più fedele sostenitore.
Il fatto è difficilmente contestabile, e il numero di coloro che si
ostinano a sostenere che tomismo e agostinismo abbiano una sola e
identica teoria della conoscenza diminuisce di giorno in giorno.1 Di
contro, pare non ci si chieda mai perché sia avvenuto questo cambiamento di fronte e quali ragioni possa avere avuto san Tommaso
per abbandonare le strade battute dall’agostinismo. Più il tomismo
fu un evento nuovo, addirittura sorprendente agli occhi di numerosi
contemporanei, più diviene necessario cercare le ragioni interne
che ne provocarono la comparsa e ne assicurarono il successo. Non
vedervi che il risultato di una contaminazione inconsapevole del cristianesimo col paganesimo greco, come pensarono John Peckham
e Ruggero Bacone, non è solo scambiare la polemica per storia, ma
contraddire apertamente tutto ciò che si sa del carattere di san Tommaso d’Aquino. Nessuno fu più pienamente cosciente di ciò che faceva, né più costantemente preoccupato di assicurare una perfetta
coincidenza tra l’interesse della verità filosofica e quello della verità religiosa; l’idea che egli abbia coscientemente sacrificato l’una
all’altra è contraddetta da tutta la sua dottrina; l’idea che l’abbia
fatto inconsapevolmente mal si concilia col successo che ha riportato. D’altra parte, è molto difficile scoprire negli scritti di san Tommaso d’Aquino una critica sistematica di sant’Agostino. Ogniqualvolta la dottrina agostiniana dell’illuminazione viene chiamata in
causa, san Tommaso assimila i testi contestati e li riconduce al suo
punto di vista con una sottigliezza talvolta sconcertante, sempre
come se questa posizione fosse già completamente presa e definita,
20 / Étienne Gilson
senza degnarsi di svelare ciò che lo spinge a scartare le posizioni
dottrinali accettate fino ad allora.
In presenza di un problema storico così importante e di un filosofo così avaro di confidenze riguardo la genesi del proprio pensiero, ci si chiede se certe ragioni dell’atteggiamento assunto da san
Tommaso non debbano essere cercate al di fuori dello stesso sant’Agostino. In altri termini, se veramente san Tommaso elimina la dottrina agostiniana dell’illuminazione senza dirci in cosa l’agostinismo gli sembra insufficiente, è forse perché non ha fatto di questa
dottrina l’oggetto immediato della sua critica. Da quando vi si riflette, d’altronde, la verità di questa ipotesi è apparsa sempre più probabile. Perché l’agostinismo, di cui il cristianesimo aveva vissuto
per secoli, non fu capace di alimentarlo da solo per altri secoli ancora? Se non lo si riesce a spiegare, bisogna ammettere che ciò che
era apparso vero per così tanto tempo poteva apparire falso dall’oggi al domani, senza che fossero cambiate né la dottrina né alcuna
circostanza esterna alla dottrina. Ora, dopo una prova di tanti secoli, non poteva venir fuori alcuna difficoltà interna che potesse rendere sospetta agli occhi di un pensatore cristiano una dottrina così
strettamente religiosa. Non si vede dunque alcuna ragione perché
l’agostinismo dovesse essere mai messo in scacco, all’interno del
cristianesimo, a meno che le sue sorti non si siano trovate legate dalle circostanze a quelle di un filosofo non cristiano, che abbiano trascinato l’agostinismo nella sua condanna. Tale è l’ipotesi che, su
un unico punto, vogliamo sottoporre alla prova dei fatti, ricercando
quale influenza abbia potuto esercitare il pensiero di Avicenna sui
destini dell’agostinismo medievale. L’influenza di Averroè sul pensiero latino del medioevo è, infatti, immediatamente evidente; quella
di Avicenna, molto meno manifesta e sicuramente più complessa,
non fu tuttavia forse meno duratura: potrebbe addirittura aver superato la prima in profondità. Non che si siano mai visti dei seguaci
integrali di Avicenna come gli averroisti, ma, proprio perché non
poteva averne, furono tuttavia possibili degli accomodamenti con
lui. Averroè era da prendere o lasciare; i più lo rigettarono, certi lo
accolsero in virtù dell’artificio che lo dava come necessario per la
ragione, ma falso per la fede. Avicenna non era accettabile tale e
quale; ma i cristiani, il cui pensiero si trovava già nutrito di Proclo e
Tommaso contro Agostino / 21
di Plotino attraverso sant’Agostino, potevano ritrovare in lui quello
stesso platonismo di cui l’influenza dei cristiani di Siria lo aveva
impregnato.2 Da questo punto di vista, un agostiniano non poteva
leggere Avicenna senza essere colpito dalla parentela dottrinale così stretta tra il suo e quel pensiero e senza provare il desiderio di mettersi in un accordo più completo con lui.
A questa ragione puramente filosofica se ne aggiungeva un’altra, più esterna, ma che esercitò tuttavia una certa influenza. Tutti
gli scolastici del XIII secolo, con gradi diversi e con sfumature spesso molto differenti, considerano Aristotele come l’interprete autentico della ragione naturale presa allo stato puro; alcuni lo lodano,
altri al contrario lo disprezzano, ma nessuno dubita che lo sia. Di
contro, se si sa che Aristotele è l’interprete della ragione, non si sa
quale possa essere l’interprete di Aristotele (e tutta la disputa finisce a volte per portarsi su questo solo problema) che, spiegandoci
le intenzioni autentiche di Aristotele, ci farà intendere al contempo
la voce stessa della ragione. È ciò che Alberto Magno esprime nella
maniera più chiara dichiarando: Conveniunt autem omnes Peripatetici in hoc quod Aristoteles verum dixit, quia dicunt quod natura
hunc hominem posuit quasi regulam veritatem, in quo summam
intellectus humani perfectionem demonstravit; sed exponunt eum
diversimode prout congruit unicuique intentioni.3 Ora, la questione
di sapere ciò che aveva veramente pensato Aristotele non interessava soltanto la ragione, ma anche il suo rapporto con la fede: se è
Averroè a essere Aristotele, l’accordo tra la fede e la ragione rimane impossibile; se, al contrario, è Avicenna, l’accordo resta possibile dopo che lo si sia liberato dai suoi errori. Da cui un lavoro di interpretazione, di accomodamento e di adattamento reciproco tra le
due dottrine, ma anche di inevitabili infiltrazioni del pensiero avicenniano nel pensiero agostiniano: la storia di questa contaminazione costituisce la storia dell’agostinismo avicennizzante.
Tuttavia, si rischierà di errare se si parte immediatamente dalla
dottrina dei filosofi agostiniani senza passare da quella di Avicenna, e ci si ingannerà forse su quello che san Tommaso rimprovera
ad Avicenna se non si esaminano le forme, in qualche modo esasperate, dell’avicennismo, che san Tommaso si compiace di biasimare, come per renderci evidente l’assurdità nascosta in cui versa
22 / Étienne Gilson
la dottrina e nella quale l’avicennismo è caduto. Allo stesso tempo,
arriveremo a vedere che il problema della conoscenza non è che un
caso particolare del problema dell’efficacia delle cause seconde e a
scoprire i principi che ne condizionano la soluzione.
I
La critica tomista dei Motecallemin
Tra gli anonimi filosofi che la Summa contra Gentiles condanna, c’è una setta che san Tommaso accusa senza riguardi di stultitia, e il poco che dice della loro dottrina stuzzica la curiosità per il
suo carattere effettivamente eccessivo. Non oseremo affermare di
averli riconosciuti ogni volta che li abbiamo incontrati nella Contra
Gentes, e anzi saremo piuttosto persuasi del contrario; non sarà tuttavia inutile riunire qui alcuni testi che permettono di affermare che
san Tommaso ha conosciuto e preso di mira direttamente la loro
dottrina; una volta stabilita la loro identità, e una volta determinato
l’intermediario per mezzo del quale san Tommaso li ha conosciuti,
diverrà molto più comodo riconoscerli per il ricercatore che si
troverà a incontrarli di nuovo.
Una prima volta, la Contra Gentes rigetta l’errore di alcuni che
dicono che tutto procede da Dio secondo la sua volontà pura e semplice, in modo tale che, di alcuna cosa, non c’è mai altra ragione da
dare se non che Dio l’ha voluta.4 Una seconda volta si trova rigettato
lo stesso errore, senza che veniamo illuminati maggiormente sull’identità di coloro che lo commettono. San Tommaso si è proposto di
stabilire che Dio agisce secondo la sua sapienza, cioè in un modo
analogo, benché trascendente, a quello con cui un essere dotato di
intelligenza compie le sue operazioni: ordinando i mezzi in vista dei
fini. Stabilire questa tesi significa rifiutare una volta ancora l’errore
di coloro che pretendono che tutto dipenda dalla pura e semplice volontà di Dio senza alcuna ragione.5 Riguardo ciò i curatori della grande edizione Leonina rinviano, a margine, al libro III, cap. 97, verso la
fine, e a Rabbi MOYSES, Doctor perplexorum, parte III, cap. 25.6
Indicazioni perfettamente giustificate, come si vedrà in seguito. Esaminiamo infatti il nuovo testo della Contra Gentes al quale siamo
così rinviati. La questione discussa da san Tommaso in questo capi-
24 / Étienne Gilson
tolo è quella di sapere come si eserciti la provvidenza divina nei
confronti delle cose, e la sua risposta – punto di estrema importanza
per risolvere il problema storico di cui cerchiamo la soluzione – è
che Dio amministra le cose tenendo conto della diversità delle loro
forme. Detto altrimenti: si potrebbero concepire due maniere differenti secondo le quali Dio amministrebbe gli esseri; secondo la prima, egli le piegherebbe alla sua volontà senza curarsi della loro natura propria e, al bisogno, violentando le forme che le costituiscono;
secondo l’altra, opposta alla precedente, Dio disporrebbe le cose e le
utilizzerebbe in vista del suo fine, tenendo conto di ciò che ha voluto
che esse fossero e delle forme che lui stesso ha loro conferito. Solo
questa seconda maniera di agire è degna della sua sapienza, ed ecco
dunque rigettato, una volta ancora, l’errore di coloro che dicono che
tutto deriva dalla semplice volontà di Dio senza alcuna ragione7; ma
questa volta san Tommaso aggiunge una preziosa indicazione: coloro che commettono l’errore stigmatizzato sono musulmani: qui est
error loquentium in lege Sarracenorum; ed è Mosè Maimonide che
riporta la loro opinione: ut rabbi Moyses dicit. Questi infedeli insegnano – ci ha detto san Tommaso – che, se il fuoco scalda invece di
raffreddare, è semplicemente perché Dio vuole così. Su questo
occorre innanzitutto intendersi. Si tratta di sostenere che, risalendo
passo passo la serie di cause di un effetto naturale qualsiasi, si finisce
sempre per arrivare a Dio come alla sua prima causa? Ogni filosofo
cristiano si troverà d’accordo. Per esempio, se si domanda perché il
legno si infiamma in presenza del fuoco, la risposta è che l’azione
naturale del fuoco è quella di scaldare; è la sua azione naturale perché: il calore è il suo accidente proprio, questo accidente risulta dalla
sua forma propria e questa forma gli è stata data dalla volontà di Dio.
Ciò non equivale a rispondere: il fuoco scalda il legno perché Dio
l’ha voluto, come se questa risposta e questa causa dispensassero da
ogni altra risposta e ogni altra causa. Gli avversari presi di mira da
san Tommaso, ogni volta che condanna l’arbitrarietà delle spiegazioni per mezzo della pura volontà di Dio, sono dunque dei musulmani, i quali, sopprimendo le forme delle cose, rifiutano di interporre alcuna natura tra i fenomeni e la libera volontà del Creatore.
Una volta attirata l’attenzione sul vero senso di questa critica, ci
si rende conto che si sono lasciati passare gli stessi personaggi sen-
Tommaso contro Agostino / 25
za riconoscerli, nel capitolo 69 del libro III: De opinione eorum qui
rebus naturalibus proprias subtrahunt actiones. In questo passo, la
progressione dialettica della Summa contra Gentiles conduce san
Tommaso al problema del governo divino. Dio esiste; è lui il creatore, e soltanto lui; così come ha creato le cose, così le conserva
nell’essere per mezzo della sua provvidenza, e nulla di ciò che ciascuna di esse fa è fatto, se non in virtù del concorso che Lui presta
loro. Presente ovunque, e immediatamente unito a tutte le cose, egli
non è soltanto la causa in virtù della quale esse sono, ma anche la
causa di ciascuna delle azioni che ciascuna di esse compie quando
agisce: omnes operans operatur per virtutem Dei8; siamo qui di
fronte a una esigenza fondamentale del sistema, essa di conseguenza non patisce alcuna eccezione.
Sembra impossibile riservare in modo più esclusivo a Dio qualsiasi efficacia e negarla in modo più radicale alle cause seconde;
tuttavia san Tommaso, dopo aver affermato l’onnipresenza di Dio
nelle creature e perfino nell’operazione stessa della creatura, si rivolge risolutamente contro l’opinione di coloro che spogliano le
cose naturali delle loro azioni proprie. Certi filosofi che non nomina, ma che ormai riconosciamo, indotti in errore da quanto c’è di
vero nelle conclusioni precedenti, hanno in effetti dedotto che nessuna creatura esercita alcuna efficacia nella produzione di effetti
naturali, così che, anziché dire che il fuoco scalda, bisognerebbe
dire che è Dio a causare il calore in presenza del fuoco, e così via
per tutti gli altri effetti naturali. Ora, dopo aver ricordato la dottrina
analoga di Avicenna, e tutta una serie di argomenti apparentati tratti da Gabirol, san Tommaso aggiunge: certi musulmani passano per
aver invocato in favore di una tale tesi questa ragione, che anche gli
accidenti non risultano dall’azione dei corpi, perché nessun accidente può passare da un corpo in un altro; essi ritengono dunque impossibile che il calore passi da un corpo caldo a un altro corpo scaldato da quello, ma sostengono che tutti gli accidenti di questo genere sono creati da Dio.9
Questa nuova precisazione non può mancare di rinviare lo storico a un altro passo, e di suggerirgli l’idea di aver incontrato gli stessi musulmani anche prima, senza riconoscerli. Nel capitolo 65 del
Libro III, infatti, si tratta di una dottrina quorundam loquentium in
26 / Étienne Gilson
lege Maurorum, in cui gli accidenti vengono menzionati per essere
sottomessi a Dio in una maniera non meno stretta.10 Tuttavia, il punto di vista in cui si pone san Tommaso in questo nuovo testo è alquanto differente, ed è questo che vale per noi come interessante
precisazione sulla dottrina di questi avversari. Il problema che si
tratta di risolvere è quello della conservazione delle cose nell’essere, o, come si dice, della creazione continuata. Avendo dimostrato che Dio regge l’universo per mezzo della sua provvidenza, san
Tommaso ne conclude che Dio conserva le cose nella loro esistenza, ma dopo aver dimostrato questa nuova conclusione, si rivolge
contro gli estremisti che, ancora una volta, cadono dalla verità in
errore per un inopportuno eccesso di zelo. Al fine di meglio provare che l’universo non può sussistere se Dio non lo conserva, questi musulmani cominciano infatti col ridurre tutte le forme dei corpi
a semplici accidenti; poi, affermando che nessun accidente dura per
due istanti, essi mostrano che la formazione delle cose da parte di
Dio è un’opera mai compiuta, sempre in fieri. Sembrerebbe dunque, a credere loro, che le sole cose che richiedono una causa agente siano quelle sempre in fieri. Così, come ammettono che tutti i
corpi sono composti di atomi, e che questi atomi sono le sole cose
che possiedono una certa stabilità, questi filosofi sono conseguenti
con loro stessi nel sostenere che questi atomi potrebbero sussistere
per qualche tempo se Dio sottraesse alle cose l’operazione per mezzo di cui le conserva e le governa. Alcuni di loro vanno ancora oltre
e dichiarano che una cosa non cessa di esistere a meno che Dio non
crei in essa l’accidente della sua distruzione. Che palesi assurdità!
Conclude tranquillamente san Tommaso.
Riassumiamo queste tesi sparse, e diamo loro un ordine provvisorio: otterremo un quadro del genere seguente:
1. I corpi sono composti di atomi.
2. Questi atomi, uniche realtà stabili, potrebbero sopravvivere
solo qualche tempo una volta cessato il concorso divino.
3. Fuori dagli atomi, non esistono che forme accidentali.
4. Nessuno di questi accidenti dura più di un istante.
5. Nessuno, di conseguenza, può passare da un soggetto in un
altro.
6. Da questo risulta che, essendo impossibile qualsiasi azione
Tommaso contro Agostino / 27
transitiva tra due corpi, è l’efficacia di Dio che, sola, può spiegare i
cambiamenti sopravvenuti negli esseri creati.
Le diverse tesi che abbiamo riassunto ci si presentano, nella critica che ne fa san Tommaso, come strettamente apparentate. Ora,
per ciascuna di loro, Tommaso ci indirizza a Maimonide e ci presenta i suoi autori come musulmani: non sorprende dunque che si
possa ritrovare la maggior parte delle altre tesi nel Libro I della Guida dei perplessi.11 Tutte sono state sostenute dai Motecallemin, e le
più eccessive tra loro dalla setta degli Ashariti12; si constaterà, esaminando la loro dottrina, che se la Contra Gentes li ha malmenati
senza posa, non li ha tuttavia traditi; forse ha reso l’insieme di queste tesi più sistematico di quanto non lo fosse originalmente.
Per collocare, almeno in modo grossolano, questa setta nell’insieme del pensiero musulmano, sarà comodo partire dalla distinzione ben nota tra filosofi (Falasifa) e teologi (Motecallemin). I
filosofi, pensatori arabi del tipo di Avicenna, sono principalmente
influenzati dalla filosofia greca; insegnano una fisica fondata sulla
teoria aristotelica delle quattro cause, riconscono l’esistenza di nature e forme che definiscono gli esseri come tali, e cercano, con
Aristotele, in queste nature e forme, il principio delle operazioni
che gli esseri naturali compiono. Contro questi filosofi, e per un
movimento di reazione che fa presagire quello dell’agostinismo
contro il tomismo nel XIII secolo, si rivolgono i teologi, preoccupati di veder conferire alla natura una pericolosa indipendenza nei
confronti dell’onnipotenza assoluta di Allah, ma che nondimeno si
sforzano di trovare nella stessa filosofia il rimedio al male con cui
l’imprudenza dei filosofi minaccia la religione. La dottrina che si
costituisce così, nel II secolo dell’egira, prende il nome di calam,
cioè: parola, o discorso. Dalla parola calam viene il verbo tecallam, che significa: professare il calam; il participio passato di questo verbo è motecallam, al plurale motecallemin, cioè: coloro che
professano il calam. I traduttori ebrei hanno reso quest’ultima parola con il termine Medaberrim, ed è questa traduzione ebraica che
i traduttori latini hanno a loro volta reso col termine: loquentes.13 È
dunque in questo significato preciso che si devono intendere le
formule che abbiamo rilevato in san Tommaso: «error Loquentium
in lege Sarracenorum»; «quidam etiam Loquentes in lege Mauro-
28 / Étienne Gilson
rum»; esse non significano: l’errore di coloro che parlano conformemente alla legge musulmana, ma piuttosto: l’errore di certi teologi musulmani.14
Tra questi teologi, di cui Maimonide ci ha detto che le opere e le
opinioni sono innumerevoli, c’è una setta il cui radicalismo attrae
la sua attenzione, quella dei discepoli di Abou’ l’Hasan’Ali ben
Ismail al Ash’ari, di Bassora (880-940), che noi designeremo col
nome del suo fondatore, Ashariti. Questa setta non era d’altronde
che un ramo di un’altra setta, quella dei Motazilites, o “separati”15,
di cui ugualmente tratta Maimonide. Ora, il nostro primo incontro
con i Motecallemin avviene precisamente in occasione della causalità divina, nel L. I, cap. 68. Alcuni teologi, il cui nome non viene
indicato, rifiutano a Dio il nome di Causa per riservargli quello di
Efficiente; contro questo, Maimonide argomenta secondo l’ordine
delle quattro cause di Aristotele, particolarmente mostrando che
Dio è causa finale di tutte le cose.16 Questo sviluppo fa presagire un
analogo testo di san Tommaso17, probabilmente ispirato da questo,
che si trova immediatamente dopo una critica agli Ashariti in cui
viene espressamente invocata la testimonianza di Maimonide. Sempre a proposito del problema della causalità divina, noi vediamo
comparire di nuovo alcuni teologi nel libro III, cap. 17 della Guida,
ma stavolta vengono nominati. Questa dottrina, dice Buxtorf: est
sectae Assariae inter Ismaelitas. Sono persone che credono che
nulla di ciò che arriva in questo mondo arrivi per accidente, ma che
tutto dipenda immediatamente dalla pura volontà di Dio. Ora, una
delle più curiose conseguenze di questa negazione di qualsiasi evento accidentale, è la negazione delle cause finali; esse divengono
in effetti inutili a partire dal momento in cui ciascun evento si
ricollega immediatamente a una decisione particolare e arbitaria di
Dio. La loro sola risposta alla questione è: le cose accadono come
accadono, perché Dio ha voluto così.18 Gli esempi invocati in
favore di tale tesi in questo passaggio sono presi dall’ordine morale, gli Ashariti vi sembrano preoccupati soprattutto di giustificare
fin da subito qualsiasi condotta di Dio, qualunque essa sia, riguardo
non importa quale uomo. E si tratta forse degli stessi che ritroviamo
stabiliti sul terreno della fisica, nel L. III, cap. 26, in cui Maimonide
prova contro di loro che le opere di Dio discendono dalla sua sa-
Tommaso contro Agostino / 29
pienza, e non dalla sua sola volontà.19 Per san Tommaso, una stretta
parentela unirà questi uomini, che negano l’esistenza delle cause e
degli effetti, a quelli che si accontentano della pura e semplice volontà di Dio per rendere conto dei fenomeni. La struttura dell’occhio, per esempio, non sembra loro assolutamente essere stata voluta da Dio al fine di rendere possibile la vista, poiché Dio avrebbe
potuto farci vedere altrimenti: la ragione vera della struttura dell’occhio non è dunque alcun fine determinato, ma semplicemente che
Dio l’ha voluta così: ita voluit Deus. I termini nei quali san Tommaso riassume la loro dottrina sono pressoché letteralmente tratti
da Maimonide, che lui cita espressamente in questa occasione. Due
differenze meritano tuttavia di essere segnalate.
La prima è che san Tommaso semplifica questi esempi di cui fa
uso Maimonide; egli sceglie come tipo di soppressione dei fini interposti tra la volontà di Dio e i suoi effetti, il caso molto più diretto
del fuoco e del calore, al posto di quello dell’organo della vista.
Questa semplificazione, voluta da san Tommaso, si spiega con la
seconda differenza che dobbiamo qui segnalare. I teologi che negano l’ordine delle cause forse sono gli stessi che vedremo negare
la realtà delle essenze e rifiutare qualsiasi efficacia agli esseri creati; in ogni caso, san Tommaso considererà le loro dottrine come integrate tra loro nel modo più evidente, e non esiterà a tessere le tesi
sparse che Maimonide indica col filo di una medesima deduzione.
Ora, fino a quando non saremo più informati, ci sembra che questa
sistematizzazione appartenga proprio a san Tommaso. Noi non
siamo riusciti, infatti, a ritrovare in Maimonide alcuna menzione
esplicita di questa solidarietà tra la negazione delle cause finali e
quella delle cause efficienti. Nel passo del L. III, cap. 26, in cui
Maimonide si chiede perché i magistri speculationis rifiutino di
ammettere alcuna causa finale, egli risponde semplicemente: è in
accordo con la loro dottrina della creazione del mondo nel tempo;
perché quando si chiede loro perché Dio abbia creato il mondo in
un momento anziché in un altro, essi rispondono che ciò è accaduto
perché Dio ha voluto così.20 Relazione dottrinale innegabile, alla
quale però san Tommaso ne sostituisce un’altra forse più profonda:
la radice di tutta la dottrina è la negazione delle essenze. Per questi
teologi musulmani, che non riconoscono più le forme sostanziali
30 / Étienne Gilson
agli esseri, non è concepibile nessun’altra causalità che quella di
Dio; ciò che non è nulla di definito non ha più ragione di un altro di
produrre un effetto, e la fine della Contra Gentes (L. III, cap. 98)
ricollega fortemente la negazione della provvidenza, per coloro che
insegnano un Dio “volontà pura”, alla loro negazione della forma
propria dei corpi e delle azioni naturali che risultano da quelle forme. Una volta ricostruita questa transizione, san Tommaso trae di
nuovo da Maimonide i suoi insegnamenti.
Se ci si riporta, in effetti, al L. I, cap. 73, della Guida, vi si troveranno riassunte innanzitutto le dodici tesi che Maimonide considera come i fondamenti su cui poggia tutto l’edificio eretto dai Loquentes. Ora, per chi ha letto i passaggi corrispondenti di san Tommaso, la concordanza tra il testo e due delle più curiose tra queste
tesi attira l’attenzione: il tempo è composto di istanti; nessun accidente dura due istanti.21 È sufficiente, allora, leggere l’esposizione
di Maimonide per vedere ricostruire la curiosa dottrina degli avversari a cui si oppone san Tommaso.
In primo luogo, questi teologi sono degli atomisti. Essi insegnano che l’intero universo, e ciascuno dei corpi che lo costituiscono, è
composto di particelle troppo piccole per essere a loro volta divisibili. Ogni particella, presa in sé, è priva di quantità, ma esse acquisiscono quantità riunendosi, e generando così dei corpi. Essi sono,
insomma, dei discepoli molto liberi di Epicuro, salvo per un punto
in cui la loro libertà è tale da farli opporre direttamente al pensiero
del loro maestro: secondo Epicuro, gli atomi sussistono necessariamente ed eternamente; ora, i teologi musulmani vogliono gli atomi
per sottomettere il mondo a Dio, e non per renderlo indipendente da
lui. Ciò spiega una modifica della dottrina di cui Lucrezio non
sarebbe restato poco sorpreso: Dio crea perpetuamente gli atomi
nella misura in cui gli aggrada e, senza questa creazione, nessuno di
loro potrebbe sussistere.22 Per cui noi teniamoci a questo secondo
momento della loro dottrina: il tempo è composto di istanti.
Come nota in effetti Maimonide, questi teologi hanno ben compreso le dimostrazioni con cui Aristotele stabilisce che l’estensione, il tempo e il movimento sono tre realtà corrispondenti e giustificabili, di conseguenza, con la stessa interpretazione [Phys., VI,
2]. Da ciò, essi hanno logicamente concluso che, poiché l’estensio-
Tommaso contro Agostino / 31
ne è composta di atomi, il tempo deve essere composto di istanti,
cioè di atomi di tempo.23 Infine, la sostanza che è l’atomo è sempre
e necessariamente dotata di accidenti, che ne costituiscono le proprietà; punto importante per comprendere la critica tomista della
dottrina, perché questa tesi, formulata dal punto di vista aristotelico, porta a dire che tutte le proprietà dei corpi si spiegano con le
forme accidentali, e mai con forme sostanziali. È d’altronde ciò che
esprime molto bene il latino della vecchia traduzione che san Tommaso aveva sotto gli occhi: formae naturales sunt accidentia (f°
34, V.); e ciò che la Summa contra Gentiles ripete: posuerunt omnes
formas esse accidentia (L. III, cap. 65).
Ciò posto, la dottrina criticata da san Tommaso si deduce da sola. Poiché non esistono che atomi, accidenti di questi atomi e istanti
indivisibili, qualsiasi azione efficace e tranisitiva tra due corpi
diviene impossibile. Ciò che noi chiamiamo un effetto prodotto in
un corpo si riduce, per l’osservatore non prevenuto, all’apparizione
di un nuovo accidente in un certo soggetto. Ora, poiché il tempo è
composto di atomi di durata, questo accidente che è così apparso,
non saprebbe durare da solo più di un istante, e bisognerà di conseguenza che Dio lo crei di nuovo il momento seguente se vuole assicurarne la durata.24 Ma, praticamente, questa affermazione equivale a sostenere che un corpo non possieda mai le sue proprietà in
virtù della sua propria natura, e anche, come dice Maimonide, che
non vi sia per lui né natura delle cose, né legge naturale, non avendo ciascuno di loro, in ciascuno dei momenti della sua durata, che
le proprietà attribuitegli da Dio.25 Dottrina così radicale nella sua
negazione di ogni sostanza propria delle forme naturali che alcuni
tra questi teologi, non credendole neppure capaci di scomparire da
sole, suppongono che Dio sopprimerebbe il mondo creando in esso
l’accidente della fine26, idiozia di cui san Tommaso si è molto divertito: quorum etiam quidam dicunt quod res esse non desineret,
nisi Deus in ipsa accidens decisionis causaret. Quae omnia patet
esse absurda.
Come passerebbe un accidente, dunque, in tali condizioni, da un
soggetto in un altro? Quello che consideriamo come causa non fa
che ricevere a ogni istante ciò che noi, invece, pretendiamo che dia;
e se la successione regolare delle cause e degli effetti riconduce la
32 / Étienne Gilson
nostra immaginazione all’ipotesi di una natura, pensiamo che questa regolarità risulti da una semplice consuetudine stabilita da Dio
nelle cose. Ritroviamo qui non solo la tesi, ma l’argomentazione
stessa che san Tommaso attribuisce a questi musulmani: «Essi ammettono dunque, di comune accordo, che questa stoffa bianca che è
stata calata nella vasca di indaco, e che è stata tinta, non è l’indaco
ad averla resa nera; perché il nero è un accidente nel corpo dell’indaco e non saprebbe passare a un altro corpo. Non c’è assolutamente nessun corpo che eserciti un’azione; l’ultimo efficiente non
è altri che Dio, ed è lui che ha fatto nascere il nero nel corpo della
stoffa, quando essa si è unita all’indaco, perché tale è l’abitudine
che è stabilita...27 La maggior parte tra loro (cioè, i Motecallemin),
e segnatamente tutti gli Ashariti, ritengono che, per il movimento
di una penna Dio abbia creato quattro accidenti, che non servono
come cause gli uni degli altri, e che soltanto coesistono assieme. Il
primo accidente è la mia volontà di muovere la mia penna; il secondo accidente, è la facoltà che io ho di muoverla; il terzo accidente è il movimento umano, vale a dire, il movimento della mano;
infine, il quarto accidente è il movimento della penna. In effetti,
essi pretendono che, quando l’uomo vuole una cosa e si sforza di
farla, almeno così gli sembra, gli è stata creata innanzitutto la volontà, poi la facoltà di fare ciò che voleva fare, e infine l’azione
stessa; perché non agisce affatto per mezzo della facoltà creata in
lui, la quale non alcuna influenza sull’azione».28
Tale è l’economia generale di questa stultitia che san Tommaso
e Maimonide sono d’accordo nel considerare come uno scherzo29,
e che prefigura, in una forma rudimentale, una sorta di occasionalismo à la Malebranche: lo stesso desiderio di riservare a Dio ogni
efficacia conduce a rifiutarla interamente alle creature. Da questa
comparazione tra san Tommaso e Maimonide risulta che gli avversari criticati nei testi della Contra Gentes che abbiamo citato sono i
Motecallemin e, per le loro tesi più eccessive, la setta Asharita; che
san Tommaso li ha conosciuti attraverso la Guida dei perplessi30;
che egli ne ha fedelmente, talvolta perfino letteralmente, riprodotto
le espressioni, in tre differenti occasioni: 1) Egli ne semplifica gli
esempi, sostituendo il caso manifesto del fuoco che potrebbe raffreddare invece di scaldare, al caso invocato da Maimonide: l’uo-
Tommaso contro Agostino / 33
mo non è naturalmente più atto a pensare di un pipistrello31; 2) noi
non abbiamo trovato da nessuna parte, esplicitamente formulata da
Maimonide, la tesi secondo la quale gli atomi potrebbero sussistere
qualche tempo senza il concorso divino; essa è suggerita da tutto il
testo che non ragiona se non degli accidenti e che parla perfino di
certi dissidenti che ammettono la permanenza di certi accidenti,
senza d’altronde, farne il catalogo32; 3) anziché centrare la dottrina
asharita sul disegno di stabilire la creazione nel tempo, come aveva
fatto Maimonide, san Tommaso la organizza interamente attorno
alla negazione delle essenze e delle forme sostanziali, da cui risultano le conseguenze che lo abbiamo visto condannare: tutto dipende dalla pura volontà di Dio, escludendo la sua ragione (Cont. Gent.,
II, 24); è la volontà di Dio che rende ragione da sola di tutti gli effetti naturali, escludendo qualsiasi natura dei corpi (Cont. Gent., III,
97); è l’efficacia di Dio che produce da sola tutti gli effetti naturali,
escludendo qualsiasi efficacia dei corpi (Cont. Gent., III, 69); è la
conservazione del mondo da parte di Dio che trattiene da sola la
conservazione delle cose, escludendo qualsiasi sostanza interposta
tra la permanenza di Dio e il flusso continuo degli accidenti (Cont.
Gent., III, 65).
Resta da considerare la critica rivolta da san Tommaso contro
questa dottrina. Abbiamo visto che la maltratta assai severamente,
ma questo non per dispensarsi dall’argomentare contro di essa, poiché, nonostante sia poco pericolosa a causa del suo carattere quasi
mostruoso, essa presenta almeno questo interesse: il formulare un
errore allo stato puro. Ben pochi filosofi accetterebbero di arrivare
fino a quel punto; ragione di più per distruggere sotto i loro occhi
una tesi che essi ricusano, ma che forse non è che l’abbozzo logico
della loro dottrina. Dei numerosi argomenti che la Summa contra
Gentiles dirige contro questo errore, si possono dipanare le direzioni dottrinali seguenti.
Innanzitutto, una filosofia che rifiuta qualsiasi azione propria
alle cause seconde, soprattutto corporali, per riservare al solo Dio
tutta l’efficacia, entra in contraddizione con l’evidente testimonianza dei sensi. In effetti, Dio è immutevole, cosa su cui tutti concordano; non è dunque nel suo essere che si può trovare l’origine della
diversità che noi constatiamo nelle operazioni delle cose. Ora, se
34 / Étienne Gilson
supponiamo che non vi siano nature o forme differenti, interposte
tra l’operazione immutabile per mezzo della quale Dio agisce nelle
cose e gli effetti prodotti da loro, non si vede alcuna ragione perché
l’azione di Dio produca effetti differenti. Hoc autem ad sensum apparet falsum. I sensi non sono sempre testimoni irrecusabili, ma
non si può tuttavia argomentare contro la loro esperienza più evidente: ci sono nature differenti, e ciascuna natura determinata produce effetti determinati. Il fuoco scalda sempre e non raffredda mai;
un uomo non genera mai altra cosa se non un uomo; in presenza di
una tale diversità negli effetti di una causa perfettamente una e
semplice, è dunque impossibile negare l’esistenza di una pluralità
di cause interposte.33
Poi, san Tommaso si sforza di soddisfare, in ciò che esso ha di
legittimo, il sentimento di rispetto per la grandezza divina a cui si
ispira la tesi che egli vuole criticare. Sarebbe poco, in effetti, mostrare che una tale dottrina sia falsa; bisogna soprattutto mostrare ai
suoi seguaci che essa va esattamente contro le loro intenzioni.
Perché ciò che attesta la grandezza dell’autore, è la perfezione della
sua opera; ora, creare esseri incapaci di agire, senza che si possano
trasmettere gli uni gli altri qualcosa dell’efficacia divina, privati di
quell’attività propria che ne fa delle nature distinte e rende possibile un ordine universale, è veramente dar prova migliore di perfezione che creare un mondo di nature attive, distinte e ordinate?34 Sottrarre alle creature le loro operazioni proprie, diminuendo la loro
dignità, è sottrarre qualche cosa alla gloria di Dio.
Inoltre, negare che i corpi siano capaci di agire, è distruggere la
possibilità di qualsiasi scienza; perché noi conosciamo le cause
solo per i loro effetti; se dunque supponiamo che i corpi non siano
dotati di alcuna efficacia per produrre i loro effetti, noi non avremo
nessun appiglio per conoscere le loro nature proprie, cosa che porta
a dire che la scienza verrà resa impossibile.35 E si noterà infine ciò
che ha di ridicolo l’obiezione degli Ashariti, che un corpo non può
agire perché un accidente non passa da un soggetto in un altro soggetto. L’azione che un corpo esercita non consiste, infatti, nel far
passare l’accidente che esso possiede in un corpo sul quale esso agisce, non più che nello spogliarsi della sua forma per conferirgliela.
Agire è, in quanto atto, riportare all’atto ciò che è in potenza ri-
Tommaso contro Agostino / 35
guardo questo stesso atto. Quando dunque un corpo scalda un altro,
non è che il calore che si trova nel corpo caldo possa passare, numericamente identico, nel corpo scaldato; ma è che, in virtù del calore
contenuto nel corpo che scalda, un altro calore, numericamente distinto, e che si trovava in potenza nel corpo scaldato, viene a svilupparsi.36 L’efficacia di un’azione transitiva può dunque essere reale
senza che i corpi siano necessariamente capaci di scambiarsi accidenti tra loro.
Ma in verità, non è la tesi nella sua versione pura che richiede
uno sforzo appropriato di critica, quanto piuttosto le sue forme meno facilmente riconoscibili, precisamente quelle che ne sono forme
attenuate, e tale è segnatamente il caso della dottrina insegnata da
Gabirol, che san Tommaso prende immediatamente a esaminare.
II
La critica tomista di Ibn Gabirol
Quando si analizza da vicino il testo precedente della Contra
Gentes, per cavarne quel che è rivolto contro gli Ashariti, non si
può mancare di essere colpiti da questo fatto, che la loro dottrina vi
è esposta e criticata in connessione con altre dottrine, in particolare
quelle di Ibn Gabirol e di Avicenna. È come se, al fianco delle dottrine che sottraevano radicalmente alle cose le loro operazioni proprie, Tommaso ne prendesse di mira altre che, pur senza rifiutare
alle cose ogni attività, non attribuivano loro tuttavia tutta l’efficacia alla quale esse hanno diritto. È dunque da questo punto di vista
che conviene inquadrare questa sua critica, e lui stesso suggerisce
l’ordine secondo il quale si trarrà profitto a esaminarle. San Tommaso le discute in ordine decrescente di radicalismo; intendiamo con
ciò, che dopo aver esposto la dottrina che rifiuta qualsiasi efficacia
alle cose, san Tommaso esporrà quella che vi si avvicina di più, cioè
la dottrina di Gabirol; poi una dottrina ancor meno radicale, ma ispirata allo stesso spirito, quella di Avicenna, per mezzo della quale si
troverà alla fine condotto ad alcuni dei suoi contemporanei.
Ibn Gabirol, come si sa, non è che l’Avicebron di san Tommaso
e degli altri filosofi scolastici37, che citarono frequentemente il Fons
vitae o come un’autorità dottrinale, o al contrario per criticarlo.38
Qui, san Tommaso allega alcune delle sue tesi come di un autore la
cui opinione si accorda parzialmente con quella degli Ashariti; più
tardi, nella Summa Theologiae, userà ancora meno riguardi e parlerà di lui come se si trattasse di uno dei teologi musulmani che rifiutano completamente ai corpi qualsiasi efficacia39; continuiamo
dunque a seguire l’idea direttrice a cui la critica dell’atomismo arabo si ispirava.
In verità, non è per niente azzardato se si mette in relazione la discussione delle tesi del Fons vitae a quelle degli Ashariti, perché
Tommaso contro Agostino / 37
malgrado le differenze evidenti e molto considerevoli che separano
le due dottrine, esse procedono entrambe con lo stesso spirito. Anche per Ibn Gabirol l’oggetto della filosofia è la collocazione di una
volontà all’origine delle cose e la costruzione di un universo interamente permeabile all’efficacia da cui deriva. Niente del suo pensiero è più caratteristico dell’insistenza con cui richiama questa tesi
fondamentale e dell’energia con la quale egli la formula. Per lui è
un gran segreto e una verità profonda che tutto ciò che esiste sia
sotto il dominio della volontà, e che tutto dipenda da lei. Le cose
non sono in effetti quelle che sono se non perché certe forme, che le
definiscono, si trovano a essere state impresse nella materia che le
sostiene. Dunque il perché dell’esistenza delle cose non si trova
nella natura delle cose, ma nella scienza della volontà che ha donato loro l’essere: hoc enim continetur in scientia de voluntate. Cercare perché ci siano proprio le cose che attualmente esistono, è cercare la ragion d’essere dei generi, delle specie e degli individui; ma
dato che è la volontà a mettere ogni forma sussistente nella materia
e a portarla fino a quel termine ultimo della materia in cui essa sussiste; dato che è ancora la volontà che penetra tutto, che contiene
tutto, e che la forma segue la volontà obbedendole, bisogna necessariamente che l’impressione delle forme generiche, specifiche e
individuali in seno alla materia sia stata fatta in virtù di ciò che la
volontà ha voluto.40 Questa visione di un universo nato da una volontà, dominato da essa e – per così dire – appeso a essa, è esattamente quella che ci suggerisce tutta la dottrina di Gabirol: omnia
quaecumque sunt, coarctata sunt sub voluntate, et omnia pendent
ex ea.
Ma, è chiaro, in un universo di questo genere non vi è un’efficacia dei corpi maggiore di quella che c’è nel mondo d’atomi immaginato dagli Ashariti, benché la loro impotenza si spieghi con altre
ragioni. In questo universo che la volontà divina contiene e penetra
totalmente, tutto ciò che si fa non può esser fatto se non in virtù dell’azione prima che tutto muove e tutto penetra. Lo spettacolo di un’attività universale, che ci viene dato dal mondo degli esseri, non è
dunque fallace, ma a condizione tuttavia che noi sappiamo interpretarlo: tutta questa attività non rappresenta niente di più che la diffusione attraverso il mondo dell’efficacia unica e prima di Dio. Si tol-
38 / Étienne Gilson
ga col pensiero questa energia spirituale: ecco le cose inerti e prive
di movimento. Su ciò si osserveranno due cose. Innanzitutto, san
Tommaso riprende il pensiero di Gabirol con una fedeltà letterale,
quando dichiara: «Propter has igitur rationes ponit Avicebron quod
nullum corpus est activum, sed quod virtus substantiae spiritualis,
pertransiens per corpora, agit actiones quae per corpora fieri videntur»; la formula originale di Gabirol era la seguente: nisi esset
vis spiritualis agens, penetrabilis per haec corpora, nec moverentur, nec agerent.41 Poi, la dottrina di Gabirol sulla mancanza di efficacia delle creature fa tutt’uno, nel suo pensiero, con quella dell’onnipresenza di Dio nelle cose, cosa che spiega l’ordine stesso dei capitoli in questa parte della Summa contra Gentiles: perché san Tommaso vi stabilisce anzitutto che Dio è presente in ciascun essere così come in ciascuna delle sue operazioni, tesi che ha in comune con
Gabirol, dopo di che aggiunge: Ex hoc autem quidam occasionem
errandi sumpserunt...42 L’errore che prende di mira consiste dunque
nel fatto che Gabirol e i suoi simili non riuscivano a comprendere
che Dio sia presente in ogni operazione di ogni creatura e che, simultaneamente, ciascuna cosa rimanga tuttavia la causa efficace
della sua operazione. Tra gli argomenti invocati da Gabirol in favore della sua tesi, san Tommaso sceglie quelli che considera come i
più caratteristici al fine di discuterli.
La prova dell’importanza che attribuisce a questa dottrina sta
nel fatto che dopo aver discusso alcune prove di Gabirol nella Contra Gentes, san Tommaso le riprenderà di nuovo nel redigere la Summa Theologiae; ora, nell’una o nell’altra redazione, la fedeltà di san
Tommaso al testo originale è a volte talmente letterale che non si
può affatto dubitare che egli, nel riprenderlo, abbia avuto sotto gli
occhi il testo della traduzione latina.
Il primo degli argomenti di Gabirol che riporta la Summa contra
Gentiles è in effetti quello che, tra tutti, si trova più vicino al centro
della dottrina sviluppata dal Fons vitae. La sostanza materiale vi è
definita come essenzialmente passiva: ipsa est patiens; [...] haec
substantia non est agens sed patiens; e non si vede in effetti quale
altra distinzione abbia potuto separare la materia dallo spirito, in
una filosofia in cui lo spirito si definisce come la stessa attività universale. Da qui, le osservazioni più sommarie sarebbero sufficienti
Tommaso contro Agostino / 39
a verificare la dottrina perché esse mettono in evidenza il ritardo e
la passività che ogni materia oppone ai princìpi del movimento:
un’aria ispessita dai vapori diviene opaca e si oppone al passaggio
della luce; ora, la luce si apparenta col principio spirituale e attivo43, dunque la materia che si oppone al suo movimento di trasmissione si apparenta con l’elemento corporeo e passivo. Gabirol formula d’altronde la legge generale con cui rileva tutti i casi di questo
genere, in termini che non lasciano sussistere alcuna ambiguità: poiché un corpo è tanto meno mobile e attivo quanto più la sua quantità
diviene grande, nessuna sostanza corporea, in quanto tale, è dunque
dotata di attività.44 Argomento che poggia, secondo san Tommaso,
su molteplici confusioni, ma principalmente sull’ignoranza di ciò
che una sostanza corporea veramente è, e delle condizioni richieste
perché la sua forma possa agire. Gabirol ragiona in effetti come se
le azioni esercitate nei corpi provenissero dalle forme pure; in altri
termini, dall’essere la forma veramente il principio attivo degli esseri, egli conclude a torto che la forma vi agisca allo stato puro. Ma
è qui che sta l’errore. Se la forma del fuoco esistesse a parte, sotto
forma di idea platonica, essendo il fuoco in generale, essa non potrebbe produrre che il fuoco in generale; ed essendo forma pura, attività pura, è vero che nell’unirsi alla materia, questo fuoco in generale non potrebbe che perdere la sua attualità, dunque – agendo
ogni cosa fin tanto che è in atto – la sua attività. Solamente, questa
forma universale del fuoco non è che una chimera, e ciò che esiste
realmente è quel fuoco particolare che genera come effetto quell’altro fuoco particolare. Ed è sempre così, di qualsiasi forma si tratti.
Ora, se si ragiona su queste forme unite alla materia così come ci
sono date, è falso dire che la materia alla quale esse sono unite
diminuisca la loro attività ed è vero esattamente il contrario. Per un
grado di calore ugualmente intenso, più un corpo è grande, più
scalda; per una tendenza a cadere ugualmente intensa, più un corpo
grave è grande, più velocemente cade. E la controprova non fa d’altronde che verificare questa tesi, perché se si imprime a un corpo
grave un movimento lanciandolo dal basso all’alto, più sarà grande, più la sua resistenza al movimento sarà grande; ora, ciò che contrasta il movimento forzato di un corpo non può che favorire il suo
movimento naturale; la quantità di un corpo d’altronde, a parità di
40 / Étienne Gilson
condizioni, accresce la sua facoltà di agire piuttosto di diminuirla45
e, di conseguenza, l’argomento di Gabirol si rivolge contro la tesi
che pretende di dimostrare.
Il secondo argomento del Fons vitae riportato dalla Summa contra Gentiles è riassunto più concisamente, ma in modo non meno
fedele. Ogni paziente è sottomesso a un agente, e ogni agente, salvo
la Causa prima, richiede un soggetto inferiore che sia sottomesso
alla sua azione. Ora, non esiste sostanza inferiore alla sostanza corporale e sulla quale essa possa agire; dunque nessun corpo è dotato
di attività.46 Argomento non meno sommario del precedente, e che
commette sulla materia l’errore che l’altro commetteva sulla forma. Gabirol in effetti ragiona sui corpi materiali come se ciascuno
di loro non fosse che materia pura; ma allora ciascuno di loro sarebbe materia prima, cioè una semplice astrazione che non si trova in
natura più della forma del fuoco di cui parlano i platonici. Ragioniamo dunque, questa volta ancora, sulla sostanza reale, che è composta di materia e di forma, e vedremo di nuovo l’argomento di Gabirol rivoltarsi contro di lui. In effetti, è vero che la sostanza corporale si trova collocata al più basso grado dell’ordine universale, ma
non risulta da ciò che i corpi siano privati di qualsiasi attività, perché ci sono un ordine e una gerarchia tra i corpi medesimi, e anche
l’ultimo (il più basso) resta capace di agire. Per comprendere questo, basta ricordarsi che un corpo è sempre composto di materia e di
forma, passivo per la sua materia, ma attivo per la sua forma. Un
corpo può dunque sempre agire per mezzo della sua forma sulla
materia di un altro corpo e viceversa.47 Basta dunque rinunciare alla chimera di un corpo senza forma per veder svanire questo universo di assoluta passività.
Il terzo argomento di Gabirol che riporta la Contra Gentes è ancor più diretto e semplice: di tutti gli esseri, è la sostanza corporale
che si trova più lontano dalla prima causa attiva che è Dio; non
sembra dunque che l’efficacia della causa prima riesca a pervenire
fino alla sostanza corporale, ma dato che Dio è azione pura, la sostanza corporale, che è al livello più basso della scala degli esseri è
pura passività.48 Obiezione che deriva dalla stessa origine dell’argomento precedente, ma che san Tommaso, per conferirgli una forma più precisa, forza un po’ nel riprenderlo. Gabirol dice in effetti
Tommaso contro Agostino / 41
semplicemente che la materia, essendo il più infimo degli esseri, è
troppo lontana dalla causa prima per partecipare ancora della sua
efficacia; san Tommaso affronta l’argomento così come lui l’avrebbe formulato: i corpi sono non soltanto molto lontani da Dio, ma all’estremità assolutamente opposta della scala degli esseri: ora, Dio
è atto puro, dunque i corpi sono pura passività. E allora, ragionando
su questa nuova formula, san Tommaso osserva di nuovo che ciò
che è all’estremo opposto rispetto all’atto puro, non sono i corpi,
ma la materia prima. È la materia prima, questa pura astrazione, che
per definizione subisce tutto e non fa nulla. Ma i corpi, per quanto
siano lontani da Dio, non lo sono tuttavia più del possibile, poiché
sono composti di materia e di forma e poiché, per mezzo della loro
forma, partecipano della somiglianza divina. È questa forma a essere il principio della loro attività, così come ciò che essi hanno di
materia è, in loro, il principio della loro passività.49 Qui Gabirol ha
confuso ancora le sostanze materiali con la definizione della materia; egli ha dunque ragionato su una pura astrazione.
Questi argomenti di Gabirol sono passati tali e quali dalla Summa contra Gentiles alla Summa theologiae, ma, in quest’ultima
opera, li troviamo incastonati tra due obiezioni tratte da sant’Agostino, come se avesse detto, o almeno così sembrava, qualcosa di analogo a ciò che doveva insegnare Gabirol. Questo accostamento,
che noi troviamo qui effettuato per la prima volta, sarebbe già suggestivo per se stesso; ma esso lo diventa ancor di più quando si esamina da vicino il tenore esatto di queste due obiezioni. La prima,
che rinvia al De civitate Dei, potrebbe in realtà perfettamente rinviare al Fons vitae, di cui essa richiama ancor più da vicino la redazione, a un punto tale che viene da chiedersi se non sia una quarta
obiezione a Gabirol che san Tommaso riproduce, coprendola però
questa volta con l’autorità di Agostino.50 Quanto alla seconda, che
rinvia al De trinitate, essa richiama fino a trarre in inganno l’argomento tipico degli Ashariti criticato nella Summa contra Gentiles:
un corpo non agisce mai su un altro perché un accidente non può
mai passare dal suo soggetto in un altro51; l’accostamento è ancor
più inevitabile perché la Summa non fa alcuna menzione esplicita
dei teologi arabi, e di conseguenza l’argomento agostiniano sembra
venir qui a riempire naturalmente il vuoto lasciato dalla loro assen-
42 / Étienne Gilson
za. Questo doppio accostamento di testi suggerisce dunque una
ipotesi, che conviene valutare per vedere se altri fatti analoghi non
vengano in seguito a confermarla: san Tommaso accosta intenzionalmente una dottrina che lui rifiuta a testi di sant’Agostino che
sembravano coprirla con la loro autorità. Ora, nei due casi, la sua
maniera di procedere riguardo questi testi è istruttiva: comincia con
liberare Agostino interpretandolo, se può farlo, secondo il suo senso proprio, poi rifiuta l’errore che conteneva il suo testo nel caso in
cui si pretendeva di interpretarlo altrimenti. Per la prima obiezione,
sottolinea innanzitutto che Agostino parla della natura corporea in
generale, che non ha altra natura inferiore su cui agire, ma non nega
affatto che un corpo particolare possa agire su un altro; se si volesse
fargli sostenere quest’ultima tesi (che in verità non ha per niente sostenuto), gli si farebbero confondere i corpi con la materia prima.
Quanto alla quinta obiezione, san Tommaso non libera sant’Agostino, ma riafferma semplicemente, come aveva fatto contro gli Ashariti nella Summa contra Gentiles, che i corpi possiedono forme
sostanziali e che l’azione che un accidente esercita non consiste nel
passare da un soggetto in un altro soggetto.52
Nello scindere queste critiche di Gabirol, o di tutti coloro che potrebbero essere compromessi con lui, dallo spirito che le anima, si
arriva alla conclusione che la radice del loro errore sia il non avere
compreso la natura vera della sostanza corporale. Invece di ragionare sul composto sostanziale di forma e materia che è il vero corpo, egli ragiona sempre su idee pure, che sono quindi puramente
attive, e su una materia pura, che diviene allora puramente passiva
e privata di qualsiasi efficacia. Ma cos’è una tale dottrina se non la
stessa dottrina di Platone? Peggio ancora. Perché Platone almeno
ammetteva nella materia un certo numero di principi accidentali che
le appartenevano in proprio, come la diade del grande e del piccolo,
o quella del rarefatto e del denso53, invece di lasciare come Gabirol
una sorta di materia prima totalmente nuda alla mercé delle idee.
La dottrina del Fons vitae, fondando il rifiuto di qualsiasi efficacia
propria delle creature sull’incomprensione della loro natura sostanziale, ci apparirà alla fine dei conti come una sorta di platonismo
esasperato. Ma altri platonici si sono mostrati più moderati, e anche
più fedeli al pensiero del maestro, ponendo di nuovo delle disposi-
Tommaso contro Agostino / 43
zioni accidentali proprie ai corpi tra la materia prima e le idee. Tale
è almeno la soluzione del problema alla quale noi vedremo si fermerà Avicenna, e sulla quale si eserciterà la critica di san Tommaso.
III
L’avicennismo
1. La critica di san Tommaso ad Avicenna
Agli occhi di san Tommaso, la dottrina di Avicenna presentava
l’interesse di mostrare con eccezionale chiarezza il legame che collega la cosmologia alla teoria della conoscenza.54 È dunque, come
fa lo stesso Avicenna, dal Dio uno e necessario che conviene partire. Incorporeo, indivisibile, questo essere primo non potrebbe avere alcuna causa, né efficiente, né materiale, né formale, né finale:
pena la perdita della sua necessità. Ora, un essere che non ha causa
finale non può produrre esseri differenti da lui con un’intenzione
analoga a quelle che guidano i nostri atti, poiché questo essere agirebbe in vista di altro da sé e cadrebbe sotto la determinazione della
causa finale; di più, agirebbe in vista di qualche cosa di inferiore a
se stesso, cosa che è assurda; e infine, l’essere primo diverrebbe per
la stessa ragione un essere multiplo, dato che si dovrebbe distinguere in lui la bontà della cosa che gliel’ha resa desiderabile, la conoscenza che lui avrebbe di questa bontà, l’intenzione che egli avrebbe di acquisirla: tutte conseguenze inammissibili. La sola maniera
di concepire la produzione del mondo da parte di un Dio così necessario e semplice è dunque di rappresentarselo come una intelligenza pura, che conosce se stessa, così come tutto ciò che può risultare
da lei e che, per amore della sua stessa gloria, non si oppone al fatto
che tutti questi beni derivino da lei.55
In queste condizioni, l’essere creato che genera un atto uno e
semplice non può essere a sua volta che uno e semplice. Se, infatti,
ammettiamo che due esistenze distinte provengano immediatamente
da Dio, o due essenze distinte capaci di comporre, per mezzo della
loro unione, un solo e medesimo essere – come una materia e una
forma – dovremo anche ammettere nell’essenza divina due modi
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differenti da cui questi esseri possano provenire, e la molteplicità
degli effetti di Dio, traendo origine dalla sua essenza, ne romperà la
semplicità. Ora, se ammettiamo che l’uno, in quanto uno, non può
produrre che l’uno, non abbiamo scelta riguardo la natura dell’essere che produrrà: questo non sarà una materia, dato che la materia
è principio di molteplicità e diversità; non sarà la forma di una materia, dato che noi ci imbatteremmo in una prima dualità, inconciliabile con la semplicità perfetta dell’essere divino; esso non può
essere dunque che un’Intelligenza pura, una e semplice, libera da
tutta la materia, e che non anima alcun corpo.56
Una e semplice, diciamo noi, ma non di un’unità perfetta e neanche di una semplicità perfetta. Il primo causato da Dio, per quanto
vicino sia all’unità prima, è tuttavia l’intermediario per mezzo del
quale si genererà tutta la molteplicità degli esseri particolari. Ora,
niente di ciò che serve da mezzo può essere unità pura, dato che
partecipa in qualche modo di ciascuno dei due esseri che mette in
rapporto57; è dunque la molteplicità virtuale di questo primo causato che renderà conto della pluralità degli esseri che ne vedremo derivare. Dove nasce questa molteplicità?
Sia posta la prima Intelligenza pura, che consideriamo essere il
primo causato da Dio. In quanto deriva dal primo Essere, essa è necessaria; ma, presa in se stessa, essa non è che possibile, dato che
nulla costringeva il Primo a causarla. Fin dalla produzione iniziale
del primo causato, noi vediamo dunque generarsi una dualità58,
senza tuttavia che la prima causa ne sia in alcun modo affetta. E
questa prima dualità fa ben presto sorgere un terzo termine. La prima Intelligenza, infatti, conosce necessariamente il primo Essere;
ma essa si conosce come necessaria per mezzo di lui; e si conosce
infine come possibile per mezzo di se stessa; è dunque, in realtà,
con una triade di atti che noi abbiamo a che fare fin dall’origine delle cose, benché l’essenza prodotta da Dio sia puramente una in tutto
ciò che deriva dal principio del suo essere. Una volta compreso questo, il più difficile è fatto, perché abbiamo ciò con cui generare la
prima sfera, e da lì tutte le altre, fino a quella che contiene la Terra.
L’atto per mezzo di cui la prima Intelligenza conosce il primo Essere, genera l’Intelligenza che gli è immediatamente inferiore; l’atto per mezzo del quale essa si conosce come necessaria in virtù del
46 / Étienne Gilson
primo Essere, genera l’anima della sfera ultima; l’atto per il quale
si conosce come possibile in se stessa, genera il corpo di questa
stessa sfera. La seconda Intelligenza, che è dunque l’Intelligenza di
Saturno, genera a sua volta la terza, ovvero l’Intelligenza di Giove,
per mezzo dell’atto col quale conosce il primo Essere; in quanto si
conosce come necessaria, essa genera la sfera di Saturno; in quanto
si conosce come possibile, essa genera i corpi di questa sfera, e così
via fino all’Intelligenza agente, all’influsso della quale noi siamo
direttamente sottomessi.59
Ne consegue che il problema posto dalle operazioni delle cause
seconde in generale, e dell’uomo in particolare, non è che un caso
del problema universale della produzione degli esseri. Se la filosofia di Avicenna ricorre all’influsso di un’Intelligenza agente per
rendere ragione della generazione della forme sensibili e intelligibili, è perché, in effetti, il loro apparire si spiega con una triade analoga a quella di cui si compongono le sfere celesti superiori.
Vengono tuttavia introdotte alcune modifiche a questo livello, il
più basso della gerarchia universale. Fino alla sfera della Luna, tutto va come nel caso del primo causato; ma l’Intelligenza della Luna
genera un’ultima Intelligenza pura che, anziché generare i corpi e
l’anima di una sfera, produce le anime umane e i quattro elementi
della Terra che noi abitiamo.60 Conoscendosi come necessaria, essa dà origine alle nostre anime; conoscendosi come possibile, dà
origine agli elementi.
La generazione dei quattro elementi a opera di un’Intelligenza pura
fa sorgere evidentemente una difficoltà; non, come ci si potrebbe aspettare, dal punto di vista della loro materia, ma dal punto di vista delle loro forme. In effetti, la materia degli elementi è una, poiché è in
virtù di essa che gli elementi sono tali; l’Intelligenza può dunque produrla senza dividersi. Di contro, le loro forme sono molteplici, e per
conseguenza la comparsa dell’acqua, della terra, dell’aria e del fuoco
costituisce un difficile problema.
Innanzitutto, si può risolvere quello della pluralità di queste quattro forme elementari. Esse si riducono in effetti alle idee dei quattro
esseri possibili, che Dio pensa pensandosi, e le cui forme sono conosciute dalle Intelligenze in quanto esse conoscono Dio.61 Più difficile è quello della loro realizzazione nella materia a opera di un’In-
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telligenza pura e che non deve dividersi. È qui che si introduce nell’Avicennismo la nozione caratteristica di praeparatio. Si dice di
una materia che è preparata a ricevere una forma quando è perfettamente disposta a riceverla, cioè, quando essa è in una disposizione tale, che la forma corrispondente non può, per così dire, far altro
che posarvisi.62 Il ruolo degli “avvicinatori”, o “preparatori” è dunque decisivo in questa metafisica, poiché spiega come una causa
agente, generando senza posa una pluralità di forme, può variare la
distribuzione di queste forme senza derogare alla propria semplicità.63 Qui, sono i movimenti diversi delle sfere celesti che, agendo
sulla materia elementare, la preparano alla ricezione di una forma
anziché di un’altra, ed è l’ultima Intelligenza che gliela conferirà.
A queste condizioni, la spiegazione di una forma qualunque presuppone sempre, agli occhi di Avicenna, l’intervento di tre elementi: una materia, un preparatore di questa materia, l’Intelligenza che
dà forma alla materia così preparata. Per questa ragione l’ultima Intelligenza, generata da quella della Luna, riceve il nome di Intelligenza agente, e gioca il ruolo di una distributrice universale di
forme intelligibili di cui essa è piena – è il dator formarum di cui
parla san Tommaso – nella misura in cui la materia elementare si
prepara a riceverle. Ciò è vero, come abbiamo visto, per la generazione delle forme naturali; il caso sarebbe lo stesso se si trattasse
di spiegare come quel “preparatore”, che è il medico, genera la salute64; e il caso sarebbe ancora identico se si volesse spiegare come
quel “preparatore”, che è l’immaginazione, genera in noi la conoscenza dell’intelligibile. In realtà, è la sola Intelligenza agente a generare la salute nei corpi e l’intelligibile nel pensiero, a cui la materia, organica o immaginativa, si trova convenientemente adattata.
Nel caso particolare della conoscenza umana, le cose vanno nel
modo seguente. Il fatto iniziale da spiegare è come un’anima, che
dapprima non pensava un’idea, e di conseguenza non era intelligente se non in potenza rispetto a tale idea, venga a pensarla, cioè
diventi intelligente in atto riguardo quest’idea. Perché l’anima passi così dalla potenza all’atto, è necessaria una causa che possieda in
atto l’idea in questione e la conferisca all’anima. Questa causa non
può essere altro che l’Intelligenza separata, che possiede in sé tutte
le forme intelligibili, e può conferirle a noi. In effetti, l’Intelligenza
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si comporta riguardo il nostro intelletto come il sole riguardo la nostra vista. Il sole è, rispetto a sé, visibile come l’Intelligenza è, rispetto a sé, intelligibile; e il sole ci rende visibili in atto, per mezzo
della sua luce, gli oggetti che erano visibili solo in potenza finché si
trovavano nell’oscurità, come l’Intelligenza ci rende intelligibili in
atto le idee che erano intelligibili solo in potenza prima di essere illuminate da essa. Come si esercita l’influsso dell’Intelligenza sulla
nostra anima?
I sensi mettono a nostra disposizione i dati sensibili, che si conservano nell’immaginazione. La nostra ragione considera questi
dati sensibili, ed è in seguito a questa considerazione (consideratio,
cogitatio) che la forma astratta di tutti gli elementi sensibili e materiali appare nell’intelletto. Questa astrazione non dipende dal fatto che i sensibili singolari presenti nell’immaginazione si sarebbero essi stessi trasmutati in intelligibili e trasportati nell’intelletto;
non dipende nemmeno dal fatto che la nostra conoscenza di una molteplicità di oggetti somiglianti generi da sé la sua immagine nell’intelletto finché la si considera a parte; essa si spiega per il fatto che
considerando i sensibili, l’anima viene resa capace di ciò che l’idea
astratta emana in lei dall’Intelligenza agente.65
Da questa concezione dell’astrazione discendono due conseguenze capitali. La prima è che esiste un’attività razionale anteriore all’astrazione e preparatrice di questa astrazione. Senza una consideratio che adatti l’intelletto all’emanazione dell’Intelligenza, l’astrazione non si produrrebbe. Di qui risultano alcune importanti conseguenze dottrinali, principalmente per la storia del pensiero agostiniano nel XIII secolo.66 La seconda è che, nella cosmogonia di Avicenna, l’uomo non può avere un Intelletto agente che sia suo proprio, poiché al posto di esso c’è l’Intelligenza agente del globo terrestre, per l’insieme degli esseri umani. Ciascun individuo, frammento di una sfera che non è venuta all’esistenza, non è che un’anima e un corpo, essendo la sua anima sottomessa all’Intelligenza
agente allo stesso modo in cui l’anima di ciascuna sfera lo è all’Intelligenza che la genera e la governa. Ciò posto, Avicenna si trovava naturalmente portato a negare che le forme intelligibili, una
volta conosciute dall’intelletto possibile, potessero poi conservarsi; punto che conferisce alla sua dottrina l’aspetto più caratteristico
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e sul quale si concentrerà tutto lo sforzo della critica tomista quando vorrà mettersi esattamente sulla linea del suo avversario. In un
tale sistema, in effetti, non c’è una contenitore concepibile per le
specie intelligibili: esse non possono conservarsi nei corpi, indegni
di servire loro come soggetto, poiché esse non potrebbero occupare
un luogo nello spazio senza decadere dalla loro natura intelligibile;
esse non potrebbero essere idee, sostanze per sé nell’anima, e che
l’intelletto contemplerebbe o da cui si allontanerebbe secondo il suo
desiderio, poiché gli intelligibili che sussistessero nell’anima non
potrebbero essere sempre perfettamente conosciuti. A cui si aggiunge, come un’impossibilità supplementare, che le forme intelligibili
non sono delle realtà sussistenti alla maniera delle idee di Platone.
Resta dunque, come unica soluzione di questo problema, che l’anima si volge verso l’Intelligenza agente ogniqualvolta desidera ricevere le forme intelligibili, e che si allontana quando desidera temporaneamente dimenticarle; acquisire la scienza non è nient’altro
che acquisire l’abitudine di unirsi all’Intelligenza da cui l’anima riceve le forme, ogni volta che essa proverà il desiderio di contemplarle.67
San Tommaso ha nettamente compreso in cosa questa dottrina
si distingueva dalle altre, e che ciò che la caratterizza è anche ciò
che la rende fragile. Per Avicenna, ogni conoscenza dell’universale
presuppone una considerazione del singolare da parte dell’intelletto possibile, e una preparazione compiuta quelle facoltà inferiori
che sono la memoria e l’immaginazione. Dottrina, in verità, che va
contro ogni verosimiglianza metafisica. Sembra che, in Avicenna,
quanto più la nostra anima si avvicina all’intelligibile, tanto più si
immerge nel sensibile; non sarà più verosimile sostenere esattamente il contrario e che l’anima debba distogliersi dal sensibile per
disporsi a ricevere l’influsso dell’intelligenza separata?
La ragione di questa inverosimiglianza è che, in fondo, la dottrina
di Avicenna non è altro che un platonismo, ma un platonismo inconseguente. Prima di tutto è un platonismo68, e san Tommaso ha voluto
confutare in blocco una cosmogonia così, che fondava sulla stessa
fragile base la fisica, l’epistemologia e la morale.69 Quando abbraccia con un solo sguardo il campo intero della speculazione metafisica, san Tommaso non vede che due errori generali possibili, tra i
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quali Aristotele si tiene nel giusto ambito di verità. Da una parte
l’anassagorismo, che si potrebbe definire come un intrinsecismo integrale: tutte le forme sono innate nella materia, tutte le idee sono innate nel pensiero, tutte le virtù sono innate nell’anima. Dall’altra il
platonismo, che si potrebbe definire come un estrinsecismo integrale: tutte le forme, le idee e le virtù sono ricevute totalmente dal di fuori. In entrambi i casi le cause seconde non fanno nulla. Dal punto di
vista dell’anassagorismo, la causa seconda non fa che togliere di
mezzo l’ostacolo che impediva all’effetto di manifestarsi; nel platonismo, la causa seconda non può che preparare il terreno in cui si eserciterà l’azione della causa prima, di modo che, in ciascuna delle
due dottrine, la causa seconda non produce veramente il suo effetto.
Che Avicenna inclini verso il platonismo, non è lecito dubitarne,
perché importa poco qui che le forme intelligibili provengano in noi
dalle idee separate o da una Intelligenza separata; ma è un platonismo inconseguente, perché le sostanze separate, essendo sostanzialmente immutabili, devono continuamente illuminare le nostre anime
e far risplendere su di esse, allo stesso modo, la scienza delle cose.
Così, ponendo delle idee separate e immutabili, Platone non ha commesso l’errore di ammettere che il ruolo del sensibile consiste nel
disporre l’anima al fine di ricevere l’intelligibile, perché, di diritto,
l’anima lo riceverebbe perpetuamente. Egli ha dunque supposto che
le idee avessero primitivamente causato nella nostra anima la scienza di tutti i conoscibili, e che il sensibile eccitasse semplicemente l’intelletto a considerare delle conoscenze che possiede di già. È per
questo che Platone dice che apprendere non è altro che ricordarsi.
Tutto, nel platonismo, viene all’anima dal di fuori, ma tutto gli è stato
dato in una volta; l’ipotesi inverosimile di un’anima che si volgerebbe verso le cose sensibili per meglio prestarsi all’azione delle sostanze intelligibili è dunque un errore che Avicenna aggiunge a quello di
Platone, ma nel quale lo stesso Platone non è caduto.70
2. La critica di san Tommaso a Guglielmo d’Alvernia
Al primo posto tra coloro che subirono l’influenza di Avicenna,
bisogna collocare il suo traduttore Dominicus Gundissalinus.71 È
noto che il suo De anima è una mera compilazione che deve quasi
Tommaso contro Agostino / 51
tutto alla sua traduzione di Avicenna. Su un punto, però, Gundisalvi non poteva puramente e semplicemente seguire Avicenna, ed è
quello dell’Intelligenza agente. Gundisalvi è cristiano; come poteva accettare questa illuminazione dell’intelletto da parte di una sostanza separata, che sopprime l’intelletto dell’individuo e rende impossibile la sua immortalità? D’altro canto, di psicologia Gundisalvi non sa nient’altro se non quello che gli ha insegnato Avicenna;
come riuscirà dunque a separarsene dopo averlo fedelmente seguito fino a qui? Sostituendo sant’Agostino e Dionigi ad Avicenna per
spiegare l’origine delle nostre conoscenze. Gundisalvi si è ricordato a tempo debito di non essere solamente il traduttore del Liber VI
Naturalium, ma anche un cristiano capace di attingere al tesoro del
platonismo dei Padri, ed è qui che egli ha trovato come uscire dall’impaccio.
Sebbene lo studio completo delle fonti di Gundisalvi non sia ancora stato condotto a termine, è evidente a oggi che i due terzi del
suo trattato sono copiati da Avicenna. È come se il traduttore del filosofo arabo avesse seguito il suo modello fino all’estremo limite
del possibile. E questo limite estremo è collocato molto lontano,
poiché Gundisalvi trae non solo dal Liber VI Naturalium la sua divisione dell’intelletto in intellectus facilis, adeptus, in habitu, ma
ne trae letteralmente anche la sua teoria della conoscenza intesa come un’infusione delle forme nell’anima da parte di un intelletto agente separato. Per lui, come per Avicenna, apprendere non è niente di più che acquisire l’abitudine di fondersi con l’intelletto agente.72 Ma, cos’è questo intelletto agente?
Si cercherebbe invano in Gundisalvi una risposta precisa a questa questione; ma ce n’è una che l’intera sua opera suggerisce, ed è
che un cristiano non concepisce altro intelletto agente che Dio. Il capitolo X del De Anima pretende si risolvere infatti il problema avicenniano: De propriis viribus hominis, ma lo risolve giustapponendo alla psicologia di Avicenna, che è stata appena esposta, una
psicologia mistica d’ispirazione del tutto differente. La fonte esatta
di questa psicologia non ci è nota; se è lo stesso Gundisalvi ad averla inventata, o almeno disposta in quell’ordine, va detto che essa è il
contenuto più originale del suo trattato. Qui di seguito, eccone gli
elementi principali.
52 / Étienne Gilson
La scienza è la comprensione della forma di una cosa da parte
dell’intelletto o dell’immaginazione. Quando la forma è appresa dall’immaginazione, la scienza è sensibile; quando è appresa dall’intelletto, la scienza è intelligibile. Perché vi sia scienza intelligibile,
bisogna che la forma si unisca all’intelletto che l’apprende. Ora, l’anima non può apprendere il sensibile senza intermediario, perché il
loro modo d’essere non è lo stesso; ma, al contrario, l’anima può
apprendere l’intelligibile senza intermediario, perché il loro modo
d’essere è della stessa natura; quando essa apprende la verità riguardo le cose sensibili, essa mette in opera il suo intelletto, e acquisisce la scienza; quando essa apprende la verità riguardo i puri intelligibili, mette in opera la sua intelligenza, e acquisisce la sapienza.73 L’intelletto e la scienza sono utili solo in vista dell’intelligenza e della sapienza, a tal punto che una volta pervenuta a questo grado supremo, l’anima abbandona tutte le altre operazioni per offrirsi
alla luce di Dio come uno specchio si offre ai raggi che riflette. Qui, è
come se la teoria avicenniana dell’intelletto agente si confonda con
un’interpretazione mistica della sapienza agostiniana74; da questa
confusione deriveranno conseguenze di portata incalcolabile.
Una volta reso digeribile grazie alla sua combinazione col cristianesimo, Avicenna venne a esercitare in effetti un’influenza sempre più profonda ed estesa. La giustapposizione sommaria e brutale
delle due dottrine, di cui si era accontentato Gundisalvi, richiedeva
un lavoro di interpretazione e adattamento più approfondito. Uno
di coloro la cui riflessione si è esercitata sull’opera di Avicenna nel
modo più attento e fruttuoso è sicuramente Guglielmo d’Alvernia.75 L’atteggiamento che adotta nei confronti del filosofo arabo è
già quello che numerosi teologi scolastici conserveranno dopo di
lui: rifiuto energico della sua cosmologia, e specialmente della sua
dottrina dell’Intelligenza separata, ma anche un senso di intimo accordo con lui per quel che riguarda la natura dell’anima e l’origine
delle nostre conoscenze.
Sul primo punto, la posizione di Guglielmo d’Alvernia è di assoluta nettezza: l’universo avicenniano, con la sua gerarchia di anime
e di intelligenze motrici, gli sembrava francamente inaccettabile per
un cristiano e assurdo per la ragione. Il cristiano non ammetterebbe
in effetti questa moltitudine di esseri interposti tra Dio e lui, né nel-
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l’ordine della causalità efficiente, né nell’ordine della finalità. Niente crea se non Dio stesso, che ha creato tutto direttamente in virtù
della sua potenza; niente è nostro fine se non Dio stesso, verso cui
l’intelletto umano guarda come verso la luce che lo illumina e gli
conferisce la beatitudine. Si rifletta su ciò che aveva di anti-cristiano la concezione di un’anima fatta a opera di un’Intelligenza anziché a opera di Dio, e l’impossibilità di una diffusione della cosmologia di Avicenna nella scolastica apparirà immediatamente.
Dal punto di vista della ragione, l’universo avicenniano si offre
a Guglielmo d’Alvernia come una sfida al buon senso, perché né le
anime né le Intelligenze di cui si compone giocano un ruolo confacente alla loro natura. Consideriamo innanzitutto le anime. Ciascuna di esse ci si presenta con lo sguardo costantemente fisso sull’Intelligenza della sua sfera: vòlta verso questo intelligibile separato,
contemplante senza posa la sua perfezione, essa s’infiamma per lui
con un amore violento, e arde dal desiderio di assimilarsi a lui, assimilandosi anche al cielo che essa muove. Se fosse dato a quest’anima di ottenere ciò che brama, essa si troverebbe, per questo fatto
stesso, nella sua completa attualità, cioè in una sorta di stato di Gloria e, non desiderando nulla, essa non farebbe nulla. Non avendolo
ottenuto, di contro, essa muove il suo cielo per ottenerlo. Perché? È
che la perfezione del cielo delle anime è il luogo proprio dell’Intelligenza, nel quale questa desidera di riposare, e dato che ciascuna
parte del cielo non possiede che una parte di quel luogo proprio alla
volta, bisogna che l’anima faccia volgere il suo cielo perché possieda almeno successivamente ciò che non possiede ancora simultaneamente. Per il movimento circolare che essa gli imprime, l’anima attualizza successivamente la potenzialità di ciascuna delle parti del suo cielo riguardo ciascuna delle sue posizioni possibili nello
spazio.
Concezione assurda, dichiara senza giri di parole Guglielmo d’Alvernia: multipliciter ridicolus est, sed etiam impossibilis; perché l’acquisizione di questi luoghi successivi da parte del cielo non gli serve a nulla se, ogni volta che ne acquisisce uno, è obbligato a perderne un altro: perinde igitur est ac si nihil ei acquireretur, cum
tantum amittat, quantum ei acquiritur. Ora, se si fa il bilancio dei
suoi guadagni e delle sue perdite una volta compiuta la rivoluzione di
54 / Étienne Gilson
questo cielo, si constaterà che non ha né più né meno di prima; ciascuna delle sue parti non ha potuto soddisfare il desiderio del luogo
successivo se non abbandonando il luogo precedente, che aveva egualmente desiderato: questo cielo ha dunque perduto esattamente
quel tanto che ha guadagnato. Di più, dato che ciascuna parte della
sfera abbandona il luogo precedente, desiderato al contrario dalla
parte che segue, si può dire che questo desiderio contraddice se stesso a ogni istante; la concezione di Avicenna è dunque manifestamente impossibile in ciò che concerne le anime.76
Ma essa non è meno ridicola se si aggiunge a queste considerazioni quella del ruolo giocato dalle Intelligenze. Che interesse possono trovare delle Intelligenze separate, dunque in stato di beatitudine, ad assimilarsi alle anime che sono loro inferiori, e, viceversa,
che beneficio traggono queste anime a muovere senza posa il cielo
affidato loro? Di cosa mancherebbero le Intelligenze se le anime
delle sfere cessassero di farle girare? Assolutamente nulla. Quanto
alle stesse anime, esse avrebbero ogni vantaggio a riposarsi. Il solo
beneficio che esse ottengono a trovarsi sottomesse alle Intelligenze, è la fatica di dover far girare senza posa le masse enormi delle
loro sfere. Ma chi, dunque, tra noi si augurerebbe di veder esercitare sulla propria anima un influsso simile, ma anche su quella del
proprio cavallo o del proprio asino, sia da parte di un’Intelligenza,
sia da parte di Dio? Su un mulino, forse, o su una ruota qualsiasi la
cui rotazione continua potrebbe presentare una qualche utilità, l’azione di un tale influsso motore potrebbe sembrare auspicabile. Se
le Intelligenze rendessero agli uomini il servizio di far girare le loro
macine, esse avrebbero diritto a tanti elogi quante azioni di grazia
da parte loro; ma per le infelici anime delle sfere, il cui solo beneficio è di impegnare i corpi del cielo in una rotazione vertiginosa, la
loro situazione assomiglia molto a quella di un cavallo o di un asino
che fa girare la ruota di un mulino, con la sola differenza che il movimento di un cavallo o di un asino ci serve per qualcosa, mentre il
loro movimento non serve a niente.77 Non è solamente, come si vede, per la sua dignità di vescovo che Guglielmo d’Alvernia merita
di essere ancora chiamato Guglielmo di Parigi.
Ci importava qui almeno riservare uno spazio a questa critica, perché le ripercussioni che essa dovette avere sulle teorie medievali
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della conoscenza sono di un’estrema importanza. Abbiamo in effetti sottolineato, esponendo la dottrina di Avicenna, che in essa la
noetica non è che un caso particolare della cosmologia.78 Per quanto
riguarda il problema dell’illuminazione, niente si accorda meglio
con la dottrina di un’intelligenza agente, dispensatrice universale delle
forme intelligibili, che la concezione di un intelletto umano puramente recettivo e possibile, tale quale ce la concede Avicenna. Ma
supponiamo ora che una critica come quella di Guglielmo d’Alvernia finisca col ridurre in niente questa Intelligenza agente illuminatrice delle anime e che tuttavia si pretenda di conservare una concezione dell’intelletto umano fatta per adattarvisi, noi otterremo una
formula un po’ più esatta della nuova situazione che si venne a creare. A partire da questo momento, la storia era in qualche modo già
scritta, salvo il tempo necessario alle idee per raggiungere il loro
equilibrio. Se si elimina in effetti la soluzione averroista del problema, che non poteva non essere considerata eterodossa, era concepibile alla fine un solo esito: innanzitutto traferire a Dio le funzioni
illuminatrici dell’Intelligenza agente, cosa che doveva sedurre gli
agostiniani soddisfacendo sia la loro idea di Dio, sia la loro idea
dell’anima; poi, constatare che rimane impossibile negare all’anima qualsiasi attività propria, cosa che doveva eliminare progressivamente Avicenna e trascinare con lui Sant’Agostino. Guglielmo
d’Alvernia è ben lontano dal prevedere una conseguenza tale; così
lo vedremo cercare la soluzione di questo problema nel compromesso di un Dio illuminatore e di una ragione umana attiva sebbene
privata di intelletto agente.
Se si vuol concepire la ragion d’essere di questo tentativo, in apparenza strano, conviene partire da una certa concezione dell’anima umana. Innanzitutto, quest’anima per Guglielmo d’Alvernia è
totalmente incorporea; ma ciò che è più interessante constatare, è
che il nostro filosofo riprende la curiosa prova dell’uomo velato, già
esposta da Avicenna, per stabilire la spiritualità dell’anima e che,
garantito ormai dalla sua autorità dottrinale, passerà da agostiniano
ad agostiniano fino agli inizi del XIV secolo.79 Supponiamo un uomo che Dio avesse creato sospeso nell’aria, il volto velato, che non
avesse di conseguenza mai percepito nulla e non provasse alcuna
sensazione: noi non potremmo tuttavia dubitare che sarebbe capace
56 / Étienne Gilson
di pensare e di usare la sua intelligenza. Quest’uomo saprà dunque
che pensa, intende ed esiste: quapropter sciet se cogitare, vel intelligere, et sciet etiam se esse. Ora, se si interroga un tale uomo chiedendogli se possiede un corpo, egli risponderà senza alcun dubbio
che non ne ha, e risponderà allo stesso modo per ciascuna delle
parti del corpo umano. Quest’uomo negherà dunque di avere una
testa, i piedi, le mani, e così facendo, negherà di conseguenza di avere un corpo pur continuando ad affermare la propria esistenza.
Ora, ciò che si nega di se stessi è necessariamente altro da ciò che si
afferma. Dunque, quest’uomo che negherà di essere un corpo affermando l’esistenza del proprio pensiero, possiederà un pensiero la
cui essenza è differente dal corpo. Un agostiniano poteva far propria quest’argomentazione di Avicenna senza avere l’impressione
di allontanarsi da Agostino.80
Questo metodo di intuizione diretta a cui Guglielmo d’Alvernia
fa appello per stabilire la spiritualità dell’anima, gli serve ancora
per stabilire la sua assoluta semplicità: tesi di un’importanza unica
nella sua dottrina né esiste alcuna delle sue concezioni psicologiche che non ne sia stata influenzata. L’unità dell’anima, così come
la concepisce, è totale e incondizionata; intendiamo con questo che
è inutile immaginare, per nostra comodità, un modo di composizione qualsiasi che permetta di attribuire le facoltà all’anima senza nuocere alla sua semplicità; coloro che vanno immaginandola come un
tutto potenziale, o un tutto virtuale, o un composto di qualsivoglia
ordine, ragionano come bambini o imbecilli81, e l’esperienza diretta che noi abbiamo della semplicità della nostra anima basta a confutarli in modo decisivo. Lo stesso tono usato da Guglielmo d’Alvernia per affermare questo aspetto del suo pensiero mette in rilievo l’importanza che gli attribuisce. La sostanza dell’anima è una,
egli afferma, e la pluralità delle facoltà che lui le attribuisce si riduce a quella delle operazioni alle quali essa coopera. Così, per esempio, si rapporta l’intellezione alla facoltà di conoscere per mezzo
dell’intelligenza e quella di volere o del desiderare alla volontà; ma
l’anima resta una mentre conosce, vuole e desidera, e questo ogni
anima lo sente in sé, lo conosce con assoluta certezza e ne rende una
testimonianza infallibile. È senza esitazione né interruzione che essa si afferma a se stessa e in se stessa: sono io che conosco, so, com-
Tommaso contro Agostino / 57
prendo, voglio, desidero, bramo; che mi interrogo su ciò che desidero o che voglio e, quando possibile, mi impadronisco di ciò che
voglio e desidero. Io, dico, che resto una e indivisibile attraverso
tutte queste operazioni; se non fosse così non saremmo nemmeno
capaci di discernere diverse facoltà dell’anima per attribuirgliele.82
Quando arriva a definire l’unico senso in cui il termine di facoltà
è ancora accettabile, Guglielmo d’Alvernia dà prova di sorprendente radicalismo, cosa che ci permette di comprendere tutto un
aspetto del pensiero di san Tommaso. La critica diretta dalla Summa Theologiae contro coloro che rifiutano di attribuire all’anima
facoltà distinte dalla sua essenza si fonda su un argomento ben noto: o l’anima agisce per mezzo di facoltà distinte da lei, oppure essa
agisce direttamente per mezzo della sua essenza; ora, Dio solo agisce per mezzo della sua essenza; l’anima non può dunque agire
attraverso l’intermediazione delle sue facoltà. Non c’è nessuno, leggendo questa argomentazione, che non la interpreti come un richiamo al principio metafisico da cui dipende la soluzione astratta del
problema. Ora, è di tutt’altra cosa che si tratta. Per quanto straordinario possa apparire, san Tommaso non fa qui che negare una dottrina realmente insegnata da uno dei suoi predecessori, perché Guglielmo d’Alvernia assimila l’attività dell’anima a quella di Dio stesso, e la considerazione dell’essenza divina è il punto da cui parte
per rigettare ogni vera distinzione tra l’anima e le sue facoltà.
Nessun teologo rifiuta di attribuire a Dio il nome di Creatore né,
a questo titolo, di considerarlo come potente o di attribuirgli un potere. D’altra parte, nessuno dubita che la potenza o il potere di Dio
siano altra cosa che la sua intima essenza, e nessuno immaginerà di
considerare questo attributo come qualcosa di differente da lui, che
verrebbe ad aggiungersi dall’esterno al suo essere per completarlo.
Ora, il caso di Dio non è per niente un caso unico in questa dottrina,
ma regola tutti i casi analoghi, nei quali l’essenza di un essere basta
per se stessa a rendere conto della sua attività.83 Tale è precisamente il caso dell’anima umana quale Guglielmo d’Alvernia la concepisce. Quando dice che un corpo bianco può disgregare la vista, è
evidente che la bianchezza per mezzo della quale può disgregarla è
una cosa e che il corpo che possiede questa bianchezza è un’altra;
mentre quando si dice: la bianchezza può disgregare la vista, il po-
58 / Étienne Gilson
tere di cui parla si confonde con la bianchezza stessa. In casi simili
non è di un’essenza agente per mezzo di una facoltà che si tratta,
ma dell’attività di un’essenza. Quando dunque si dice: l’anima umana può conoscere, può volere, e così via, il Verbo può non designa nulla che venga ad aggiungersi alla sua essenza: quemadmodum dicitur de creatore benedicto. Nell’anima dell’uomo, come in
Dio, la potenza che gli si attribuisce non designa nient’altro che l’essenza: causa autem in hoc est, quoniam neque apud creatorem, neque apud animam humanam, est potentia principium et causa hujusmodi operationis nisi utriusque essentia.84
La fermezza di Guglielmo d’Alvernia su questo punto è incrollabile; si sarebbe forse in diritto di desiderare che avesse spinto più
lontano la dimostrazione della sua tesi. Tre argomenti sembrano
nondimeno averlo interessato. Innanzitutto, egli non vede intermediario tra la sostanza e l’accidente; dunque, o le operazioni dell’intelligenza e della volontà saranno operazioni delle sostanze, o saranno operazioni degli accidenti; ma è inconcepibile che un accidente sappia, voglia, desideri, agisca, e nessuno ha mai dato prova
di sufficiente imbecillità per credere che altro che una sostanza,
cioè una sostanza vivente, possa compiere tali operazioni. Resta dunque che la stessa anima, presa nella sua sostanza, sia la causa delle
sue operazioni che noi attribuiamo alle sue facoltà.85 Quanto al secondo argomento, noi lo conosciamo di già, poiché egli torna a sostenere l’assoluta indivisibilità dell’anima.86 Resta infine l’argomento di autorità, che sembra ridursi nel portare dalla sua parte tutti coloro che affermano l’unità dell’anima; e un esempio qui farà fortuna: l’anima che esercita differenti facoltà psicologiche è somigliante a un uomo che esercita differenti funzioni sociali; essa è intelligenza, volontà, potenza, come un medesimo uomo è al contempo
duca, conte, marchese, podestà di una città, e talvolta perfino anche
console e senatore.87 Dopo di che, se si accumula tutto ciò che ha
appena detto, intende ergo haec omnia et aggrega ea, Guglielmo
garantisce alla sua dottrina un’evidenza senza difetti.88
La conseguenza storica più importante della sua fedeltà a questa
tesi è l’applicazione rigorosa che ne fa al problema dell’intelletto agente. Questa dottrina non gli si offre, infatti, come un tentativo per
definire in termini astratti le condizioni a cui una conoscenza intel-
Tommaso contro Agostino / 59
lettuale è possibile; egli se la rappresenta immediatamente in termini psicologici e si chiede se essa sia compatibile con l’assoluta
semplicità che ha appena attribuito all’anima. Ridotta all’essenziale, questa dottrina di filosofi che si credono fedeli al pensiero di
Aristotele si risolve alla fine in questo: ogni atto di intellezione si
compone di due momenti, un’azione esercitata, più una passione
subita. Per spiegare l’elemento passivo dell’intellezione, questi filosofi ammettono l’esistenza di un intelletto materiale89 che riceve
i segni corrispondenti agli oggetti, e un intelletto agente che fa passare questi segni intelligibili dalla potenza all’atto, più o meno come la luce rende attualmente visibili i colori che non lo sarebbero nell’oscurità. Conclusioni già largamente diffuse ai tempi di Guglielmo
d’Alvernia, poiché ci dichiara che molti le accettano senza discussione: multi deglutiunt positiones istas absque ulla investigatione
discussionis et perscrutationis recipientes illas, et etiam consentientes illis, et pro certissimis eas habentes90; è ciò che lo convince a
metterle in discussione.
Ma forse converrebbe piuttosto dire che è ciò che lo convince a
eliminarle senza discuterle. La sola soluzione coerente del problema, e quella alla quale si ricondurrà in effetti la maggior parte dei
suoi successori, consisteva nell’unire l’intelletto agente e l’intelletto
possibile nell’unità di una sola e medesima anima. Ora, Guglielmo
d’Alvernia ricorda anzitutto che questa soluzione si trova condannata dall’inizio per tutto ciò che precede: egli nega e negherà sempre che l’anima possa possedere due intelletti, uno agente e l’altro
possibile, perché considera l’anima come impartibilis91; e una volta scartata questa ipotesi, restano soltanto la concezione impossibile dell’Intelletto agente di Avicenna, o delle combinazioni assurde di intelletti considerati come altrettante sostanze distinte che cercherebbero di entrare in composizione.
Tra le varie formule che Guglielmo d’Alvernia accumula contro
questa tesi, ce ne sono alcune che interessano direttamente la storia
del pensiero tomista, perché la Summa Theologiae si riterrà tenuta
a prenderle in considerazione. Anzitutto, quella che definisce la stessa posizione di Guglielmo d’Alvernia: non c’è intelletto agente. Conclusione inevitabile quando non si ammettono più né l’Intelligenza
agente separata di Avicenna, né la possibilità di un intelletto agente
60 / Étienne Gilson
in quanto parte dell’anima umana; non avendo sede né nell’anima,
né fuori dell’anima, l’intelletto agente viene radicalmente eliminato: intellectus agens... nec ipsa essentia ejus est, nec de ipsa.92 Ora,
questa formula evoca immediatamente il ricordo di due articoli della Summa Theologiae, ai quali essa conferisce in un colpo solo il
loro pieno significato storico. Si deve porre un intelletto agente? L’intelletto agente appartiene all’anima?93 Nessuno dubita ormai che la
dottrina di Guglielmo d’Alvernia venga qui presa di mira, perché,
come vedremo, il suo pensiero è il solo, nella storia del problema, a
corrispondere alla negazione formale dell’intelletto agente.
C’è di più: si può constatare che Guglielmo d’Alvernia ha fornito le obiezioni principali che san Tommaso si impegna a confutare. Anzitutto, l’argomento che riguarda l’analogia tra la conoscenza intelligibile e la conoscenza sensibile. Il senso è naturalmente in
potenza riguardo il sensibile: ciò significa che quando un organo
sensoriale è posto in presenza di un oggetto sensibile, è inutile supporre una facoltà agente intermediaria che renda l’organo capace di
percepire il suo oggetto. Detto ancora altrimenti, allo stesso modo
in cui non si deve supporre un senso agente che serva da intermediario tra i sensibili e il senso, non si deve supporre un intelletto agente tra l’intelletto possibile e gli intelligibili. Falsa analogia, rimarcherà san Tommaso, perché i sensibili si trovano in atto al di fuori dell’anima: ciò fa sì che non si debba supporre un senso agente la
cui funzione consista nell’attualizzarli: un organo sensibile puramente passivo basta in presenza dei sensibili che esistono in atto e
sono di conseguenza atti ad agire. Al contrario, gli intelligibili astratti non si trovano realizzati tali quali nella natura; prima dunque che
possano essere conosciuti, occorre che vengano prodotti; ed è precisamente per questo che si impone l’ipotesi di un intelletto agente,
che renda attualmente intelligibile per il pensiero ciò che non lo era
attualmente nella realtà.94 Si può dunque spiegare la conoscenza del
sensibile senza un senso agente, non si può spiegare la conoscenza
dell’intelligibile senza un intelletto agente.
Il secondo argomento confutato da san Tommaso è una risposta
di Guglielmo d’Alvernia a uno degli argomenti invocati dai difensori dell’intelletto agente in favore della loro tesi. Questi aristotelici obiettavano infatti che, anche nel caso della conoscenza sensibi-
Tommaso contro Agostino / 61
le, occorre un agente perché la sensazione sia possibile: la luce,
senza la quale i corpi colorati non potrebbero mai essere visti dall’occhio. Al che Guglielmo d’Alvernia rispondeva che i due casi
non avevano alcun rapporto. Il colore, osservava egli, non è in potenza nel corpo colorato, ma in atto, e ciò che lo rende incapace di
agire sull’occhio, non è il fatto che esso non esiste, ma che non ha la
forza sufficiente per agire. La luce non interviene dunque nella sensazione che per conferire ai colori già esistenti l’intensità che
permette loro di impressionare l’organo visivo; vale a dire che essa
le rafforza, ma non le attualizza.95 Tutt’altra è la situazione dell’intelletto possibile, pura recettività, nel quale non si trova alcuna idea
intelligibile, per quanto impotente a farsi conoscere, come si trovano i colori nei corpi: la luce gioca qui in rapporto alla sensazione
tutt’altro ruolo che quello di un intelletto agente, nell’ipotesi che
questo intelletto sia chiamato in causa per render conto dell’intellezione. A questo san Tommaso risponderà distinguendo due interpretazioni possibili del ruolo giocato dalla luce riguardo i colori. Se
si concede, con gli avversari a cui Guglielmo d’Alvernia si è appena opposto e dei quali egli ammette in definitiva l’interpretazione,
che la luce abbia per effetto di rendere visibili i colori che non lo erano senza di lei, la comparazione tra la luce e il ruolo di un intelletto agente sembra interamente fondata. E in effetti, cosa che san
Tommaso non nota, Guglielmo d’Alvernia non differisce dai suoi
avversari se non nel fatto che egli concepisce la potenza come una
possibilità radicale e assoluta dell’intelletto, mentre al contrario le
specie sensibili potrebbero ben essere paragonate a questi colori
impotenti che la luce rende visibili come l’intelletto agente rende
intelligibili i fantasmi del senso comune. Per una tale interpretazione: similiter requiritur, et propter idem, intellectus agens ad intelligendum, propter quod lumen ad videndum. Tuttavia l’interpretazione di questo paragone accettata dallo stesso san Tommaso, è assai differente.96 Con Averroè, egli ammette che l’effetto della luce
non è quello di rinforzare i colori e di attualizzarli, ma di sopprimere semplicemente l’opacità del luogo che impedisce loro di agire
sulla vista; cosa che lo porta a concedere infine che il ruolo della luce nella sensazione è altro rispetto al ruolo dell’intelletto agente nell’intellezione. Resta semplicemente che occorre della luce per ve-
62 / Étienne Gilson
dere, così come occorre un intelletto agente per conoscere, benché
il modo di azione dei due principi sia molto differente nell’un caso
e nell’altro.
Rimane una terza obiezione tratta da Guglielmo d’Alvernia e che
corrisponde veramente al fondo del suo pensiero: quando si mettono di fronte un intelletto, che è capace per definizione di ricevere le
forme intelligibili, e le forme intelligibili che è capace di ricevere,
cosa si deve richiedere di più perché la conoscenza intellettuale si
effettui? Assolutamente niente. È dunque del tutto superfluo supporre l’esistenza dell’intelletto agente per rendere ragione della conoscenza.97 Argomento che presuppone concesso ciò la cui esistenza
è messa in dubbio: gli intelligibili attualmente realizzati senza la collaborazione di un intelletto che li abbia sganciati dal sensibile. Ciò
che manca, perché la dottrina di Guglielmo d’Alvernia sia accettabile, è la presenza all’intelletto di intelligibili puri che gli siano effettivamente dati. Così, anche attraverso la sola critica diretta contro questa dottrina da parte di san Tommaso, noi percepiamo la presenza latente del platonismo che le è presupposta e della sua affinità con il pensiero di Avicenna: Guglielmo d’Alvernia non ha bisogno di intelletto agente perché Dio è là per conferire al nostro intelletto i primi intelligibili per modo di illuminazione.
È egualmente in funzione di Guglielmo d’Alvernia che san Tommaso pone e discute la questione seguente della Summa Theologiae:
l’intelletto agente appartiene all’anima? Problema distinto dal precedente, benché connesso, e che san Tommaso distingue più precisamente di quanto aveva fatto Guglielmo d’Alvernia. Sapere se è necessario fare appello a un intelletto agente per rendere ragione della
conoscenza umana, è una questione; sapere se la nozione di intelletto agente è conciliabile con la natura reale dell’anima umana, è
un’altra, ed è solo quest’ultima che dobbiamo ormai esaminare.
Innanzitutto, l’impossibilità di collocare un intelletto agente in
un’anima umana sembrerebbe imporsi da sé alla mente. Qual è in
effetti la funzione propria attribuita a un tale intelletto da parte dei
suoi sostenitori? Illuminare l’anima. Ora, noi sappiamo dalla Scrittura che il principio illuminatore delle nostre anime è superiore all’anima, poiché è Dio, la luce vera che illumina ogni uomo che viene al mondo. È dunque impossibile mettere nell’anima stessa il prin-
Tommaso contro Agostino / 63
cipio della sua illuminazione. A questo san Tommaso risponde con
la sua concezione personale dell’illuminazione divina: Dio illumina le nostre anime in quanto le ha dotate della luce naturale grazie
alla quale esse conoscono, e che è la stessa dell’intelletto agente98;
risposta che mette in gioco tutta la sua dottrina, e che noi ritroveremo a suo tempo.
Poi, un intelletto agente è, per definizione, in continua e permanente intellezione degli intelligibili; se dunque l’anima possedesse
un intelletto agente, essa non dovrebbe mai cessare un solo istante
di conoscere; ora noi sappiamo che non è così; è dunque impossibile attribuire all’anima un intelletto agente. Obiezione molto forte del
punto di vista di Guglielmo d’Alvernia per il quale l’anima è una in
senso stretto, perché ai suoi occhi essa sarebbe necessariamente tutta
intera ciò che sarebbe una qualunque delle sue parti: un intelletto agente, in un’anima interiormente una, la illuminerebbe con la sua
sola presenza eternamente e continuamente. – Ma obiezione che perde qualsiasi forza in una concezione dell’anima umana quale quella
di san Tommaso. Quando Aristotele dichiara che l’anima umana un
po’ conosce e un po’ non conosce, è dell’anima che parla, non dell’intelletto agente. Quest’ultimo è veramente sempre in atto, ma l’anima possiede inoltre un intelletto possibile, ed essa non conosce
attualmente se stessa che in virtù del concorso del suo intelletto
possibile con il suo intelletto agente.99
Una terza obiezione è legata strettamente a quella precedente:
un agente e un paziente bastano perché si produca un’azione; se dunque c’è nella nostra anima una potenza passiva che è l’intelletto
possibile, e una potenza attiva che è l’intelletto agente, ne risulterà
che l’uomo sarà sempre capace di conoscere, con la sola condizione che lo voglia, cosa che è evidentemente falsa. L’intelletto agente
non fa dunque parte della nostra anima, poiché essa ha bisogno di
acquisire faticosamente le scienze anziché conferirsele a volontà. –
Argomento che mette in evidenza una volta di più l’opposizione radicale tra il platonismo di Guglielmo d’Alvernia e l’aristotelismo di
san Tommaso. Per Guglielmo d’Alvernia, un intelletto agente non
può essere altra cosa che una ragione sufficiente di conoscenza, come un’idea di Platone, o l’Intelligenza agente di Avicenna; ne risulta
dunque che se gli si concede un tale intelletto agente, Guglielmo
64 / Étienne Gilson
d’Alvernia non vede come una conoscenza attuale degli intelligibili non possa non risultarne immediatamente. Un intelletto in atto è,
per lui, scienza in atto. Al contrario, per san Tommaso, fedele alla
concezione strumentalista dell’intelligenza che egli deve al suo maestro Aristotele, un intelletto in atto, per l’uomo, non è altro che mezzo della scienza. Concedere all’anima un intelletto agente, non è dunque dispensarla dal volgersi verso le cose, di acquisire le scienze o di
impegnarsi ad acquisirle; è semplicemente possedere un principio
attivo che permetta all’anima di esercitare queste diverse funzioni
e, da questo punto di vista, conferire la scienza all’anima non è conferirle un intelletto agente.100
Così dunque, dal punto di vista di Guglielmo d’Alvernia, se è
inutile, e perfino contraddittorio, porre una Intelligenza agente, non
lo sarebbe meno attribuire all’anima un intelletto agente. Su questo, il nostro Dottore resta perfettamente fermo e non ha mai variato. Ma la negazione dell’intelletto agente complica, anziché risolvere, il problema della conoscenza; perché se noi non disponiamo
di alcuno strumento per fare dell’intelligibile con del sensibile, resta da spiegare come riusciamo, malgrado tutto, a farlo. Questione
inevitabile, che Guglielmo vede porsi davanti a lui alla fine del suo
De universo101, in cui promette una soluzione che il suo lettore deve
attendere senza impazienza, a lungo, prima di vederla arrivare e
che, una volta arrivata, non lo lascerà senza qualche incertezza. È
di essa comunque che bisognerà accontentarci.
Il primo punto da notare, quando si vuole comprendere Guglielmo d’Alvernia, specialmente in questa parte della sua opera, è che
in lui Aristotele viene spesso confuso con Avicenna e che, partendo
da questo presupposto, gli sforzi infruttuosi ai quali egli si dà per
spiegare come un avversario di Platone, quale fu Aristotele, abbia
potuto insegnare una dottrina così nettamente platonica come quella di Avicenna, lo conducono alle peggiori difficoltà. In ciò che concerne specialmente il problema della conoscenza, la situazione propria di Guglielmo d’Alvernia è la seguente: la sua tesi dell’unità
assoluta dell’anima, a cui egli tiene sopra ogni cosa, esclude l’ipotesi di un intelletto in parte agente e in parte paziente, che sarebbe
in grado di estrarre da sé l’intelligibile dal sensibile: restano dunque due soluzioni possibili: o l’intelletto riceve l’intelligibile dal di
Tommaso contro Agostino / 65
fuori, o è capace di produrli da sé, senza tuttavia dividersi. Problema del quale, con tali dati, le difficoltà risultano più o meno inestricabili. Guglielmo d’Alvernia, anche lui imbrigliato in questa impasse, non si fa alcuna illusione su questo punto: constata stoicamente che la questione, dopo tanto tempo che è stata posta, non ha
ancora ricevuto la soluzione definitiva, ma, con l’ardore intellettuale che non lo abbandona mai e con la fiducia in Dio a cui egli si
ispira, noi lo vediamo impegnarsi a risolvere l’insolubile con una magnifica ostinazione.
Che l’intelletto umano sia illuminato da Dio e spalancato agli influssi divini, è cosa la cui dimostrazione non presenterà alcuna difficoltà per Guglielmo d’Alvernia; per lui il difficile consiste unicamente nello spiegare la nostra conoscenza del mondo e dei corpi.
Come il mondo inferiore possa informare o illuminare un’anima intelligente come la nostra, ecco qual è la pietra dello scandalo di ogni agostinismo, e di questo in particolare. Per essere certo di esaurirne la difficoltà, Guglielmo d’Alvernia distingue tre casi: la sensazione, l’astrazione, l’inferenza per mezzo della quale l’intelletto
passa dalla conoscenza della causa a quella dell’effetto, o, parlando
in generale, dalla conoscenza di una cosa a quella di un’altra che le
è associata nella realtà. Il problema della sensazione – per quanto
rilevante sia la portata storica della soluzione che ne propone Guglielmo d’Alvernia – non ci interessa qui che molto indirettamente;
noi non lo esamineremo. Di contro, i due ultimi problemi mettono
direttamente in gioco l’attività dell’intelletto medesimo e costringono Guglielmo a prendere alla fine posizione su questo punto importante.
L’astrazione, così come ci è qui descritta, è di due gradi: un’astrazione puramente immaginativa, che consiste nel trarre dalla percezione di un oggetto individuale l’immagine generica che conviene a tutti gli oggetti della stessa specie o dello stesso genere; un’astrazione intellettuale, che consiste nel trarre da questa percezione
o da questa immagine l’idea del genere o della specie ai quali appartiene quest’oggetto. I due momenti dell’operazione sono molto
ben distinti nell’analisi del processo cognitivo che ci dà il De anima, e la necessità di ricorrere a soluzioni differenti per spiegare ciascuna di queste due operazioni vi si trova sottolineata in modo al-
66 / Étienne Gilson
trettanto netto. L’astrazione puramente immaginativa non pone in
realtà alcun problema, perché essa non consiste nell’aggiungere qualche cosa al contenuto della sensazione, quanto piuttosto nel togliergli qualche cosa. Il termine stesso “togliere” suggerisce l’idea di
un’operazione più positiva di quella di cui in realtà si tratta. Se io
percepisco chiaramente e da vicino una statua d’Ercole, la conoscenza che ne ho merita il nome di sensazione, perché apprendo
tutti i dettagli individuali di questa statua che mi permettono di riconoscere in essa un Ercole. Se al contrario mi allontano, ecco che
in proporzione al mio allontanamento, la mia apprensione di queste
forme individuali diminuisce, fino al punto in cui non posso rappresentarmi se non un uomo indeterminato, e che non è questo uomo più di un altro. Il nostro pensiero passa dunque dalla sensazione
di un essere particolare all’immagine astratta della specie per semplice assenza di dettagli concreti che particolarizzano l’oggetto percepito.102 Ma questa prima astrazione, puramente immaginativa, prepara un’astrazione più alta, d’ordine puramente intellettuale, e che
informa l’intelletto di idee puramente intelligibili. Come si possa
raggiungere questo secondo grado d’astrazione: ecco la più difficile delle questioni che il filosofo possa aver da risolvere riguardo le
operazioni intellettuali dell’anima.
È importante anzitutto rimarcare che Guglielmo d’Alvernia considera come un unico e medesimo problema quello dell’origine dei
principi primi della conoscenza e quello dell’origine dei concetti astratti. L’interpretazione dei suoi testi diviene totalmente differente, a seconda che si consideri che la sua teoria dei principi primi
risolva in un colpo solo la questione dell’astrazione intellettuale, o
che gli si attribuiscano al contrario due teorie distinte: l’una valida
per i soli principi, l’altra valida per i soli concetti. Noi riteniamo, per
parte nostra, che Guglielmo d’Alvernia intenda risolvere in un colpo solo i due problemi, ed ecco le ragioni principali che ci fanno decidere in favore di questa interpretazione. Primo, lui stesso ha dichiarato che i principi non sono nient’altro che le cose nel loro stato di
astrazione più universale: principia haec non sunt nisi res in abstractione universali103; non si vede dunque come egli avrebbe potuto distinguere la formazione delle idee astratte da quella dei principi primi della conoscenza. Inoltre, nel testo in cui egli spiega la
Tommaso contro Agostino / 67
differenza tra l’astrazione intellettuale e l’astrazione immaginativa, Guglielmo d’Alvernia dichiara di aver già in parte chiarito altrove la formazione delle idee astratte; ora, egli ha appena spiegato
la formazione dei principi primi, in un testo che noi riproduciamo
pressoché integralmente per la sua importanza, e che colloca i due
problemi esattamente sullo stesso piano: et propter hoc merito quaeritur unde... formae venerunt in intellectum; et eodem modo se
habet de intellectu seu intellectione principiorum.104 Infine, speriamo di mettere in evidenza, attraverso l’analisi diretta dei testi, che
non si ottiene una dottrina al contempo coerente con se stessa e che
si accordi con essi, se non a condizione di accettare questa interpretazione.
Guglielmo d’Alvernia comincia col dichiarare, con Aristotele,
che è impossibile all’anima conoscere senza fantasmi; ma aggiunge subito, e questo ce la dice lunga su quello che poteva sapere di
Aristotele; sive phantasmate, et intendo sine signo vel forma intelligibili. Così dunque, dire che l’anima non possa pensare senza fantasma, significa qui per Guglielmo d’Alvernia semplicemente che
l’anima non può pensare le cose senza una forma intelligibile che le
rappresenti. L’esempio concreto che usa non consente d’altronde
alcun dubbio su ciò che egli intende qui: per poter affermare questa
verità evidente che un uomo non è un asino, bisogna aver innanzitutto presenti al pensiero le due forme intelligibili che designano
nel nostro pensiero l’uomo e l’asino. Si pone dunque la questione
di sapere da dove questi segni o forme siano venuti nel nostro intelletto, ed è la stessa che concerne l’intelligenza che noi abbiamo dei
principi primi e conosciuti per sé: sono forse questi principi che
imprimono al nostro intelletto le forme intelligibili senza le quali
noi non potremmo pensare questi stessi principi, oppure le forme
intelligibili vengono nell’intelletto da un’altra parte? Questo è il
problema che Guglielmo d’Alvernia arriva a porre. Su ciò si noterà
che il problema dell’origine dei concetti qui è non solo sullo stesso
piano di quello dell’origine dei principi, ma perfino su un piano
anteriore. I principi non sono pensabili se non perché si trovano
forme intelligibili preesistenti alle quali questi si applicano; ma da
dove vengano queste stesse forme intelligibili: questo è ciò che si
tratta di determinare.
68 / Étienne Gilson
La prima ipotesi che si offre alla mente consisterebbe nel supporre che i principi primi imprimano queste forme nel nostro intelletto. Ma quest’ipotesi non resiste all’esame, perché i principi sono
universali; ora, l’universale non è che dell’astratto, cioè un essere
di ragione che non può né agire né patire. Non ci si rappresenta di
più l’uomo in generale come capace di eseguire un’azione sul nostro pensiero, che come capace di subirne una. Colpire l’uomo in
generale, è non colpire nessuno in particolare; dire che l’uomo in
generale legge, canta, disputa o filosofa, è dire nulla se non si pensa, dicendolo, a qualche uomo particolare. Quest’ipotesi non è alla
fine nient’altro che lo stesso errore di Platone, il quale, prendendo
le astrazioni per cose, riteneva gli universali capaci di agire sugli
esseri particolari.
D’altra parte, una volta eliminata quest’ipotesi, e per la ragione
che abbiamo detto, non resta che una sola soluzione da affrontare:
perché un essere particolare possa agire su un altro essere, bisogna
necessariamente che queste somiglianze, o forme intelligibili, siano impresse sul nostro intelletto per mezzo di un essere particolare.
È questo che spiega la soluzione del problema che noi abbiamo visto proposto da Aristotele: un’intelligenza agente, piena di forme,
esterna a noi, e produttrice di forme intelligibili che essa imprime
nel nostro intelletto. Solo che questa soluzione del problema ci è anch’essa proibita a causa della critica preliminarmente diretta da Guglielmo d’Alvernia alla dottrina dell’Intelligenza separata. Dove dunque trovare la causa prima di queste forme?
È qui che Guglielmo d’Alvernia fa intervenire l’illuminazione
agostiniana. La dottrina cristiana, la cui assoluta verità non può essere messa in discussione, ci rappresenta l’anima umana come naturalmente situata e disposta nel punto di contatto tra due mondi, e,
per così dire, sul loro orizzonte. Uno di questi mondi è il mondo
sensibile, al quale essa è strettamente congiunta per mezzo del suo
corpo; l’altro mondo è il Creatore che, preso in se stesso, può essere
considerato come lo specchio da cui si irradiano tutti gli intelligibili
primi. È lui, il Creatore – che è la verità eterna – il modello che esprime luminosamente e rappresenta espressivamente tutte le cose. Noi
dobbiamo considerarlo, malgrado quello che tali raffronti conservano di infinitamente lacunoso, come uno specchio, o come un li-
Tommaso contro Agostino / 69
bro vivente, strettamente congiunto e presente all’uomo, posto naturalmente davanti al suo intelletto e nel quale egli può leggere i
principi primi della scienza e della morale. Da qui, questa conclusione: è Dio stesso il libro proprio e naturale dell’intelletto umano.
Creator ipse liber est naturalis et proprius intellectus humani. È
dunque attraverso di lui che si formano in noi le impressioni di cui
si tratta e che si inscrivono nel nostro intelletto i segni intelligibili
di cui abbiamo parlato: Ab illo igitur fiunt impressiones de quibus
agitur, et inscriptiones signorum antedictorum in virtute nostra
intellectiva. Tutto va dunque come se Guglielmo d’Alvernia non
vedesse altra soluzione possibile al problema della conoscenza se
non quella di far giocare, nella sua dottrina, a Dio il ruolo illuminatore che Avicenna riservava all’Intelletto agente.
Lasciamo da parte la conferma, d’altronde così curiosa, che Guglielmo d’Alvernia domanda alla teoria della profezia, e in cui Dio
ci è rappresentato di nuovo come colui che tiene un libro che apre
alla pagina che egli vuole, per lasciarci leggere la frase o perfino la
semplice parola che egli vuole; ci sono qui delle illuminazioni che
valgono specialmente per gli arcani della grazia ed è solamente di
illuminazione naturale che dobbiamo qui preoccuparci. Ma un’altra conferma della dottrina ci attende sul terreno della stessa scienza, dove noi dobbiamo spiegare l’inferenza che permette all’intelletto di concludere una cosa da un’altra, e specialmente dalla conoscenza di una causa a quello del suo effetto.105
Problema arduo, in verità, la cui soluzione non è meno difficile
di quella del precedente, se non lo è ancor di più. Supponiamo, per
esempio, che il nostro intelletto sia in possesso dell’idea di una causa, e che passi da questa idea a quella del suo effetto; questo passaggio non può spiegarsi che in due maniere: o l’idea della causa ha
prodotto l’idea dell’effetto, o essa non è stata che l’occasione della
sua apparizione. Ora, non sembra per niente possibile che l’idea di
una causa determini e produca realmente l’idea del suo effetto, perché un prodotto assomiglia sempre a ciò che lo produce, mentre invece spesso non c’è alcuna somiglianza tra l’idea della causa e quella
dell’effetto. Se si tratta di un’eclissi, niente è più differente delle
due idee di interposizione della terra tra il sole e la luna, e della privazione della luce della luna; come, dunque, la prima di queste idee
70 / Étienne Gilson
potrebbe produrre qualche cosa di così differente da lei qual è la
seconda, è ciò che non si concepisce in alcun modo.
Resta dunque, come unica ipotesi concepibile, che l’idea della
causa sia per l’intelletto una semplice occasione di formare in sé l’idea dell’effetto; ma, se si accetta questa soluzione, bisogna stare attenti a tutte le conseguenze che essa implica. A partire dal momento in cui si concede all’intelletto un tale potere, ci si vede obbligati a
ritenerlo capace di passare, non soltanto da un’idea alla cosa che
essa rappresenta, ma anche da un’idea qualsiasi a tutte le altre idee
che possono esserle associate. Tale sarebbe la causa iniziale, anzitutto, degli sviluppi attraverso i legami dialettici o retorici, e dell’invenzione dei termini medi, che permettono di stabilire tra i concetti legami necessari grazie all’uso del sillogismo. Di qui nascono
anche dei legami più laschi di idee che riguardano meno la scienza
che l’abilità e che non generano in noi che credenza o opinione. Tale l’esempio, fornito da Aristotele, di quello che vede qualcun’altro
parlare con un cambiavalute, e da questo solo fatto egli conclude
che questo gli sta rubando del denaro; ma soprattutto l’esempio del
ragno proposto dallo stesso Guglielmo d’Alvernia, e sul quale egli
si compiace di ritornare: questo semplice animale, al solo urto subito dalla sua tela, immagina la caduta di una mosca e pensa che sia
per lui una preda. Ora, si rifletta ai molteplici problemi sollevati da
una tale operazione, e si spieghi da dove vengono all’immaginazione di questo insetto forme così differenti! Esse non possono venirgli dall’eccitazione esterna che ha subito, perché non è l’impatto
prodotto sulla sua tela che può aver generato in lui tali idee; d’altronde, appena nato, e senza avere avuto il tempo di apprendere
niente, il ragno si trova naturalmente capace di produrre il suo filo,
di tessere la sua tela e di installarvisi per prendere le mosche; è dunque da una sorta di arte innata, e come da una disposizione interna a
produrre tali idee, che derivano gli atti che esso compie.106 Dall’uomo che incatena le sue idee attraverso sillogismi dialettici o necessari, fino all’animale che produce spontaneamente immagini o azioni, tutto sembra non potersi spiegare altrimenti che per mezzo di
una sorta di fecondità interiore, di cui questi atti, queste immagini e
queste idee derivano. Ma resta da scoprire l’origine di questa fecondità.
Tommaso contro Agostino / 71
Seguiamo la direzione che l’osservazione dell’attività animale
ci ha appena fornito. Ciò che muove il ragno al compimento dei
suoi atti e all’elaborazione delle immagini che essi presuppongono,
è una sorta di attitudine, o di disposizione, presente permanentemente nella sua anima: habitus qui est tanquam mos in anima aranaeae. Concepiamo il nostro intelletto, a imitazione di quest’anima
animale, come ricco di un’attitudine naturale a produrre le idee, e
munito di una sorta di attitudine innata – quia est sicut mos – a generare spontaneamente le idee di cui ha bisogno; non dovremo allora più far altro che ricordarci le nostre conclusioni riguardo le forme intelligibili e i principi, per comprendere la causa di una tale fecondità.
Il primo vantaggio che presenterebbe questa soluzione del problema sarebbe quello di sopprimere le difficoltà interne all’agostinismo puro. È nota infatti la celebre formula in cui sant’Agostino ci
presenta l’anima come producente, da sé e in sé, le idee dei corpi,
per mezzo della sua propria sostanza.107 Ora, presa alla lettera, questa concezione della conoscenza umana è soggetta a tutte le obiezioni che abbiamo già rivolto contro altri. O si supporrà che l’anima possieda in sé l’insieme delle sue conoscenze allo stato innato,
e si ricadrà nelle difficoltà proprie alla reminescenza platonica; o si
ammetterà che una Intelligenza agente fornisce all’anima le sue idee
secondo l’ordine dei suoi bisogni, dottrina che noi abbiamo escluso; o si supporrà che l’anima agisce su se stessa, cosa che riporta a
dire che essa è al contempo attiva e passiva, che dà e che riceve, e,
cosa peggiore, che produce e che dà idee che essa non possiede affatto.108 La sola risposta conveniente a questa questione consiste
dunque nel concepire una produttività delle idee attraverso l’anima, che non suppone alcuna dualità interna nell’anima medesima.
Per difficile che sia da rappresentarsela, una tale produttività non
può essere inconcepibile né senza esempi nella natura. Essa non è
inconcepibile; perché ogni passaggio dalla potenza all’atto non si
effettua necessariamente per modalità di passione e di azione; e ci
sono anche dei casi in cui un tale modo renderebbe il passaggio dalla potenza all’atto inconcepibile. Consideriamo per esempio il caso
del moto o, più esattamente, della messa in moto. Perché un corpo
che sta per muoversi prenda avvio, bisogna che questo corpo parta
72 / Étienne Gilson
da sé e come attraverso uno scatto indivisibile; perché se occorresse una prima azione per metterlo in moto, questa supporrebbe una
azione anteriore che la producesse, e questa seconda un’altra ancora, e così all’infinito. Ma, di più, una tale produttività semplice
non è senza esempi concreti in natura; la virtù generativa delle sementi, che sono capaci di produrre piante della loro specie, o delle
uova, da cui si vedono sviluppare animali di una specie determinata, rappresentano assai bene quello che potrebbe essere una fecondità interna e diretta come quella di un pensiero. Senza dubbio, una
differenza considerevole separa i due casi, ed è quella per cui le
generazioni naturali esigono del tempo, mentre le generazioni mentali sono istantanee; ma questa differenza attiene semplicemente all’imperfezione della virtù generativa di cui sono dotate le piante e
gli animali; e niente impedisce di ammettere un intelletto capace di
generare le idee così istantaneamente come Dio crea le cose, una
virtù produttiva analoga a quella di un seme capace di generare
subitamente le radici, fusti, foglie e semi che devono provenirne. E
così è precisamente la nostra facoltà di conoscere. La sua natura è
tale che, sotto la minima eccitazione, essa è capace di generare istantaneamente in sé le idee delle cose esterne, di applicarvisi spontaneamente attraverso una sorta di mimetismo naturale analogo a quello della scimmia o del camaleonte e, da lì, di rappresentarseli. Così,
Guglielmo d’Alvernia, per farci concepire l’attitudine innata dell’intelletto alla produzione immediata e indivisibile delle idee, torna
sempre all’esempio dell’istinto animale.
Resta allora un’ultima risposta da fornire. Poiché la causa del
movimento per mezzo del quale l’intelletto genera e collega le sue
idee consiste in una sorta di istinto innato, quale è in lui la causa di
questa attitudine? Guglielmo d’Alvernia raggiunge qui il limite estremo della precisione che gli poteva rimanere accessibile nella
discussione di un tale problema, e la difficoltà consiste per noi nel
discernere l’aspetto positivo di quello che egli considera come una
soluzione. In realtà, il nostro filosofo sembrava essersi rappresentato l’intelletto sotto due aspetti differenti, ma egualmente concepibili. Anzitutto allo stato nudo, come una semplice potenza di conoscere, senza idee innate, senza Intelligenza agente per arricchirlo di
forme intelligibili, senza distinzione d’intelletto agente e passivo
Tommaso contro Agostino / 73
che gli permette di agire su di esse per trarne delle conoscenze; ora,
sotto questa forma, esso appariva a Guglielmo d’Alvernia come assolutamente inerte, impotente e vuoto. Per renderlo adatto a produrre e concepire, cosa occorre? Bisogna che Dio lo fecondi conferendogli questa attitudine interna di cui abbiamo parlato e che non
è altro che l’illuminazione naturale stessa. Da qui, e in questo, Dio
gioca il ruolo di questo “abduttore”, di questo aiutante dal di fuori,
senza il quale la nostra facoltà di conoscere resterebbe per sempre
incapace di passare dalla potenza all’atto. Per divenire attivo a sua
volta rispetto alle idee, bisogna dunque che il nostro intelletto sia
anzitutto passivo rispetto a Dio. E intendiamolo di una passività
assoluta, ben più totale di quella dei colori riguardo la luce, per
esempio; perché la luce non produce i colori nei corpi che essa
illumina, essa li rende solamente visibili rinforzando la loro intensità; l’illuminazione intellettuale, al contrario, è una luce che introdurrebbe al contempo colori e visibilità in ciò che illumina; essa
cade sull’anima integralmente dall’alto e dal di fuori: necesse igitur est ut lumen scientiae desuper adveniens totaliter cadat super
animas nostras.109 Ma, una volta subita passivamente, essa trasforma questo intelletto, fin qui sterile, in una instancabile fecondità.
Arricchita dall’illuminazione divina di questa attitudine a concepire le idee, la nostra facoltà di conoscere diviene capace, non solamente di passare da sola dalla potenza all’atto, ma anche immediatamente in grado di generare istantaneamente tutte le intellezioni. Essa è ormai come una fonte incredibilmente abbondante che ruscella dentro di sé e finisce, in qualche modo, per riempirsi inondandosi. Perché l’intelletto non è solamente fonte delle acque della
scienza e della saggezza, è anche il bacino che le raccoglie e se ne
riempie. Tale l’acqua del mare, o di un fiume, che genera da sé i pesci che essa trattiene, e di cui essa diviene l’habitat: tale è anche la
nostra facoltà di conoscere, che diviene il ricettacolo e l’habitat naturale delle scienze che essa genera. Ora, essa non le genera che in
virtù di una disposizione permanente acquisita, e acquisito qui non
ha altro senso che quello di infuso: acquisitum autem intelligo superinfusum. Che si tratti dunque della saggezza rivelata da Dio ai
Profeti, o delle scienze acquisite dall’intelletto nell’ordine naturale, è sempre alla sua prima fecondazione da parte di Dio che biso-
74 / Étienne Gilson
gna ritornare, colmandosi il pensiero della sua scienza e delle sue
idee attraverso una generazione che richiama da lontano quella del
Verbo nel seno di Dio: sic vis intellectiva quasi impraegnata, et foecundata hujusmodi habitu, de plenitudine illius eructat et gignit
scientias in effectu, in semetipsa et interea semetipsam.110
Tale sembra essere l’ultima parola di Guglielmo d’Alvernia su un
problema che lo ha per lungo tempo preoccupato e sul quale ha molto riflettuto. Sarebbe senza dubbio superfluo insistere sulle imperfezioni tecniche della sua soluzione così come egli ce la propone. Come si effettua questa illuminazione? È sotto la forma di un primo dono sostenuto con il concorso generale di Dio, o richiede un concorso
speciale? Dobbiamo attribuire all’uomo l’attività che l’illuminazione divina gli imprime, o considerarla come il prolungamento diretto
dell’attività di Dio in noi? Numerose le questioni che uno spirito messo in allerta dallo sviluppo ulteriore della scolastica vede affollarsi
davanti a lui, per le quali Guglielmo d’Alvernia ha fornito senza posa
elementi di soluzione, ma che non ha mai posto in termini sufficientemente espliciti perché si possa ritenere di averle veramente risolte.
Così com’è, e perfino per quello che ha di incompleto, il suo pensiero è di un’originalità notevole, fatto che ne spiega la fecondità.
Quando si riassume la situazione lasciata in eredità da Guglielmo d’Alvernia ai suoi successori, si constata in effetti che essa presentava il paradosso singolare di essere assimilata alla dottrina di
Avicenna sotto pretesto di confutarla. Una volta eliminata l’Intelligenza agente separata del filosofo arabo, una volta rigettata qualsiasi azione di un intelletto agente che sarebbe una parte dell’anima, Guglielmo d’Alvernia non lascia più sulla scena che un intelletto umano puramente possibile, e Dio.
Posizione curiosa, ma che si spiega attraverso la domanda precisa che lui stesso si era posto, e che non è esattamente quella che gli
hanno posto gli storici. Ciò che vuole sapere, è come un’anima assolutamente semplice possa produrre da sola le idee senza dividersi. Per chiarire questa difficoltà, Guglielmo d’Alvernia distingue alla
fine due aspetti del problema, e noi dobbiamo distinguerle con lui a
costo di interpretarle a rovescio: anzitutto l’illuminazione dell’intelletto da parte di Dio; in seguito il funzionamento di questo intelletto così illuminato.
Tommaso contro Agostino / 75
Quanto al primo di questi due aspetti, l’intelletto umano si comporta come un intelletto puramente possibile111, perché riceve totalmente l’illuminazione divina e non produce niente. Certo, Guglielmo d’Alvernia non ha mai detto che Dio fosse l’intelletto agente
della nostra anima, ma, sotto questo aspetto, egli non attribuisce all’anima umana che un intelletto possibile, così come fece Avicenna, ed è Dio che nella sua dottrina gioca il ruolo illuminatore che
giocava l’Intelligenza agente separata nella dottrina del filosofo arabo. Egli non lascia dunque ai suoi successori che la scelta tra un
avicennismo decapitato, e la dottrina che fa di Dio il nostro intelletto agente.
Sotto il secondo aspetto, la questione di sapere in quale misura
l’anima umana sia attiva o passiva non ha più senso, perché una tale
questione presuppone la divisibilità dell’anima, che noi sappiamo
indivisibile; in realtà, l’anima illuminata da Dio non è allora più
che una fecondità semplice, generatrice delle scienze e delle forme
di cui si ricolma, nella misura in cui le produce. Così, formulato
nella sua lingua propria e mantenuto nei suoi limiti originali, è più
probabile che il pensiero di Guglielmo d’Alvernia non sarebbe mai
caduto sotto la critica di san Tommaso d’Aquino. Ma, per un fenomeno degno di attenzione, la lingua di Aristotele avrebbe invaso
progressivamente le scuole filosofiche e teologiche più ostili alla
sua dottrina, determinando così curiose combinazioni, in cui la terminologia aristotelica si mette al servizio di idee che essa non era
per nulla fatta per esprimere. È con questo linguaggio che noi vedremo accogliere la dottrina di Guglielmo d’Alvernia, e, sotto pretesto di rivestirla di una formula nuova, abbandonarla ai colpi di
san Tommaso d’Aquino.
3. L’agostinismo avicennizzante
Guglielmo d’Alvernia, il quale non ha mai scritto che Dio è l’intelletto agente delle nostre anime, se lo è forse lasciato sfuggire nel
corso delle innumerevoli discussioni che dovette sostenere su questo punto? L’ipotesi è stata più volte formulata. Essa è così verosimile che si impone alla mente in modo quasi irresistibile; poiché Guglielmo d’Alvernia, una volta vescovo di Parigi, vide moltiplicarsi
76 / Étienne Gilson
sotto i suoi occhi gli “imbecilli” che distinguevano nell’anima umana un intelletto agente e un intelletto possibile, e siccome essi si
chiamavano Alessandro di Hales o Alberto Magno, il venerabile vescovo può aver rivendicato solo per Dio un titolo che veniva profanato ogni giorno sotto i suoi occhi. Chi sa anche in quale misura il
desiderio di andar d’accordo con un prelato universalmente rispettato non abbia indotto certi maestri dell’Università a riservare a Dio
il titolo di intelletto agente, benché non giocasse alcun ruolo nella
nella loro dottrina? Noi siamo troppo lontani dai fatti per sapere quali rapporti personali possano aver condizionato l’espressione del pensiero all’inizio del XIII secolo; ma non bisogna tuttavia dimenticare che un Guglielmo d’Alvernia, vescovo di Parigi, dopo aver egli
stesso a lungo insegnato all’Università, non poteva essere un’autorità trascurabile per i maestri della Facoltà di Arti. Ma c’è di più:
Ruggero Bacone, per prima cosa, ci ha dichiarato di aver egli stesso
inteso Guglielmo d’Alvernia sostenere che l’intelletto agente non
può essere una parte dell’anima, cosa che noi sappiamo in effetti corrispondere esattamente al suo pensiero. E in una seconda testimonianza, Ruggero Bacone precisa che si trattava di riunioni dell’Università, assemblee in presenza del vescovo; che Guglielmo d’Alvernia vi disputò contro i maestri, riprovò le loro dottrine, provò i
loro errori con le ragioni che lui, Bacone, ci riporta, sebbene si fosse trattato per Guglielmo d’Alvernia di sententiare, nel senso proprio del termine: portare la sentenza che chiude una discussione.112
Ci si rappresenta facilmente la scena. Il De Anima, qualunque ne
sia la data esatta, non può essere posteriore al 1228, anno in cui Guglielmo d’Alvernia cessò di insegnare per divenire vescovo. Ora,
più si praticano le sue opere, più ci si domanda se egli abbia mai
parlato di Aristotele altrimenti che attraverso Avicenna, all’epoca
almeno in cui le scriveva. Ma egli doveva sopravvivere alle sue proprie opere, e niente prova che non avesse avuto più tardi la curiosità
del tutto naturale di leggere lui stesso il testo latino del De Anima,
che andava per la maggiore nella sua Università. Di qui a immaginare i cattivi argomenti che ci riporta Bacone, per difendere posizioni irrimediabilmente vecchie, ma proprio sue, la distanza era
breve. Questi argomenti, che Bacone mette espressamente in conto
a Guglielmo d’Alvernia, sono in effetti esattamente quelli che si
Tommaso contro Agostino / 77
potevano trarre dal testo di Aristotele, in favore di una tesi elaborata prima di averlo conosciuto. Si immagini dunque il vescovo di Parigi, meglio informato su Aristotele di quanto lo fosse stato da professore, avendo visto il suo insegnamento ogni giorno più abbandonato dai nuovi maestri, e provandone irritazione, riunirli e far loro una predica vigorosa; poi l’assemblea si scioglie, non senza qualche sorriso: «Questo Guglielmo d’Alvernia è un venerabile vescovo, e un sant’uomo, ma è un filosofo ben vecchio!». Avrà sostenuto
davanti a loro che Dio è l’intelletto agente delle nostre anime? Affermarlo sarebbe forse eccessivo, e lo stesso Ruggero Bacone non
lo afferma espressamente, ma quando ci si rammenta della dottrina
di Guglielmo d’Alvernia, c’è una frase che si fatica ad ammettere
non sia stata pronunciata in una discussione di questo genere: «Non
c’è intelletto agente; ma se proprio volete che ve ne sia uno, la fede,
la ragione e Aristotele stesso esigono che sia separato, cosa che riporta a dire che questo sarebbe Dio». Da Bacone a Guglielmo d’Alvernia, la differenza è unicamente nella modalità di espressione.113
Non ci si può tuttavia accontentare di un’affermazione così sommaria per definire la situazione davanti alla quale si troverà san Tommaso. Dal fatto che si incontravano un po’ dappertutto teologi disposti a chiamare Dio il nostro intellectus agens, si è concluso troppo
frettolosamente che la loro posizione dottrinale si apparentava a
quella di Ruggero Bacone. Ora, a prendere i testi col massimo rigore, un fatto simile sarebbe contraddittorio con le dichiarazioni formali dello stesso Bacone, che si presenta come il rappresentante di
una specie più o meno scomparsa. Ciò che sostiene è quello che hanno sempre insegnato i teologi di una volta, a cominciare dal maestro di tutti, sant’Agostino, ma è anche ciò che nessuno insegna più
ai suoi tempi. Tutti i moderni, ci dice – omnes moderni – attribuiscono all’anima un intelletto agente114; e, quando vi si riflette, questa asserzione illumina la questione d’una luce nuova.
Forse si sarà meglio compresa la posizione esatta del problema
se si sarà partiti da Avicenna e da Guglielmo d’Alvernia, le cui dottrine dominano l’intera storia della questione. È facile incontrare,
nel XIII secolo, filosofi che concedono che in un certo senso Dio
può esser detto il nostro intelletto agente; è molto meno facile trovare un filosofo che non ci attribuisca che un intelletto possibile115
78 / Étienne Gilson
e che riservi a Dio il nome di intelletto agente. Ora, la differenza tra
queste due posizioni è evidentemente notevole. L’una e l’altra si trovano d’accordo nel mantenere la dottrina tradizionale dell’Illuminazione divina, e se si considera questa dottrina come il segno dell’agostinismo, si può dire che i filosofi che la professano meritano
egualmente il nome di agostiniani. Ma si dovrà distinguere allora
due varietà nettamente diverse dell’agostinismo, e perfino dell’agostinismo francescano. Si raggrupperanno nella prima i filosofi
che, pur mantenendo l’illuminazione divina, attribuiscono all’anima umana un intelletto agente; si raggrupperanno nella seconda coloro che non attribuiscono all’anima umana che un intelletto possibile; e il criterio di discernimento tra i due gruppi sarà questo: appartengono al primo, i filosofi per i quali l’espressione di intelletto
agente non si applica propriamente che all’anima umana, benché si
possa applicare in un certo senso anche a Dio; appartengono al secondo, i filosofi per i quali l’espressione di intelletto agente può essere applicata all’anima umana in un certo senso, ma non si applica
in senso proprio che a Dio. L’esame di qualche dottrina conferirà
un senso concreto a questa distinzione.
Se consideriamo innanzitutto la posizione adottata da Alessandro di Hales nella II parte della sua Somma Teologica (1232 circa),
lo troviamo molto lontano da Guglielmo d’Alvernia, la cui opera è
tuttavia pressoché contemporanea alla sua. Anzitutto, egli rifiuta di
ammettere che le facoltà e le operazioni dell’anima siano identiche
all’anima stessa. Invece di concludere da Dio all’uomo, come aveva fatto Guglielmo d’Alvernia, Alessandro di Hales conclude che
le cose non possono andare per l’uomo come per Dio.116 Quanto al
fondo stesso del problema, Alessandro lo discute brevemente e lo risolve nella maniera più netta; Aristotele ha ragione a distinguere
nell’anima umana un intelletto possibile e un intelletto agente; ponendosi poi l’obiezione classica tratta dalla luce, agente separato
della conoscenza sensibile, egli la rifiuta mostrando che il ruolo dell’intelletto agente e quello della luce sono molto differenti117; infine espone la sua concezione dell’astrazione intellettuale, e lo fa in
termini già molto vicini a quelli che userà più tardi san Tommaso.
Certo, una differenza notevole li separa: Alessandro di Hales ammette la composizione ilemorfica dell’anima; egli crede dunque di
Tommaso contro Agostino / 79
poter spiegare l’unità dei due intelletti, attribuendo l’intelletto possibile alla materia dell’anima e l’intelletto agente alla sua forma,
soluzione che né san Tommaso, e neanche Bonaventura credettero
di poter accettare.118 Ciò detto, Alessandro di Hales rifiuta di ammettere che l’intelletto agente sia separato, ma ne fa al contrario una parte dell’anima, lo definisce come la luce naturale che gli appartiene
per diritto di nascita, e descrive la sua funzione come consistente
nell’astrarre la forma intelligibile dei dati forniti dal senso, poi a
imprimerli nell’intelletto possibile.119 Se noi leggiamo, dopo questo, che la necessità di un agente separato, qual è Dio, si impone
nondimeno per conoscere l’ordine divino e trascendente alla nostra
anima, è evidente che questa chiusa non cambia niente della risposta che Alessandro di Hales ci ha appena dato. È sul piano della conoscenza naturale che si pone il problema dell’intelletto agente; quanto alle rivelazioni soprannaturali, essendo dell’ordine della grazia,
esse necessitano di una spiegazione completamente differente e la
loro origine non può trovarsi che in un agente separato.120 Con Alessandro di Hales si è così lontani da Guglielmo d’Alvernia, nel 1231,
così come potrà esserlo, nel 1255, il Commentario sulle Sentenze di
san Tommaso d’Aquino.
Passiamo al maestro francescano, successore di Alessandro di
Hales all’Università di Parigi, e vedremo che, con formule in apparenza più concilianti, Jean de la Rochelle pensa esattamente come
lui. Una lettura superficiale dei suoi testi ci ingannerebbe senz’altro. Nessuno, apparentemente, ammette l’intelletto agente separato
dall’anima più di Jean de la Rochelle, dato che egli concede questo
titolo a qualsiasi azione capace di esercitarsi dal di fuori sul pensiero per renderlo conoscente. Si possono avere dunque intelletti agenti
differenti secondo le differenti classi di oggetti che noi dobbiamo
conoscere. Per classificarle, partiamo dalla distinzione agostiniana
tra gli oggetti che l’anima può conoscere: al di sopra di lei, vicino a
lei, in lei, e al di sotto di lei. L’oggetto che è al di sopra di lei, è Dio;
da questo punto di vista, e per tutto ciò che, di conseguenza, eccede
i limiti naturali dell’intelletto umano, è Dio a essere il nostro intelletto agente; egli non merita dunque insomma questo titolo che nell’ordine della grazia. L’oggetto che è vicino all’anima, è l’angelo.
Anche qui, l’anima è davanti a un ordine di verità che non le sono
80 / Étienne Gilson
connaturali; se si tratta dunque di conoscere le essenze degli angeli,
le loro facoltà, le loro operazioni e i loro ordini, l’anima avrà bisogno di una rivelazione angelica e, sotto questo aspetto, gli angeli
potranno giocare nei suoi confronti il ruolo di intelletto agente. Ma
la questione dell’intelletto agente non concerne propriamente gli aspetti superiori ed eterni dell’anima; essa concerne essenzialmente
l’aspetto per il quale essa si volge verso l’inferiore e il creato. Ora,
se si tratta di conoscere se stessa, l’anima lo fa direttamente. E se si
tratta di conoscere i corpi, essa ha121 per questo una luce interiore
che la dispensa dal ricorrere all’illuminazione di una sostanza separata. In opposizione all’intelletto possibile, tabula rasa che è in potenza
rispetto a tutto ciò che vi si inscriverà, noi abbiamo un intelletto agente, lume intelligibile della prima verità che è naturalmente impresso in noi, e di cui il Salmo dice: Signatum est super nos lumen vultus tui Domine.122 Lo stesso testo che dimostrava l’illuminazione divina per Guglielmo d’Alvernia, prova che noi possiediamo propriamente un lume naturale secondo Jean de la Rochelle; e non siamo
ancora che attorno al 1238.
San Bonaventura, terzo successore di Jean de la Rochelle all’Università di Parigi, è ritenuto talvolta aver fatto sua la dottrina di
Dio intelletto agente. Ora, se noi consultiamo il II libro del suo Commentario sulle Sentenze (1250 circa), vi troviamo delle dichiarazioni, in senso contrario, che non lasciano alcun dubbio sul suo vero pensiero. È fuori discussione che san Bonaventura abbia insegnato
l’illuminazione divina e la conoscenza nelle ragioni eterne; ma è
chiaro che ai suoi occhi la questione di sapere se l’anima possieda
un intelletto agente non si può risolvere che in modo affermativo, e
non un solo testo di sua mano consente di dire che egli abbia attribuito all’uomo un secondo intelletto agente, che sarebbe Dio.123
Aggiungiamo d’altronde che Matteo d’Acquasparta, esattamente
nello stesso senso inteso dal suo maestro san Bonaventura, attribuisce all’anima proprio un intelletto agente, da lei posseduto, benché
vi aggiunga che l’illuminazione divina è necessaria al funzionamento di questo intelletto.124 Non uno solo di questi maestri segue
dunque Guglielmo d’Alvernia e Avicenna nel loro rifiuto di accordare all’uomo un intelletto agente e niente sarebbe più facile di allungarne la lista: tutti restano fedeli alla concezione agostiniana del-
Tommaso contro Agostino / 81
l’illuminazione divina, ma essi fanno cadere questa illuminazione
su un’anima più o meno analoga a quella che noi attribuiamo ad Aristotele; la loro dottrina potrebbe dunque essere chiamata: un “agostinismo aristotelizzante”.
Nettamente differente da questa direzione è, invece, la tradizione a cui si richiama Ruggero Bacone. Egli infatti non nomina che
tre autorità in favore della sua tesi: Guglielmo d’Alvernia, Roberto
Grossatesta e Adam di Marsh; quanto agli hujusmodi majores che
egli aggiunge loro, Bacone non ce ne fa conoscere i nomi. Per quanto
riguarda Guglielmo d’Alvernia, noi sappiamo che egli ha effettivamente sostenuto, se non la dottrina di Dio intelletto agente, almeno
una dottrina realmente equivalente; solo non ne usa il termine. Per
quanto riguarda Adam di Marsh, è uno scrittore di cui non si sa
quali opere possano essergli legittimamente attribuite125 se non in
modo approssimativo, e del quale è di conseguenza difficile dire se
veramente abbia sostenuto la dottrina che Bacone gli attribuisce.
Quanto a Roberto Grossatesta, benché ci manchino importanti elementi, siamo un po’ meno malinformati.
Si è creduto di poter scoprire in uno dei trattati composti dal vescovo di Lincoln la conferma della testimonianza di Ruggero Bacone126; ed è certo che il loro accordo sia perfetto, se non si vede,
nella dottrina di Dio intelletto agente, niente di più che quella dell’illuminazione divina. Il De veritate di Grossatesta prova in effetti che,
su questo punto, egli manterrebbe con fermezza la dottrina di sant’Agostino, ma l’espressione intellectus agens non vi si trova affatto, né niente che autorizzi una qualsiasi ipotesi sul senso che l’autore di questo opuscolo sarebbe stato incline ad attribuirgli.127 Nemmeno ne è fatta menzione nel commentario di Roberto Grossatesta
sulla Teologia mistica di Dionigi l’Areopagita128, e l’espressione
non si incontra più nel Commentario sui Secondi Analitici.129 Tuttavia, quest’ultima opera suppone un filosofo piuttosto influenzato
dall’avicennismo, affinché la testimonianza di Ruggero Bacone acquisisca una probabilità piuttosto alta.
In questo commentario, la cui chiarezza e solidità ne giustificano pienamente il successo persistente dal medioevo al pieno XVI
secolo, Grossatesta avrebbe facilmente trovato molti pretesti per
spiegarsi sulla questione, se veramente egli l’avesse avuta a cuore;
82 / Étienne Gilson
ora, il solo passo in cui viene impiegata l’espressione di intellectus
agens, è citata come di un altro commentatore130 e non getta alcuna
luce sulla questione. Ma forse questa astensione, in un’opera in cui
viene esposta131 la dottrina agostiniana dell’illuminazione, è cosa
che non manca di rivestire un significato importante. Il Commentario sui Secondi Analitici è di data sconosciuta; tuttavia, l’ipotesi
che lo vedrebbe anteriore al 1235, data di elevazione di Grossatesta
all’episcopato, è verosimile, e il fatto è che si muove interamente
nel ciclo delle idee agostiniano-avicenniane, senza che vi si percepisca un’influenza sensibile del De anima.
Ogni volta, in effetti, che viene sollevato il problema della conoscenza degli intelligibili, Grossatesta ricorre alla sua metafisica dell’illuminazione per risolverlo, senza fare la minima allusione alla
distinzione aristotelica tra l’intelletto possibile e l’intelletto agente.
Su due punti critici almeno, il suo Commentario sui Secondi analitici permette di portarne la prova decisiva. Una prima volta, Grossatesta si chiede come sia possibile la scienza in generale. Ogni dimostrazione dipende dall’eterno e il necessario, cioè, in definitiva,
l’incorruttibile. Ora, questo gli sembra sollevare una questione difficile: come è possibile che gli universali siano incorruttibili, quando gli esseri singolari sono al contrario corruttibili; e come è possibile che questi esseri singolari non sussistano un istante senza gli
universali, e tuttavia si possano trarre delle dimostrazioni dagli universali scoperti in questi esseri corruttibili e singolari? In altri termini, se ciò che è universale e incorruttibile non ci è dato che in ciò
che è particolare e corruttibile, non si vede da dove noi possiamo
prendere la necessità delle dimostrazioni che ne traiamo.
Per risolvere questo problema, Grossatesta non ricorre affatto
all’ipotesi di un intelletto agente illuminato da Dio, come abbiamo
visto fare ad Alessandro di Hales. Egli parte semplicemente da questo principio, che le idee delle cose sono in Dio, e che vi costituiscono un mondo archetipo formato dalle cause formali di tutti gli
esseri. Queste idee sono al contempo illuminatrici e creatrici, fonti
del conoscere e dell’essere, cause dell’esistenza dei generi o delle
specie e della conoscenza che è possibile averne. Se dunque supponiamo un intelletto puro e separato dalle immagini sensibili, capace
di conseguenza di contemplare la luce prima, che è nello stesso tem-
Tommaso contro Agostino / 83
po la causa prima, gli sarà possibile fissare il suo sguardo su queste
idee divine, e di scoprire in esse, non soltanto le cose create che vi
conoscerà con una conoscenza molto evidente, ma anche la stessa
luce divina, nella quale egli conoscerà tutto il resto. Gli universali
che sono le idee divine così conosciute sono interamente incorruttibili, e nessuna difficoltà può venir sollevata su questo punto.
Grossatesta non ci dice se una tale conoscenza sia o non sia accessibile all’uomo; tuttavia, poiché parla di un intelletto puro e separato dai fantasmi, egli non può affatto intendere per esso che un
angelo o un intelletto in stato di estasi o profezia. Se al contrario noi
prendiamo il caso normale e naturale di un intelletto purificato in
modo incompleto – intellectus humanus qui non est ad purum defaecatus – ci apparirà come incapace di contemplare immediatamente
la luce prima, ma l’angelo può servire da intermediario tra l’uomo e
Dio. L’angelo, infatti, è precisamente questa Intelligenza pura, che
contempla normalmente le idee divine; ma esso contiene allo stesso tempo la conoscenza di tutti gli esseri che vengono dopo di lui
nella gerarchia universale. Egli le contiene a maggior ragione in quanto Grossatesta considera le Intelligenze separate come gli intermediari, per mezzo dei quali si è effettuata la creazione. Certo, Dio solo crea, ma la sua virtù creatrice si dispiega per mezzo del ministero
degli angeli; niente di più naturale, allora, che attribuire agli angeli
illuminati da Dio le forme esemplari, o idee, delle cose inferiori che
esse generano; ma niente di più naturale anche che ammettere la
possibilità di una illuminazione dell’intelletto umano da parte dell’angelo, cosa che spiega certe conoscenze che hanno gli uomini dell’incorruttibile e degli intelligibili separati.
Una terza maniera di raggiungere i principi incorruttibili della
conoscenza è di speculare sui corpi celesti, la cui materia è sottratta
alla corruzione. Qui, l’intelletto umano può raggiungere direttamente l’incorruttibile che non raggiunge per mezzo delle sue risorse naturali, quando esso le scopre nell’angelo, o in Dio. È questo che spiega, in larga misura, la predilezione che legherà Grossatesta a Ruggero Bacone per lo studio della luce degli astri e delle sue proprietà:
in virtutibus et luminibus corporum coelestium sunt virtutes causales specierum terrestrium quorum individua sunt corruptibilia. La
quarta maniera, infine, è quella di cogliere direttamente la forma
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stessa della cosa, in virtù della quale questa cosa è quella che è.132 E
l’occasione sarà eccellente per farci dire qui quale ruolo giochi l’intelletto agente umano, se Roberto Grossatesta ci attribuisse un tale
intelletto e gli riconoscesse un certo ruolo. In realtà, egli non ci dice
niente, di modo che non si può supplire al suo silenzio se non prolungando fino all’uomo l’influsso lineare delle illuminazioni divine: sic infirmi oculi mentis ipsas res veras non conspiciunt nisi in
lumine summae veritatis; ipsam autem veritatem summam in se
non possunt conspicere, sed solum in coniunctione et superinfusione quadam ipsis rebus veris.133 La sola soluzione che egli porta al
problema della conoscenza umana delle forme intelligibili, è precisamente questa infusione della luce divina che si riversa sull’intelletto umano.
Un altro problema che gli offre una occasione di spiegarsi altrettanto buona, è quello che suggerisce la formula di Aristotele: «un
senso di meno, una scienza di meno». È vero che sopprimere la conoscenza di un ordine dei sensibili è interdire all’uomo qualsiasi
conoscenza degli intelligibili corrispondenti? Invece di chiedere
una risposta molto semplice alla dottrina dell’intelletto agente creato, parte dell’anima umana, Roberto Grossatesta ritorna una volta
di più a Dio, fonte prima di tutte le illuminazioni. Dal punto di vista
da lui adottato, si può dire che in teoria ogni scienza è dispensata di
ricorrere al senso per costituirsi. Il pensiero divino possiede eternamente la conoscenza di tutti gli esseri particolari, senza aver bisogno di astrarre dal sensibile l’essenza di ciascun essere particolare
che egli conosce. Allo stesso modo, anche le Intelligenze separate,
cioè gli angeli, possiedono la scienza degli esseri che sono loro inferiori senza aver bisogno di ricorrere al ministero degli organi sensibili. Ma, allo stesso modo ancora, la parte superiore dell’anima umana, che si chiama la sua intelligenza, e che non usa affatto il corpo nella sua operazione, sarà capace di ricevere la scienza di tutte le
cose senza usare strumenti corporei, e per mezzo di una semplice
irradiazione ricevuta dalla luce superiore. Nei fatti non è così, salvo
forse per certe anime purificate e sciolte dall’amore del corpo. Se
dunque si eccettua questo caso, già notato da Grossatesta a proposito del problema precedente, si constata che la vista dell’anima umana, e il suo occhio interiore – per dirla con Ugo da San Vittore – so-
Tommaso contro Agostino / 85
no obnubilati dal peccato. Attaccandosi al corpo e alle immagini delle cose corporee, l’anima ragionevole si è caricata di un peso che la
grava e le sue facoltà più alte sono, per così dire, assopite; l’effetto
proprio della conoscenza sensibile sarà precisamente quello di risvegliarle.
Roberto Grossatesta, che qui pensa palesemente da puro agostiniano, si rappresenta in effetti la conoscenza sensibile come un’azione esercitata dall’anima e non come una passione che essa debba
subire da parte del corpo. Per lui, come per il suo maestro, i sensi non
sono che degli organi corporei che ricevono le azioni degli oggetti
esteriori; quanto all’anima, essa non riceve niente dai corpi, ma, in
occasione delle azioni subite dagli organi che essa anima, trae da se
stessa le immagini degli oggetti. È sufficiente dunque fare appello
a questa eccitazione dell’anima da parte di quegli indicatori che sono i nostri sensi, per rendere conto del risveglio progressivo della
nostra intelligenza assopita e spiegare allo stesso tempo le idee che
noi ci formiamo degli universali. Continuamente in contatto con i
sensibili, e per così dire confusa con loro, la ragione esce a poco a
poco dal suo torpore; essa comincia a dividere ed esaminare partitamente le qualità che i sensi le presentano legate le une alle altre:
separa e astrae, per esempio, il colore, la grandezza, la figura e il
corpo che le sostiene. Così, questo processo di astrazione a partire
dalle sensazioni ci è imposto dall’intorpidimento di un’anima gravata dal peso del corpo e che, sepolta per così dire nel sensibile, non
può trovare che nello stesso sensibile un’occasione di risvegliarsi.134
La situazione dello storico davanti ai testi che abbiamo appena
analizzato è dunque molto simile a quella creata dai testi di Guglielmo d’Alvernia almeno in questo, che né l’uno né l’altro Dottore ammette la dottrina aristotelica della conoscenza e che tutti e due
si attengono alla concezione tradizionale dell’illuminazione; sotto
questo aspetto, si può perfino dire che il pensiero di Roberto Grossatesta rappresenta uno stato dello spirito ancora più antico di quello di Guglielmo d’Alvernia, perché non si prende nemmeno la briga di negare che noi possediamo un intelletto agente: per questo commentatore di Aristotele, le espressioni di intelletto agente e di intelletto possibile non esistono. Non si può dunque sostenere, allo stato
attuale dei testi, che Grossatesta abbia fatto di Dio l’intelletto agen-
86 / Étienne Gilson
te dell’uomo135, come afferma Ruggero Bacone; ma ci si trova nondimeno condotti a osservazioni che non sono senza interesse.
Anzitutto, sembrerebbe che noi abbiamo alla fine incontrato la
dottrina dell’illuminazione che san Bonaventura stesso considererà
eccessiva136 e che noi non siamo ancora riusciti a determinare. Una
teoria della conoscenza che non mette differenze tra la luce, per mezzo della quale i beati vedono Dio nel cielo; quella per mezzo della
quale Adamo o un’anima libera dal corpo, come era la sua prima della caduta, conoscono l’intelligibile; e quella, infine, per la quale noi
lo conosciamo per mezzo di noi stessi; ma che non ammette tra questi modi di conoscenza che delle differenze di grado, fondate sulla
libertà relativa dell’anima riguardo al corpo in ciascuno di questi
diversi stati: è questo che Grossatesta ci insegna. Il suo pensiero si
muove su un piano così completamente agostiniano e così totalmente estraneo all’aristotelismo, che dovendo spiegare perché la mancanza di un senso determini la mancanza della scienza corrispondente, così come insegna Aristotele, Grossatesta risponde tranquillamente che è a causa del peccato originale. In teoria, noi siamo atti
a ricevere da Dio l’intelligibile senza il soccorso del sensibile; infatti, la sensazione non ha altra funzione che di ravvivare la luce mezza estinta che, partita da Dio, attraversa l’Intelligenza angelica e perviene fino alla parte più alta della nostra propria intelligenza; è dunque alla fine per mezzo di essa sola che noi conosciamo.
L’opposizione di san Bonaventura alla dottrina di Grossatesta non
ha solamente per risultato quello di mettere in piena evidenza quale
scarto separi le due correnti agostiniane che proponiamo di distinguere, essa ci fa allo stesso tempo percepire il carattere puramente
passivo che la dottrina di Grossatesta riconosce in modo implicito
all’intelletto umano. Una luce intelligibile integralmente ricevuta,
oscurata dal peccato, ravvivata dalla sensazione e liberantesi progressivamente fino a poterne di nuovo far senza, è tutto ciò che
Grossatesta ci attribuisce in fatto di intelletto. Se dunque noi supponiamo che Ruggero Bacone l’abbia sentito disputare contro i difensori dell’aristotelismo, quale atteggiamento potrà aver adottato,
se non quello di negare che l’uomo sia in possesso di una luce intelligibile naturale che gli apparterrebbe e gli permetterebbe di estrarre dal sensibile l’intelligibile che vi si trova contenuto? Lascia-
Tommaso contro Agostino / 87
to a se stesso, Grossatesta passa sotto silenzio la distinzione di intelletto agente e intelletto possibile; supposto che lo si sia costretto
a usarla, la sola risposta che egli ha potuto fornire è che se c’è un
intelletto agente, è Dio a essere il nostro intelletto agente. Allo stato
attuale dei testi, non si vede altra soluzione che tenga egualmente
conto di ciò che noi sappiamo sul pensiero di Grossatesta e della
testimonianza difficilmente recusabile di Ruggero Bacone.
John Peckham espone, nelle sue Quaestiones de Anima, una dottrina che può essere ritenuta intermedia tra quella di Guglielmo d’Alvernia e quella dei primi Dottori francescani. Al fondo della questione, è d’accordo col suo maestro san Bonaventura e il loro maestro comune, Alessandro di Hales. Se pertanto si volesse collocarlo
nell’una o nell’altra scuola, è con gli agostiniani aristotelizzanti che
converrebbe classificarlo. Per lui, come per loro, c’è un intelletto
agente che appartiene all’anima umana, che è una parte di quest’anima, e che Peckham designa a molte riprese con un’espressione
che non lascia spazio ad alcun dubbio: intellectus agens creatus.137
D’altra parte, noi lo vediamo rifiutarsi di considerare questo intelletto agente creato come causa sufficiente della conoscenza, anche
semplicemente naturale. Il testo che permette di comprendere meglio quale fu esattamente il suo atteggiamento è quello in cui lo vediamo chiedersi: «A chi va propriamente il nome di intelletto agente: a Dio che illumina l’anima, o all’intelletto agente creato?». La
sua risposta è netta: se bisogna scegliere tra intelletto agente creato
e Dio, è a Dio che andrà meglio riservato il nome di intelletto agente. In altri termini ancora, John Peckham non si accorda pienamente né con Averroè, né con Avicenna, né con san Tommaso d’Aquino, né con Ruggero Bacone. Contro Averroè egli nega l’unicità dell’intelletto agente e dell’intelletto possibile per tutti gli uomini; contro Avicenna, egli nega che l’intelletto agente sia una sostanza separata creata138; contro san Tommaso d’Aquino, egli nega espressamente che ciascun uomo possieda un intelletto agente che sia la
causa sufficiente della nostra conoscenza naturale, e riprende contro questa tesi il vecchio argomento che un’anima umana così costituita sarebbe sapiente per il suo intelletto agente, e ignorante per il
suo intelletto possibile, in una volta e per lo stesso aspetto:139 impossibile ergo est lucem aliquam naturalem, posse intellectum hu-
88 / Étienne Gilson
manum constituere in actu intelligendi; contro Guglielmo d’Alvernia e Bacone, infine, egli attribuisce all’uomo un intelletto agente
creato, ed è questo che lo obbliga a professare che questo intelletto
agente, reale che sia, non è l’intelletto agente vero, poiché il solo
che merita propriamente questo titolo non è altri che Dio. Vediamo,
in questa curiosa condivisione di influenze140 ciò che torna all’uomo e ciò che torna a Dio.
Peckham non si sogna nemmeno per un istante di contestare che
la perfezione propria dell’uomo sia quella di contemplare la verità:
perfectio hominis dicitur esse consideratio veritatis.141 Egli distingue inoltre molto bene il dominio della conoscenza naturale dal dominio della conoscenza soprannaturale, ed è a proposito della conoscenza puramente naturale, intra terminos naturae, che egli invoca
la necessità del concorso divino. Tutti i testi di Agostino relativi alla dottrina dell’illuminazione gli sembrano andare in questo senso
ed egli li interpreta nel modo seguente.142 Anzitutto, la luce divina
concorre al nostro atto di conoscere senza mescolarsi a esso né esserne coinvolta: così come un anello imprime il suo segno sulla cera, ma resta indipendente dall’essere della cera sulla quale egli imprime.143 Inoltre, l’illuminazione divina non esclude l’attività della
nostra anima, né per conseguenza il possesso di un intelletto agente
che le sia proprio, e di cui noi abbiamo già parlato; non ci si deve
dunque esprimere come se, nell’atto del conoscere, Dio facesse tutto e l’anima niente.144 Tuttavia l’operazione dell’anima umana è
così incompleta da essere naturalmente incapace di realizzarsi con
l’aiuto delle sole sue risorse. Ciò che essa può, secondo Peckham, è
ciò che Guglielmo d’Alvernia la riconosceva già capace di fare: se
in omnium intelligibilium similitudinem transformare.145 Non è però assolutamente sicuro che questo mimetismo possa essere considerato come affrancato da qualsiasi collaborazione divina, perché
se noi analizziamo l’atto complesso qual è un giudizio vero, noi vedremo che pressoché nulla è concepibile senza l’azione di Dio. John
Peckham non si è mai espresso in modo assolutamente netto su questo punto, ma non si corre alcun rischio di deformare il suo pensiero
quando lo si riassume così. Essendo data una proposizione necessaria, essa comporta un elemento materiale: i suoi due estremi e la
loro composizione per il giudizio; e un elemento formale: la verità
Tommaso contro Agostino / 89
di questa proposizione. L’elemento formale, che è la verità di questa proposizione, è certamente dovuto all’illuminazione divina; le
idee dei due estremi, essendo intelligibili eterni, sono forse dovuti a
questa stessa illuminazione146; quanto all’attività dell’intelletto agente creato che le compone, è all’anima umana che esse appartengono; sotto questa riserva tuttavia, che l’intelletto divino la faccia passare all’atto.147
Davanti a una simile concezione dell’intelletto agente, nessun
dubbio può sussistere quanto alla scuola a cui John Peckham si
ispira e guarda: l’intelletto agente che ci concede non è niente di più
che l’intelletto fecondato dall’illuminazione divina di cui Guglielmo d’Alvernia ci ha lasciato la descrizione; per il fondo della dottrina, John Peckham appartiene alla stessa linea di Ruggero Bacone, quella dell’agostinismo avicennizzante.148 Se si trascura in effetti l’espressione di intellectus agens creatus, che non è nient’altro
per lui che una concessione verbale, si constata che egli conserva
dell’avicennismo tutto ciò che poteva conservarne un filosofo cristiano. Il senso proprio di intellectus agens, nella dottrina di Aristotele, gli sembra essere quello di intelletto agente separato; da cui risulta che Aristotele non possa aver designato con questo nome una
parte dell’anima, ma solo Dio: intellectus siquidem agens de quo
Philosophus loquitur, non est usquequaque pars animae, sed Deus
est, sicut credo, qui est lux omnium mentium, a quo est omne intelligere.149
Se dunque egli dovesse assolutamente scegliere tra san Tommaso, che non riconosce altro intelletto agente che il nostro, e Avicenna, che riserva questo nome a un intelletto agente separato, è in favore di Avicenna che John Peckham opterebbe senza esitare: et pro
tanto melius posuit Avicenna, qui posuit intellectum agente esse intelligentiam separatam, quam illi ponunt, qui ponunt eum tantum
partem animae. Tuttavia, la sua posizione personale è più complessa: un’anima ragionevole, che è una facoltà (potentia) unica150; in
questa facoltà, due poteri (vires) distinti: l’intelletto possibile, e l’intelletto agente creato, o potere che l’anima ragionevole ha di trasformarsi a somiglianza degli intelligibili; al di sopra di questa facoltà, il vero intelletto agente, che la porta all’atto, le conferisce senza dubbio l’intellezione degli intelligibili, certamente la verità dei
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loro rapporti, e che è Dio. In un tale elenco, il nostro intelletto agente è giusto efficace come lo sarebbe un occhio senza la luce che
lo illumina151; esso non agisce se non finché si trova esso stesso illuminato, così che in definitiva: lumen creatum animae non sufficit
pro intellectuali cognitione: la nostra luce naturale non è la ragione
sufficiente delle sue intellezioni.
Benché la stretta parentela che unisce questa dottrina all’agostinismo avicennizzante sia evidente, si deve constatare tuttavia che
la soluzione del problema della conoscenza professata da John Peckham riservi almeno all’intelletto agente creato quel posto che Guglielmo d’Alvernia gli aveva rifiutato. Queste note individuali, che
caratterizzano le posizioni adottare da ciascun Dottore medievale,
non devono mai essere dimenticate, perfino quando tentiamo di legarle per filiazioni dottrinali. Infatti, è molto difficile trovare un filosofo che abbia insegnato, senza riserve ed espressamente, la dottrina di Dio intelletto agente, e gli storici si sono fino a oggi troppo
accontentati; ma si può dire che tra le soluzioni del problema della
conoscenza effettivamente insegnate, quelle di Guglielmo d’Alvernia, di Roberto Grossatesta e di John Peckham si avvicinano veramente.
Quando si passa a Ruggero Bacone, ci si trova al contrario davanti al tipo compiuto dell’agostinismo avicennizzante. Non è che
il problema dell’intelletto agente lo interessi per se stesso, ma egli
ha bisogno di risolverlo per dimostrare completamente la tesi dell’illuminazione tradizionale, che forma uno dei due elementi essenziali del suo sistema.152 Bacone vuole stabilire in effetti che la verità filosofica è stata innanzitutto rivelata da Dio agli uomini; e dal
momento che, nel suo pensiero, tutte le illuminazioni sono alla fine
dello stesso ordine, egli si attacca alla dottrina di Dio intelletto agente come alla formula tecnica di questa prima rivelazione.153 Il punto
da cui bisogna partire, per comprendere Bacone, è dunque la confusione sistematica di Dio, fonte prima di tutte le illuminazioni, con
ciò che i teologi del suo tempo chiamano intelletto agente.154 Per giustificare questa confusione, egli accumulerà le autorità e le ragioni;
noi esamineremo più a lungo le sue ragioni; quanto alle sue autorità, noi sappiamo ciò che bisogna pensare di Guglielmo d’Alvernia
e di Roberto Grossatesta; nessuno gli contesterà d’altra parte il pa-
Tommaso contro Agostino / 91
trocinio di Avicenna, a cui egli si richiama apertamente155; resta da
sapere se egli si sia ben fondato nel reclamare a sé quello di Aristotele, ed è ciò di cui si può dubitare malgrado l’energia delle sue affermazioni.
Ruggero Bacone non poteva ignorare, infatti, il celebre testo del
De anima, sul quale san Tommaso costruirà ogni sua interpretazione della dottrina, e che afferma che nell’anima, come in ogni altra
natura, ci deve essere un agente e un paziente.156 Ma se è veramente
nell’anima che questo agente si trova, come sostenere che Aristotele indichi l’esistenza di un intelletto agente separato? E se è vero,
d’altra parte, che Aristotele presenta nello stesso testo l’intelletto
agente come separato, in quale maniera spiegare che esso possa
tuttavia far parte dell’anima? La tentazione di sopprimere una delle
due asserzioni contraddittorie è forte, e Ruggero Bacone vi soccombe dichiarando semplicemente che il passaggio in Aristotele che afferma la presenza di due intelletti nell’anima è un testo corrotto.
Niente di più sorprendente, per un filosofo moderno, che gli argomenti critici invocati da Bacone in favore della sua opinione. Contro il tenore letterale del testo, egli non ha la minima obiezione da
formulare, ma scopre nel De coelo et mundo, così come nei Meteorologici, affermazioni di Aristotele che sono palesemente false: la
cui traduzione di Aristotele è sbagliata, incerta e suscettibile di più
interpretazioni differenti.157 Un argomento un poco più preciso si
fonda sulla presenza di affermazioni contrarie alla tesi in questione
nei libri II, I e IV, 3 della Fisica: quare manifestum est aut Aristoteles mentitur, et sibi ipsi contradicit, aut non est sicut moderni dicunt.158 La discussione di questa esegesi veramente troppo approssimativa per una questione così delicata sarebbe fatica sprecata. Il
solo punto che importa è comprendere bene quale tesi sostenga lo
stesso Ruggero Bacone e su cosa si fondino le sue affermazioni.
Quando le si riporta all’essenziale, è facile constatare che esse si riducono a due tesi, un esempio e due autorità.
Le due autorità a cui Bacone si riferisce sono Avicenna e Alfarabi: et hoc per Avicennam et Alpharabium... probo159; cosa che basta a provare la filiazione diretta tra la sua dottrina e l’illuminazionismo arabo. Le due tesi, perché le sue multae rationes vi ritornino
tutte, sono che l’agente è sempre esterno al paziente, e che se l’in-
92 / Étienne Gilson
telletto agente è separato secondo Aristotele, non può essere una parte dell’anima secondo lo stesso filosofo. Che l’agente sia sempre esterno al paziente, è un’evidenza immediata, perché altrimenti si ammetterebbe questa tesi contraddittoria, che una stessa cosa possa agire e patire allo stesso tempo e per lo stesso aspetto; per rendere sensibile questa evidenza che non vale neanche la pena di formulare,
Bacone allega due esempi suggeriti dal testo di Aristotele: l’intelletto agente produce l’intelligibile, come l’artigiano è esterno alla
materia sulla quale agisce e separato da essa per essenza; Aristotele
paragona l’intelletto agente alla luce: ora, la luce del sole che caccia le tenebre dai colori ne è separata e viene loro dal di fuori; la nozione di intelletto agente implica dunque la sua esteriorità in rapporto all’intelletto possibile: certe carpentator est extra materiam secundum suam essentiam, et non sunt artifex et materia partes ejusdem rei, nec lux solis et color quem illuminat.160 Quanto alla seconda tesi, essa risponde alla questione con una domanda. Si tratta di
sapere come, secondo il testo di Aristotele, l’intelletto agente possa
essere nello stesso tempo separato e parte di un’anima che è la forma del corpo; Ruggero Bacone risponde che un intelletto agente separato deve essere allo stesso tempo separato dalla medesima anima. Di qui il verdetto è formulato in anticipo, e, del testo di Aristotele, gli basta tenere tutto ciò che non en te psyche uparkein per
avere inevitabilmente ragione. Il Filosofo dice infatti che l’intelletto
agente è separato dal possibile e non mescolato a lui.161 Egli dice
anche che l’intelletto agente è incorruttibile nel suo essere e nella
sua sostanza, perché si distinguerebbe dall’intelletto possibile. Ora,
noi sappiamo d’altra parte che l’intelletto possibile è incorruttibile
secondo la sua sostanza di intelletto, ma corruttibile secondo il suo
modo di essere, poiché esso è separabile dal corpo. Se dunque Aristotele vuole realmente distinguerli, bisogna che l’intelletto agente sia incorruttibile sia nel suo modo di essere quanto nella sua sostanza. Ma qui torna a dire che l’intelletto agente non è una parte dell’anima, poiché altrimenti il suo modo di essere si corromperebbe
con la separazione dal corpo. La separazione tra l’intelletto agente
e l’intelletto possibile è dunque evidente allo stesso modo.162 Un
terzo argomento dello stesso genere si fonda sulla parola di Aristotele che dichiara che l’intelletto agente sa tutto ed è sempre in atto:
Tommaso contro Agostino / 93
cosa che, presa alla lettera come la prende Ruggero Bacone, non
conviene né all’anima ragionevole, e nemmeno all’angelo, ma solo
a Dio.163
Resterebbe infine l’ipotesi media di un’anima che sarebbe forma del corpo per il suo intelletto possibile, ma non per il suo intelletto agente. Bacone prende di mira apertamente qui, semplificandola
d’altronde al punto da deformarla, la dottrina di Alberto Magno e di
san Tommaso di Aquino, per i quali l’anima intera è l’atto del corpo organizzato, benché il suo intelletto agisca senza organo corporeo. Dottrina che Bacone detesta presso questi Dottori domenicani
così come presso il francescano Alessandro di Hales, e che si vede
qui per quale ragione egli le unisca in una comune esecrazione: è
che ne va di tutta la sua filosofia, e di conseguenza di tutta la sua teologia. O noi abbiamo un intelletto agente, e allora Dio non ha bisogno di rivelare la filosofia agli uomini, poiché essi sarebbero capaci
di costituirla; o noi non abbiamo intelletto agente, e allora la necessità di questa illuminazione tradizionale si impone con un’evidenza
totale, poiché, non avendo gli uomini di che produrre le scienze o la
filosofia, occorre che Dio ne abbia rivelato loro il contenuto. Ecco
perché Bacone accumula gli argomenti per stabilire il carattere contraddittorio di una tale definizione dell’anima.
L’anima è atto del corpo organizzato, oppure non lo è. Se una sola
delle sue parti è forma del corpo, quella che non è forma del corpo
non è atto del corpo organizzato, e di conseguenza non fa parte dell’anima; argomento di cui Ruggero Bacone trova conferma nel testo di Aristotele che rifiuta di contare l’intelletto tra le altre parti dell’anima.164 Allo stesso modo, Aristotele dichiara che l’intelletto è
nel corpo come il pilota nella nave; ora il pilota non è l’atto o perfezione della nave, ma solamente il suo motore165; dunque l’intelletto
non è l’atto del corpo, ma vi resta separato. Infine, un intelletto separato non può essere che una sostanza separata; se dunque l’intelletto agente è separato, non si può sostenere che l’anima possieda
un intelletto agente senza considerarla come includente in sé una
sostanza separata, cosa che è contraddittoria. In effetti, una sostanza intelligente separata, che non sia Dio, non potrebbe essere che
un angelo; ora la differenza specifica dell’angelo è di non poter essere unito a un corpo; non si può dunque attribuire un intelletto a-
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gente all’anima senza attribuire a questa, la cui essenza è di essere
atto del corpo, un elemento la cui essenza è di non poter essere unita a un corpo. L’anima si compone dunque di due essenze contraddittorie: nam species una non componitur ex aliquo alterius speciei
oppositae.166 Non resta dunque altra soluzione che separare del tutto l’intelletto agente dall’anima umana.
Affermare che Ruggero Bacone riporti qui esattamente gli argomenti usati da Guglielmo d’Alvernia contro i maestri dell’Università – et probavit per aliquas rationes, quas pono, quod omnes erraverunt – sarebbe forse concedere alla fedeltà della sua memoria
una fiducia esagerata; si può per lo meno notare che nessuno tra loro contraddice ciò che noi sappiamo del suo pensiero: tutti provano
che l’intelletto agente non può essere una parte dell’anima, cosa che
Guglielmo aveva espressamente insegnato, ed è solamente per via
di conseguenza che Bacone ne deduce la tesi che fa di Dio il nostro
intelletto agente. Niente è allora meglio definito che la dottrina dei
maestri a cui si opporrà san Tommaso, dalla prima all’ultima delle
sue opere: essi sono dei teologi che, sotto l’influenza di Avicenna,
rubano la terminologia di Aristotele per formulare la teoria agostiniana dell’illuminazione. Questa coincidenza tra l’insegnamento
della filosofia pura e quello dei più sapienti dei Padri della Chiesa
conferì alla loro dottrina l’evidenza assoluta che questi Dottori le
riconoscevano167, ma essa legò le sorti dell’illuminazione agostiniana a quelle della filosofia di Avicenna e di Alfarabi. Nella misura esatta in cui Guglielmo d’Alvernia e i suoi sostenitori riuscirono a
dimostrare che la nostra anima non ha che un intelletto possibile e
che l’intelletto agente separato di Avicenna e di Aristotele non può
essere che il Dio di sant’Agostino, essi stabilirono allo stesso tempo che l’illuminazione agostiniana implicava Dio nelle operazioni
della nostra anima.168 Fatto di un’importanza capitale per la storia delle idee nel XIII secolo se, come tutto porta a credere, la preoccupazione di lottare contro l’influenza delle dottrine arabe fu una delle
cause determinanti della riforma tomista: san Tommaso non poteva
più eliminare Avicenna senza eliminare allo stesso tempo la dottrina agostiniana dell’illuminazione.
IV
La critica tomista
dell’agostinismo avicennizzante
Questa era la situazione di fatto di fronte a cui si trovò san Tommaso d’Aquino. Per comprendere l’atteggiamento che egli ritenne
di dover adottare, è importante ricordarsi che per lui il problema da
risolvere era di natura unicamente filosofica, e che le sfumature di
cui lo storico della filosofia deve tenere conto con la maggior cura
possibile non l’interessavano affatto. Per noi, san Tommaso aveva
davanti a sé due scuole di orientamento nettamente distinto. Una,
che utilizzava la distinzione aristotelica tra l’intelletto possibile e l’intelletto agente per marcare più o meno fortemente l’esistenza di un
intelletto umano dotato di un’attività propria, risaliva ad Alessandro di Hales, si separava da Avicenna e da Guglielmo d’Alvernia
nell’attribuire espressamente all’uomo un intelletto agente, ma
restava fedele alla dottrina agostiniana dell’illuminazione. L’altra,
che considerava questa dottrina dell’illuminazione come la soluzione integrale del problema della conoscenza, risaliva ad Avicenna attraverso Guglielmo d’Alvernia, si separava da Alessandro di
Hales, da Jean de la Rochelle e da san Bonaventura in questo, che
negava all’uomo un intelletto agente, e non concedeva alla fine a
questa espressione altra legittima accezione che quella che si applica al solo Dio. Per la prima scuola, Dio non può essere detto il
nostro intelletto agente se non impropriamente; per la seconda, solo Dio può essere in senso proprio il nostro intelletto agente. Per
san Tommaso, le due scuole si equivalgono e le loro soluzioni del
problema della conoscenza si riconducono alla fine a una sola, perché è contraddittorio attribuire all’uomo l’intelletto agente che gli
riconosce Aristotele, se gli si vuole conservare allo stesso tempo
l’illuminazione divina che ci concede sant’Agostino. O questa illuminazione si riduce al dono che Dio ci fa di un intelletto agente col
96 / Étienne Gilson
lume naturale che gli è proprio, oppure questo lume naturale dell’intelletto agente non è sufficiente a se stesso e allora, che lo si voglia
o no, l’illuminazione divina che l’agostinismo gli aggiunge torna a
far di Dio il nostro intelletto agente.
Agli inizi della sua carriera di professore, san Tommaso adotta un
atteggiamento cauto davanti a una questione così grave, che non ha
ancora avuto agio di esaminare personalmente. Tuttavia, egli percepisce già chiaramente i tre elementi di cui si compone il problema e
si cura di dare indicazioni su ciò che pensa in questo momento. La prima questione è quella di sapere se conviene attribuire all’uomo un
intelletto agente, e san Tommaso risponde, nel Commentario sulle
Sentenze (1255 circa), che la dottrina che lo nega non è probabile. Rifiutare a ciascun individuo un intelletto agente che gli sia proprio, è
non attribuire all’anima razionale il principio attivo, senza il quale
quest’anima non può compiere la sua operazione naturale. Di conseguenza, non ammettere che un solo intelletto agente per tutti gli uomini, sia esso Dio o una Intelligenza separata, vuol dire supporre che
Dio abbia creato un’anima ragionevole incapace di usare la ragione.169
San Tommaso segue dunque qui la scia di Alessandro di Hales e si
separa decisamente da Guglielmo d’Alvernia: non enim videtur probabile; è una tesi in favore della quale non scopre alcun argomento.
Non è esattamente lo stesso riguardo la dottrina che fa di Dio il
nostro intelletto agente ma ce ne concede anche uno che sia proprio
a ciascuno di noi.170 Qui in effetti, il secondo punto in questione richiede una soluzione: qual è il pensiero dello stesso Aristotele riguardo la natura dell’intelletto agente? A questo san Tommaso risponde che pressoché tutti i filosofi concordano con lo stesso Aristotele nel fare dell’intelletto agente e dell’intelletto possibile due
sostanze distinte; da cui risulta che l’intelletto agente è una sostanza separata, l’ultima di tutte, e che si comporta riguardo il nostro intelletto possibile come le intelligenze superiori riguardo le anime
delle sfere. Egli constata dunque semplicemente che l’interpretazione di Aristotele proposta da Avicenna è la più generalmente accettata e non pare dubitare egli medesimo che tale sia effettivamente il vero pensiero di Aristotele: in hoc fere omnes philosophi concordant post Aristotelem. Naturalmente, san Tommaso non ne conclude che una tale dottrina sia vera: egli al contrario la rigetta come
Tommaso contro Agostino / 97
inconciliabile con la fede, ed è allora che il terzo elemento del problema si offre al suo apprezzamento: che pensare della dottrina che
considera Dio come il nostro intelletto agente? San Tommaso vede
molto bene che quelli che lo sostengono cedono all’influsso di Avicenna, pur correggendolo: corrigentes hanc opinionem et partim
sequentes. Essi lo correggono, perché sanno che la fonte della nostra illuminazione non può essere distinta dalla fonte della nostra
beatitudine, e che di conseguenza non può essere altri che Dio; essi
lo seguono nel fatto che identificano l’intelletto agente di Aristotele con questa fonte comune dell’illuminazione e della beatitudine.
Di questa dottrina, san Tommaso non dice né che sia vera né che sia
falsa, ma che essa sia assai probabile; espressione di cui non è facile definire la sfumatura esatta, e che noi tradurremmo volentieri così: è una dottrina che si appunta su argomenti assai seri. Qualsiasi
sia l’inclinazione che essa vela, questa indecisione iniziale scomparirà totalmente nelle opere seguenti e san Tommaso eliminerà
senza riserve la dottrina di Dio intelletto agente.171 Il fatto è ben noto, e così vorremmo portare lo sforzo della nostra analisi su ciò che
le considerazioni in nome delle quali san Tommaso la rigetta possono rivelarci del lavoro che è stato svolto nel suo spirito.
Anzitutto è chiaro che il legame stretto che unisce questa dottrina a quella di Avicenna non ha mai cessato d’essere presente al suo
pensiero. Coloro che la sostengono restano ai suoi occhi sempre tali quali li vedeva all’epoca del Commentario sulle Sentenze: dei teologi che mettono Avicenna in regola con l’ortodossia, e la cui tesi
beneficia di tutti gli argomenti scritturali o filosofici invocati in
favore dell’illuminazione agostiniana con la quale essa pretende di
confondersi. Così ritroveremo talvolta qualche cosa del satis probabiliter anche nei testi in cui san Tommaso la giudica e condanna:
la dottrina di Averroè è insostenibile; quella di Avicenna, anch’essa falsa perfino una volta così corretta, non manca di una qualche
apparenza di ragione.172 E si può arrivare a dire che in un certo senso essa è vera. Essa lo è nella misura in cui essa soddisfa questa esigenza fondamentale: collocare Dio all’origine di tutte le illuminazioni e fare di lui la fine di ogni beatitudine. C’è un disaccordo sulla
maniera in cui l’illuminazione divina si eserciti; non ce n’è alcuno
riguardo il fatto stesso dell’illuminazione.173
98 / Étienne Gilson
Resta da sapere perché san Tommaso rifiuti di attribuire a Dio il
titolo di intelletto agente. Sarebbe difficile discernerlo chiaramente
se non si tenesse conto delle questioni precise alle quali rispondono
i diversi testi tomisti che si interroga. Quando il problema esaminato consiste nel sapere se l’intelletto agente sia unico e separato, san
Tommaso risponde con delle considerazioni principalmente filosofiche; e in effetti, la fede non si trova allora direttamente coinvolta
nella scelta della soluzione. Se il filosofo decide che ciascun individuo possiede un intelletto agente che gli è proprio, il teologo non
vi troverà niente da ridire, e se il filosofo decide al contrario che non
esiste che un solo intelletto agente per tutti gli uomini, il teologo eviterà ogni difficoltà dichiarando che questo intelletto unico è Dio.
È per questo che san Tommaso si accontenta in parecchi casi di opporre filosofia a filosofia. Quella di Avicenna rifiuta all’uomo un intelletto agente col pretesto che tutte le forme sono generate da una
Intelligenza separata; san Tommaso nega che il principio sia vero
per la produzione delle forme in generale e, di conseguenza anche
che Avicenna sia ben fondato nel rifiutarci un intelletto agente in particolare. Le sostanze spirituali superiori stanno alle nostre anime nello stesso rapporto in cui i corpi celesti stanno ai corpi inferiori. Allo
stesso modo in cui gli astri sono principi attivi universali che esercitano il loro influsso sul mondo dei corpi, così la potenza divina, o
quella delle sostanze angeliche, si eserciterà sulla nostra anima a
titolo di principio universale. Ora, è evidente che, nell’ordine dei
corpi, quei principi attivi universali che sono gli astri non escludono principi attivi particolari, propri ai corpi sui quali gli astri esercitano il loro influsso. Gli influssi celesti concorrono alla generazione degli animali perfetti, ma bisogna anche che la loro azione si eserciti su una semenza dotata di una virtù propria e capace di svilupparsi. Sarà dunque lo stesso per la più perfetta di tutte le operazioni
che possano essere compiute da un essere umano: l’operazione intellettuale. Si pongano anzitutto i principi attivi universali che sono
Dio o gli angeli, niente di più legittimo; ma bisogna inoltre che un
principio attivo proprio appartenga all’uomo per renderlo effettivamente intelligente, ed è questo principio che è l’intelletto agente.174
Il carattere puramente razionale di questa obiezione, e il fatto che
essa sia la sola di cui ordinariamente si accontenta san Tommaso,
Tommaso contro Agostino / 99
conferiscono un interesse eccezionale al testo della Contra Gentes
che andiamo a esaminare. Questa volta, infatti, la dottrina di Dio
intelletto agente ci viene al contrario presentata come direttamente
compromessa in un errore teologico estremamente grave, di cui essa costituirebbe uno dei fondamenti. Esaminando se l’anima è fatta
della sostanza di Dio, san Tommaso condanna questa confusione
tra la sostanza divina eterna e la sostanza dell’anima creata nel tempo; egli rifiuta di ammettere che un’anima, che è forma di un corpo,
possa essere tratta dalla sostanza di Dio, che evidentemente non è
la forma di alcun corpo, così che tra Dio, atto puro, immobile, invariabile, indivisibile, e l’anima che è composto di potenza e atto, mobile, mutevole, moltiplicata secondo la molteplicità degli individui,
non c’è comunanza di natura. Quest’ultima opposizione è d’altronde la più importante, perché essa mette in evidenza le conseguenza
dottrinale della soluzione su cui ci soffermeremo. Dire che l’anima
è fatta della sostanza di Dio, è sostenere, che lo si voglia o no, che
non esiste che una sola anima per l’umanità intera; perché Dio è indivisibile e unico, in modo tale che la moltiplicazione individuale
di anime carpite alla sostanza divina sarebbe cosa incomprensibile.
Quando si cercano le origini di un simile errore, se ne scoprono
tre. Anzitutto il materialismo. Se non esistono che dei corpi, Dio stesso non può che essere che il più nobile e perfetto dei corpi, non essendo l’anima a sua volta che una particella della sostanza divina; è
la dottrina dei manichei e di numerose altre sette. Poi, una interpretazione troppo letterale di certi testi della Scrittura: «Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza» (Gen I, 26), o: «Il Signore
Dio formò l’uomo dal fango e soffiò sul suo viso il soffio della vita» (Ivi, II, 17); metafore che significano la somiglianza della nostra anima con Dio, e non la loro comunanza di natura. A cui san Tommaso aggiunge un’altra origine: la dottrina che non attribuisce agli
uomini che un solo intelletto, sia agente, come fece Avicenna, sia
agente e possibile, come fece Averroè. Il passaggio da un errore all’altro è in effetti inevitabile in quest’ultimo caso, perché non solamente gli antichi, ma perfino certi contemporanei che professano la
fede cristiana, non vedono la differenza concepibile tra ciò che potrebbe essere questa sostanza intelligente separata e Dio. Così, dire
che non esiste che un solo intelletto per tutti gli uomini, o dire che
100 / Étienne Gilson
l’intelletto di ciascuno di noi è fatto della sostanza di Dio, è dire in
fondo la stessa cosa, ed è perciò che coloro tra i filosofi cristiani che
insegnano l’esistenza di un intelletto agente separato dicono espressamente che questo intelletto agente è Dio.175
Ecco dunque l’agostinismo avicennizzante ricondotto da san
Tommaso alle sue origini e condannato in nome del principio che
gli aveva dato origine. Se esiste un intelletto agente separato per
tutti gli uomini, dicevano i teologi presi di mira dalla Contra Gentes, la fede cristiana impedisce di ammettere che questo sia una
creatura, e di conseguenza non può essere che Dio. Ma la fede cristiana, obietta a sua volta san Tommaso, impedisce anche di ammettere che questo sia Dio, e perciò l’unità dell’intelletto agente
non può essere ammessa. Resta, come unica soluzione teologicamente soddisfacente del problema, la dottrina che riconosce un intelletto agente personale e particolare a ciascun individuo; san Tommaso dubitava persino che essa fosse conforme al pensiero di Aristotele quando esaminò il problema per la prima volta nel suo Commentario sulle Sentenze; in seguito, uno studio più approfondito
dei testi al contrario lo convinse che le esigenze della fede su questo
punto si accordavano esattamente con l’insegnamento di Aristotele, cioè della ragione.
Se si ammette che queste furono le sembianze sotto le quali s’offrì a san Tommaso il campo delle idee filosofiche, ne deriva immediatamente una prima conseguenza. L’identificazione di Dio illuminatore di sant’Agostino con l’intelletto agente separato, che era
stato tratto da un Aristotele interpretato da Avicenna, falsò il pensiero di sant’Agostino; san Tommaso può legittimamente aver creduto di ristabilire semplicemente la verità svincolando sant’Agostino da questo vicinato compromettente. Qualsiasi sia infatti l’ultima interpretazione dell’illuminazione agostiniana a cui ci si ferma,
e la si giudichi conciliabile o no con la gnoseologia di Aristotele, un
punto resta indiscutibile: sant’Agostino non ha mai insegnato che
Dio fosse il nostro intelletto agente e nessuno può sapere quale posizione avrebbe egli stesso adottato in presenza di un simile problema; san Tommaso è dunque storicamente fondato nel negare che l’illuminazione agostiniana si confonda realmente con l’agostinismo
avicennizzante.
Tommaso contro Agostino / 101
Ciò posto, si impone una seconda conseguenza: avendo dissociato sant’Agostino da Avicenna, san Tommaso doveva avere l’impressione di essere meno lontano dal vero agostinismo di quanto lo
fossero i suoi contemporanei. Un Dio che sarebbe nello stesso tempo se stesso e il nostro proprio intelletto è radicalmente inaccettabile per il tomismo; un Dio, invece, che illumina il nostro intelletto
senza esserlo, e che agisce di conseguenza attraverso noi senza essere noi, non è inassimilabile per il tomismo e anzi, di fondo, non
ha che del vero. Ora, è precisamente questo che i testi di sant’Agostino propongono a san Tommaso: una dottrina dell’illuminazione
divina, senza definizione tecnica precisa del modo secondo il quale
si esercita questa illuminazione. Resta dunque, in san Tommaso, il
sentimento di essere in accordo reale con sant’Agostino sul fatto
stesso dell’illuminazione, e di non separarsi da lui rigettando la teoria di Dio intelletto agente che gli si attribuisce, benché non l’abbia
sostenuta; è questo che permette di dare un vero significato a numerosi testi tomisti relativi all’agostinismo e anche di comprendere i
termini entro i quali essi li criticano.
Abbiamo in effetti notato che in nessun luogo san Tommaso intraprende un esame sistematico della dottrina di sant’Agostino, ma
che sembra parlarne in modo accidentale, e piuttosto con la preoccupazione di conciliarsela che di giudicarla. Si spiega generalmente questo fatto con il desiderio di trattare rispettosamente un Dottore la cui autorità filosofica e teologica era universalmente riconosciuta. Niente di più vero. Ma bisogna senza dubbio aggiungere a
questo desiderio il sentimento che, nello stato di indeterminazione
relativa in cui sant’Agostino aveva lasciato la sua dottrina, niente provava che, avendo da scegliere tra la soluzione che veniva attribuita
al suo nome e quella che proponeva san Tommaso, non sarebbe stata quest’ultima che egli avrebbe alla fine scelto. Altra è la questione
di sapere se le interpretazioni tomiste dei testi agostiniani siano storicamente accettabili, altra quella di sapere quello che poteva renderle legittime agli occhi di san Tommaso d’Aquino. Ora, è chiaro
che, essendo minore la distanza del tomismo dall’illuminazione agostiniana di quella del tomismo alla dottrina di Dio intelletto agente, san Tommaso doveva trovarsi portato a diminuire lo scarto che
lo separava da sant’Agostino, ogni volta che egli interpretava i testi
102 / Étienne Gilson
in funzione dell’agostinismo avicennizzante. Tale è per esempio il
caso del testo giustamente celebre, in cui san Tommaso dice nel modo più lucido che Agostino si ispira alla tradizione platonica e lui
alla tradizione aristotelica; da qui la loro divergenza riguardo il modo in cui si esercita l’illuminazione; ma questa divergenza, che egli
definisce in termini molto precisi, gli sembra di poca importanza:
Non multum autem refert dicere, quod ipsa intelligibilia participantur a Deo, vel quod lumen faciens intelligibilia participetur.176 Ed
essa deve in effetti sembrargli così, quanto al contrario deve sembrare degna di considerazione per noi. Per lo storico della filosofia,
una dottrina in cui l’uomo riceve da Dio un lume naturale capace di
produrre gli intelligibili differisce specificamente da una dottrina
secondo cui l’uomo riceve direttamente gli intelligibili da Dio; dal
punto di vista di san Tommaso, l’importante era anzitutto che esse
fossero d’accordo per collocare in Dio la fonte primaria delle nostre conoscenze, dell’intelletto creato attraverso cui noi le riceviamo o produciamo.
Una volta constatato questo accordo fondamentale sul fatto stesso dell’illuminazione, per san Tommaso restava da regolare il problema del modo in cui si esercita l’illuminazione. E qui, un nuovo
accordo s’impose immediatamente al suo pensiero, perfino più completo del precedente, poiché egli riuniva nell’accettazione di una medesima dottrina sant’Agostino, san Tommaso e i seguaci di sant’Agostino. Si trattava in effetti di sapere se noi conosciamo le cose
nelle ragioni eterne, come sostiene sant’Agostino e come sostengono con lui gli agostiniani; ora, san Tommaso constata che sant’Agostino, i suoi seguaci e lui stesso, sono d’accordo nel rifiutare all’uomo una visione delle idee divine che lo collocherebbe quaggiù nella medesima situazione dei Beati. Quale che sia la soluzione del problema alla quale ci si possa attenere, nessuno ne vuol sapere di una
visione nelle ragioni eterne che sarebbe una visione delle ragioni
eterne, ed è un punto di tale importanza che vale la pena di sottolineare l’accordo dei teologi nel sostenerlo.177
Il disaccordo reale, di cui san Tommaso non poteva non constatare l’esistenza, si trovava dunque localizzato in modo molto esatto, e le interpretazioni dei testi agostiniani che ci sorprendono talvolta sotto la sua penna, rispondono, in molti casi, al suo desiderio
Tommaso contro Agostino / 103
di mantenere così localizzato un conflitto che non poteva d’altronde essere completamente evitato. Ridotto alle sue proporzioni esatte, questo conflitto tornava in effetti nel sapere se si poteva ancora
mantenere la formula agostiniana dell’illuminazione, essendo dato
che nessuno voleva farne una visione di Dio, e che tutti volevano
concedere all’uomo un intelletto dotato di una attività propria, che
non si confonde con Dio.
Ciò detto, appare con evidenza che eliminando radicalmente ogni collaborazione speciale di un agente separato alla produzione
dell’intelligibile nell’anima umana, san Tommaso eliminava, insieme all’Intelligenza agente di Avicenna, un aspetto importante del
Dio illuminatore di sant’Agostino. Determinare esattamente sotto
quali influenze, interne o esterne, si sia trovato condotto a perseguire questa radicale eliminazione, sarebbe assegnare la causa del più
grande evento filosofico di tutto il medioevo occidentale e risolvere nello stesso tempo il problema: cur divus Thomas? Sarebbe prematuro il pretenderlo, ma si può già da ora lavorare per porlo in termini precisi e prepararne la soluzione.
Una prima questione da regolare sarebbe quella di sapere chi ha
effettuato, in modo risoluto e indiscutibile, il passaggio dall’agostinismo avicennizzante alla nuova concezione dell’uomo. In seguito
alle precedenti analisi, è san Tommaso, e lui solo; non abbiamo incontrato infatti alcun altro filosofo, prima di lui, che abbia insegnato che l’intelletto agente creato sia la ragione sufficiente della conoscenza umana, scartando qualsiasi illuminazione divina speciale. Tuttavia, si impongono due precisazioni. Anzitutto, questa conclusione non vale se non in funzione delle analisi che precedono; essa di conseguenza lascia da parte l’importante problema di sapere
se la riforma non sia stata prima effettuata da Alberto Magno. Per
non nascondere la nostra opinione, diciamo che noi non lo pensiamo affatto. Alberto Magno non è mai stato tomista, né prima, né durante, né dopo san Tommaso d’Aquino, la cui vita si mantiene all’interno dei limiti della sua; non lo è mai stato, in particolare, sul
punto preciso della definizione dell’anima e della formazione della
nostra conoscenza, ma questa affermazione resta spoglia di valore
fin tanto che non è accompagnata da prove e noi, quindi, non la presentiamo che a titolo di semplice indicazione. Questa prima riserva
104 / Étienne Gilson
ci conduce d’altronde a una seconda, che la corregge: san Tommaso è il solo che sia risolutamente uscito dall’avicennismo, ma diversi dei suoi predecessori avevano preparato e facilitato questo
sforzo liberatore. Nessuno dubita che, da questo punto di vista, Alberto Magno abbia giocato un ruolo notevole. Per tenerci ai filosofi
che abbiamo appena studiato, è chiaro che Guglielmo d’Alvernia o
Roberto Grossatesta, per esempio, siano infinitamente lontani dal
pensiero tomista, mentre i testi di Alessandro di Hales e di Jean de la
Rochelle, col loro intelletto agente creato identico al nostro lume
naturale, si collochino in reazione decisa contro l’avicennismo propriamente detto.178
Supposto che l’abbandono totale dell’antica dottrina risalga a san
Tommaso, si pone una seconda questione: quando è stato effettuato
il passaggio dall’atteggiamento vecchio a quello nuovo? Non si può
negare, in effetti, che il numero delle formule avicenniane sia più
elevato nel Commentario sulle Sentenze che nelle altre opere di san
Tommaso179, e ci si potrebbe chiedere, di conseguenza, se la riforma non si sia effettuata nel corso dell’evoluzione intellettuale di san
Tommaso stesso, a una data che resterebbe da precisare. – Dal punto
di vista delle analisi che precedono, dobbiamo rispondere negativamente. Nel Commentario sulle Sentenze, in effetti, noi abbiamo visto san Tommaso attribuire all’uomo un intelletto agente individuale, ragione sufficiente delle sue operazioni intellettuali; è la stessa tesi, e anche l’argomento fondamentale che egli invocherà costantemente nel corso della sua carriera riguardo la stessa questione: un essere non può essere incapace di compiere la sua operazione propria.
Concesso questo secondo punto, resterebbe da risolvere una terza difficoltà: sotto quale influsso san Tommaso ha potuto abbandonare così tanto l’agostinismo avicennizzante? La risposta a questa
nuova questione può forse essere cercata in due direzioni differenti,
secondo che si supponga un interesse teologico o un interese filosofico all’origine di questa trasformazione. – Tra tutti i testi che abbiamo esaminato, uno solo permette di supporre che san Tommaso abbia avuto un interesse teologico nella questione: è quello della Contra Gentes, II. 85. Ora, a guardar bene, questo testo presenta come
pericolosa la dottrina di Dio intelletto agente perché rischia di indurre al panteismo. Che questo sia, ai suoi occhi, un lacuna e un pe-
Tommaso contro Agostino / 105
ricolo gravi, dunque un argomento contro la dottrina, la cosa non
crea alcun dubbio; tuttavia, non si può concluderne che per rigettarla sia partito di qui, e vi si oppongono anche delle ragioni forti. Anzitutto, san Tommaso non ha mai detto, nemmeno lì, che la dottrina
di Dio intelletto agente fosse eretica; e, in effetti, essa non lo era,
poiché l’eresia che prende di mira consisterebbe nel fare di Dio una
parte dell’anima, quando il Dio intelletto agente è, per definizione,
un intelletto separato. Perché l’errore condannato dalla Contra Gentes fosse realizzato, sarebbe necessaria una combinazione di avicennismo e tomismo: un Dio intelletto agente (come nell’agostinismo avicennizzante), che sarebbe al contempo una parte dell’anima (come è l’intelletto agente nel tomismo); san Tommaso, se gliene renda merito, ha perfettamente visto che si tratterebbe di un mostro storico: un intelletto agente al contempo separato e immanente; è per questo che egli ha potuto segnalare questo pericolo come
una delle conseguenze possibili della dottrina, e questo proprio in
un testo che non verte direttamente sulla questione; ma mai, in alcuno dei testi che la discutono per se stessa, egli ha presentato la concezione di un intelletto agente separato come teologicamente falso,
posto che Dio, e non un angelo, fosse questo intelletto agente.
Resta dunque la sola ipotesi di una ragione filosofica; ma, anche
qui, la si può cercare in due direzioni. La prima tenderebbe a scoprire una dottrina contraria a quella dell’avicennismo che, venendo
a opporsi all’influenza di questo, ne avrebbe perciò liberato il pensiero di san Tommaso. Si è pensato a quella di Averroè, che san Tommaso pare aver conosciuto molto presto, forse dal suo soggiorno all’Università di Napoli, in ogni caso dal suo primo soggiorno all’Università di Parigi.180 I documenti attualmente conosciuti non permettono, almeno che non se ne esageri di molto la portata, di far risalire d’un colpo fino al primo soggiorno a Napoli la data di questa
influenza; niente permetterebbe, di contro, di dubitare che essa abbia potuto esercitarsi su di lui dall’inizio dal suo soggiorno a Parigi,
dove la Facoltà di Arti era da lungo tempo aperta a questa dottrina.
Ma bisogna attribuire al pensiero di Averroè questa azione decisiva
sul pensiero di san Tommaso? Anche qui, noi non poniamo la questione nel suo insieme; la poniamo semplicemente in rapporto al
problema dell’intelletto, e, inoltre, non consideriamo la nostra rispo-
106 / Étienne Gilson
sta come valida che in funzione e nei limiti dell’indagine che noi
abbiamo condotto. Ora, da questo punto di vista, la risposta non
può essere di nuovo che negativa, per questa ragione molto semplice: dato che la dottrina di Averroè è molto lontana dalla soluzione
tomista del problema come quella di Avicenna, il primo non può
aver liberato san Tommaso dall’errore insegnato dal secondo. Averroè è la dottrina dell’intelletto agente e possibile separato; mostruosità teologica, poiché è la negazione dell’immortalità dell’anima,
ed errore filosofico doppio rispetto a quello di Avicenna, se non di
più. Avicenna non è che l’intelletto agente separato, dottrina accomodabile, a rigore, alle esigenze della teologia, e che poteva filosoficamente liberare il giovane Tommaso della metà dell’errore commesso da Averroè. Infatti, ad attenerci ai testi, è piuttosto questo che
sarebbe accaduto all’epoca del Commentario sulle Sentenze181: Avicenna lo libera da Averroè, come ci libera dall’errore una mezza
verità.
La seconda direzione, la sola a restare aperta, supporrebbe che il
travaglio liberatore dall’avicennismo si sia effettuato all’interno del
pensiero del giovane Tommaso d’Aquino. In altri termini, crudele
ipotesi al cuore di un vero storico, la formazione del tomismo si
spiegherebbe anzitutto attraverso il tomismo, e questa filosofia sarebbe prima di tutto la soluzione di un problema filosofico. Se, in
effetti, san Tommaso è un inteprete infedele di Aristotele, attribuendogli la noetica che gli attribuisce, ha dovuto dapprima inventarselo, per poi poter immaginare di non far altro che leggerlo. Se non è,
al contrario, che un interprete fedele di Aristotele, non è Averroè, la
cui interpretazione è del tutto contraria alla sua, che possa avergli
insegnato a interpretarlo. Ma come formulare la questione la cui risposta chiara e distinta avrebbe dato al pensiero medievale una direzione nuova? San Tommaso non ci ha lasciato né un Discorso sul
metodo, né Confessioni, e niente ci permette di indovinare perciò
con quale evoluzione si siano costituiti i principi della sua filosofia.
Astrazion fatta da una sfumatura talvolta più agostiniana nel tono
che egli impiega verso l’inizio, il tomismo è immediatamente ciò
che non cesserà mai d’essere182; questa Minerva è uscita tutta armata dal cervello di Giove, e voler penetrare nel suo cervello per leggere l’atto che la generò, più che saggezza è temerarietà. Forse non
Tommaso contro Agostino / 107
è però impossibile tentarlo, purché non si dimentichi il carattere
ipotetico delle conclusioni a cui è legittimo aspirare.
Non si può pretendere di dimostrare che quello che sarebbe stato
più avanti il punto semplice e fondamentale per san Tommaso, lo sia
stato per lui dalle origini; si può almeno supporre con verosimiglianza, che sia stato realmente così, dato che noi non lo vedremo mai
variare nei suoi principi né nel modo di applicarli. Ora, diverse che
siano le dottrine particolari a cui noi abbiamo visto opporsi san Tommaso, esse si accordano tuttavia in un punto, che è il loro comune
platonismo. Cosa più importante ancora, san Tommaso ha percepito molto chiaramente questo tratto distintivo, e l’ha più volte sottolineato.
Escludiamo i Motecallemin ashariti, messi fuori causa per la loro stessa stultitia, gli altri, a titolo e gradi diversi, appariranno come
platonizzanti, ed è Platone che ci si offre come il padre comune di
tutti coloro qui rebus naturalibus proprias subtrahunt actiones. È
anzitutto il caso di Ibn Gabirol, di cui san Tommaso ha scritto: Et
videtur haec opinio derivata esse ab opinione Platonis.183 È non
meno evidentemente il caso di Avicenna, di cui ha scritto, nello stesso testo: ...et ideo tam Plato, quam Avicenna in aliquo ipsum sequens...; è infine il caso di sant’Agostino di cui, in un testo giustamente celebre, e che fece profonda impressione sugli spiriti del medioevo184, san Tommaso denunciò espressamente il latente platonismo: Augustinus autem Platonem secutus quantum fides catholica
patiebatur...185 Nonostante ai suoi occhi il problema di criticare
uno qualunque dei sistemi che gli si offrono si trova risolto con la
scelta che egli ha dovuto fare, una volta per tutte, tra le due sole filosofie pure che potevano esistere, quella di Platone e quella di Aristotele. Ridotte alle loro nude essenze, queste metafisiche sono
rigorosamente antinomiche; non si può essere con l’una senza essere contro tutti coloro che sono con l’altra, ed è per questo che san
Tommaso resta con Aristotele contro tutti coloro che si schierano al
fianco di Platone.
Se può esser stato realmente così, il punto di partenza della riforma tomista si troverebbe forse nella scoperta, di cui nessun altro
se non san Tommaso ci offre il minimo segno, delle due grandi vie
aperte alla speculazione metafisica, e dell’inevitabile opzione che
108 / Étienne Gilson
si impone a ogni spirito desideroso di pensare con coerenza. Due
teorie del reale, che sostengono due teorie delle operazioni naturali
e, di conseguenza, della conoscenza, la più nobile di queste operazioni. Da una parte, Platone, che tira le conseguenze logiche del materialismo e dello scetticismo dei suoi predecessori: non esistono
che corpi, hanno detto i primi filosofi, e altra conoscenza che la sensazione; ora, i corpi sono in perpetuo divenire e i sensi in contraddizione perpetua; noi non possiamo attingere la verità; è per questo
che Socrate rinuncia alla fisica per volgersi alla morale, mentre Platone, suo discepolo, trasporta nel mondo soprasensibile le idee, ogni
realtà e ogni intelligibilità delle cose; da allora in avanti, i platonici
collocarono sempre in quel mondo le forme pure, la fonte di ogni
efficacia e di ogni verità. D’altra parte, Aristotele, che rifiuta lo
scetticismo latente sotto il platonismo, e tira le conseguenze logiche di questo rifiuto: c’è un elemento di stabilità negli esseri sensibili, ed è per questo che i sensi non si sbagliano quando giudicano,
in condizioni normali, l’oggetto che è loro proprio; da allora, le cose essendo, esse sono necessariamente intelligibili in ciò che esse
sono, ed efficaci nelle loro operazioni che compiono; la conoscenza non si spiega dunque più attraverso un mondo di intelligibili
esterni al pensiero come le medesime cose che esso conosce, ma attraverso un intelletto agente, dotato di un lume naturale che produce l’intelligibile. Ecco qui ciò di cui c’è bisogno, e ciò che è sufficiente per sapere ut profundius intentionem Augustini scrutemur, et
quomodo se habeat veritas circa hoc. Il tomismo sarebbe dunque
nato, in quanto filosofia, da una decisione filosofica pura. Optare
contro la dottrina di Platone per quella di Aristotele, era obbligarsi a
ricostruire la filosofia cristiana su altre basi che quelle di sant’Agostino. Conclusione che ne richiama altre, con essa apparentate al
punto da confondervisi186 ma che le conferma rivestendole di una
formula storica precisa e mostra da dove ci se ne può aspettare delle
nuove in futuro.
Note
Note
1
Il disaccordo tra san Tommaso e sant’Agostino è stato accertato da J. HESSEN, Augustinische und thomistische Erkenntnislehre, Paderborn 1921, pp. 28-29; 38; 53. La sua conclusione ci sembra del tutto vera: «Il tentativo dell’Aquinate e dei tomisti, di superare il conflitto
esistente tra Agostino e l’aristotelismo medievale sui campi della teoria della conoscenza,
deve essere considerato fallito – così possiamo formulare il risultato della nostra indagine»
(p. 69). Quanto a sapere se, come pensa p. Madonnet, san Tommaso sia pienamente cosciente
di questo disaccordo, o se, come pensa J. Hessen, si sia talvolta illuso su questo punto, a causa
della sua mancanza di conoscenze storiche, è un punto che resta da discutere. La soluzione
del problema è d’altronde più complessa di quanto si sia finora supposto.
Si consulterà, sulla medesima questione, il lavoro di Mgr M. GRABMANN, Der göttliche Grund menschlicher Warheitserkenntnis nah Augustinus und Thomas von Aquin. Forschungen über die augustinische Illuminationstheorie und ihre Beurteilung durch den Hl.
Thomas von Aquin, Münster i. W., 1924. I principali sostenitori delle due opposte opinioni
sono citati alle pp. 45-46. Mgr Grabmann, che ha preso posizione sulla questione tanto tempo
fa, sostiene che tra le due dottrine un disaccordo ci sia, e che san Tommaso ne sia cosciente
(pp. 70-71). Dal punto di vista documentale, si noteranno le pagine 38-41, relative all’antica scuola domenicana. Mgr Grabmann dichiara di non aver trovato nulla che attesti in modo evidente un’influenza da parte della dottrina agostiniana dell’illuminazione.
2
J.G. WENRICH, De auctorum graecorum versionibus et commetariis syriacis-arabicis, armeniacis persicisque commentatio, Leipzig 1842. E. RENAN, De philosophia peripatetica apud Syros, Paris 1852. Cfr. R. DUVAL, La littérature syriaque, Paris 1902.
3
ALBERTO MAGNO, De anima, lib. III, tr. 2, cap. 3, in Opera omnia, ed. Jammy, t. III,
p. 135.
4
Contra Gentes, lib. I, cap. 87.
5
Contra Gentes, lib. II, capp. 28-29.
6
Edizione Leonina, t. XIII, p. 328. E prima, É. GILSON, La liberté ches Descartes et la
théologie, Paris 1913, p. 158, che rinviava, per la fonte di questa dottrina, a L.-G. LÉVY,
Maïmonide, Paris 1911, p. 154.
7
Contra Gentes, lib. III, cap. 97.
8
Ivi, lib. III, cap. 67.
9
Ivi, lib. III, cap. 69.
10
Ivi, lib III, cap. 65, fine.
11
Il Moréh Neboukhim di Mosè Maimonide o Guida dei perplessi, fu scritto in arabo e
pubblicato dall’autore nel 1190 (titolo arabo: Dalalat al-hairin). Una prima traduzione ebraica, molto precisa, fu fatta da Samuel ibn Tibbon, nel 1204; una seconda, «che sacrificò
l’esattezza all’eleganza» (cfr. L.-G. LÉVY, cit., p. 276), fu fatta poco dopo la prima da Juda
al’Haziri. Della prima traduzione latina non si sanno esattamente né l’autore, né la data.
Tuttavia, si sa innanzitutto che essa fu anteriore alla metà del XIII secolo, poiché san Tommaso cita frequentemente Rabbi Moyses, e Alberto Magno lo cita ancor prima di lui (cfr.
110 / Étienne Gilson
MADONNET e DESTREZ, Bibliographie thomiste, Nos 1824, 1825, 1827, 1829, e, per quanto riguarda specialmente Alberto Magno, M. JÖEL, Beiträge zur Geschichte der mittelalterlichen Philosophie, Breslau 1876). Se ne conosce inoltre il testo, dopo che Joseph Perles
ha ritrovato il manoscritto: Die in einer Münchener Handschrift aufgefundene erste lateinische Uebersetzung des Maïmonidischen “Führers”, Breslau 1875. Si sa infine che
esistono due traduzioni latine stampate del Moréh Neboukhim. L’una, pubblicata a Parigi
nel 1520 da Augustinus Justinianus (Agostino Giustiniani), fu presentata da lui in termini
così ambigui (cfr. J. PERLES, Op.cit., Anmerkungen, p. 3, nota 6), che non si poteva sapere
se egli ne fosse l’autore o il semplice editore. Infatti, nel XVII secolo, Richard Simon notava: «È pacifico che Justiniani, vescovo di Nebio, non ha affatto tradotto di propria mano
quest’opera del famoso R. Moïse. Egli ne aveva una versione ben più antica, citata da san
Tommaso, da Broduardin e da alcuni altri teologi. Ne ho visto poco tempo fa in Sorbona un
esemplare scritto da una buona mano». Perles ha confrontato il manoscritto di Monaco col
testo a stampa di Parigi e confermato interamente questa conclusione (Op.cit., pp. 16-20),
aggiungendo tuttavia che Giustiniani aveva introdotto nella sua edizione molti errori assenti nel manoscritto (per il testo di R. Simon, Ivi, Anmerkungen, p. 3, nt 10). Questa antica
traduzione era stata fatta sul testo ebraico di Al’Haziri, cioè sulla traduzione ebraica meno
precisa delle due (cfr. J. PERLES, cit., p. 12). La seconda traduzione latina a stampa è quella
di Buxtorf, fatta dal testo ebreo di Samuel ibn Tibbon, e pubblicata nel 1629 (Rabbi Moisis
Majemonidis liber Doctor perplexorum... primum ad authore in lingua arabica ante
CCCCL circiter annos in Aegypto conscriputs, deinde a R. Samuele Aben Tybbon hispano
in linguam haebream, stylo philosophico et scholastico, adeoque difficillimo translatus,
nunc vero nove... in linguam latinam... conversus a Johanne Buktrofio, Fil. - Basileae 1629).
Da ciò risulta: 1. Che il solo testo latino della Guida (per quanto si tratti di traduzioni
integrali) conosciuto dagli scolastici, è quello che deriva dalla traduzione ebraica di Al’Haziri. 2. Che, in principio, ogni confronto tra gli scolastici e Maimonide deve essere fatto con
l’aiuto del testo manoscritto studiato da Perles o, in mancanza di questo, con l’aiuto dell’edizione di Parigi del 1520 che lo riproduce. Tuttavia, i ricercatori sono stati obbligati a
tener conto d’un fatto: l’estrema rarità dell’edizione del 1520, e la frequenza, al contrario,
di quella di Buxtorf, 1629. Ciò spiega perché, pur a malincuore, Jöel si sia accontentato di
confrontare Alberto Magno col testo latino di Buxtorf; e ancora, che gli editori francescani
di Alessandro di Hales (Summa theologica, t. I; Quaracchi, 1924) abbiano scelto questa
stessa edizione di Basilea come termine di paragone (Prolegomena, p. XLIII). Infatti, per
quanto riguarda lo stesso san Tommaso, e specialmente per le fonti asharite, il confronto
non è per niente impedito da questa difficoltà, perché san Tommaso presenta così brevemente il testo, che non si tratta più di una comparazione letterale, a tal punto che, non soltanto la latina di Buxtorf, ma anche l’eccellente traduzione francese di Salomon Munk (Le
Guide des égarés, traité de philosophie et de théologie, par Moïse ben Maïmoun, dit Maïmonide; t. I; A. Franck, Paris 1856) potrebbero, a rigore, essere utilizzate in vista di un tale
lavoro. Citeremo, tuttavia, dopo il testo del 1520, di cui la Bibliothèque Nationale possiede
due esemplari (l’una con note di Guillaume Postel: Rés. A. 588 bis): Rabi Mossei Aegyptii,
Dux seu Director dubitantium aut perplexorum, in treis (sic) Libros divisus, et summa accuratione R. P. Augustini Justiniani O. P. Nebiensium Episcopi recognitus... Verumdatur,
ab Jodoco Badio Ascensio. In-fo, Parisiis MDXX. (Bib. Nat., A. 588).
12
Dobbiamo a M. Léon Gauthier le seguenti indicazioni sulle principali opere da consultare per farsi una conoscenza dettagliata della dottrina degli Ashariti (testi arabi esclusi):
MEHREN, Exposé de la réforme de l’islamisme commencée... par... El Ash’ari, testo arabo
e traduzione francese, Leyde 1879. ABU’L FATH’MUH’AMMAD atch - SCHAHRASTANI’S,
Note / 111
Religionspartheien und Philosophen-Schulen ... übersetz und mit erklärenden Anmerkungen versehen von Dr. Theodor Haarbrücker, Halle, 2 vol., 1850-51. T.J. DE BOER, Geschichte der Philosophie im Islam, Stuttgart 1901, pp. 55-60.
A queste indicazioni, ci permettiamo di aggiungere: L. GAUTHIER, Introduction è l’étude de la philosophie musulmane, Leroux, Paris 1923, pp. 113-114. Tutto il corso pubblico tenuto presso l’Università di Algeri nel 1909-10 da M. L. Gauthier ha riguardato il fondatore di questa setta e la sua dottrina.
13
Vedi, su questo punto, l’interessante nota a margine di J. BUXTORF, ed. cit., I, cap. 69,
p. 124; e S. MUNK, Guide des égarés, t. I, p. 335, nt 2, di cui riportiamo le indicazioni.
14
Giustiniani (Op.cit., fo 29, v.: «Haec via cujuslibet loquentis Maurorum...»: «...quae
fundaverunt loquentes secundum varietatem opinionum istarum, et multitudinem... ecc.)»,
e anche Buxtorf hanno conservato questa traduzione. Così, là dove S. Munk traduce: «Le
proposizioni generali che i Motecallemin hanno stabilito...» (Guida, P. I., cap. 73; t. I,p.
375), Buxtorf traduce: «Principiorum, quae Loquentes... ponunt...» (ed.cit, p.148). Cfr. il
titolo del capitolo: «Principia duodecim Loquentium ad probandum...» ecc. Nel testo di
Buxtorf le due parole sono in corsivo, e non senza ragione; si dovrebbe sottolineare che
quest’uso fu introdotto nelle edizioni di san Tommaso, onde evitare al lettore il senso
inesatto che si offre spontaneamente al pensiero, quando qualche disposizione tipografica
non avverte che si tratta qui di un termine tecnico dal senso definito. – Si vede bene il senso
proprio del termine nel passaggio dalla traduzione latina edita da Giustiniani: «Loquens
dixit philosopho...», Dux seu director..., cit., I, cap. 72, f. 34, v.
15
Vedi S. MUNK, cit., t. I, p. 537, nt I, e p. 538, nt I.
16
Dux seu director... I, cap. 68, cit., f. 27, v.
17
Contra Gentes, l. III, cap. 97.
18
Dux seu director... III, 18, cit., f. 80 v.
19
Ivi, III, 26, f. 88, r.
20
Essa è sottolineata da Maimonide nel l. I, cap. 72, verso la fine del capitolo, dove egli
afferma che le prove della novità del mondo riducono i teologi musulmani a negare che
qualsiasi cosa abbia una natura stabile. Si trova qui, per lui, il legame che collega le due
dottrine. Cfr.: «Omnia vero quae praemisimus de verbis ipsorum necessaria sunt. Et si fuerit destructum unum antecedentium, tota intentio tollitur» ecc... Dux seu director..., cit., f.
36, r.; cfr. Ivi, III, 26, fo 88, v. – r.
21
Ivi, I, cap. 72, f. 32, v. Nella traduzione di BUXTORF, p. 148; in quella di MUNK, t. I,
pp. 375-377.
22
Dux seu director..., cit., I, cap. 72, fo 32, v. – Nella traduzione di BUXTORF, p. 149; in
quella di MUNK, t. I, pp. 377-378.
23
Dux seu director..., cit., I, cap. 72, fo 33, r. Nella traduzione di BUXTORF, pp. 149-150;
in quella di MUNK, t. I, pp. 379-380.
24
Dux seu director..., cit., I, cap. 72, f. 33, v. Nella traduzione di BUXTORF, p. 153; in quella
di MUNK, t. I, pp. 388-89.
25
Dux seu director..., cit., I, cap. 72, f. 34, r.
26
Dux seu director..., cit., I, cap. 72, f. 33, v. Vedi anche l’intero sviluppo della settima
tesi: «Quod idem est judicium in dispositionibus et earum privationibus, et utraque sunt
accidentia, et indigent operatore». Di qui la conclusione che, quando muore un uomo, è Dio
ad aver creato in lui l’accidente della morte, e, d’altronde, egli lo crea in ciascun istante;
cosa di cui Maimonide non smette mai di divertirsi, pensando al fatto che si trovano degli
scheletri vecchi di mille anni, e che, di conseguenza, è più di mille anni che Dio sta ricreando in loro la morte a ciascun istante.
112 / Étienne Gilson
27
Dux seu director..., cit., I, cap. 72, fo 33, v.; nella traduzione di BUXTORF, p. 154; in
quella di MUNK, t. I, p. 391.
28
Dux seu director..., cit., I, cap. 72, fo 34, r.; nella traduzione di BUXTORF, p. 155; in
quella di MUNK, t. I, p. 393.
29
Dux seu director..., cit., I, cap. 72, fo 34, r.; nella traduzione di BUXTORF, p. 156, con
una migliore traduzione delle ultime parole: «Nam in rei veritate hoc nihil aliud est, quam
ludere». In MUNK, t. I, p. 395. Il versetto della Scrittura citato è Gb XIII, 9.
30
Ciò non significa affatto che egli non possa averli conosciuti altrove; ma egli li ha
conosciuti qui, poiché egli rinvia a Maimonide e a lui solo.
31
Vedi il curioso Dialogo tra il Filosofo e il Teologo, in MUNK, t. I, p. 407, e nota I.
32
Ivi, I, 389. Buxtorf pare essersene divertito: «Verum non habent certam aliquam seriem vel catalogum, ut possint dicere; haec accidentium species manet, ista vero non».
33
Contra Gentes, III, 69. La testimonianza dei sensi, che attesta la realtà di una pluralità
di nature diverse ed efficaci è l’argomento decisivo anche per Maimonide. I due argomenti
che seguono sono argomenti di convenienza ispirati allo stesso spirito.
34
Contra Gentes, III, 69.
35
Ibidem.
36
«Ridiculum autem est dicere quod ideo corpus non agat, quia accidens non transit de subjecto in subjectum. Non enim hoc modo dicitur corpus calidum calefacere, quod item numero
calor qui est in calfaciente corpore transeat ad corpus calefactum; sed quia, virtute caloris, qui
est in corpore calefaciente, alius calor numero fit actu in corpore calefacto, qui prius erat in eo
in potentia. Agens enim naturale non est traducens propriam formam in alterum subjectum,
sed reducens subjectum quod patitur de potentia in actum», Ibidem.
37
Avicebron, o Avencebrol, trascrizioni del nome di Salomon ibn Gabirol; filosofo ebreo che gli scolastici hanno generalmente preso per arabo, talvolta perfino per cristiano;
nato verso il 1020, morto tra il 1058 e il 1070. L’identità di Avicebron, autore del Fons vitae, di cui parlano gli scolastici, col poeta ebreo Ibn Gabirol, è stata dimostrata per la prima
volta da S. MUNK, Mélanges de philosophie juive et arabe, Paris 1859, pp. 151-306; ci sono voluti dunque più di sei secoli perché la vera personalità dell’autore del Fons vitae, e l’origine ebraica dell’opera fossero alla fine scoperte. Cfr. I. HUSIK, A history of mediaeval
jewish phisophy, New York 1918, p. 65.
38
Il testo della traduzione latina che conobbero i filosofi del medioevo è stata pubblicata da C. Baeumker, Avencebrolis (Ibn Gabirol) Fons vitae, ex arabico in latinum translatus ab Johanne Hispano et Dominico Gundissalino, in “Beiträge z. G sch. d. Philos. d.
Mittelalters”: I, 2-4; Münster 1895. Citeremo Gabirol da questa edizione.
39
Per il testo della Contra Gentes, che considera l’opinione di Gabirol come meno radicale di quella degli Ashariti, vedi, Op.cit., III, 69: «Huic autem positioni (scil. “quod
nulla creatura habet aliquam actionem”) partim etiam quorundam philosophorum opinio
concordavit»; seguono le opinioni di Avicenna e di Gabirol. Nella Summa Theologica, al
contrario, san Tommaso riconduce la tesi di Gabirol a quella degli Ashariti: «Fuerunt enim
aliqui, qui totaliter corporibus actiones subtraxerunt; et haec est opinio Avicebron, in libro
fontis vitae» I, 115, I. Concl. La ragione di questa asserzione, che rappresenta l’ultima posizione di san Tommaso sulla questione, è che Platone concedeva almeno alla materia dei
principi di azione accidentale (il grande, il piccolo), mentre Gabirol spiega la presenza delle forme, sia sostanziali sia accidentali, per mezzo dell’azione della forza spirituale che attraversa l’universo. Per la tesi di Platone, a cui san Tommaso riconnette Avicenna, vedi sotto.
40
Fons vitae, II, 13, p. 46, 2-12. Cfr. Ivi, p. 45, 19-23; p. 46, 13-22.
41
Per la formula di san Tommaso, vedi Contra Gentes, III, 69. Per quella di Gabirol, ve-
Note / 113
di Fons vitae, II, 10; p. 42, 1-2.
42
Contra Gentes, III, 69, init. Per Gabirol: Fons vitae, III, 16, pp. 113-114. Cfr. Ivi, III,
16, p, 112, 19-22; e anche III, 15, p. 111, 15-26.
43
Questo punto è stato ben studiato da C. BAEUMKER, Witelo, pp. 384-387.
44
L’argomento di Gabirol è ben presentato in Contra Gentes, III, 69. Lo è ancor meglio
in Sum. Theol., I, 115, I, 3m. Per facilitare la comparazione tra i due testi, sottolineamo almeno una volta, a titolo d’esempio, i termini principali che sono loro letteralmente comuni.
Testo di Gabirol: «Et etiam, quia qualitas quae circumdat hanc substantiam (scil. corporalem) est causa vetans eam ne agat. – Quomodo est hoc? – Quia quantitas retinet eam a
motu et vetat eam a progressu, quia comprehendit eam et mergitur in ea. Ac per hoc est
similis flammae ignis quae est obscura propter humiditatem commixtam illi et aufert ei levitatem motus, et sicut aer nubilus qui prohibetur penetrari lumine... Signum hujus rei invenies
in re manifesta, quia omne corpus, quanto magis accreverit ejus quantitas, erit gravius et
ponderosius». Fons vitae, II, 10; ed. Baeumker, p. 40, 26-41, 25. Si osserverà la precisione
con cui san Tommaso dissocia, per considerarli a parte, i diversi argomenti inframmezzati da
Gabirol nella sua esposizione. Così l’argomento citato più sotto: «Addunt etiam...», Contra
Gentes, III, 69; o Sum. Theol., I, 115, 1, 4m, si trova incluso tra due frammenti del testo di
Gabirol che abbiamo appena citato. San Tommaso ha fatto bene a stralciarlo, perché è un
argomento differente.
45
Vedi Sum. Theol., I, 115, I, Concl., et ad 3m. Contr. Gentes, III, 69. Ricordiamo, a
questo proposito, che il calore e il peso sono interpretati qui secondo l’intensità qualitativa,
e che il movimento violento è quello che si fa contro la natura. Ciò che è risposta all’obiezione nella Contr. Gentes passa nel corpo dell’articolo nella Summa Theologica, cosa che
porta san Tommaso allegarvi altri argomenti per rispondere all’obiezione.
46
Riassunto della dottrina da parte di san Tommaso: «Hoc etiam ostendere nituntur per
hoc quod omne patiens est subjectum agenti, et omne agens, praeter primum quod causat,
requirit subjectum inferius se; nulla autem substantia est inferior corporali; unde videtur
quod nullum corpus sit activum» Contr. Gentes, III, 69. Cfr. Sum. Theol., I, 115, 1, 2a ob. –
Testo di Gabirol: «Quid signum est quod haec substantia (scil. corporalis) est patiens et non
agens? – Omnis auctor, excepto primo auctore, in suo opere indiget subjecto quod sit susceptibile suae actionis. Infra vero hanc substantiam non est substantia quae sit receptibilis
suae actionis, quia haec substantia est ultimum esse et ejus finis infimus, et est quasi centrum ad ceteras subastantias intelligibiles», AVICEBRON, Fons vitae, II, 9, p. 40. L’ultima
riga si applica correttamente alla sostanza corporale che, nel sistema di Gabirol, è intelligibile in quanto sostanza e non sensibile: «est intelligibilis et non sensibilis» dice espressamente Gabirol, Ivi, p. 40, l. 12-13.
47
Contra Gentes, III, 69. Cfr. Sum. Theol., I, 115, ad 2m.
48
Cfr. Contra Gentes, I, 69. E Sum. Theol., I, 115, I, 4a ob.; Fons vitae, II, 10, p. 42.
49
Contra Gentes, III, 69; Cfr. Sum. Theol., I, 115, I, ad 4m.
50
Sum. Theol., I, 115, I, Im; Fons vitae, II, 10, p. 42. Il testo di sant’Agostino a cui rinvia
san Tommaso è il seguente: «Causa itaque rerum quae facit, nec fit, Deus est. Aliae vero
causae et faciunt et fiunt; sicut sunt omnes creati spiritus, maxime rationales. Corporales
autem causae, quae magis fiunt quam faciunt, non sunt inter causas efficientes annumerandae, quoniam hoc possunt, quod ex ipsis faciunt spirituum voluntates», De civ. Dei, V,
9, 4; Patr. Lat., t. 41, col. 151.
51
Sum. Theol., I, 115, I, 5a ob. – Per la dottrina asharita che nega ai corpi altre forme che
gli accidenti, vedi più in alto; per la tesi asharita che nega che un accidente possa passare da
un soggetto all’altro vedi nt 22.
114 / Étienne Gilson
Il testo di Agostino a cui rinvia qui san Tommaso è il seguente: «Simul etiam admonemur, si utcumque videre possumus, haec in anima existere, et tanquam involuta evolvi ut
sentiantur et denumerentur substantialiter (scil. mens ipsa, amor ejus, notita ejus), vel, ut
ita dicam, essentialiter; non tanquam in subjecto, ut color aut figura in corpore, aut ulla alia
qualitas aut quantitas. Quidquid enim tale est, non excedit subjectum in quo est. Non enim
color iste aut figura hujus corporis potest esse et alterius corporis», De Trinitate, IX, 4, 5;
Patr. Lat., t. 42, c. 963. Questo testo, che non si adatta se non a fatica al senso proprio dell’argomento può essere un ricordo di Pietro Lombardo, I Sent, dist. 3, cap. 2 (ed. Quaracchi, p. 35, n. 43).
52
Sum. Theol., I, 115, I, ad Im et ad 5m. Per quest’ultima critica degli Ashariti, vedi supra.
53
Contra Gentes, III, 69; Sum. Theol., I, 115, I Concl.
È chiaro che san Tommaso interpreta qui Platone attraverso Aristotele. Cfr. In Physic.,
lib. I, cap. 4, (ed. Cathala, p. 90). Vedi su questa dottrina L. ROBIN, La théorie platonicienne
des idées et des nombres d’après Aristote, Paris 1908; Tavola alfabetica, a Dense et rare, p.
672; Grand et petit, p. 675; Étude sur la signification et la place de la physique dans la
philosophie de Platon, pp. 30-31.
54
San Tommaso non può aver letto Avicenna che nella traduzione di Gundisalvi. Citeremo questa traduzione dall’edizione seguente: Avicenna peripatetici philosophi ac medicorum facile primi opera in lucem radacta, ac nuper quantum ars niti potuit per canonicos
emendata. Logica. Sufficientia. De coelo et mundo. De anima. De animalibus. De intelligentiis. Alpharabius de intelligentiis. Philosophia prima. Venetiis, 1508, f. (Bibl. Nat., Réserve R 82 (I) et 83; due esemplari). Per quanto riguarda la metafisica, si trova un testo talvolta migliore in: Metaphysica Avicennae, sine ejus prima philosophia, ex Dominici Gundisalvi translatione... Venetiis, 1495, f. (Pellechet, 1671, Bib. Nat., Réserve, R. 82 (2) e
618. Due esemplari).
55
AVICENNA, Metaph., lib. IX, cap. 4, init., fol. 104 v.
56
Ivi; in questo testo, e in tutti quelli che seguono, il corpus ultimum designa sempre il
corpo situato più lontanto da noi, e, di conseguenza, più vicino al primo motore.
57
Ivi, fol. 104 v.
58
Ivi; cfr. CARRA DE VAUX, Avicenne, Paris 1900, pp. 246-247.
59
Ivi, p. 104 v.; 105 r.
60
Ivi, f. 105 r.
61
Vedi, per questa teoria, i primi capitoli dell’apocrifo De intelligentiis, in particolare
cap. II, cit., f. 65 r.
62
AVICENNA, Metaph., tr. IX, cap. 6, f. 105 v.
63
AVICENNA, Sufficientia, Lib. I, cap. 10, cit., 19, r. B.; Cfr. I, 11, cit., f. 19 v. A B; Metaph., Lib VI, cap. I, cit., f. 91 r.
64
AVICENNA, Metaph., tract., IX, cap. 3, cit., f. 103 v.
65
AVICENNA, De anima, V, 5.
66
Su questa questione è attualmente in preparazione un lavoro dell’abate J. Rohmer.
67
AVICENNA, De anima, tract. V, 6.
Dopo questo testo, san Tommaso presenta, in modo lucido ed esatto, la dottrina di Avicenna, in Contra Gentes, lib. II, cap. 74.
68
Contra Gentes, II, 74.
69
Quaes. disp. de Veritate, qu. XI, art. I, Concl.; Contra Gentes, II, 76; Quaest. disp. de
Virtutibus, qu. Unic., art. 6 et 8, concl.; Sum. Theol., I, 115, 1, Concl.
70
Contra Gentes, lib. II, cap. 74.
Note / 115
Quanto all’impossibilità, allegata da Avicenna, di una conservazione di forme intelligibili nell’intelletto, san Tommaso gli oppone, principalmente, oltre ad alcuni testi di Aristotele, il fatto che se la materia e la conoscenza sensibile conservano le forme da loro ricevute, l’intelletto, che è loro superiore, deve poter fare altrettanto.
71
I rapporti del De anima di Domenico Gundisalvi con l’opera di Avicenna sono stati
segnalati da A. LÖWENTHAL, Dominicus Gundisalvi und sein psychologisches Compendium, Königsberg In. Diss., Berlin 1890 (Bibl. dell’Univ. di Parigi, D. 21739). – Il testo del
De anima si trova parzialmente pubblicato dallo stesso autore in: Pseudo-Aristoteles über
die Seele. Eine psychologische Schrift des II Iarhunderts und ihre Beziehungen zu Salomon
ibn Gebirol, Berlin 1891 (pagine 79-131). La prima parte di questo lavoro riproduce la dissertazione del 1890. Caricato di ipotesi fantasiose, questo opuscolo ha il grande merito di
fornire un testo utilizzabile (benché lontano dalla perfezione) del De anima di Gundisalvi.
Le ipotesi di Löwenthal sono state discusse da CL. BAEUMKER, Dominicus Gundissalinus
als philos. Schriftsteller, resoconto del 4o Congresso scientifico internazionale dei Cattolici, III sezione, Friburgo 1898.
Avendo intenzione di riprendere lo studio della psicologia di Gundisallinus in un lavoro
d’insieme sulla storia della psicologia da Avicenna al medioevo, noi non toccheremo qui la
sua dottrina se non nella misura in cui essa lega Avicenna a Guglielmo d’Alvernia, e specialmente quanto al problema dell’intelletto agente.
72
Citiamo qui il De anima dal manoscritto della Bibl. Nationale, lat. no 16113. Il testo è
nel peggiore stato che si possa immaginare, ma non avendo Löwenthal pubblicato l’intero
De anima, dovremo ricorrere a esso per le parti dell’opera che non sono state stampate. Per
gli altri, citiamo da LÖWENTHAL, Pseudo-Aristoteles...
La distinzione delle parti dell’intelletto dopo Avicenna è riprodotta nel De anima, ms.
citato, f. 33 r. La dottrina che riduce l’acquisizione della conoscenza all’abito di unirsi
all’intelletto: Ivi, f. 36 v.;37 r. Cfr. anche ms. cit., f. 33 r-v.
73
«Sicut autem per intellectum scientia, sic per intelligentiam adquiritur sapientia, quae
secundum Boetium admodum paucorum hominum est et solius Dei», Ed. Löwenthal, p.
122. Cfr. BOEZIO, De consol. philos., Prosa V. Questa terminologia risale a sant’Agostino,
di cui è ben nota la distinzione tra scientia e sapientia.
74
Tutta la conclusione del De anima, pubblicata da Löwenthal, è caratteristica su questo punto. Vedi Ed. Löwenthal, p. 123-124. Il carattere mistico della dottrina appariva chiaramente nella conclusione, p. 128-130. Non si può sapere in quale misura quest’illuminazione sia richiesta per la conoscenza delle forme intelligibili diverse da Dio.
75
Guglielmo d’Alvernia, nato ad Aurillac; studente, poi professore all’Università di Parigi, vescovo di Parigi nel 1228, morto nel 1249. Sulla sua vita, si veda N. VALOIS, Guillaume d’Auvergne, évêque de Paris, Paris 1880. Sulla sua opera e la sua dottrina i due lavori
migliori sono i seguenti: Math. BAUMGARTNER, Die Erkenntnislehre des Wilhelm von Auvergne (“Beitr. z. Gesch. d. Philos. d. Mittelaters”, II, 1). – KRAMP, Des Wilhelm von Auvergne Magisterium Divinale, Gregorianum, 1920, p. 538-584 e 1921, pp. 42-78; pp. 174-187.
Questi lavori sono molto ben fatti e molto utili da consultare. Nondimeno, dopo aver
analizzato da vicino i testi, ci siamo trovati condotti a una interpretazione della teoria della
conoscenza in Guglielmo d’Alvernia molto differente da quella che Math. Baumgartner ne
ha proposto. Per stupirsi di queste divergenze, bisognerebbe non aver mai letto Guglielmo
d’Alvernia, a cui è stata attribuita una falsa reputazione di chiarezza. Non ha che quel tanto
che si può avere di chiarezza quando non si ha la minima precisione. Se dunque diamo nelle
pagine che seguono un po’ più di quanto non sia strettamente richiesto per comprendere la
critica diretta contro di lui da parte di san Tommaso, non si voglia attribuire alla nostra
116 / Étienne Gilson
interpretazione un coefficiente di certezza superiore a quello che noi stessi le attribuiamo.
Le conclusioni su Guglielmo d’Alvernia e la negazione dell’intelletto agente, ci sembrano
poter esser considerate come del tutto sicure; le conclusioni su Dio intelletto agente delle
nostre anime, si muovono nell’ambito della probabilità. Ci si renderà personalmente conto
con l’aiuto di semplici estratti dal testo medesimo che noi diamo in nota con questa intenzione: la necessità di procedere così con Guglielmo d’Alvernia s’impone assolutamente, perché,
se ci si attiene a delle semplici frasi estrapolate, gli si può far sostenere qualsiasi cosa.
I testi saranno citati da: Guilielmi Alverni, Episcopi parisiensis, mathematici perfectissimi, eximii philosophi ac theologi praestantissimi, Opera omnia, 2 voll., in-f., Paris 1674.
L’indicazione d’Orleans per questa edizione (BAUMGARTNER, in Ueberwegs Grundiss,
10a ed., p. 412, e M. DE WULF, Hist. de la phil. Médiévale, 5a ed., p. 328) si riferisce al
luogo di stampa del libro, ma non al luogo di edizione propriamente detto, che è Parigi.
76
G. D’ALVERNIA, De universo, Ia IIae, cap. II, t. I, pp. 808-809. Egli critica in seguito
lungamente la natura dell’amore per le Intelligenze che Avicenna attribuisce alle anime
delle sfere. Ciò che ama vuole assimilarsi all’amato; ora, le Intelligenze sono immobili,
dunque le anime dovrebbero restare in riposo (Ivi, cap. IV, p. 810) e non muoversi, per assomigliarsi.
77
G. D’ALVERNIA, De universo, Ia IIae, cap. V, t. I, pp. 811. I capitoli VI, VII, VIII (In
quo Aristoteles non tam errasse quam etiam insanissime delirasse videbitur evidenter), IX,
XI, non fanno che accanirsi, da tutti i punti di vista possibili, contro la cosmologia avicenniana e le dottrine di Aristotele che sembrano fondarla. Si troverà, ch. XVIII, p. 824, un’altra critica umoristica dell’Intelligenza agente e delle sue occupazioni.
78
Vedi cap. III, parte I.
79
Questi testi saranno riprodotti, e la loro tradizione studiata, nel lavoro che abbiamo
annunciato sulla storia della psicologia di Avicenna.
80
Vedi sant’AGOSTINO, De trinitate, lib. X, cap. 10, art. 13-16. Patr. Lat., t. 42, col.
980-982. È superfluo notare che lo stesso metodo sarà impiegato da Cartesio per provare la
distinzione di anima e corpo: Meditationes, II, ed. Adam-Tannery, t. VII, p. 27, l. 18; p. 28,
l. 29. C’è un antecedente in più da aggiungere, e non il minimo, a quelli che ha studiato L.
BLANCHET, Les antécédents historiques du “Je pense, donc je suis”, Paris 1920.
81
G. D’ALVERNIA, De anima, cap. III, pars 2a, t. II, p. 87.
82
Ivi, cap. III, pars 10a, t. II, p. 98.
83
Ivi, cap. III, pars 5a, t. II, p. 90.
84
Ivi, cap. III, pars 6a, t. II, p. 92. – Tesi direttamente presa di mira da san TOMMASO:
Qu. disp. de Anima, art. 12; e Sum. Theol., l.77, I, Concl.
85
Ivi, p. 92.
86
Ibidem.
87
Sembra che Guglielmo d’Alvernia debba qui la sua originalità a un’interpretazione
sommaria e frettolosa di alcune dottrine precedenti. Ecco qui tutto ciò che ci dice delle fonti
da cui egli trae la sua dottrina: «Debes autem scire quod non de ingenio meo solummodo,
neque solus hoc dico vel dixi: aliqui enim ex majoribus et sapientioribus Theologorum
legis Christianorum hoc diserunt, et scripserunt, sicut apparere tibi potest ex inspectione
librorum illorum, asserentes expresse quia anima humana et una est et unum est. Quod
autem dividitur vel distinguitur in potentias aut virtutes sive per illas, non secundum essentiam est vel fit hoc, sec secundum officia» (De anima, cap. III, pars 6, t. II, p. 92). Queste
ultime parole tradiscono il testo a cui si ispira Guglielmo d’Alvernia e che non può essere
che AGOSTINO, De Trinitate, XII, 3, 3: «Cum igitur disserimus de natura mentis humanae,
de una quadam re disserimus, nec eam in haec duo quae commemoravi (scil. Ratio superior
Note / 117
et ratio inferior), nisi per officia geminamus» (Patr. Lat., t. 42, col. 1000). Non c’è bisogno
di dire che il pensiero di sant’Agostino è più complesso; ma G. d’Alvernia credeva di seguirlo fedelmente, mentre non faceva che esagerare le formule di Isacco della Stella e di Alcher de Clairvaux posti dal De spiritu et anima sotto l’autorità di sant’Agostino. Cfr. Op.cit.,
cap. IV; XIII; XIX; in sant’AGOSTINO, Opera omnia, Patr. Lat., t. 40, col. 781, 788, 794.
88
Ivi, p. 92. Comparazione più volte ripresa, e interpretata, con maggior profondità da
Alberto Magno; in particolare De anima, lib. II, tract. I, cap. II, ed. Jammy, t. III, pp. 57-58.
89
Non saranno inutili alcune indicazioni sulla speciale terminologia di Guglielmo d’Alvernia. Egli nomina costantemente intellectus materialis l’intelletto che san Tommaso chiamerà intellectus possibilis; l’epiteto materialis non designa qui che la ricettività, o passività, che caratterizza quest’intelletto, e non presuppone affatto che esso sia un corpo. – D’altra parte, il contenuto cognitivo dell’intelletto è da lui designato con il nome di signa; un signum è ciò che l’intelletto apprende e che costituisce il termine immediato dell’intellezione; la scelta della parola “segno” si spiega, in altre parole, per il fatto che G. d’Alvernia
considera i concetti come significativi piuttosto che come rappresentativi degli oggetti,
sebbene uno stesso “segno” possa eventualmente corrisponderebbe a oggetti molto differenti. La sua concezione dei segni mentali, che si rappresenta come cifre il cui valore cambia con la loro posizione in un numero (De universo, IIa IIae, col. 3, t. I, p. 1018) dovrebbe
essere studiata più di quanto non sia stato fatto finora.
90
De anima, cap. VII, pars 3, t. II, p. 205. Guglielmo d’Alvernia non nomina questi
sostenitori di Aristotele già così numerosi.
91
Ibidem.
92
Ivi, cap. VII, pars 3, t. II, p. 206.
93
Cfr. Ivi, cap. VII, pars 4, t. II, p. 207: «Quod inter intelligibilia et intellectum possibilem non est ponendus intellectus agens medius, irradians intellectum materialem sive possibilem». Questo titolo, pur non essendo redatto da Guglielmo d’Alvernia, riassume nondimeno il suo capitolo con una perfetta fedeltà. La dottrina del De anima è presa di mira direttamente da san TOMMASO: Sum. Theol., I, 79, 3 e I, 79, 4. Quest’ultimo articolo rinvia immediatamente alla Quaest. disp. De Anima, art. 4.
94
G. D’ALVERNIA, De anima, cap. VII, pars 4, t. II, p. 207. Cfr. Pars 3, pp. 205-206 – Si
constaterà la fedeltà letterale con cui san Tommaso presenta questo argomento in Sum.
Theol., I, 79, 3, ob. Ia e ad Im. Cfr. Quaest. disp. de Anima, art. 4, ob. 5a e ad 5m.
95
G. D’ALVERNIA, De anima, cap. VII, pars 4, t. II, p. 207. Per il rifiuto di questo argomento da parte di san TOMMASO: Sum. Theol., I, 79, 3, ob. 3a e ad 3m. Cfr. Quaest. disp.
de Anima, art. 4, ob. 4a. – L’origine dell’argomento si trova evidentemente in Aristotele, De
anima, III, 5, 430, a, 16.
96
Le due interpretazioni sembravano rimanere libere nella Summa theologica ma san
Tommaso fa sua quella di Averroè nella Quaest. disp. de Anima, art. 4, ad 4m. Presa in questo secondo senso, la comparazione si applica meno bene alla tesi, ma san Tommaso osserva che in effetti Aristotele la presenta come applicandola ôñüðïí ôéíá, cioè che: «intellectus agens est quasi lumen quodam modo».
97
G. D’ALVERNIA, De anima, cap. VII, pars V, t. II, p. 210. Cfr. san TOMMASO, Sum.
Theol., I, 79, 3, ob. 3a e ad 3m.
98
G. D’ALVERNIA, cit., cap. VII, pars 6, t. II, p. 212. Cfr. san TOMMASO, Sum. Theol., I,
79, 4, ob. Ia e ad Im. E Quaest. disp. de Anima, art. 4, ob. 7a e ad 7m.
99
G. D’ALVERNIA, cit., cap. VII, pars 3, t. II, p. 206. Cfr. san TOMMASO, Sum. Theol., I,
79, 4, ob. 2a e ad 2m. San Tommaso rinforza l’argomento di Guglielmo d’Alvernia che gli si
oppone attraverso la testimonianza di Aristotele, ma in fondo non lo modifica in nulla.
118 / Étienne Gilson
100
G. D’ALVERNIA, De anima, cap. VII, pars 4, t. II, p. 208. – Presentato in una forma
più tecnica da san TOMMASO, Sum. Theol., I, 79, 4, ob. 3a e ad 3m. Cfr. Quaest. disp. de Anima, art. 5, ob. 6a. Le due ultime obiezioni di san Tommaso non ci sembrano centrare direttamente il testo di Guglielmo d’Alvernia; in ogni caso, non siamo riusciti a effettuare alcun
accostamento di testi abbastanza evidente per dare forza nuova a questa dimostrazione.
Tuttavia, l’ob. 4a di san Tommaso sembra prendere di mira G. D’ALVERNIA, cit., cap. VII,
pars 4; cfr. RUGGERO BACONE, Opus majus, ed. J.H. Bridges, t. III, p. 46.
101
G. D’ALVERNIA, De universo, IIa IIae, cap. 3, t. I, p. 1018.
102
G. D’ALVERNIA, De anima, cap. VII, pars 7, t. II, p. 213. Per determinare l’esatto significato di questa dottrina, è importante rimarcare che Guglielmo d’Alvernia pone qui
espressamente il problema dell’astrazione di un’idea da parte dell’intelletto a partire da
un’immagine; ora egli dichiara di averlo già risolto pro parte; il testo precedente, che abbiamo appena analizzato, e che solo si rapporta a questo problema, riguarda dunque la formazione dei concetti per astrazione.
103
De anima, cap. VII, pars 5, t. II, p. 210. Cfr. De universo, Ia IIae, cap. XV, t. I, p. 822.
Non c’è bisogno di notare che questa dottrina prepara la soluzione occamista del problema
dell’astrazione.
104
De anima, cap. VII, pars 6, t. II, p. 211. Cfr. De universo, Ia IIae, cap. VIII, t. I, p. 816.
105
De anima, cap. VII, pars 8, t. II, p. 213.
106
Ivi, cap. V, pars 7, t. II, p. 122. Cfr. cap. VII, pars 8, t. II, p. 213.
107
I due testi di sant’Agostino ai quali Guglielmo d’Alvernia fa più spesso allusione,
senza mai nominarli espressamente né citarli alla lettera, sono De genesi ad litteram, XII,
16, 33 (Patr. Lat., t. 34, c. 467) e De Trinitate, X, 5, 7 (Patr. Lat., t. 42, c. 977). Questi due
testi sono quelli ai quali Guglielmo d’Alvernia pensa generalmente quando cita «unum ex
nobilioribus gentis Christianorum doctoribus». Cfr. nota seguente.
108
G. D’ALVERNIA, De anima, VII, 9, t. II, pp. 215-216.
109
G. D’ALVERNIA, De universo, Ia IIae, cap. 41, t. I, pp. 839-840. Cfr. cap. 16, p. 283.
110
G. D’ALVERNIA, De anima, cap. VII, pars 8, t. II, p. 214. Quest’ultima comparazione
richiama la formula di sant’Agostino: «Deus lumen cordis mei, et panis oris intus animae meae, et virtus maritans mentem meam et sinum cogitationis meae», Confess., I, 13, 21.
111
Ivi, pars 3, t. II, p. 206. È questo che spiega i testi in cui Guglielmo d’Alvernia sottolinea il carattere totale dell’illuminazione, cioè il suo carattere totalmente estrinseco, e senza
cooperazione attiva da parte dell’anima. Per un curioso rivolgimento delle posizioni storiche, egli utilizza la comparazione aristotelica della tabula rasa per esprimere la passività
totale della nostra anima rispetto l’illuminazione. Vedi De universo, Ia IIae, cap. 41, t. I, pp.
839-840. Egli differisce dunque da Avicenna riguardo l’individualità dell’illuminatore, ma
ne conserva esattamente l’idea di illuminazione.
112
Vedi RUGGERO BACONE, Opus majus, II, 5, ed. J.H. Bridges, t. III, p. 47 e Opus
tertium, cap. 23, ed. J.S. Brewer (“Rer. Britann. med. aevi scriptores”) London 1859, pp. 7475. La correzione di quest’ultimo testo da parte di Werner (in R. CARTON, Op.cit., p. 188, nt
3) che preferisce currus Eliae a corvus Eliae non ci sembra felice. Adam di Marsh vuol dire
che Dio ci illumina direttamente, o attraverso l’intermediazione degli angeli, come ha
nutrito Elia nel deserto per mezzo dell’intermediazione di un corvo. Quanto alla data di
queste assemblee, Noël Valois (Op.cit., p. 26) ritiene che una può essere collocata il 13
gennaio 1241; cosa che in effetti è possibile, benché quest’assemblea sembra essere stata
occupata soprattutto dalla condanna di dieci errori di Stephanus de Varnesia che vertono su
altre questioni (Chart. Univ. Paris., I, 170-172). Ad ogni modo, dato che Guglielmo d’Alvernia è morto nel 1249, cioè dopo Alessandro di Hales (1245) e Jean de la Rochelle (1245),
Note / 119
san Tommaso può averlo conosciuto a Parigi, benché vecchio e malato, mentre studiava
all’Università sotto la direzione di Alberto Magno dal 1245 al 1248 (Cfr. MADONNET,
Bibliographie thomiste, p. X). Per interpretare i testi di san Tommaso, non bisogna dunque
dimenticare che Guglielmo d’Alvernia è un suo contemporaneo.
Sull’ipotesi secondo la quale Guglielmo d’Alvernia avrebbe impiegato verbalmente
l’espressione “Dio intelletto agente” vedi: MADONNET, Siger de Brabant, pp. 242-243.
Vedi R. CARTON, L’experience mystique..., p. 189, nt I; O. KEICHER, Der intellectus agens
bei Roger Bacon, p. 303.
113
Le prime indicazioni su questo punto, a cui si sono ispirati tutti gli storici posteriori,
sono state date da MADONNET, Siger de Brabant (Les philosophes belges, t. VI), pp. 239244. Si troveranno utili indicazioni in O. Keicher, Zur Lehre ältesten Franziskanertheologen vom Intellectus agens, dans Abhandlungen aus dem Gebeite der Philosophie und ihrer
Geschichte. Eine Festgabe zum 70 Gebrustag G. Fr. V. Hertling gewindmet. Freib. I/Breis
1913, pp. 173-182. B.A. LUYCKX, Die Erkenntnislehre Bonaventuras (Beitrage, XXIII,
3-4) 1923, pp. 66-76 e p. 223. Tra tutti gli storici c’è un accordo perfetto riguardo il fondo
della questione (N. VALOIS, Guillaume d’Auvergne, p. 290; p. MADONNET, Siger de Brabant, pp. 242-243; O. KEICHER, Der intellectus agens bei Roger Bacon, p. 303; quest’ultima pagina è molto adeguata per riconoscere che tra Guglielmo d’Alvernia e Ruggero Bacone non c’è che una differenza di parole: si tratta esattamente della medesima dottrina).
114
Opus majus, II, 5, t. III, p. 45. Opus tertium, cap. 23, p. 74.
Sulla dottrina di Bacone riguardo il ruolo dell’intelletto nella conoscenza, vedi R. CARTON, L’experience mystique de l’illumination intérieure chez Roger Bacon (Études de philosophie médiévale, III) Vrin, Paris 1924, pp. 175-192. O. KEICHER, Der intellectus agens bei
Roger Bacon, Festgabe zum 60 Geburstag Cl. Baeumker, Münster i W. 1913, pp. 297-308.
115
È in effetti la concezione di un’anima umana puramente possibile che Ruggero Bacone sostiene a sua volta; l’atto di conoscere non si spiega in essa che in virtù di un intelletto agente e possibile. Cfr. Opus majus, II, 5, ed. J.H. Bridges, t. III, p. 45, 47. Opus tertium,
cap. 23, ed. J.S. Brewer, p. 74. Vi sono qui le stesse espressioni che usava Guglielmo d’Alvernia, e vedremo come sia difficile ritrovarle altrove. Infatti, non le incontreremo che
presso di lui e presso Ruggero Bacone che fa professione di ripeterle.
116
Come farà san Tommaso d’Aquino, egli ragiona in modo opposto rispetto a Guglielmo d’Alvernia. Poiché in Dio l’essenza e l’operazione sono identici, esse devono essere distinte nelle creature. ALESSANDRO DI HALES, Summa theologica, pars II, qu. 65,
membr. I, fo 105 r.; cfr. J. PECKHAM, qu. XXXII, ed. Spettman, p. 204.
117
ALESSANDRO DI HALES, Summa theologica, II, qu. 69, art. 3, fo III r.
118
San Tommaso rigetta infatti la composizione ilemorfica dell’anima, cosa che regola
fin da subito la questione. Quanto a san Bonaventura, egli ammette la composizione ilemorfica dell’anima, ma contesta la corrispondenza della materia e della forma con l’intelletto
possibile e l’intelletto agente. Vedi su questo punto E. GILSON, La philosophie de saint
Bonaventure, p. 349. La prudenza che constatiamo in Alessandro di Hales riguardo la dottrina dell’intelletto agente non gli impedisce di aderire alla teoria agostiniana dell’illuminazione; ma essa non si presenta in lui che in termini egualmente prudenti e molto attenuati.
119
ALESSANDRO DI HALES, Summa theologica, Pars II, qu. 69, membr. 3, art. 3, ed. del
1516; f. 110, v.
120
Ivi, f. II v.
Si osserverà la prudenza usata da questo testo. Alessandro di Hales concede che Dio sia
un agente separato, ma non lo designa col nome di intelletto agente, che figura nell’obiezione, ma non nella risposta. Vedi su questa dottrina, J.A. ENDRES, Des Alexander Von
120 / Étienne Gilson
Hales Leben und psychologische Lehre, in Philosophisches Iahrbuch, 1888, pp. 24-55;
203-225; 227-296. Keicher (Op.cit., pp. 176-177) non sembra aver chiaramente percepito
che non si poteva trattare che di conoscenze profetiche, o dell’ordine della grazia, dunque
del tutto infuse, nel caso in cui Dio agisca sul nostro intelletto agente come un agente separato, ma di cui Alessandro di Hales comunque non dice che sia un intelletto. La sua idea di
intelletto agente è già, dunque, esattamente quella che di lui accetterà il suo discepolo san
Bonaventura. L’opposizione che crede di vedere Kiercher (p. 181) tra maestro e discepolo
su questo punto a noi non appare.
121
J. de la ROCHELLE, Summa de anima, lib. II, cap. 37, ed. Domenichelli, pp. 292-293.
122
Ivi, cap. 36, p. 289; cap. 38, p. 295. Si vedrà più avanti il ruolo decisivo che gioca
questa interpretazione come criterio di discernimento tra le due dottrine. Su Jean de la Rochelle, consulta G. MANSER, Johann von Rupella, ein Beitragzu seiner Charakteristik mit
besonderer Berucksichtigung seiner Erkenntnislehre, in “Jahrbuch f. Philos. und spekul.,
Theolog.” 1912, pp. 290-324.
123
San BONAVENTURA, II Sent., d. 24, p. I, art. 2, qu. 4 (ed. Quaracchi, t. II, p. 568).
Lo Scoliasta di Quaracchi e il p. O. Keicher (Op.cit., p. 180) hanno ben visto che san Bonaventura non sostiene qui la teoria di Dio intelletto agente. Il p. Ant. Luyckx (Op. cit., p. 67,
e nt 126) si sbaglia completamente quando pretende il contrario; il suo errore è dovuto, tra gli
altri, al fatto che egli è troppo tomista per poter accettare una dottrina dell’illuminazione divina che farebbe di Dio il nostro intelletto agente. È tuttavia questo che tenta qui san Bonaventura, ed è la sola interpretazione del testo che si accorda con l’insieme del suo sistema. In effetti:
1. San Bonaventura attribuisce all’anima un intelletto agente che le è proprio e personale. Certo, subisce l’influenza di Guglielmo d’Alvernia; innanzitutto perché rifiuta di distinguere realmente l’anima dalle sue facoltà; poi perché rifiuta di distinguere realmente nell’anima umana un intelletto puramente possibile da un intelletto puramente agente. Un intelletto puramente possibile, secondo lui, sarebbe materia; un intelletto puramente in atto
sarebbe l’atto puro, che è Dio. La sua dottrina è dunque un tentativo per descrivere in termini aristotelici un’anima impartibilis come quella di Guglielmo d’Alvernia (Cfr. E. GILSON, La philosophie de saint Bonaventure, in Études de philosophie médiévale, II, pp. 348349; pp. 350-353), ma attribuendole il lume naturale del suo intelletto agente.
2. Lo stesso testo che abbiamo sotto gli occhi non dice che la teoria di Dio intelletto
agente sia vera («Si ritiene che Bonaventura non dia per falsa questa opinione. Al contrario,
egli ritiene che sia vera», LUYCKX, Op. cit., p. 66). Dice questo: il fatto che vuole affermare
la teoria di Dio intelletto agente non è altro che l’illuminazione divina; ciò che esprime questa teoria è dunque vero e cattolico, ma la sua formula è in se stessa fuori proposito quando
si tratta di descrivere il funzionamento dell’intelletto preso in se stesso, perché quest’intelletto non possiede il suo proprio principio attivo, ed è questo principio solo che conviene
chiamare intelletto agente. Riassumendo: san Bonaventura non dice da nessuna parte che la
formula “Dio intelletto agente” sia vera. Ma dice che ciò che essa afferma è vera nella misura in cui essa intende significare l’illuminazione divina; e aggiunge che il suo uso è fuori
posto in una questione in cui non si tratta più dell’illuminazione divina ma delle facoltà
dell’intendimento (il Nihil est ad propositum di san Bonaventura corrisponde esattamente
al Sed hoc respicit... di Jean de la Rochelle citato sopra). L’intellectus agens non è dunque
qui che il lume naturale creato che Guglielmo d’Alvernia ci rifiutava, ma inteso senza distinzione reale con l’intellectus possibilis, per salvare l’indivisibilità dell’anima che san Bonaventura aveva a cuore di mantenere.
124
MATTH. AB AQUASPARTA, Quaest. disputatae selectae, Quaracchi, 1903, t. I, p.
262.
Note / 121
125
Cfr. H. FELDER, Histoire des études dans l’Ordre de saint François, Paris 1908,
pp. 297-298.
126
O. KEICHER, Der intellectus agens bei Roger Bacon, pp. 303-304.
127
Tractatus de Veritate, in L. BAUR, Die philosophischen Werke des Robert Grosseteste (Beitrage, IX), Münster 1912, pp. 137-138.
128
Commentum Linconiensis super mystica theologia, in Opera Dionysii... Argentina,
1502, fo 264, v-271 v.
129
Questo Commentario fu ristampato spesso nel XVI secolo. Noi lo citeremo dalla
seguente edizione, di cui anche soltanto il titolo non manca di sapore: Aristotelis Posteriorum Opus. Divi (!) Roberti Linconiensis Archiepiscopi Parisiensis (!) ordinis Praedicatorum (!), in Aristotelis, peripateticorum principis, Posteriorum Analyticorum librum, Venetiis 1521, in-f..
130
Ivi, f. 15 v-16 r.
131
Si tratta di spiegare perché i principi primi sono più certi ed evidenti di tutte le altre
conoscenze. R. GROSSETESTE, In Post. Anal., I, cap. 17, text. 92, f. 26 r.; cfr. Ivi, I, cap. 17,
t. 105, f. 28 v.
132
Ivi, I, cap. 7, fo 9 v. – Cfr., Ibid., I, cap. 18, t. 112, fo 30 r.
133
Tractatus De Veritate, cit., p. 138.
134
Ivi, I, cap. 14, t. 81, f. 20 v-21 r.; cfr. f. 28 v-29r. Sulla concezione agostiniana della
sensazione che Grossatesta mantiene, vedi De intelligentiis, ed. Lud. Baur, p. 119. Per l’origine agostiniana della concezione che Grossatesta si forma dell’astrazione (una serie di operazioni discorsive dell’intelletto in luogo dell’azione trasformazione della specie sensibile che san Tommaso gli attribuisce), vedi sant’AGOSTINO, De vera religione, XXX, nn.
56 e ss. Concezione ripresa negli stessi termini da san BONAVENTURA, Itinerarium mentis
in Deum, cap. II, n. 6, ed. minor, Quaracchi, pp. 307-308.
135
Non si saprebbe nemmeno allegare in senso contrario il testo, citato da Guglielmo di
Ware (A. DANIELS, Wilhelm von Ware über das menschliche Erkennen. Festgabe C. Baeumker, 1913, p. 316), in cui Grossatesta ci rifiuta la vista naturale di Dio: «omnia non videntur
in Deo, sed in supereffusione divinae lucis»; perché è evidentemente in questo senso che
l’intendono tutti i sostenitori cattolici del Dio intelletto agente.
136
San BONAVENTURA, In II Sent., 23, 2, 3, Concl., t. II, p. 544. Cfr. E. GILSON, La
philosophie de saint Bonaventure, pp. 384-385. È probabilmente la stessa a cui fa allusione
Ruggero Bacone in un noto testo (Opus majus, III, pp. 48-49). Cfr R. CARTON, L’espérience mystique de l’illumination intérieure chez Roger Bacon (Études de philos. médiévale,
III), p. 176, nt 2.
137
Giovanni Peckham, Arcivescovo di Canterbury morto nel 1202, autore de Questioni
disputate sull’anima (1269-70 circa) che noi citeremo da H. SPETTMAN, Johannis Pechami Quaestiones tractantes de Anima (Beitrage, XIX, 5-6), Münster i. W., p. 918. Sulla sua
dottrina, consulta H. SPETTMANN, Die Psychologie des Johannes Pecham (Beitrage, XX,
6). Si noterà che Peckham stesso si richiama espressamente a san Bonaventura e Alessandro di Hales (vedi DENIFLE-CHATELAIN, Chartularium, t. I, p. 634). Questa lettera è datata
al I giugno 1285; le sue Quaestiones de Anima sono poco posteriori alla redazione dei tre
Opus di Ruggero Bacone (dal 1266 agli inizi del 1268).
– Per l’espressione “intellectus agens creatus”, vedi Quaest. de Anima, ed. cit., p. 73, l.
30; p. 74, l. 32; p. 75, l. 18; sempre qui egli dice: «...intellectus agens, secundum quod est
pars animae...» (p. 75, l. 8-9).
138
J. PECHKAM, Qu. V., ed. cit., p. 65, l. 33 e ss. In effetti, Peckham non critica affatto
Avicenna per aver affermato l’esistenza di un intelletto agente separato, ma per non aver
122 / Étienne Gilson
compreso che l’intelletto agente unico e separato non può essere che increato, cioè Dio. Un
eccellente testo, per comprendere la sua posizione, è quello in cui Peckham rigetta come
falsa, in Avicenna, la comparazione tra l’intelletto agente separato e il sole, ma l’accetta
come vera in Agostino; essa è falsa se si tratta di un intelletto agente creato, vera se si tratta
dell’intelletto agente increato che è Dio. J. PECKHAM, cit., p. 60 e 68.
139
Quaest. disp. de Anima, Qu. V., ed. Spettmann, p. 66, l. 4-27.
140
Ivi, qu. VI, p. 75, l. 12.
141
Ivi, qu. V, p. 67, l. 11-12.
142
Ivi, qu. V, p. 67-68.
143
Ivi, qu. V., p. 71.
144
Ivi, qu. V, p. 68.
145
Vedi G. D’ALVERNIA, De universo, cit., Ia IIae, cap. V, t. I, p. 811.
146
J. PECKHAM, Op.cit., qu. VI, pp. 70-71. Per le specie che si riuniscono in un terzo
nervo, H. Spettmann rinvia a ALHACEN, Optica, I, 25; J. d. GALLES, De oculo morali, cap. V.
147
J. PECKHAM, Op.cit., qu. V, p. 68, l. 35-38.
148
Per designare questa posizione filosofica, vengono impiegate le espressioni più varie. Per esempio: platonismo agostiniano (O. KEICHER, Der intellectus..., cit., p. 305); ma
questa designazione non indica il carattere avicenniano della dottrina, che ne è tuttavia elemento essenziale. O ancora: avicennismo; cfr. R. CARTON: «l’idea baconiana di Dio intelletto agente delle nostre anime è di ispirazione tutta avicenniana» (L’esperience mystique, p. 197); ma questa designazione di Bacone, eccellente nel senso in cui l’autore ne fa
uso contro le interpretazioni averroiste, potrebbe prestarsi all’equivoco se la si generalizzasse; perché l’idea di Bacone non è del tutto avicenniana, ma anche agostiniana. D’altra
parte, conviene rinunciare al nome di agostinismo, col pretesto che essa è troppo precisa, e
di chiamare tutto questo movimento di cui fanno parte Bacone e G. d’Alvernia: antica scolastica del XIII secolo, o scolastica pretomista (DE WULF, Hist. De la philos. médiév., 5a
ed., t. I, p. 321)? Significherebbe ricadere in designazioni estremamente vaghe; perché tutti
questi filosofi sono sì degli agostiniani (DE WULF, pp. 320-321, sembra supporre assai curiosamente che non si aderisce veramente all’agostinismo se lo si accetta senza opporsi alla
dottrina di san Tommaso), ma essi lo sono con sfumature diverse secondo il posto che essi
accordano alle nuove dottrine. Tenendo conto di quest’ultimo fatto, che è incontestabile,
sembra che si possa designare senza inesattezze la posizione di Guglielmo d’Alvernia,
Ruggero Bacone, Roger Marston e forse J. Peckham, con l’espressione sgradevolmente pedante, ma chiara: agostinismo avicennizzante. È quella a cui noi ci siamo fermati, pronti ad
accettarne una migliore quando verrà proposta.
149
J. PECKHAM, Qu. VI, ed. cit., p. 73. – Ibid., p. 74.
150
Questa preoccupazione di non dividere l’anima razionale in due facoltà distinte
tradisce l’influenza di san Bonaventura (cfr. E. GILSON, La philosophie de saint Bonaventure, p. 351); ma san Bonaventura e J. Peckham non fanno che subire entrambi l’influenza
di Guglielmo d’Alvernia. È la sua concezione di un’anima umana dotata di una fecondità
una e indivisibile che essi si sforzano di tradurre in linguaggio aristotelico.
151
J. PECKHAM, Quaest. disput., in De humanae cognitionis ratione anectoda quaedam,
Quaracchi, 1883, p. 181. Per la formula che segue: ibid., ad Im, il cui intero testo nega che l’intelletto agente della nostra anima possa essere quello di cui parlano Aristotele e Avicenna.
152
Sul senso di questa dottrina, vedi: R. CARTON, L’expérience mystique dell’illumination inérieure chez Roger Bacon (“Études de philosophie médiévale”, III, pp. 323 e ss).
153
R. BACONE, Opus majus, ed. J. H. Bridges, I, 5, t. III, p. 45. Cfr. Opus tertium, cap.
23, ed. J.S. Brewer, p. 74.
Note / 123
154
R. BACONE, Opus tertium, ed. cit., cap. 23, p. 74
È importante osservare in effetti che Avicenna è, agli occhi di Ruggero Bacone,
l’interprete più autorizzato di Aristotele; è, dunque, da un’influenza inconsapevole, e non
da una scelta ponderata, che risulta l’avicennismo di Bacone. Vedi, tra gli altri testi, Opus
majus, I, 9, ed. cit., t. III, p. 21. Sull’interpretazione del testo di Aristotele che lo vedremo
discutere, Bacone ricusa alla fine l’autorità di Averroè in favore di quella di Avicenna di
cui fa l’elogio in Opus tertium, ed. cit., cap. 23, p. 78.
156
Cfr. ARISTOTELE, De anima, III, 5, 430a 10-18.
157
De coelo et mundo, III, 6. – Meteor., III, 2. – Cfr. Opus majus, II, 5, t. III, p. 47. Opus
tertium, cap. XXIII, p. 77.
158
Opus tertium, cap. XXIII, p. 78. È ciò che egli chiama: «hunc locum consolari»;
Opus majus, II, 5, t. III, p. 48. J. S. Brewer ha, senza dubbio, letto male quest’ultima parola:
“causari” Opus tertium, p. 77.
159
Opus tertium, cap. XXIII, p. 76.
160
Ibidem; Opus majus, II, 5, t. III, p. 46.
161
Opus majus, II, 5, t. III, p. 45. È Bacone che aggiunge a possibili; vedi il testo di
Aristotele citato sopra.
162
Vedi ARISTOTELE, De anima, III, 5, 430a, 22-25. San Tommaso, seguendo in questo
Averroè, vede bene che per Aristotele si tratta di una corruttibilità assoluta del ðÜèçôéêüò;
aggiunge dunque a questo intellectus patiens, materiale e corruttibile, un intellectus possibilis, interamente immateriale e incorruttibile. Ruggero Bacone, secondo il quale questa distinzione non esiste, si vede obbligato a far cadere la corruttibilità sull’intelletto possibile;
ma dato che non vuole che l’intelletto possibile sia mortale, poiché è il solo che concede all’uomo, egli immagina una distinzione tra la corruttibilità del modo d’essere e quella dell’essenza. Ciò posto, gli occorre un intelletto agente ancora più incorruttibile di un intelletto possibile il cui essenza è già incorruttibile, cioè un intelletto agente immortale quanto
alla sua essenza e separato quanto al suo modo di esistenza. Opus majus, II, 5, t. III, p. 46.
163
ARISTOTELE, De anima, III, 5, 430a 18-22. Cfr. R. BACONE, Opus majus, II, 5, t. III,
p. 46.
164
R. BACONE, Opus majus, II, 5, t. III, p. 46. Il testo preso di mira da Bacone sembra
essere Aristotele, De anima, II, 2, 413b 24-29.
165
Ibidem. Per quanto riguarda il celebre paragone dell’anima e il pilota, Bacone forza
il testo di ARISTOTELE, De anima, II, I, 413a, 8-10.
166
R. BACONE, Opus majus, p. 47.
167
Si rimarcherà, in effetti, che, dal punto di vista di Bacone, è lui che prende i termini
nello stesso senso attribuito loro da Aristotele. Vedi R. BACONE, Opus majus, II, 5, t. III, p.
47. Recependo questa terminologia di Aristotele, egli ritiene di dover utilizzare lo stesso
significato che Aristotele le attribuiva.
168
È questo che la reazione tomista fece comprendere con evidenza assoluta ai sostenitori di sant’Agostino. Così, li si vedrà impegnati a liberare l’illuminazione agostiniana dalle compromettenti formule di Aristotele per salvare l’illuminazione. Cfr. p. es., PETRUS DE
TRABIBUS, In II Sent. Disp., 24, in E. LONGPRÉ, Pietro de Trabibus, un discepolo di Giovanni Olivi, Studi Francescani, 1922, n. 3; contiene il testo di due interessanti questioni
sulla conoscenza.
169
San TOMMASO, In II Sent, dist. 17, qu. 2, art. I.
170
Il p. LUYCKX (Die Erkenntnislehre Bonaventuras, pp. 73-74) ha molto ben mostrato
che il testo di san Tommaso è contraddittorio se non si presuppone che egli abbia fatto questa distinzione.
155
124 / Étienne Gilson
171
Il p. MADONNET (Siger de Brabant, p. 243, nota 4) lo interpreta in un senso forse un
pò più forte: «... Tommaso accetta come probabile la teoria mantenuta più tardi da Ruggero
Bacone». Il p. Luyckx, indipendentemente dal fatto che la dottrina qui presa di mira sembra
essere quella di Alessandro di Hales, e non quella di Bacone, percepisce sotto questa
espressione una leggera propensione verso l’illuminazionismo: «Nel Commentario sulle
Sentenze Tommaso pende un po’ dalla parte degli Illuminazionisti» (Op.cit., p. 76). Non
oseremo né affermarlo, né negarlo. L’espressione probabilis spesso non ha che un senso
molto flebile in san Tommaso; essa designa generalmente un’opinione che, senza essere
evidentemente né vera né falsa, si può discutere con qualche possibilità di successo; l’espressione satis probabilis attesta dunque certamente che san Tommaso apprezza la forza
degli argomenti invocati in favore di questa tesi; essa non esclude l’ipotesi di una certa propensione ad accettarla; essa non implica necessariamente che san Tommaso l’accetti né
che inclini ad accettarla. Vedi san TOMMASO, In II Sent., dist, 17, qu. 2, art. I, Resp.
172
De unitate intellectus contra Averroistas, cap. III, art. 12; la posizione di Averroè è
contraddittoria; quella di Avicenna, no. Cfr. egualmente San Tommaso, Qu. disp. de Anima, art. V, Resp. E Compendium Theologiae, cap. 86. – Quanto all’origine avicenniana
della dottrina, san Tommaso l’ha nettamente sottolineata. Dopo aver presentato il sistema
di Avicenna e Al Farabi, egli conclude: «... ita haec omnia inferiora corpora ab intellectu
agente separato recipiunt formas et proprios motus, animae vero nostrae recipiunt ab eo
intelligibiles perfectiones. Sed quia fides catholica Deum et non aliquam substantiam
separatam in natura et animabus nostris operantem ponit, ideo quidam Catholici posuerunt,
quod intellectus agens sit ipse Deus, qui est lux vera quae illuminat omnem hominem
venientem in hunc mundum» (Ibidem).
173
De unitate intellectus contra Averroistas, circ. fin.
174
San TOMMASO, Qu. disp. de Anima, art. V, Concl. Resta poi, nell’ipotesi in cui si
scegliesse un altro intelletto agente separato rispetto a Dio, la necessità di far intervenire la
teologia (Ibidem). Oltre questa ragione di principio, contro Avicenna san Tommaso fa appello all’esperienza; ciascun individuo può infatti astrarre l’universale dal particolare ogni
volta che egli vuole: l’astrazione è dunque un’azione compiuta dall’individuo e bisogna, di
conseguenza, che il principio attivo grazie a cui egli la compie gli sia proprio; ciascun
individuo possiede duque il suo intelletto agente. Cfr. Qu. disp. de Anima, art. V e Qu. disp.
de Spiritualibus creaturis¸art. X.; Sum. Theol., I, 79, 4.
175
Contra Gentes, lib. II, cap. LXXXV. Il testo corrispondente della Sum. Theol., I, 90,
I, evita al contrario di compromettere i sostenitori di questa dottrina nel pantesimo manicheo. Dedicando l’opera ai principianti, san Tommaso ha senza dubbio creduto di coinvolgerli in una controversia in cui dei teologi cattolici di buona fede si trovavano in una così
sgradevole posizione.
176
De spiritualibus creaturis, art. X, ad 8m. Questo testo prova indiscutibilmente che san
Tommaso ha la chiara consapevolezza di insegnare una dottrina che si ispira a principi
filosofici altri rispetto a quelli a cui si ispira sant’Agostino. È un modello della miglior
storia della filosofia, e la cui importanza è capitale. È soltanto perché è insieme assai lungo
e facilmente accessibile che noi non lo riproduciamo qui; ma preghiamo il lettore di volerlo
consultare. La questione discussa nel corso di questo articolo è di sapere Utrum intellectus
agens sit unus omnium hominum, ed è rispetto a essa che san Tommaso esamina tutta una
serie di testi tratti da sant’Agostino.
177
San TOMMASO, Sum. Theol., I, 84, 5, Concl. Cfr. R. BACONE, Opus tertium, cap.
XXIII, ed. J.S. Brewer, p. 79.
178
Ci sarebbe d’altronde da fare per precisare in quale esatta misura questi filosofi ab-
Note / 125
biano preparato l’opera di san Tommaso. Per esempio, la doppia nozione di intelletto agente e di lume naturale creato le allinea molto a Guglielmo d’Alvernia e le riavvicina nettamente al tomismo; ma non ne risulta che la loro nozione di intelletto agente sia la stessa di
quella di san Tommaso; non ne risulta neanche che il termine abstractio, che essi usano,
corrisponda al suo uso tomista corretto. Per dirla tutta, inclineremmo a dire che essi non
hanno mai posto lo stesso problema che san Tommaso vuol risolvere. Alessandro di Hales,
Jean de la Rochelle, san Bonaventura vedono molto bene il problema dell’intelletto agente
creato, e la soluzione che essi apportano è dunque correttametente comparabile a quella di
san Tommaso; di contro, una volta supposto il nostro intelletto, essi concepiscono la sua attività in una maniera tutta agostiniana e si rappresentano l’astrazione come un giudizio; in
luogo di concepire un atto semplice dell’intelletto che libera dal sensibile la forma intelligibile, essi concepiscono una dijudicatio che, attraverso una seria di astrazioni, di cui ciascuna è un giudizio cosciente, discerne, nella sensazione, gli elementi costanti dagli elementi accidentali.
179
Si tratta di un fatto noto e più volte sottolineato; vedi in particolare Mgr M. GRABMANN,
Thomas von Aquin und Petrus von Hibernia, “Philos. Jahrbuch”, 33 Bd., 1920, pp. 360361. Riferimenti al Commentario sulle Sentenze e all’opuscolo De ente et essentia.
Non bisognerebbe, d’altronde, dimenticare che ciascuna citazione di Avicenna per san
Tommaso solleva il problema: in quale senso prende la formula che egli adotta? Il p. Roland-Gosselin ha molto ben stabilito, su un punto preciso, e contro Duhem, che si è sbagliato, che san Tommaso può riprendere a suo conto una formula di Avicenna dandogli un
senso nettamente differente. Vedi M.-D. ROLAND-GOSSELIN, O. P., De distinctione inter
essentiam et esse apud Avicennam et S. Thomam; estratto da “Xenia Thomistica”, t. III,
Roma, 1925. Ora, si tratta qui di un testo scritto dal giovane san Tommaso «nondum existens magister» (M. GRABMANN, Die echten Schriften des Thomas von Aquin, p.222), cioè,
uno dei suoi primissimi scritti.
180
Vedi C. BAEUMKER, Petrus de Hibernia, der Jugendlehrer des Thomas von Aquino
und seine Disputation vor König Manfred (“Sitzgsber. Der Bayerischen Akad. d. Wissensch., Philos. – philologische und historische Klasse”, 1920, 8 Abh.) München 1920. Cfr.
specialmente, pp. 31-39. Il compianto C. Baeumker ha rimarchevolmente distinto i due stadi, avicenniano e averroista, del movimento aristotelico agli inizi del XIII secolo; egli sottolinea brevemente, ma con tratto sicuro, che il primo aristotelismo è quello di Avicenna
(pp. 31-32), al quale succederà quello di Averroè. Di contro, egli cede alla tentazione, troppo naturale, di incrementare la sua scoperta, facendo di Pietro d’Irlanda un precursore
dell’aristotelismo averroizzante, sulla base di un testo che lui stesso data attorno al 1260 (p.
10). Ed è tuttavia ciò che egli deve fare per poter sostenere che Pietro d’Irlanda abbia contribuito, col suo insegnamento, a liberare il suo allievo Tommaso dall’influsso di Avicenna. Ora, verso il 1260, data presunta del testo, san Tommaso ha già terminato il suo Commentario sulle Sentenze, il suo De ente et essentia, e pensa alla Contra Gentes; si spiegherebbe così di più l’atteggiamento del maestro a questa data per mezzo dell’influenza del
suo antico allievo che non il contrario. Baeumker suppone dunque che Pietro d’Irlanda fosse già orientato verso Averroè all’epoca in cui il giovane Tommaso seguiva le sue lezioni
(p. 35): ipotesi totalmente gratuita, poiché non abbiamo alcun testo metafisico di Pietro d’Irlanda che risalga a questa data. Fino a quando non si sarà meglio informati, il «Dovremmo
quindi dare per buono che...» di C. Baeumker designa in effetti una mera possibilità.
181
In II Sent., dist. 17, qu. 2, art. I, Concl.
182
Non parliamo qui dell’aspetto filosofico del sistema, e nemmeno del suo aspetto teologico, di cui alcuni elementi costituitivi si sono definiti forse meno rapidamente. Aggiun-
126 / Étienne Gilson
giamo che non ignoriamo le interpretazioni agostiniane e innatiste che sono stati proposte
per certi testi del De Veritate; in realtà, non c’è nulla, in questi testi, che non si accordi
pienamente con ciò che san Tommaso sosterrà sempre. Molti degli interpreti sono vittime
dell’arte con cui egli usa il linguaggio degli avversarsi conferendogli un suo proprio senso.
183
Sum. Theol., I, 115, I, Concl.
184
Cfr. De humanae cognitionis ratione anecdota quaedam, p. 246. A. DANIELS, Wilhelm von Ware über das menschliche Erkennen, cit., p. 318.
185
De spiritualibus creaturis, art. X., ad 8m. Riassumiamo e commentiamo questo testo,
facilmente accessibile; ma niente può dispensare di leggerlo se ci si vuole fare qualche idea
sulla posizione di san Tommaso nei confronti di sant’Agostino.
186
E. GILSON, La signification historique du thomisme, in Études de philosophie médiévale, Strasburgo, 1921, pp. 122-124. Le thomisme, 3a ed., Vrin, Paris 1927, capp. I e II. –
Lo studio dello sforzo impiegato da san Tommaso per salvare l’efficacia delle cause seconde, nell’ordine delle operazioni intellettuali, dovrebbe essere completato dallo studio del
fondamento di questa efficacia nell’idea di Dio così come concepita da san Tommaso. Sarebbe interessante per la storia della genesi del tomismo, sapere se l’influenza di Dionigi
sul pensiero di san Tommaso fu precoce e profonda. Nel caso in cui non sia stato così, la
probabilità di un’influenza combinata di Aristotele e Dionigi sarebbe estrema. Per quanto
possa sembrare sosrprendente, san Tommaso ha visto più tardi nel Dio di Dionigi, che è essenzialmente Bene e Generosità, questa prima causa che: ex eminentia voluntatis suae rebus aliis confert, non solum quod sint, set etiam quod causae sint. Un mondo di cause seconde efficaci come quello di Aristotele, è il solo degno di un Dio la cui causalità è essenzialmente bontà. Su questo punto vedi E. GILSON, Le thomisme (Études de philosophie médiévale, I, cit., pp. 177-180).
Indice
Divano orientale, Cristiano Casalini . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 5
Tommaso contro Agostino
I. La critica tomista dei Motecallemin . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 23
II. La critica tomista di Ibn Gabirol . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 36
III. L’avicennismo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 44
1. La critica di san Tommaso ad Avicenna, 44; 2. La critica di san Tommaso
a Guglielmo d’Alvernia, 50; 3. L’agostinismo avicennizzante, 75
IV. La critica tomista dell’agostinismo avicennizzante . . . . . . 95
Note . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 109
Finito di stampare nel marzo 2010
Ingraf srl - Milano